Ucraina: Un’ulteriore guida per i perplessi, di AURELIEN

Ucraina: Un’ulteriore guida per i perplessi.

Non lo sapevano. Ma ora lo sanno.

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La scorsa settimana abbiamo analizzato cosa potrebbe accadere in Ucraina. Un armistizio, ovvero un accordo su come e quando terminare i combattimenti, dovrà essere negoziato a breve, anche se non sarà semplice da realizzare e potrebbe facilmente fallire. Tuttavia, supponendo che entro la metà del 2025 (o qualsiasi altra data vogliate proporre se ritenete che sia troppo presto) ci sia un armistizio e che i combattimenti siano finiti, cosa succederà? Questo è l’argomento del saggio di oggi.

Le questioni principali sono due. La prima riguarda le circostanze dell’armistizio stesso e il rapporto tra la situazione militare e le decisioni politiche che dovranno essere prese. Comincia a delinearsi la situazione che avevo previsto da tempo: gli ucraini si stanno ritirando da un certo numero di posizioni chiaramente indifendibili e alcune unità sembrano aver ceduto e si sono ritirate senza ordini. Con la crescente carenza di manodopera, equipaggiamento e munizioni, e dato che non si può combattere solo con i soldi, è probabile che entrambi questi processi continuino. Tuttavia, non c’è nulla di deterministico o matematico nella decisione di arrendersi, ed è per questo che è effettivamente impossibile prevedere anche solo una data approssimativa. La storia, che per quanto imperfetta è l’unica guida che abbiamo, suggerisce che ciò che determinerà la data sarà la perdita di speranza e di unità tra l’élite al potere, e questo potrebbe avvenire tra un mese o tra un anno.

Supponiamo quindi, per amor di discussione, che a un certo punto i russi abbiano il pieno controllo della regione del Donbas e che l’UAF si sia ritirata da Kharkov e Odessa. I russi hanno interrotto le operazioni offensive di terra, ad eccezione di un’occupazione simbolica di Odessa per prendere il controllo del porto, ma continuano ad attaccare le aree posteriori dell’Ucraina e le infrastrutture del Paese. Ok, e allora? E chi decide? La settimana scorsa ho sottolineato che la resa è qualcosa che deve essere ordinata dalla leadership politica: non può accadere e basta. Teoricamente, anche in questo caso, il governo di Kiev (e chissà chi sarà al comando a quel punto) potrebbe rifiutarsi di arrendersi. L’UAF avrebbe poche capacità di combattimento, ma d’altra parte i russi potrebbero decidere che sarebbe inutile cercare di occupare l’intero paese e prendere Kiev, e non è detto che abbiano comunque le forze necessarie. A quel punto, si avrebbe una situazione di “nessuna guerra nessuna pace”, in cui i russi probabilmente rinforzano Odessa, ma per il resto si limitano a bombardare obiettivi nelle retrovie.

In una situazione del genere, sarebbe possibile per il governo di Kiev (ammesso che esista un governo effettivo) continuare a fare rumori bellicosi e a gesticolare selvaggiamente, promettendo un’offensiva nel 2026. Da parte loro, gli Stati Uniti (o almeno Biden) cercheranno disperatamente di ritardare una resa formale fino a dopo le elezioni di novembre, per cui si può ipotizzare che almeno fino a quel momento faranno pressione su Kiev affinché rimanga sfiduciata. Ciò che è meno chiaro è cosa possano offrire o minacciare: non ci sono più attrezzature da inviare che possano influenzare l’esito dei combattimenti, e tutto ciò che il denaro può fare è mantenere lo Stato e le sue strutture ancora per un po’. Da parte loro, i russi cercheranno di esercitare una pressione psicologica su Kiev: forse con boati sonici a basso livello sulla capitale o con attacchi dimostrativi a oggetti di prestigio nazionale. Tutto diventerebbe quindi molto complicato e spiacevole, ma questo non vuol dire che, se si riuscisse a gestire una sorta di resa , tutti i problemi scomparirebbero. In molti casi saranno solo all’inizio.

Ciò è dovuto principalmente all’Occidente, e questo è il secondo punto. La coalizione disordinata che ha sostenuto l’Ucraina (NATO, UE, ma anche Giappone e Australia) ha poca coerenza interna e interessi e obiettivi nazionali molto diversi. Questo è stato oscurato dal fatto che l’obiettivo formale dal 2022 – “sostenete l’Ucraina!” – era facile da concettualizzare, almeno come slogan, anche se l’attuazione effettiva è stata molto più complicata. I leader di questi Paesi, così come i loro consiglieri e la loro classe parassitaria, hanno quindi vissuto in una sorta di sogno febbrile dal febbraio 2022. Qualcosa che non si aspettavano, qualcosa di cui non hanno esperienza, qualcosa che fondamentalmente non capiscono, si è rivoltato e li ha morsi. Si muovono meccanicamente, vivono in un universo parallelo che mantiene il più possibile le caratteristiche della loro visione del mondo, confortandosi freneticamente l’un l’altro con il pensiero che presto sarà tutto finito.

Dopo lo shock iniziale, la politica collettiva di “sostegno all’Ucraina” era fattibile perché sembrava che la crisi sarebbe stata breve e si sarebbe risolta a vantaggio dell’Occidente globale. Il peggio che potesse accadere sarebbe stato un paio di mesi di dislocazione, mentre l’esercito russo crollava, l’economia crollava e c’era un cambio di governo a Mosca. In Occidente potrebbero verificarsi alcune perturbazioni economiche, ma non molto, e i vantaggi a lungo termine di sbarazzarsi dell’attuale sistema politico ed economico russo sarebbero enormi per l’Occidente. Questo non è accaduto, naturalmente, ma nell’allucinazione consensuale che funge da club-house per i decisori occidentali, non ha avuto molta importanza, perché, beh, dategli tempo. L’economia russa sarebbe crollata, l’esercito russo era a corto di armi e i coraggiosi ucraini li avrebbero presto sfrattati dal Paese. Quando questo non ha funzionato, beh, bisognava dare un po’ più di tempo. La controffensiva, con equipaggiamento occidentale e truppe addestrate dall’Occidente, avrebbe posto fine alla guerra. Quando non ha funzionato, beh, diamo ancora più tempo e ci inventeremo un altro piano intelligente. Dopo tutto, i russi non stavano guadagnando territorio, vero? Ma ora lo stanno facendo, quindi questa scusa non è più valida.

Tutto ciò rivelerà presto, in modo molto netto, le divisioni che sono sempre esistite in Occidente sull’Ucraina, ma che sono state nascoste sotto la sete di sangue collettiva degli ultimi due anni. E queste divisioni cominceranno a venire a galla ora, quando i russi cominceranno a guadagnare territori e gli ucraini a ritirarsi. Ciò che complica le cose è che queste divisioni non sono solo tra Stati, ma anche al loro interno.

Per la maggior parte dei politici occidentali, la Russia non era una priorità prima del 2022. La Covid non era ancora finita, la maggior parte delle economie occidentali era in cattive acque, la maggior parte dei governi occidentali era spaventata da qualcosa chiamato “populismo” che stava prendendo piede. Sì, c’era una guerra civile in Ucraina, ma se ne parlava molto poco, sì, c’erano sanzioni contro la Russia, ma c’erano anche sanzioni contro ogni sorta di altri Paesi. I Paesi geograficamente vicini alla Russia erano, naturalmente, più interessati agli eventi del Paese, e i principali attori della NATO e dell’UE dedicavano un po’ di tempo al Paese, ma niente di più. Semmai si pensava di più alla Cina.

Non c’è mai stata un’unica “politica” sulla Russia all’interno della NATO o dell’UE, e ci sono stati approcci diversi anche all’interno dello stesso governo. (In effetti, chi ha esperienza del funzionamento interno delle organizzazioni internazionali sarà probabilmente un po’ divertito nel vedere, ad esempio, le parole “NATO” e “politica” comparire nella stessa frase). Per quanto possa essere interessante immaginare comitati segreti che lavorano in tane sotterranee a Bruxelles elaborando piani astuti per molti anni, la NATO è istituzionalmente incapace di fare una cosa del genere. Il che, in un certo senso, è un peccato, perché una politica adeguatamente organizzata potrebbe teoricamente essere messa in atto ora, mentre i membri del comitato segreto si riuniscono d’urgenza, roteando i baffi e dicendo “Maledizione! Sventato di nuovo!”. Ma il problema principale è che, al di là del livello retorico, né la NATO né l’UE hanno una politica coerente e ponderata da cui tirarsi indietro . Tutto è stato inventato nel panico e nella fretta, con compromessi e dita incrociate, e muta continuamente a seconda della situazione. Pertanto, probabilmente nessun Paese ha la stessa idea di ciò che sta facendo e perché, e nemmeno di come ci è arrivato, anche supponendo che i governi stessi siano uniti sulla questione. Dopotutto, molti Paesi hanno seguito le dichiarazioni e i comunicati politici aggressivi nei confronti della Russia perché non si preoccupavano più di tanto e non aveva senso sprecare capitale politico per opporsi. Allo stesso modo, sostenere l’Ucraina contro quelle che sembravano essere mosse aggressive da parte della Russia non sembrava un grosso problema nel 2010, e molti governi avevano altre priorità.

Questo ha portato a una curiosa situazione in cui i leader nazionali, i loro consiglieri e tutti gli opinionisti “seri” sono stati retoricamente dalla stessa parte dell’argomento dal 2021, anche se nella maggior parte dei casi non hanno riflettuto molto sui dettagli o sulle implicazioni. Ma questo è piuttosto insolito nella politica internazionale. Se pensiamo ai moderni disastri di politica estera – Suez, Vietnam, Iraq – è sorprendente che all’epoca ci sia stata una notevole opposizione politica aperta e che in seguito ci siano state persone che hanno potuto affermare, con ragione, di aver avvertito che le cose sarebbero andate male. In questo caso, solo alcune figure marginali in pochi Paesi hanno espresso molti dubbi all’inizio, e il consenso sul fatto che “sostenere l’Ucraina!” è una buona cosa è ancora in gran parte intatto. Di conseguenza, l’unica strategia pubblica che l’Occidente globale potrà utilizzare sarà quella che ho descritto in diverse occasioni, in cui “Putin voleva conquistare l’Europa” ma è stato frustrato dai coraggiosi ucraini e dalla fermezza dell’Occidente.

Ma se nel breve periodo questo può essere una difesa d’ufficio (e sarà rivendicato con entusiasmo dagli opinionisti che hanno sbagliato in modo altrettanto catastrofico), non risponde a quello che sarà il problema più urgente che verrà posto nei vari palazzi di Bruxelles: Che cosa faremo adesso? Né risponde ad altre domande politiche tradizionali, in particolare: chi ci ha messo in questa situazione? e a chi possiamo dare la colpa per il risultato? Mentre è già chiaro che la sconfitta militare sarà interamente colpa dell’Ucraina e che l’Occidente ha fatto tutto il possibile, questo non fermerà le recriminazioni dietro le quinte all’interno dei governi e tra di essi, e i tentativi molto pubblici da parte di diverse nazioni di proporsi come il salvatore trascurato: se solo i loro consigli fossero stati ascoltati, o il loro esempio seguito!

Questo è ciò che si nasconde, ad esempio, dietro i commenti selvaggi sul possibile invio di truppe occidentali in Ucraina. Avrete notato che, un mese o più dopo che Macron ha suggerito per la prima volta che le truppe europee potrebbero essere inviate in Ucraina, non è successo assolutamente nulla, nonostante le voci e le affermazioni senza fiato che le truppe sarebbero state dispiegate “presto”. In realtà, questo fa parte di una serie di iniziative volte a trarre il massimo profitto possibile dalle conseguenze della catastrofe e a rafforzare la posizione francese nelle lotte politiche a venire. (Più recentemente, è stata riproposta l’idea di una forza di spedizione europea per l’evacuazione dei cittadini, discussa per la prima volta trentacinque anni fa). È la stessa logica, credo, che sta alla base della recente decisione del Congresso degli Stati Uniti di sbloccare gli “aiuti” all’Ucraina. Sospetto che i responsabili siano stati informati senza mezzi termini dalle agenzie di intelligence statunitensi che la partita era finita, e che la loro preoccupazione ora sia quella di non lasciarsi vulnerare dall’accusa che, bloccando gli aiuti, siano stati responsabili della sconfitta. Può sembrare un’accusa ridicola, ma ora ci troviamo in una situazione in cui le persone fanno a gara a fare e dire cose che si presentano come più fedeli di chiunque altro nel loro sostegno all’Ucraina, in modo da non essere ritenuti responsabili quando le cose crollano.

Questo punto è direttamente collegato al fatto che la maggior parte dei governi e degli opinionisti si è trovata coinvolta in qualcosa a cui non era preparata, che non capiva veramente, ma che ha seguito comunque. Per avere un’idea di cosa significhi in pratica, un buon paragone è una di quelle start-up le cui azioni toccano brevemente la stratosfera prima di precipitare sulla terra. Pensiamo, per esempio, a un robot da passeggio per cani dotato di intelligenza artificiale e collegato a Internet. Ci sarà un piccolo numero di veri credenti che pensano che questo sia il prossimo iPhone. Ci saranno giornalisti tecnici di supporto con più entusiasmo che reale conoscenza. Ci saranno persone che cercheranno di trarre un rapido profitto. Ci saranno quelli che si faranno trascinare dall’entusiasmo generale. Ci sarà chi cercherà di sfruttare lo stesso entusiasmo per i propri scopi. Ci sarà chi avrà paura di perdere l’opportunità di arricchirsi, e così via.

“Sostenere l’Ucraina” è un po’ come questo. Ci sono alcuni veri credenti, soprattutto negli Stati Uniti, che hanno passato la vita a cercare di abbattere prima l’Unione Sovietica e poi la Russia. Talvolta hanno occupato posizioni di potere o di influenza e hanno cercato di attuare tale programma dove hanno potuto, anche se, come sa chiunque abbia familiarità con il sistema violentemente disfunzionale degli Stati Uniti, è difficile per chiunque, o per qualsiasi gruppo, avere un’influenza più che parziale e temporanea sulla politica. Ma nel febbraio 2022 devono aver pensato che fosse giunta la loro ora. C’era un gruppo molto più ampio, che comprendeva i nostalgici della Guerra Fredda, coloro che rimpiangevano di essere troppo giovani per la Guerra Fredda, e coloro che erano stati educati a vedere il mondo in termini di competizione tra Grandi Potenze, e che consideravano la Russia come un rivale e il conflitto non necessariamente come una cosa negativa. C’erano Paesi con rapporti storici difficili con la Russia. In Europa, come ho raccontato a lungo, c’era un antirussismo messianico tra le élite, composto in parte da tropi storici razzisti e in parte dalla paura e dall’avversione per la Russia come “anti-Europa”, un Paese canaglia che si opponeva all’inevitabile trionfo dei valori sociali ed economici liberali interpretati da Bruxelles. C’erano poi i semplici opportunisti che speravano di trarre un valore politico, personale o finanziario dalla crisi e i sostenitori dell’aumento della spesa per la difesa e del riarmo per principio. C’era chi temeva per il proprio lavoro o per il proprio futuro se non si fosse unito alla corsa, e chi sperava di guadagnare punti politici correndo più velocemente degli avversari. Così i difensori della “democrazia” contro l'”autoritarismo” e i nostalgici che avrebbero voluto che la Seconda Guerra Mondiale fosse andata diversamente si sono trovati a camminare nello stesso corteo. E infine, naturalmente, la maggior parte dei leader, degli opinionisti e dei parassiti non aveva la minima idea di cosa stesse accadendo, ma era al seguito del corteo.

Perché ovviamente sarebbe stato facile e privo di rischi. L’esercito russo e l’economia russa crollerebbero rapidamente, e il Paese stesso si trasformerebbe rapidamente in un Canada un po’ più grande. Ci sarebbe stato lavoro per le ONG per generazioni, libri da scrivere, film per la TV da realizzare, istituzioni da riformare, partiti politici da creare e sponsorizzare e contratti per attrezzature di difesa occidentali. Gli attivisti per i diritti umani stavano già guardando gli orari delle compagnie aeree per assistere agli inevitabili processi e condanne di Putin e dei suoi colleghi, fantasticando di essere i primi a lanciare una pietra affilata alle inevitabili esecuzioni. Da banchieri e speculatori immobiliari a formatori di sensibilità di genere e attivisti per i diritti dei transessuali, ce n’era per tutti i gusti. Finché non c’è stato.

All’inizio sembrava che i profitti sarebbero stati un po’ più lunghi di quanto promesso. Poi non ci sarebbero stati profitti. Poi tutti avrebbero perso tutti i loro soldi, tranne pochi furbi. Ora, la fallacia dei costi sommersi è ben nota agli psicologi e anche a coloro che studiano l’eccentrico funzionamento dei mercati finanziari. Più investiamo in un’idea, sia dal punto di vista finanziario che psicologico, più ci aggrappiamo ad essa, anche di fronte all’evidenza che non funziona. E quando anche tutti gli altri vi aderiscono, diventa impossibile ritirarsi. Per cambiare la metafora, immaginate il movimento “sosteniamo l’Ucraina!” come una setta apocalittica degli Ultimi Giorni, che si riunisce nel deserto da qualche parte per essere portata via dalla Terra da dischi volanti. C’è stato un ritardo, ma i cultisti si dicono l’un l’altro: non preoccupatevi, andrà tutto bene. Ma non andrà tutto bene.

Ma nessuno vuole essere il primo a chiedere indietro i propri soldi, e comunque non ci sono soldi. I soldi, le armi e le munizioni sono già stati inviati. L’avvicinamento ai neonazisti è già avvenuto, ed è ripreso in video. I pianificatori e gli esperti militari occidentali hanno contribuito a uccidere un gran numero di russi. Le economie occidentali hanno subito ingenti danni economici. La maggior parte del Sud globale è stata alienata. L’Occidente è stato in gran parte disarmato e la sua industria della difesa ha dimostrato di essere inferiore a quella russa nei settori più importanti. I russi sono ora la potenza militare indiscussa in Europa e sono piuttosto arrabbiati. Quindi, che fare adesso?

A breve termine, l’Occidente farà quello che fa sempre, cioè rifugiarsi nelle parole e continuare a parlare in modo aggressivo a un nemico più forte e a fare minacce che sa di non poter attuare. A parte tutto, questo perché sarà impossibile trovare un accordo su cosa dire. Ci sono così tanti interessi diversi, così tanti Paesi diversi, così tante mentalità diverse coinvolte che, come spesso accade, la macchina continuerà a guidare nella stessa direzione (in questo caso verso il precipizio) perché non c’è accordo su quale direzione dare al volante. Almeno nel breve periodo, possiamo aspettarci più che altro ringhi di sfida. Ma a un certo punto ci saranno persone sedute, come è successo a me, in stanze soffocanti e senza aria, in riunioni che durano tutto il giorno, cercando disperatamente di trovare un linguaggio di compromesso per un comunicato che nessuno prenderà sul serio, ma che dovrà comunque essere emesso. E poi di tanto in tanto c’è un silenzio, rotto da qualcuno che chiede: “Sì, ma che cosa faremo in realtà ? Ed ecco il problema.

Partiamo quindi dall’ipotesi che si sia realizzato qualcosa di simile allo scenario delineato nel mio ultimo saggio e sviluppato sopra: i combattimenti sono cessati, è stato firmato un armistizio e gli ucraini stanno attuando le condizioni imposte loro. Cosa dovrà fare l’Occidente, e quando?

Il primo requisito è l’accettazione, e per certi versi è il più difficile di tutti. È difficile pensare a uno shock paragonabile per il sistema politico occidentale in tempi moderni. Ho citato Suez e il Vietnam, e per certi versi si tratta di analogie, soprattutto per gli Stati Uniti. L’Ucraina è, in effetti, il momento di Suez dell’America, in cui dovrà adattare radicalmente la propria concezione di potenza mondiale. Ma questo richiederà tempo e darà luogo a tutta una serie di complicazioni per le quali non abbiamo spazio in questa sede. A breve termine, alla maggior parte delle élite occidentali sembrerà che il mondo si sia capovolto, e non avranno tutti i torti. Sospetto che nulla, dopo lo shock della Rivoluzione russa, si avvicini a ciò che le élite occidentali stanno per sperimentare. La sensazione che si ebbe nel 1917, quando la storia prese una direzione del tutto inaspettata e incredibile, non ha probabilmente eguali da allora, se non in qualche misura la fine di quella stessa storia nel 1989-91. Ma lì, le conseguenze dirette per la società civile sono state molto gravi. Ma in quel caso, le conseguenze dirette per l’Occidente della fine dell’Unione Sovietica e del Patto di Varsavia furono limitate, e in ogni caso per lo più positive. Nel 1917, sembrava che una sorprendente manovra subdola tedesca fosse riuscita a estromettere la Russia dalla guerra, scatenando forze rivoluzionarie incomprensibili in Europa e minacciando direttamente la sicurezza delle potenze alleate e le loro possibilità di vittoria.

Sospetto che lo shock sarà grande come allora, e la domanda fondamentale posta dalle popolazioni, dai politici dell’opposizione e dagli opinionisti che cambiano abilmente schieramento, sarà: “Come è potuta accadere una cosa del genere? Si può immaginare un politico opportunista che dica qualcosa del tipo: “All’epoca ho sostenuto il governo contro l’aggressione russa, e avevo ragione a farlo. Ma ci era stata promessa una rapida vittoria ucraina e una sconfitta russa. E dov’è? Ci era stato promesso che l’addestramento e l’equipaggiamento occidentale avrebbero ribaltato la situazione. Perché non lo hanno fatto? Chi è responsabile e sarà chiamato a risponderne?”. La storia non è sempre molto clemente e sospetto che a tempo debito i critici prenderanno di mira non l’opposizione di fondo alla Russia o il sostegno all’Ucraina, che saranno troppo sensibili per essere toccati per alcuni anni, ma il travisamento e l’esagerazione dei fatti da parte dei governi. E l’unica difesa dei governi, oltre a “tutti hanno sbagliato”, sarà “non lo sapevamo”. Non che questo serva a molto. Mi viene in mente la vecchia barzelletta scozzese sui peccatori bigotti che si ritrovano all’inferno (con le scuse agli oratori scozzesi). Hanno detto:

” Oh, Signore, non sapevamo, non sapevamo”.

E il Signore della Guida, con la sua infinita misericordia e compassione, disse: “Non è vero che il Signore della Guida non ha mai avuto bisogno di un’altra persona”.

“Weill, you ken nou”.

In politica è sempre troppo tardi.

I primi risultati saranno panico e confusione, perché le vecchie norme non saranno più applicabili. Per più di trent’anni le élite occidentali hanno creduto nella loro egemonia e nel loro diritto unilaterale di prendere decisioni importanti. Anche se, in realtà, le cose sono state molto più complicate, i presupposti ereditati dalla generazione di Macron e Sunak sono che, qualunque sia il problema nel mondo, l’Occidente se ne farà carico e ne detterà l’esito. Ancora oggi, non mi sorprenderebbe sapere che a Washington ci sono gruppi di lavoro che lavorano alla bozza di un trattato di pace tra Ucraina e Russia, da negoziare sotto l’egida degli Stati Uniti, con Washington che ha l’ultima parola. Ma non si tratta solo di aspettative esagerate, è anche ciò a cui ci si è abituati e ciò che il sistema stesso si aspetta. Chi sarà il primo diplomatico statunitense a dire “ma forse non saremo invitati?”. La realtà è che, come un armistizio sarà negoziato direttamente tra russi e ucraini, così non c’è ragione per cui un trattato di pace non debba essere interamente bilaterale, se questo è ciò che i russi vogliono. Mi dispiace, non siete invitati.

Il broncio è una cosa che le nazioni fanno spesso, perché è facile: ma non è una politica. Possiamo quindi ipotizzare che inizialmente ci sarà una serie di smentite o di semplici rifiuti di dire qualcosa. I successi militari russi saranno minimizzati e sminuiti e gli opinionisti scriveranno che “non è ancora finita”. La reazione a un successo russo molto significativo (la presa di Kharkov/Kharkiv, ad esempio) sarà di confusione e almeno parziale silenzio, a causa dell’impossibilità di trovare rapidamente una linea comune. La reazione a un accordo di armistizio sarà probabilmente ancora più confusa e consisterà soprattutto in spacconate e minacce vuote.

Nella misura in cui emergerà una linea comune, si tratterà effettivamente di un broncio: un rifiuto di accettare la situazione. Il processo di stesura del primo comunicato della NATO dopo l’accordo di armistizio sarà molto travagliato, ma è probabile che il testo consista per lo più di dichiarazioni di sfida e di vaghe minacce. Cose come “non accetteremo mai”, “continueremo a sostenere l’Ucraina con tutti i mezzi possibili” e così via. Ma a pranzo, o negli scambi informali tra i principali attori, qualcuno alla fine dirà: “Sì, ma cosa faremo in concreto ?” .Ci sono esempi in cui il broncio è durato a lungo. La Repubblica Democratica Tedesca (Germania Est) non è mai stata riconosciuta come Stato indipendente dalla maggior parte dei Paesi. Taipei, anziché Pechino, è stata riconosciuta come capitale della Cina per vent’anni dopo la guerra civile, e la rivoluzione iraniana è stata accettata solo lentamente e gradualmente dalla maggior parte del resto del mondo. Le relazioni con la Cina hanno impiegato un po’ di tempo per riprendersi dopo l’incidente di Piazza Tienanmen nel 1989. La difficoltà in questo caso, però, è che saranno gli stessi ucraini a stipulare un accordo (anche se non avranno avuto molta scelta) e l’Occidente potrebbe ritrovarsi nella ridicola posizione di cercare di dettare pubblicamente la politica all’Ucraina contro la sua volontà.

Nel frattempo, cosa facciamo? È probabile che un accordo di armistizio preveda la partenza di tutto il personale militare straniero dall’Ucraina. In teoria, gli Stati occidentali potrebbero ignorare questo requisito, dal momento che non sarebbero firmatari, ma in tal caso i russi metterebbero semplicemente in pausa l’accordo e continuerebbero la guerra. Anche le truppe occidentali sarebbero considerate un obiettivo legittimo in questo caso, e uno dei punti che ho sempre cercato di sottolineare è che le capacità militari della NATO sono ora così limitate che qualsiasi tentativo di intervenire direttamente in un conflitto del genere (attaccando la Crimea, ad esempio) sarebbe quasi letteralmente un suicidio.

La reazione più probabile è una serie di gesti politici. Ci saranno vertici della NATO e dell’UE, nuovi cicli di sanzioni, dichiarazioni di eterna inimicizia nei confronti della Russia, la cancellazione di qualsiasi accordo bilaterale ancora esistente e ulteriori (e probabilmente inutili) tentativi di isolare la Russia a livello diplomatico ed economico. Ci saranno alcune esercitazioni dimostrative della NATO vicino, ma non troppo, ai confini della Russia. Soprattutto, si parlerà, si parlerà molto, perché in una luce poco chiara ciò può essere confuso con l’attività. La NATO e l’UE lanceranno iniziative di alto profilo per ricostruire l’industria della difesa statunitense ed europea e le loro forze armate. I politici parleranno di arruolamento, ma non a voce troppo alta, e di piani speculativi per acquistare un giorno tutti i tipi di armi miracolose. Verranno annunciati studi su settori come la difesa missilistica. Si cercheranno nuovi alleati ovunque si possano trovare.

La maggior parte di questi discorsi sarà finalizzata a rassicurare l’opinione pubblica occidentale, confusa e molto probabilmente arrabbiata e spaventata per quanto è accaduto. In parte si tratterà anche di fischiettare per tenere alto il morale dei leader occidentali. Come ho sottolineato più volte, né la coscrizione né il riarmo sono opzioni serie, se non come parte di un improbabile programma internazionale ventennale, massiccio e multidimensionale, che implica una notevole coercizione politica. E alcune cose non possono essere costrette. Il problema delle industrie della difesa occidentali, ad esempio, non è solo che inseguono profitti a breve termine: è più complicato di così. Il problema è che, come il resto dell’economia, sono state MBA-izzate, in modo da essere gestite da finanzieri, e quindi le persone con un background tecnico se ne sono andate e non sono state rimpiazzate. Pertanto, anche una nazionalizzazione drastica non risolverebbe il problema, perché non esiste più la capacità di base di produrre attrezzature di difesa affidabili e puntuali. Le aziende dovrebbero essere ricostruite da zero, il che richiede laureati in ingegneria e tecnici, il che richiede persone che li formino, il che richiede … beh, avete capito.

Questo non significa che tali idee non saranno gettate in giro per effetto politico nella confusione della sconfitta, ma significa che diventerà rapidamente chiaro che non hanno alcun contenuto. Dopo tutto, anche se si potesse fare, come si potrebbe spiegare a cosa servirebbe il riarmo Questa non è la Guerra Fredda, dove gli eserciti si fronteggiavano. I russi non hanno alcun interesse a espandersi territorialmente e Berlino, ad esempio, dista da uno a duemila chilometri dal più vicino probabile concentramento di truppe russe. La Polonia è certamente più vicina, ma anche se, con ogni probabilità, massicce forze russe fossero dislocate nell’Ucraina occidentale, ciò significherebbe che tutte le forze che la NATO potrebbe mettere insieme verrebbero inviate in Polonia? Un Paese che può forse generare tre brigate meccanizzate leggere sarebbe felice di averne due permanentemente in Polonia: il suo esercito di fatto fuori dal Paese per sempre? Come potrebbe una leadership politica nazionale presentare questo ai suoi cittadini? Quindi è probabile che ci siano molti suoni e furori, che non significano quasi nulla.

Dopodiché, molto dipende da cosa vogliono i russi e come. Dal loro comportamento nel 2021-22 è già chiaro che Mosca vuole un accordo bilaterale con l’Ucraina e poi un accordo multilaterale separato con l’Occidente. Tecnicamente, potrebbe esserci prima un trattato di pace separato e poi un accordo più ampio sul futuro dell’Ucraina, ma, visti i precedenti, è probabile che i russi vogliano un unico negoziato. Questo sarà direttamente con l’Ucraina: probabilmente, con grande shock e sgomento dell’Occidente, i russi non parteciperanno. Sebbene l’Occidente possa tentare di esercitare pressioni sull’Ucraina indirettamente, è probabile che esso stesso sia così diviso che tali pressioni potrebbero non essere di grande entità. In ogni caso, l’influenza occidentale sull’Ucraina si sta riducendo da tempo e si ridurrà ulteriormente: come negli ultimi anni del Vietnam del Sud, la coda sta iniziando a scodinzolare. Qualsiasi prevedibile governo post-armistizio in Ucraina sarà probabilmente liquidato come “filorusso”, per quanto possa contare, ma in realtà è più probabile che sia semplicemente realistico e che capisca che l’Occidente non può più aiutarlo concretamente. Da parte sua, l’Occidente sarà vincolato da tutte le sue promesse, i suoi accordi, le sue dichiarazioni congiunte e i suoi comunicati, e soprattutto dal suo impegno a far sì che siano gli ucraini a decidere del futuro del loro Paese. Non può semplicemente dire “oh, era un altro gruppo di ucraini”, quindi in pratica l’Occidente dovrà sorridere e sopportare. Ironia della sorte, una cosa che i russi probabilmente accetterebbero – l’adesione all’UE – è probabilmente l’unica cosa che gli europei considererebbero con orrore se accadesse davvero.

Un accordo multilaterale con l’Occidente è sempre stato problematico: ora rischia di diventare un incubo. Un conto è stato liquidare con disprezzo la bozza di testo del trattato russo del dicembre 2021 (un classico errore che gli storici discuteranno per generazioni), ma quel disprezzo era almeno spiegabile nel senso che l’Occidente si sentiva comodamente superiore alla Russia e non vedeva la necessità di assecondare i capricci di una potenza militare ed economica in declino che si rifiutava di scomparire in silenzio. Sì, non lo sapevano. Ma ora lo sanno.

È difficile dire come l’Occidente reagirebbe all’inevitabile proposta russa di un progetto di trattato, perché non ci siamo mai trovati in questa situazione. Nel 2021, l’Occidente non pensava che ci fosse nulla da discutere e sospetto che, almeno formalmente, questa sia ancora la posizione. Il primo ostacolo sarà l’accettazione da parte dell’Occidente collettivo di dover partecipare a negoziati che comporteranno la rinuncia a qualcosa, ricevendo in cambio poco o nulla. Potrei scrivere un intero saggio su questo argomento (forse lo farò più tardi), ma in parole povere c’è un’importante distinzione tra un gruppo di nazioni che affronta un tipo di crisi che conosce, per quanto grave, e le stesse nazioni che affrontano un tipo di crisi di cui non hanno esperienza. L’attuale guerra contro la Russia rientra almeno nella comprensione storica dei Paesi della NATO e dell’UE. Ma negoziare, ad esempio, il ritiro delle forze straniere di stanza in Europa alla posizione del 1997 (se i russi ora non chiedono altro) rappresenta un tipo di negoziazione che l’Occidente non ha mai dovuto contemplare prima. Non mi sembra chiaro se la NATO e l’UE sopravviveranno a questa esperienza, data l’infinita varietà e combinazione di problemi, rivalità, gelosie, obiettivi incompatibili e tensioni interne che un simile negoziato comporterebbe.

I russi non devono fare nulla. Sono abbastanza sicuro che preferirebbero un accordo, ma avranno il possesso della palla e dal loro punto di vista la situazione può solo migliorare. Con il passare dei mesi, la realtà comincerà a farsi strada: in particolare, il fatto che la Russia ha ora forze militari più grandi e più potenti di quelle del 2021, e che l’Occidente è in gran parte disarmato. Non credo che i recenti annunci di aumento delle dimensioni delle forze russe siano finalizzati alla guerra, ma all’intimidazione. Una nazione vittoriosa con un milione di uomini sotto le armi, con la capacità di colpire ovunque in Europa con missili senza temere ritorsioni, ottiene alcuni ovvi vantaggi politici. Anche la nostra classe politica occidentale, ormai indebolita, inizierà a capirlo.

Per molti versi questa sarà l’alba della realtà. Per decenni, l’Occidente ha operato secondo il principio che nessuna delle sue azioni avrebbe mai avuto conseguenze. Le minacce e l’ostilità, le sanzioni e le aggressioni sono solo una sorta di gioco: quello che facciamo al mondo esterno. A dispetto di quanto si può leggere, gli Stati Uniti non stanno per iniziare una guerra con la Cina: la verità è peggiore. Gli Stati Uniti pensano che le minacce e le sanzioni contro la Cina, in parte per consumo interno, non avranno conseguenze nel mondo reale. Ebbene, l’Ucraina ha messo a dura prova l’idea che le azioni occidentali non abbiano conseguenze. “Non lo sapevamo”, strilleranno i leader nazionali. “Beh, ora lo sapete”, risponderà sicuramente la Storia.

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I media stranieri parlano bene della mediazione cinese nei colloqui tra Hamas e Fatah: la Cina dovrebbe ottenere un’altra svolta dopo la ripresa delle relazioni diplomatiche tra Shah e Iran, di Liu Chenghui

I media stranieri parlano bene della mediazione cinese nei colloqui tra Hamas e Fatah: la Cina dovrebbe ottenere un’altra svolta dopo la ripresa delle relazioni diplomatiche tra Shah e Iran

  • Liu Chenghui È meglio tenere d’occhio le cose che perderle di vista.

2024-04-30 21:53:23

Dallo scoppio del nuovo round del conflitto israelo-palestinese, la Cina ha compiuto sforzi incessanti per promuovere i negoziati. Di recente, sotto gli auspici della Cina, il Movimento di liberazione nazionale palestinese (Fatah) e il Movimento di resistenza islamica (Hamas) hanno avviato a Pechino consultazioni sulla riconciliazione interna e hanno compiuto progressi positivi, suscitando grande attenzione da parte dell’opinione pubblica internazionale.

I media stranieri ritengono che Fatah e Hamas abbiano avuto difficoltà a colmare le loro differenze politiche nel corso degli anni e che gli sforzi attivi della Cina abbiano portato la speranza di una soluzione pacifica alla questione israelo-palestinese. La mediazione evidenzia la crescente influenza diplomatica della Cina in Medio Oriente, soprattutto in un momento in cui gli Stati Uniti non sono in grado di unire le parti; la Cina è in prima linea su questo tema e si prevede che compia un’altra simile svolta diplomatica dopo aver facilitato la ripresa delle relazioni diplomatiche tra gli arci-rivali della regione, Arabia Saudita e Iran.

“A prescindere dall’esito, la Cina porta la speranza di una soluzione pacifica alla questione palestinese-israeliana “.

“È una mossa diplomatica importante per la Cina”. Il First Post indiano (First Post) ha scritto il 30 che una serie di segnali recenti indicano la crescente influenza diplomatica della Cina in Medio Oriente, dove ha stretti legami con l’Iran e il mondo arabo. L’anno scorso, l’Arabia Saudita e l’Iran, arci-nemici, hanno raggiunto uno storico accordo di pace con la mediazione della Cina. Al contrario, gli Stati Uniti sono stati riluttanti a spingere per una ripresa delle relazioni tra Hamas e Fatah e hanno considerato Hamas come “terroristi” che non hanno la capacità di tenerli uniti. Oggi la Cina è di nuovo in prima linea.

“La Cina cerca di unire Hamas e Fatah”. L’indiano Business Standard scrive: “In un raro passo verso l’unità, le due parti rivali palestinesi hanno fatto un passo verso l’unità con la spinta della Cina”.

Funzionari di Fatah e Hamas tengono colloqui intra-palestinesi a Mosca, 12 febbraio 2019/Reuters

Secondo un articolo della Israel National Television, l’attuale round di colloqui di pace è stata la prima visita pubblica di una delegazione di Hamas in Cina dallo scoppio del conflitto israelo-palestinese lo scorso ottobre. La mediazione della Cina nei colloqui tra Hamas e Fatah, impegnati in un confronto politico dal 2007, è l’ultimo esempio del suo coinvolgimento attivo in Medio Oriente. Un rapporto della Reuters l’ha descritta come una notevole mossa diplomatica della Cina per impegnarsi nella regione palestinese, mentre a Gaza continuano i combattimenti.

Secondo quanto riportato dall’AFP il 30 aprile, la Cina ha sempre sostenuto la causa palestinese e la soluzione dei due Stati al conflitto palestinese-israeliano. Secondo il sito di notizie online indonesiano Head topics, la visita di funzionari di Hamas e Fatah in Cina ha coinciso con gli attacchi di Israele a Gaza e l’incontro ha favorito l’aumento delle possibilità di riconciliazione tra le fazioni politiche palestinesi e la formazione di un governo di coalizione.

Secondo un articolo del Times of India del 28 settembre, la disputa politica tra Hamas e Fatah è sotto i riflettori dal 2007. Con l’aumento dell’influenza cinese in Medio Oriente, la spinta della Cina per i colloqui di unità tra i due paesi rafforzerebbe ulteriormente la sua posizione in Medio Oriente. In caso di successo, si tratterebbe del secondo passo avanti simile della Cina, dopo aver mediato un accordo di pace tra gli arci-rivali della regione, l’Arabia Saudita e l’Iran.

Il 10 marzo 2023, la Cina, l’Arabia Saudita e l’Iran hanno firmato e rilasciato una dichiarazione congiunta in cui si annunciava che i sauditi e gli iraniani avevano concordato di ripristinare le relazioni diplomatiche / Ministero degli Affari Esteri

“La Cina ha ospitato un incontro storico”. Un articolo del Weeklyblitz, media in lingua inglese del Bangladesh, ha descritto i colloqui come uno sviluppo significativo. L’annuncio che la Cina ospiterà i colloqui di unità tra Hamas e Fatah, due fazioni da sempre rivali, è un passo importante per la diplomazia palestinese in un momento di conflitto in corso nella Striscia di Gaza. I buoni uffici evidenziano l’espansione dell’influenza della Cina sulla scena globale, in particolare in Medio Oriente, soprattutto in questo momento critico in cui la violenza nella regione si sta intensificando, le vittime stanno aumentando e le tensioni stanno raggiungendo il punto di ebollizione. La partecipazione attiva della Cina dimostra il suo impegno a promuovere il dialogo e il suo potenziale contributo alla risoluzione del prolungato conflitto palestinese-israeliano.

“In prospettiva, l’esito dei negoziati condotti dalla Cina rimane incerto, anche se alla luce delle complesse dinamiche geopolitiche. Tuttavia, l’impegno attivo della Cina sottolinea il suo impegno a promuovere il dialogo e la stabilità in Medio Oriente. Mentre la comunità internazionale è alle prese con il conflitto in corso a Gaza, l’iniziativa diplomatica della Cina offre un barlume di speranza per una risoluzione pacifica della questione israelo-palestinese”. Il rapporto afferma che.

In un’intervista rilasciata all’Associated Press (AP) il 24 aprile, l’alto funzionario di Hamas Khalil Haya ha dichiarato che Hamas sarebbe disposto a deporre le armi e a trasformarsi gradualmente in un partito politico se si potesse raggiungere una soluzione a due Stati basata sui confini del 1967.

“Le due parti potrebbero tenere il prossimo ciclo di colloqui a Pechino a giugno “.

Nel 2007 è scoppiato un conflitto tra Fatah e Hamas, culminato con la presa di potere di Hamas sulla Striscia di Gaza e il controllo de facto di Fatah sulla Cisgiordania. Questo conflitto ha portato alla divisione dei territori palestinesi in due entità: il governo di Hamas nella Striscia di Gaza e l’Autorità Palestinese in Cisgiordania. Da allora, tutti gli sforzi di mediazione dei principali attori della regione, guidati dall’Egitto, non sono riusciti a porre fine alla divisione palestinese.

Per quanto riguarda i dettagli dei colloqui, il 30 aprile il portavoce del Ministero degli Affari Esteri Lin Jian ha reso noto che, su invito della parte cinese, i rappresentanti del Movimento di Liberazione Nazionale Palestinese e del Movimento di Resistenza Islamica sono venuti di recente a Pechino per consultazioni sulla promozione della riconciliazione interna in Palestina, un dialogo approfondito e franco, in cui entrambe le parti hanno espresso pienamente la loro volontà politica di raggiungere la riconciliazione attraverso il dialogo e la consultazione e hanno esplorato una serie di questioni specifiche, e hanno compiuto progressi positivi, concordando di continuare il processo di dialogo e di impegnarsi per la rapida realizzazione dell’unità e della solidarietà palestinese. Le due parti hanno concordato di proseguire il processo di dialogo con l’obiettivo di realizzare al più presto l’unità e la solidarietà palestinese.

Lin Jian ha dichiarato che le due parti hanno apprezzato molto il fermo sostegno della Cina alla giusta causa del popolo palestinese per il ripristino dei suoi legittimi diritti nazionali, ha ringraziato la parte cinese per i suoi sforzi nel promuovere il rafforzamento dell’unità interna palestinese e ha raggiunto un accordo sull’idea del dialogo per il prossimo passo.

‘esercito israeliano sta avanzando il suo piano di operazioni di terra per Rafah. Sempre secondo fonti ufficiali israeliane, l’esercito israeliano ha ormai fatto tutti i preparativi necessari per un attacco a Rafah / Punch Images

Al Jazeera 30, citando fonti, ha rivelato che Hamas e Fatah si sono concentrati questa volta sulla necessità di porre fine alla divisione interna palestinese, con entrambe le parti che hanno sottolineato congiuntamente che l’unità e la solidarietà dovrebbero essere raggiunte nel quadro dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, in cui tutte le forze e le fazioni palestinesi dovrebbero essere incluse.

Le due parti hanno inoltre dichiarato che, in occasione dei prossimi colloqui che si terranno a Pechino a metà giugno, continueranno a discutere di argomenti rilevanti, tra cui il ruolo della Cina nel rafforzamento dell’unità palestinese, la ricerca della fine dell’occupazione e la creazione di uno Stato palestinese, in conformità con le risoluzioni internazionali.

Hamas e Fatah discuteranno anche della necessità di formare un governo ad interim, nazionale e non settario, “affinché possa adempiere alle sue funzioni tecniche e amministrative nei settori del soccorso, dell’eliminazione delle aggressioni e della ricostruzione di Gaza”. Uno dei primi compiti di tale governo sarebbe quello di unificare le istituzioni palestinesi e preparare le elezioni generali.

Per quanto riguarda il successo dei colloqui, il dottor Ahmad Rafiq Awad, direttore del Centro di ricerca di Gerusalemme dell’Università Al-Quds, ha sottolineato che il ruolo della Cina nella questione palestinese non si limita a promuovere la riconciliazione tra le due parti durante i colloqui, ma sono degni di nota anche i suoi sforzi per sostenere la posizione della Palestina nel Consiglio di Sicurezza, per appoggiare lo Stato di Palestina nel diventare un membro a pieno titolo delle Nazioni Unite e per promuovere la realizzazione della “soluzione dei due Stati”. Meritano attenzione anche gli sforzi della Cina per sostenere la posizione palestinese nel Consiglio di Sicurezza, per appoggiare la piena adesione dello Stato di Palestina alle Nazioni Unite e per promuovere la soluzione dei due Stati.

Ha affermato che la Cina, una potenza globale con interessi e visioni proprie in contrapposizione al capitalismo europeo e americano, potrebbe vedere la questione palestinese come una questione regionale e globale e considerarsi capace e disposta a partecipare, riflettendo il fatto che sta trasformando il suo potere economico in potere politico.

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L’ordine alternativo della Cina, Di Elizabeth Economy

Ormai è innegabile l’ambizione del presidente cinese Xi Jinping di rifare il mondo. Vuole dissolvere la rete di alleanze di Washington ed eliminare i valori “occidentali” dagli organismi internazionali. Vuole far cadere il dollaro americano dal suo piedistallo ed eliminare la morsa di Washington sulle tecnologie critiche. Nel suo nuovo ordine multipolare, le istituzioni e le norme globali saranno sostenute dalle nozioni cinesi di sicurezza comune e sviluppo economico, dai valori cinesi dei diritti politici determinati dallo Stato e dalla tecnologia cinese. La Cina non dovrà più lottare per la leadership. La sua centralità sarà garantita.

A sentire Xi, questo mondo è a portata di mano. Alla Conferenza centrale sul lavoro relativo agli affari esteri dello scorso dicembre, si è vantato del fatto che Pechino è (secondo le parole di un comunicato stampa del governo) un “grande Paese fiducioso, autosufficiente, aperto e inclusivo”, che ha creato la “più grande piattaforma mondiale per la cooperazione internazionale” e ha aperto la strada alla “riforma del sistema internazionale”. Ha affermato che la sua concezione dell’ordine globale – una “comunità con un futuro condiviso per l’umanità” – si è evoluta da “iniziativa cinese” a “consenso internazionale”, da realizzare attraverso l’attuazione di quattro programmi cinesi: l’Iniziativa Belt and Road, l’Iniziativa per lo Sviluppo Globale, l’Iniziativa per la Sicurezza Globale e l’Iniziativa per la Civilizzazione Globale.

Al di fuori della Cina, questi proclami sfacciati e autocelebrativi vengono generalmente ignorati o respinti, anche dai funzionari americani, che tendono a ignorare il fascino della strategia di Pechino. È facile capire perché: molti dei piani cinesi sembrano fallire o ritorcersi contro di loro. Molti dei suoi vicini si stanno avvicinando a Washington e la sua economia sta vacillando. Lo stile diplomatico conflittuale da “guerriero lupo” del Paese può essere piaciuto a Xi, ma ha fatto guadagnare alla Cina pochi amici all’estero. I sondaggi indicano che Pechino è largamente impopolare in tutto il mondo: Uno studio del Pew Research Center del 2023, ad esempio, ha analizzato gli atteggiamenti verso la Cina e gli Stati Uniti in 24 Paesi di sei continenti. È emerso che solo il 28% degli intervistati ha un’opinione favorevole di Pechino e solo il 23% afferma che la Cina contribuisce alla pace globale. Quasi il 60% degli intervistati, invece, aveva un’opinione positiva degli Stati Uniti e il 61% affermava che Washington contribuisce alla pace e alla stabilità.

Ma la visione di Xi è molto più formidabile di quanto sembri. Le proposte della Cina darebbero potere ai molti Paesi che sono stati frustrati e messi da parte dall’ordine attuale, ma permetterebbero agli Stati attualmente favoriti da Washington di avere un ruolo internazionale prezioso. Le iniziative di Pechino sono sostenute da una strategia operativa completa, ben finanziata e disciplinata, che prevede il coinvolgimento dei governi e delle popolazioni di quasi tutti i Paesi. Queste tecniche hanno fatto guadagnare a Pechino un nuovo sostegno, in particolare in alcune organizzazioni multilaterali e presso le non democrazie. La Cina sta riuscendo a diventare un agente di cambiamento gradito e a dipingere gli Stati Uniti come i difensori di uno status quo che piace a pochi.

Piuttosto che respingere il libro dei giochi di Pechino, i politici statunitensi dovrebbero imparare da esso. Per vincere quella che sarà una competizione a lungo termine, gli Stati Uniti devono cogliere il mantello del cambiamento che la Cina ha rivendicato. Washington deve articolare e portare avanti la propria visione di un sistema internazionale trasformato e del ruolo degli Stati Uniti all’interno di tale sistema, che comprenda Paesi a diversi livelli economici e con diversi sistemi politici. Come la Cina, gli Stati Uniti devono investire profondamente nelle basi tecnologiche, militari e diplomatiche che consentono la sicurezza interna e la leadership all’estero. Tuttavia, mentre il Paese si impegna in questa competizione, i responsabili politici statunitensi devono comprendere che la stabilizzazione a breve termine delle relazioni bilaterali favorisce piuttosto che ostacolare gli obiettivi finali degli Stati Uniti. Dovrebbero basarsi sul vertice dello scorso anno tra il presidente Joe Biden e Xi, riducendo la retorica anticinese e creando una relazione diplomatica più funzionale. In questo modo, gli Stati Uniti potranno concentrarsi sul compito più importante: vincere la partita a lungo termine.

ORA POSSO VEDERE CHIARAMENTE

Il manuale di Pechino inizia con una visione ben definita di un ordine mondiale trasformato. Il governo cinese vuole un sistema costruito non solo sul multipolarismo, ma anche sulla sovranità assoluta, sulla sicurezza radicata nel consenso internazionale e nella Carta delle Nazioni Unite, sui diritti umani determinati dallo Stato in base alle circostanze di ciascun Paese, sullo sviluppo come “chiave principale” per tutte le soluzioni, sulla fine del dominio del dollaro statunitense e sull’impegno a non lasciare indietro nessun Paese e nessuno. Questa visione, secondo Pechino, è in netto contrasto con il sistema sostenuto dagli Stati Uniti. In un rapporto del 2023, il Ministero degli Affari Esteri cinese ha affermato che Washington è “aggrappata alla mentalità della Guerra Fredda” e “mette insieme piccoli blocchi attraverso il suo sistema di alleanze” per “creare divisione nella regione, alimentare il confronto e minare la pace”. Gli Stati Uniti, prosegue il rapporto, interferiscono “negli affari interni di altri Paesi”, usano lo status del dollaro come valuta di riserva internazionale per “costringere altri Paesi a servire la strategia politica ed economica americana” e cercano di “scoraggiare lo sviluppo scientifico, tecnologico ed economico di altri Paesi”. Infine, secondo il Ministero, gli Stati Uniti perseguono “l’egemonia culturale”. Le “vere armi dell’espansione culturale statunitense”, ha dichiarato, sono le “linee di produzione della Mattel Company e della Coca-Cola”.

Pechino sostiene che la sua visione, al contrario, promuove gli interessi della maggioranza dei popoli del mondo. La Cina è al centro della scena, ma ogni Paese, compresi gli Stati Uniti, ha un ruolo da svolgere. Alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco 2024 di febbraio, ad esempio, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha affermato che la Cina e gli Stati Uniti sono responsabili della stabilità strategica globale. Cina e Russia, invece, rappresentano l’esplorazione di un nuovo modello di relazioni tra grandi Paesi. La Cina e l’Unione Europea sono i due principali mercati e civiltà del mondo e dovrebbero resistere alla creazione di blocchi basati sull’ideologia. La Cina, che Wang ha definito “il più grande Paese in via di sviluppo”, promuove la solidarietà e la cooperazione con il Sud del mondo per aumentare la propria rappresentanza negli affari globali.

La visione della Cina è pensata per essere convincente per quasi tutti i Paesi. Quelli che non sono democrazie vedranno convalidate le loro scelte. Quelli che sono democrazie ma non grandi potenze otterranno una maggiore voce nel sistema internazionale e una quota maggiore dei benefici della globalizzazione. Anche le grandi potenze democratiche potranno riflettere se l’attuale sistema è adeguato per affrontare le sfide odierne o se la Cina ha qualcosa di meglio da offrire. Gli osservatori negli Stati Uniti e altrove potrebbero storcere il naso di fronte a queste frasi altisonanti, ma lo fanno a loro rischio e pericolo: l’insoddisfazione per l’attuale ordine internazionale ha creato un pubblico globale più disponibile alle proposte della Cina di quanto non potesse esistere fino a poco tempo fa.

QUATTRO PILLOLE

Per oltre due decenni, la Cina ha fatto riferimento a un “nuovo concetto di sicurezza” che abbraccia norme come la sicurezza comune, la diversità dei sistemi e la multipolarità. Negli ultimi anni, però, la Cina ritiene di aver acquisito la capacità di portare avanti la sua visione. A tal fine, durante il suo primo decennio al potere, Xi ha lanciato tre distinti programmi globali: la Belt and Road Initiative (BRI) nel 2013, la Global Development Initiative (GDI) nel 2021 e la Global Security Initiative (GSI) nel 2022. Ognuno di essi contribuisce in qualche modo a favorire la trasformazione del sistema internazionale e la centralità della Cina al suo interno.

Inizialmente, la BRI era una piattaforma che permetteva a Pechino di soddisfare le esigenze di infrastrutture dure delle economie emergenti e a medio reddito, sfruttando l’eccesso di capacità dell’industria edilizia cinese. Da allora si è ampliato fino a diventare un motore della geostrategia di Pechino: incorporare gli ecosistemi digitali, sanitari e di tecnologia pulita della Cina a livello globale, promuovere il suo modello di sviluppo, espandere la portata delle sue forze militari e di polizia e promuovere l’uso della sua moneta.

Il GDI si concentra sullo sviluppo globale in senso più ampio e pone la Cina al posto di guida. Spesso in collaborazione con le Nazioni Unite, sostiene progetti su piccola scala che riguardano la riduzione della povertà, la connettività digitale, il cambiamento climatico, la salute e la sicurezza alimentare. Il programma promuove la preferenza di Pechino per lo sviluppo economico come base per i diritti umani. Un documento governativo sul programma, ad esempio, accusa gli altri Paesi di “emarginare le questioni relative allo sviluppo enfatizzando i diritti umani e la democrazia”.

La Cina sta riuscendo a diventare un agente di cambiamento gradito.

Pechino ha posizionato la GSI come un sistema per, come hanno detto diversi studiosi cinesi, fornire “saggezza cinese e soluzioni cinesi” per promuovere “la pace e la tranquillità nel mondo”. Nelle parole di Xi, la GSI sostiene che i Paesi “rifiutano la mentalità della Guerra Fredda, si oppongono all’unilateralismo e dicono no alla politica di gruppo e al confronto tra blocchi”. Il percorso migliore, secondo Xi, consiste nel costruire un'”architettura di sicurezza equilibrata, efficace e sostenibile” che risolva le differenze tra i Paesi attraverso il dialogo e la consultazione e che sostenga la non interferenza negli affari interni altrui. Dietro la retorica, la GSI è progettata per porre fine ai sistemi di alleanze degli Stati Uniti, stabilire la sicurezza come precondizione per lo sviluppo e promuovere la sovranità assoluta e la sicurezza indivisibile, ovvero l’idea che la sicurezza di uno Stato non debba andare a scapito di quella degli altri. La Cina e la Russia hanno usato questa nozione per giustificare l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, suggerendo che l’attacco di Mosca fosse necessario per impedire a una NATO in espansione di minacciare la Russia.

Ma la strategia di Xi ha preso il volo solo nell’ultimo anno, con la pubblicazione della Global Civilization Initiative nel maggio 2023. La GCI avanza l’idea che Paesi con civiltà e livelli di sviluppo diversi avranno modelli politici ed economici diversi. Afferma che gli Stati determinano i diritti e che nessun Paese o modello ha il mandato di controllare il discorso dei diritti umani. Come ha detto l’ex ministro degli Esteri Qin Gang: “Non esiste un modello unico per la protezione dei diritti umani”. Pertanto, la Grecia, con le sue tradizioni filosofiche e culturali e il suo livello di sviluppo, può avere una concezione e una pratica dei diritti umani diversa da quella della Cina. Entrambe sono ugualmente valide.

I leader cinesi stanno lavorando duramente per convincere i Paesi e le istituzioni internazionali ad accettare la loro visione del mondo. La loro strategia è multilivello: stringere accordi con singoli Paesi, integrare le loro iniziative o componenti di esse in organizzazioni multilaterali e incorporare le loro proposte nelle istituzioni di governance globale. Il BRI è il modello di questo approccio. Circa 150 Paesi sono entrati a far parte del programma, che sostiene apertamente i valori che fanno da cornice alla visione cinese, come il primato dello sviluppo, la sovranità, i diritti politici diretti dallo Stato e la sicurezza comune. Questo accordo bilaterale è stato accompagnato dagli sforzi dei funzionari cinesi per collegare la BRI ad altri sforzi di sviluppo regionale, come il Master Plan sulla connettività 2025 creato dall’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN).

Xi a un vertice a San Francisco, novembre 2023
Kevin Lamarque / Reuters

La Cina ha inoltre integrato con successo la BRI in più di due dozzine di agenzie e programmi delle Nazioni Unite. Ha lavorato con particolare impegno per allineare la BRI e l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite, di alto profilo. Il Dipartimento degli Affari Economici e Sociali delle Nazioni Unite, che è stato diretto da un funzionario cinese per oltre un decennio, ha prodotto un rapporto sul sostegno della BRI all’Agenda. Il rapporto è stato parzialmente finanziato dal Fondo fiduciario per la pace e lo sviluppo delle Nazioni Unite, che a sua volta è stato inizialmente istituito da un impegno cinese di 200 milioni di dollari. Tale sostegno contribuisce senza dubbio all’entusiasmo che molti alti funzionari delle Nazioni Unite, tra cui il Segretario generale, hanno mostrato nei confronti della BRI.

I progressi su GDI, GSI e GCI sono stati comprensibilmente più nascosti. Finora, solo pochi leader di Paesi come la Serbia, il Sudafrica, il Sud Sudan e il Venezuela hanno offerto un sostegno retorico all’idea del GCI di rispettare la diversità delle civiltà e dei percorsi di sviluppo e, per estensione, alla visione della Cina di un ordine che non dia il primato ai valori delle democrazie liberali.

Il GDI ha ottenuto un sostegno internazionale maggiore rispetto al GCI. Dopo che Xi ha annunciato il progetto davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, la Cina ha sviluppato un “Gruppo di amici del GDI” che ora vanta più di 70 Paesi. Il GDI ha fatto avanzare 50 progetti e si è impegnato a offrire 100.000 opportunità di formazione a funzionari ed esperti di altri Paesi affinché si rechino in Cina per studiare i suoi sistemi. Queste opportunità di formazione sono state pensate per promuovere le tecnologie avanzate della Cina, le sue esperienze di gestione e il suo modello di sviluppo. La Cina è anche riuscita a collegare formalmente la GDI all’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite e ha organizzato seminari relativi alla GDI con l’Ufficio delle Nazioni Unite per la cooperazione sud-sud. In altre parole, Pechino sta inserendo il programma nel tessuto del sistema governativo internazionale.

La GSI ha ottenuto un consenso retorico ancora maggiore. Secondo il Ministero degli Esteri cinese, più di 100 Paesi, organizzazioni regionali e internazionali hanno sostenuto la GSI e i funzionari cinesi hanno incoraggiato i BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), l’ASEAN e l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai ad adottare il concetto. Alla riunione della SCO del settembre 2022, la Cina ha avanzato il GSI e ha ricevuto il sostegno di tutti i membri, tranne India e Tagikistan.

APPELLO DI MASSA

La Cina, a differenza degli Stati Uniti, investe molto nelle risorse diplomatiche necessarie per commercializzare le proprie iniziative. Ha più ambasciate e uffici di rappresentanza in tutto il mondo di qualsiasi altro Paese, e i diplomatici cinesi intervengono frequentemente alle conferenze e pubblicano un flusso di articoli sulle varie iniziative della Cina nelle testate giornalistiche locali.

Questo apparato diplomatico è supportato da reti mediatiche cinesi altrettanto estese. La rete di informazione internazionale cinese, la CGTN, ha il doppio degli uffici all’estero della CNN e la Xinhua, il servizio di informazione ufficiale cinese, ha oltre 180 uffici in tutto il mondo. Sebbene i media cinesi siano spesso percepiti in Occidente come poco più che rozzi strumenti di propaganda, essi possono promuovere un’immagine positiva della Cina e della sua leadership. In uno studio pubblicato nel 2024, un team di studiosi internazionali ha intervistato più di 6.000 persone in 19 Paesi per verificare se la Cina o gli Stati Uniti fossero più efficaci nel vendere il proprio modello politico ed economico e il proprio ruolo di leader globale. Al principio, i partecipanti preferivano in larga misura gli Stati Uniti: l’83% degli intervistati preferiva il modello politico statunitense, il 70% il modello economico statunitense e il 78% la leadership statunitense. Ma quando sono stati esposti ai messaggi dei media cinesi – sia solo a quelli cinesi che a quelli del governo cinese e statunitense in una competizione testa a testa – i partecipanti hanno preferito i modelli cinesi a quelli statunitensi.

Per promuovere i suoi obiettivi, Pechino si avvale anche della forza delle aziende statali e del settore privato del Paese. Le aziende tecnologiche cinesi, ad esempio, non solo forniscono connettività digitale a diversi Paesi, ma permettono anche agli Stati di emulare elementi del modello politico di Pechino. Secondo Freedom House, rappresentanti di 36 Paesi hanno partecipato a sessioni di formazione del governo cinese su come controllare i media e le informazioni su Internet. In Zambia, l’adozione della “via cinese” per la governance di Internet – come l’ha descritta un ex ministro del governo – ha portato all’incarcerazione di diversi zambiani per aver criticato il presidente online. Gli esperti del German Council on Foreign Relations hanno rivelato che le middlebox di Huawei hanno bloccato siti web in 17 Paesi. Più gli Stati adottano norme e tecnologie cinesi che reprimono le libertà politiche e civili, più Pechino può minare l’attuale sistema internazionale che abbraccia i diritti umani universali.

Gli Stati Uniti devono cogliere il mantello del cambiamento che la Cina ha rivendicato.

Inoltre, Xi ha rafforzato il ruolo dell’apparato di sicurezza cinese come strumento diplomatico. L’Esercito Popolare di Liberazione cinese sta conducendo esercitazioni con un numero crescente di Paesi e offre addestramento ai militari di tutto il mondo in via di sviluppo. L’anno scorso, ad esempio, la Cina ha portato a Pechino più di 100 alti ufficiali militari provenienti da quasi 50 Paesi africani e dall’Unione Africana per il terzo Forum sulla pace e la sicurezza Cina-Africa. La Cina e i partecipanti africani hanno concordato di organizzare un maggior numero di esercitazioni militari congiunte e hanno accolto la BRI e la GSI, insieme al piano di sviluppo Agenda 2063 dell’Unione Africana, come un modo per perseguire lo sviluppo economico, promuovere la pace e garantire la stabilità nel continente. Insieme, questi accordi contribuiscono a creare il sistema di sicurezza collaborativo che la Cina desidera: un sistema basato su Pechino.

La Cina ha potenziato la sua strategia con un atteggiamento sia paziente che opportunistico. Pechino fornisce ingenti risorse per le sue iniziative, rassicurando gli altri Paesi sul suo sostegno a lungo termine e consentendo ai funzionari cinesi di agire rapidamente quando si presentano le opportunità. Ad esempio, nel 2015 Pechino ha annunciato per la prima volta una versione della Via della seta della salute, che però ha suscitato poca attenzione. Nel 2020, tuttavia, la Cina ha sfruttato la pandemia COVID-19 per dare nuova vita al progetto. Xi ha tenuto un importante discorso davanti all’Assemblea mondiale della sanità, promuovendo la Cina come hub per le risorse mediche. Pechino ha abbinato province cinesi a diversi Paesi e ha fatto in modo che le prime inviassero attrezzature di protezione personale e professionisti medici ai secondi. La Cina ha anche utilizzato la pandemia per promuovere le tecnologie sanitarie digitali cinesi e la medicina tradizionale cinese – una priorità per Xi – come metodi per trattare il virus.

Più recentemente, la Cina ha sfruttato l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e le conseguenti sanzioni occidentali per spingere la de-dollarizzazione dell’economia globale. Gli scambi commerciali della Cina con la Russia sono ora regolati per lo più in renminbi e Pechino sta lavorando attraverso la BRI e le organizzazioni multilaterali, come i BRICS (a cui 34 Paesi hanno espresso interesse ad aderire), per promuovere la de-dollarizzazione. Come ha detto il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva durante una visita in Cina nel 2023, “ogni sera mi chiedo perché tutti i Paesi debbano basare il loro commercio sul dollaro. Perché non possiamo fare scambi commerciali basati sulle nostre valute?”.

IL PAGAMENTO

Pechino ha chiaramente fatto progressi nell’ottenere un’adesione retorica da parte di altri Paesi, così come da parte delle organizzazioni e dei funzionari delle Nazioni Unite. Ma in termini di cambiamenti effettivi sul campo, di raccolta del sostegno dei cittadini di altri Paesi e di influenza sulla riforma delle istituzioni internazionali, i risultati della Cina sono più contrastanti.

La GDI, da parte sua, è ben avviata. Un rapporto biennale sui progressi compiuti, redatto dal think tank dell’agenzia di stampa Xinhua, indica che il 20% dei 50 programmi di cooperazione iniziali del GDI è stato completato e che ne sono stati proposti altri 200. Alcuni progetti sono fortemente locali e a lungo termine, ma altri avranno un impatto più immediato, come un progetto di energia eolica in Kazakistan che soddisferà il fabbisogno energetico di più paesi. Alcuni progetti sono altamente locali e a lungo termine, ma altri avranno un impatto più immediato, come un progetto di energia eolica in Kazakistan che soddisferà il fabbisogno energetico di oltre un milione di famiglie.

Nonostante la relativa nascita della GSI, Wang, ministro degli Esteri cinese, ha subito affermato che il riavvicinamento del 2023 tra Iran e Arabia Saudita, mediato da Pechino, è un esempio del principio della GSI di promuovere il dialogo. Tuttavia, la Cina ha avuto meno successo nell’utilizzare i principi della GSI nei suoi tentativi di risolvere la guerra in Ucraina e il conflitto israelo-palestinese. Inoltre, alcuni Paesi hanno espresso il timore che la GSI sia una sorta di alleanza militare. Nonostante sia stato uno dei primi beneficiari dei progetti GDI, ad esempio, il Nepal ha resistito alle molteplici richieste cinesi di entrare a far parte della GSI perché non vuole far parte di un’alleanza di sicurezza.

La BRI ha trasformato il panorama geostrategico ed economico di gran parte dell’Africa, del Sud-est asiatico e, in misura crescente, dell’America Latina. Huawei, ad esempio, fornisce il 70% di tutti i componenti dell’infrastruttura di telecomunicazioni 4G in Africa. Inoltre, gli investimenti cinesi BRI per il 2023 sono aumentati rispetto al 2022. Vi sono tuttavia segnali che indicano che l’influenza della BRI potrebbe essere in calo. L’Italia, la più grande economia dell’iniziativa (a parte la Cina stessa), si è ritirata a dicembre e solo 23 leader hanno partecipato al Belt and Road Forum 2023, rispetto ai 37 del 2019. I finanziamenti cinesi per la BRI sono diminuiti drasticamente rispetto al picco del 2016 e molti Paesi beneficiari della BRI stanno lottando per ripagare i prestiti di Pechino.

I sondaggi di opinione dipingono un quadro altrettanto eterogeneo. Il sondaggio Pew ha indicato che le economie a medio reddito, in particolare in Africa e in America Latina, hanno maggiori probabilità di avere una visione positiva della Cina e del suo contributo alla stabilità rispetto alle economie a più alto reddito in Asia e in Europa. Ma anche in queste regioni, le opinioni popolari sulla Cina sono tutt’altro che uniformemente positive.

Un sondaggio condotto nel 2023 su 1.308 élite degli Stati dell’ASEAN, ad esempio, rivela che sebbene la Cina sia considerata l’attore economico e di sicurezza più influente della regione, la maggioranza di tutti i Paesi, ad eccezione del Brunei, esprime preoccupazione per la crescente influenza della Cina. La maggioranza o la pluralità di sette Paesi su dieci non crede che la GSI porterà benefici alla loro regione. Inoltre, alla domanda se, se costretti a scegliere, si allineerebbero con la Cina o con gli Stati Uniti, la maggioranza di sette Paesi ASEAN su dieci ha scelto gli Stati Uniti.

I sondaggi di Afrobarometro del 2019 e del 2020 indicano che la Cina gode di una reputazione più positiva in Africa: il 63% degli africani intervistati in 34 Paesi ritiene che la Cina sia un’influenza esterna positiva. Ma solo il 22% ritiene che la Cina sia il modello migliore per lo sviluppo futuro e l’approvazione del modello cinese è diminuita rispetto ai sondaggi del 2014 e del 2015.

Un sondaggio del 2021 condotto su 336 opinion leader di 23 Paesi dell’America Latina è stato altrettanto eloquente. Sebbene il 78% degli intervistati ritenga che l’influenza complessiva della Cina nella regione sia elevata, solo il 35% ha un’opinione buona o molto buona della Cina. (Gli intervistati hanno opinioni simili sugli Stati Uniti). È stato espresso un sostegno all’impegno con la Cina in materia di commercio e investimenti diretti esteri, ma un sostegno minimo all’impegno in materia di cooperazione multilaterale, sicurezza internazionale e diritti umani.

Infine, il sostegno alla Cina e alle iniziative sostenute dalla Cina in seno alle Nazioni Unite è eterogeneo. Ad esempio, uno studio dettagliato sugli investimenti della Cina nella Via della Seta Digitale in Africa ha rilevato che, sebbene otto membri africani della DSR abbiano appoggiato la proposta del Nuovo IP cinese per aumentare il controllo statale su Internet, un numero maggiore di membri africani della DSR non ha scritto a suo favore. Il voto del febbraio 2023 per condannare l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia – in cui 141 Paesi hanno votato a favore, 7 contro e 32, tra cui la Cina e tutti gli altri membri della SCO tranne la Russia, si sono astenuti – suggerisce un diffuso rifiuto del principio di sicurezza indivisibile della GSI. Ciononostante, la Cina ha ottenuto il sostegno di 25 dei 31 Paesi emergenti e a medio reddito (esclusa la Cina stessa) nel Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, nel tentativo di impedire il dibattito sul trattamento riservato da Pechino alla sua popolazione minoritaria uigura. È stata solo la seconda volta nella storia del Consiglio che un dibattito è stato bloccato.

COMBATTERE IL FUOCO CON IL FUOCO

Il sostegno agli sforzi della Cina può apparire superficiale in molti segmenti della comunità internazionale. Ma i leader cinesi esprimono una grande fiducia nella loro visione trasformatrice e i principi e le politiche di base proposte nella GDI, nella GSI e nella GCI godono di un notevole slancio tra i membri dei BRICS e della SCO, così come tra le non democrazie e i Paesi africani. Le vittorie della Cina all’interno di organizzazioni più grandi, come l’ONU, possono sembrare minori, ma si stanno accumulando, dando a Pechino un’autorità sostanziale all’interno di istituzioni importanti che molte economie emergenti e a medio reddito apprezzano. Inoltre, Pechino ha una strategia operativa formidabile per realizzare la trasformazione desiderata, insieme alla capacità di coordinare le politiche a più livelli di governo per un lungo periodo.

Parte del motivo per cui gli sforzi di Pechino stanno prendendo piede è che l’attuale sistema, guidato dagli Stati Uniti, è impopolare in gran parte del mondo. Non ha un buon record nell’affrontare sfide globali come le pandemie, i cambiamenti climatici, le crisi del debito o la scarsità di cibo – tutte cose che colpiscono in modo sproporzionato le persone più vulnerabili del pianeta. Molti Paesi ritengono che le Nazioni Unite e le loro istituzioni, compreso il Consiglio di Sicurezza, non riflettano adeguatamente la distribuzione del potere nel mondo. Il sistema internazionale, inoltre, non si è dimostrato in grado di risolvere i conflitti di lunga data o di prevenirne di nuovi. Gli Stati Uniti, inoltre, sono sempre più visti come un’entità che opera al di fuori delle istituzioni e delle norme che ha contribuito a creare: dispiegando sanzioni diffuse senza l’approvazione del Consiglio di sicurezza, contribuendo a indebolire organismi internazionali come l’Organizzazione mondiale del commercio e, durante l’amministrazione Trump, ritirandosi da accordi globali. Infine, il periodico inquadramento di Washington del sistema mondiale come diviso tra autocrazie e democrazie allontana molti Paesi, compresi alcuni democratici.

Anche se la sua visione non si realizza pienamente, a meno che il mondo non disponga di un’alternativa credibile, la Cina può approfittare di questa insoddisfazione per compiere progressi significativi nel degradare materialmente l’attuale sistema internazionale. La battaglia in salita che gli Stati Uniti hanno condotto per convincere i Paesi a evitare le apparecchiature di telecomunicazione Huawei è una lezione importante per affrontare un problema prima che si presenti. Sarebbe molto più difficile rovesciare un ordine globale che ha svalutato i diritti umani universali a favore di diritti determinati dallo Stato, ha svalutato in modo significativo il sistema finanziario, ha incorporato ampiamente sistemi tecnologici controllati dallo Stato e ha smantellato le alleanze militari guidate dagli Stati Uniti.

Il sistema internazionale guidato dagli Stati Uniti è impopolare in gran parte del mondo.

Gli Stati Uniti dovrebbero quindi muoversi in modo aggressivo per posizionarsi come forza di cambiamento del sistema. Dovrebbero prendere spunto dal libro dei giochi della Cina ed essere opportunisti, cercando un vantaggio strategico nel momento in cui l’economia cinese sta vacillando e il suo sistema politico è sotto stress. Dovrebbe riconoscere che, come Xi ha ripetutamente affermato, nel mondo si stanno verificando cambiamenti “come non se ne vedevano da 100 anni”, ma chiarire che questi cambiamenti non segnalano il declino degli Stati Uniti. Al contrario, sono in linea con la visione dinamica del futuro di Washington.

La visione dovrebbe iniziare con la promozione di una rivoluzione economica e tecnologica che trasformi i paesaggi digitali, energetici, agricoli e sanitari del mondo in modi che siano inclusivi e contribuiscano alla prosperità globale condivisa. Ciò richiederà nuove norme e istituzioni che integrino le economie emergenti e a medio reddito in catene di approvvigionamento globali resilienti e diversificate, reti di innovazione, ecosistemi di produzione pulita e regimi di governance delle informazioni e dei dati. Washington dovrebbe promuovere una conversazione globale sulla sua visione di un cambiamento tecnologicamente avanzato radicato in standard elevati, stato di diritto, trasparenza, responsabilità delle autorità e sostenibilità, norme di buon governo condivise e non cariche di ideologia. Una discussione di questo tipo potrebbe riscuotere un ampio consenso, così come l’attenzione della Cina per l’imperativo dello sviluppo esercita un ampio fascino.

Washington ha messo in atto alcuni degli elementi costitutivi di questa visione attraverso il Consiglio per il commercio e la tecnologia tra Stati Uniti e Unione Europea, il Quadro economico indo-pacifico e il Partenariato per gli investimenti nelle infrastrutture globali. Tuttavia, proprio gli Stati più aperti alla visione di trasformazione della Cina – la maggior parte dei membri dei BRICS e della SCO e le economie emergenti e a medio reddito non democratiche – sono rimasti in gran parte esclusi dall’equazione. Insieme a questi Paesi, Washington dovrebbe esplorare accordi regionali simili a quelli che ha stabilito con i suoi partner asiatici ed europei. Un maggior numero di Paesi dovrebbe essere coinvolto nelle reti che Washington sta creando per rafforzare le catene di approvvigionamento, come quelle create dal CHIPS e dal Science Act. Inoltre, paesi come la Cambogia e il Laos, esclusi dagli accordi esistenti, come il quadro indo-pacifico, dovrebbero avere un percorso di adesione. Ciò amplierebbe l’impronta di sviluppo degli Stati Uniti, consentendo loro di fornire una traiettoria di sviluppo diversa da quella del BRI e del GDI di Pechino e, a differenza delle iniziative cinesi, offrendo ai Paesi partecipanti l’opportunità di contribuire a sviluppare le regole della strada.

L’intelligenza artificiale rappresenta un’opportunità unica per gli Stati Uniti di segnalare un nuovo approccio più inclusivo. Man mano che se ne apprezzano le applicazioni, l’intelligenza artificiale richiederà nuove norme internazionali e potenzialmente nuove istituzioni per sfruttarne gli effetti positivi e limitarne quelli negativi. Gli Stati Uniti, che sono il principale innovatore dell’IA a livello mondiale, dovrebbero impegnarsi in prima persona con Paesi diversi dai loro alleati e partner tradizionali per sviluppare le norme. Gli sforzi congiunti tra Stati Uniti e Unione Europea in materia di formazione delle competenze per la prossima generazione di posti di lavoro nel campo dell’IA, ad esempio, dovrebbero essere ampliati per includere la maggioranza globale. Gli Stati Uniti possono anche sostenere l’impegno tra il loro solido settore privato e le organizzazioni della società civile e le loro controparti in altri Paesi, un approccio multistakeholder che la Cina, con il suo stile diplomatico da “capo di Stato”, di solito rifugge.

Questo sforzo richiederà a Washington di attingere più efficacemente al settore privato e alla società civile statunitensi, proprio come la Cina ha coinvolto le sue imprese statali e il settore privato nella BRI e nella GDI, promuovendo partenariati internazionali vivaci, avviati dallo Stato ma guidati dalle imprese e dalla società civile. Nella maggior parte del mondo, compresa l’Africa e l’America Latina, gli Stati Uniti sono una fonte di investimenti diretti esteri e di assistenza più grande e più desiderata della Cina. Washington ha lasciato inutilizzato un significativo allineamento di interessi tra i suoi obiettivi strategici e gli obiettivi economici del settore privato, come la creazione di ambienti politici ed economici all’estero che consentano alle aziende statunitensi di prosperare. Poiché le aziende e le fondazioni americane sono attori privati, tuttavia, i benefici dei loro investimenti non ricadono sul governo degli Stati Uniti. L’istituzionalizzazione dei partenariati pubblico-privati può collegare meglio gli obiettivi degli Stati Uniti con la forza del settore privato americano e contribuire a garantire che le iniziative non vengano messe da parte durante le transizioni politiche a Washington. Il lavoro delle fondazioni private negli Stati Uniti, che investono miliardi di dollari nelle economie emergenti e nei Paesi a medio reddito, dovrebbe essere amplificato dai funzionari americani e rafforzato attraverso partnership con Washington.

Una governance globale più inclusiva richiede anche che Washington prenda in considerazione i potenziali compromessi con la crescita delle economie e delle forze armate di altri Paesi rispetto a quelle degli Stati Uniti. Nel breve termine, ad esempio, una più chiara delimitazione dei limiti della politica sanzionatoria statunitense potrebbe contribuire a rallentare lo slancio di Pechino verso la de-dollarizzazione. Ma Washington dovrebbe usare questo tempo per valutare la sostenibilità del dominio del dollaro nel lungo periodo e considerare quali misure, se del caso, i funzionari statunitensi dovrebbero adottare per cercare di preservarlo. La visione di Washington potrebbe anche dover incorporare riforme dell’attuale sistema di alleanze. La dura realtà della crescente abilità militare della Cina e il suo sostegno economico alla Russia durante la guerra di quest’ultima contro l’Ucraina rendono evidente che Washington e i suoi alleati devono ripensare alle strutture di sicurezza necessarie per gestire un mondo in cui Pechino e i suoi partner affini operano come alleati militari soft e potenzialmente hard.

La Cina ha ragione: il sistema internazionale ha bisogno di riforme.

Come la Cina, gli Stati Uniti devono spendere di più per le fondamenta della loro competitività e della loro sicurezza nazionale per avere successo a lungo termine. Sebbene le politiche difensive siano spesso necessarie, esse garantiscono solo protezioni a breve termine. Ciò significa che Washington deve dotarsi di personale all’altezza dell’apparato di politica estera di Pechino. Circa 30 ambasciate e missioni statunitensi non hanno un ambasciatore americano in carica; ognuno di questi posti deve essere occupato. Gli Stati Uniti hanno fatto i primi passi per migliorare la loro competitività economica con programmi come l’Inflation Reduction Act e il CHIPS and Science Act, ma hanno bisogno di investimenti sostenuti nella ricerca e nello sviluppo e nella produzione avanzata. Deve anche adottare politiche di immigrazione che attraggano e trattengano i migliori talenti da tutto il mondo. E Washington deve riprendere a investire nelle fondamenta delle sue capacità militari a lungo termine e nella modernizzazione. Senza un sostegno bipartisan agli elementi di base della competitività e della leadership globale americana, Pechino continuerà a fare progressi nel cambiare l’ordine globale.

Infine, per evitare inutili attriti, gli Stati Uniti dovrebbero continuare a stabilizzare le relazioni USA-Cina definendo nuove aree di cooperazione, espandendo l’impegno della società civile, smorzando l’inutile retorica ostile, gestendo strategicamente la propria politica su Taiwan e sviluppando un messaggio chiaro sugli strumenti economici utilizzati per proteggere la sicurezza economica e nazionale degli Stati Uniti. Ciò consentirà agli Stati Uniti di mantenere le relazioni con coloro che in Cina sono preoccupati per l’attuale traiettoria del Paese e darà a Washington lo spazio per concentrarsi sullo sviluppo delle proprie capacità economiche e militari, portando avanti la propria visione globale.

La Cina ha ragione: il sistema internazionale ha bisogno di una riforma. Ma le fondamenta di tale riforma si trovano al meglio nell’apertura, nella trasparenza, nello Stato di diritto e nella responsabilità ufficiale che sono i tratti distintivi delle democrazie di mercato del mondo. L’innovazione e la creatività globali necessarie per risolvere le sfide del mondo prosperano meglio nelle società aperte. La trasparenza, lo Stato di diritto e la responsabilità ufficiale sono alla base di una crescita economica globale sana e sostenuta. E l’attuale sistema di alleanze, sebbene insufficiente a garantire la pace e la sicurezza globale, ha contribuito a evitare che scoppiasse una guerra tra le grandi potenze mondiali per oltre 70 anni. La Cina non è ancora riuscita a convincere la maggioranza della popolazione del pianeta che le sue intenzioni e capacità sono quelle necessarie per plasmare il XXI secolo. Ma spetta agli Stati Uniti e ai loro alleati e partner creare un’alternativa affermativa e convincente.

  • ELIZABETH ECONOMY è Senior Fellow presso la Hoover Institution dell’Università di Stanford. Dal 2021 al 2023 è stata consigliere senior per la Cina presso il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti. È autrice di The World According to China.
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Russia Ucraina, il conflitto! 58a puntata Segni di sbandamento Con Max Bonelli

La pressione delle forze militari russe non è più occasionale e localizzata. Sono numerosi i punti del fronte sul quale l’esercito ucraino non solo arretra, ma si rivela incapace di ribattere o, quantomeno, di organizzare una difesa dinamica. Il regime ucraino è chiaramente la prima vittima della propria narrazione; le seconde sono i paesi europei che si sono accodati alle scelte statunitensi ciniche ed avventuriste. Due anni di conflitto mostrano i segni evidenti di logoramento ed esaurimento delle forze ucraine e i limiti della potenza statunitense, pur con tutta la consorteria al seguito. Nella foto di copertina Paul Massaro, appena nominato Direttore delle Risorse Umane della Commissione di Helsinki. La Commissione Helsinki degli Stati Uniti monitora i diritti umani e la cooperazione internazionale in 57 paesi. Il distintivo esibito sulla giacca vale più di tante parole.

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Punti fondamentali del conflitto sionista israelo-arabo-palestinese, di Vladislav B. Sotirović

Punti fondamentali del conflitto sionista israelo-arabo-palestinese

Di che cosa si tratta?

Il conflitto sionista israelo-arabo-palestinese è oggi uno dei problemi di sicurezza globale più importanti da affrontare, se non il più importante. Tuttavia, questo conflitto non è storicamente molto antico: è una questione piuttosto moderna, che risale, infatti, al Primo Congresso Sionista del 1897. La domanda centrale è: che cos’è il conflitto? In altre parole: Per cosa combattono i due diversi gruppi?

A prima vista, si può capire che dietro le ragioni del conflitto c’è una confessione, poiché questi due popoli sono di confessioni diverse: gli ebrei sono prevalentemente giudaici, mentre la confessione palestinese predominante è l’Islam, ma comprende anche cristiani e drusi. Tuttavia, le ovvie differenze religiose non sono la causa fondamentale della lotta. In realtà, il conflitto è iniziato un secolo fa e continua ad essere una lotta per la terra.

La Palestina, la terra rivendicata da entrambe le parti, era conosciuta con questo termine nelle relazioni internazionali (IR) dal 1918 al 1948. Inoltre, lo stesso termine è stato applicato dall’Islam, dal Cristianesimo e dall’Ebraismo per designare la Terra Santa. Tuttavia, a seguito delle guerre dal 1948 al 1967 tra gli arabi e Israele, questa terra (circa 10.000 miglia quadrate) è diventata oggi divisa in tre parti: 1) Israele; 2) la Cisgiordania e la Striscia di Gaza.

Tuttavia, entrambi i gruppi hanno un background diverso nel rivendicare questa terra per sé:

1. Le rivendicazioni ebraiche sioniste sulla Palestina si fondano sulla promessa biblica ad Abramo e a tutti i suoi discendenti. Le basi storiche di tali rivendicazioni si fondano sul fatto che sul territorio della Palestina sono stati stabiliti gli antichi regni degli ebrei: Israele e Giudea. Dal punto di vista politico, questa rivendicazione storica è sostenuta dalla necessità degli ebrei di avere uno Stato-nazione per liberarsi dall’antisemitismo europeo, soprattutto dopo l’olocausto della Seconda guerra mondiale.

2. Gli arabi palestinesi rivendicano la stessa terra sulla base del fatto che vivono in Palestina da centinaia di anni e che erano la maggioranza demografica fino al 1948. Inoltre, essi rifiutano la nozione confessionale-ideologica degli ebrei sionisti, secondo cui i regni ebraici basati sull’Antico Testamento possono costituire un fondamento razionale e morale/scientifico da utilizzare per una rivendicazione moderna accettabile, soprattutto tenendo conto del fatto che gli ebrei lasciarono la Palestina dopo l’occupazione dell’Impero romano nel I secolo d.C. (per 2000 anni!). Tuttavia, gli arabi palestinesi utilizzano anche gli argomenti della Bibbia e, quindi, sostengono che il figlio di Abramo, Ismaele, è il capostipite degli arabi e che Dio ha promesso la Terra Santa a tutti i figli di Abramo, il che significa semplicemente anche agli arabi (gli arabi sono semiti come gli ebrei). Ma la questione cruciale dal punto di vista degli arabi palestinesi è che essi non possono dimenticare la Palestina come una questione di compensazione per l’olocausto contro gli ebrei commesso in Europa (al quale gli arabi palestinesi non hanno partecipato affatto).

I palestinesi e la diaspora

Il termine palestinese, dal punto di vista storico-politico, si riferisce oggi a quei popoli della Palestina le cui radici storiche sono riconducibili a questa terra, così come definita dai confini del Mandato britannico, e cioè agli arabi di confessione cristiana, musulmana o drusa. Si stima che oggi circa 5,6 milioni di palestinesi vivano all’interno dei confini della Palestina del Mandato Britannico, oggi divisa in tre parti: 1) lo Stato di Israele sionista; 2) il territorio della Cisgiordania; 3) la Striscia di Gaza. Gli ultimi due sono stati occupati da Israele durante la Guerra dei Sei Giorni del 1967. Si afferma inoltre che oggi circa 1,5 milioni di palestinesi vivono come cittadini di Israele. Pertanto, i palestinesi costituiscono circa il 20% della popolazione israeliana. Inoltre, circa 2,6 milioni di palestinesi vivono in Cisgiordania, di cui 200.000 a Gerusalemme Est, e circa 1,6 milioni nella Striscia di Gaza (almeno prima dell’attuale genocidio israeliano sui gazani, iniziato nell’ottobre 2023). Tuttavia, sono circa 5,6 milioni i palestinesi che vivono nella diaspora, al di fuori della Palestina, principalmente in Libano, Siria e Giordania.

Tra tutti i gruppi della diaspora palestinese, il più numeroso (circa 2,7 milioni) vive in Giordania (senza considerare il territorio della Cisgiordania che legalmente apparteneva al Regno di Giordania). Molti di loro vivono ancora nei campi profughi istituiti nel 1949, mentre altri sono diventati abitanti delle città. Alcuni rifugiati palestinesi si sono rifugiati in Arabia Saudita o in altri Stati arabi del Golfo, mentre altri si sono trasferiti in altri Paesi del Medio Oriente o nel resto del mondo. Tra tutti gli Stati arabi, solo la Giordania concesse la cittadinanza ai palestinesi che vivevano lì. Questo è diventato, tuttavia, il motivo formale per alcuni ebrei sionisti di sostenere che la Giordania è, di fatto, già uno Stato nazionale dei palestinesi e, quindi, non c’è alcun bisogno di creare uno Stato indipendente di Palestina. D’altra parte, però, molti palestinesi sostengono che gli Stati Uniti sono, fondamentalmente, lo Stato nazionale degli ebrei e, di conseguenza, Israele in Medio Oriente non ha bisogno di esistere (come secondo Stato nazionale degli ebrei).

Tuttavia, la situazione dei rifugiati palestinesi nel Sud del Libano è particolarmente disastrosa, poiché molti libanesi li incolpano della guerra civile che ha rovinato il Paese nel 1975-1991 e, pertanto, chiedono che tutti i palestinesi libanesi siano reinsediati altrove come condizione preliminare per ristabilire la pace nel Paese. Soprattutto i cristiani libanesi sono molto ansiosi di liberare il Paese dai palestinesi musulmani, poiché temono che i palestinesi stiano minando l’equilibrio religioso del Libano.

Palestinesi israeliani

Quando Israele fu proclamato Stato indipendente nel maggio del 1948, all’interno dei suoi confini c’erano solo 150.000 arabi palestinesi. Da un lato, a tutti loro fu concessa la cittadinanza israeliana, cioè automaticamente e con diritto di voto. Tuttavia, dall’altro lato, essi sono stati de facto cittadini di seconda classe (cioè la minoranza etnica e confessionale) proprio per il motivo che Israele è stato ufficialmente definito come Stato ebraico e Stato del popolo ebraico. Gli arabi palestinesi non sono gli ebrei (anche se entrambi sono semiti). La maggior parte dei palestinesi israeliani è stata sottoposta, prima della guerra arabo-israeliana del 1967, all’autorità militare che ha limitato la loro libertà di movimento e altri diritti civili come il lavoro, la libertà di parola, l’associazione, ecc. I palestinesi non potevano essere membri a pieno titolo della federazione sindacale israeliana (l’Histadrut) fino al 1965. Tuttavia, il problema principale era che lo Stato di Israele confiscò circa il 40% della terra palestinese per utilizzarla in progetti di sviluppo. Tuttavia, dalla maggior parte dei progetti di sviluppo dello Stato hanno tratto vantaggio soprattutto gli ebrei israeliani, ma non i palestinesi arabi israeliani.

Una delle rivendicazioni fondamentali degli arabi palestinesi in Israele è che tutte le autorità israeliane li discriminano sistematicamente, assegnando pochissime risorse per l’assistenza sanitaria, l’istruzione, i lavori pubblici, lo sviluppo economico o le risorse per le autorità governative municipali alle terre popolate da arabi. Un’altra affermazione generale è che i palestinesi israeliani sono sistematicamente discriminati anche per il diritto di preservare e sviluppare la loro identità culturale, nazionale e politica. Di fatto, fino al 1967 i palestinesi israeliani sono stati totalmente isolati dal mondo arabo, ma anche molto considerati dagli altri arabi come traditori che hanno lasciato per vivere nell’oppressivo Stato sionista anti-arabo di Israele. Tuttavia, dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967, la maggioranza dei palestinesi israeliani è diventata più sicura di sé nella propria identità nazionale arabo-palestinese, soprattutto negli ultimi 20 anni, quando le autorità israeliane sioniste hanno proibito di commemorare la Nakba, ovvero l’espulsione o la fuga di almeno 500.000 arabi palestinesi nel 1948-1949 durante la prima guerra arabo-israeliana.

Dr. Vladislav B. Sotirović
Ex professore universitario
Vilnius, Lituania
Ricercatore presso il Centro di Studi Geostrategici
Belgrado, Serbia
www.geostrategy.rs
sotirovic1967@gmail.com
© Vladislav B. Sotirović 2024
Disclaimer personale: l’autore scrive per questa pubblicazione a titolo privato e non rappresenta nessuno o nessuna organizzazione, se non le sue opinioni personali. Nulla di quanto scritto dall’autore deve essere confuso con le opinioni editoriali o le posizioni ufficiali di altri media o istituzioni.

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25 APRILE: OGGI MENO CHE MAI, di Daniele Lanza

[parte prima: il buco nero*]
“ C’era una volta il Regno d’Italia. Sotto direzione di sua eccellenza il duce (che praticamente gioca a poker col destino di tutta la nazione) si imbarca in una guerra mondiale, conducendola assai modestamente per 3 anni. A metà del conflitto in corso, quando si presagisce la catastrofe imminente, la monarchia tenta furbamente di negoziare un’uscita onorevole dal conflitto – idealmente passando tra le schiere alleate ora vincenti (come cambiare squadra a metà della partita quando capisci chi vincerà): purtroppo però, gli angloamericani non sono integralmente rincretiniti e rigettano compromessi picareschi suggeriti (sorvoliamo ogni dettaglio) e impongono ciò che è naturale nella prospettiva di un vincitore: una RESA INCONDIZIONATA (con libertà da parte italiana di denominarla “armistizio” per motivi di immagine…). Nemmeno l’alto comando germanico è rincretinito purtroppo: ci si accorge molto per tempo delle manovre machiavelliche italiane, al punto che nel giro di 72 ore (tre giorni) dopo l’annuncio radio dell’armistizio hanno occupato metà della penisola e raccolto 1 milione di prigionieri, in blocco, quasi senza combattere. Come a dire, gli italiani cercano di raggirare sia nemici che alleati, ma non gli riesce per nulla nè con uno nè con l’altro.
STOP.
Come vedete ce l’abbiamo fatta: in 1 minuto di lettura siamo arrivati all’ 8 SETTEMBRE
Si parte da qui e non dal 25 aprile: l’armistizio è la matrice di tutto ciò che sarà e di tutto ciò che è stato (perchè la storia verrà riletta retroattivamente sulla base dei valori di cosa viene dopo tale data). Il prologo, il “MATRIX” della società italiana contemporanea.
Da quella sera in cui le trasmissioni radio dell’EIAR riportano a tutta la penisola il comunicato di Badoglio siamo di fronte a un BUCO NERO, un corridoio buio pervaso da una cacofonia assordante, un labirinto ingannevole per ogni singola anima coinvolta.
La società italiana, tutta assieme, transita in questo buco nero per circa 20 mesi, riemergendone soltanto alla conclusione formale del conflitto.
Un risveglio amaro, indescrivibile, colmo di macerie materiali e morali che impone una ridefinizione dell’identità collettiva, ovvero qualcosa di meno eroico e più umile rispetto all’immagine conquistatrice del regno d’Italia a direzione fascista (e abbiamo la repubblica democratica che ben conosciamo). Il problema è che anche in questa forma più “sobria” lo stato ha BISOGNO di eroi, di ricorrenze di patriottismo: qualsiasi stato ne ha bisogno, per darsi un fondamento dignitoso, fiero.
Certo che il caso nostrano nel 1945 è qualcosa di complicato assai come si può intuire: cosa ci sarebbe esattamente da celebrare ?! Una guerra mondiale condotta in modo imbarazzante e perduta in modo eclatante ? Il biennio di zona grigia che ne segue, degenerato in guerra civile ?
Un bel rebus. Altro non si può fare che risolverlo radicalmente e trasformare una sconfitta in una vittoria agli occhi della società che si andrà a governare.
Il triennio di imbarazzante guerra mussoliniana chiaramente non è celebrabile, e men che meno l’8 settembre (che è la fine del fascismo sì, ma è anche una sconfitta nazionale), quindi per forza di cose occorre concentrarsi sul biennio successivo e trovarvi qualcosa di “luminoso” che unisca in qualche modo gli animi, in un’istante – anche fugace – di memoria condivisa che sorvoli le centinaia fi migliaia di repubblichini e lo spartiacque all’interno della resistenza (bianchi, rossi, azzurri, verdi, gialli ed altro).
Beh, un solo momento può aver generato un respiro di sollievo in quasi tutti: quando si annuncia che la guerra sul suolo italiana è finita. Abbiamo il 25 APRILE pertanto. Questa data segna il termine del buco nero di cui parliamo: l’8 settembre e il 25 aprile sarebbero l’Alfa e l’Omega di un determinato percorso a rigore di logica.
Ecco, giusto il “rigore della logica” impone di fare alcune precisazioni al riguardo.
Nota preliminare: la ricorrenza in questione ad analizzarla con maggiore scrupolo, mostra una caratteristica singolare, nel senso che indica la FINE di qualcosa anzichè l’affermarsi di qualcosa (…).
Indica la fine delle zona grigia in cui si transitava da 20 mesi, la consolatoria sensazione che si prova alla fine di un incubo, sì: un “successo” dal carattere passivo – per così esprimersi – che non ha esattamente a vedere con un’oggettiva vittoria sul campo da parte degli italiani medesimi (il cui territorio è liberato dalle forze angloamericane che lo percorrono), anche se la retorica patriottica da allora in avanti imporrà una narrativa che sostiene l’esatto opposto.
L’elemento italiano, nel dato frangente storico – considerato nella sua totalità – sembra più una comparsa sul palcoscenico, una figura di contorno nel contesto di quel confronto finale feroce tra I due veri protagonisti del dramma (l’occidente anglosferico da un lato e l’Imperium continentale germanico dall’altro) cui capita di collidere l’uno contro l’altro proprio sul territorio della penisola, coinvolgendone indirettamente suoi abitanti che si trovano così coinvolti in un gioco più grande di loro e si agitano come tragici figuranti sullo sfondo: l’elemento italiano – per secolare esperienza – fa quello che può, si industria per sopravvivere, si batte, si dispera, ama e odia tutto ciò che si vuole, ma sul piano reale (scevro di retorica) non determina che poco del proprio destino futuro, che è in mano di forze superiori ad esso.
Nessuno può umanamente negare gli atti di valore, di generosità, di dignità che costellano la zona grigia dell’Italia nel 43-45, ma (mi rammarica molto ribadirlo) la realtà materiale fu tutta un’altra.
Una realtà dura questa, molto problematica, in quanto in esatta antitesi con quanto invece si pretende di affermare istituzionalmente con il 25 aprile: “Un popolo – gli italiani – che determina il proprio destino”. Il fulcro necessario, la condicio sine qua non di una qualsiasi narrazione patriottica in qualsiasi paese del mondo ha a che fare con l’autodeterminazione……….quella scintilla di volontarietà che distingue il servo dall’uomo libero.
Eppure – tragicamente – il nodo insolubile si colloca proprio qui: il popolo italiano non si è “liberato”. Non da solo almeno. Non si è liberato nel ventennio 1922-1943, non ha protestato negli anni della guerra, non si è liberato nemmeno nel tragico biennio 43-45, ma piuttosto è stato liberato (c’è una bella differenza) dalle forze alleate che strapparono la penisola al padrone precedente, armato di svastica.
Il popolo italiano “partecipa” attivamente sì, ma ad un processo di liberazione condotto da terzi, cioè da una potenza che ne sta INVADENDO il territorio, collocandolo nella propria sfera di influenza evitando che nazisti prima (o sovietici dopo) lo facciano. Un’influenza che difenderà a conserverà sino ai nostri giorni come si può osservare.
“Partecipazione” quella italiana, la cui natura si presterebbe a tante osservazioni: partecipazione….a favore di chi ? Tanti stavano coi repubblichini. E tra gli stessi resistenti la metà militava sotto la falce e il martello (che negli anni 40 non era quella di Berlinguer, ma quella di Stalin). Quale tipo di democrazia la società italiana ha realmente sostenuto ? Quale memoria condivisa ?
La memoria condivisa non è mai esistita: quanto si è ragginuto alla fine delle ostilità è stata una “tregua democratica” per evitare il collasso totale. Senza intervento esterno non ci sarebbe stato alcun vincitore (e l’intervento esterno non è certo stato effettuato con il beneficio degli italiani come obiettivo). Questo fa del biennio 43-45 più un ENIGMA identitario che non una pagina di storia celebrativa.
25 APRILE: OGGI MENO CHE MAI.
[parte seconda: la facciata*]
Secondo punto.
Nel capitolo precedente si è rievocato mestamente l’8 settembre, ma la retorica recita:” Se la patria muore l’8 settembre, rinasce poi il 25 aprile”.
Nella logica dell’ALFA ed OMEGA, si vorrebbe il 25 aprile come un nuovo inizio, come la conclusione di un tormentato processo di palingenesi di una società differente da quella precedente:
Sarebbe bello credervi, sarebbe consolatorio.
La realtà invece è che la data in questione, malgrado la carica consolatoria che porta in sè, non cessa comunque di essere figlia di una antecedente, ossia di quella catastrofe che fu l’8 settembre. Il 25 aprile può rivestire un valore simbolico per l’opinione pubblica interna (sorvoliamo pure le critiche di principio sollevate nel capitolo avanti), ma NON cambia assolutamente gli equilibri geopolitici che si sono affermati l’8 settembre: in parole altre la società italiana è libera di celebrare la propria libertà sul piano interno, la caduta del fascismo la ritrovata democrazia dei partiti e tutto il resto……….fermo restando che sul piano INTERNAZIONALE della politica estera, lo stato italiano è azzerato. Ha perduto (ceduto) quella parte della propria sovranità permanentemente, come usualmente accade dopo le sconfitte totali.
Morale: le istituzioni del dopoguerra, non potendo dotare il nuovo stato italiano di una sovrastruttura identitaria eroica, fatta di imperi e condottieri, non potendo sugellare tutto questo in una memorabile vittoria storica sul campo…..scelsero tutto quello che gli rimaneva sul momento, ovvero la data di fine dell ostilità sul territorio italiano, momento consolatorio per l’intera società o quasi.
Per riformulare con altre parole: nel voler dare agli italiani una data di riferimento per l’orgoglio nazionale, ma non potendo rifarsi ad un successo geopolitico materiale (che ovviamente non esisteva al termine di una guerra mondiale perduta), si fornì al posto di quest’ultimo l’euforia consolatoria affermatasi nella memoria collettiva verso la FINE del conflitto, negli ultimi giorni dello stesso. Come dire che giocoforza si è passati dalla celebrazione di un’oggettiva vittoria sul campo, alla celebrazione di uno stato d’animo (?!) diffuso nella società (il 25 aprile è questo), adeguatamente arricchito di una sovrastruttura atta ad enfatizzare il ruolo attivo dell’elemento italiano in modo che non passi da spettatore passivo degli eventi che si fa “liberare” da altri o nemmeno che sia “eroe per caso” coinvolto – sempre suo malgrado in cose più grandi di lui (…).
Questa mitologia patriottica nazionale post-fascismo volontariamente o meno traghetta l’intera Italia e la sua società in un equivoco semantico di grandi e gravi proporzioni…..
Il 25 APRILE si celebra una “vittoria” (se vogliamo considerarla tale), che però non fuoriesce dai margini della precedente sconfitta (8 settembre) che si colloca su un ordine di grandezza maggiore (leggere bene, questa è la chiave di tutto): gli equilibri geopolitici affermati dall’armistizio rimangono INALTERATI, a prescindere da cosa le istituzioni italiane democratiche decidono di celebrare. Il 25 aprile è quindi un evento che necessariamente si colloca entro I margini dello schema geopolitico angloamericano (successivamente “Atlantico”) senza alcun margine di autonomia: una data celebrativa ad uso e consumo esclusivamente INTERNO, una soddisfazione esclusivamente morale che nessun peso riveste nei reali rapporti di forza geopolitici che costituiscono la realtà internazionale.
Come dire “Lo stato italiano può comportarsi come vuole in politica interna e fare la celebrazioni che vuole: in materia estera tuttavia è e resta un satellite”.
Questa è la libertà “atlantica” che il biennio 43-45 ha portato alla penisola.
Da qui in avanti, tutto alla coscienza di chi legge (di seguito le varianti):
1 – coloro che criticheranno radicalmente ogni affermazione di questi interventi, scegliendo di continuare ad identificarsi nella retorica convenzionale con cui sono cresciuti.
2 – coloro che in fondo comprendono la realtà delle cose (senza dirlo ad alta voce) ma ai quali in fondo va bene così poiché si identificano con l’occidente atlantico e non auspicano ad altri sistemi, accettando anche l’assenza di sovranità italiana.
3 – coloro che ammettono la perdita di sovranità geopolitica, ma che in fondo non gli importa, che lo considerano un male necessario o in fondo un bene per punire l’Italia del passato imperialista.
4 – coloro che si identificheranno in quanto scrivo, ma con fondato timore di essere poi considerati fascisti ed altro a causa del non ossequio alla religione civile.
Si potrebbe continuare a lungo ma scelgo invece di fermarmi qui (…).
Da molti anni mi esprimo in merito al 25 aprile – da 100 angolature differenti – alle volte con più energia, altre con noia ed altre ancora non lo faccio proprio. Chi mi segue da sempre sa come la penso, pertanto se scrivo ancora qualcosa è per gli tutti gli altri, ma a anche così a questo punto non serve proseguire: chi voleva davvero comprendere l’ha fatto……..altrimenti non ha senso continuare.
Io NON celebro il 25 aprile.
Non nel senso di esserne CONTRO, collocandomi quindi con quelle che lo avversano da sempre (neofascisti), ma in un senso assai più radicale: io ne sono ontologicamente FUORI. Il 25 aprile non è una vittoria, ma una conseguenza di un danno di magnitudo maggiore avvenuto anteriormente (8 settembre). Chiunque fosse uscito “vincitore” da quel 25 aprile non lo sarebbe stato che di facciata: se avessero prevalso I repubblichini l’Italia sarebbe stata un satellite nazista di Berlino. Se avessero vinto gli angloamericani, sarebbe diventata una base atlantica nel Mediterraneo (è andata in porto questa variante). Non esiste una variante alternativa dove l’interesse italiano (indipendente) si afferma…….ma questo forse – se si vuole scavare ancora più in profondità – è una problematica le cui radici risalgono a molto prima e che vedono al centro una profondissima debolezza della politogenesi e dell’identità collettiva italiana di fondo: quella debolezza che nasce da un’imperfetta unità raggiunta nel secolo ancora precedente, che da vita ad un’identità ricca di ambizioni, ma fragile nel suo insieme, una grande FACCIATA incorniciata dell’azzurro dei Savoia (per I quali era la maggiore creazione) che permise ad un dittatore carnevalesco dalla mascella squadrata di inquadrarla per 20 anni (costruendo sulla superficie di tale facciata – insufficiente a gestire l’era dei movimenti di massa – un’ulteriore facciata sovrapposta ad essa, in camicia nera). Discorsi lunghi e già fatti da gente infinitamente più importante di me.
CONCLUSIONE: la matrice ATLANTICA di cui è intrisa l’identità italiana post-bellica, la simbiosi che si attua dal dopoguerra ad oggi percorrendo tre generazioni ormai, non è in grado di rappresentare la visione del mondo di cui sono portatore. D’altro canto ho un’altra cittadinanza adesso, che mi permette, moralmente, di vedere I fatti da una distanza che rende il tutto più nitido.
I gravi eventi geopolitici che stanno ridefinendo gli equilibri del mondo in questi anni, ne sono il banco di prova: lo stato italiano di fronte all’eventualità di un confronto NUCLEARE non ha nemmeno la possibilità di tirarsene fuori (non dico andare contro Washington, no, ma nemmeno di essere neutrale, come qualsiasi stato libero potrebbe fare. Il diritto di BASE di una sovranità geopolitica: la libertà di non essere trascinati a combattere in conflitti altrui).
Tutti I nodi vengono al pettine e quelli di 80 anni fa ce li troviamo davanti adesso: I nostri “liberatori” dell’era nazifascista, esigono ancora adesso, a molti decenni di distanza una fedeltà che contrappone lo stato italiano a “nemici” che non sarebbero tali in altre circostanze: I nemici geopolitici dell’anglosfera (USA/UK) sono diventati per meccanismo obbligato anche nemici dell’Italia. E pazienza finchè erano stati del terzo mondo, pazienza (ma già un po meno) sinchè erano gruppi terroristici……….ma ora si è passati anche alle maggiori potenze nucleari e convenzionali sul pianeta (Mosca e Pechino).
Sì, il 25 APRILE è attuale, attualissimo, nel senso che il passato – la sua eredità – ce la ritroviamo davanti agli occhi oggi, in tutta la sua pericolosità.
Come ogni anno auguro ad ognuno che mi segue dalla penisola, un buon 25 aprile: vi posso comprendere pur rimanendo delle mie opinioni. Mi auguro soltanto che ci si renda conto di cosa realmente significa e dove ci porta.
Andiamo oltre le facciate, ma proprio TUTTE: superata quella azzimata della monarchia, quella in camicia nera di Mussolini…..anche quella dell’indipendenza della repubblica democratica (incorniciata del blu atlantico) lo è, purtroppo.
Che coloro che vi liberarono dal nazifascismo facendo finire la seconda guerra mondiale…..non vi trascinino – 80 anni dopo – nella terza.
Il migliore augurio, di più non posso fare.
G. Meloni : “LA FINE DEL FASCISMO POSE LE BASI DELLA DEMOCRAZIA”.
Certamente.
Vi erano milioni di iscritti al partito nazionale fascista e poi -a guerra finita – vi furono milioni di tranquilli democratici (in molti casi i dati anagrafici coincidevano).
La democrazia a sua volta ha posto le basi per la fine del pianeta complice confronto nucleare globale.
Giorgia, mi domando quanti “ferventi democratici” come te vi siano in parlamento.
Della costituzione più bella del mondo non parlo perchè non sono ancora pronto per una denuncia per vilipendio (tuttavia sarebbe un’idea).
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Stati Uniti! La coperta troppo corta di un impero Con Gianfranco Campa

La leadership statunitense dominante inizia a presagire che la coperta di cui dispone non è sufficiente a coprire l’attuale impero. Una crisi, quindi, da sovraestensione cui porre in qualche maniera rimedio. I dilemmi da risolvere sono drammatici. Si tratta di consolidare con polso ferreo il controllo sull’area accessibile del proprio impero sul quale esercitare egemonia diretta ed estrazione spietata di risorse; il capro espiatorio designato è, a questo punto, l’Europa con la piena accondiscendenza delle sue élites. Si tratta di ridurre e concordare con i nuovi contendenti nell’agone internazionale, in primo luogo la Cina, le dinamiche di una globalizzazione dalla quale la formazione sociale degli Stati Uniti non può prescindere in tempi storicamente ragionevoli, pena il collasso interno, ma dalla quale anche la Cina potrebbe subire sconquassi traumatici in caso di collasso della intera rete costruita in questi ultimi decenni. La recente intervista alla Segretaria all’economia Raimondo, recentemente pubblicata, dietro la maschera dell’oltranzismo parossistico, cerca di delimitare, appunto, i confini di questo scontro http://italiaeilmondo.com/2024/04/23/cina-stati-uniti-capire-la-dottrina-raimondo-di-alessandro-aresu/ , in verità troppo ristretti per l’attuale leadership cinese. Un nodo gordiano quasi impossibile da sciogliere e del quale sembra approfittare sul piano dei consensi popolari Donald Trump parallelamente però al crescere della stretta soffocante della piovra tentacolare dei centri di potere che cercherà di soffocarlo presto o tardi. Nel frattempo sia in Europa, il polacco Duda oltre allo scontato Orban, che il leader liberale in Giappone, figure politiche inaspettate sembrano cogliere il vento che spira oltreatlantico. Opportunismo e trasformismo di chi? Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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SITREP 27/04/24: Gli Stati Uniti ammettono i principali fallimenti legati alle armi della superiore guerra elettronica russa, di SIMPLICIUS

Un aggiornamento relativamente sparso oggi più come un pezzo di riempimento e un’aggiunta all’ultimo SitRep per il quale ci sono stati alcuni interessanti aggiornamenti di attualità.

In primo luogo, l’ultima volta ho postato il capo del supporto di ricognizione aerea dell’Ucraina, Maria Berlinskaya, affermando come i sistemi occidentali in Ucraina si siano rivelati inutili a causa del potere dell’EW russo. In effetti, lo pubblicherò di nuovo solo per averlo tutto sotto lo stesso tetto per coloro che non hanno letto il precedente SitRep, e perché penso che questo particolare thread sia così importante:

Bene, ora abbiamo la conferma di altissimo livello di quanto sopra da parte di un vero funzionario statunitense. Il sottosegretario alla Difesa per l’acquisizione e il sostegno, William Laplante, ha appena lanciato un’importante notizia bomba che dovrebbe offuscare ogni speranza di grandi trionfi dell’ATACMS, come tanti attendono con vano vuoto:

Esatto: in un panel per il Centro per gli studi strategici e internazionali , Laplante ha ammesso apertamente che i tanto pubblicizzati GLSDB si sono rivelati un miserabile fallimento a causa degli ambienti di disturbo russi. Alcuni hanno giustamente proposto che ciò sia dovuto al fatto che una bomba planante SDB è piuttosto lenta una volta staccata dal razzo booster HIMARS. E quindi, mentre rallenta mentre plana verso il bersaglio, deve sorvolare molto spazio aereo conteso EW che gradualmente degrada la sua correzione di rotta GPS sempre di più finché il suo targeting non è lontano nel momento in cui raggiunge il bersaglio reale.

Una spiegazione tecnica dettagliata è stata fornita dal canale Telegram di The Right People Z:

È stato confermato che le antenne dei moduli di correzione GPS integrati nei sistemi di guida e controllo dei missili guidati GLSDB ibridi GBU-39/B da 227 mm hanno una bassa immunità alle interferenze. Lo ha ricordato ancora una volta il sottosegretario americano alla Difesa per gli Acquisizioni e le Forniture Bill LaPlante durante la conferenza del Centro statunitense per gli studi strategici e internazionali (CSIS).

È ovvio che il ricevitore GPS presentato dalla Boeing Corporation come GPS anti-jam ha perso completamente la sua efficacia nella difficile situazione di jam nello spazio aereo sopra il Donbass.

Nonostante la posizione orientata verso l’alto di questi moduli antenna, i complessi EW “Zhitel” (“Житель”), “Field-21” (“Поле-21”) e “Serp-VS5” (“Серп-ВС5”) sopprimono facilmente il loro canale di ricezione, il che porta ad un aumento della probabile deviazione circolare delle bombe GBU-39/B da 1,5 – 3 a diverse decine di metri, riducendo la loro efficacia a livelli inaccettabili.

Al contrario, le antenne GLONASS/GPS domestiche “Kometa-A/M/R8” (“Комета-А/М/Р8”) sono in grado di resistere alle interferenze della maggior parte dei mezzi EW nemici che operano nella banda L.

Ciò ha una serie di implicazioni molto importanti, poiché si tratta di una delle principali armi d’attacco aria-terra della NATO e, a causa del suo utilizzo in Ucraina, è diventata inefficace, il che farà il suo uso futuro contro rivali come Cina o Iran e ancora più attori locali inefficaci.

Altri sistemi d’arma non solo volano più velocemente e trascorrono meno tempo sotto l’influenza dell’EW, ma hanno anche altre ridondanze di mira che mancano ai sistemi semplificati come GLSDB e JDAM-ER. Ad esempio, sistemi più sofisticati come i missili da crociera (Storm Shadow, Kh-101, ecc.) o anche alcuni missili balistici come i ROCKS (Sparrow) recentemente utilizzati da Israele o gli Iskander russi hanno una guida terminale optoelettrica sotto forma di DSMAC (Digital Scene -matching Area Correlator) che consentono loro di visualizzare il bersaglio con una telecamera e abbinarlo a un’immagine pre-programmata per correggere la rotta. Ciò significa che anche se il GPS è bloccato, potrebbero comunque colpire con precisione il bersaglio grazie a quella che è effettivamente una modalità di guida visiva dell’IA. Ma questi sistemi sono estremamente sofisticati e costosi, e il punto centrale del GLSDB era che veniva pubblicizzato come un’alternativa economica, utilizzando vecchie scorte di bombe SDB super economiche montate sui booster HIMARS.

Questo è probabilmente lo stesso motivo per cui i JDAM-ER si sono rivelati un triste fallimento, poiché funzionano in modo quasi identico agli SDB plananti e sono già noti da tempo per essere altamente suscettibili all’EW da parte del Pentagono americano, anche molto prima della guerra in Ucraina.

Ma è qui che l’industria della difesa russa ha dimostrato al tempo stesso la sua ingegnosità e resiliente adattabilità: mentre le bombe plananti russe dell’UMPK in teoria soffrirebbero dello stesso identico problema, e probabilmente lo hanno fatto , il che spiegherebbe alcuni dei primi rapporti sulla loro “inesattezza” da parte di Dal lato ucraino, gli ingegneri russi si sono adattati rapidamente. Ricordiamo i miei precedenti rapporti sui nuovi moduli ricetrasmettitori satellitari Kometa-M installati non solo sugli Iskander ma anche sugli UMPK.

Allo stesso modo gli UMPK russi iniziarono con solo 4 o meno ricevitori Kometa, e dopo qualche tempo furono aggiornati a 8, che ora li rendono molto più impermeabili ai segnali EW e quindi molto più accurati, poiché la correzione Glonass/GPS non è così degradata quando si sorvola un Ambiente EMI.

E su questo argomento, abbiamo le ultime novità:

Esatto, l’Ucraina ora ha ufficialmente ritirato dalla linea i suoi Abrams perché si sono rivelati inefficaci. Dall’articolo : 

Il funzionario ha parlato in condizione di anonimato per fornire un aggiornamento sul sostegno americano alle armi all’Ucraina prima della riunione del Gruppo di contatto per la difesa dell’Ucraina di venerdì.

Per ora, i carri armati sono stati spostati dalla prima linea e gli Stati Uniti lavoreranno con gli ucraini per reimpostare le tattiche , hanno detto il vicepresidente dei capi di stato maggiore congiunti, ammiraglio Christopher Grady e un terzo funzionario della difesa che hanno confermato lo spostamento a condizione di anonimato. .

“Quando si pensa al modo in cui si è evoluto il combattimento, i mezzi corazzati ammassati in un ambiente in cui i sistemi aerei senza pilota sono onnipresenti possono essere a rischio”, ha detto Grady all’AP in un’intervista questa settimana, aggiungendo che i carri armati sono ancora importanti.

“Ora c’è un modo per farlo”, ha detto. “Lavoreremo con i nostri partner ucraini e altri partner sul campo, per aiutarli a pensare a come potrebbero usarlo, in quel tipo di ambiente cambiato ora. , dove tutto si vede immediatamente.”

Tutto questo arriva sulla scia di un altro interessante articolo del NYTimes:

Alcuni potrebbero ricordare che in precedenza ho trattato iniziative come il Project Maven del DOD, in articoli come questo .

Ma nel nuovo articolo, David E. Sanger scrive che i risultati di questo sforzo combinato di Google e DARPA per istituire un “back-end” basato sull’intelligenza artificiale per elaborare vaste quantità di dati di sorveglianza del campo di battaglia sono stati in realtà “misti”.

Che ne dici delle ammissioni?

I primi due anni di conflitto hanno anche dimostrato che la Russia si sta adattando, molto più rapidamente del previsto, alla tecnologia che ha dato all’Ucraina un vantaggio iniziale.

E un altro che conferma il precedente snafu di GLSDB:

Nel primo anno di guerra, la Russia utilizzò a malapena le sue capacità di guerra elettronica. Oggi ne ha fatto pieno uso, confondendo le ondate di droni che gli Stati Uniti hanno contribuito a fornire. Persino i temibili missili HIMARS che il presidente Biden si è tormentato per aver donato a Kiev, che avrebbero dovuto fare un’enorme differenza sul campo di battaglia, a volte sono stati mal indirizzati mentre i russi imparavano a interferire con i sistemi di guida.

L’articolo prosegue nominando e descrivendo il cuore fisico di questo “backend” della NATO che descrivo ormai da più di un anno:

Cita l’ex CEO di Google Schmidt come il principale impulso dietro la nuova spinta dell’Ucraina verso i droni IA autonomi che possono cacciare obiettivi umani da soli dopo che il loro segnale è stato interrotto da EW.

Alla fine, però, l’articolo confessa che questi progressi tecnologici non saranno sufficienti per sconfiggere la Russia, che si sta adattando altrettanto rapidamente agli sviluppi del campo di battaglia, ma in realtà ha la produzione manifatturiera in aggiunta a quella che manca all’Ucraina. In breve: entrambe le parti detengono vantaggi chiave asimmetrici rispetto all’altra, ma la Russia si sta avvicinando al vantaggio occidentale del satellite ISR – in particolare della costellazione di satelliti Starlink – mentre l’Ucraina non sta facendo alcun progresso verso la massiccia produzione di munizioni e armature della Russia.

Successivamente, menzioniamo brevemente alcuni degli sviluppi in corso sul campo di battaglia. La situazione nel settore nord-occidentale di Avdeevka continua a peggiorare per le AFU, con un flusso costante di denunce rivelatrici e talvolta urgenti provenienti dai loro canali che ci forniscono informazioni.

Ecco un soldato della 115a Brigata dell’AFU che fornisce un aggiornamento:

Leggi cosa dice: “La mia azienda è stata letteralmente distrutta”.

Si lamenta del fatto che la leadership li butti via come carne, e prosegue:

A ciò sono seguite le dichiarazioni di alcuni dei più noti account OSINT pro-UA con il maggior numero di follower:

E MSM è intervenuto sulla situazione attuale:

Quanto sopra è culminato in una situazione in cui tutto tra Ocheretyne e Novokalinov è ora in una caldaia, con Keramik che si dice sia stato completamente abbandonato oggi dalle AFU in ritirata:

I rapporti di ieri indicavano che le truppe russe stavano già entrando anche nella periferia di Arkhangelske.

Ciò ha portato anche i più ardenti “esperti” e sostenitori dell’Ucraina ad ammettere che le AFU potrebbero dover ripiegare drasticamente su una nuova linea difensiva dietro il fiume Vovcha, abbandonando almeno una dozzina o più di chilometri di terra:

Ricordo che nel mio ultimo rapporto ho riportato le parole di un ufficiale ucraino che temeva che la Russia si stesse lentamente posizionando per mettere Pokrovsk sotto la punta di una lancia. Allora sembrava improbabile perché Pokrovsk sembrava ancora lontana. Ma se le AFU dovessero ripiegare sul Vovcha, le forze russe si troverebbero a circa 20 km di distanza attraverso un territorio scarsamente difeso e non fortificato come l’area ora invasa:

In effetti, sotto si può vedere la linea blu che termina al suo bordo occidentale su quelle che, secondo quanto riferito, sono le più recenti fortificazioni difensive dell’Ucraina, costruite tra gennaio e febbraio di quest’anno. Ciò significa che le forze russe sono già a circa 1,5 km da esso:

Molto più a ovest nella mappa sopra, tra Prohres e Vesele, si può vedere un gigantesco fossato cisterna costruito dall’Ucraina e che doveva essere la sua principale linea di difesa prima del fronte di Pokrovsk.

A proposito, parlando di fossati per carri armati, ricordate tutte le voci sull’appropriazione indebita di fondi quando si trattava di costruire fortificazioni difensive? Un tempestivo lapsus freudiano trasmesso dalla TV ucraina ha praticamente confermato i nostri sospetti:

Appena a sud di lì, le forze russe continuano ad arrampicarsi attraverso Krasnogorovka, dirigendosi verso il centro della città più grande:

Un eminente soldato ucraino fornisce un aggiornamento triste e amaro dal fronte di Ocheretyne:

L’avanzata russa nel settore di Avdeevka risale all’ottobre dello scorso anno, quando iniziò l’assalto:

Passando ad altre notizie, la notte scorsa la Russia ha nuovamente colpito 4 centrali termoelettriche ucraine con una serie di armi, dai Kinzhal, ai missili da crociera Kalibr lanciati dal mare, ai Kh-101 dei Tu-95, come al solito.

Il nemico conferma la sconfitta delle centrali termoelettriche nelle regioni di Ivano-Frankivsk, Dnepropetrovsk e Lvov. In totale sono stati segnalati arrivi in ​​4 centrali elettriche.

Anche l’Ucraina ha colpito una raffineria di petrolio russa a Krasnodar:

Ma puoi vedere chiaramente la differenza nel danno. Pochi serbatoi di carburante che possono essere sostituiti in ore o giorni rispetto a un intero gruppo di centrali elettriche con sala turbine, che è praticamente insostituibile.

Inoltre, la Russia avrebbe iniziato a mettere “gabbie di copertura” o sistemi di reti sui serbatoi della raffineria:

In un altro bizzarro sviluppo, l’Ucraina ha apparentemente utilizzato un aereo a elica Yak-52 per abbattere un drone russo Orlan nell’ovest del paese:

Immagino che quegli F-16 non si trovassero da nessuna parte.

Ieri Blinken è stato umiliato nella sua visita in Cina. Non solo non è stato accolto come di consueto sull’asfalto, senza tappeto rosso o entourage ufficiale, ma mentre si attendeva l’arrivo di Blinken, il Presidente Xi è stato addirittura sentito chiedere con impazienza quando il piagnucoloso apparatchik con la faccia da topo avrebbe lasciato il Paese:

Xi e la Cina non hanno più pazienza per le lezioni irrispettose degli Stati Uniti.

L’inutile visita è stata coronata dal fatto che la Cina, secondo quanto riferito, non ha inviato alcun funzionario per fare gli auguri a Blinken, che è stato invece accompagnato dall’ambasciatore degli Stati Uniti di stanza in Cina:

In un altro sviluppo scoraggiante per l’Ucraina, è stato ora rivelato che la maggior parte degli armamenti sponsorizzati dai nuovi aiuti statunitensi non arriveranno in realtà al Paese in rovina per anni:

Leggere la parte centrale:

“L’equipaggiamento – che comprende anche munizioni per i sistemi missilistici di artiglieria ad alta mobilità e per i sistemi missilistici di superficie avanzati nazionali – probabilmentenon arriverà in Ucraina prima di diversi anni, poiché i fondi sono stati stanziati nell’ambito dell’Iniziativa di assistenza alla sicurezza dell’Ucraina. Nell’ambito dell’USAI, il Pentagono stipula contratti con aziende americane del settore della difesa per la costruzione di nuovi equipaggiamenti per l’Ucraina, invece di attingere dalle scorte statunitensi”.

Ops.

Anche i sostenitori dell’UA sono stati costretti a cedere amaramente:

Guai all’Ucraina.

Questo fa seguito a diversi altri articoli che affermano i problemi che l’Europa sta incontrando nel reperire munizioni vere e proprie per l’Ucraina:

A conferma di una delle nostre ultime linee guida sul tentativo degli Stati Uniti di scaricare l’Ucraina sull’Europa, vediamo anche titoli come il seguente:

Nel frattempo, la Germania ammette che la Russia sta producendo così tante munizioni da andare ben oltre le necessità e gli usi attuali :

Questo è un’ulteriore conferma di qualcosa che ho già scritto molte volte in passato: il fatto che la Russia sta costruendo riserve strategiche e depositi per un potenziale conflitto con la NATO che potrebbe avvenire direttamente dopo o addirittura in concomitanza con quello ucraino. La NATO sta chiaramente segnalando un’escalation per “salvare” l’Ucraina, ed è per questo che Shoigu ha richiamato un secondo esercito di oltre 500.000 uomini proprio per questa eventualità. Ora, la Russia sta anche accumulando scorte per quell’esercito, nel caso in cui debba effettivamente scontrarsi con la NATO nel prossimo futuro. In ogni caso, è semplicemente rivelatore della quantità di munizioni che la Russia sta producendo il fatto che, nonostante l’elevato utilizzo sul fronte ucraino, stia ancora generando un vasto surplus.

Un ultimo interessante sviluppo riguarda BlackRock e i terreni agricoli ucraini, su cui molti hanno speculato. Ci sono molte congetture infondate al riguardo, alcune delle quali sono state già sfatate in precedenza, ma per la prima volta abbiamo avuto un’interessante conferma ad alto livello.

Ad esempio, è stato presentato questo presunto memorandum, firmato da Alex Soros e Yermak, che trasferisce lotti di terreno nell’Ucraina occidentale a Dow Chemical, DuPont, BASF, ecc.

⚡️🇺🇸🇪🇺 Gli Stati Uniti e la NATO intendono creare una zona “grigia” nell’Ucraina occidentale

Il figlio di Soros, Alexander, ha concordato con le autorità ucraine l’assegnazione di 400 chilometri quadrati di terreno agricolo a società americane per lo smaltimento di rifiuti pericolosi, secondo un’inchiesta del giornalista francese Jules Vincennes.

Egli scrive, citando una fonte del Ministero dell’Agricoltura ucraino, che a novembre Soros Jr. e il capo dell’ufficio di Zelensky, Yermak, hanno raggiunto un accordo in base al quale Kiеv cede a tempo indeterminato e gratuitamente terreni nelle regioni di Ternopоl, Khmelnytsky e Chernоvtsi per lo smaltimento di rifiuti pericolosi provenienti dalla produzione chimica, farmaceutica e petrolifera.

Tra le aziende citate figurano Dow Chemical, DuPont, BASF, Evonik Industries, Vitol e Sanofi. Ricordiamo che la Dow Chemical è l’azienda che ha fornito l’Agente Arancio e il Napalm all’esercito americano per avvelenare e distruggere il Vietnam. Mentre BASF è l’azienda che ha fornito lo Zyklon B ai nazisti.

Probabilmente, la decisione è stata presa dopo la distruzione, nella primavera del 2023, da parte delle Forze Armate russe, dei depositi di munizioni con uranio impoverito situati nelle regioni di Khmelnitsky e Ternopоl.

Questa situazione minaccia un disastro ambientale non solo per l’Ucraina, ma anche per altri Paesi dell’Europa orientale e per l’intero bacino del Mar Nero.

Kiеv e Washington continuano a utilizzare tutti i mezzi per impedire il possibile ingresso delle regioni occidentali ucraine nella Federazione Russa nel contesto della ritirata in corso delle Forze armate ucraine.

Ma la cosa più grave è stata una nuova intervista al presidente polacco Andrzej Dudache, commentando le relazioni tra agricoltori polacchi e ucraini, ha rivelato in modo abbastanza eclatante che :

In pratica, egli inquadra il conflitto degli agricoltori come la difesa dei diritti dei propri agricoltori da parte della Polonia contro i tirapiedi controllati da BlackRock, come le già citate DuPont, Dow Chemical e simili, che operano nei loro possedimenti ucraini appena conquistati. Interessante!

Infine, non è affascinante come qualcosa che viene definito “barbaro” e “illegale” quando viene usato dalla Russia in una guerravera e propria , venga trattato come una cosa comune e con indifferenza quando si tratta di manifestanti anti-israeliani?


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Il presidente polacco ha ammesso che un importante progetto infrastrutturale ha un doppio scopo militare, di ANDREW KORYBKO

Il presidente polacco ha ammesso che un importante progetto infrastrutturale ha un doppio scopo militare

Andrzej Duda ha inavvertitamente smentito gli osservatori russi che da tempo sospettavano che questo megaprogetto di trasporto alle porte di Varsavia avesse un duplice scopo militare, dimostrando così di aver sempre avuto ragione sui reali piani della Polonia.

Il presidente polacco Andrzej Duda ha rivelato in un’intervista che il megaprogetto di trasporto Central Communication Port (CPK, abbreviazione polacca), fuori Varsavia, ha un doppio scopo militare. Duda rappresenta il precedente governo conservatore-nazionalista della Polonia, ma rimane in carica nonostante la vittoria dell’opposizione liberal-globalista alle urne lo scorso autunno, poiché il suo mandato scade l’anno prossimo. L’ultima affermazione di Duda rende ancora più scandalosa la decisione del Primo Ministro Donald Tusk di sospendere e revisionare il CPK.

All’epoca si analizzò il fatto che stesse subordinando economicamente la Polonia alla Germania dopo averlo già fatto sul fronte politico e militare, il che ha dato credito all’avvertimento del leader conservatore-nazionalista Jaroslaw Kaczynski, alla fine dello scorso anno, secondo cui Tusk è in realtà un “agente tedesco“. Tusk ha poi subordinato il suo Paese al vicino sul fronte educativo, giudiziario e diplomatico, il tutto con il pretesto di attuare varie “riforme”.

Il risultato finale è che la Polonia svolge ora un ruolo indispensabile nella “Fortezza Europa” della Germania, di cui si è parlato qui, ma l’inattesa rivelazione di Duda sul duplice scopo militare del CPK potrebbe invertire un po’ il ritmo, esercitando una pressione popolare ed esterna su Tusk affinché approvi il CPK. Secondo gli ultimi sondaggi citati dall’interlocutore di Duda, la maggior parte dei polacchi è favorevole a questo megaprogetto di trasporto, mentre gli Stati Uniti hanno interesse a usare la Polonia come trampolino di lancio militare anti-russo.

Ecco cosa ha detto Duda secondo Google Translate: “Non è un segreto per nessuno, e lo sottolineo: Se si verificasse una situazione di potenziale pericolo per la Polonia e fosse necessario il trasferimento di ulteriori forze alleate in Polonia per difendere il nostro territorio, attualmente non abbiamo un aeroporto in grado di fornire tale supporto all’Occidente per venire rapidamente in Polonia”. Questo richiamo vuole sottintendere che Tusk stia danneggiando i piani di emergenza della NATO per motivi di parte.

Si tratta anche di un fischietto che riporta a ciò che il ministro della Difesa del precedente governo conservatore-nazionalista ha affermato sui suoi predecessori liberal-globalisti riguardo ai piani difensivi di Tusk durante i due precedenti mandati. Mariusz Blaszczak sosteneva che il governo di Tusk aveva pianificato di ritirarsi a ovest della Vistola, nella fantasia politica che la Russia avesse invaso la Polonia, fino all’arrivo dei rinforzi della NATO e sosteneva di avere anche i documenti riservati che lo dimostravano.

Il precedente periodo di potere di Tusk è stato segnato dal riavvicinamento russo-polacco, probabilmente consigliato dalla Germania, che avrebbe dovuto creare un'”Europa da Lisbona a Vladivostok” durante l’epoca felice delle relazioni tra Russia e UE. Queste speranze sono state ovviamente deluse, come tutti sanno, e i successori conservatori-nazionalisti di Tusk non hanno mai perso l’occasione di ipotizzare che la sua politica pragmatica dell’epoca fosse dovuta a una segreta influenza russa sul suo governo.

L’accusa di Blaszczak dovrebbe essere vista sotto questa luce, così come il richiamo di Duda. Il loro movimento conservatore-nazionalista ha cercato di sfruttare la russofobia politica della società polacca prima delle elezioni per rimanere al potere, ma anche se non ha funzionato, non ha imparato la lezione e ora sta cercando di usarla di nuovo nel tentativo di tornare al potere un giorno. Detto questo, è importante che i polacchi siano consapevoli di entrambi i fatti, dopodiché potranno decidere da soli.

Rivelare dettagli presumibilmente riservati sulla politica di difesa nazionale polacca, ormai obsoleta, è una cosa, mentre sensibilizzare l’opinione pubblica su come l’eventuale cancellazione del più grande megaprogetto del Paese a memoria d’uomo potrebbe avere un impatto sulla sicurezza nazionale in situazioni teoriche (per non parlare della perdita di molti posti di lavoro) è un’altra. La prima divulgazione non è riuscita a rimodellare la percezione popolare dei liberali-globalisti, mentre la seconda ha maggiori possibilità di successo, anche se è troppo presto per concludere che lo farà.

Un altro punto a cui prestare attenzione è che non è la prima volta che Duda sgancia una notizia bomba su una questione importante. All’inizio di aprile, ha dichiarato ai media lituani che le aziende straniere possiedono la maggior parte dell’agricoltura industriale dell’Ucraina, confermando così ciò che era stato precedentemente riportato ma negato dall’Occidente. Ha quindi l’abitudine di essere molto schietto su questioni che ritiene sinceramente di immensa importanza per gli interessi nazionali oggettivi della Polonia.

A prescindere dall’opinione del lettore sulla probabilità che si realizzi lo scenario di Duda, che prevede che la Polonia si affidi al CPK come porto d’ingresso per un intervento NATO su larga scala in caso di invasione russa, il suo punto di vista su questo megaprogetto è militarmente e strategicamente valido. Sarà molto difficile per Tusk opporsi, dopo che lui stesso, da quando è tornato al potere, è salito sul carrozzone della Russia e continua a temere le sue intenzioni.

Il mese scorso ha addirittura fatto il passo più lungo della gamba affermando clamorosamente che “siamo in un’epoca di preguerra“, paragonata al periodo precedente la Seconda Guerra Mondiale, suggerendo così, con sincerità o meno, che presumibilmente crede che sia possibile che la Russia invada la Polonia nel prossimo futuro. Se alla fine decidesse di cancellare il CPK nonostante Duda gli ricordi il suo duplice scopo militare, allora screditerebbe le sue precedenti paure sulla Russia, che sono il pretesto per giustificare la subordinazione della Polonia alla Germania.

Tuttavia, Tusk potrebbe avere le mani legate, poiché la combinazione di pressioni popolari ed esterne (USA/NATO) potrebbe essere sufficiente a fargli riconsiderare l’armamento del CPK come parte della sua guerra partigiana contro i suoi avversari conservatori-nazionalisti, sotto i quali questo megaprogetto è stato avviato. In ogni caso, Duda ha inavvertitamente rivendicato gli osservatori russi che da tempo sospettavano che il CPK avesse un duplice scopo militare, dimostrando così di aver sempre avuto ragione sui reali piani della Polonia.

L’Asse anglo-americano dispiegherà armi nucleari in Polonia?

Qualsiasi decisione positiva sarebbe dettata da motivazioni puramente politiche, poiché non c’è alcuna necessità militare di aggiungere la Polonia al programma di condivisione nucleare.

Il presidente polacco Andrzej Duda haconfermato in un’intervista durante il suo ultimo viaggio negli Stati Uniti che “se i nostri alleati decidono di schierare armi nucleari come parte della condivisione nucleare anche sul nostro territorio per rafforzare la sicurezza del fianco orientale della NATO, siamo pronti. Siamo un alleato dell’Alleanza Nord Atlantica, e abbiamo anche degli obblighi in questo senso, cioè semplicemente attuare una politica comune”. All’ inizio del mese, l’ambasciatore russo in Polonia ha dichiarato a RT che gli Stati Uniti non hanno ancora accettato l’offerta della Polonia.

Non ha spiegato il motivo, ma non è una novità che la Polonia voglia ospitare le atomiche americane. L’unica ragione per cui fa notizia è che la sua conferma di questo intento arriva dopo il suo ultimo viaggio negli Stati Uniti e prima del prossimo vertice annuale della NATO che si terrà all’inizio di luglio. Inoltre, se si legge tra le righe, il suo riferimento ai “nostri alleati” in contrapposizione agli Stati Uniti (il Paese specifico di cui il suo interlocutore gli hachiesto di ospitare leatomiche ) suggerisce che la Polonia potrebbe eventualmente ospitare le atomiche britanniche.

L’asse anglo-americano lavora in tandem per condurre la guerraper procura della NATO contro la Russia attraverso l’Ucraina, e ciascuno di essi ha eccellenti legami bilaterali con la Polonia. Il Regno Unito ha anche dimostrato di essere più “audace” nel provocare apertamente la Russia rispetto agli Stati Uniti, come dimostrato dai suoi missili da crociera Storm Shadow e dall’assistenza all’Ucraina nel colpire obiettivi civili come il ponte di Crimea e le città della regione di Kherson. Non sarebbe quindi inverosimile se un giorno schierassero le loro bombe atomiche in Polonia prima degli Stati Uniti o al loro posto.

Estrapolando le motivazioni in gioco, il primo scenario potrebbe essere finalizzato a spostare l’ago della bilancia all’interno degli Stati Uniti, in modo che seguano l’esempio, proprio come era previsto per le precedenti consegne di armi. Per quanto riguarda il secondo, potrebbe essere dovuto al desiderio del Regno Unito di mantenere la sua “sfera d’influenza” nella regione attraverso laPolonia, leader dell Iniziativa dei Tre Mari, nonostante gli immensi guadagni ottenuti dalla Germania dopo il cambio di governo. In questo caso, gli Stati Uniti potrebbero approvarla per tenere sotto controllo l’influenza continentale della Germania attraverso il Regno Unito.

Per essere chiari, non c’è alcuna indicazione credibile che uno dei due membri dell’Asse anglo-americano sia interessato a dispiegare armi nucleari alla Polonia, che ha chiesto agli Stati Uniti di farlo, ma senza successo. Qualsiasi decisione positiva sarebbe dettata da motivazioni puramente politiche, poiché non vi è alcuna necessità militare di aggiungere la Polonia al programma di condivisione nucleare. Verrebbe presentata come una rappresaglia dopo che la Russia ha dispiegato delle testate nucleari tattiche in Bielorussia in seguito a un’azione di sabotaggio della NATO, mentre la Russia non ha fatto alcuna azione di sabotaggio contro il blocco.

Il contraccolpo, tuttavia, potrebbe essere che la Germania diventi gelosa e cominci a temere che la sua influenza continentale venga in parte sostituita dalla Polonia a causa del favoritismo dell’Asse anglo-americano nei suoi confronti. Il leader de facto dell’UE ospita già le testate nucleari statunitensi e un numero maggiore di forze militari dei suoi partner rispetto a qualsiasi altro Paese europeo, per cui l’espansione del suddetto programma alla Polonia potrebbe indurla a interrogarsi sui loro piani. In tal caso, potrebbe non essere così disposta a obbedire alle loro richieste nei confronti della Russia e, presto, della Cina.

Per non essere fraintesi, la Germania non “diserterebbe” in alcun modo dalla NATO all’Intesasino-russa , ma potrebbe solo essere più riluttante a sacrificare i propri interessi nazionali oggettivi (soprattutto economici in questo contesto) rispetto al prestigio percepito nei confronti della Polonia. In fin dei conti, la Germania probabilmente farebbe comunque i loro interessi, ma sarebbe più facile per loro se non si sentissero offesi dal fatto che la Polonia condivida una parte del prestigio percepito di ospitare armi nucleari.

Considerando gli interessi in gioco, anche se non si può escludere che l’Asse anglo-americano possa accettare di dispiegare armi nucleari in Polonia – sia in occasione del prossimo vertice della NATO all’inizio di luglio, sia in seguito – non c’è motivo di aspettarsi che ciò avvenga presto, a meno che non cambi qualcosa. Se la Russia riuscisse a fare un passo avanti sul fronte, a prescindere dal fatto che questo provochi un intervento convenzionale della NATO, allora potrebbe potenzialmente fungere da filo conduttore per questo scenario.

Il canale costruito dalla Cina in Cambogia è un audace progetto geoeconomico

Questo megaprogetto potrebbe rivoluzionare la società cambogiana nel giro di una generazione, se il Paese gioca bene le sue carte, ma rischia anche di fare il paio con la narrazione di paura anticinese degli Stati Uniti, se viene utilizzato per manipolare il Vietnam e indurlo a contenere più muscolarmente la Cina in mare.

Questo mese si è parlato molto del progetto della Cambogia di costruire il canale Funan Techo, che collegherà la capitale Phnom Penh al Mar Cinese Meridionale, invece di dipendere dai porti vietnamiti nel Delta del Mekong. La Cina finanzierà interamente questo progetto da 1,7 miliardi di dollari attraverso un accordo di Build-Operate-Transfer per i prossimi 40-50 anni, con la costruzione che dovrebbe iniziare quest’anno e concludersi nel 2028. Ecco cinque articoli recenti su questo progetto per l’interesse del lettore:

* Vietnam Briefing: “Perché il progetto del canale Funan Techo della Cambogia preoccupa il Vietnam“.

* The Diplomat: “Ilprogetto del canale cambogiano da 1,7 miliardi di dollari è oggetto di un crescente scrutinio“.

RT: “LaCina vuole letteralmente aggirare le sfide geopolitiche“.

* Fulcrum: “L’ansia geopolitica del Vietnam per il canale Funan Techo della Cambogia“.

* Diplomazia moderna: “Navigare nell’interesse nazionale: Ilprogetto del canale Funan Techo in Cambogia.

In sintesi, la Cambogia considera il più grande megaprogetto della regione nella storia recente come un mezzo per diventare un leader tessile globale riducendo i costi e la dipendenza strategica dal rivale storico Vietnam, mentre quest’ultimo è preoccupato da un nuovo rivale di mercato e dagli interessi cinesi. La Cina e la Cambogia hanno sempre negato che la prima abbia intenzione di basare forze militari nella seconda, ma i think tank statunitensi sostengono continuamente che stiano preparando qualcosa dietro le quinte, anche lasettimana scorsa.

In linea di principio, la Cambogia è uno Stato sovrano con il diritto di scegliere i propri partner, e l’offerta della Cina è molto allettante perché non costerà alla Cambogia un centesimo e potrebbe migliorare drasticamente il suo sviluppo socio-economico nel giro di una sola generazione, se il Paese gioca bene le sue carte. Il tasso di crescita del PIL sta per tornare alla media del 7% che caratterizzava l’era pre-pandemia e la manodopera a basso costo della Cambogia potrebbe combinarsi con gli investimenti cinesi all’estero per creare una formidabile forza di mercato in futuro.

Ridurre i costi di esportazione attraverso il canale Funan Techo e scongiurare preventivamente lo scenario di un Vietnam che armi la sua leva strategica sulla Cambogia, come Fulcrum ha ricordato ai lettori che l’ultima volta lo fece durante una faida nel 1994, è fondamentale per la sua programmata ascesa come leader tessile globale. In pratica, però, la crescente vicinanza della Cambogia alla Cina può servire da pretesto per ulteriori campagne di paura americane volte a creare problemi a Pechino nel Mar Cinese Meridionale e soprattutto ad Hanoi.

Come ha osservato Timur Fomenko di RT, “la competizione tra Pechino e Hanoi è complessa e intrecciata, ma tutt’altro che ostile. Le due nazioni hanno obiettivi diversi e contrastanti, ma anche molti obiettivi complementari, per i quali è vantaggioso per entrambe mantenere uno status quo cordiale”. Questo spiega perché il Vietnam sta avviando i lavori per due linee ferroviarie ad alta velocità verso la Cina, nonostante il dilemma della sicurezza sul territorio marittimo conteso e i sospetti del Vietnam sulle intenzioni cinesi in Cambogia.

La storia, però, getta un’ombra lunga su tutto. Fulcrum ha anche ricordato ai lettori che la dinastia Nguyen del Vietnam ha assorbito il territorio del Delta del Mekong della Cambogia nelXVIII secolo, il che ha poi posto le basi per la disputa territoriale che è servita da pretesto per l’intervento del Vietnam in Cambogia nel 1979-1989. Fu questo conflitto a trasformare l’ostilità sino-vietnamita in una guerra convenzionale durata un mese, dal febbraio al marzo 1979, che fu l’ultimo conflitto militare formale di Pechino.

Molte cose sono cambiate negli ultimi 40 anni, ma i fantasmi del passato influenzano ancora le percezioni attuali di queste tre parti, con gli Stati Uniti che hanno interesse a far arrabbiare tutti. Il Vietnam ha fatto un ottimo lavoro di multiallineamento tra le Grandi Potenze, come il modello indiano, bilanciandosi tra Russia e Stati Uniti e traendo profitto dalla Cina nonostante le tensioni. Allo stesso tempo, però, gli Stati Uniti hanno interesse a peggiorare il dilemma della sicurezza sino-vietnamita, facendo leva sulla paura della Cambogia.

A tal fine, la circolazione di voci su presunti piani militari segreti cino-cambogiani ha lo scopo di convincere il Vietnam a svolgere un ruolo più attivo nel contenimento della Cina nell’omonimo Mare del Sud. Gli Stati Uniti vogliono che il Vietnam svolga un ruolo complementare a quello delle Filippine in questo senso, anche se l’ospitalità di forze americane è esclusa per ragioni storiche e di diritto interno. Il gioco finale previsto è che queste due nazioni dell’ASEAN schiaccino la Cina in quello specchio d’acqua dai vettori occidentale e orientale.

La spiegazione di questi piani non deve essere interpretata come un’approvazione, né deve implicare che avranno successo. L’unico intento è quello di informare i lettori su quali sono gli interessi degli Stati Uniti e su come ci si aspetta che li portino avanti. Il Funan Techo Canal è un progetto geoeconomico audace che potrebbe rivoluzionare la società cambogiana nel giro di una generazione, se il Paese gioca bene le sue carte, ma rischia anche di fare il paio con la narrazione di paura anticinese degli Stati Uniti, se viene utilizzato per manipolare il Vietnam e indurlo a contenere più muscolarmente la Cina in mare.

I legami azero-americani non sarebbero più gli stessi se gli Stati Uniti sanzionassero i funzionari del paese

Sono già stati messi alla prova come mai prima d’ora, dopo che alcuni rappresentanti del Congresso hanno dato falso credito alle menzogne della lobby ultra-nazionalista armena, secondo cui l’Azerbaigian avrebbe fatto “pulizia etnica” dei loro co-etnici dal Karabakh.

Una bozza trapelata del cosiddetto “Azerbaijan Sanctions Review Act of 2024” è circolata lunedì in vista della sua presentazione, secondo quanto riferito, nel corso della settimana da parte della deputata Dina Titus, democratica del Nevada, il cui partito è notoriamente sotto l’influenza della lobby ultranazionalista armena. Se approvato, il documento obbligherebbe legalmente l’Amministrazione Biden a determinare se i 41 funzionari azeri finora elencati si siano impegnati a minare lo stato di diritto e i diritti umani nel Paese.

I legami azero-americani non saranno più gli stessi se gli Stati Uniti sanzioneranno i funzionari del Paese. Sono già stati messi alla prova come mai prima d’ora, dopo che alcuni rappresentanti del Congresso hanno dato falso credito alle menzogne della lobby armena ultranazionalista, secondo cui l’Azerbaigian avrebbe fatto “pulizia etnica” dei loro co-etnici dal Karabakh. Ciò è servito a sua volta come pretesto pubblico per gli Stati Uniti per orientarsi verso l’Armenia a spese dell’Azerbaigian, esplorando una partnershippolitica e militarecompleta con Erevan a partire da settembre.

Il logico culmine di questa tendenza in atto è che gli Stati Uniti sanzionino i funzionari azeri con il pretesto dello Stato di diritto e dei diritti umani, il che potrebbe godere di un sostegno bipartisan, visto che molti repubblicani evangelici sono caduti nella falsa notizia secondo cui “i musulmani hanno genocidiato i cristiani in Karabakh”. Il vero scopo di tali sanzioni sarebbe quello di spingere l’Azerbaigian a subordinarsi come “junior partner” degli Stati Uniti nella regione, al di sotto dell’Armenia, nella prevista gerarchia americana del Caucaso meridionale.

Gli Stati Uniti sono molto contrariati dal fatto che le loro agenzie di intelligence e i loro “agenti di influenza” in Armenia, tra la diaspora ultranazionalista e le “ONG” (organizzate dal governo), non siano riusciti a scatenare un conflitto che avrebbe dovuto dividere e governare la regione provocando una guerra russo-azera-turca. Hanno fallito così tanto che le relazioni russo-azere sono ora migliori che in qualsiasi altro momento della storia, con il Presidente Ilhan Aliyev che si èrecato a Mosca per incontrare la sua controparte lo stesso giorno in cui è trapelata la bozza di legge.

L’ultima politica che gli Stati Uniti si apprestano a promulgare, il cui passaggio non può essere dato per scontato anche se c’è sicuramente la possibilità che vada avanti, si basa su convinzioni completamente false. Si tratta del presupposto che l’America sia l’attore più potente della regione, dell’idea che l’Azerbaigian non abbia il rispetto di sé per difendere con sicurezza i propri interessi nazionali oggettivi (compresa la propria reputazione internazionale) e del fatto che gli Stati Uniti ignorano il fatto che le sanzioni non hanno mai cambiato le politiche dei loro obiettivi.

Alla luce di quanto detto, portare al suo logico culmine l’attuale tendenza della politica estera degli Stati Uniti non permetterà di raggiungere gli obiettivi desiderati. È controproducente dal punto di vista degli interessi nazionali oggettivi dell’America, poiché equivale a rovinare le relazioni con l’Azerbaigian, che in precedenza erano eccellenti. In questo modo non si ottiene nulla di tangibile e l’unico risultato è che l’influenza della diaspora armena ultranazionalista nelle aule del Congresso continuerà a crescere a scapito degli interessi statunitensi.

Un sondaggio condotto da un think tank ucraino ha dimostrato che le opinioni della popolazione nei confronti della Polonia stanno cambiando

Se la disputa sul grano tra Polonia e Ucraina, causata dalla proprietà a maggioranza straniera dell’agricoltura industriale della prima, non sarà risolta in tempi brevi, le percezioni reciproche potrebbero peggiorare in modo senza precedenti.

Il think tank ucraino Razumkov Center ha pubblicato i risultati dettagliati della sua ultima indagine sull’impatto dei fattori di politica estera sulla percezione dei cittadini di vari Paesi, oltre alla Russia. Il rapporto completo può essere letto qui, ma il presente articolo si concentrerà solo su ciò che ha rivelato sugli atteggiamenti degli ucraini nei confronti della PoloniaPrima di continuare, i lettori potrebbero essere interessati a rivedere i risultati di questi sondaggi di gennaio e marzo sulle opinioni polacche nei confronti dell’Ucraina.

Tornando al sondaggio del Centro Razumkov, gli ucraini sono più preoccupati deiblocchi intermittenti del confine da parte degli agricoltori polacchi che di qualsiasi altra cosa, comprese le dispute di parte negli Stati Uniti che continuano a bloccare gli aiuti. Alla fine del mese scorso, quando è stato condotto il sondaggio, il 58,4% degli ucraini aveva un atteggiamento abbastanza (18,2%) o per lo più (40,2%) positivo nei confronti della Polonia, contro il 32,1% che aveva un atteggiamento per lo più (24,5%) o per lo più (7,6%) negativo. La differenza tra le due categorie era del 26,3%, mentre il 9,5% non ha saputo rispondere.

Per mettere le cose in prospettiva, il 93,2% degli ucraini ha un atteggiamento abbastanza (57,3%) e per lo più (35,9%) positivo nei confronti del Canada, rispetto al 2,8% che ha un atteggiamento per lo più (2,7%) e per lo più (0,1%) negativo, che lo colloca in cima alla lista. Gli Stati Uniti si collocano leggermente al di sotto della metà inferiore dei 16 Paesi intervistati, con l’80% degli ucraini che ha un atteggiamento abbastanza (43,6%) o prevalentemente (36,6%) positivo, rispetto al 12,9% che ha un atteggiamento prevalentemente (10%) o abbastanza (2,9%) negativo.

La Polonia, invece, si colloca al secondo posto tra Turchia e Ungheria. Per quanto riguarda il primo, il 68,3% degli ucraini ha un atteggiamento abbastanza (20,2%) o per lo più (48,1%) positivo nei suoi confronti rispetto al 18,4% che ha un atteggiamento per lo più (16,3%) o abbastanza (2,1%) negativo. Per quanto riguarda il secondo, solo il 29% degli ucraini ha un atteggiamento abbastanza (8,1%) o prevalentemente (20,9%) positivo rispetto al 62,8% che ne ha uno prevalentemente (35,7%) o abbastanza (27,1%) negativo.

La differenza tra le categorie canadese, americana, turca, ungherese e polacca è del 90,4%, 67,1%, 49,9%, 33,8% e 26,3%, e tutte, tranne quella ungherese, hanno opinioni più positive che negative. Un altro aspetto interessante è che il divario tra queste due categorie si è ridotto significativamente rispetto alla Polonia tra i periodi di maggio-giugno 20223 , agosto 2023, gennaio 2024 e marzo 2024, quando il Centro Razumkov ha condotto le quattro indagini finora svolte.

Nell’ordine in cui sono state menzionate, le differenze sono state del 91,8%, 89,7%, 75% e infine 26,3%. Il periodo maggio-giugno 2023 ha preceduto la disputa polacco-ucraina sul grano, l’agosto 2023 è stato un mese prima del culmine di settembre , il gennaio 2024 è stato il primo mese del governo di coalizione liberal-globalista del primo ministro Donald Tusk, mentre il marzo 2024 è stato un quarto di anno dopo. Ciò suggerisce che i primi blocchi degli agricoltori hanno avuto solo un effetto minimo sulla percezione degli ucraini all’inizio.

Solo dopo l’ultima tornata di blocchi, che ha incluso filmati drammatici di agricoltori che scaricano il grano ucraino, l’opinione pubblica ha iniziato a cambiare in modo decisivo, al punto che la differenza tra opinioni positive e negative si è ridotta di quasi due terzi in soli due mesi. Questo rappresenta il più grande cambiamento di gran lunga registrato tra i 16 Paesi su cui gli ucraini sono stati chiamati a condividere le loro opinioni agli intervalli precedentemente menzionati.

È importante che i lettori ricordino che la causa principale della controversia polacco-ucraina, che sta avvelenando le percezioni reciproche, è la proprietà a maggioranza straniera dell’agricoltura industriale ucraina, su cui il presidente polacco Andrzej Duda ha richiamato l’attenzione in una recente intervista analizzata quiInoltre, a molti potrebbe essere sfuggita la campagna d’informazione dell’Ucraina contro la Polonia, an alizzataqui, che ha tentato di diffamarla come una società infiltrata dalla Russia il cui governo è corrotto dal Cremlino.

Dal punto di vista degli ucraini, la riluttanza di Tusk a usare la forza contro i contadini per riaprire il confine e il sostegno del suo governo alla riduzione delle importazioni agricole ucraine (entrambi guidati da considerazioni di politica interna) hanno dato (falso) credito alla percezione di cui sopra. Questi sviluppi, insieme ai drammatici filmati dei contadini che scaricano il grano ucraino, hanno contribuito più di ogni altra cosa al notevole cambiamento di atteggiamento degli ucraini nei confronti della Polonia negli ultimi mesi.

Avevano grandi speranze che la flessione dei legami bilaterali registrata l’anno scorso sotto il precedente governo conservatore-nazionalista sarebbe stata invertita da quello liberale-globalista di Tusk, solo per finire profondamente delusi dopo che quest’ultimo ha ceduto alle pressioni politiche interne. È improbabile che Tusk cambi presto posizione dopo che i conservatori-nazionalisti hanno ottenuto la maggioranza alle elezioni locali di questo mese, a meno che le pressioni straniere per la riapertura forzata del confine non diventino insopportabili.

Anche se ciò dovesse accadere, non è chiaro se ciò modificherebbe positivamente l’atteggiamento ucraino nei confronti della Polonia. Negli ultimi mesi tra le società dei due Paesi è già corso molto sangue cattivo, che non sarà facilmente dimenticato. In effetti, ciò potrebbe persino indurre i polacchi conservatori-nazionalisti a mettere in atto manifestazioni pubbliche anti-ucraine che vadano oltre lo scarico del grano del Paese, tra cui l’organizzazione di marce nazionali contro Tusk con il pretesto che è il burattino di Zelensky.

Dopo tutto, la fatidica decisione di usare la forza per disperdere i contadini che stanno bloccando il confine sarebbe stata presa allo scopo di facilitare gli aiuti militari all’Ucraina, dimostrando così che preferirebbe ordinare allo Stato di danneggiare i suoi connazionali piuttosto che rischiare che l’Ucraina sia costretta a scendere a compromessi con la Russia. Tuttavia, se la disputa polacco-ucraina sul grano, causata dalla proprietà a maggioranza straniera dell’agricoltura industriale della prima, non verrà presto risolta, la percezione reciproca potrebbe peggiorare senza precedenti.

La restituzione da parte dell’Armenia di quattro villaggi occupati dagli azeri è stata una piacevole sorpresa

Fino a questo sviluppo impressionantemente pragmatico, sembrava che l’Armenia fosse disposta a entrare in guerra per questi villaggi occupati illegalmente, dopo essere stata incoraggiata dalle promesse di sostegno dell’Occidente, ma ora sembra che stia iniziando a essere un po’ più saggia.

Durante l’ottavo round di colloqui con l’Azerbaigian, l’Armenia ha accettato di restituire al suo vicino quattro villaggi occupati. Questa è stata una piacevole sorpresa, poiché suggerisce che l’Armenia sta finalmente iniziando a rendersi conto che non vale la pena di perpetuare il suo controllo illegale sulle terre azere. Fino a questo sviluppo, straordinariamente pragmatico, sembrava che l’Armenia fosse disposta a entrare in guerra per questi villaggi occupati illegalmente, dopo essere stata incoraggiata dalle promesse di sostegno dell ‘Occidente , ma ora sembra che stia iniziando a ragionare un po’.

L’Occidente vuole trasformare l’Armenia nel suo bastione d’influenza per dividere e governare la regione, cosa che il Primo Ministro Pashinyan aveva finora volontariamente accettato di fare per fare contemporaneamente un dispetto all’Azerbaigian e alla Russia, quest’ultima incolpata della sconfittadel suo Paese nel conflitto del Karabakh. Questa politica miope rischiava di portare l’Armenia più in rovina di quanto già non fosse, inoltre le catene di approvvigionamento militare occidentali da cui dipenderebbe in caso di un’altra guerra sono molto inaffidabili.

È stato probabilmente a causa di una sobria valutazione di questi rischi strategici di alto livello, da tempo attesi, che Pashinyan ha infine ceduto e ha deciso di restituire i quattro villaggi occupati all’Azerbaigian, dopo aver capito che non valeva la pena di provocare un altro conflitto su di essi con conseguenze prevedibilmente disastrose. Questo non significa che non voglia più che l’Armenia diventi il bastione d’influenza dell’Occidente nella regione, ma solo che, a quanto pare, dopo essersi mosso con tanta rapidità a partire dallo scorso settembre, sta avendo paura.

Se i colloqui bilaterali proseguono e il confine viene delimitato completamente, non esisterebbe alcun pretesto plausibile che l’Occidente possa sfruttare per dividere e governare la regione attraverso l’Armenia. Il Paese senza sbocco sul mare potrebbe ancora ostacolare i progetti di integrazione regionale a scapito della propria economia solo per compiacere i suoi padroni stranieri, ma probabilmente si potrebbe escludere un’altra guerra per rivendicazioni territoriali. Tuttavia, le infrastrutture militari e le truppe occidentali potrebbero ancora spiare la regione, come la Russia ha avvertito il mese scorso.

Nel caso in cui le tensioni tra Armenia e Azerbaigian diminuissero grazie al completamento del processo di delimitazione dei confini, ma l’Occidente continuasse a fare dell’Armenia il suo bastione regionale, ilfuturodel Paese nella CSTO rimarrebbe incerto . Il Ministro degli Esteri russo Lavrov ha dichiarato venerdì che la Russia considera ancora l’Armenia un alleato e che la CSTO potrebbe proteggere i suoi confini una volta definiti ufficialmente, ma le ONG occidentali e la diaspora armena iper-nazionalista hanno già intaccato i legami sociali.

Hanno fatto il lavaggio del cervello a molte persone, spingendole a incolpare la Russia per la sconfitta dell’Armenia nel conflitto del Karabakh, anche se Mosca non aveva alcun obbligo di difendere militarmente l’occupazione, durata tre decenni, da parte del loro Paese di un territorio azero universalmente riconosciuto, che persino Erevan stessa ha riconosciuto essere di Baku. Inoltre, li hanno ingannati facendogli credere che la loro economia potrebbe sopravvivere senza l’accesso alla Russia, il che non è vero. Un’altra fake news è che la Russia ha permesso all’Azerbaigian di “ripulire etnicamente” il Karabakh.

Queste percezioni, unite a quella generale che sostiene che l’Armenia sia stata in precedenza costretta a diventare vassalla della Russia, hanno fatto sì che molti si schierassero contro il partner tradizionale del Paese, spiegando così perché non ci sono state molte spinte contro i piani di Pashinyan di orientarsi verso l’Occidente. Allo stesso tempo, però, quest’ultimo sviluppo impressionantemente pragmatico, con cui l’Armenia ha restituito all’Azerbaigian quattro villaggi occupati, lascia intendere che alla fine potrebbe cercare di riparare i legami anche con la Russia.

Per essere chiari, ha già danneggiato le relazioni bilaterali con le sue mosse unilaterali e le dichiarazioni provocatorie dei funzionari al potere, tanto da creare inavvertitamente il pretesto per le ONG occidentali e la diaspora iper-nazionalista di orchestrare una Rivoluzione Colorata se dovesse invertire la rotta. Questi due soggetti, che lavorano fianco a fianco sotto la guida dei servizi segreti americani e francesi, potrebbero affermare che egli si sta “trasformando in una marionetta russa” per far arrabbiare la popolazione.

Proprio come l’Occidente ha cercato di destabilizzare la Georgia con questo falso pretesto, riprendendo di recente iltentativofallito della scorsa primavera solo pochi giorni fa, anche in Armenia potrebbe accadere qualcosa di simile se Pashinyan tentasse di riequilibrare le relazioni con la Russia e l’Occidente invece di fare perno su quest’ultimo. È troppo presto per prevedere con un alto grado di sicurezza se ciò avrà successo, ma non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che gli Stati Uniti cercheranno di preservare la loro ritrovata influenza nel Paese con le buone o con le cattive.

Allo stato attuale, gli Stati Uniti non sono troppo interessati a intensificare la guerra per procura NATO-Russia in Ucraina per ragioni elettorali interne, ma alcuni attori la pensano diversamente. Si tratta di falchi politici anti-russi, di paesi regionali come Lituania e Polonia, e dei loro partner non statali, come gli estremisti bielorussi antigovernativi con sede all’estero.

Il capo del KGB bielorusso, Ivan Tertel, ha rivelato giovedì durante un discorso all’Assemblea popolare bielorussa che il suo servizio e “colleghi di altre strutture di sicurezza” hanno recentemente contrastato un piano degli estremisti antigovernativi con sede in Lituania per lanciare attacchi con droni contro la capitale Minsk. e altri siti critici. Non ha condiviso altri dettagli, ma la sua affermazione è in linea con lo spirito di ciò da cui la Bielorussia aveva precedentemente messo in guardia. Ecco alcuni briefing di base a riguardo dell’anno scorso:

* 25 maggio 2023: “ La NATO potrebbe considerare la Bielorussia un ‘frutto a portata di mano’ durante l’imminente controffensiva di Kiev ”

* 1 giugno 2023: “ Lo Stato dell’Unione si aspetta che la guerra per procura NATO-Russia si espanda ”

* 14 giugno 2023: “ Lukashenko ha lasciato intendere con forza che si aspetta incursioni per procura simili a quelle di Belgorod contro la Bielorussia ”

* 14 dicembre 2023: ” La Bielorussia si sta preparando alle incursioni terroristiche simili a Belgorod dalla Polonia ”

* 19 febbraio 2024: “ L’opposizione bielorussa con sede all’estero, sostenuta dall’Occidente, sta progettando revisioni territoriali ”

* 21 febbraio 2024: “ L’Occidente sta complottando una provocazione sotto falsa bandiera in Polonia per incolpare Russia e Bielorussia? ”

Questi timori circolano fin dall’inizio della fallita controffensiva ucraina la scorsa estate, ma probabilmente non si sono ancora concretizzati a causa delle azioni preventive dei servizi di sicurezza. Allo stato attuale, gli Stati Uniti non sono troppo interessati ad intensificare il conflitto NATO-Russia guerra per procura in Ucraina per ragioni elettorali interne, ma alcuni attori la pensano diversamente. Si tratta di falchi politici anti-russi, di paesi regionali come Lituania e Polonia , e dei loro partner non statali, come gli estremisti bielorussi antigovernativi con sede all’estero.

I primi due hanno interessi ideologici in questo scenario, i secondi vogliono anche aumentare il loro prestigio nella NATO attraverso il loro ruolo di “Stati in prima linea”, mentre i secondi hanno ragioni ideologiche ma anche personali per voler rovesciare il loro governo. Questi interessi convergono nel mantenere vivo il rischio che quest’ultimo effettui attacchi con droni contro la Bielorussia, alleata della Russia nella CSTO, dal territorio della NATO con l’approvazione dei suoi vicini a fini di escalation e con un occhiolino da parte dei falchi anti-russi degli Stati Uniti.

La scala dell’escalation può sempre essere difficile da controllare, motivo per cui è meglio non iniziare a scalarla, soprattutto se sono gli attori non statali a iniziare a farlo. Ciò che essenzialmente accade è che questi tre attori sopra menzionati, che possono essere collettivamente descritti come gruppi di interesse in mancanza di un termine migliore, stanno tentando di sovvertire la politica relativamente più cauta degli Stati Uniti provocando una situazione di stallo con la Russia tramite attacchi di droni contro la Bielorussia. Una grave escalation potrebbe quindi verificarsi a causa di un errore di calcolo.

Il punto è quello di innescare una reazione cinetica che potrebbe poi essere interpretata come “un attacco immotivato contro la NATO” per spingere gli Stati Uniti ad intensificare la propria azione sulla base dell’Articolo 5. Naturalmente, c’è anche la possibilità che una “ bellissima produzione teatrale ” potrebbe avvenire sulla falsariga di ciò che un membro della Duma ritiene sia accaduto con la ritorsione dell’Iran contro Israele, ma ciò non può essere dato per scontato. Dopotutto, gli Stati Uniti sarebbero costretti a rispondere se la Russia o la Bielorussia reagissero in qualsiasi modo contro la NATO.

Allo stesso tempo, la Russia potrebbe consigliare alla Bielorussia di non reagire se gli attacchi dei droni dalla Lituania non causassero molti danni, simile nello spirito a come l’Iran ha scelto di non reagire dopo la debole risposta di Israele al suo attacco. La Bielorussia, tuttavia, potrebbe non ascoltare, poiché è ancora un paese sovrano con controllo indipendente delle proprie forze armate. Il presidente Alexander Lukashenko potrebbe pensare che gli estremisti antigovernativi residenti all’estero abbiano screditato la sua autorità e che lui possa “salvare la faccia” solo rispondendo in qualche modo.

Lo scenario migliore è che gli Stati Uniti tengano a freno le sue fazioni aggressive, gli alleati regionali e i loro partner non statali, ma i precedenti suggeriscono che non sarà così. Per questo motivo, il rischio reale di un grave conflitto dovuto ad errori di calcolo persisterà finché i partner non statali continueranno a mantenere il possesso di munizioni a lungo raggio come i droni con l’approvazione dei vicini della Bielorussia e l’occhiolino dei falchi degli Stati Uniti. . Stando così le cose, tutti dovrebbero prepararsi ad alcune spiacevoli sorprese nel prossimo futuro.

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I “quattordici punti” russi del 2009 per la sicurezza europea: Perché la proposta è stata respinta?_di Vladislav B. Sotirović

I “quattordici punti” russi del 2009 per la sicurezza europea:
Perché la proposta è stata respinta?

Nel 2009, il Presidente russo Medvedev (Presidente dal 7 maggio 2008 al 7 maggio 2012) ha chiesto una nuova politica di sicurezza europea, nota come “Quattordici punti”, come un nuovo trattato di sicurezza da accettare per mantenere la sicurezza europea come la capacità degli Stati e delle società di mantenere la loro identità indipendente e la loro integrità funzionale (questa bozza russa di trattato di sicurezza europea è stata originariamente pubblicata sul sito web del Presidente il 29 novembre 2009). La proposta di trattato è stata trasmessa ai leader degli Stati euro-atlantici e ai capi esecutivi delle organizzazioni internazionali competenti come la NATO, l’UE, l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO), la Comunità degli Stati Indipendenti (CSI) e l’Organizzazione per la Cooperazione alla Sicurezza in Europa (OSCE). In questa proposta, la Russia ha sottolineato di essere aperta a qualsiasi proposta democratica riguardante la sicurezza continentale e di contare su una risposta positiva da parte dei partner russi (occidentali).

Tuttavia, non sorprende che l’appello di D. Medvedev per un nuovo quadro di sicurezza europeo (basato sul rispetto reciproco e sulla parità di diritti) sia stato interpretato, soprattutto negli Stati Uniti, alla maniera della Guerra Fredda 1.0, ovvero come un complotto per allontanare l’Europa dal suo partner strategico (gli Stati Uniti). Tuttavia, questo programma, sotto forma di proposta, è stata l’iniziativa più significativa in materia di IR da parte della Russia dopo la destituzione dell’URSS nel 1991. Dal punto di vista attuale, questa proposta avrebbe potuto salvare l’integrità territoriale ucraina, ma è stata respinta principalmente a causa dell’atteggiamento russofobico di Washington.

In effetti, Mosca dal 1991, e in particolare dal 2000, considera la NATO come un residuo della Guerra Fredda 1.0 e l’UE non più come un mercato economico-finanziario comune con molte pratiche di gestione delle crisi. Tuttavia, i “Quattordici punti” di Medvedev del 2009 sono stati annunciati il 29 novembre 2009, quando la Russia ha pubblicato una bozza di Trattato di sicurezza europea. Il programma di Medvedev assomiglia a quello redatto dal presidente statunitense Woodrow Wilson (pubblicato l’8 gennaio 1918), che aveva emancipato gli obiettivi di pace nei suoi ben noti “Quattordici punti”. Questi due programmi hanno due cose in comune: 1) entrambi i documenti sostengono il multilateralismo nell’area della sicurezza e la devozione al diritto internazionale; 2) sono molto idealistici in termini di strumenti necessari per la loro attuazione.

La proposta russa del 2009 si basa sulle norme esistenti del diritto internazionale della sicurezza secondo la Carta delle Nazioni Unite, la Dichiarazione sui principi del diritto internazionale (1970) e l’Atto finale di Helsinki della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa (1975), seguito dalla Dichiarazione di Manila sulla risoluzione pacifica delle controversie internazionali (1982) e dalla Carta per la sicurezza europea (1999).

La proposta russa del 2009 sulla sicurezza europea (dieci anni dopo il bombardamento della Jugoslavia da parte della NATO) può essere riassunta nei seguenti sei punti:

1) Le Parti devono cooperare sulla base dei principi di sicurezza indivisibile, equa e senza attenuanti;
2) Una Parte del Trattato non deve intraprendere, partecipare o sostenere azioni o attività significativamente dannose per la sicurezza di qualsiasi altra Parte o Parti del Trattato;
3) Una Parte del Trattato che sia membro di alleanze, coalizioni o organizzazioni militari si adopererà per garantire che tali alleanze, coalizioni o organizzazioni osservino i principi della Carta delle Nazioni Unite, della Dichiarazione dei principi del diritto internazionale, dell’Atto finale di Helsinki, della Carta per la sicurezza europea e di alcuni documenti adottati dall’OSCE;
4) Una Parte del Trattato non consentirà l’uso del proprio territorio e non utilizzerà il territorio di un’altra Parte per preparare o eseguire un attacco armato contro un’altra o più Parti del Trattato o qualsiasi altra azione che influisca significativamente sulla sicurezza di un’altra o più Parti del Trattato;
5) Viene stabilito un chiaro meccanismo per affrontare le questioni relative alla sostanza del presente trattato e per risolvere le differenze o le controversie che potrebbero sorgere tra le parti in relazione alla sua interpretazione o applicazione;
6) il trattato sarà aperto alla firma di tutti gli Stati dello spazio euro-atlantico ed euroasiatico, seguiti da diverse organizzazioni internazionali: l’UE, l’OSCE, la CSTO, la NATO e la CSI.
La Russia, infatti, ha inteso il trattato come una riaffermazione dei principi che guidano le relazioni di sicurezza tra gli Stati, ma soprattutto il rispetto dell’indipendenza, dell’integrità territoriale, della sovranità all’interno dei confini degli Stati nazionali e la politica di non usare la forza o la minaccia di usarla in IR. In realtà, la questione della sicurezza in Europa è diventata un’agenda strategica per la Russia a partire dal 2000. Durante tutta la sua storia post-sovietica, la Russia si è sentita molto a disagio perché messa ai margini del processo di creazione di un nuovo ordine di sicurezza in Europa (gestito dagli Stati Uniti e dalla NATO) basato sull’allargamento della NATO verso i confini della Russia.

Va ricordato che all’epoca Mosca propose a Washington e Bruxelles tre condizioni che, se accettate dalla NATO, avrebbero potuto rendere l’allargamento accettabile per la Russia:

1) Il divieto di stazionare armi nucleari sul territorio dei nuovi membri della NATO;
2) 2) L’obbligo di un processo decisionale congiunto tra la NATO e la Russia su qualsiasi questione di sicurezza europea, in particolare quando è coinvolto l’uso della forza militare.
3) la codifica di queste e altre restrizioni alla NATO e ai diritti della Russia in un trattato giuridicamente vincolante.
Tuttavia, nessuna di queste condizioni proposte per la cooperazione tra NATO e Russia in materia di sicurezza in Europa è stata accettata.

Dopo questo fallimento, una nuova dottrina militare della Federazione Russa del 2010 ha accettato la realtà che l’architettura di sicurezza internazionale esistente, compreso il suo meccanismo legale, non fornisce una sicurezza uguale per tutti gli Stati (un fenomeno della cosiddetta “sicurezza asimmetrica”). La stessa dottrina ha sottolineato chiaramente che le ambizioni della NATO di diventare un attore globale supremo e di espandere la sua presenza militare verso i confini della Russia sono diventate una minaccia militare esterna focale per la Russia. Sicuramente, a partire dal 2010, è apparso chiaro a Mosca che la NATO non ha accettato la proposta russa di creare un quadro di sicurezza comune europeo funzionante in base al principio di relazioni “simmetriche” che includano alcuni doveri e diritti uguali per entrambe le parti.

Tuttavia, il momento in cui Mosca ha proposto una nuova iniziativa di sicurezza era molto appropriato per la questione del declino del potere sia soft che hard del Collettivo Occidentale (USA/UE/NATO) a seguito della seconda guerra contro l’Iraq e del crollo economico globale. Dopo i disastri dell’Iraq, di Guantanamo e di Abu Ghraib, Washington e i suoi alleati occidentali hanno perso ogni credibilità morale e l’autorità per rivendicare una leadership globale. Inoltre, il sostegno occidentale all’aggressione georgiana e al regime corrotto di Mikheil Saakashvili ha rivelato ancora una volta il disprezzo atlantista per la democrazia e la giustizia reali. Contemporaneamente, la crisi economica e finanziaria globale ha sancito la fine della finzione neoliberista della globalizzazione, confermando allo stesso tempo l’incapacità occidentale di regolare la finanza globale. Di conseguenza, la IR unipolare attorno all’Occidente collettivo ha cessato di plasmare e dirigere sia la geopolitica che la geoeconomia globali.

La proposta russa (in realtà del Presidente Dmitry Medvedev) di un nuovo accordo di sicurezza con la NATO ha rappresentato un serio banco di prova dell’onestà dell’Occidente collettivo nei confronti della Russia. Semplicemente, la proposta chiedeva un nuovo trattato che implementasse le dichiarazioni già accettate dalla fine della Guerra Fredda 1.0, secondo cui l’Occidente e la Russia sono amici, la sicurezza è indivisibile e la sicurezza di nessuno può essere rafforzata a spese di altri. In sostanza, il nuovo trattato di sicurezza dovrebbe essere fondato su un sistema multilaterale, piuttosto che su un sistema basato sull’egemonia o sul bipolarismo. Alla base della proposta c’era il rifiuto di un ruolo egemonico per gli Stati Uniti. Tuttavia, la domanda cruciale era: Gli Stati Uniti vogliono partecipare agli sforzi multilaterali per affrontare le sfide della sicurezza europea e globale? Tuttavia, ben presto è diventato chiaro che l’agenda russa per un nuovo concetto di sicurezza europea è stata vista dai politici occidentali come un tentativo di minare la NATO e la sua politica espansionistica verso est. In altre parole, la proposta del Presidente D. Medvedev per il nuovo disegno di sicurezza in Europa è stata intesa dagli occidentali come una perfida intenzione di cambiare i termini del dibattito sul futuro del sistema di sicurezza europeo senza la partecipazione della NATO alla direzione del nuovo organismo che include la Russia come membro fondatore e, quindi, come pilastro di un nuovo quadro di sicurezza del Vecchio Continente. Pertanto, la sua proposta, in quanto tale, era inaccettabile per il Collettivo Occidentale.

Va sottolineato che il passo più difficile nel riavvicinamento tra le agende di sicurezza russe e quelle europee occidentali, in competizione tra loro, dopo la Guerra Fredda 1.0, è stato ed è tuttora l’atteggiamento politicizzato della parte filo-occidentale dell’Europa (UE/NATO) secondo cui la Russia rappresenta un pericolo per la sicurezza del continente. Tuttavia, sul versante opposto, i timori della Russia per la sicurezza derivano principalmente almeno dalla politica di allargamento della NATO verso est, se non dalla questione dell’esistenza della NATO dopo il 1991 in generale.

In fondo, sembra che il problema centrale non fosse il mantenimento dello status quo in termini di quadro di sicurezza europeo, ma il nuovo sistema di sicurezza. In altre parole:

1) Dovrebbe essere una struttura centrata sulla NATO (come lo è stata dal 1991)? In questo caso, la NATO sarà trasformata in un forum di consultazione su questioni di sicurezza sia europee che globali; oppure
2) Dovrebbe essere un nuovo quadro istituzionale fondato su un trattato giuridicamente inquadrato che garantisca l’uguaglianza e l’indivisibilità della sicurezza di tutti i soggetti politici (Stati)?
Il programma di sicurezza russo “in quattordici punti” del 2009 rappresentava all’epoca la prima iniziativa positiva di politica estera da parte di Mosca dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. L’iniziativa di D. Medvedev aveva sia un reale significato geopolitico sia molte caratteristiche diplomatiche simboliche. Il valore cruciale dell’iniziativa era che:

1) ha sostenuto la formazione di un nuovo quadro di sicurezza europeo fondato sui principi nuovi e democratici dell’indivisibilità della sicurezza internazionale e dell’inclusione di tutti gli attori interessati e rilevanti; e
2) gli obiettivi principali dell’iniziativa erano il potenziamento del sistema di sicurezza europeo già esistente (ma inefficace) e la sua espansione nella regione dell’Asia-Pacifico al fine di creare un’area di sicurezza comune dall’Alaska alla Siberia.
Era tuttavia ovvio che la creazione di un tale sistema di sicurezza avrebbe preservato principalmente gli interessi nazionali russi in entrambe le regioni, in primo luogo in Europa ma anche in Asia-Pacifico. Inoltre, la proposta aprirà la strada all’integrazione di una Cina in ascesa e di altri Paesi asiatici in una complessa rete del quadro di sicurezza europeo. Tuttavia, la proposta è stata respinta in nome di un’ulteriore espansione della NATO verso est che, agli occhi di molti occidentali, è stato l’errore più fatale della politica statunitense durante l’intero periodo dell’era post-Guerra Fredda 1.0. Tale politica della NATO, infatti, è stata in grado di creare un’ulteriore rete di sicurezza per l’Europa, ma anche per l’Asia-Pacifico.

Tale politica della NATO, infatti, ha infiammato i sentimenti nazionalistici, anti-occidentali e militaristici in Russia, e ha infine ripristinato la politica della Guerra Fredda 1.0 nella Guerra Fredda 2.0 (una rinnovata competizione per la sicurezza tra Est e Ovest in Europa), tenendo conto del fatto che in Russia esiste la forte convinzione, basata sulle testimonianze di Mikhail Gorbaciov, Evgenii Primakov e altri politici russi più influenti, che Washington abbia violato l’impegno di non espandere la NATO come precondizione per la riunificazione tedesca nel 1989-1990.

Dr. Vladislav B. Sotirović
Ex professore universitario
Vilnius, Lituania
Ricercatore presso il Centro di Studi Geostrategici
Belgrado, Serbia
www.geostrategy.rs
sotirovic1967@gmail.com
© Vladislav B. Sotirović 2024
Disclaimer personale: l’autore scrive per questa pubblicazione a titolo privato e non rappresenta nessuno o nessuna organizzazione, se non le sue opinioni personali. Nulla di quanto scritto dall’autore deve essere confuso con le opinioni editoriali o le posizioni ufficiali di altri media o istituzioni.

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