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Escalation nel Mar dei Caraibi: Analisi OSINT della Crisi USA-Venezuela al 18 Dicembre 2025_di Cesare Semovigo

Escalation nel Mar dei Caraibi: Analisi OSINT della Crisi USA-Venezuela al 18 Dicembre 2025

L’osservatore attento delle dinamiche geopolitiche latino-americane non può non notare come il Mar dei Caraibi, teatro storico di confronti tra potenze, sia tornato a essere un punto di tensione massima. Al 18 dicembre 2025, il dispiegamento militare statunitense sotto il comando SOUTHCOM – ribattezzato in parte Operation Southern Spear – rappresenta la più significativa concentrazione di forze navali e aeree nella regione dagli anni della Guerra Fredda. Fonti OSINT multiple, incrociate tra tracking navale (AIS data aggregati da piattaforme indipendenti), report di think tank come il Council on Foreign Relations e articoli da Reuters, New York Times e Al Jazeera, delineano un quadro di postura offensiva calibrata, ma non ancora irreversibilmente cinetica.

Il cuore del dispositivo è la USS Gerald R. Ford, la supercarrier più avanzata della US Navy, repositionata nel Caribe meridionale da ottobre con il suo strike group: cacciatorpediniere Arleigh Burke-class, cruiser missilistici, sottomarini Virginia-class e oltre novanta velivoli imbarcati, inclusi F-35C e F/A-18 Super Hornet. A questi si aggiungono asset anfibi come l’USS Iwo Jima, con capacità di proiezione di Marines, e una flotta ausiliaria che porta il totale a 12-15 navi maggiori. Il personale stimato supera i 15.000-20.000 uomini, con munizioni stoccate per campagne prolungate (oltre otto milioni di libbre, secondo leak da fonti militari riportati da Military.com). Asset aerei complementari includono squadroni di EA-18G Growler per guerra elettronica, P-8A Poseidon (almeno sei unità con transponder spesso disattivati), MQ-4C Triton per sorveglianza persistente e tanker KC-135 per estensione raggio.

Le operazioni recenti non sono mera deterrenza. Dal settembre 2025, SOUTHCOM ha condotto oltre venti strikes su imbarcazioni presunte narco-trafficanti, con un bilancio di decine di morti (ultimi episodi il 16-17 dicembre, riportati da Stars and Stripes e DW). Il 16 dicembre, l’annuncio di Trump di un “total and complete blockade” su tanker petroliferi sanzionati ha elevato la posta: navi venezuelane hanno scortato convogli in defiance, senza scontri diretti ma con rischi di incidente crescenti. Il sequestro di una tanker da parte USA, valutata 10 milioni di dollari, segnala una strategia di interdizione economica aggressiva.

Maduro risponde con mobilitazione: ispezioni personali alle unità costiere, esercizi di difesa aerea con sistemi russi (S-300VM, Buk-M2E) e iraniani, e dispiegamento di 4,5 milioni di miliziani. La FANB regolare, circa 125.000 effettivi, soffre però di degradazione cronica: sanzioni hanno eroso manutenzione e morale, con diserzioni ricorrenti. Russia e Cina offrono supporto retorico, ma nessun asset militare significativo; Mosca è assorbita dall’Ucraina, Pechino preferisce canali economici indiretti.

In questo contesto, la domanda centrale per l’analista OSINT è la natura dell’endgame statunitense: si tratta di pressione incrementale per forzare negoziati, o preludio a regime change attivo? Qui entra un ragionamento bayesiano strutturato, basato su evidenze storiche e attuali.

Definiamo due ipotesi principali:

•  H1: Operazione di terra su larga scala (invasione/anfibia per occupazione, simile Panama 1989 o Iraq 2003).

•  H2: Attacchi mirati e ibridi per regime change (strikes precision, cyber, supporto opposizione interna, decapitazione leadership senza occupazione prolungata).

Prior probabilistici, derivati da pattern storici USA post-1945 in America Latina (Grenada 1983, Panama 1989, Haiti 1994, non-interventi in Cuba/Venezuela precedenti):

P(H1) prior ≈ 0.15 (bassa, data avversione pubblica USA a ground wars post-Iraq/Afghanistan; sondaggi Quinnipiac/YouGov 2025 indicano ~60-65% opposizione a boots on ground).

P(H2) prior ≈ 0.65 (alta, coerente con dottrina recente: strikes droni, cyber come Stuxnet, supporto proxy come Siria 2010s).

P(evidence | H1) elevato per surge truppe terrestri pre-invasione (es. 100.000+ Marines buildup); osservato: solo addestramento jungle limitato a Puerto Rico, nessuna divisione corazzata/meccanizzata repositionata.

P(evidence | H2) elevato per air/naval dominance, EW assets, strikes stand-off: pienamente osservato (Ford group ottimizzato per SEAD, JASSM-ER/Tomahawk range copre Caracas da Caribe).

Evidence aggiuntive:

•  Blockade petrolifero strangola revenue senza bisogno occupazione (80% export Venezuela).

•  Riapertura dossier 2020 su legami elettorali Venezuela-USA (DOJ indagini novembre 2025) fornisce narrazione domestica per azioni limitate.

•  Assenza surge logistica terrestre (no pre-positioning heavy lift da CONUS).

Update bayesiano:

Posterior P(H1 | evidence) ≈ 0.08-0.12 (ridotta: buildup air-dominant, no indicatori invasione classica).

Posterior P(H2 | evidence) ≈ 0.75-0.82 (rinforzata: postura consente neutralizzazione difese aeree in ore, seguita da strikes su command nodes, supporto a opposizione come María Corina Machado).

Scenario intermedio (H3: collasso interno forzato da pressione economica/militare) assorbe resto probabilità (~0.10-0.15).

Rischio escalation: incidente navale/aereo potrebbe forzare risposta cinetica, ma doctrine ROE USA privilegiano de-escalation se non provocati direttamente. Timeline critica: deadline implicita Trump (“Maduro non vedrà Natale”) suggerisce finestra dicembre-gennaio per picco pressione.

Conclusione OSINT: la crisi è ibrida per design. USA sfruttano superiorità asimmetrica (air/naval/cyber) per erodere regime senza costi politici di occupazione. Maduro resiste con asimmetria propria (milizie, terrain urbano), ma sostenibilità economica è il tallone d’Achille. Monitorare AIS/ADS-B per repositioning Ford group e voli RC-135: indicatori leading di fase attiva. La regione trattiene il fiato; l’esito modellerà dottrine intervento USA per il prossimo decennio.

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Il mondo alle undici_di Aurélien

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Quando ero molto più giovane, ero un po’ un telegiornalista. Per gran parte di quel periodo non c’era una TV facilmente reperibile, e in ogni caso gli orari di trasmissione erano limitati. Quindi, inevitabilmente, ascoltavo molto la radio, e la mia giornata era scandita dal telegiornale del mattino, se ero sveglio, e da The World at One (“con William Hardcastle”) e The World Tonight (“con Douglas Stuart”) di Radio 4. Ricordo questi programmi, pur dimenticandone un’infinità di altri, per il modo calmo e autorevole con cui trattavano gli eventi del Paese e del mondo. I resoconti dall’estero provenivano da corrispondenti esteri già presenti sul posto, che vivevano nella regione da anni, se non decenni. La copertura della politica britannica era affidata a corrispondenti politici di lunga data, che sapevano tutto e tutti. Entro i limiti della natura umana, e tenendo conto della costante possibilità di influenze esterne, hai davvero avuto la sensazione, dopo aver ascoltato un pezzo di cinque minuti del “corrispondente della BBC per l’Africa orientale”, di aver compreso meglio di prima il conflitto degli anni ’70 tra Etiopia e Somalia nel Corno d’Africa.

A quei tempi, le barriere all’ingresso nel mondo dei media radiotelevisivi erano molto elevate. Non mi riferisco solo alla possibilità di trasmettere, che era strettamente regolamentata dalla legge nella maggior parte dei paesi, ma semplicemente alla possibilità di farsi notare e di qualificarsi per il numero limitato di minuti disponibili in TV e radio, e per i pochi spazi di colonna sui giornali. Questo aveva i suoi inevitabili svantaggi, ovviamente, come qualsiasi sistema limitato, ma, nel migliore dei casi, faceva due cose. La prima era quella di concentrare i servizi di trasmissione su argomenti che i redattori consideravano più significativi. In un sistema del genere, soprattutto per i canali finanziati dal governo, la quota di pubblico e l’attrazione dell’attenzione non erano la priorità principale. Fu solo in questo modo, ad esempio, che l’innovativo Civilisation di Kenneth Clark o i primi episodi di Flying Circus dei Monty Python avrebbero potuto essere trasmessi: ciascuna era un’impresa rischiosa a modo suo, e nessuna delle due sembrava un successo garantito all’inizio.

L’altro era quello di incoraggiare i formatori di opinione, e in particolare i politici, a concentrarsi sulle questioni più importanti quando venivano intervistati, perché potevano avere solo uno spazio di novanta secondi ogni tanto. Certo, a quei tempi i politici si attaccavano a vicenda con la stessa ferocia di oggi, ma c’erano meno insulti personali e protagonismi, perché non c’era tempo per questo. La copertura mediatica della politica rifletteva anche l’organizzazione politica relativamente semplice dell’epoca: c’erano, in generale, partiti consolidati di sinistra e di destra, che dicevano cose diverse e, quando erano al governo, si comportavano in modo diverso. Le politiche di una parte venivano difese da loro e criticate dall’altra, in modi generalmente comprensibili.

A livello internazionale, il quadro della Guerra Fredda forniva una grammatica per comprendere il mondo, che spesso era anche comprensibile. Un movimento o un paese veniva sostenuto da una parte, quindi il suo avversario favoriva automaticamente l’altra. La fine del dominio portoghese in Angola, ad esempio, significò che i vari movimenti di resistenza di diverse convinzioni etniche e politiche potevano ora dedicare tutto il loro tempo a combattersi tra loro senza la distrazione di dover combattere anche contro il potere coloniale. Poiché l’Unione Sovietica sosteneva il partito marxista MPLA, in gran parte il partito dell’élite costiera meticcia , l’Occidente sostenne istintivamente i suoi avversari. Questo fu in gran parte il modello per comprendere anche altre parti del mondo e, sebbene fosse un po’ superficiale, non era del tutto sbagliato. Come vedremo, però, le complessità sottostanti, in qualche modo nascoste dall’euristica della Guerra Fredda, tornarono a tormentarci in seguito, e i conflitti in Algeria, in Rhodesia o in Vietnam si rivelarono molto più complessi e sfumati di quanto la gente fosse disposta ad ammettere all’epoca, o di cui addirittura non fosse consapevole.

Non che il mondo fosse necessariamente “migliore” allora, né in Occidente né altrove. Dopotutto, era l’epoca della guerra del Vietnam, dei Khmer Rossi in Cambogia, dei colpi di stato militari e delle dittature in America Latina e Africa, di una brutale guerra civile in Nigeria e di molti altri orrori. Anche in Europa, ci furono la sanguinosa rivolta in Ungheria nel 1956 e quella pacifica di Praga nel 1968, un colpo di stato militare/politico in Francia nel 1958 e un tentativo di colpo di stato nel 1961, per non parlare della disperata crisi politica del 1968, del rovesciamento del regime di Salazar in Portogallo nel 1974 e della morte di Franco l’anno successivo, e naturalmente del terrorismo dilagante negli anni ’70, per non parlare del conflitto in Irlanda del Nord.

Eppure la maggior parte di questi conflitti e crisi poteva essere spiegata in modo razionale. (La Cambogia era un’eccezione anche all’epoca). Le dinamiche della decolonializzazione, la rivalità tra le Grandi Potenze, le dispute sui confini e sul territorio, le lotte economiche e le nefaste attività della superpotenza di cui più si diffidava, sembravano sufficienti a spiegare la maggior parte delle cose. E anche allora, conflitti complessi come quello dell’Irlanda del Nord, che sembravano non finire mai, erano visti dall’opinione pubblica britannica principalmente con esasperazione e incomprensione (“bombardiamolo e basta!”) e, per lo più, con totale indifferenza alle questioni. A un livello più quotidiano, le proteste politiche su larga scala dell’epoca erano normalmente dirette a obiettivi tangibili e relativamente facili da comprendere, che si fosse d’accordo o meno.

Ora, è banalmente facile liquidare tutto questo come nostalgia (ho deciso che le accuse di nostalgia per il passato sono l’ultima spiaggia di chi è costretto a difendere un presente indifendibile). Ma non solo, come ho sottolineato, il mondo allora era tutt’altro che ideale, ma era anche molto diverso strutturalmente, e più facile da capire, o almeno da spiegare. Non si trattava solo del confronto Est-Ovest sostanzialmente stabile: c’erano altre influenze strutturali, come tassi di cambio fissi e prezzi delle materie prime stabili, così come ogni sorta di pratiche economiche concordate a livello internazionale e nazionale, e sindacati forti nella maggior parte dei paesi con un ruolo formale di negoziazione. Nel complesso, i governi sono riusciti a gestire le loro economie in modo pragmatico, con una crescita costante e una bassa disoccupazione. Et cetera.

Come siamo arrivati ​​da lì a dove siamo è una storia interessante e deprimente, e una in cui, curiosamente, i media svolgono probabilmente un ruolo almeno altrettanto importante delle persone e delle istituzioni che ne erano l’oggetto. Tutto inizia, ovviamente, con la mania di deregolamentazione e privatizzazione che ha travolto i governi occidentali dall’inizio degli anni ’80. Insolitamente, questo radicale cambiamento di politica non si basava su un’esigenza evidente o addirittura su una richiesta popolare, ma su pura ideologia. Negli anni ’30, i governi britannici cercarono di affrontare i problemi di alloggi precari e disoccupazione utilizzando i disoccupati per costruire case dignitose che i poveri potessero permettersi di affittare. (Io sono nato in una di queste). Cinquant’anni dopo, quando c’era di nuovo urgente bisogno di nuove abitazioni e la disoccupazione era di nuovo aumentata bruscamente, un successivo governo britannico decise di svendere il patrimonio di edilizia popolare a chi aveva soldi. Un simile comportamento era razionalmente inspiegabile, e fu un primo esempio di eventi che sembravano provenire da un’altra dimensione, e lasciavano la gente a grattarsi la testa e a chiedersi perché .

Era possibile fornire qualche giustificazione borbottata per “una nazione di proprietari di case”, ma in realtà, proprio come l’idea che il settore privato potesse gestire le risorse nazionali “in modo più efficiente”, non si trattava altro che di un gigantesco atto di fede, e i suoi inevitabili fallimenti venivano accolti, come sempre, con la scusa che le varie politiche semplicemente non erano state sperimentate abbastanza bene o per abbastanza tempo. Fu questa sensazione di essere improvvisamente governati da marziani – routine oggi nella maggior parte dei paesi – che diede inizio alla lunga discesa verso un sistema interno ed estero che oggi appare semplicemente incomprensibile.

Nessuno ha mai cercato di spiegare all’epoca perché la deregolamentazione dei media radiotelevisivi fosse una buona idea, o almeno razionale. Si mormorava di solito che la “concorrenza” fosse una cosa positiva, per ragioni diverse, eppure i sondaggi d’opinione mostravano che molto rapidamente le persone diventavano meno soddisfatte della produzione televisiva e radiofonica rispetto a prima. Le spiegazioni, ovviamente, sono banalmente economiche. I nuovi canali televisivi, in particolare, dovevano trovare un modo per autofinanziarsi, e questo significava pubblicità. Ma la pubblicità effettivamente disponibile era solo una certa quantità, e ora doveva essere distribuita su molti più destinatari. E gli introiti pubblicitari dipendevano dagli ascolti, e c’era solo un numero limitato di persone che guardavano, ora divise tra molti più canali. Pertanto, l’unico modo per i nuovi canali di sopravvivere era acquistare (dato che raramente potevano permettersi di produrre) programmi al prezzo più basso possibile. Nella maggior parte dei casi, questo significava acquistare e, se necessario, doppiare programmi dagli Stati Uniti, perché le economie di scala li rendevano molto economici. Me ne accorsi per la prima volta, se non ricordo male, in una stanza d’albergo a Parigi alla fine degli anni ’80, quando dei venti canali TV disponibili, quattro trasmettevano versioni doppiate di diversi programmi americani di poliziotti e ladri degli anni ’70. Mi chiesi quante persone stessero effettivamente guardando. In teoria, i canali meno “efficienti”, qualunque cosa ciò significasse, avrebbero dovuto chiudere, ma in pratica la maggior parte di loro resisteva tenacemente. (Inutile dire che nessuno ha mai voluto guardare un canale televisivo solo perché è “efficiente”.) Quindi, come osservò all’epoca Springsteen, si potevano avere 57 canali e niente in onda. Per la prima volta, iniziammo a confrontarci con il paradosso che una maggiore scelta apparente significasse una minore varietà reale.

Ben presto, la TV 24 ore su 24 divenne la norma, con gli stessi vincoli economici. I budget pubblicitari e il pubblico non aumentarono, ma si ridussero ulteriormente. Il risultato fu in parte la fuga dalla qualità (ad esempio, i “reality TV”), ma anche le conseguenze del semplice fatto che nel mondo accadevano molte più cose di quante i canali TV potessero coprire. Per i canali di informazione 24 ore su 24 come la CNN, le limitazioni di budget significavano coprire solo poche notizie importanti, e doverle ripetere più e più volte durante il giorno, magari con piccole variazioni e aggiornamenti. Questo poteva essere meno ovvio se si passava per un aeroporto o si era seduti in un bar, ma ricordo di aver lavorato in clandestinità, a volte per giorni interi, durante una crisi di lunga durata, ed essere stato portato alla distrazione dall’infinita ripetizione delle stesse storie sui numerosi televisori che ci circondavano. Gran parte della copertura si basava, in realtà, su nient’altro che speculazioni, o su presunte storie che poi si rivelarono false. Così un esperto blaterava su qualcosa che poteva o non poteva essere accaduto, e un’ora dopo un altro esperto presentava un’opinione diversa ma altrettanto ipotetica, mentre i produttori si davano da fare freneticamente per trovare un terzo esperto che dicesse qualcosa di diverso. Dopo alcune settimane, e quando ogni giorno provavo a lavorare, soffrivo della terza o quarta ripetizione di questo ciclo, ero pronto a sbattere la testa contro il muro.

Tutto questo accadeva prima di Internet, ma segnava l’inizio della mercificazione delle informazioni sul mondo, e della loro presentazione su larga scala, ma in singoli pezzi di dimensioni ridotte, interrotti di continuo dalla pubblicità e quasi sempre privi di profondità o contesto. L’obiettivo, dopotutto, non era qualcosa di così antiquato come informare, ma attrarre spettatori e vendere pubblicità e abbonamenti. Il declino probabilmente è iniziato con lo scoppio dei combattimenti nell’ex Jugoslavia, e soprattutto dopo il crollo della Bosnia nel 1992. Qui abbiamo iniziato a imbatterci nel problema di fondo che persiste e si è aggravato fino a oggi: troppi eventi, troppe opinioni, ma troppa poca conoscenza ed esperienza effettiva. E, del resto, troppo poco interesse ad acquisire qualsiasi conoscenza effettiva. Sei un politico o un “analista strategico” e ti viene offerto uno spazio di due minuti in TV o alla radio il giorno dopo per parlare degli sforzi di pace europei in Bosnia (che erano incalcolabili). Dirai modestamente “Mi dispiace, non ne so niente” o passerai il resto della giornata a leggere velocemente una storia della Jugoslavia? Certo che no: aprirai bocca e vedrai cosa ne uscirà. Verrai pagato per quello che dici.

Credo che questo sia stato l’Anno Zero della tendenza verso la nostra attuale situazione di informazione infinita e scarsa conoscenza reale. Quasi nessuno aveva qualcosa di interessante o di valore da dire, quasi nessuno conosceva il Paese o ne parlava la lingua, ma la richiesta di opinioni era tale che quasi chiunque poteva contribuire. Il risultato è stato una sorta di rabbioso caleidoscopio di resoconti e impressioni sconnessi, mescolati a giusta indignazione e non poco odio. Per la prima volta, forse, la gente scriveva articoli sui giornali non sugli eventi in sé, ma su come quelle immagini in TV li facevano sentire. Non sorprende che i tentativi di “discutere” i problemi reali si siano trasformati in litigi. Poiché il tempo via satellite era costoso, le notizie arrivavano a pezzetti e spesso prive di contesto (ironicamente, lo stesso vale oggi, ma per ragioni diverse). I politici, così come gli esperti e il pubblico in generale, avevano difficoltà a comprendere cosa stesse succedendo, a partire dai frammenti sconnessi trasmessi dai giornalisti appena scesi dall’aereo, in un momento in cui quei giornalisti stavano appena iniziando a considerarsi i legislatori non riconosciuti del mondo. A volte questo poteva essere gravemente fuorviante. Per molto tempo, la BBC ha iniziato la sua copertura notturna dei combattimenti in Bosnia con pochi secondi di filmato d’archivio di una granata che colpiva un grattacielo. Ciò è effettivamente accaduto in diverse occasioni (ho visto i risultati), ma ha dato l’impressione fuorviante che tali eventi accadessero quotidianamente, o almeno frequentemente. Eppure, in realtà, la maggior parte delle vittime musulmane a Sarajevo erano soldati uccisi e feriti nei combattimenti. Ma queste impressioni persistono.

Va detto, però, che il problema non era solo l’ignoranza e la distorsione mediatica. Anche a posteriori, la fantasmagorica miscela di violenza, crudeltà, opportunismo, cinismo e corruzione di quel conflitto sembra inspiegabile – l’ho definita più volte come Hieronymus Bosch interpretato dai Fratelli Marx. Lentamente, i più perspicaci hanno iniziato a rendersi conto che nel mondo stavano accadendo cose oscure e terribili che non potevamo, o non volevamo, comprendere in termini tradizionali. E gli eventi raccapriccianti della guerra civile e le sue conseguenze in Ruanda sembravano sfidare qualsiasi tipo di spiegazione, lasciando la gente senza fiato. Non molto tempo dopo, degli aerei si schiantarono contro alti edifici e la gente cominciò a chiedersi se il mondo fosse davvero impazzito. L’invasione russa dell’Afghanistan nel 1979 era sembrata almeno comprensibile in termini di Grande Potenza, ma chi diavolo erano i Talebani e da dove venivano? Del resto, com’era possibile che in Iran alla fine del XX secolo ci fosse una Repubblica Islamica? Ormai niente aveva più senso.

Ciò che cominciò a essere evidente fu che il mondo era sempre stato più complicato di quanto la camicia di forza ideologica del confronto Est-Ovest lo avesse fatto apparire. Sì, questo era un fattore importante, persino dominante in alcuni casi, ma tutti i tipi di gruppi sul campo avevano un’agenzia e perseguivano i propri interessi, riuscendo spesso a mettere le due parti l’una contro l’altra. Sì, inoltre, il confronto forniva una sorta di stabilità e impediva che alcuni degli episodi più pericolosi sfuggissero al controllo. Ciononostante, anche all’epoca, la storica antipatia culturale tra il Nord del Vietnam (la Corte) e il Sud (i mercanti), o la complicata politica interna dei movimenti di liberazione africani non erano esattamente un segreto, ma tendevano a essere relegati in secondo piano per ragioni ideologiche e, a dire il vero, anche razziali. Non si pensava davvero che i leader non occidentali potessero avere un’agenzia, o che potessero avvalersi di grandi potenze per ottenere sostegno e finanziamenti in cambio di qualche superficiale osservazione pro o antisovietica o di un voto all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Quando il quadro intellettuale della Guerra Fredda crollò, ci fu un periodo di totale disorientamento politico e intellettuale

Ci furono due reazioni ampie e correlate, che perdurano ancora oggi. Una fu una sorta di nostalgia intellettuale (sì, la parola è appropriata qui) per le certezze della Guerra Fredda, e il desiderio da parte di politici ed esperti di vedere gli eventi mondiali ancora come una lotta tra grandi nazioni con ambizioni imperialistiche in competizione, e di liquidare il ruolo degli attori locali come insignificante. L’altra è la ricerca disperata di una qualche narrazione strutturante – qualsiasi – che renda la confusione del mondo odierno meno totale. La finanza internazionale, la competizione per le risorse energetiche e minerarie, la religione, la City di Londra, il sionismo mondiale, lo Stato Profondo, lo Stato ancora più Profondo, gli UFO e le basi aliene, e una dozzina di altre spiegazioni competono e a volte si sovrappongono, nel tentativo di far sembrare il mondo comprensibile come un tempo. E naturalmente tutte forniscono quadri interpretativi prefabbricati che possono essere facilmente imposti agli eventi della vita reale: non è necessario sapere nulla della situazione in sé, perché si può sempre trovare qualcosa a supporto di qualsiasi argomentazione.

Ho suggerito che l’attuale confusione intellettuale derivi sia dalla complessità non riconosciuta e spesso rifiutata del mondo moderno, sia dai cambiamenti nel modo in cui ne veniamo informati. Ma è necessario sottolineare che i problemi del mondo moderno si riscontrano tanto, se non di più, in Occidente quanto al di fuori di esso. (In effetti, molti stati non occidentali sono ora governati meglio di noi.) Il collegamento, a mio avviso, è che qualcosa di simile alla deregolamentazione è stato applicato anche alla politica. Se ci pensate, i partiti politici tradizionali erano collettivisti: dovevano esserlo, poiché un partito politico in cui ognuno pensa per sé è un’assurdità logica. E in effetti i politici di oggi si comportano sempre più come dirigenti di un’azienda privata, fregandosi a vicenda per andare avanti, passando da un partito all’altro mentre i loro colleghi si spostano da un’azienda all’altra, e in alcuni casi abbandonando il partito per fondare una start-up altrove. Non che la politica sia mai stata priva di faide e lotte intestine – sarebbe sciocco dirlo – ma almeno c’era il riconoscimento che i conflitti palesi e la slealtà flagrante erano dannosi per il partito che si rappresentava. Ora a nessuno sembra importare.

Se ci pensate logicamente, un sistema politico basato sugli interessi del singolo politico è piuttosto bizzarro. Ad esempio, le politiche effettivamente attuate dai governi, o persino annunciate dai governi, sono questioni secondarie. Ciò che conta sono gli interessi e la promozione dell’individuo, anche se quella persona sostiene cose del tutto ridicole. Ciò ha portato, ad esempio, a una grottesca competizione tra i leader europei per essere più radicali del loro vicino riguardo all’Ucraina. Le assurdità perpetrate sono comprensibili solo se si presume che queste persone vivano in una sorta di mondo virtuale, dove nulla di ciò che dicono ha implicazioni pratiche, e comunque tutto verrà dimenticato domani, quindi chi se ne frega? Ciò che conta sono i titoli, lo status e il successo nel radicalizzare i propri rivali. In effetti, non ci sono ricompense per le tradizionali virtù della calma e del buon senso: tutto ciò che conta è fare più rumore degli altri. Siamo ormai alla fine della politica razionale in Occidente, e i marziani apparsi per la prima volta negli anni ’80 sembrano aver preso completamente il sopravvento. È difficile immaginare una combinazione più pericolosa di un mondo complesso e instabile e di governi occidentali che non si comportano più in modo razionale.

Questa irrazionalità si estende naturalmente anche alla politica interna. In molti casi, ciò che fanno i governi non ha alcun senso, che lo si approvi o no. Di nuovo, mi sembra il caso di alzare il volume a undici su ogni argomento. L’idea non è più, come lo è sempre stata, quella di fornire una buona leadership e un buon governo, ma piuttosto di fare carriera gridando più forte e avanzando proposte più oltraggiose dei propri avversari, o persino dei propri alleati fittizi. I politici non sentono più il bisogno nemmeno di fingere di servire gli interessi nazionali: dopotutto, la politica è solo una voce nel loro curriculum prima di passare ad altro, e non può portare ricompense maggiori dell’essere ben noti. Quindi si potrebbe ragionevolmente supporre che il signor Trump voglia distruggere l’economia americana, ma ciò presuppone uno scopo e un obiettivo razionale. Per quanto ne so, a lui semplicemente non importa, purché riceva la copertura mediatica. E in effetti la politica moderna nelle nazioni occidentali sembra in gran parte una questione di ottenere maggiore copertura mediatica gridando più forte ed essendo più oltraggiosi dei propri concorrenti, ed è per questo che l’attuale gruppo di leader occidentali sembra sempre più una parodia o una caricatura dei politici tradizionali, come bambini che competono per attirare l’attenzione.

Ciò non sarebbe possibile, ovviamente, senza i cambiamenti nei media di cui ho parlato prima e le loro recenti evoluzioni patologiche. Oggigiorno, le barriere all’ingresso, un tempo considerevoli, si sono ridotte praticamente a zero. Supponendo di riuscire a raccogliere i fondi (un punto su cui torno), si può creare un canale YouTube, con più spettatori di molti canali televisivi convenzionali. Gestire questo Substack non mi costa praticamente nulla, e i miei saggi vengono in genere letti da 12.000-15.000 persone, ovvero circa la tiratura di una piccola rivista cinquant’anni fa. Di conseguenza, le barriere all’ingresso sono praticamente minime: non è necessario sapere nulla e non costa nulla.

Ma allora come si fa ad avere successo, che si misuri il successo in base a lettori e spettatori o in base ai guadagni? Come si finanzia la propria catena YouTube? Come si fa a farsi notare tra le centinaia o addirittura migliaia di persone che producono contenuti simili? Come in politica, come in ciò che resta dei media tradizionali, bisogna gridare più forte di chiunque altro. A volte, questo può essere un semplice scambio: ho visto questa storia sul web oggi, non ne so molto sull’argomento, ma ecco un articolo d’opinione pieno di oscenità e insulti, quindi mandatemi dei soldi. A volte basta. Consciamente o inconsciamente, questi scrittori capiscono che costruire un brand di successo, proprio come essere un politico di successo oggi, dipende dal dire alle persone ciò che vogliono sentirsi dire, preferibilmente a volume alto, ed evitare di dire loro ciò che non vogliono sentirsi dire. Questo include confortarle con la convinzione che la responsabilità delle cose brutte del mondo ricade su persone di cui hanno sentito parlare, e che quindi possono fischiare, fischiare e ritenere responsabili, piuttosto che sulla gente del posto di cui non hanno sentito parlare. Dopotutto, le persone sono generalmente disposte a pagare almeno qualcosa per vedere i propri sentimenti istintivi legittimati da qualcuno con un nome e una reputazione che sappia scrivere frasi coerenti.

In primavera, il mercato era sconvolto dall’idea che una guerra nucleare con la Russia fosse inevitabile perché, ehm, gli ucraini avevano lanciato un attacco con droni contro un aeroporto di cui nessuno ora ricorda il nome, dove i russi avevano di stanza alcuni aerei con capacità nucleare. Naturalmente, se dici “questo è irresponsabile e provocatorio” o “questo rappresenta un’escalation potenzialmente pericolosa”, il tuo commento si perde nel clamore, quindi devi praticamente dire “siamo a pochi giorni dalla guerra nucleare!” solo per essere notato. (Certo, se fossimo a pochi giorni dalla guerra nucleare non avrebbe senso fare appello agli abbonamenti a pagamento, ma allora sei razionale.) E naturalmente, l’incidente ora è dimenticato, ma, come con le infinite iniziative nate male di Trump, il valore effimero, la pubblicità e gli abbonamenti a pagamento sono stati guadagnati.

I politici e i demagoghi carismatici lo hanno sempre saputo. Non ha senso parlare a bassa voce quando si può urlare, non ha senso urlare quando si può urlare a tutto volume. Tali individui disdegnano la logica e la razionalità: il loro fascino è comunque rivolto in gran parte ai propri sostenitori e, se mai sperano di convincere altri, lo fanno sottomettendoli a forza. Gran parte di Internet (e, del resto, gran parte della vita politica odierna) è così. Mi chiedo spesso cosa succederebbe se prendessi alcuni elementi da una delle diatribe di Hitler contro la City di Londra, l’Impero britannico e le ambizioni degli Stati Uniti e li pubblicassi nella sezione commenti di uno o due siti Internet “alternativi” che mi vengono in mente. Sospetto che verrebbe tutto ben accolto.

Naturalmente si tratta di un processo di escalation, almeno verbalmente, quindi il vostro linguaggio deve essere estremo quanto quello del prossimo esperto, altrimenti non verrete presi sul serio sul mercato. Quindi, se le nazioni europee vengono descritte come “stati clienti” per l’Ucraina da un esperto, qualcuno deve intensificare la tensione chiamandole “vassalli”, e qualcun altro le battezzerà “possedimenti imperiali”, e quindi dovete ricorrere a un termine come “burattini”. Naturalmente, né voi né alcun altro esperto ha esperienza diretta della realtà delle relazioni dell’Europa con gli Stati Uniti, ma il vostro obiettivo non è informare o spiegare, bensì confortare le reazioni istintive dei vostri lettori, intrattenere e guadagnare denaro. Abbiamo assistito allo stesso processo di inflazione verbale su Gaza, che contribuisce a spiegare, anche se non giustifica minimamente, l’antipatia dei governi occidentali per le proteste correlate, e che ha alienato alcuni di coloro che altrimenti potrebbero essere sostenitori. Ma d’altronde non c’è retromarcia in questo tipo di polemica. Tutto deve essere sempre più radicale.

Ed è un processo su cui nessuno ha più il controllo. I politici sono felicissimi di poter raggiungere direttamente la massa degli elettori, probabilmente per la prima volta nella storia, senza passare attraverso il meccanismo di selezione delle interviste e senza dover rispondere alle noiose domande dei giornalisti. In un colpo solo, tutta la complessa attività che conoscevo, quella di garantire che i governi trasmettessero il loro messaggio, si riduce alla possibilità di inviare un tweet a qualsiasi ora del giorno e della notte. Il problema, ovviamente, è che prima dei social media, i ministri venivano accuratamente istruiti su cosa dire e su come evitare di fare brutta figura. Ora, nulla può impedire a un ministro o a qualsiasi altro politico, dopo un pranzo particolarmente buono, di sparare un messaggio sui social media di cui si pente cinque minuti dopo. Ma chi se ne frega? Si dicono: domani sarà tutto dimenticato.

Lo stesso Hitler sosteneva che la gente crederebbe più facilmente a una grande bugia che a una piccola: avrebbe fatto bene su YouTube, perché le spiegazioni generiche sono più attraenti e facili da assimilare di quelle attente e sfumate. (Ironicamente, l’esempio di Hitler della Grande Bugia – che l’esercito tedesco fosse stato sconfitto sul campo di battaglia nel 1918 – era ovviamente vero, ma d’altronde è così che vanno le cose). Pertanto, i politici in difficoltà hanno sempre attribuito la colpa dei problemi del paese a una potenza straniera, come hanno fatto Hitler e molti altri, che si tratti di russi, americani, francesi, cinesi o di astrazioni come il “neoimperialismo” o la “finanza internazionale”. Ma perché fermarsi qui? Con un po’ di impegno, si possono escogitare interi schemi paranoici, più sono radicali, meglio è. Dopotutto, una teoria che spiega tutto sarà sempre più attraente di una che spiega solo poche cose. E come per la dottrina religiosa (che è l’origine intellettuale ultima di questo modo di pensare), le apparenti contraddizioni possono sempre essere risolte a un livello superiore, con spiegazioni sempre più complesse che implicano sempre più strati di ipotesi. Ma se si parte dalla convinzione emotiva che Tutto è Connesso e Tutto Era Previsto, allora non resta che escogitare una spiegazione che sia il più ampia possibile e che comprenda assolutamente tutto. E in effetti, tali spiegazioni hanno un chiaro vantaggio di Mercato, in termini di tempo necessario per assimilarle, rispetto alla ricerca autonoma, che è difficile.

Ma supponiamo che tu decida di farlo. Supponiamo che tu decida di scrivere qualcosa sul nuovo governo in Siria e sulla reazione occidentale. Non sei mai stato nella regione e non parli la lingua, ma perché questo dovrebbe impedirtelo? Poi inizi a sfogliare Wikipedia e già tutto inizia a sembrare complicato. Non hai tempo di parlare degli Ottomani (ottomani?) e del periodo del Mandato, ma sembra che Assad fosse un tipo piuttosto cattivo, ma tollerato dall’Occidente perché il suo governo era laico, e poi questo tizio si è dato fuoco in Tunisia nel 2011, se n’è dimenticato, e l’Occidente ha fatto un pasticcio grosso sostenendo Ben Ali per troppo tempo, e poi quando sono iniziate manifestazioni simili in Siria e il regime ha reagito con estrema violenza e le unità dell’esercito sunnita si sono ribellate, non lo sapevano, e poi sono iniziati seri combattimenti, l’Occidente ha deciso che Assad era spacciato, quindi entriamo in gioco ora in modo da poterci prendere il merito e influenzare un nuovo governo in un’area strategica, ma Assad è riuscito a resistere e l’iniziativa è passata nelle mani dei jihadisti, e l’Occidente, che ora aveva bruciato le sue navi con Assad e voleva disperatamente liberarsi di lui, ha iniziato a offrire armi e addestramento a chiunque si opponesse a lui e questo si è rivelato avere delle brutte ripercussioni in seguito, questo sta iniziando a darmi il mal di testa. Ma da dove viene questo tizio di Al-Sharaa? Beh, a quanto pare è più complicato di quanto pensassi, perché non ha mai fatto parte di Al Qaeda, che a quel tempo era praticamente a pezzi e stava perdendo consensi a favore di una generazione più giovane di populisti che volevano il Califfato come adesso, senza saperlo, e hanno preso il controllo di parti dell’Iraq (Iraq?) saccheggiando armi e veicoli statunitensi dall’esercito iracheno, espandendosi in Siria con jihadisti stranieri, dimenticandosi di tutto questo, ma poi sono intervenuti i russi (i russi?) e hanno stabilizzato la situazione. E poi alla fine Assad cade, ma questo coinvolge anche i curdi ( chi? ) e in qualche modo Hezbollah e gli iraniani sono coinvolti, e mi fa male il cervello. No, c’è molto di più da dove viene e darò la colpa di tutto alla CIA. È più facile.

Sembra che siamo ormai intrappolati in una sorta di escalation mediatico-politica inarrestabile, un treno senza freni che procede a valle. La classe politica ha rinunciato a ogni pretesa di essere un’autorità politica e agisce in modi che nessuno al di fuori può comprendere, e forse non ha comunque una spiegazione razionale, senza sapere veramente o preoccuparsi di ciò che sta facendo. Questo è il risultato finale della politica deregolamentata, proprio come le teorie paranoiche, le lotte sui social media e l’escalation isterica del linguaggio sono sintomi della deregolamentazione dei media e della fine delle barriere all’ingresso. Ogni aspetto di questo processo alimenta ogni altro aspetto, e non riesco a immaginare come andrà a finire, se non male. Non c’è più discussione: non so da quanto tempo la gente scriveva o parlava nel tentativo di convincere e persuadere, o persino di informare. Ora, questo processo di deregolamentazione ha raggiunto il suo inevitabile stadio finale di totale frammentazione: piccoli gruppi, politici o esperti che si urlano contro e cercano di sottomettersi a vicenda. Ci stiamo sicuramente avvicinando a una sorta di climax, come la fine di un’opera di Ionesco o di una farsa di Feydeau, in cui tutto crolla completamente. Non torneremo mai più al mondo del Mondo Uno.

Per quanto mi riguarda, non sono bravo a urlare e scrivo per cercare di informare e spiegare, solo quando penso di avere qualcosa da aggiungere. Ho intenzione di continuare a farlo anche l’anno prossimo.

Il capitalismo cowboy nell’Asia centrale, di Michael Hudson

Il capitalismo cowboy nell’Asia centrale

Di Michael  Giovedì 20 novembre 2025 Interviste  Nima  Permalink

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⁣NIMA ALKHORSHID: Ciao a tutti. Oggi è giovedì 13 novembre 2025 e i nostri amici Michael Hudson e Richard Wolff sono tornati con noi. Bentornati.

⁣RICHARD WOLFF: Sono felice di essere qui.

⁣NIMA ALKHORSHID: Michael, vorrei iniziare con te e con quanto è successo con Donald Trump e le sue politiche in Asia centrale. Donald Trump dice che riconquisterà il cuore dell’Asia centrale. Davvero? Cosa sta succedendo secondo te? Sta parlando di un investimento di 35 miliardi di dollari in Uzbekistan. E si parla anche del Kazakistan e forse del ritorno della base in questi paesi. 

Qual è secondo te l’importanza dell’Asia centrale?

⁣MICHAEL HUDSON: L’obiettivo apparente di cui ha parlato è quello di convincere le aziende americane a investire nel tungsteno e nelle terre rare. Il Kazakistan possiede ingenti riserve di tungsteno e l’America ritiene di poter sostituire la dipendenza dalla Cina per questo minerale. Il sogno di Trump, quasi un’ossessione, sono le terre rare, ma non credo che il Kazakistan sia davvero una fonte significativa di questo minerale. 

Le compagnie petrolifere americane hanno investito molto in Kazakistan e in Kirghizistan, ma è stato un disastro. È stato definito un ecocidio. I sindacati dei lavoratori petroliferi si sono ribellati e hanno combattuto contro questo fenomeno. In tutta l’Asia centrale c’è un forte sentimento anti-americano, sicuramente contro le compagnie minerarie e petrolifere americane.

Questo è fondamentalmente ciò per cui Trump si batterà. E spera che il finanziamento non provenga dal governo degli Stati Uniti, ma dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale. Sono stati loro a introdurre il neoliberismo in Kazakistan e in Asia centrale, e il risultato è stato un disastro.

Quello che è successo in Asia centrale è più o meno quello che è successo nei Paesi Baltici: le cleptocrazie locali hanno preso il potere. Hanno registrato le proprietà a loro nome. Hanno stretto accordi con le aziende occidentali per ottenere tangenti e hanno tenuto i loro soldi in Occidente. Si sono appropriati di tutte le migliori abitazioni. E il FMI e la Banca Mondiale hanno introdotto lo “stato di diritto”, consentendo ai governi di pignorare i debitori, ovvero le persone che avevano acquistato le loro case a credito.

Il microcredito era la grande novità promossa dagli americani, dal FMI e dai neoliberisti. Funzionava soprattutto grazie alle donne, perché era possibile esercitare una pressione sociale su di loro affinché ripagassero tutti i debiti. Il tasso di suicidi aumentò, quindi furono proprio le donne a guidare l’opposizione all’influenza occidentale in Kazakistan, Kirghizistan e negli altri paesi della regione.

La reazione iniziale contro l’Unione Sovietica ha ormai lasciato il posto alla sensazione generale che allora le cose andassero molto meglio. Almeno la gente aveva la sicurezza di un alloggio. Non c’era polarizzazione, né una classe di miliardari (che invece è emersa in questi paesi), né il nepotismo dei governanti nei confronti delle loro famiglie. In un certo senso, è come tornare indietro al XIX secolo.

Quindi quello a cui stiamo assistendo ora riguarda più che altro i minerali. Il XIX secolo era incentrato più sulle colture, sull’oppio e cose simili. Ma tutto questo non è altro che una ripetizione di quello che veniva chiamato il Grande Gioco (gli inglesi lo chiamavano la Questione Orientale): la lunga lotta tra Gran Bretagna e Russia – e ora tra Stati Uniti e Russia e Cina – per il controllo di tutto, dall’Iran, attraverso l’Asia centrale, fino alle regioni uigure della Cina occidentale. Si assiste a questo gioco geopolitico, in cui le compagnie minerarie svolgono un ruolo importante; le compagnie minerarie sono probabilmente le [aziende] più impopolari dell’intera regione.

Non abbiamo sentito nulla su ciò che stanno facendo Cina e Russia – penso che stiano semplicemente lasciando che l’America giochi le sue carte – ma la settimana scorsa il ministro degli Esteri del Kazakistan era a Washington per cercare di promuovere il Kazakistan e concludere accordi. Sembra che, certamente, l’attuale governo stia cercando di concludere un accordo che gli sia vantaggioso. Credo che abbiano incontrato il segretario al Commercio Howard Lutnick, che in passato aveva negoziato un accordo per le ferrovie del Kazakistan. Ora c’è una proposta tra Cove Kaz (un fondo di capitale) per investire nel settore minerario, una sorta di accordo di partecipazione agli utili con il Kazakistan che forse non conosce tutte le complessità della contabilità “hollywoodiana” che in realtà non lascia molti profitti da condividere, dopo aver pagato tutti gli interessi, le spese di gestione e le altre spese che vengono tutte addebitate.

Il Grande Gioco ora è tra gli interessi minerari neoliberisti (e quello che il popolo kazako definisce ecocidio: la distruzione dell’ambiente causata dall’inquinamento e dalle fuoriuscite provocate dalle compagnie petrolifere) e la Cina (l’iniziativa cinese Belt and Road, su termini molto diversi e con una filosofia diversa dal neoliberismo). 

Ora non si tratta più solo di un gioco geopolitico, ma di un gioco che riguarda il tipo di accordi economici che verranno stipulati. Saranno accordi di tipo BRICS (più o meno di stampo socialista) o saranno gli accordi neoliberisti che gli Stati Uniti stanno cercando di promuovere in questo momento?

⁣RICHARD WOLFF: Vorrei aggiungere due aspetti.

In primo luogo, mi sembra incredibilmente una replica dell’imperialismo del XIX e XX secolo. Si tratta dei paesi occidentali, in questo caso gli Stati Uniti, che vedono l’opportunità di trarne profitto, sia attraverso l’estrazione mineraria – che è antica quanto l’imperialismo, risalente all’epoca dell’oro e dell’argento e di tutte le altre cose che hanno attirato gli europei in tutto il mondo alla ricerca di luoghi dove poterli ottenere a basso costo, o rubarli – sia attraverso qualsiasi altro mezzo necessario, perché è così facilmente liquidabile da poter essere utilizzato nel modo che preferiscono.

Certo, aggiungete tungsteno, aggiungete terre rare. È sempre cambiato con le tecnologie che abbiamo a disposizione, che determinano quale risorsa nel sottosuolo è più interessante dal punto di vista estrattivo, per il profitto, rispetto alle altre. Quindi ora ci sono queste nuove risorse, e ora c’è un nuovo posto dove andare a prenderle, e gli Stati Uniti cercheranno di farlo – facendo pagare gli altri – sapete, saccheggiando l’ambiente. È quello che hanno sempre fatto. Non è una novità.

Vorrei ricordare a qualcuno una lezione. E la lezione è che i paesi che sono riusciti a staccarsi dall’assetto imperialista capitalista globale – la Russia nel XX secolo e ora la Cina – sono esempi di successo. La Russia era allora sotto l’Unione Sovietica…

Vorrei ricordare alla gente, dato che è così di moda non saperlo, che la crescita economica sovietica, dal momento della rivoluzione nel 1917 fino al momento della dissoluzione nel 1989, è stata la storia di successo del XX secolo. Il Paese europeo più arretrato, che ha dovuto affrontare (pronti?) la sconfitta nella prima guerra mondiale, poi una guerra civile e una rivoluzione, quindi la collettivizzazione dell’agricoltura e infine la seconda guerra mondiale, è comunque uscito alla fine del secolo con una crescita superiore a quella di chiunque altro, nonostante tutte queste battute d’arresto. Una storia straordinaria! E la Cina, come tutti sappiamo, è l’altro esempio.

Cosa hanno in comune? Si sono staccati dal sistema capitalista coloniale. Sono esempi di successo, quelli che non hanno permesso ciò di cui si sta discutendo per il Kirghizistan o il Kazakistan, a questo punto. E questa è la prima cosa.

La seconda osservazione (che va ad aggiungersi a quanto detto da Michael) è che sono ben consapevole – forse mi sbaglio – di tutte le macchinazioni: i 76 – perché tengo il conto – i 76 morti che sono stati uccisi su quelle imbarcazioni, le cosiddette narco-barche, nei Caraibi e nel Pacifico. Sono consapevole che si tratta di un processo, insieme al posizionamento della portaerei Gerald Ford che ora si trova al largo delle coste del Venezuela. Sono consapevole che c’è un piano per attuare un piccolo cambio di regime in Venezuela, al fine di riaffermare la Dottrina Monroe e di impossessarsi di uno dei più grandi giacimenti di petrolio del pianeta.

Ecco il colpo di scena: i russi, con il tacito sostegno dei cinesi, hanno avvertito gli Stati Uniti di non farlo.

Ora, questo è un passo importante, certamente ancora simbolico, ma comunque importante. È che la Dottrina Monroe è stata appena invalidata. Gli Stati Uniti non hanno alcun diritto implicito di dominare l’emisfero occidentale. I russi stanno annunciando che anche loro sono presenti. E se i russi sono lì con navi e marina militare, come sembra, allora i cinesi non sono molto indietro.

Il mio sospetto è che parte dell’attrattiva di tenere questi incontri alla Casa Bianca sia per il signor Trump poter dire: Ok, se devo prendervi sul serio nell’emisfero occidentale, beh, voi dovrete prendere sul serio me, anche più di quanto pensavate di fare. Guardate, sto facendo cose proprio qui vicino a voi, con i governi dell’Asia centrale. 

Quindi, ci sono queste manovre geopolitiche in atto: fanno parte dell’adeguamento fluido del mondo al fatto che l’Occidente non è più l’attore economico dominante. E tutti, compreso l’Occidente, stanno riorganizzando le proprie strategie, cercando di capire come rimanere a galla in questa situazione globale in rapido mutamento.

⁣MICHAEL HUDSON: Penso che tu abbia ragione a citare la Dottrina Monroe, perché il rovescio della medaglia era la promessa che l’Europa sarebbe rimasta fuori dall’emisfero occidentale e noi saremmo rimasti fuori dal suo emisfero, ma questo non sta affatto accadendo. Quindi hai perfettamente ragione quando dici che la Russia e la Cina stanno affermando: avete infranto l’accordo. Siete venuti qui. Ok, occhio per occhio: quello che stiamo facendo è simmetrico alle vostre reazioni e alle vostre azioni. In sostanza, state vedendo la Russia e la Cina reagire contro l’Occidente.

Ma ancora una volta, tutto questo ci riporta alla contrapposizione tra il cuore del continente di [Halford] Mackinder e le zone costiere e commerciali controllate dagli inglesi.

L’idea alla base dei piani della Cina e della Russia (ma soprattutto della Cina) negli ultimi 20 anni è stata quella di espandersi via terra attraverso l’Asia centrale. C’è un intero tentativo di costruire ferrovie. Tutto questo [è una ripetizione] della fine del XIX secolo, a partire dalla Persia. Era l’Impero persiano a controllare la maggior parte di questa regione. E alla fine del XVIII secolo, la Russia riconquistò quella che era stata la parte settentrionale dell’Impero persiano: l’Azerbaigian, la Georgia e parte del Daghestan. I Qajar, una dinastia tribale locale, presero il potere dello scià dell’Iran [Persia] nel 1789 e lo governarono fino al 1925, riconquistando essenzialmente questa zona. La Russia la riconquistò e utilizzò questa conquista di quella che era stata la Persia settentrionale per estendere la ferrovia attraverso il Kazakistan e l’Asia centrale, più a est.

Ebbene, la Gran Bretagna si oppose a tutto ciò e combatté la guerra di Crimea contro la Russia per affermare che quest’ultima era il suo nemico esistenziale. Si possono guardare gli Stati Uniti e la Cina oggi: erano la Russia e la Gran Bretagna ai tempi della guerra di Crimea; e il seguito di quella guerra fu la guerra anglo-persiana (1856-1857) per il controllo della rotta verso l’Afghanistan, che era controllata dalla Persia. E fu combattuta per la città di Herat, nell’Afghanistan occidentale. Gli inglesi dissero: dobbiamo impedire alla Russia di accedere all’India, perché l’India era ancora il gioiello della corona che forniva sostegno finanziario all’Impero britannico. In sostanza, la Gran Bretagna sconfisse la Russia, sconfisse la Persia e ne prese il controllo. E nel mezzo secolo successivo, fino alla fine del XIX secolo, sia la Russia che la Gran Bretagna chiesero concessioni per costruire una ferrovia attraverso questa regione, che era ancora in gran parte sotto il controllo persiano.

Beh, riuscirono a bloccarsi a vicenda; e la Persia non fu in grado di costruire una ferrovia fino a quando, finalmente, a metà degli anni ’30, lo fece lo Stato. Aveva paura di ottenere concessioni straniere. Il trauma degli investimenti britannici – provenienti dalla Persia, più a est – fu così distruttivo che si diffuse un sentimento generale filo-russo. Dopo la Rivoluzione russa, i russi avevano il sostegno della popolazione in queste regioni; c’era una guerra in corso per il controllo della Persia (che solo più tardi sarebbe diventata l’Iran) e dell’Asia centrale. E, in sostanza, gli inglesi intervennero con l’esercito e risolvettero la questione rovesciando la dinastia tribale dei Qajar con i due scià (la dinastia Pahlavi), padre e figlio, che instaurarono uno Stato di polizia.

Quando nel 1901 la Persia concesse una concessione petrolifera a [William Knox] D’Arcy dell’Inghilterra, ciò portò alla scoperta del petrolio un decennio dopo; e penso che ciò che accadde dopo in Persia è ciò che accadrà in Asia centrale. All’inizio degli anni ’50 gli iraniani elessero Mossadegh come loro leader. L’MI6 britannico e la CIA lo rovesciarono e lo scià instaurò uno stato di polizia così terribile e oppressivo che l’unico luogo in cui la gente poteva riunirsi per opporre resistenza erano le moschee. Il risultato fu una rivoluzione sciita che rovesciò lo scià.

Questo è più o meno ciò che accadde negli anni ’90 del XIX secolo, quando l’opposizione alla conquista britannica del commercio di tabacco e oppio in Persia fu guidata principalmente dai leader religiosi, che imposero una fatwa contro il fumo; tutte le pipe ad acqua furono distrutte e, in sostanza, lo scià (lo scià tribale Qajar che aveva governato per 50 anni) fu assassinato e i britannici insediarono i propri rappresentanti. 

Questo è il tipo di lotta che vedrete, con quella che ora viene chiamata la “rivoluzione colorata”, nel Sud-Est asiatico. Se i piani degli Stati Uniti per l’estrazione mineraria e il controllo, e il sostegno alla cleptocrazia neoliberista avranno successo in questa zona, ci sarà lo stesso tipo di rivoluzione che c’è stata in altri paesi. Questa sarà la dinamica che darà forma al prossimo decennio.

⁣NIMA ALKHORSHID: Sì. Richard, cosa sta succedendo con il caso del Kazakistan e dell’Uzbekistan? Entrambi sono profondamente legati alla Belt and Road Initiative cinese e all’Unione economica eurasiatica russa. 

E, guardando alla realtà della regione, questi paesi possono realisticamente orientarsi verso Washington senza compromettere le loro attuali dipendenze strategiche?

⁣RICHARD WOLFF: Ne dubito. Ne dubito fortemente, e vi dirò due motivi. Uno, c’è una parte della storia (che posso aggiungere a tutto ciò che ha appena detto Michael), ovvero che in Persia, come forma di resistenza contro ciò che stavano facendo gli inglesi e quelle parti della società persiana alleate con gli inglesi, si sviluppò uno dei partiti comunisti più grandi e più evoluti al mondo, il partito Tudeh. Questo tipo di comportamento da parte dell’Occidente non ha solo provocato l’opposizione religiosa – cosa che ha fatto, e che per il momento è diventata piuttosto dominante, fino ad oggi – ma quell’opposizione religiosa esisteva e coesisteva con un’opposizione laica molto potente, che nel caso dell’Iran/Persia era il partito Tudeh, che doveva essere distrutto senza pietà affinché l’opposizione religiosa potesse sopravvivere. E questo continua ancora oggi. Le opposizioni all’interno dell’Iran, ancora oggi, hanno le loro radici in quel partito Tudeh in molti, molti modi, come mi hanno spiegato innumerevoli volte gli iraniani.

Quindi, starei attento perché penso che questo tipo di comportamento che stiamo vedendo – questa sorta di rinnovamento dell’imperialismo classico, se vogliamo – possa rafforzare, in qualche modo, l’opposizione religiosa; ma darà anche nuova linfa vitale alla resistenza non religiosa, socialista laica o comunista, che ha radici profonde in quella zona.

Il secondo motivo per cui mi aspetto questo è che la capacità della Russia e della Cina, separatamente e insieme, di aiutare l’opposizione guidata dal Tudeh a rinascere è molto maggiore di qualsiasi cosa la Russia o la Cina siano state in grado di fare in passato. E ora avranno un interesse acquisito nel sostenere una base anti-occidentale che già esiste qui, a molti livelli. Quindi, sì, potresti riprendere quella vecchia battaglia nel modo in cui Michael l’ha descritta; ma le condizioni e la forza dei relativi attori in gioco non sono più quelle di allora. E quindi, penso che ora, la seconda volta, il risultato sarà molto diverso.

⁣MICHAEL HUDSON: C’è un ottimo libro pubblicato, credo, nel 2021, da Balihar Sanghera ed Elmira Satybaldieva: Rentier Capitalism and its Discontents: Power, Morality, and Resistance in Central Asia (Il capitalismo rentier e i suoi malcontenti: potere, moralità e resistenza in Asia centrale). Ho scritto l’introduzione a quel libro (e la pubblicherò oggi sul mio sito web) perché descrive esattamente il trauma che si è verificato quando le compagnie petrolifere statunitensi sono entrate in questa regione, in concomitanza con le regole neoliberiste che hanno portato questa regione ad essere più ricettiva alla Belt and Road [Initiative] cinese. 

Chevron ha messo gli occhi su queste vaste riserve petrolifere, in particolare sul giacimento di Tengiz in Kazakistan. Il Kazakistan voleva semplicemente avvalersi delle competenze occidentali. Voleva svilupparle autonomamente. Ma ciò che voleva Chevron era il controllo. Ed è proprio questo che vorrà qualsiasi compagnia mineraria statunitense in questa regione: lo stesso tipo di controllo. Prometterà il controllo al governo, ma il modo in cui il FMI e la Banca Mondiale hanno imposto le regole del libero mercato è tale che lo Stato non può davvero fare nulla per penalizzare questi paesi per tutto l’inquinamento che la loro attività mineraria causerà, in particolare per le terre rare. 

E Trump ha detto: Beh, possiamo soddisfare metà del fabbisogno di terre rare dell’America solo dal Kazakistan!
Beh, è davvero folle, se si considera quanto tempo ci vorrà per costruire tutte queste strutture minerarie. Chi si occuperà della raffinazione? Verrà effettuata in Kazakistan? Oppure verrà inviata, come avviene attualmente con i minerali, in Cina? Chi si occuperà della produzione? L’accordo sembra così semplice nel modo in cui Trump e gli americani lo descrivono. 

E mettono sempre nei dettagli del contratto delle clausole che danneggiano i paesi ospitanti, che in pratica dicono: qualsiasi cosa facciate per far pagare i costi di bonifica e qualsiasi danno che controlliamo, vi faremo causa davanti alla Corte internazionale per le controversie in materia di investimenti. E voi dovrete semplicemente pagarci, non solo dovrete pagarci i danni, ma arresteremo il vostro avvocato, come abbiamo fatto in Ecuador con l’avvocato [Steven Donziger] che ha difeso il Paese dall’inquinamento causato dalla Chevron. Capite? Vi renderemo la vita un inferno. 

E non mi sorprenderebbe vedere Russia e Cina presentare uno scenario completo di ciò che potrebbe accadere a questi paesi se permettessero alle nuove compagnie minerarie di fare loro ciò che ha fatto Chevron. 

Chevron promise [al Kazakistan] l’accordo, l’80% della produzione, e rifletté questo accordo di ripartizione degli utili 80-20%. Ma alla fine il Kazakistan si è ritrovato con solo il 2% dei ricavi del progetto. È stato un disastro – il 2%! – per tutto il petrolio che stava ottenendo. È stato il contratto petrolifero più sfavorevole che sia stato negoziato negli ultimi decenni. E il Kazakistan ne sta ancora subendo le conseguenze. Quindi, non ha avuto una buona esperienza con gli investimenti occidentali.

Lo stesso è accaduto in Kirghizistan. Anche questo Paese ha subito danni simili a causa dell’inquinamento causato dall’estrazione dell’oro. Anche in questo caso sono arrivate le compagnie minerarie – e l’estrazione dell’oro è molto inquinante, così come lo sono, ovviamente, quella delle terre rare e del tungsteno – e si è verificata una situazione molto spiacevole. Gli autori del libro che ho appena citato scrivono: “Il regime neoliberista delle regole di investimento vincola i governi agli accordi firmati con le multinazionali. Se gli accordi vengono violati, gli investitori si sentono giustificati nel portare gli Stati ospitanti davanti a un tribunale arbitrale internazionale per ottenere il risarcimento dei danni. Lo Stato di diritto ha affermato che lo Stato non può violare i diritti e le libertà individuali e che il dominio della proprietà privata deve essere protetto dalla politica maggioritaria”.

Quindi, il neoliberismo non ha eliminato la pianificazione statale. Ha semplicemente trasferito quella che era la pianificazione sovietica alle grandi società e alle multinazionali presenti in questi paesi. 

È quello che hanno già sperimentato. E sono sicuro che i governi vogliono soldi adesso. E sono sicuro che, come nel caso degli investimenti passati, a partire dalla Persia del XIX secolo, con le sue concessioni sul tabacco, fino alle concessioni minerarie di oggi, ci sono ogni sorta di tangenti ai funzionari e di attività segrete. È così che funziona il sistema. Il crimine fa parte del libero mercato. 

Credo che [R. H.] Tawney abbia detto: «La proprietà non è un furto, ma gran parte dei furti diventano proprietà», e penso che sia proprio quello che si è visto finora in Asia centrale; ed è proprio questa la strategia degli Stati Uniti per quella regione.

⁣RICHARD WOLFF: E bisogna tenere presente il diritto internazionale. Stanno proteggendo la proprietà privata dalla “maggioranza” — Che parola meravigliosa! Avresti potuto dire “democrazia”, ma non l’hai fatto. Hai eliminato quel termine e l’hai sostituito con qualcosa che suona diverso: “maggioranza”. Non dovremmo permettere alla maggioranza di avere un ruolo decisivo in questo caso. 

Quando fai questo, non fai altro che rimandare la rivoluzione che arriva per pretendere ciò che il sistema maggioritario avrebbe dovuto darti, come modo pacifico per risolvere questo tipo di differenze. Devi sempre scuotere la testa con stupore per ciò che era possibile. 

E non mi sorprende che quelli di Trump… quale altro modello potrebbero avere? Non hanno altro in testa che gli ultimi due o tre secoli di imperialismo capitalista. Cos’altro potrebbe venir loro in mente? Non sono critici. Non sono permeati da un modo di pensare rivoluzionario, ribelle, socialista o (qualunque parola vogliate usare) alternativo. No, si occupano di ciò che esiste – il sistema capitalista – e di come mantenerlo in funzione. E se hanno bisogno di tungsteno e di terre rare, allora guardano in giro per il mondo e vanno a investire nel controllo, ovunque esso sia.

Mi viene in mente il modo in cui funzionava l’Impero britannico. Sapete, una volta che gli Stati Uniti divennero indipendenti e poterono svilupparsi, scoprirono che nel loro territorio c’era qualcosa che il capitalismo mondiale voleva. E nel XIX secolo, ciò che il capitalismo mondiale voleva sopra ogni altra cosa era il cotone, perché il mondo stava imparando a vestirsi con tessuti di cotone di un tipo o dell’altro. E il sud degli Stati Uniti, una volta che si riuscì a portare gli africani neri a lavorarci, era una fonte di cotone. E l’Impero britannico si trovò ora di fronte al fatto che doveva pagare per il cotone perché non aveva più la colonia; quindi, avrebbe dovuto pagare questi americani. 

Così, nell’Impero britannico si diffuse la voce che bisognava lavorare ai Kew Gardens (alle porte di Londra) per piantare cotone in ogni modo possibile, al fine di capire dove potesse crescere in tutto il mondo, in modo da poterlo raccogliere per la propria industria cotoniera. Ecco perché l’Uganda è una piantagione di cotone e l’Egitto è la fonte del cotone. Hanno provato ovunque. Dove non funzionava, hanno lasciato perdere. Dove funzionava, arrivarono con il loro regime coloniale per assicurarsi di ottenerlo. E ottennero un secolo di guadagni davvero ottimi dai loro tessuti di cotone, dando ai piccoli agricoltori africani dell’Uganda… niente, sapete, e dando alla maggior parte della popolazione egiziana… niente, e così via.

Stiamo semplicemente ripetendo quel vecchio gioco, in nuovi ambiti, con nuove questioni da affrontare. Ma la struttura è esattamente la stessa.

⁣MICHAEL HUDSON: E alla fine si tratta di un quadro a breve termine. Voglio dire, l’imperialismo, il neoliberismo è, fondamentalmente, estrattivo: cerca guadagni a breve termine – mordi e fuggi – e, a un certo punto, sei costretto a scappare perché alla fine c’è una rivoluzione che li rovescia. La Cina sta giocando (e la Russia) in questa regione, [loro] stanno giocando una partita a lungo termine; e la partita a lungo termine alla fine funziona sempre. 

La domanda è: quanto tempo ci vorrà perché l’Asia centrale entri a far parte del gioco a lungo termine? E cosa possono fare ora Cina e Russia per contrastare il tentativo di un cambio di regime contro qualsiasi paese che resista all’espansione degli interessi minerari degli Stati Uniti? 

Hai l’equivalente del tuo esempio sul cotone: gli Stati Uniti vedono semplicemente l’Asia meridionale e centrale come una fonte di minerali per sostituire la Cina. La Cina può dire: “Beh, noi vogliamo andare oltre la monocultura: essere una monocultura è ciò che vi ha impoverito; essere una monocultura (una monocultura mineraria, che si tratti di petrolio, tungsteno o terre rare) creerà un piccolo strato di oligarchia clientelare, una cleptocrazia clientelare, come quella che avete avuto in tutti gli Stati sovietici, oppure avrete una rivoluzione sociale?

Beh, ovviamente è quello che ha fatto la Russia in Persia, dove (come dici giustamente) il Partito Comunista era molto forte prima degli omicidi di massa e dell’assassinio (in stile Pinochet) dello scià per mano dell’MI6 e della CIA. Quindi, potrei immaginare che da tutto ciò possano derivare una guerra sporca e una politica sporca, tutto questo. 

Il Sud-Est asiatico avrà uno Stato burocratico centralizzato e cleptocratico? Oppure sarà una sorta di Stato – mi piace il termine maggioritario – che probabilmente è la tattica politica che la Cina userà per dire: se avete la nostra Belt and Road, preferirete di gran lunga che siamo noi a concedervi i fondi per sviluppare la vostra economia, piuttosto che farlo attraverso il FMI e la Banca Mondiale, e le società che prenderanno in prestito il denaro a Wall Street, investiranno lì, e poi tutti i profitti saranno assorbiti dal pagamento degli interessi (per noi che paghiamo gli interessi ai nostri banchieri e alle nostre società finanziarie offshore e società di gestione), senza lasciare davvero nulla a voi. Questa è la contabilità “hollywoodiana” – o potremmo semplicemente dire la contabilità neoliberista – che viene utilizzata per impedire ai paesi ospitanti di ottenere i benefici delle loro risorse naturali. 

E l’intero tentativo degli Stati Uniti in questo senso è quello di impedire a questi paesi di utilizzare il loro patrimonio, le loro risorse naturali, come base imponibile.

Beh, ovviamente, questo è proprio ciò che Adam Smith e tutti gli economisti classici – John Stuart Mill, [Karl] Marx e i socialisti – sostenevano per l’Europa: sbarazzarsi della classe dei rentier, sbarazzarsi dei proprietari terrieri, utilizzare la rendita fondiaria e la rendita delle risorse naturali come base imponibile. Questo è ciò che [David] Ricardo ha chiarito molto bene nella sua analisi. E la Cina può riprendere questa idea economica classica di libero mercato: un libero mercato è un mercato libero dall’estrazione di rendite – risorse naturali – o dall’estrazione di rendite fondiarie o minerarie. La Cina vuole che l’Asia centrale sia in grado di tassare i proventi del suo petrolio, tungsteno [e] altre materie prime, per utilizzarli per pagare gli investimenti di capitale nell’iniziativa Belt and Road che la Cina vuole costruire. 

Quindi quello a cui stiamo assistendo in Asia centrale è una lotta: chi otterrà i proventi delle risorse naturali? Saranno versati alle compagnie petrolifere e minerarie private occidentali? E i governi dell’Asia centrale rimarranno senza queste risorse naturali come base imponibile significativa? E dovranno tassare la popolazione in generale, impedendo il decollo industriale? Oppure diranno: no, tutto questo appartiene allo Stato. Faremo ciò che volevamo fare originariamente con il petrolio – e ciò che ci era stato promesso – quando abbiamo parlato per la prima volta con gli interessi americani; che ci avrebbero fornito le competenze per sviluppare il nostro petrolio. Otterremo quindi i profitti – e li useremo per sviluppare il nostro Paese. 

Questo non è successo la prima volta. Ci deve essere una curva di apprendimento. E ora la Cina ha tutto l’interesse a promuovere questa curva di apprendimento per dire: utilizzate le vostre risorse naturali. Potete esportare tutte le materie prime che volete in Occidente. Vogliamo che esportiate: fonte di guadagni, fonte di guadagni in dollari. Questo è ciò che vi consentirà di compensarci per gli investimenti Belt and Road che stiamo cercando di fare per sviluppare la vostra intera economia; ciò andrà a beneficio della popolazione in generale, non solo come industria estrattiva, ma anche creando piccole industrie, industrie su larga scala, modernizzando la vostra agricoltura, ecc.

Questo è ciò che accadrà nel prossimo decennio.

⁣NIMA ALKHORSHID: Richard, gli Stati Uniti stanno già affrontando un sovraccarico di impegni in Europa e nell’Indo-Pacifico. La domanda è: possono competere in modo significativo in Asia centrale senza distogliere l’attenzione da altri teatri strategici? 

Considerando che la presenza della Cina in Asia centrale non è solo economica, ma anche infrastrutturale e istituzionale, attraverso la SCO e il BRICS.

⁣RICHARD WOLFF: Sì, stavo per dire la stessa cosa da una prospettiva diversa. Nell’imperialismo classico, i paesi europei – Gran Bretagna, Francia, Germania, Belgio e così via – utilizzavano tutti la stessa logica, lo stesso sistema. La cosa straordinaria ora è che la Cina e la Russia (in particolare la Cina) hanno un sistema diverso, ma questo da solo non basta. Sono anche il blocco economico più ricco del mondo. Hanno più soldi da fornire all’Asia centrale, se necessario. Se si sommano i PIL dei paesi BRICS, si ottiene un risultato di gran lunga superiore al PIL totale del G7. Non si tratta più di concorrenti alla pari. 

I cinesi hanno… guardate cosa stanno facendo. La Belt and Road è un enorme investimento di denaro, che i cinesi devono fare. Non è solo un bel progetto. Non è solo una ricerca di profitto. È un investimento a lungo termine di una somma enorme di denaro. 

E ora che gli Stati Uniti hanno, in sostanza, dichiarato guerra al resto dell’economia con quella follia dei dazi, hanno creato un incentivo per i cinesi, per i BRICS, ma anche per quasi tutti gli altri paesi, a cercare altrove rispetto agli Stati Uniti, nei prossimi anni, per fare affari; perché trattare con gli Stati Uniti, ora che sono diventati un sistema nazionalista e ossessionato dalla sicurezza nazionale, è un partner inaffidabile: È un luogo inaffidabile in cui vendere – guardate cosa possono fare i dazi – è un luogo inaffidabile in cui acquistare, perché ora tutto è strumentalizzato in questo sistema americano e non si sa se la propria dipendenza dall’importazione di qualcosa – voglio dire, non ci sono più molte cose che gli Stati Uniti esportano in modo significativo; ma qualunque cosa sia, non è affidabile.

Tutti cercano di trovare partner commerciali affidabili. Dove? Nell’orbita cinese o, almeno, in quella non americana, perché è più sicuro diversificare per non dipendere dagli Stati Uniti. Ciò significa che gli Stati Uniti (come hai detto tu, Nima, e hai ragione) non sono in una buona posizione per impegnarsi in una lotta con la Russia e la Cina in Asia centrale, mettendo da parte un impegno militare; ma in una competizione economica le probabilità non sono così buone per gli Stati Uniti a questo punto. Anche il Kazakistan e il Kirghizistan devono chiedersi se quello che stanno per fare, ovvero guadagnare un sacco di soldi, estrarre un sacco di minerali e vendere un sacco di esportazioni agli Stati Uniti, li porterà a diventare sempre più dipendenti, quando tutto il mondo ti dice: vai nella direzione opposta, riduci la tua dipendenza da loro.

Ecco la battuta che potrebbe venirvi in mente: gli americani li inducono a chiedere un prestito al FMI; loro sviluppano tutti questi strumenti; fanno una rivoluzione e vendono tungsteno e terre rare alla Cina. Pensateci, perché ora dovete ragionare in questo modo. Ed è un modo ragionevole di interpretare la legge degli eventi. È proprio questo che è cambiato nel mondo.

⁣MICHAEL HUDSON: Nima, stavi per fare un annuncio?

⁣NIMA ALKHORSHID: Sì, prego.

⁣MICHAEL HUDSON: No, pensavo che ce l’avresti fatta.

⁣NIMA ALKHORSHID: Per il nostro pubblico: se volete seguire Michael Hudson e Richard Wolff, potete visitare i loro siti web: per Richard, andate su “Democracy At Work”  https://www.democracyatwork.info/; e per Michael, andate su https://michael-hudson.com. [Notate il trattino.] [Sia Michael che Richard hanno un sito Patreon: visitate https://www.patreon.com/home e cercate “Michael Hudson” e “Democracy at Work”.] [Democracy at Work ha anche un canale YouTube: @democracyatwrk.]

E l’altro punto è, Richard, come ne stavamo parlando prima di salire, che molte persone stanno rubando i video che stiamo realizzando, questi discorsi che stiamo facendo, e non possiamo perseguire questi ladri, perché sono davvero tanti.

⁣RICHARD WOLFF: Vorrei dire due parole su Nima, solo per ribadire il concetto. 

Li chiamo video falsi. Cosa sono (e mi riferisco principalmente a quelli del mio lavoro, ma sospetto che sia lo stesso per tutti): Se sei bravo con i computer, se sei bravo con i video, se sai come usare l’intelligenza artificiale e così via, quello che viene prodotto sono video che hanno il mio volto (o qualcosa che gli assomiglia), che articolano un intero ragionamento; ed è la mia bocca, e le parole suonano come la mia voce — 

Tutto questo è artificiale. Non sono io. 

Altre persone stanno prendendo (ad esempio, in un caso) la parte superiore del mio viso, quindi sono riconoscibile (per le persone che sono abituate a vedermi); e poi la parte inferiore è la bocca di qualcun altro, che articola un copione che non ho scritto e che non ha nulla a che fare con me. E il tutto viene confezionato come “Ecco Richard Wolff”. E le persone conoscono abbastanza il lavoro che faccio da poter, immagino, far pagare un biglietto a chi vuole vedere quel video, e poi incassare i soldi – e mi hanno semplicemente usato come materia prima.

Ora ero molto preoccupato, come potete immaginare, perché potevano inserire letteralmente l’opposto di ciò che stavo dicendo. Finora non l’hanno fatto, anche se forse ora riceverò delle e-mail che mi dimostreranno il contrario, ma finora ciò che abbiamo visto non è ideologicamente o analiticamente opposto, è solo finzione. È solo la creazione di qualcun altro.

Quindi, se volete essere sicuri che sia davvero io? Sì, andate su democracyatwork.info; oppure andate su @democracyatwrk (canale YouTube); oppure andate su @democracyatwork su Substack. Tutti questi sono nostri. Sono di nostra proprietà e pubblichiamo solo cose nostre. In questo modo, potete essere sicuri che non si tratti di un falso.

⁣MICHAEL HUDSON: Beh, è lo stesso sul mio sito, ma in particolare per quanto riguarda i programmi di Nima. La gente mi ha inviato copie dei programmi di Nima, con Richard e me, e in fondo c’è un altro conduttore (un quarto conduttore!) che è lì sul loro sito, con tutto il programma che abbiamo appena fatto. 

Potrebbero decidere di utilizzare o meno la trascrizione che preparo per questi programmi, che pubblico sul mio sito e che invio a voi. E così sembra che il tuo programma, Dialogue Works, appaia su un sito che non è Dialogue Works, un sito completamente diverso con Richard e me, con qualcun altro che lo presenta. E hanno anche avuto la sfacciataggine di scrivermi dicendo: Abbiamo ricevuto molte risposte dagli spettatori ai video che abbiamo mostrato di te, Richard e Nima. Vuoi essere ospite sul nostro sito? Come se in qualche modo questo potesse legittimare tutto.

Quindi, abbiamo a che fare con un furto enorme, sponsorizzato da YouTube, perché YouTube otterrà più pubblicità da questo – e lascerà che fioriscano cento fiori. 

E sospetto che gli spettatori di questi siti plagiati non siano il tipo di spettatori che di solito guardano il programma di Nima o che leggono ciò che Richard e io scriviamo sui nostri rispettivi siti web. Si tratta di michael-hudson.com 1, per essere precisi. È lì che dovete andare. E io ho un gruppo Patreon. Richard ha un gruppo. Abbiamo i nostri siti, ma loro stanno piratando ciò che facciamo. E sono siti falsi. E, come sottolinea Richard, sono arrivati persino a falsificare i nostri contenuti. 

Questa è la rivoluzione dell’intelligenza artificiale. Chi controlla la piattaforma, la piattaforma di intelligenza artificiale, controlla i contenuti. Ed è l’equivalente di [George] Orwell: chi controlla il [passato], controlla il [futuro]. Ma chi controlla il sistema di intelligenza artificiale? Se immettiamo spazzatura, otterremo spazzatura, è quello che stiamo vedendo.

⁣NIMA ALKHORSHID: Sì. Il problema è che stanno ottenendo più visualizzazioni del video originale! 

Prima di concludere, Richard, vorrei mostrare un video di Donald Trump che parla delle tariffe doganali. Ecco cosa ha detto Donald Trump.

⁣DONALD TRUMP (CLIP): Ho incassato centinaia di milioni di dazi. Ho imposto dazi alla Cina sin dall’inizio. Poi, quando siamo stati colpiti dal COVID, abbiamo combattuto. Abbiamo fatto un ottimo lavoro. Ma quello era il COVID. Proveniva da un determinato luogo in Cina. 

LAURA INGRAHAM (CLIP): Un altro grande regalo dalla Cina.

⁣DONALD TRUMP (CLIP): … è un altro piccolo regalo che abbiamo ricevuto. Ma guardate, io vado molto d’accordo con il presidente Xi. Vado molto d’accordo con la Cina. Ma l’unico modo per andare d’accordo con la Cina è trattare da una posizione di forza. Abbiamo una forza enorme grazie ai dazi. Abbiamo una forza enorme grazie a ciò che ho fatto. Ho ricostruito il nostro esercito; loro hanno molti missili, ma anche noi ne abbiamo molti. E non vogliono avere a che fare con noi.

⁣RICHARD WOLFF: Sì, beh, sai, questo è il Paese che ha inventato il cowboy. E la mentalità da cowboy è molto diffusa. Molti ragazzini crescono con l’immagine di un tipo molto impressionante a cavallo che spara alla gente, che di solito ha la pelle più scura, e il cowboy, e tutto il resto. Ed è quello che abbiamo qui. 

Avresti potuto mostrarci un filmato in cui spiega, con gioia negli occhi, come sta uccidendo quei trafficanti di droga che spara dalle barche. E che quando avrà finito con loro, saranno morti. E dice la parola “morti” con tutta l’intensità che riesce a raccogliere. Sai, uccidere i trafficanti di droga. Negli Stati Uniti arrestiamo ogni giorno persone coinvolte nel traffico di droga. In questo Paese c’è un enorme traffico di droga e ogni giorno arrestiamo persone, in un luogo o nell’altro. Non li uccidiamo mai. Che siano colpevoli o innocenti, non abbiamo la pena capitale per le persone coinvolte nel traffico di droga – fino a quando il signor Trump ha deciso di essere il giudice, la giuria, l’avvocato e la prova, e di passare direttamente da “vedo una persona su una barca” alla sua esecuzione. È così grave che l’agenzia di intelligence britannica –

Beh, quello che vediamo qui con la sua discussione sulla Cina – e lui ha ricostruito l’esercito – è sempre la stessa cosa. È tutta una messinscena elaborata del signor Tough Guy. Non è una cosa seria, tranne per il fatto che questo è ancora un Paese ricco, ha ancora un esercito potente, può ancora causare danni. Per lo più, quello che ha fatto il programma tariffario è stato causare danni. 

E vorrei concludere con una cosa: ora stiamo tutti aspettando la decisione della Corte Suprema per sapere se le tariffe sono un’azione legale o meno.

Ecco perché è importante, indipendentemente dal risultato. Il presidente degli Stati Uniti ha attaccato e danneggiato innumerevoli paesi e aziende, danneggiati dai dazi doganali. E lo ha fatto sapendo che potrebbero essere incostituzionali. Ha sottoposto il paese a un’esperienza i cui costi saranno enormi – e lo sono già – senza nemmeno saperlo, né prendersi il tempo o la briga di informarsi, perché è un cowboy e punta subito alla pistola…

Quindi ha applicato i dazi doganali e ora, tra l’altro, una delle sue difese, recentemente presentata alla Corte Suprema, è stata quella di spiegare quanto sarebbe stato destabilizzante per l’economia mondiale se avesse dovuto annullare tutti i…

Esatto! Come hai potuto farlo? Che razza di leader politico farebbe una cosa del genere? Wow. Stiamo parlando di agire d’impulso in modi che sono già, e possono essere incredibilmente autodistruttivi.

⁣MICHAEL HUDSON: Aha, Richard, questo è esattamente ciò che Trump sta pianificando, la spada che Trump sta tenendo sospesa sull’Asia centrale. Può dire che, beh, se avete intenzione di riorientare le vostre esportazioni verso gli Stati Uniti, possiamo applicare dazi sulle vostre esportazioni e creare caos nel vostro Paese, se fate qualsiasi mossa per accontentare la Cina, la Russia, l’Iran o chiunque altro sia nella nostra lista dei nemici. Investendo nei minerali, nel petrolio e in altri prodotti dell’Asia centrale, Trump ha la possibilità di creare il caos in quei paesi e di usare il rifiuto del mercato statunitense per ottenere il controllo. 

La citazione di Nima mostrava Trump che parlava di missili. Non userà missili nel Sud-Est asiatico. Userà al-Qaeda. Questa è la guerra del terrore dell’America. La chiamano guerra al terrorismo, ma è una guerra di terrore. Si sta ricorrendo agli omicidi di al-Qaeda, agli omicidi della CIA, al cambio di regime del National Endowment for Democracy e tutto il resto; e cercheranno di portare al-Qaeda in tutti i paesi dell’Asia centrale che agiscono in modo sgradito agli Stati Uniti. E in Asia centrale vedrete esattamente ciò che al-Qaeda ha fatto in Iraq e in Siria.

E il fatto che, due giorni fa, il leader di al-Qaeda, [Abu Mohammad al-]Jolani, sia apparso alla Casa Bianca, stringendo la mano a Trump e giocando a basket con i generali del CENTCOM statunitense!  

Ora che, come sapete, non c’è più una taglia di 10 milioni di dollari sulla vostra testa, continuate a uccidere i cristiani. Va bene così. È vero che accusiamo altri paesi di uccidere i cristiani e ci opponiamo a loro, ma voi potete uccidere i cristiani perché siete i nostri assassini di cristiani, non i loro.

Si sta assistendo all’ipocrisia di tutta questa finzione, questa maschera di carta degli Stati Uniti che sta cadendo, che è stata strappata via negli ultimi giorni, sotto gli occhi di tutti.

⁣NIMA ALKHORSHID: Sì. Credo che siamo quasi alla fine. Grazie mille, Richard e Michael, per essere stati con noi oggi. È stato un grande piacere parlare con voi due.

⁣RICHARD WOLFF: Anche qui. Speriamo di aver fatto qualche progresso anche contro i video falsi.

⁣NIMA ALKHORSHID: Sì, lo spero.

⁣MICHAEL HUDSON: Sì.

⁣NIMA ALKHORSHID: Non ne sono sicura, ma spero di sì. A presto. Ciao ciao.

Trascrizione e diarizzazione: https://scripthub.dev

Editing: Ton Yeh & Kimberly Mims
Revisione: ced

Foto di Farhodjon Chinberdiev su Unsplash

Dove sta il nuovo trucco?_di WS

Interessante questo  articolo  di Big Serge. Dal punto di vista    geostrategico,     dimostra una cosa essenziale: la Germania accese la WW2 senza conoscere né il suo nemico né se stessa!

 E allora, non solo la dirigenza tedesca rimase infatti per tutta la guerra abbacinata dall’idea di trovare un “modus vivendi” con chi l’aveva spinta nella “trappola polacca” , ma anche assolutamente confusa sulle proprie finalità  strategiche  e sui  mezzi realmente disponibili per perseguirle.

Facendo, quindi, guerra violando il noto principio di Sun Tzu, non poteva che perderla.

 Comunque non è che conoscendo bene entrambe le cose, ” se stesso” e “il proprio nemico”,  la  Germania  la guerra avesse poi  tante probabilità  di   vincerla, accertato lo straordinario sbilancio di partenza nelle ” risorse mobilitabili” (+) ,  nel mentre   invece la coerenza strategica ” degli anglosassoni ” fu assoluta ,una volta  che   essi  ebbero ricevuto nel gennaio del ’39 l’ordine di marcia dai “banksters”.

Perché le WW  si  fanno  solo  quando i “banksters” ne  hanno bisogno e  di solito usano  gli stessi  trucchi.

 Infatti  il parallelismo  tra  la futura WW3  che appunto  i “banksters” si preparano a portare alla Russia e  la WW2   che  allora portarono  alla Germania  è evidente; su questo vale la pena di soffermarci.

 Partiamo dai punti di analogia : 

1)  Putin è il “nuovo Hitler”,   il dittatore  alla guida dell nuova “minaccia revanchista”: cosa  confermata dalla  “nuova  aggressione ingiustificata  da lui portata alla “coraggiosa vittima” ( provocatrice): l’ Ucraina di oggi, ora  al posto di quello che allora della Polonia.

Chi  di voi non  ha sentito  questo “coro”       calatoci in testa   da anni     a “me(r)dia unificati ?

2) L’ attuale dirigenza russa cerca disperatamente un accordo con il suo nemico esattamente come allora fece quella tedesca . Non lo vediamo   anche questo  in questo  continuo   “teatro di pace” ?

3) il rapporto di “risorse mobilitabili” e ancora una volta 5:1 a vantaggio del Bankstan.   Questo è un dato oppugnabile     derivabile  dalle  statistiche ,  e  chi  crede   che    i popoli asserviti   ai banksters    stavolta   non  andranno  a morire  per i LORO interessi , si illude.

 E se vogliamo aggiungere carne al fuoco, ci possiamo    cogliere  un ulteriore analogia:

3a) anche stavolta gli U$A partiranno facendo finta di essere “neutrali”. Non vedete  l’ analogia  tra il Trump di oggi  e il Roosevelt  del 1940 ?

 Questi 3 e 1/2 “punti” ci spiegherebbero   abbastanza  del  perché i “banksters” restino ancora altamente confidenti nella  la PROPRIA vittoria, esattamente come lo rimasero anche quando nel primo anno della WW2 tutti rimasero sorpresi dalle strabilianti vittorie tedesche.

 Quindi la “partita” è già ” segnata” ? Non proprio , perché ci sono delle differenze e anche addirittura una importante  difformità . 

 Partiamo appunto da questultima su di un punto  che allora fu decisivo a provocare il collasso della Germania:

(4) il ruolo dell’URSS , che nella  WW2  spezzò la schiena   di una  Germania  che l’ aveva  attaccata per “disperazione  strategica.  Potrebbe     domani nella WW3       essere  della   Cina  il ruolo  che fu de L’ URSS  nella WW2 ?

Vediamo  un po nel  dettaglio  questa  fantasiosa  ipotesi .

In  effetti  nei prodromi della WW2,  perlomeno fino  al 1933,   anche  Germania   e URSS      furono  abbastanza “simbiotiche” in quanto  ognuno aveva bisogno di ciò che l’ altro aveva: materiali grezzi contro prodotti industriali.

 Ma tra il 1933 e il 1939 tutto questo era cessato per la dichiarata volontà della dirigenza tedesca di costituire “un proprio spazio vitale ad est” ai danni del “mondo slavo”.

A parziale giustificazione di questa  aggressiva “intenzione programmatica” c’ era pure ,ideologicamente analoga, “l’intenzione programmatica” dell’ URSS di portare “il comunismo in Europa”.

Insomma Germania e URSS erano nemici dichiarati anche se, per la propria prosperità, avevano bisogno “l’ uno dell’ altra”.

 Vediamo invece l’attuale rapporto Russia- Cina .

Anch’essi ,  entrambi programmaticamente     nel mirino  del Bankstan, hanno “bisogno l’una de l’ altra” seppur a parti rovesciate rispetto al caso precedente.   Infatti    ora  è sotto  attacco  diretto  il “fornitore   di materiali grezzi”   e non  “il fornitore  di prodotti industriali ,   come  “l’altra  volta”.

Ma al contrario ,  i due di adesso non hanno alcuna ” ostilità dichiarata”  tra loro ,  ed entrambi dichiarano   assolutamente insensato rimanere semplici  spettatori di  una possibile aggressione subita dall’altro.

Certo, non sono “alleati” ritenendosi entrambi ” maschi alfa” , ma il loro  informale   “patto  di non  aggressione”  è ora  molto più  credibile     tanto  da non    avere  alcuna necessità di metterlo su  carta, perché  non hanno alcuna necessità di sopraffarsi vicendevolmente e nessun vantaggio a vedere l’altro nelle grinfie del Bankstan.

Certo, adesso è la Russia a trovarsi in piena “linea di fuoco” , ma è veramente fuori da ogni pensiero strategico razionale che la Russia attacchi per ” disperazione strategica” la Cina , o inversamente che sia la Cina ad attaccare la Russia per spartirsela poi col Bankstan , quando già ora la Cina può avere  dalla Russia  tutto ciò che gli serve con un semplice commercio fatto da posizione di vantaggio. 

Quindi non solo il fattore 4 manca, ma potrebbe essere addirittura rovesciato!

 E ci solo altri fattori “disanaloghi” a vantaggio della Russia 

a) La  Russia oggi,  al contrario  della  Germania  di allora, non ha gravi  carenze  di risorse primarie. Non  solo può  lavorarle  da  sé , ma al bisogno  può    commerciarne  ad libitum   con la Cina per  sopperire  ai propri bisogni  industriali.

b) Al contrario    della Germania  di allora ,   che non riuscì mai     a colpire seriamente  anche  solo la  Gran Bretagna,  la Russia oggi  dispone  di  notevoli  capacità  di  colpire  a morte l’ intero Bankstan.

Certo, ricorrendo in    questo    anche all’ arma nucleare; sarebbe certamente un  atto  di “disperazione  strategica “  gravissimo   che  non porterebbe  alla “vittoria”;  di sicuro  porterebbe  la morte  all’intero Bankstan.

 E un Bankstan  che spingesse  la Russia   a questa  “disperazione  strategica “  sarebbe molto più disperato.

Infatti  perché mai i “padroni  del’ universo”  dovrebbero mettere    tutto quello  che già  hanno   in questa   roulette… russa?

Quindi    si ritorna   alla  questione       di  quattro  anni  fa . Dove   trovano i banksters   la motivazione   per  perseguire    questa  WW3 ?    Certezza  di vittoria    come   quando  accesero la WW2 ,  nera disperazione,  o peggio  di tutto , follia messianica ?

E nel caso  di una  reale  “certezza” ,  su  quale  fattore qui  non contemplato  essa poggia ?C’è  forse  un  NUOVO  “trucco”  che non abbiamo ancora  capito ?

Non lo  sappiamo ora , come non lo sapevamo quattro anni  fa , ma ora possiamo  capire  perché  la Russia  proceda in questa    WW3  con  “molta prudenza ”  invece   di precipitarcisi  in avanti   come la Germania  nelle due precedenti.

Quindi   se lo chiedono   certamente   anche   al  Kremlino:  dove  sta il NUOVO  trucco ?

  (+)Dai dati statistici de l’ epoca , mettendoci dentro anche i soliti ” camerieri francesi”  il Bankstan partiva con un vantaggio 5:1 nelle risorse industriali e umane , senza contare le gravi carenze  di approvvigionamento  la ” Gross Deutchland” aveva in partenza in termini di agricoltura e risorse minerarie .

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TRUMP E IL RATTO D’EUROPA (II)_di Teodoro Klitsche de la Grange

TRUMP E IL RATTO D’EUROPA (II)

Dato che non cessa il dibattito sul National Security Strategy 2025 di Trump, siamo andati a chiedere lumi al sempre cortese Niccolò Machiavelli, il quale ci ha ricevuto.

A concentrarsi sul nocciolo del NSS 2025 questo qual è? E cosa lo distingue dal pensiero delle élite europee?

Il Trump l’è il migliore dei miei allievi, almeno nella vostra parte del mondo. Ciò che accomuna le sue argomentazioni e la distinzione dal pensiero dei governanti europei è che ha capito assai bene che chi trascura la realtà per andare appresso all’immaginazione è destinato a rovinare se stesso e la propria comunità.

Ma non crede che, in definitiva, le buone intenzioni e le belle prospettive possano costituire un punto di incontro tra le comunità umane?

Certo: a patto che tutti i governanti e i governati del pianeta le condividano. Ma questo non risulta né a me né a nessuno. Neppure a quelli che lo pensano, giacché per primi – e logicamente – indicano il nemico, che è colui che non condivide le loro immaginazioni. Cioè Trump, ma anche tanti altri: Putin, Xi, Modi, gli Aiatollà, ecc. ecc. Cioè la grande maggioranza di governanti e governati del mondo.

Ma non crede che nel futuro possano crearsi dei modelli di cooperazione e coordinamento?

Può darsi nel futuro. Fino a quel momento vale quello che scrissi nel Principe: che si governa (e si combatte) con le leggi e la forza. Ma occorre per farlo che le leggi pretese siano accettate dai governati. Il che, adesso, non risulta anche per parte dell’Europa. Se nel futuro ciò si realizzerà, forse sarà possibile.

In cos’altro differisce  il Trump-pensiero da quello “corrente”?

In primo luogo che si basa su fatti ed esperienza storica (cioè sulla realtà), come da me fatto quando mi vestivo elegante per ragionare sulle vicende passate. Ad esempio nel documento si legge: “Chi un Paese ammette entro i propri confini – in quale numero e da dove – definirà inevitabilmente il futuro di quella nazione. Qualsiasi Paese che si consideri sovrano ha il diritto e il dovere di definire il proprio futuro… Nel corso della storia, le nazioni sovrane hanno proibito la migrazione incontrollata e concesso la cittadinanza solo raramente agli stranieri, che dovevano soddisfare criteri rigorosi. L’esperienza dell’Occidente negli ultimi decenni conferma questa antica saggezza. In molti Paesi del mondo, la migrazione di massa ha messo sotto pressione le risorse interne, aumentato la violenza e altri crimini, indebolito la coesione sociale, distorto i mercati del lavoro e minato la sicurezza nazionale”. Quando i romani, i quali tra l’altro, concedevano la cittadinanza con notevole larghezza, persero il controllo dell’immigrazione, l’Impero d’Occidente collassò in circa un secolo.

Al posto di quello subentrarono i regni romano-barbarici che erano tutt’altro dall’impero distrutto (anche se ne conservavano qualche vestigia).

Accusano Trump di non desiderare alleati, ma solo allineati alla visione americana.

Anche le mosche vogliono guidare i cavalli, perfino in politica. Figurarsi se non lo desidera il capo della prima superpotenza del pianeta. Accusare Trump di ciò è sfondare una porta aperta. Attraverso la quale passano tutti.

Ma Trump ha il senso del limite che diversi suoi predecessori avevano smarrito. Scrive infatti che “L’epoca in cui gli Stati Uniti sorreggono da soli l’intero ordine mondiale come Atlante è finita. Tra i nostri molti alleati e partner contiamo decine di nazioni ricche e sofisticate che devono assumersi la responsabilità primaria per le loro regioni e contribuire molto di più alla nostra difesa collettiva”. Io ho sempre sostenuto che per essere indipendenti occorre disporre di potenza e virtù propria, e non fondarsi su quella di altri. Indicando ciò, Trump indica la via maestra per determinare liberamente il proprio destino.

Ma tanto in Europa non vogliono capirlo.

Col rischio di finire a servizio permanente di altri. Oggi Trump, domani Xi o Modi passando per Putin. Gli è che si immaginano che la lotta per il potere si faccia con le favole.

Come scrissi secoli fa, discorrendo dei profeti disarmati o armati “Nel primo caso, sempre capitano male e non conducono cosa alcuna: ma quando dependono da lloro proprii e possono forzare, allora è che rare volte periclitano: di qui nacque che tutti e profeti armati vinsono e li disarmati ruinorno”. Vale in ogni caso, ma ancor più per coloro che credono – e spesso è così – di portare novità, come sostenevo “se uno principe ha tanto stato che possa, bisognando, per sé medesimo reggersi, o vero se ha sempre necessità della defensione d’altri. E per chiarire meglio questa parte, dico come io iudico coloro potersi reggere per sé medesimi che possono, o per abbondanzia di uomini o di danari, mettere insieme uno exercito iusto”.

Gli altri è meglio che si organizzino a difesa, la quale necessita in particolare, della fedeltà e convinzione dei sudditi. Che già ridotta,  diminuisce ancora, come si legge nel documento.

Mi pare però che l’abbiano capito anche in Europa, dato che, specie la Germania, si stanno riarmando.

Era ora. Solo che per non perdere la faccia, seguono già il pensiero di Trump, ma lo attaccano per far dimenticare decenni di prediche contrarie, recitate a ogni piè sospinto. Alcuni a quelle prediche sono così affezionati che mostrano di non averlo capito neppure oggi.

Concludendo che cos’altro l’ha colpita?

Il fatto che Trump abbia ricordato a tutti quello che ha sostenuto il mio successore Hobbes: che lo scambio politico è tra protezione ed obbedienza – lo ripete più volte. Non si obbedisce a chi non protegge: ma se protegge ha diritto all’obbedienza.

Le élite europee le quali pretenderebbero la protezione americana, a gratis e con infedeltà (parziale) compresa, non manifestano il coraggio della libertà politica, tanto si sono mummificate nelle loro illusioni.

La ringrazio tanto

L’aspetto, quando vuole.

Todoro Klitsche de la Grange

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Trump annuncia il blocco navale totale delle esportazioni petrolifere “sanzionate” del Venezuela_di Simplicius

Trump annuncia il blocco navale totale delle esportazioni petrolifere “sanzionate” del Venezuela

Simplicius 18 dicembre
 
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Sembra che l’amministrazione Trump si stia finalmente preparando a intensificare il conflitto venezuelano una volta per tutte, dopo che lo stesso Trump aveva dichiarato ai giornalisti che “presto” sarebbero iniziati “attacchi terrestri” sul suolo venezuelano. Trump ha poi superato ogni limite annunciando un blocco navale totale delle petroliere venezuelane nel modo più pomposo che più si addice al suo solito modo di fare:

Questo è avvenuto dopo che le forze speciali statunitensi avevano già sequestrato una petroliera al largo delle coste del Venezuela proprio la settimana scorsa, con l’accusa di trasportare petrolio venezuelano “soggetto a sanzioni” destinato all’esportazione. È stata inventata una complessa storia su come la petroliera fosse legata alla “flotta ombra” del Venezuela con collegamenti a Hezbollah e all’Iran, se si può credere a questa assurdità:

Il 10 dicembre 2025, gli Stati Uniti hanno sequestrato la petroliera Skipper nel Mar dei Caraibi al largo delle coste del Venezuela. La Skipper era stata sanzionata dal Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti nel 2022 per il suo presunto coinvolgimento in una flotta ombra di navi dedita al traffico di petrolio che coinvolgeva il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche e Hezbollah.

Recentemente, i giornalisti hanno persino chiesto a Trump se il blocco riguardasse più il “traffico di droga” o in realtà il “petrolio”, con Trump che ha lasciato intendere che si tratta di tutte queste cose insieme e anche di più, rivelando in un colpo solo il complotto imperialista.

Ora, come si è visto nel precedente articolo, Trump ha raddoppiato il suo ultimo motivo narrativo, accusando il Venezuela di “rubare” il petrolio degli Stati Uniti:

Stephen Miller, consigliere di punta di Trump e vice capo di gabinetto della Casa Bianca per le politiche, ha rincarato la dose con una retorica escalatoria:

Qui un canale analitico russo ha fornito la vera notizia su questo cosiddetto petrolio rubato:

Di quale petrolio “rubato” sta parlando Trump?

Il 28 febbraio 2007 Hugo Chávez, allora presidente del Venezuela, firmò una legge sulla nazionalizzazione dei giacimenti petroliferi.

A tutte le società straniere operanti nel Paese è stato offerto di partecipare a joint venture, in cui almeno il 60% delle azioni sarebbe appartenuto alla società statale PDVSA.

Il decreto presidenziale ha colpito le società americane Chevron Corp., ConocoPhillips, Exxon Mobil Corp., la britannica BP, la francese Total SA e la norvegese Statoil ASA, che hanno perso il controllo dei giacimenti petroliferi in fase di sviluppo nel bacino del fiume Orinoco.

A quel tempo, gli investitori stranieri mantenevano una certa autonomia solo nei giacimenti petroliferi della cintura petrolifera dell’Orinoco, dove avevano svolto un ruolo di primo piano prima della firma della legge. Negli anni ’90, il governo venezuelano ha consentito l’ingresso di operatori stranieri nell’Orinoco perché i giacimenti di quella zona erano considerati poco promettenti e richiedevano ingenti investimenti di capitale.

Tuttavia, gradualmente, le principali compagnie straniere hanno aumentato la produzione di petrolio nell’Orinoco fino a 600 mila barili al giorno. Fin dall’inizio, gli operatori stranieri hanno svolto attività di esplorazione, produzione e costosa lavorazione primaria del petrolio greggio nei giacimenti dell’Orinoco in collaborazione con PDVSA.

Secondo alcuni dati, l’ammontare degli investimenti delle suddette società nei beni successivamente nazionalizzati ammontava ad almeno 17 miliardi di dollari.

Alcune delle richieste delle compagnie petrolifere straniere sono state successivamente soddisfatte dalle autorità venezuelane attraverso un risarcimento monetario diretto.

Ma non tutte, e la questione non è ancora completamente risolta: alcune aziende continuano a chiedere un risarcimento e hanno avviato procedimenti presso organismi arbitrali stranieri.

#Venezuela

Informatore militare

Per inciso, secondo quanto riferito, una petroliera denominata Hyperion, appartenente alla cosiddetta “flotta ombra” della Russia, si sta avvicinando al Venezuela, con molti che attendono con apprensione le azioni degli Stati Uniti come prova del nove per capire quanto gli Stati Uniti oseranno adottare uno stile di confronto “aggressivo” nei confronti della Russia direttamente:

È interessante notare che la petroliera russa “Hyperion” è entrata nelle acque dei Caraibi diretta verso il terminal Jose, in Venezuela.

La nave è soggetta alle sanzioni dell’OFAC statunitense… il che significa che fa parte della cosiddetta “flotta ombra”.

Fonti indipendenti di monitoraggio marittimo hanno riferito che le petroliere russe soggette a sanzioni continuano a operare nei terminal venezuelani come il Jose Terminal, nonostante Washington cerchi di impedirlo. –

È stato anche riferito che le petroliere russe in transito nel Mar Baltico hanno ora iniziato a dotarsi di sentinelle armate, il che ha alimentato “voci” sulla “natura” precisa di queste misure di sicurezza:

Una strana situazione è stata segnalata nel Mar Baltico. La Marina svedese riferisce che uomini armati in uniforme militare sono stati avvistati a bordo di petroliere russe della “flotta ombra” nel Mar Baltico.

La flotta ombra della Federazione Russa è protetta dal personale militare, ha dichiarato il capo del comando operativo della Marina svedese, Marco Petkovic, in onda sul canale televisivo svedese SVT Nyheter.

Secondo lui, personale militare in uniforme e uomini armati – presumibilmente dipendenti di società di sicurezza private – sono stati avvistati su petroliere russe che operavano eludendo le sanzioni occidentali.

Uno dei sussurri ammiccanti, tematicamente, da un canale affiliato a Wagner:

Le guardie di sicurezza private che proteggono le petroliere dai pirati sono sospettosamente giovani, magre e abili nell’uso delle armi.

Ora ci sono nuove regole per la missione che coinvolge la “flotta ombra”, compreso l’uso di missili guidati anticarro e sistemi missilistici Strela.

Beh, questo darà ai bucanieri baltici con la gamba di legno qualcosa su cui riflettere e da far tremare le loro ossa.

Il russo Lavrov ha giustamente sottolineato che gli europei chiudono volutamente un occhio sulla pirateria illegale degli Stati Uniti nei Caraibi per placare Trump, forse una sorta di codice dei pirati con un occhio solo. Da RT:

L’Europa tace sugli attacchi statunitensi nei Caraibi per ottenere il favore di Trump sulle loro proposte di pace per l’Ucraina — Lavrov

La Russia è “preoccupata” per gli attacchi della Marina statunitense contro imbarcazioni civili e per una probabile operazione di terra

” Quasi tutti i paesi lo trovano inaccettabile, tranne gli europei”

È solo un altro esempio della famosa doppia morale basata sull’inganno doppelmoral.

E a proposito degli standard morali ed etici dell’Occidente:

La Camera respinge con due voti la risoluzione sui poteri di guerra in Venezuela

Il disegno di legge promosso dai democratici avrebbe impedito a Trump di intraprendere azioni militari contro Maduro

Un ostacolo in meno per Trump

Passando alla Russia, Putin ha fornito il proprio aggiornamento militare di fine anno, durante il quale ha rilasciato diverse dichiarazioni interessanti.

Qui ribadisce che la Russia “preferirebbe” risolvere il conflitto militare con mezzi diplomatici, ma se ciò fosse impossibile, lo risolverebbe sicuramente con mezzi militari:

Qui Putin fa una dichiarazione classica: un tempo la Russia aspirava a entrare a far parte del mondo “civilizzato” dell’Occidente, ma ora si rende conto che in realtà lì non c’è altro che degrado:

Putin ha persino causato un enorme scalpore definendo i leader europei “maialetti”:

Sebbene Dugin abbia approfondito la sfumatura:

https://www.politico.eu/articolo/russia-vladimir-putin-definisce-i-leader-europei-piccoli-maiali/

Belousov ha inoltre annunciato che, secondo il Ministero della Difesa russo, l’Ucraina ha perso 500.000 soldati uccisi in azione, con un totale di 1,5 milioni di vittime:

È stato presentato questo grafico, che mostra 1.496.700 vittime, 213.000 pezzi di equipaggiamento militare distrutti, nonché il 70% della capacità energetica dell’Ucraina nelle centrali termiche fuori uso insieme al 37% delle risorse idroelettriche:

In Ucraina, oltre il 70% delle centrali termiche e oltre il 37% delle centrali idroelettriche sono state messe fuori uso, ha riferito Belousov. Le capacità energetiche di Kiev sono diminuite di oltre la metà.

L’efficacia degli attacchi mirati delle truppe russe è di un ordine di grandezza superiore a quella delle forze armate ucraine.

Un’altra dichiarazione rivelatrice di Belousov riguardava l’uso dei droni da parte della Russia. Per molto tempo ci sono state fornite le cifre ufficiali dell’Ucraina relative alle perdite russe causate dai droni rispetto all’artiglieria, ecc., ma fino ad ora non avevamo la versione russa di tali cifre.

Qui viene rivelato che la Russia infligge apparentemente il 50% delle sue perdite al nemico tramite droni FPV:

La formazione delle truppe dei sistemi senza pilota sarà completata nel 2026, ha affermato Belousov. Egli ha sottolineato che la natura delle azioni dell’esercito russo è cambiata.

Ora, fino alla metà delle perdite nemiche sono dovute ai droni FPV. Le forze armate russe hanno raggiunto una doppia superiorità nell’uso degli UAV rispetto al nemico.

“In prima linea tra le truppe ci sono le unità “Rubicon”. Hanno distrutto più di 13.000 unità di armi e attrezzature, ovvero più di un quarto dei danni causati dal fuoco degli aerei senza pilota. Il centro ‘Rubicon’ ha ottenuto riconoscimenti internazionali. La sua esperienza di combattimento è riportata in importanti pubblicazioni internazionali, comprese quelle americane e britanniche. E il regime di Kiev ha dichiarato ‘Rubicon’ una minaccia alla sicurezza nazionale”, ha affermato Belousov.

Nel 2025 l’esercito russo ha ricevuto dieci volte più motociclette e buggy rispetto al 2024.

La maggiore mobilità delle unità consente loro di sfondare il “muro di droni” che Kiev sta cercando di costruire.

Il piano di reclutamento delle forze armate russe per quest’anno è stato superato, con quasi 410.000 cittadini che si sono arruolati per prestare servizio a contratto.

Le stime ucraine relative alle perdite russe si aggirano solitamente intorno al 60-70% secondo i droni FPV ucraini:

https://www.forbes.com/sites/davidhambling/2025/02/18/nuovo-rapporto-i-droni-ora-distruggono-due-terzi-degli-obiettivi-russi/

Questo ha senso, perché la Russia dispone di una preponderanza molto maggiore di artiglieria e forze aeree, responsabili di una certa percentuale delle perdite nemiche, mentre l’Ucraina è costretta a fare affidamento in misura molto maggiore solo sui droni. Tuttavia, per molte persone anche la cifra del 50% relativa alla Russia sarebbe una sorpresa, poiché ci sono ancora molti “scettici dei droni” che credono che l’artiglieria, l’aviazione e altre risorse russe superino di gran lunga e oscurino l’uso dei droni.

Syrsky ha recentemente fornito la sua personale conclusione in una nuova intervista:

Il compagno Syrysky riferisce che la Russia sta conducendo un’operazione offensiva strategica sul territorio dell’Ucraina con un contingente di 710 mila persone.

In questo contesto, il comandante in capo ucraino ha chiesto ai partner di aumentare il volume degli aiuti internazionali all’Ucraina, in particolare nel campo della difesa aerea e delle armi da combattimento a lungo raggio.

Infine, oggi gli analisti hanno riportato anche i dati relativi ai danni alle infrastrutture ferroviarie dell’Ucraina, che quest’anno hanno registrato un aumento considerevole:

In seguito all’analisi odierna del Ministero della Difesa russo. Secondo i dati ucraini, negli ultimi otto mesi sono stati registrati oltre 100 attacchi alle infrastrutture ferroviarie dell’Ucraina.

Si tratta del doppio degli attacchi alle ferrovie registrati negli anni 2023 e 2024 messi insieme.

La priorità degli attacchi è rappresentata dalle regioni orientali dell’Ucraina, quelle confinanti con le Repubbliche Popolari di Luhansk e Donetsk (LNR e DNR).

In breve, quest’anno la Russia ha davvero intensificato la distruzione di tutte le infrastrutture dell’Ucraina in modo concertato.

E come potremmo concludere senza un altro piccolo cenno di saluto al perenne treno della paura britannico, che continua la sua discesa caricaturale nella farsa:


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Di Tocci in Tocci_a cura di Giuseppe Germinario

L’Europa si rende finalmente conto di essere sola?

La nuova strategia di sicurezza nazionale di Washington ratifica un rapporto conflittuale.

Nathalie Tocci ha trovato ospitalità simultanea su Foreign Affairs e Foreign Policy. Niente male. Nathalie Tocci, degna figlia ed erede di Walter Tocci, già vicesindaco di Roma e parlamentare del PCI, DS, Democratici, ect, dall’alto della sua presidenza dello IAI (l’americanissimo Istituto Affari Internazionali) rappresenta il raccordo, il cordone ombelicale che unisce il progressismo italico ed europeo e la componente più guerrafondaia demo-neocon. Sull’onda della contrapposizione destra-sinistra, le componenti europee più codine faranno dell’antimperialismo il loro vessillo….finché ci saranno Trump e Putin. La faccia tosta non manca. Sarà che la poltrona comincia a scottare? Alla larga!_Giuseppe Germinario

By Nathalie Tocci, the director of the Istituto Affari Internazionali.

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Ursula von der Leyen in Riga, Latvia
Ursula von der Leyen a Riga, Lettonia

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5 dicembre 2025, ore 12:36

Gli europei si sono illusi che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump sia imprevedibile e incoerente, ma alla fine gestibile. È stranamente rassicurante, ma sbagliato. Dal discorso del vicepresidente degli Stati Uniti J.D. Vance denigranteL’Europa alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera a febbraio sulla nuova strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti che è stato rilasciatoIl 4 dicembre, l’amministrazione Trump ha da tempo una visione chiara e coerente per l’Europa: una che dà priorità ai legami tra Stati Uniti e Russia e cerca di dividere e conquistare il continente, con gran parte del lavoro sporco svolto dalle forze nazionaliste ed estremiste europee che ora godono del sostegno sia di Mosca che di Washington. È giunto il momento che l’Europa si renda conto che, quando si tratta della guerra tra Russia e Ucraina e della sicurezza del continente, nella migliore delle ipotesi è sola. Nella peggiore delle ipotesi, ora deve affrontare due avversari: la Russia a est e gli Stati Uniti di Trump a ovest.

Il secondo mandato di Trump

Ogni volta che Trump o i membri della sua amministrazione hanno attaccato l’Europa, compresa l’Ucraina, gli europei hanno incassato il colpo con un sorriso forzato e si sono prodigati per adulare la Casa Bianca. Ritengono che questa sia una mossa astuta, che sfrutta l’apparente incoerenza e vanità di Trump per riportarlo nell’orbita transatlantica. Eppure, ogni volta che Trump ha rivolto la sua limitata attenzione alla guerra in Ucraina, si è schierato con la Russia, dal Trappola nell’Ufficio Ovale fissata per il presidente ucraino Volodymyr Zelensky a febbraio, al tappeto rossopresentato al presidente russo Vladimir Putin in Alaska ad agosto, al “piano di pace” in 28 punti probabilmente scritto a Mosca. In ogni occasione, gli europei hanno incassato il colpo, impegnandosi a mantenere vivo il dialogo con Washington e a salvare ciò che resta del legame transatlantico. Gli europei hanno porto così tante guance a Trump che viene da chiedersi se ne abbiano ancora qualcuna.

Ma l’Europa ha scommesso invano su un infinito “Giorno della Marmotta”. Per quanto riguarda l’Europa, l’Ucraina e la Russia, l’amministrazione Trump è stata straordinariamente coerente. Trump vuole che la guerra in Ucraina finisca, soprattutto perché la considera un ostacolo alla normalizzazione dei rapporti tra Stati Uniti e Russia, in particolare agli accordi commerciali previsti tra il suo entourage e gli amici del Cremlino. L’ordine mondiale liberale è finito; al suo posto arriva la sopravvivenza del più forte. Piuttosto che la vecchia competizione tra superpotenze, Trump è desideroso di perseguire una collusione imperiale sia con la Russia che con la Cina. Il resto del mondo, compresa l’Europa, è nel menu coloniale.

Strategicamente, ciò ha una certa logica a breve termine. Ideologicamente, è in linea con il sostegno ai partiti e ai governi di estrema destra in Europa e oltre. Queste forze non solo condividono le opinioni nazionaliste e socialmente conservatrici sostenute dal MAGA, ma stanno anche lavorando per dividere l’Europa e svuotare il progetto di integrazione europea, con le forze di centro-destra che fanno da utili idioti collaborando con loro. Non c’è nulla di meno patriottico dei presunti patrioti e sovranisti europei che si dedicano a svuotare l’unità europea mentre perseguono la collusione con la Russia. La visione delineata nella nuova Strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti è scarsa in termini di politiche concrete riguardanti l’Europa, ma il messaggio del documento è chiaro: l’unico legame transatlantico concepibile è quello tra le forze di estrema destra, dove gli americani alfa dominano i loro servitori europei. È un esattamente parallelo della visione e della strategia che la Russia di Putin ha perseguito nei confronti dell’Europa per anni.

Se Trump non ha ancora soggiogato l’Europa ai suoi desideri, non è grazie alle astute manovre europee. Adulare Trump chiamandolo “papà”, riempiendolo di regali e adulanti Invitarlo a cene reali non salverà né l’Ucraina né le relazioni transatlantiche. Né lo faranno la frenetica diplomazia europea, i viaggi collettivi a Washington o i piani di pace alternativi. Se Trump non ha ancora realizzato la sua visione della guerra in Ucraina e di un nuovo equilibrio di potere in Europa, è semplicemente perché Putin sta ancora facendo il difficile. Ma contare sul fatto che Putin minacci sempre gli accordi tra Stati Uniti e Russia non può essere la strategia di sicurezza dell’Europa.

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Cosa dovrebbero fare invece gli europei?

La buona notizia è che esiste una massa critica di cittadini e governi europei che comprendono che la sicurezza europea passa per Kiev. Tra questi figurano Germania, Francia, Gran Bretagna, Polonia, paesi nordici, Stati baltici, Paesi Bassi, Spagna e, con qualche riserva, Italia, se non altro perché gli italiani sono restii a rimanere esclusi. Essi riconoscono che la guerra di conquista imperiale della Russia inizia con l’Ucraina, ma non finisce con essa, e che la capitolazione di Kiev non farebbe altro che liberare risorse russe per aprire nuovi fronti contro l’Europa. L’Ucraina è, tragicamente, la porta che impedisce alla guerra ibrida già in corso in Europa di trasformarsi in un attacco militare molto più grave.

La seconda buona notizia è che l’Europa ha delle leve, forse più degli Stati Uniti, quando si tratta della guerra in Ucraina. Da quando Trump è entrato in carica, il sostegno degli Stati Uniti all’Ucraina si è arrestato. È l’Europa che detiene la maggior parte dei beni congelati della Russia, impone le sanzioni che hanno un impatto reale, sostiene economicamente l’Ucraina e fornisce la maggior parte degli aiuti militari. In parte grazie agli investimenti europei in Ucraina, una quota crescente della difesa del Paese poggia ora sulla propria industria nazionale.

Non si tratta di dipingere un quadro eccessivamente roseo. Gli Stati Uniti rimangono assolutamente fondamentali per l’Ucraina e l’Europa, soprattutto per le informazioni di intelligence che forniscono e che consentono all’Ucraina di intercettare gli attacchi russi con droni e missili contro le città e le infrastrutture ucraine, nonché di identificare obiettivi per attacchi in profondità nel territorio russo. Oltre a ciò, gli Stati Uniti profittano vendendo armi che gli europei acquistano per l’Ucraina, armi che l’Europa non produce in quantità sufficienti o non produce affatto.

Ciò evidenzia un dilemma più ampio che riguarda la sicurezza dell’Ucraina e dell’Europa. L’Europa sta cercando di ridurre le proprie vulnerabilità aumentando la spesa per la difesa, ma spesso ciò comporta l’acquisto di ulteriori armi dagli Stati Uniti. Sta riducendo le proprie vulnerabilità a breve termine a costo di aumentare la propria dipendenza a lungo termine dagli Stati Uniti, che ora sfruttano la dipendenza dei propri alleati nominali. Gli europei sono ben lontani dal risolvere questo dilemma.

Sebbene non sia ancora visibile una risposta sistemica al dilemma della sicurezza europea, gli europei dispongono degli strumenti necessari per impedire la capitolazione dell’Ucraina e creare le condizioni per una pace giusta. Ciò che manca, e che deve essere affrontato, sono due ingredienti.

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Il primo è la capacità dell’Europa di concentrarsi sul proprio obiettivo strategico. I leader e le istituzioni europee hanno una comprensione astratta della strategia a lungo termine, ma nella pratica sono spesso coinvolti in interessi particolari e a breve termine. Questo è particolarmente evidente nel caso del Belgio e della Banca centrale europea. posizioni miopi sull’utilizzo dei beni congelati della Russia per aiutare l’Ucraina. Sebbene vi siano indubbiamente dei rischi finanziari e legali, questi sono insignificanti rispetto ai costi politici, economici e di sicurezza che l’Europa potrebbe dover sostenere se l’Ucraina dovesse cadere.

Il secondo ingrediente è il coraggio. I leader europei dovrebbero trovare il coraggio di andare a Washington, ringraziare cortesemente Trump per i suoi sforzi di “pace” e convincerlo che il mondo è pieno di altri conflitti che richiedono la sua attenzione. Gli europei possono dire: quando si tratta dell’Ucraina, possiamo gestire la guerra. Tutto ciò che chiediamo è di mantenere il flusso di informazioni e continuare a dare il via libera agli acquisti di armi mentre guadagniamo tempo per costruire le nostre.

L’Europa non può promettere di porre fine alla guerra oggi, ma può impegnarsi a creare le condizioni per una sicurezza sostenibile nel continente. E se fosse necessario ricorrere alle lusinghe, l’Europa può persino rassicurare Trump che, quando arriverà il giorno della pace, sarà lieta di dedicargli un monumento. aquadrato,o uno splendente, premio d’oro per lui.

Come l’Europa ha perso

Il continente riuscirà a sfuggire alla trappola di Trump?

Matthias Matthijs e Nathalie Tocci

Gennaio/febbraio 2026 Pubblicato il 12 dicembre 2025

I leader europei con il presidente degli Stati Uniti Donald Trump alla Casa Bianca, agosto 2025 Alexander Drago / Reuters

MATTHIAS MATTHIJS è professore associato di Economia politica internazionale presso la Scuola di Studi Internazionali Avanzati dell’Università Johns Hopkins e Senior Fellow per l’Europa presso il Council on Foreign Relations.

NATHALIE TOCCI è James Anderson Professor of the Practice presso la Scuola di Studi Internazionali Avanzati dell’Università Johns Hopkins a Bologna e direttrice dell’Istituto Affari Internazionali di Roma.

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Quando il presidente degli Stati Uniti Donald Trump è tornato in carica nel gennaio 2025, l’Europa si è trovata di fronte a una scelta. Mentre Trump avanzava richieste draconiane per un aumento della spesa europea per la difesa, minacciava le esportazioni europee con nuovi dazi doganali e sfidava i valori europei di lunga data sulla democrazia e lo Stato di diritto, i leader europei potevano assumere una posizione conflittuale e opporsi collettivamente oppure scegliere la via della minor resistenza e cedere a Trump. Da Varsavia a Westminster, da Riga a Roma, hanno scelto la seconda opzione. Invece di insistere nel negoziare con gli Stati Uniti come partner alla pari o di affermare la loro autodichiarata autonomia strategica, l’UE e i suoi Stati membri, così come i paesi non membri come il Regno Unito, hanno adottato in modo riflessivo e coerente un atteggiamento di sottomissione.

Per molti in Europa, questa è stata una scelta razionale. I sostenitori centristi della politica di appeasement sostengono che le alternative – opporsi alle richieste di Trump in materia di difesa, ricorrere a una escalation di tipo cinese nelle trattative commerciali o denunciare le sue tendenze autocratiche – sarebbero state dannose per gli interessi europei. Gli Stati Uniti avrebbero potuto abbandonare l’Ucraina, ad esempio. Trump avrebbe potuto proclamare la fine del sostegno statunitense alla NATO e annunciare un significativo ritiro delle forze militari statunitensi dal continente europeo. Ci sarebbe potuta essere una guerra commerciale transatlantica su vasta scala. Secondo questo punto di vista, è solo grazie ai cauti tentativi di placare gli animi da parte dell’Europa che nessuna di queste cose si è verificata.

Questo, ovviamente, potrebbe essere vero. Ma tale prospettiva ignora il ruolo che la politica interna europea ha svolto nel promuovere l’accordo in primo luogo, nonché le conseguenze politiche interne che la politica di appeasement potrebbe avere. L’ascesa dell’estrema destra populista non è solo un fenomeno politico americano, dopotutto. In un numero crescente di Stati dell’UE, l’estrema destra è al governo o è il principale partito di opposizione, e coloro che sono favorevoli all’appeasement nei confronti di Trump non ammettono facilmente quanto siano ostacolati da queste forze nazionaliste e populiste. Inoltre, spesso ignorano come questa strategia contribuisca a rafforzare ulteriormente l’estrema destra. Cedendo a Trump in materia di difesa, commercio e valori democratici, l’Europa ha di fatto rafforzato quelle forze di estrema destra che vogliono vedere un’UE più debole. La strategia europea nei confronti di Trump, in altre parole, è una trappola controproducente.

C’è solo un modo per uscire da questo circolo vizioso. L’Europa deve adottare misure per ripristinare la propria capacità di agire laddove è ancora possibile. Anziché aspettare fino al gennaio 2029, quando secondo un pensiero magico l’attuale incubo transatlantico giungerà al termine, l’UE deve smettere di strisciare e costruire una maggiore sovranità. Solo così potrà neutralizzare le forze politiche che la stanno svuotando dall’interno.

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DISTURBO DA DEFICIT DI AMBIZIONE

L’acquiescenza dell’Europa nei confronti di Trump sulla spesa per la difesa è la scelta più sensata. La guerra in Ucraina è una guerra europea, che mette a rischio la sicurezza dell’Europa. Il catastrofico incontro alla Casa Bianca tra Trump e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky nel febbraio 2025, durante il quale quest’ultimo è stato rimproverato e umiliato, è stato un segnale inquietante che gli Stati Uniti potrebbero abbandonare completamente l’Ucraina, minacciando immediatamente la sicurezza del fianco orientale dell’Europa. Di conseguenza, al vertice NATO del giugno 2025, gli alleati europei hanno riconosciuto le preoccupazioni di Washington sulla ripartizione degli oneri in Ucraina e in generale hanno promesso di aumentare drasticamente la loro spesa per la difesa al cinque per cento del PIL, acquistando anche molte più armi di fabbricazione americana a sostegno dello sforzo bellico di Kiev.

Poi, dopo che Trump ha steso il tappeto rosso al presidente russo Vladimir Putin ad Anchorage, in Alaska, a metà agosto, un gruppo di leader europei, tra cui Zelensky, si è recato a Washington nel tentativo collettivo di persuadere Trump. Sono riusciti a mettere alle strette il presidente degli Stati Uniti sostenendo le sue ambizioni di mediazione e sviluppando piani per una “forza di rassicurazione” europea da schierare in Ucraina nel caso (improbabile) in cui Trump fosse riuscito a negoziare un cessate il fuoco. Si può sostenere che questi accurati sforzi di placazione abbiano funzionato: oggi Trump sembra avere una considerazione molto più alta dei leader europei; sembra aver deciso di consentire agli europei di acquistare armi per l’Ucraina; ha esteso le sanzioni alle compagnie petrolifere russe Lukoil e Rosneft; e non si è effettivamente ritirato dalla NATO.

Ma questo risultato è più il frutto dell’intransigenza di Putin che della diplomazia europea. Inoltre, è un successo solo se confrontato con la peggiore alternativa possibile. Finora gli europei non sono riusciti a ottenere un ulteriore sostegno americano per l’Ucraina. Non sono nemmeno riusciti a spingere il presidente degli Stati Uniti ad approvare un pacchetto di nuove sanzioni globali contro la Russia, con un disegno di legge bipartisan che prevede misure attive paralizzanti in sospeso al Congresso. E concentrandosi sul conseguimento di vittorie politiche con Trump, non hanno ancora sviluppato una strategia europea solida e coerente per la loro difesa a lungo termine che non dipenda essenzialmente dagli Stati Uniti.

Esercitazioni militari della NATO nei pressi di Xanthi, Grecia, giugno 2025Louisa Gouliamaki / Reuters

Il nuovo obiettivo del cinque per cento per le spese militari, ad esempio, non è stato determinato da una valutazione europea di ciò che è fattibile, ma piuttosto da ciò che avrebbe soddisfatto Trump. Questo cinico stratagemma è stato reso evidente quando il segretario generale della NATO, Mark Rutte, ha inviato dei messaggi di testo a Trump salutando la sua “GRANDE” vittoria all’Aia, messaggi che Trump ha poi ripubblicato con gioia sui social media. Nel frattempo, molti alleati europei, tra cui grandi paesi come Francia, Italia e Regno Unito, hanno accettato l’obiettivo del cinque per cento ben sapendo di non essere in una posizione fiscale tale da poterlo raggiungere in tempi brevi. Anche gli impegni europei ad “acquistare americano” sono stati presi con entusiasmo senza alcun piano concreto per ridurre in modo significativo tali dipendenze militari strutturali in futuro.

Il fallimento dell’Europa nell’organizzare la propria difesa può essere interpretato come una mancanza di ambizione, direttamente collegata al fervore nazionalista che ha travolto il continente negli ultimi cinque anni. Con l’ascesa dei partiti politici di estrema destra, il loro programma ha frenato il progetto di integrazione europea. In passato, questi partiti spingevano per uscire completamente dall’UE, ma dopo il ritiro del Regno Unito nel 2020, ormai ampiamente riconosciuto come un fallimento politico, hanno optato per un programma diverso e più pericoloso, che consiste nel minare gradualmente l’Unione Europea dall’interno e soffocare qualsiasi sforzo sovranazionale europeo. Per vedere l’effetto del populismo di estrema destra sulle ambizioni e sull’integrazione europee, basta confrontare la risposta significativa alla pandemia di COVID-19, quando l’UE ha mobilitato collettivamente oltre 900 miliardi di dollari in sovvenzioni e prestiti, con le deludenti iniziative di difesa odierne. Per difendere collettivamente l’Europa dalle aggressioni esterne, che rappresentano senza dubbio una minaccia molto più grave, l’UE ha raccolto solo circa 170 miliardi di dollari in prestiti.

L’ironia, ovviamente, è che proprio perché le forze di estrema destra hanno reso impossibile una forte iniziativa di difesa dell’UE, i leader europei hanno ritenuto di non avere altra scelta che affidarsi a un uomo forte proveniente dall’America. Tuttavia, è improbabile che l’estrema destra stessa paghi il prezzo politico di questa sottomissione. Al contrario, l’obiettivo del 5% di spesa per la difesa e la sicurezza della NATO rischia di diventare ulteriore argomento a favore dei populisti, soprattutto nei paesi lontani dal confine russo, come Belgio, Italia, Portogallo e Spagna. I leader europei potrebbero dover compromettere la spesa pubblica per la sanità, l’istruzione e le pensioni pubbliche per raggiungere l’obiettivo, alimentando la narrativa dell’estrema destra sul dilemma “armi o burro”.

UNA CASA DIVISA

La capitolazione europea alle richieste commerciali di Trump è ancora più autodistruttiva. Almeno nel campo della difesa, le relazioni transatlantiche non sono mai state tra pari. Ma se gli europei sono dei pesi leggeri in campo militare, sono orgogliosi di essere dei giganti economici. Le dimensioni del mercato unico dell’Unione Europea e la centralizzazione della politica commerciale internazionale nella Commissione Europea hanno fatto sì che, quando Trump ha scatenato una guerra commerciale nel mondo, l’UE fosse in una posizione quasi altrettanto favorevole quanto la Cina per condurre trattative difficili. Quando il Regno Unito ha rapidamente accettato una nuova aliquota tariffaria del dieci per cento con gli Stati Uniti, ad esempio, l’ipotesi generale al di fuori degli Stati Uniti era che il potere di mercato molto maggiore dell’UE le avrebbe consentito di ottenere un accordo molto più vantaggioso.

Il commercio era anche l’area in cui, in vista delle elezioni statunitensi del 2024, era già stata messa in atto una discreta quantità di “Trump proofing”, con i paesi europei che hanno brandito sia la carota, come l’acquisizione di più armi americane e gas naturale liquefatto, sia il bastone, come un nuovo strumento anti-coercizione che conferisce alla Commissione europea un potere significativo di ritorsione in caso di intimidazioni economiche o vere e proprie prepotenze da parte di Stati ostili.

Ad esempio, in risposta all’annuncio del presidente degli Stati Uniti di dazi del 25% su acciaio e alluminio nel febbraio 2025, i funzionari della Commissione europea avrebbero potuto attivare immediatamente un pacchetto preparato di circa 23 miliardi di dollari in nuovi dazi su beni statunitensi politicamente sensibili, come la soia dell’Iowa, le motociclette del Wisconsin e il succo d’arancia della Florida. Quindi, in risposta ai dazi reciproci del “Liberation Day” di Trump nell’aprile 2025, avrebbero potuto scegliere di attivare il loro “bazooka” economico, come viene spesso definito lo strumento anti-coercizione. Poiché gli Stati Uniti continuano ad avere un surplus significativo nel cosiddetto commercio invisibile, i funzionari dell’UE avrebbero potuto prendere di mira le esportazioni di servizi statunitensi verso l’Europa, come le piattaforme di streaming e il cloud computing o alcuni tipi di attività finanziarie, legali e di consulenza.

Ma invece di intraprendere (o anche solo minacciare di intraprendere) un’azione collettiva di questo tipo, i leader europei hanno trascorso mesi a discutere e a minarsi a vicenda. Questo è l’ennesimo esempio di come gli attori di estrema destra, sempre più forti, stiano indebolendo l’UE. Storicamente, i negoziati commerciali sono stati condotti dalla Commissione europea, con i governi nazionali in secondo piano. Quando la prima amministrazione Trump ha cercato di aumentare la pressione commerciale sull’UE, ad esempio, Jean-Claude Juncker, allora presidente della Commissione europea, ha allentato le tensioni recandosi a Washington e presentando a Trump un accordo semplice incentrato sui vantaggi reciproci.

L’Europa ha adottato in modo riflessivo e coerente un atteggiamento di sottomissione.

Nella seconda amministrazione Trump, tuttavia, la situazione non poteva essere più diversa. Questa volta, la posizione negoziale della Commissione è stata indebolita fin dall’inizio da un coro dissonante, con Stati membri chiave che hanno espresso preventivamente la loro opposizione alle ritorsioni. In particolare, il primo ministro italiano Giorgia Meloni, beniamina dell’estrema destra di Trump, ha invocato il pragmatismo e ha messo in guardia l’UE dal dare il via a una guerra dei dazi. Anche la Germania ha esortato alla cautela; il nuovo governo, guidato dal cristiano-democratico Friedrich Merz, era preoccupato per la recessione, che avrebbe ulteriormente rafforzato l’estrema destra di Alternativa per la Germania (AfD), il principale partito di opposizione. Francia e Spagna, al contrario, hanno governi di centro o di centro-sinistra e hanno favorito una linea più dura e dazi di ritorsione più incisivi. (Vale la pena notare che la Spagna è anche l’unico paese della NATO che ha rifiutato categoricamente di aumentare la propria spesa per la difesa al nuovo standard del cinque per cento).

Il livello di disunione europea era così profondo che, tra la tarda primavera e l’inizio dell’estate, le aziende giunsero addirittura alla conclusione che sarebbe stato meglio negoziare autonomamente: le case automobilistiche tedesche Volkswagen, Mercedes-Benz e BMW condussero parallelamente le proprie trattative con l’amministrazione Trump sui dazi automobilistici. Solo alla fine di luglio 2025, dopo mesi di paralisi, Bruxelles ha accettato i dazi statunitensi del 15% sulla maggior parte delle esportazioni dell’UE, cinque punti percentuali in più rispetto a quanto negoziato dal Regno Unito.

Di fronte alle crescenti critiche interne sull’accordo, i leader europei hanno nuovamente affermato che l’UE non aveva altra scelta: poiché Trump era determinato a imporre dazi a tutti i costi, sostengono, i dazi di ritorsione avrebbero finito per danneggiare solo gli importatori e i consumatori europei. La ritorsione, in questa ottica, avrebbe significato spararsi sui piedi. Peggio ancora, avrebbe potuto rischiare di scatenare l’ira di Trump e vederlo scagliarsi contro l’Ucraina o abbandonare la NATO.

Ma ancora una volta, si tratta di una logica senza via d’uscita. Un’Europa che accetta l’estorsione economica transatlantica come un dato di fatto è un’Europa che permette al proprio potere di mercato di erodersi, incoraggiando ulteriormente l’estrema destra. Secondo un importante sondaggio condotto alla fine dell’estate scorsa nei cinque maggiori paesi dell’UE, il 77% degli intervistati ritiene che l’accordo commerciale tra UE e Stati Uniti “favorisca principalmente l’economia americana”, mentre il 52% concorda sul fatto che si tratti di “un’umiliazione”. La sottomissione dell’Europa non solo fa apparire Trump più forte, aumentando l’attrattiva di imitare le sue politiche nazionalistiche in patria, ma elimina anche la logica originale dell’integrazione europea: che un’Europa unita può rappresentare più efficacemente i propri interessi. Se il Regno Unito post-Brexit riuscirà a ottenere da Trump un accordo commerciale migliore di quello dell’UE, molti si chiederanno giustamente perché valga la pena rimanere con Bruxelles.

LA DIPLOMAZIA SOPRA LA DEMOCRAZIA

Il compromesso più netto in Europa è stato quello sui valori democratici. Nel corso del 2025, Trump ha intensificato i suoi attacchi alla libertà di stampa, ha dichiarato guerra alle istituzioni governative indipendenti e ha minato lo Stato di diritto esercitando pressioni politiche sui giudici affinché si schierassero dalla sua parte. E ha portato questa lotta in Europa: il vicepresidente degli Stati Uniti JD Vance e il segretario alla Sicurezza interna Kristi Noem hanno apertamente interferito o preso posizione nelle elezioni in Germania, Polonia e Romania.

Vance, ad esempio, non ha incontrato il cancelliere tedesco Olaf Scholz durante la Conferenza sulla sicurezza di Monaco nel febbraio 2025, ma ha incontrato la leader dell’AfD Alice Weidel e ha criticato pubblicamente la politica tedesca del firewall che esclude il partito dai negoziati di coalizione mainstream. A Monaco, Vance ha anche criticato aspramente l’annullamento del primo turno delle elezioni presidenziali in Romania da parte della Corte costituzionale di quel paese alla luce delle prove significative dell’influenza russa attraverso TikTok. Nel suo discorso ha affermato che la più grande minaccia per l’Europa proviene dall’interno e che i governi dell’UE stanno agendo nella paura dei propri elettori. Noem, dal canto suo, ha compiuto il passo straordinario di esortare apertamente il pubblico di Jasionka, in Polonia, a votare per il candidato di estrema destra Karol Nawrocki, definendo il suo avversario centrista un leader assolutamente disastroso.

Invece di respingere tali interferenze elettorali ostili, tuttavia, la leadership dell’UE è rimasta in gran parte in silenzio sulla questione, probabilmente sperando che la cooperazione in altri ambiti potesse sopravvivere. Questo approccio transazionale è particolarmente evidente nell’indagine della Commissione europea sulla disinformazione su X, la piattaforma di social media di proprietà dell’ex alleato di Trump Elon Musk. Inizialmente, Bruxelles aveva mosso accuse pesanti contro X, tra cui quella di amplificare le narrazioni filo-Cremlino e di smantellare i suoi team per l’integrità elettorale in vista delle elezioni europee. Da allora, però, l’indagine ha subito un rallentamento ed è stata minimizzata: a X sono state concesse ripetute proroghe per l’adeguamento e Bruxelles ha segnalato una preferenza per il “dialogo” piuttosto che per le sanzioni.

Il presidente francese Emmanuel Macron e Trump alla Casa Bianca, agosto 2025Al Drago / Reuters

Questa strategia non solo non sta producendo accordi nell’interesse europeo, ma ha anche un costo politico: normalizza le mosse illiberali negli Stati Uniti, riducendo al contempo lo spazio a disposizione dell’Europa per difendere gli standard liberali all’interno e all’estero. I leader di destra hanno già abbracciato i messaggi politici provenienti da Washington. Dopo le dichiarazioni di Vance a Monaco, ad esempio, i funzionari ungheresi hanno elogiato il “realismo” del vicepresidente. E dopo l’omicidio della personalità di destra americana Charlie Kirk, il primo ministro ungherese Viktor Orban ha condannato la “sinistra che incita all’odio” negli Stati Uniti e ha avvertito che “l’Europa non deve cadere nella stessa trappola”. In tutto il continente, i partiti di estrema destra hanno colto questi momenti per presentarsi come parte di una più ampia contro-élite occidentale, mentre i leader europei mainstream, timorosi di alimentare le tensioni con gli Stati Uniti, si sono astenuti dal denunciare la retorica con la stessa forza con cui lo avrebbero fatto in passato.

Come per le spese militari e il commercio, molti in Europa sostenevano che non valesse la pena provocare gli Stati Uniti sul tema del regresso democratico. Dopo tutto, era improbabile che la reazione europea potesse influenzare la politica interna americana. Alcuni sostenitori di una risposta europea più passiva teorizzano che il sostegno aggressivo dei seguaci di Trump all’estrema destra in Europa potrebbe gettare i semi della sua stessa rovina. Sia in Australia che in Canada, i candidati pro-Trump in testa alle elezioni hanno finito per perdere nelle elezioni della primavera del 2025.

Alcuni primi risultati hanno dimostrato che questa strategia potrebbe funzionare anche in Europa. Vance e Musk, ad esempio, hanno offerto il loro pieno sostegno all’AfD, ma ciò non ha avuto alcun effetto percepibile sul risultato in Germania. In Romania, il candidato filo-russo e filo-Trump in testa alle elezioni presidenziali ha perso, mentre nei Paesi Bassi i liberali hanno fatto un’impressionante rimonta. In Polonia, invece, il candidato sostenuto da Noem ha finito per vincere le elezioni presidenziali. Anche nella Repubblica Ceca ha vinto il miliardario populista e sostenitore di Trump. Sebbene le prove non siano ancora conclusive, è chiaro che la politica di appeasement ha offerto scarsa protezione contro la deriva illiberale dell’Europa. Attenuando la sua difesa dei valori democratici all’estero, l’UE ha reso più difficile affrontare il loro deterioramento all’interno.

UNO PER TUTTI, TUTTI PER UNO?

Gli europei sanno già cosa devono fare per interrompere questo circolo vizioso. La road map per un’UE più forte è stata delineata nel 2024 con due relazioni complete redatte da due ex primi ministri italiani che miravano a sfruttare i successi del fondo di recupero post-pandemia dell’UE. Enrico Letta e Mario Draghi hanno proposto di approfondire il mercato unico dell’UE in settori quali la finanza, l’energia e la tecnologia e di istituire una nuova importante iniziativa di investimento attraverso prestiti congiunti.

Ma nonostante l’attenzione positiva che queste proposte hanno ricevuto inizialmente, la maggior parte di esse rimane lettera morta solo un anno dopo. I leader europei devono affrontare elettori preoccupati per il costo della vita, scettici nei confronti di un’ulteriore integrazione e sensibili a qualsiasi iniziativa di debito congiunto di grande entità che possa sembrare un trasferimento di sovranità o aumentare i rischi fiscali. Ciò che occorre, quindi, non è un altro progetto massimalista, ma uno sforzo mirato su ciò che è ancora politicamente realizzabile. Sebbene non esista un rimedio unico, l’Unione può compiere piccoli passi in materia di difesa e commercio che ridurrebbero la sua dipendenza dagli Stati Uniti, e può apportare modifiche alle sue relazioni con la Cina e alla sua politica energetica che ripristinerebbero la sua capacità di azione e rafforzerebbero la sua autonomia.

Negli ultimi anni l’UE ha cercato di affrontare il problema della propria architettura di sicurezza. Ad esempio, ha lanciato il Fondo europeo per la difesa, ha creato un quadro per coordinare i progetti comuni e ha istituito lo Strumento europeo per la pace, che è stato utilizzato per finanziare le forniture di armi all’Ucraina (fino a quando l’Ungheria non lo ha bloccato). Ha inoltre sviluppato una politica industriale di difesa e proposto un piano di preparazione alla difesa per il 2030 che prevede iniziative relative a droni, terra, spazio, difesa aerea e missilistica. Ma questi strumenti sono ancora per lo più aspirazionali e, quando danno risultati, questi sono limitati e lenti, concentrati principalmente sul coordinamento industriale della difesa e su missioni su piccola scala.

Hanno anche messo in luce il tallone d’Achille dell’UE: il requisito dell’unanimità in materia di politica estera e di sicurezza. Un’organizzazione in cui tutti i 27 membri hanno pari voce in capitolo può essere facilmente ostacolata. Orban, ad esempio, ha posto il veto almeno dieci volte sugli aiuti e sui negoziati di adesione con l’Ucraina e sulle sanzioni alla Russia. Oltre al veto, il membro ungherese della Commissione europea, Oliver Varhelyi, è stato recentemente accusato di far parte di una presunta rete di spionaggio a Bruxelles. Sebbene si tratti per ora solo di un’accusa, ciò solleva la questione più ampia se esista ancora una fiducia politica sufficiente per discutere questioni di sicurezza fondamentali.

L’obiettivo del cinque per cento di spesa della NATO è acqua al mulino dei populisti.

I membri dell’UE hanno anche sensibilità divergenti nei confronti degli Stati Uniti: i paesi dell’Europa orientale e nordica continuano a vedere Washington come il loro garante ultimo della sicurezza, mentre la Francia, la Germania e alcune parti dell’Europa meridionale preferiscono una maggiore autonomia. Nel frattempo, i membri dell’UE che non fanno parte della NATO, come Austria, Irlanda e Malta, sono ostacolati dalle leggi costituzionali sulla neutralità che limitano la partecipazione alla difesa collettiva. Inoltre, diversi membri hanno conflitti bilaterali irrisolti, come la disputa tra Turchia e Grecia su Cipro e il Mediterraneo orientale.

Anziché elaborare una risposta dell’UE al problema della difesa europea, una strada più realistica consiste in una “coalizione dei volenterosi” europea. Il gruppo che si è coalizzato attorno al sostegno militare all’Ucraina costituisce una buona base per un’alleanza di questo tipo. Sebbene ancora informale, questo gruppo – guidato da Francia e Regno Unito e che comprende Germania, Polonia e Stati nordici e baltici – ha iniziato a prendere forma attraverso regolari incontri di coordinamento tra i ministri della difesa e accordi bilaterali di sicurezza, in particolare gli accordi di sicurezza guidati dall’Europa con Kiev firmati a Berlino, Londra, Parigi e Varsavia lo scorso anno. Ha dimostrato il proprio impegno nei confronti di Kiev indipendentemente dai cambiamenti politici negli Stati Uniti o nei paesi membri, sostenuto da forniture di armi continue, impegni di aiuto bilaterale a lungo termine e programmi congiunti di addestramento e approvvigionamento volti a mantenere lo sforzo bellico dell’Ucraina anche se il sostegno degli Stati Uniti dovesse vacillare. La sua logica è sia normativa che strategica: questi Stati comprendono che la sicurezza europea dipende in ultima analisi dalla difesa militare e dalla sopravvivenza nazionale dell’Ucraina.

La coalizione non è stata perfetta, ovviamente. Finora il suo obiettivo è stato troppo astratto, incentrato sull’ipotetica forza di rassicurazione, e solo di recente ha spostato la sua attenzione sul sostegno delle difese dell’Ucraina senza il supporto degli Stati Uniti. Man mano che si evolve, dovrebbe concentrarsi sul potenziamento, il coordinamento e l’integrazione delle forze convenzionali. E, in ultima analisi, dovrebbe affrontare la questione più difficile che la difesa europea si trova ad affrontare: la deterrenza nucleare.

La deterrenza nucleare è quasi un argomento tabù in Europa, poiché non esiste una valida alternativa all’ombrello americano: le deterrenze nucleari francese e britannica sono inadeguate a contrastare il vasto arsenale nucleare russo. Ma europeizzare tale deterrenza apre innumerevoli dilemmi, come il finanziamento di una capacità nucleare franco-britannica ampliata, la determinazione delle modalità di decisione sul suo utilizzo e la fornitura del supporto militare convenzionale necessario per consentire una deterrenza nucleare e una forza di attacco.

La questione di come garantire la deterrenza nucleare in Europa è tuttavia così importante che gli europei non possono continuare a ignorarla. La Polonia e la Francia hanno compiuto un primo passo quando hanno firmato un trattato bilaterale di difesa a maggio, e i leader polacchi hanno accolto con favore l’idea del presidente francese Emmanuel Macron di estendere l’ombrello nucleare francese agli alleati europei. Si tratta di un inizio promettente, ma queste discussioni non dovrebbero svolgersi a livello bilaterale; idealmente, dovrebbero estendersi alla coalizione dei volenterosi. L’obiettivo non è quello di sostituire la NATO, ma di garantire che, se Washington dovesse fare un passo indietro improvviso, l’Europa possa comunque reggersi in piedi di fronte alle minacce esterne.

ENERGIA DEL PERSONAGGIO PRINCIPALE

La stessa logica vale anche per il commercio. La prosperità dell’Europa si è sempre basata sull’apertura, ma l’accordo sbilanciato dell’UE con Trump ha messo in luce quanto sia facile sfruttare l’impegno del blocco a favore del libero scambio e commercio transatlantico. Tuttavia, l’UE ha partner che condividono la sua stessa visione. Ha già avviato iniziative di diversificazione, firmando e attuando accordi commerciali con Canada, Giappone, Corea del Sud, Svizzera e Regno Unito. Dovrebbe approfondire questi legami commerciali, ma anche andare avanti firmando e ratificando altri accordi con India, Indonesia e i paesi del Mercosur in America Latina, accelerando al contempo i negoziati e raggiungendo accordi con Australia, Malesia, Emirati Arabi Uniti e altri paesi.

Al di là degli accordi bilaterali, l’UE dovrebbe investire in una strategia più ampia per sostenere il sistema commerciale globale stesso. L’Organizzazione mondiale del commercio è completamente paralizzata dal 2019, quando il suo organo di appello ha cessato di funzionare perché gli Stati Uniti hanno bloccato la nomina di nuovi giudici. L’UE, tuttavia, potrebbe sviluppare un meccanismo alternativo per la risoluzione delle controversie e la definizione delle regole collaborando con i membri dell’Accordo globale e progressivo di partenariato transpacifico. Con oltre 20 paesi che rappresentano collettivamente oltre il 40% del PIL globale coinvolti nel commercio con l’UE, tale sforzo creerebbe di fatto un complemento all’OMC. Offrirebbe uno sbocco per la cooperazione tra potenze medie che condividono l’interesse dell’Europa a mantenere un ordine aperto e basato su regole. E dimostrerebbe che l’Europa rimane in grado di plasmare la governance economica globale piuttosto che limitarsi a reagire alle mosse degli Stati Uniti o della Cina sulla scacchiera geopolitica.

Per dimostrare ulteriormente questa capacità di agire, l’Europa deve finalmente sviluppare una politica autonoma nei confronti della Cina. Con l’intensificarsi della concorrenza tra Stati Uniti e Cina, la politica europea nei confronti della Cina è diventata funzionale a quella di Washington. Durante l’amministrazione Biden, questo non era considerato un problema: l’Europa era strategicamente dipendente dall’intelligence statunitense e alla mercé dei quadri di controllo delle esportazioni degli Stati Uniti, ma aveva un partner affidabile e prevedibile oltreoceano. Ora, però, con la politica cinese di Trump che oscilla tra l’escalation e la conclusione di accordi, l’Europa ha perso il suo orientamento. Bruxelles continua ad applicare dazi sui veicoli elettrici cinesi e a lamentarsi del sostegno segreto di Pechino agli sforzi bellici della Russia in Ucraina. Ma non è chiaro come l’UE possa opporsi alla Cina mentre Washington stringe accordi bilaterali con Pechino alle sue spalle.

Il commissario europeo al Commercio Maros Sefcovic a Bruxelles, agosto 2025Yves Herman / Reuters

Per riconquistare la propria credibilità come attore globale, l’UE dovrebbe perseguire una doppia strategia nei confronti della Cina: ferma e lucida quando è in gioco la sicurezza dei suoi membri, ma pragmatica e economicamente impegnata altrove. In materia di sicurezza, l’Europa non sarà in grado di convincere la Cina a interrompere gli scambi commerciali e l’acquisto di petrolio e gas dalla Russia. Tuttavia, gli europei potrebbero persuadere Pechino a smettere di esportare in Russia beni a duplice uso, ovvero quelli preziosi sia per scopi militari che civili. La Cina si aspetterebbe ovviamente qualcosa in cambio, comprese concessioni che alcuni in Europa potrebbero considerare sgradevoli, come l’impegno da parte della NATO a non cooperare più formalmente con i partner dell’Asia orientale.

L’Europa deve anche affrontare la sua difficile situazione energetica. Dall’invasione russa dell’Ucraina, gli europei hanno sostituito una vulnerabilità, ovvero la dipendenza dal gas russo, con un’altra, ovvero la forte dipendenza dal gas naturale liquefatto statunitense. Sebbene questo cambiamento fosse inevitabile nel breve termine, non può costituire la base per la sicurezza energetica a lungo termine, soprattutto data la volatilità delle relazioni transatlantiche. Essendo un continente povero di combustibili fossili, l’UE deve intraprendere un percorso più sostenibile. Ciò significa, come minimo, ampliare la propria rete di partner energetici e coltivare fornitori in Medio Oriente, Nord Africa e altre regioni. Ma significa anche raddoppiare gli sforzi sul Green Deal europeo, che attualmente viene indebolito da leggi omnibus sostenute dal centro-destra e dall’estrema destra.

La politica del Green Deal è difficile, soprattutto in un contesto di crisi del costo della vita e crescita lenta. Ma l’alternativa, ovvero il mantenimento dell’esposizione ai combustibili fossili e la vulnerabilità geopolitica, è molto peggiore. Il messaggio dovrebbe essere chiaro: la diversificazione energetica non riguarda solo il cambiamento climatico, ma anche la sovranità. Inoltre, una strategia industriale verde credibile contribuirebbe a creare i posti di lavoro ad alta tecnologia che i partiti nazionalisti sostengono di voler difendere. Dimostrerebbe che la decarbonizzazione e la forza economica possono rafforzarsi a vicenda nella pratica.

IL POTERE DEL NO

Nel loro insieme, queste misure non trasformerebbero l’Europa dall’oggi al domani. Tuttavia, inizierebbero a modificare la dinamica politica che ha intrappolato il continente in un ciclo di deferenza e divisione. Ogni iniziativa – preparazione alla difesa, diversificazione commerciale, politica interna nei confronti della Cina, transizione energetica e autonomia – dimostrerebbe che l’Europa è ancora in grado di agire collettivamente e strategicamente in condizioni avverse. Il successo su uno qualsiasi di questi fronti rafforzerebbe la fiducia sugli altri e creerebbe un sostegno politico per misure più audaci.

L’obiettivo più ampio è quello di ripristinare la consapevolezza che il destino dell’Europa è ancora nelle sue mani. L’autonomia strategica non richiede un confronto con Washington né l’abbandono dell’alleanza atlantica. Richiede la capacità di dire no quando necessario, di agire in modo indipendente quando gli interessi divergono e di sostenere un progetto coerente al proprio interno. L’appeasement è stata per troppo tempo la posizione predefinita dell’Europa. È stata comprensibile, persino razionale in alcuni casi, ma alla fine si è rivelata controproducente e ha alimentato le fiamme di una reazione nazionalista.

L’alternativa non è la demagogia o l’isolamento, ma un’azione costante e deliberata. Se l’Europa riuscirà a metterla in atto, potrà uscire da questo periodo di turbolenze transatlantiche come attore più autonomo, più unito e più rispettato sulla scena mondiale rispetto al passato.

HELBERG CI SPIEGA LA PAX SILICA_a cura di Emanuele Rossi

HELBERG CI SPIEGA LA PAX SILICA
Un documento da leggere con particolare attenzione per vari motivi:
1- ci fa toccare con mano il senso della nuova SSN presentata da Trump il 5 dicembre in uno dei suoi aspetti fondamentali;
2- rende evidente il ruolo meramente, sprezzantemente coreografico della UE e marginale di appena due stati europei, Olanda e Regno Unito;
3- risalta sempre più ciò che comunque è sempre stato anche nella breve fase globalistico-unipolare: la sussunzione delle dinamiche economiche e di sviluppo tecnologico a quelle politiche e geopolitiche;
4- la forza militare rimane il fondamento dell’azione degli stati. Gli Stati Uniti, almeno in buona parte della attuale amministrazione e delle forze di cui sono espressione, sono consapevoli di non avere appunto, al momento, la forza per sostenere uno scontro aperto con i competitori emergenti e di dover ricostruire le basi economiche e sociali interne al paese. Si vedrà se gli sviluppi dello scontro politico-sociale interno e delle dinamiche geopolitiche glielo consentiranno.
Giuseppe Germinario
 
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A cura di Emanuele Rossi
Alle quattro di mattina di martedì ho partecipato a un media briefing in cui il sottosegretario di Stato per gli Affari economici degli Stati Uniti, Jacob Helberg, ha presentato la Pax Silica Initiative, vista da Washington come un passaggio strutturale nella riorganizzazione dell’economia globale, con un baricentro chiaramente collocato nell’Indo-Pacifico e nelle catene del valore tecnologiche che attraversano l’Asia-Pacifico. Ero l’unico dei (pochi) giornalisti europei ad essere invitato, ed è questo già un segnale chiaro di dove si collocava l’interesse strategico degli Usa, anche (e soprattutto) perché ciò di cui si parlava è uno dei più importanti progetti messi in piedi dall’amministrazione Trump. Nelle parole del sottosegretario Helberg, non si tratta di un esercizio dichiarativo, ma dell’avvio di un’architettura strategica attraverso cui gli Stati Uniti stanno riallineando i propri alleati asiatici attorno alle infrastrutture materiali dell’era dell’intelligenza artificiale. Compute, silicio, minerali ed energia vengono definiti come asset strategici condivisi, al pari di quanto furono petrolio e acciaio nel XX secolo. Vista la centralità che Washington affida all’Indo-Pacifico per questo e altri progetti, e vista l’occasione di averne potuto parlare direttamente con il sottosegretario, oggi cerchiamo di approfondirne le dinamiche. Helberg inquadra Pax Silica come risposta alla più profonda riconfigurazione dell’economia globale dai tempi dell’elettrificazione. In questo contesto, gli Stati Uniti e un gruppo selezionato di partner (di cui solo i Paesi Bassi sono parte dell’Ue, inclusi probabilmente per l’unicità rappresentata da un’azienda olandese nella produzione di chip) hanno deciso di organizzarsi attorno a ciò che renderà possibile la crescita economica e la potenza militare del XXI secolo: capacità computazionale, semiconduttori, minerali critici ed energia. L’obiettivo dichiarato è costruire “le rotaie del XXI secolo”, ovvero le fondamenta fisiche e industriali su cui poggerà l’economia dell’AI. Il punto di partenza è una constatazione netta: se il Novecento ha funzionato grazie a catene del valore basate su oil & steel, il nuovo secolo sarà governato da supply chain tecnologiche molto più complesse, vulnerabili e geopoliticamente sensibili. Da qui la necessità di riallinearle in modo coerente con le priorità di sicurezza nazionale. Andiamo avanti!
Cos’è Pax Silica Pax Silica è un’iniziativa strategica a guida statunitense concepita per riallineare gli alleati attorno alla costruzione di una supply chain del silicio – e quindi dell’intelligenza artificiale – sicura, resiliente e orientata all’innovazione. L’iniziativa copre l’intero stack tecnologico: minerali critici ed energia come input, raffinazione e processing, manifattura avanzata, semiconduttori, infrastrutture di compute e data center, fino a logistica e trasporti. Secondo Helberg, si tratta degli asset strategici destinati a sostenere crescita economica e potenza militare nel XXI secolo. Nella sua logica, Pax Silica risponde alla necessità di ridurre dipendenze coercitive e vulnerabilità concentrate, proteggere le capacità fondative dell’AI e consentire ai Paesi allineati di sviluppare e distribuire tecnologie trasformative su larga scala. È esplicitamente presentata come una partnership positive-sum, che non mira a isolare altri attori, ma a coordinare policy industriali e investimenti tra economie che intendono restare competitive e prosperare nell’era dell’AI. Il perno operativo è stato l’inaugural Pax Silica Summit del 12 dicembre, convocato da Helberg, che ha riunito controparti di Giappone, Corea del Sud, Singapore e Australia – pilastri indo-pacifici della manifattura, della tecnologia e dei minerali – insieme a partner europei e mediorientali come Paesi Bassi, Regno Unito, Israele ed Emirati Arabi Uniti, con contributi come ospiti da Taiwan, Unione Europea, Canada e Oecd. Il summit ha rappresentato un momento di convergenza strategica su come rafforzare ecosistemi tecnologici “trusted”, sostenere offtake arrangements di lungo periodo, espandere capacità produttiva e coordinare risposte a overcapacity e dumping, lungo tutte le filiere critiche dell’AI, dalla connettività alle reti energetiche. Convitato di pietra, la Cina, di cui Helberg non ha mai parlato direttamente e che non ha mai nominato. Attenzione, perché questa è un’informazione non banale su come procede parte dell’attuale approccio statunitense a Pechino (quello non falco con la Cina, appunto).

I “first principles” come architrave strategicaLa dichiarazione congiunta firmata dai Paesi fondatori non è concepita come un accordo vincolante, ma come un insieme di first principles: principi di base destinati a orientare azione politica, cooperazione industriale e investimenti. Helberg richiama esplicitamente la cultura delle grandi aziende tecnologiche, dove i first principles fungono da riferimento stabile per decisioni operative e strategie di lungo periodo. Questi principi servono a fornire un ancoraggio comune per affrontare sfide condivise di sicurezza economica. Nel corso dei suoi primi viaggi internazionali – che hanno incluso il mondo Asean e Apec – Helberg sottolinea di aver riscontrato una convergenza crescente tra i leader: la sicurezza economica è ormai percepita come sicurezza nazionale. Le supply chain globali stanno cedendo sotto il peso di nuove realtà geopolitiche, e i governi ne sono pienamente consapevoli. Sono i temi di cui si compone la nuova National Security Strategy pubblicata a inizio mese e (come fa notare una fonte diplomatica piuttosto presente all’interno del dibattito statunitense) molto allineata con le visioni di Elbridge Colby, attualmente sottosegretario per le policy del Pentagono e tra i principali strateghi della presidenza Trump. Teorico dell’avere come obiettivo primario l’impedire che la Cina stabilisca un’egemonia regionale in Asia, Colby non è un idealista, ma piuttosto un “falco realista” che, per esempio, con freddo pragmatismo definisce Taiwan “non un interesse esistenziale” per gli Usa (posizione che con ogni probabilità è intimamente condivisa dal presidente Donald Trump).
PER APPROFONDIRE UNA COALIZIONE NON CONVENZIONALE
L’inquadramento all’interno del dibattito statunitense più alto della Pax Silica è necessario per comprenderne meglio il valore. I Paesi coinvolti nella fase iniziale – Stati Uniti, Giappone, Corea del Sud, Singapore e Australia, affiancati da Regno Unito e Israele – non costituiscono una coalizione tradizionale, ma riflettono la geografia reale delle supply chain dell’AI, che Helberg individua proprio nell’Indo-Pacifico come spazio primario di produzione, trasformazione e scalabilità tecnologica. La loro eterogeneità non è un limite, ma una risposta funzionale a sfide nuove. Ogni Paese porta un vantaggio distintivo: Giappone e Corea del Sud come potenze manifatturiere e tecnologie avanzate; Singapore come hub regionale per semiconduttori, hub finanziario e logistico; l’Australia come superpotenza mineraria indispensabile per la raffinazione; Israele come polo di innovazione; il Regno Unito come snodo tecnologico e finanziario. Pax Silica nasce così come una coalizione costruita sulle capacità specifiche degli alleati indo-pacifici, attorno ai quali si innestano partner complementari.
IL RUOLO DI TAIWAN
Qui il sottosegretario non poteva non affrontare il tema di Taiwan, perché se di chip si parla, allora non si può tenere escluso dal discorso il principale Paese produttore al mondo (come noto, oltre il 60% di tutti i chip a livello mondiale e quasi il 90–95% dei chip più avanzati viene prodotto nell’isola). Helberg chiarisce che l’assenza formale non equivale a esclusione sostanziale. Taipei ha partecipato alle sessioni chiave – in particolare su manifattura e semiconduttori – offrendo contributi considerati essenziali. La scelta di non includerla come firmataria deriva dalla volontà di valorizzare un dialogo bilaterale già in corso, l’Economic and Prosperity Bilateral Dialogue, ritenuto lo strumento più adatto per discussioni approfondite e sensibili. Non è chiaro quanto, anche informalmente, su questo pesi il rispetto della One China Policy. Helberg tuttavia sottolinea che la logica di Pax Silica non è quella di produrre documenti, ma di realizzare infrastrutture fisiche: smelter, acciaierie, data center, capacità produttive reali. Tutte le piattaforme multilaterali vengono quindi valutate in funzione della loro capacità di generare risultati concreti. In questa prospettiva, la partecipazione taiwanese resta centrale, e nuove adesioni alla dichiarazione sono attese nel primo trimestre del prossimo anno.


DALLA DICHIARAZIONE ALL’IMPLEMENTAZIONE
Secondo Helberg, infatti, l’iniziativa è ora entrata nella fase più delicata: l’implementazione. Questa si articolerà sui due binari principali. Il primo riguarda il coordinamento politico su questioni di sicurezza economica, con l’obiettivo di allineare – per quanto possibile – le policy nazionali dei partner. Il secondo è orientato a progetti concreti: investimenti, co-investimenti e potenziali joint venture lungo l’intera catena del valore. Con alcuni partner chiave, come Singapore, sono già nel programma di discussioni operative nelle prossime settimane. Helberg anticipa che i primi risultati tangibili potrebbero emergere già nel primo trimestre del prossimo anno, segnalando l’intenzione di passare rapidamente dalla cornice strategica all’azione industriale.


MINERALI CRITICI E APPROCCIO OLISTICO
Un pilastro centrale di Pax Silica è l’integrazione del lavoro sui minerali critici all’interno di una visione complessiva della catena di fornitura del silicio, con l’Indo-Pacifico come area chiave di de-risking strategico. L’Australia viene descritta da Helberg come attore indispensabile, in quanto superpotenza mineraria e snodo essenziale per la raffinazione necessaria alla fabbricazione dei semiconduttori, in un contesto in cui la concentrazione dell’offerta globale è considerata insostenibile. Gli accordi bilaterali sui minerali critici non sono separati dall’iniziativa, ma ne costituiscono un componente funzionale: essi alimentano Pax Silica rafforzando un ecosistema indo-pacifico di economie allineate. L’obiettivo non è solo la sicurezza dell’approvvigionamento, ma la costruzione di una filiera resiliente e integrata che riduca le dipendenze coercitive e sostenga la competitività tecnologica collettiva.


COORDINAMENTO INDUSTRIALE SENZA LOGICA SOMMA ZERO
Uno dei nodi più complessi riguarda il coordinamento delle policy industriali nazionali. Helberg respinge l’idea di una competizione interna tra alleati, sostenendo che il rischio di giochi a somma zero può essere mitigato attraverso investimenti legati ad accordi di offtake. Questi consentono di ancorare le decisioni industriali a impegni di acquisto concreti, facilitando le scelte del settore privato. Il sottosegretario insiste sul fatto che l’attuale contesto non consente rivalità tra partner: circa il 90% delle terre rare mondiali è controllato da un unico attore — la Cina — che tuttavia, come detto, non viene citata. È nei fatti una concentrazione giudicata insostenibile nel lungo periodo. In questa fase, c’è ampio spazio per espandere le capacità produttive di tutti senza entrare nella concorrenza reciproca. La competizione reale, sottolinea Helberg, non è tra alleati, ma contro l’attuale dominante.


APERTURA VERSO NUOVI PARTNER
Pax Silica viene presentato come un processo aperto e in evoluzione. Paesi non inclusi nella fase iniziale, come le Filippine, sono considerati partner essenziali e potenziali futuri partecipanti. Helberg evidenzia i contatti già avviati sul tema della sicurezza della catena di fornitura e dell’interesse condiviso per rafforzare la cooperazione. Il sottosegretario anticipa l’intenzione di proseguire il dialogo anche a livello bilaterale, con incontri programmati nei prossimi mesi. L’universo dei partner necessari, soprattutto nei settori dei minerali e della manifattura, è più ampio del nucleo iniziale, e l’iniziativa è pensata per crescere progressivamente. Ci sarà un ruolo più strutturato per l’Unione Europea? La domanda resta appesa…


UNA SOGLIA STORICA: LA PAX SILICA E IL CONFRONTO TOTALE SULL’AI
Nel quadro della competizione tecnologica globale, Helberg colloca Pax Silica all’interno di una strategia che vede l’Indo-Pacifico come teatro centrale del confronto totale sull’intelligenza artificiale. L’obiettivo statunitense è creare un vantaggio talmente competitivo elevato da risultare non scalabile, facendo leva su alleati che concentrano la maggior parte della capacità manifatturiera, tecnologicamente e mineraria necessaria all’AI. Da qui l’ambizione di rendere gli Stati Uniti – insieme ai partner indo-pacifici e a pochi altri che possono realmente produrre valore e primeggiare – quello che viene definito “arsenale dell’AI” del XXI secolo. Secondo Helberg, questa strategia ha già attratto centinaia di miliardi di dollari di investimenti e innescato il più grande rilancio industriale americano degli ultimi 150 anni. In questa visione, la sicurezza economica è parte integrante della sicurezza nazionale statunitense e del confronto strategico globale sull’AI, in piena coerenza con l’impostazione della National Security Strategy. Nelle sue conclusioni, Helberg afferma che per gli Stati Uniti la sicurezza economica non è una voce di bilancio, ma un prerequisito per la sopravvivenza nazionale. L’era della “resa al libero scambio” viene dichiarata conclusa, mentre prende forma una fase di rinascita industriale americana. Pax Silica si inserisce così come uno dei pilastri di questa transizione: un tentativo deliberato di ridisegnare le fondamenta materiali del sistema internazionale nell’era dell’intelligenza artificiale. Un messaggio enorme.

Vertice Pax Silica

Scheda informativa

Ufficio del portavoce

11 dicembre 2025

Delegates from various countries participate in a formal meeting around a conference table, with laptops, documents, and floral arrangements, in front of a "PAX SILICA: Securing the Silicon Supply Chain" banner.

Pax Silica è un’iniziativa strategica guidata dagli Stati Uniti volta a creare una catena di approvvigionamento del silicio sicura, prospera e guidata dall’innovazione, che va dai minerali critici e dagli input energetici alla produzione avanzata, ai semiconduttori, alle infrastrutture di intelligenza artificiale e alla logistica.

Basandosi su una profonda collaborazione con partner fidati, Pax Silica mira a ridurre le dipendenze coercitive, proteggere i materiali e le capacità fondamentali per l’intelligenza artificiale e garantire che le nazioni allineate possano sviluppare e implementare tecnologie trasformative su larga scala.

Pax Silica è una partnership a somma positiva. Non si tratta di isolare gli altri, ma di coordinarsi con partner che vogliono rimanere competitivi e prosperi.

Paesi partecipanti

Il primo vertice Pax Silica ha riunito le parti interessate provenienti da: Giappone, Repubblica di Corea, Singapore, Paesi Bassi, Regno Unito, Israele, Emirati Arabi Uniti e Australia, insieme ai contributi degli ospiti provenienti da Taiwan, Unione Europea, Canada e OCSE.

Insieme, questi partner ospitano le aziende e gli investitori più importanti che alimentano la catena di fornitura globale dell’IA.

Perché Pax Silica?

Un nuovo paradigma di sicurezza economica

Negli Stati Uniti e nei paesi partner è emerso un chiaro consenso: catene di approvvigionamento sicure, tecnologie affidabili e infrastrutture strategiche sono indispensabili per il potere nazionale e la crescita economica.

L’iniziativa risponde a:

  • Crescente richiesta da parte dei partner di approfondire la cooperazione economica e tecnologica con gli Stati Uniti.
  • La consapevolezza che l’intelligenza artificiale rappresenta una forza di trasformazione per la nostra prosperità a lungo termine.
  • Riconoscimento del fatto che sistemi affidabili sono essenziali per salvaguardare la nostra sicurezza e prosperità reciproche.
  • Aumento dei rischi derivanti dalle dipendenze coercitive.
  • L’importanza di pratiche di mercato eque e del coordinamento delle politiche per proteggere le tecnologie sensibili e le infrastrutture critiche.

Un momento economico di trasformazione

L’intelligenza artificiale sta riorganizzando l’economia mondiale. Il valore economico fluirà sempre più attraverso tutti i livelli della catena di approvvigionamento globale dell’intelligenza artificiale, generando opportunità storiche e domanda di energia, minerali critici, semiconduttori, produzione, hardware tecnologico, infrastrutture e nuovi mercati ancora da inventare.

Il significato del nome

“Pax Silica” deriva dal latino pax, che significa pace, stabilità e prosperità a lungo termine, come si evince da termini quali Pax Americana Pax RomanaSilica si riferisce al composto che viene raffinato in silicio, uno degli elementi chimici fondamentali per i chip dei computer che rendono possibile l’intelligenza artificiale.

Gli Stati Uniti stanno organizzando una coalizione di paesi basata sul principio della creazione di un ecosistema sicuro, resiliente e guidato dall’innovazione nell’intera catena di approvvigionamento tecnologico globale, dai minerali critici e dagli input energetici alla produzione avanzata, ai semiconduttori, alle infrastrutture di intelligenza artificiale e alla logistica.

Pax Silica è un nuovo tipo di raggruppamento e partnership internazionale che mira a unire i paesi che ospitano le aziende tecnologiche più avanzate al mondo per liberare il potenziale economico della nuova era dell’intelligenza artificiale.

Pax Silica mira a stabilire un ordine economico duraturo che garantisca un’era di prosperità guidata dall’intelligenza artificiale in tutti i paesi partner.

Il 12 dicembre, il sottosegretario di Stato per gli Affari economici Jacob Helberg ha convocato il primo vertice Pax Silicia, che ha segnato l’inizio di una nuova era d’oro di cooperazione in materia di IA e sicurezza della catena di approvvigionamento. Il vertice ha riunito i rappresentanti di otto paesi con gli ecosistemi di catena di approvvigionamento basati sull’intelligenza artificiale più all’avanguardia, tra cui Giappone, Repubblica di Corea, Singapore, Paesi Bassi, Israele, Emirati Arabi Uniti, Regno Unito e Australia. Al vertice hanno partecipato anche ospiti provenienti da Taiwan, Unione Europea, Canada e OCSE.

Il vertice mirava a rafforzare ecosistemi tecnologici affidabili, sostenere accordi di acquisto a lungo termine, espandere la capacità produttiva nelle economie partner e coordinare le risposte alla sovraccapacità e al dumping, affinché le catene di approvvigionamento rimanessero sicure, resilienti e innovative nel tempo.

Insieme, questi partecipanti ospitano le aziende e gli investitori più importanti che alimentano la catena di fornitura globale dell’IA, tra cui, a titolo esemplificativo ma non esaustivo: Sony, Hitachi, Fujitsu, Samsung, SK Hynix, Temasek, DeepMind, MGX, Rio Tinto e ASML.

Questo vertice ha salutato un nuovo consenso geopolitico: la sicurezza economica è sicurezza nazionale e la sicurezza nazionale è sicurezza economica. I partecipanti hanno discusso della possibilità di perseguire congiuntamente partnership multilivello che rafforzino la sicurezza della catena di approvvigionamento, affrontino le dipendenze coercitive e i singoli punti di fallimento e promuovano l’adozione di ecosistemi tecnologici affidabili. Tutti i partecipanti al vertice hanno esplorato le opportunità di collaborazione su progetti di punta in tutti i settori tecnologici globali, tra cui connettività e infrastrutture dati, elaborazione dati e semiconduttori, produzione avanzata, logistica, raffinazione e lavorazione dei minerali ed energia.

Il presidente Trump ha affermato in modo esplicito che la sicurezza economica è sicurezza nazionale e che gli Stati Uniti sono determinati a vincere la corsa all’intelligenza artificiale. Questo sforzo segna un’altra pietra miliare nell’attuazione della visione del presidente.

Risultati attesi e risultati previsti

I paesi collaboreranno per garantire la sicurezza degli elementi strategici della catena di approvvigionamento tecnologica globale, tra cui, a titolo esemplificativo ma non esaustivo: applicazioni e piattaforme software, modelli di base all’avanguardia, connettività delle informazioni e infrastrutture di rete, elaborazione dati e semiconduttori, produzione avanzata, logistica dei trasporti, raffinazione e lavorazione dei minerali ed energia.

I paesi hanno affermato il loro impegno comune a:

  • Portare avanti progetti per affrontare congiuntamente le opportunità e le vulnerabilità della catena di approvvigionamento dell’IA nei seguenti settori: minerali critici prioritari, progettazione, fabbricazione e confezionamento di semiconduttori, logistica e trasporti, elaborazione dati, reti energetiche e produzione di energia.
  • Perseguire nuove joint venture e opportunità strategiche di coinvestimento.
  • Proteggere le tecnologie sensibili e le infrastrutture critiche da accessi o controlli indebiti da parte di paesi che destano preoccupazione.
  • Costruire ecosistemi tecnologici affidabili, inclusi sistemi ICT, cavi in fibra ottica, centri dati, modelli fondamentali e applicazioni.

Cosa succederà dopo?

Il sottosegretario Helberg ha incaricato i diplomatici statunitensi a Washington e all’estero di dare attuazione alle discussioni del vertice attraverso l’identificazione di progetti infrastrutturali e il coordinamento delle pratiche di sicurezza economica. Questa direttiva è stata diffusa alla sede centrale del Dipartimento di Stato e a tutte le missioni diplomatiche statunitensi all’estero per ulteriori azioni.

Per ulteriori informazioni, visita Pax Silica.

Che cos’è Pax Silica?

Pax Silica è l’iniziativa di punta del Dipartimento di Stato americano in materia di IA e sicurezza della catena di approvvigionamento, che promuove un nuovo consenso sulla sicurezza economica tra alleati e partner fidati.

Se il XX secolo è stato alimentato dal petrolio e dall’acciaio, il XXI secolo è alimentato dall’informatica e dai minerali che la sostengono. Questa storica dichiarazione sancisce un nuovo consenso in materia di sicurezza economica che garantisce che i partner allineati costruiscano l’ecosistema di IA del futuro, dall’energia e dai minerali critici alla produzione e ai modelli di fascia alta.Jacob Helberg
Sottosegretario agli Affari economici

Dichiarazione di Pax Silica

Representatives from multiple countries sit at a table holding signed documents in front of a backdrop that reads "PAX SILICA: Securing the Silicon Supply Chain," with national flags displayed behind them.

Ribadiamo il nostro impegno comune a promuovere la prosperità reciproca, il progresso tecnologico e la sicurezza economica dei nostri popoli. 

Riconosciamo che una catena di approvvigionamento affidabile è indispensabile per la nostra reciproca sicurezza economica. Riconosciamo inoltre che l’intelligenza artificiale (IA) rappresenta una forza di trasformazione per la nostra prosperità a lungo termine e che sistemi affidabili sono essenziali per salvaguardare la nostra reciproca sicurezza e prosperità. 

Riconosciamo che la rivoluzione tecnologica nell’ambito dell’intelligenza artificiale sta accelerando, riorganizzando sempre più l’economia mondiale e ridefinendo le catene di approvvigionamento globali. Crediamo che il valore economico e la crescita si diffonderanno a tutti i livelli della catena di approvvigionamento globale dell’intelligenza artificiale, generando opportunità storiche e domanda di energia, minerali critici, produzione, hardware tecnologico, infrastrutture e nuovi mercati ancora da inventare.

In questo spirito, dichiariamo la nostra visione condivisa di approfondire la nostra partnership economica attraverso sforzi congiunti in materia di pratiche di sicurezza degli investimenti, infrastrutture e incentivi.  

Incoraggiamo gli sforzi volti a creare partnership su stack strategici della catena di fornitura tecnologica globale, inclusi, a titolo esemplificativo ma non esaustivo, applicazioni e piattaforme software, modelli di base all’avanguardia, connettività delle informazioni e infrastruttura di rete, elaborazione dati e semiconduttori, produzione avanzata, logistica dei trasporti, raffinazione e lavorazione dei minerali ed energia. 

Crediamo nella mobilitazione dell’immenso potere creativo e finanziario dell’industria privata e dell’imprenditoria per rendere i nostri cittadini più prosperi, le nostre nazioni più forti e le nostre catene di approvvigionamento più sicure. Cerchiamo approcci e soluzioni scalabili per la sicurezza della catena di approvvigionamento mobilitando i punti di forza industriali e tecnologici complementari delle aziende e delle imprese strategiche delle nostre rispettive economie. 

Sosteniamo la promozione di un ecosistema condiviso e affidabile di sviluppatori e fornitori di IA per rinnovare i settori tradizionali e sbloccare nuovi mercati e servizi per la prosperità duratura dei nostri popoli. 

A group of officials in business attire stands in front of a "PAX SILICA: Securing the Silicon Supply Chain" banner, with national flags displayed on a balcony above them in a modern, bright atrium.

Crediamo che la vera sicurezza economica richieda la riduzione delle dipendenze eccessive e la creazione di nuovi legami con partner e fornitori affidabili impegnati in pratiche di mercato eque. Allo stesso tempo, ci impegneremo a fornire ai partner di fiducia l’accesso all’intera gamma di progressi tecnologici che stanno plasmando l’economia dell’intelligenza artificiale. 

Comprendiamo l’importanza di affrontare le pratiche non di mercato che minano l’innovazione e la concorrenza leale. Riteniamo che il coordinamento sia essenziale per proteggere gli investimenti privati dalle distorsioni del mercato causate dall’eccesso di capacità produttiva e dalle pratiche di dumping sleali, nonché per preservare condizioni di parità per l’innovazione e la crescita. Comprendiamo l’importanza della cooperazione nell’attuazione delle nostre rispettive politiche volte a proteggere le tecnologie sensibili e le infrastrutture critiche da accessi, influenze o controlli indebiti.   

In questo spirito, intendiamo rafforzare ulteriormente la cooperazione economica e in materia di sicurezza nazionale, anche adottando misure complementari, se del caso, per affrontare le politiche e le pratiche non di mercato e migliorare la sicurezza degli investimenti. 

Il nostro obiettivo è quello di costruire e implementare reti informative affidabili, inclusi sistemi informatici e di comunicazione, cavi in fibra ottica e centri dati.  

Attraverso questa cooperazione, perseguiamo un partenariato economico globale per costruire un ordine di sicurezza economica basato sulla fiducia, sulla complementarità tecnologica, sugli interessi condivisi e su un impegno comune per un futuro più prospero. 

Gli esperti reagiscono: cosa significa la strategia di sicurezza nazionale di Trump per la politica estera degli Stati Uniti_di Atlantic Council

Gli esperti reagiscono: cosa significa la strategia di sicurezza nazionale di Trump per la politica estera degli Stati Uniti

Di Esperti dell’Atlantic Council

Una rassegna di opinioni espresse da esponenti dell’Atlantic Council, un think tank statunitense nel campo degli affari internazionali

Experts react: What Trump’s National Security Strategy means for US foreign policy

La visione del mondo di Trump 2.0 è ora disponibile in forma scritta affinché tutto il mondo possa prenderne visione. Giovedì scorso, l’amministrazione Trump ha pubblicato la sua Strategia di sicurezza nazionale (NSS), un documento di ventinove pagine che delinea i principi e le priorità della politica estera degli Stati Uniti. Il documento articola la strategia degli Stati Uniti, ad esempio l’attenzione all’emisfero occidentale e un “corollario Trump” alla Dottrina Monroe. E affronta ciò che la strategia degli Stati Uniti non è: il perseguimento continuo dell’obiettivo post-guerra fredda di “dominio permanente degli Stati Uniti sul mondo intero”, che la NSS descrive come un “obiettivo fondamentalmente indesiderabile e impossibile”.

Di seguito, i nostri esperti approfondiscono ciò che la strategia include ed esclude, traendo le loro conclusioni principali. Questo post verrà aggiornato man mano che arriveranno ulteriori contributi.

Clicca per passare all’analisi di un esperto: 

Matthew Kroenig: Dove l’NSS ha successo e dove fallisce 

Jason Marczak: La NSS offre nuove informazioni sugli obiettivi di Trump in Venezuela 

Alexander B. Gray: Il “corollario Trump” nell’emisfero occidentale è un logico focus sulla geografia strategica 

Tressa Guenov: L’NSS evita di assumere gli obiettivi degli avversari degli Stati Uniti

Daniel Fried: La NSS offre una serie di elementi incoerenti ma praticabili 

James Mazzarella e Kimberly Donovan: L’NSS riguarda tanto la politica economica quanto la sicurezza nazionale.

Torrey Taussig: Il trattamento riservato dall’amministrazione all’Europa mina i propri interessi

Rama Yade: Per quanto riguarda l’Africa, la NSS pone l’accento sul commercio e su una politica di sicurezza più interventista. 

Markus Garlauskas: La NSS invia segnali chiari agli amici e agli avversari nell’Indo-Pacifico

Thomas S. Warrick: Enfasi sulla sovranità nazionale e sugli interessi commerciali

Jorge Gastelumendi: Gli obiettivi di Trump in materia di dominio energetico e tecnologico richiederanno una maggiore attenzione alla resilienza.

Caroline Costello: Un’importante evoluzione nel modo in cui Washington inquadra la sua competizione con Pechino

Alex Serban: Il fianco orientale della NATO deve rispondere al cambiamento delle priorità degli Stati Uniti con maggiore autonomia e cooperazione europea. 

Dexter Tiff Roberts: La politica commerciale e tariffaria sta mettendo a repentaglio gli obiettivi meritevoli della strategia

Tess deBlanc-Knowles: Per raggiungere gli obiettivi di leadership tecnologica della NSS, l’amministrazione deve investire nella ricerca.


Dove l’NSS ha successo e dove fallisce 

Sebbene forse non l’abbiano concepita in questi termini, la vera sfida che hanno dovuto affrontare gli autori della nuova strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti è stata quella di aggiornare per una nuova era la grande strategia postbellica ottantennale, che ha dato ottimi risultati. I punti di forza della nuova Strategia di sicurezza nazionale risiedono quindi nel fatto che essa rafforza i principi del passato che continuano a funzionare e individua soluzioni creative ai nuovi problemi. 

La strategia è tradizionale nel suo forte sostegno alla deterrenza nucleare e nell’impedire alle potenze ostili di dominare regioni importanti. Richiede alleanze forti in Europa e nell’Indo-Pacifico, da raggiungere in parte grazie a un maggiore impegno degli alleati nella propria difesa e a un maggiore coordinamento in materia di sicurezza economica. Il documento dà priorità al raggiungimento di condizioni più libere ed eque per il commercio globale e a un impegno economico più profondo nella maggior parte delle regioni del mondo. 

Fornisce soluzioni creative per le nuove sfide con una serie di politiche volte ad affrontare gli aspetti negativi della globalizzazione (in materia di sicurezza delle frontiere, rilancio dell’industria manifatturiera nazionale e così via) e delineando una visione per la vittoria degli Stati Uniti nella nuova corsa agli armamenti tecnologici. 

Il documento è carente laddove rifiuta principi che hanno funzionato in passato (ad esempio, la promozione pragmatica della democrazia e dei diritti umani) e laddove non identifica e affronta chiaramente le nuove sfide che il Paese deve affrontare (la minaccia rappresentata dalle autocrazie revisioniste e dalle loro interconnessioni avrebbe dovuto ricevere molta più attenzione). 

Matthew Kroenig è vicepresidente e direttore senior dello Scowcroft Center for Strategy and Security dell’Atlantic Council e direttore degli studi del Consiglio. 


L’NSS offre nuove informazioni sugli obiettivi di Trump in Venezuela 

La nuova NSS è chiara: l’emisfero occidentale è ora la priorità assoluta degli Stati Uniti. Si tratta di un cambiamento atteso da tempo e ben accetto, poiché gli interessi degli Stati Uniti dovrebbero iniziare vicino a casa. La strategia mette nero su bianco ciò che abbiamo visto finora nell’azione dell’amministrazione Trump, compresi i due obiettivi gemelli definiti “Arruolare ed espandere”. Questo approccio è alla base degli sforzi volti a controllare la migrazione, fermare la proliferazione dei cartelli della droga, ridurre l’influenza straniera ostile e garantire le catene di approvvigionamento critiche. Ma, cosa importante, include anche l’incentivazione di nuove ondate di investimenti statunitensi, poiché economie nazionali forti servono gli interessi degli Stati Uniti.

Le priorità definite nella NSS, da una prospettiva olistica, coincidono con molti degli interessi dei paesi dell’emisfero occidentale, quali la sicurezza e la crescita economica, che sono stati i temi più importanti per gli elettori nelle recenti elezioni. Esiste inoltre un desiderio regionale di maggiori investimenti da parte degli Stati Uniti, in particolare nelle infrastrutture quali le telecomunicazioni, la tecnologia e i porti, che non hanno raggiunto la portata desiderata. La NSS fornisce un piano d’azione per consentire al governo statunitense di ampliare il proprio ruolo in questi settori critici e sottolinea la necessità di un approccio che coinvolga l’intero governo.

La strategia fornisce informazioni dettagliate sull’obiettivo finale dell’amministrazione Trump in Venezuela. Un paese in cui Maduro e i suoi compari attualmente offrono rifugio a gruppi criminali, traggono profitto dal traffico illegale e accolgono con favore l’influenza di avversari stranieri rappresenta una minaccia diretta alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Il successo in Venezuela, quindi, significa inaugurare un governo democratico che sia un vero partner degli Stati Uniti nell’ambito dell’obiettivo di “espandere” le partnership statunitensi. E lo spostamento degli Stati Uniti verso l’emisfero occidentale come parte del “Corollario Trump” alla Dottrina Monroe segnala anche che il dispiegamento delle forze statunitensi nei Caraibi non è limitato nel tempo.

Il NSS descrive inoltre in dettaglio uno sforzo multilaterale a livello emisferico volto a contrastare l’influenza delle potenze esterne, tra cui la Russia e, in particolare, la Cina. Per quanto riguarda la Cina, ciò significa affrontare la crescente influenza di Pechino in ambiti quali il commercio, gli investimenti, la diplomazia soft, l’addestramento militare e altro ancora. Quali saranno i prossimi passi? Come verrà stabilita la priorità di attuazione e come si tradurrà questa strategia a livello nazionale in tutto l’emisfero?

Jason MarczakÈ vicepresidente e direttore senior dell’Adrienne Arsht Latin America Center dell’Atlantic Council.


Il “corollario Trump” dell’emisfero occidentale è un’attenzione logica alla geografia strategica. 

La NSS di Trump è una correzione necessaria a decenni di “strategie” che, non essendo riuscite a imporre scelte difficili in materia di priorità e allocazione delle risorse, hanno portato gli Stati Uniti ad adottare una concezione eccessivamente ampia della strategia nazionale. Questa NSS è straordinariamente e piacevolmente franca riguardo agli obiettivi essenziali degli Stati Uniti: garantire la sicurezza della patria, che richiede un emisfero occidentale sicuro, e impedire alle grandi potenze avversarie esterne di esercitare un’influenza maligna nell’emisfero. Il “Corollario Trump” alla Dottrina Monroe, che cerca di garantire l’accesso degli Stati Uniti a luoghi chiave dell’emisfero (si pensi al Canale di Panama, alla Groenlandia e a gran parte dei Caraibi), probabilmente rimarrà una dichiarazione esplicita del XXI secolo di un’attenzione logica e precedentemente non eccezionale alla geografia strategica. Il Corollario Trump ha implicazioni concrete in termini di sicurezza ed economia per gli interessi americani e la sicurezza interna. Questa attenzione strategica incoraggerà probabilmente l’impiego di nuove risorse dedicate ai programmi di intelligence, militari, di applicazione della legge e di politica economica incentrati sull’emisfero.

La dichiarazione d’intenti dell’amministrazione per l’Indo-Pacifico è in linea con la NSS del 2017, ma riflette anche l’evoluzione delle realtà geopolitiche. La NSS ribadisce l’impegno degli Stati Uniti a preservare un Indo-Pacifico libero e aperto e a rafforzare i partner e gli alleati regionali contro le attività dannose della Cina. Definisce la regione come il teatro essenziale non emisferico per la competizione geopolitica. È importante sottolineare che la NSS cerca di tracciare una linea di demarcazione tra la sicurezza nel nostro emisfero e la deterrenza di Pechino in senso più ampio. Ciò rende esplicita una realtà di lunga data della competizione degli Stati Uniti con la Cina: Pechino cerca di distrarre gli Stati Uniti dal mantenimento dello status quo nell’Indo-Pacifico perseguendo attività ostili nell’emisfero occidentale.

Infine, la NSS è un utile promemoria tematico del fatto che la forza nazionale degli Stati Uniti non deriva solo dall’equilibrio militare. La strategia è esplicita sulla necessità di una solida base industriale e manifatturiera nel settore della difesa per sostenere tale equilibrio militare, insieme al dominio in tecnologie quali l’intelligenza artificiale (AI), la quantistica e il supercalcolo. La NSS dovrebbe essere intesa come un documento limitativo che cerca di definire in modo più restrittivo gli obiettivi degli Stati Uniti a livello globale, ampliando al contempo la definizione di potere nazionale degli Stati Uniti in una direzione più completa, sulla base della convinzione da tempo espressa da Trump che la sicurezza economica è sicurezza nazionale.  

Nel loro insieme, queste linee d’azione riflettono un approccio coordinato e olistico volto a preservare il potere nazionale degli Stati Uniti nei decenni a venire. 

Alexander B. Grayè senior fellow non residente presso la GeoStrategy Initiative dello Scowcroft Center for Strategy and Security dell’Atlantic Council. Gray ha recentemente ricoperto il ruolo di vice assistente del presidente e capo di gabinetto del Consiglio di sicurezza nazionale (NSC) della Casa Bianca.


L’NSS evita di assumere gli obiettivi degli avversari degli Stati Uniti

Questa NSS articola i modelli politici chiave in una serie dichiarativa di priorità per l’amministrazione. Tuttavia, lascia anche diversi vuoti strategici su come e se gli Stati Uniti affronteranno l’effetto che gli avversari continueranno ad avere sulla realizzazione degli obiettivi della NSS. 

Per quanto riguarda la Russia, la strategia sottolinea che l’Europa considera Mosca una minaccia esistenziale, ma non contiene alcun riferimento significativo alla minaccia che la Russia rappresenta per gli Stati Uniti in termini di realizzazione del proprio potere economico, soft power o proiezione militare, non solo in Europa ma in tutto il mondo. Gli Stati Uniti sono considerati più come un arbitro tra la Russia e l’Europa piuttosto che l’oggetto di un’attenzione quasi esclusiva da parte della Russia nel contrastare l’influenza e la proiezione di potere degli Stati Uniti. L’attenzione della strategia all’Africa è benvenuta, ma non viene riconosciuto che la Russia e la Cina continuano a ostacolare attivamente quasi tutti gli obiettivi degli Stati Uniti nel continente.

La strategia riconosce il ruolo dell’Iran come principale fattore di destabilizzazione nella regione, ma il problema di Teheran viene in gran parte accantonato come un capitolo chiuso. Speriamo che sia davvero così. Tuttavia, il Medio Oriente ha continuamente dimostrato a ogni amministrazione statunitense che gli Stati Uniti devono sempre rimanere vigili nella regione. L’influenza dell’Iran in Libano, Siria, Yemen, Iraq, Gaza e oltre deve essere monitorata da vicino, anche se l’amministrazione persegue la sua agenda regionale incentrata sugli investimenti. Allo stesso modo, la Corea del Nord non è esplicitamente menzionata nella strategia, ma Pyongyang avrà sicuramente intenzione di attirare l’attenzione globale nei prossimi tre anni.

Il trattamento discreto riservato dalla strategia agli obiettivi degli avversari è probabilmente intenzionale, un tentativo di segnalare un nuovo capitolo per gli Stati Uniti, meno gravati dai fattori di disturbo strategico dell’era post-guerra fredda e liberi di perseguire un programma più audace basato sui propri interessi. La realtà rimane che gli avversari degli Stati Uniti non vogliono vedere realizzata questa NSS, indipendentemente dal fatto che gli Stati Uniti li nominino o meno. La strategia degli Stati Uniti deve continuare a tenere conto di questi fattori.

Tressa Guenov è direttrice dei programmi e delle operazioni e ricercatrice senior presso lo Scowcroft Center for Strategy and Security dell’Atlantic Council. In precedenza, è stata vice segretario alla Difesa degli Stati Uniti per gli affari di sicurezza internazionale presso l’Ufficio del sottosegretario alla Difesa per la politica del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti.


Il NSS offre una serie di elementi incoerenti ma funzionali. 

Il nuovo NSS sembra combinare: 

  • un misto di stanchezza e reazione post-Iraq/Afghanistan, una sorta di versione di destra del pensiero post-Vietnam “torna a casa, America” dei Democratici nei primi anni ’70;
  • atteggiamento ideologico, diretto in particolare contro l’Europa, con un forte elemento di sostegno ai partiti “patriottici” (presumibilmente nazionalisti e nativisti);
  • un appello a favore della fortezza America (il documento fa riferimento al “Corollario Trump alla Dottrina Monroe”, che sembra indicare il desiderio di impedire a potenze esterne come la Cina di acquisire influenza economica nell’emisfero);
  • una forte affermazione degli interessi statunitensi nel respingere la coercizione economica cinese e la distorsione del commercio globale, nonché l’espansionismo cinese. La sezione dedicata all’Asia contiene un linguaggio appropriato sul mantenimento dello status quo di Taiwan e molti riferimenti alla protezione delle catene di isole del Pacifico occidentale;
  • un linguaggio possibilmente praticabile in materia di politica economica, con particolare attenzione alla prevenzione del dominio straniero sulle risorse e tecnologie critiche e dello sfruttamento straniero del commercio internazionale, e;
  • incoerente, a tratti bizzarro, e probabilmente compromettente linguaggio sull’Europa che combina l’ostilità partigiana nei confronti della politica mainstream europea con il riconoscimento riluttante ma gradito che gli Stati Uniti devono collaborare con l’Europa.

La NSS è debole nei confronti della Russia, che viene menzionata solo in un contesto europeo. Tuttavia, chiede una “cessazione delle ostilità” in Ucraina che lasci il Paese uno “Stato vitale” e definisce questo obiettivo un “interesse fondamentale” degli Stati Uniti. Ciò non è sufficiente, dato il rifiuto del presidente russo Vladimir Putin di partecipare agli sforzi degli Stati Uniti per porre fine alla guerra, ma è abbastanza buono da sostenere una politica adeguata, se il team di Trump decidesse di spingere la Russia a realizzare questo interesse fondamentale.

L’ostilità ideologica della strategia nei confronti dell’Europa si combina con l’implicita amarezza per quella che viene percepita come un’eccessiva espansione degli Stati Uniti e con il disprezzo generale per i “valori”, spingendo gli Stati Uniti ad abbandonare la leadership del mondo libero e persino il concetto stesso di mondo libero. Allo stesso tempo, la NSS riconosce altrove che gli Stati Uniti avranno bisogno dei loro amici, Europa compresa, per contrastare i propri avversari, in particolare la Cina. Ciò conferisce alla NSS un’incoerenza interna. Per un politico, questa incoerenza potrebbe rappresentare un’opportunità per sfruttare gli elementi migliori della NSS.

Daniel Fried è membro illustre della famiglia Weiser presso l’Atlantic Council. In precedenza ha ricoperto il ruolo di assistente speciale e direttore senior del Consiglio di sicurezza nazionale per i presidenti Bill Clinton e George W. Bush, ambasciatore in Polonia e sottosegretario di Stato per l’Europa.


L’NSS riguarda tanto la politica economica quanto la sicurezza nazionale.

La seconda NSS dell’amministrazione Trump è tanto una strategia di politica economica quanto una strategia di sicurezza nazionale, che giustifica l’internazionalismo degli Stati Uniti basato principalmente su interessi economici, in particolare nell’emisfero occidentale, e, forse sorprendentemente per coloro che sono preoccupati per la fusione dell’Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale (USAID) con il Dipartimento di Stato, rafforza l’importanza del soft power.

Essa inquadra la politica estera attorno a obiettivi tradizionali di politica economica, quali la salvaguardia della sicurezza delle catene di approvvigionamento, l’accesso alle materie prime, la protezione dei mercati di esportazione statunitensi e la garanzia del predominio della tecnologia e della capacità industriale degli Stati Uniti. L’assistenza internazionale non viene ignorata, ma non viene nemmeno presentata come uno strumento di obbligo umanitario o di fornitura di beni pubblici globali. Piuttosto, l’assistenza è considerata significativa quando contribuisce a proteggere o promuovere gli interessi degli Stati Uniti.

Sebbene possa sembrare cinico, questo riflette in realtà ciò che molti nel Sud del mondo già considerano la realtà di tutti gli aiuti esteri ed è il modo in cui questi finanziamenti sono stati giustificati al popolo americano per decenni. Anche quando gli Stati Uniti forniscono aiuti alimentari, ad esempio, i leader statunitensi ne parlano come di un aiuto agli agricoltori americani o come di un contributo alla stabilità globale per garantire la sicurezza e la prosperità degli americani. L’NSS rileva anche l’intenzione di potenziare l’uso di due dei più importanti strumenti di sviluppo del governo statunitense, la Development Finance Corporation e la Millennium Challenge Corporation, in particolare nell’emisfero occidentale, invertendo l’attacco sferrato dall’era del Dipartimento per l’efficienza governativa (DOGE) allo sviluppo in generale.

James Mazzarellaè senior fellow presso il Freedom and Prosperity Center dell’Atlantic Council. Dal 2017 al 2019 ha lavorato presso il Consiglio di sicurezza nazionale (NSC) e il Consiglio economico nazionale della Casa Bianca, ricoprendo prima il ruolo di direttore dello sviluppo internazionale e poi quello di direttore senior per l’economia e lo sviluppo globali. 

Kimberly Donovanè il direttore dell’Economic Statecraft Initiative all’interno dell’Atlantic Council GeoEconomics Center. In precedenza ha ricoperto il ruolo di vicedirettore ad interim della divisione Intelligence del Financial Crimes Enforcement Network (FinCEN), presso il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti.


Il trattamento riservato dall’amministrazione all’Europa mina i propri interessi

Nel corso del 2025, l’obiettivo dichiarato dell’amministrazione Trump in Europa è stato quello di trasferire l’onere della difesa convenzionale sulle spalle degli alleati europei. L’amministrazione ha ottenuto una vittoria al vertice dell’Aia spingendo gli alleati della NATO ad accettare un ambizioso impegno di spesa per la difesa pari al 5% del prodotto interno lordo entro il 2035. Purtroppo, la NSS non fa nulla per promuovere gli interessi di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, secondo la definizione stessa dell’amministrazione, nel continente europeo.

Sottovalutando – e persino evitando di menzionare – la minaccia convenzionale che la Russia rappresenta per la sicurezza transatlantica, la NSS non rafforza quelle nazioni che stanno lavorando per assumersi maggiori responsabilità in materia di difesa. Al contrario, la NSS cerca di incoraggiare quei partiti nazionalisti e populisti (come l’AfD in Germania) che sarebbero più propensi a tagliare i bilanci della difesa e a minimizzare le minacce convenzionali che tradizionalmente ricadono sulla NATO. AfD in Germania) che sarebbero i più propensi a tagliare i bilanci della difesa e a minimizzare le minacce convenzionali che tradizionalmente hanno portato a fare affidamento sugli Stati Uniti. A questo proposito, la NSS è un autogol che mina gli obiettivi dichiarati dall’amministrazione per ciò che cerca di ottenere con gli alleati europei.

Torrey Taussig è direttrice e senior fellow della Transatlantic Security Initiative presso lo Scowcroft Center for Strategy and Security dell’Atlantic Council.  In precedenza, è stata direttrice per gli affari europei presso il Consiglio di sicurezza nazionale.   


Per quanto riguarda l’Africa, la NSS pone l’accento sul commercio e su una politica di sicurezza più interventista. 

Per quanto riguarda l’Africa, il documento è scarso (mezza pagina in fondo alla strategia) e non sorprende. Ripete i punti chiave dell’approccio dell’amministrazione Trump nei confronti dell’Africa, già delineati prima dell’elezione di Trump dal Project 2025 (con una chiara confutazione dell'”ideologia liberale”) e dopo l’elezione di Trump da Troy Fitrell, alto funzionario del Dipartimento di Stato per gli affari africani, ad Abidjan e a Luanda

A seguito della chiusura dell’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID) nel mese di luglio, la strategia sposta le relazioni tra Stati Uniti e Africa dagli aiuti al commercio e agli investimenti: gli Stati Uniti segnalano una maggiore attenzione al commercio, all’estrazione mineraria (in particolare dei minerali critici) e agli investimenti energetici nei paesi africani. Gli Stati Uniti intendono sostenere la crescita del settore privato e ampliare l’accesso al mercato. 

È forse sul fronte della sicurezza che l’amministrazione Trump ha registrato la maggiore evoluzione, con una politica più interventista. L’amministrazione ha avviato questo cambiamento a febbraio con grandi attacchi in Somalia contro un leader della filiale locale dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS). La strategia sottolinea che la lotta contro la “rinascita dell’attività terroristica islamista in alcune parti dell’Africa” rimane una priorità. Poiché la sicurezza non è lontana dal commercio, lo storico accordo di pace firmato ieri presso l’Istituto statunitense per la pace tra il Ruanda e la Repubblica Democratica del Congo, con l’obiettivo di porre fine a una guerra trentennale che ha causato milioni di vittime, servirà anche come piattaforma per promuovere gli interessi commerciali degli Stati Uniti. Sembra che l’amministrazione si occuperà ora del Sudan e del genocidio in corso nel Darfur.

La strategia non dice nulla, tuttavia, sui due sviluppi più significativi di quest’anno per quanto riguarda le relazioni tra Stati Uniti e Africa: le crescenti tensioni con le due maggiori economie africane, Sudafrica e Nigeria. Queste controversie sembrano motivate più da considerazioni interne (protezione dei cristiani, degli afrikaner e di Israele) che dalla competizione con la Cina sul suolo africano, ricordandoci che qualsiasi attività estera di Trump è guidata dal principio dell'”America first”.

Lana di montoneè il direttore senior dell’Africa Center dell’Atlantic Council. 


L’NSS invia segnali chiari agli amici e agli avversari nell’Indo-Pacifico

I documenti strategici pubblici del governo statunitense sono più significativi per ciò che segnalano agli amici e agli avversari che per guidare il cambiamento nelle azioni degli Stati Uniti. Il testo di questa NSS sembra rivolgersi a un pubblico interno, ma le sue parole vengono analizzate attentamente nella regione indo-pacifica, dove il fuso orario ha permesso di pubblicare le prime reazioni locali mentre Washington dormiva.

Il linguaggio utilizzato in riferimento alla Cina e a Taiwan ha suscitato maggiore attenzione. Ad esempio, alcuni commentatori stanno già sostenendo che il passaggio dalla formulazione dell’ultima NSS “opporsi a qualsiasi cambiamento unilaterale”  allo status quo nello Stretto di Taiwan, a “non sostenere alcun cambiamento unilaterale” sia un ammorbidimento, nonostante la nuova NSS lo definisca una “politica dichiarativa di lunga data”. I lettori preoccupati dovrebbero invece rivolgere la loro attenzione al chiaro imperativo della NSS di “rafforzare la capacità degli Stati Uniti e dei loro alleati di respingere qualsiasi tentativo di conquistare Taiwan o di raggiungere un equilibrio di forze così sfavorevole da rendere impossibile la difesa dell’isola”. Si tratta di un linguaggio più forte rispetto a qualsiasi precedente NSS sulla difesa di Taiwan. Ancora più importante è il contesto recente: la firma da parte del presidente del Taiwan Assurance Implementation Act e l’annuncio di un pacchetto da 330 milioni di dollari per la vendita di armi avanzate statunitensi a Taiwan.

Allo stesso modo, le preoccupazioni della Corea del Sud sul fatto che la Corea del Nord sia stata menzionata diciassette volte nella prima NSS dell’amministrazione Trump, ma nemmeno una volta questa volta, sono fuori luogo. Pyongyang non è stata ovviamente una priorità per Washington dopo il vertice inconcludente di Hanoi del 2019, ma gli Stati Uniti stanno raddoppiando la loro alleanza con la Corea del Sud e rimangono fermi nel contrastare le minacce provenienti dal Nord. Kim Jong Un della Corea del Nord potrebbe trarre conforto dall’assenza di frasi di rito sulla denuclearizzazione, ma sarebbe sciocco da parte sua considerarla una concessione.

Almeno per quanto riguarda l’Indo-Pacifico, sia gli amici che gli avversari dovrebbero leggere i chiari segnali contenuti nella NSS: gli Stati Uniti sono impegnati a rafforzare la deterrenza estesa nella regione, anche se ricordano ai loro amici dell’Indo-Pacifico che Washington si aspetta che aumentino il loro contributo militare a tale deterrenza.

Markus Garlauskas è direttore dell’Indo-Pacific Security Initiative dell’Atlantic CouncilScowcroft Center for Strategy and Security. Ha prestato servizio per vent’anni nel governo degli Stati Uniti come ufficiale dell’intelligence e stratega.


Enfasi sulla sovranità nazionale e sugli interessi commerciali 

Come previsto, la nuova Strategia di Sicurezza Nazionale è una combinazione di visioni tradizionali sull’importanza del potere americano, ma con un’enfasi sulla sovranità nazionale e sugli interessi commerciali come motore dell’impegno internazionale. Per la prima volta da decenni, viene data priorità all’emisfero occidentale, con l’obiettivo strategico di ridurre la migrazione di massa. La sicurezza delle frontiere è vista come un elemento chiave della sicurezza nazionale, una proposta su cui la maggior parte degli americani sarebbe d’accordo, anche se non concordano su come gestire l’applicazione delle leggi sull’immigrazione a livello nazionale. Nella NSS sono dedicati più paragrafi all’Asia (25) che all’Europa, al Medio Oriente e all’Africa messi insieme (13, 7 e 3).  

L’antiterrorismo, che presto sarà oggetto di una strategia nazionale specifica, viene appena menzionato, ma le anticipazioni sulla strategia antiterrorismo mostrano una visione del terrorismo globale ridotto a un problema che i governi possono affrontare da soli, con un supporto esterno limitato. Ciò rappresenterebbe un progresso importante ed è un obiettivo che andrebbe a vantaggio degli Stati Uniti e dei loro partner antiterrorismo in tutto il mondo.

Thomas S. Warrick è ricercatore senior non residente presso la Scowcroft Middle East Security Initiative ed ex vice segretario aggiunto per le politiche antiterrorismo presso il Dipartimento della Sicurezza Interna degli Stati Uniti.


Gli obiettivi di Trump in materia di energia e tecnologia richiederanno una maggiore attenzione alla resilienza. 

La NSS 2025 delinea chiaramente le ambizioni degli Stati Uniti in materia di dominio energetico, industriale e tecnologico. Tuttavia, per garantire il successo a lungo termine di tali obiettivi, ritengo che il documento dovrebbe porre un’enfasi ancora maggiore sulla costruzione della resilienza, sia nelle infrastrutture che nei sistemi finanziari.

Un’infrastruttura moderna e resiliente è alla base di reti energetiche e tecnologiche affidabili. Senza reti elettriche, catene di approvvigionamento e sistemi di comunicazione robusti, le ambizioni relative ai reattori nucleari avanzati, all’innovazione basata sull’intelligenza artificiale e alla leadership nelle esportazioni rimangono fragili. Il sostegno a tale infrastruttura e l’integrazione di sistemi ridondanti e resistenti alle catastrofi conferiscono una reale durata agli obiettivi di dominio nel settore energetico e tecnologico.

Allo stesso modo, ampliare l’accesso alle opportunità finanziarie e al capitale, in particolare per le infrastrutture, l’energia pulita e le tecnologie emergenti, rafforzerebbe l’inclusione economica e mobiliterebbe l’innovazione interna su larga scala. Una strategia basata sulla resilienza e sull’empowerment finanziario rafforzerebbe quindi non solo i guadagni a breve termine, ma anche la forza, la capacità e la stabilità durature per i decenni a venire.

George Gastelumendiè il direttore senior del Climate Resilience Center dell’Atlantic Council.


Un’importante evoluzione nel modo in cui Washington inquadra la sua competizione con Pechino

È sorprendente che questa NSS descriva la Cina più come un potenziale partner economico che come un avversario, impegnandosi a perseguire “una relazione economica genuinamente vantaggiosa per entrambe le parti con Pechino”. La precedente NSS descriveva la Cina come un avversario basato sui valori che cercava di “creare condizioni più permissive per il proprio modello autoritario”.

Perché la Cina è considerata un avversario? In linea di massima, ci sono due risposte a questa domanda: perché l’ascesa della Cina mette in discussione gli interessi economici e di sicurezza degli Stati Uniti e perché Pechino sta sostituendo il sistema internazionale basato sulle regole con uno che favorisce il suo modello autoritario. Questa NSS chiarisce che l’amministrazione Trump considera la rivalità tra Stati Uniti e Cina come una competizione basata sugli interessi, non come uno scontro di valori.

La NSS non denuncia né menziona l’autoritarismo cinese. Inoltre, dà priorità alla dissuasione dei conflitti su Taiwan per ragioni strategiche ed economiche, non per preservarne la democrazia. Ciò rappresenta un’importante evoluzione nel modo in cui Washington inquadra la sua competizione con Pechino. È la prima volta dal 1988, anno in cui la NSS fu pubblicata in un periodo di ottimismo nei confronti delle riforme e dell’apertura della Cina al mondo, che la NSS non condanna il sistema di governo cinese né esprime l’intenzione di promuovere riforme democratiche in Cina.

Caroline Costello è vicedirettore del Global China Hub dell’Atlantic Council. 


Il fianco orientale della NATO deve rispondere al cambiamento delle priorità degli Stati Uniti con maggiore autonomia e cooperazione europea. 

Il nuovo NSS segna un importante riassetto delle priorità globali degli Stati Uniti. Ciò avrà importanti implicazioni per tutta l’Europa, compresi i paesi dell’Europa centrale, orientale e meridionale, una regione che è stata inserita in una delle sette priorità dell’amministrazione per il continente. Il messaggio è chiaro: Washington sta esortando gli alleati europei ad assumersi le responsabilità della difesa convenzionale, mentre gli Stati Uniti manterranno un ruolo più limitato nella sicurezza del continente, principalmente come sostegno nucleare.

Per gli Stati situati sul fianco orientale della NATO, questa ricalibrazione solleva legittime preoccupazioni. Considerando la guerra in corso in Ucraina e la continua pressione da parte della Russia, un minore impegno da parte degli Stati Uniti potrebbe indebolire il senso di affidabilità che sta alla base delle garanzie di difesa collettiva e dell’articolo 5 della NATO.

Allo stesso tempo, questo cambiamento spinge l’Europa, comprese le nazioni del fianco orientale, a rivalutare la propria autonomia strategica. Ciò significa investire maggiormente nelle capacità di difesa, rafforzare la cooperazione regionale e, possibilmente, accelerare la modernizzazione e le riforme istituzionali. Per la Romania, ciò è in linea con gli obiettivi definiti nella sua nuova strategia di sicurezza nazionale, che è stata presentata dal presidente Nicușor Dan e approvata dal Parlamento il mese scorso.

Ma questa transizione comporta delle difficoltà. Le divergenze di percezione tra Stati Uniti ed Europa riguardo a questioni quali la Russia, la Cina, la migrazione e il cambiamento climatico potrebbero mettere a dura prova la coesione dell’alleanza e ridurne la prevedibilità.

Questo cambiamento strategico da parte degli Stati Uniti potrebbe costringere la Romania e i suoi vicini ad affrontare un periodo di maggiore responsabilità e adattamento. Ciò richiederà una maggiore autosufficienza, una cooperazione più profonda tra i paesi europei e una rivalutazione delle dinamiche di sicurezza regionali, il tutto mentre si naviga nell’incertezza sulle garanzie di sicurezza transatlantiche a lungo termine.

Alex Serban è direttore dell’ufficio rumeno dell’Atlantic Council ed ex membro senior della Transatlantic Security Initiative presso lo Scowcroft Center for Strategy and Security dell’Atlantic Council.


La politica commerciale e tariffaria sta mettendo a repentaglio gli obiettivi meritevoli della strategia

La decisione dell’amministrazione Trump di inquadrare la sfida cinese come una questione incentrata sull’economia è ben accolta. In effetti, le successive amministrazioni statunitensi hanno avuto un punto cieco nel riconoscere come le pratiche mercantilistiche di Pechino abbiano spesso danneggiato le industrie e i lavoratori statunitensi e permesso alla Cina di ridurre rapidamente il divario tecnologico con gli Stati Uniti. È inoltre apprezzabile l’attenzione rivolta alla ricerca di modi per combattere meglio i sussidi statali e le pratiche commerciali sleali della Cina, garantire la sicurezza delle catene di approvvigionamento globali e intensificare gli scambi commerciali con il Sud del mondo, che la NSS definisce correttamente “uno dei più grandi campi di battaglia economici dei prossimi decenni”. Il fatto che la Cina abbia raddoppiato le sue esportazioni verso i paesi a basso reddito tra il 2020 e il 2024, come sottolinea la NSS, è infatti una sfida che gli Stati Uniti dovrebbero affrontare. E anche la dichiarazione della NSS secondo cui gli Stati Uniti “devono collaborare con i nostri alleati e partner”, le cui economie, se sommate a quella degli Stati Uniti, rappresentano la metà della produzione globale, per “contrastare le pratiche economiche predatorie” (riferendosi chiaramente alla Cina), è azzeccata.

Ma la sfida, in gran parte creata dalla stessa Casa Bianca, è che molti alleati e partner degli Stati Uniti si sentono meno fiduciosi che mai riguardo alle politiche economiche e commerciali di Washington. Ciò è dovuto in gran parte alla politica tariffaria caotica e forse illegale del presidente degli Stati Uniti, sulla quale la Corte Suprema sta per pronunciarsi in una causa che potrebbe avere conseguenze economiche e diplomatiche di enorme portata. Un sondaggio del Pew Research Center condotto all’inizio di quest’anno mostra che la maggior parte dei paesi considera la Cina, piuttosto che gli Stati Uniti, la principale potenza economica mondiale, con il 41% che sceglie Pechino rispetto al 39% che sceglie Washington. Si tratta di un’inversione di tendenza sorprendente rispetto a soli due anni fa. Inoltre, tale sondaggio è stato condotto prima dell’annuncio di Trump del 2 aprile relativo al “Giorno della Liberazione”, che ha introdotto dazi globali senza precedenti; da allora, è probabile che questo sentimento si sia spostato ancora di più a favore della Cina. E questo cambiamento di percezione sta convincendo alcuni paesi a rafforzare i partenariati economici con i rivali degli Stati Uniti.

Prendiamo l’esempio dell’India (citata solo quattro volte nella NSS, rispetto alle ventuno volte in cui viene menzionata la Cina). Sebbene per gran parte dell’ultimo decennio sia stata considerata un contrappeso fondamentale alla Cina e le successive amministrazioni statunitensi abbiano lavorato per migliorare le relazioni con Nuova Delhi, tale rapporto è ora a rischio. L’imposizione di dazi del 50% sull’India, in parte per l’acquisto di petrolio e gas russi, mentre alla Cina è stato in gran parte concesso un pass per l’acquisto di quantità ancora maggiori di prodotti energetici russi, ha sconvolto Nuova Delhi e sembra essere alla base dei suoi recenti sforzi per migliorare le relazioni con Pechino.

Un incontro di alto profilo tra leader tenutosi ad agosto tra il presidente cinese Xi Jinping e il primo ministro indiano Narendra Modi durante il primo viaggio di Modi in Cina in sette anni, è un segno di questo cambiamento. Una relazione più stretta tra Cina e India potrebbe anche mettere in discussione il desiderio di Washington di vedere Nuova Delhi contribuire maggiormente alla “sicurezza indo-pacifica”, anche attraverso il Quadrilateral Security Dialogue (un gruppo composto da Stati Uniti, Australia, Giappone e India), un altro obiettivo degno di nota evidenziato dalla NSS. E la calorosa accoglienza riservata da Modi al presidente russo Vladimir Putin a Nuova Delhi questa settimana è un altro segnale preoccupante di come la strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, volta a fare leva su alleati e partner per affrontare le minacce globali, sia minacciata dalla politica commerciale e tariffaria degli Stati Uniti.

Dexter Tiff Roberts è ricercatore senior non residente presso il Global China Hub dell’Atlantic Council e l’Indo-Pacific Security Initiative, che fa parte dello Scowcroft Center for Strategy and Security dell’Atlantic Council. In precedenza ha ricoperto per oltre vent’anni il ruolo di capo dell’ufficio cinese e redattore delle notizie dall’Asia presso Bloomberg Businessweek, con sede a Pechino. 


Per raggiungere gli obiettivi di leadership tecnologica della NSS, l’amministrazione deve investire nella ricerca.  

La NSS sottolinea giustamente che la leadership nelle tecnologie emergenti è fondamentale per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Riconosce che la sicurezza nazionale dipende non solo dalla potenza militare, ma anche da una solida base economica. Pertanto, la strategia pone la dovuta enfasi sugli investimenti essenziali nell’economia, nella forza lavoro e nella ricerca degli Stati Uniti, al fine di consentire la leadership statunitense nelle tecnologie critiche e sostenere il vantaggio militare del Paese.

La strategia riconosce inoltre la tecnologia come strumento di cooperazione e influenza, una strategia che la Cina ha sapientemente impiegato in tutto il mondo. Tuttavia, non riesce a definire un quadro chiaro per perseguire il livello di esportazione tecnologica e di sviluppo delle capacità necessario per contrastare l’influenza cinese su larga scala.  

Mentre l’amministrazione si appresta ad attuare la strategia, il taglio di 44 miliardi di dollari alla spesa federale per la ricerca e lo sviluppo minaccia di compromettere la sua stessa visione e di erodere le fondamenta su cui si basa la leadership tecnologica. 

—Tess deBlanc-Knowles è direttore senior dei programmi tecnologici dell’Atlantic Council. In precedenza ha ricoperto il ruolo di consulente senior per le politiche sull’intelligenza artificiale presso l’Ufficio per le politiche scientifiche e tecnologiche della Casa Bianca. 

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Uno dei tratti distintivi della Seconda Guerra Mondiale fu la maturità tecnologica e l’applicazione sistematica di tecnologie militari, che durante la Prima Guerra Mondiale erano ancora agli albori. I carri armati, che in precedenza erano stati trappole mortali, pesanti e meccanicamente spettacolari, emersero come armi d’assalto e di sfruttamento fondamentali, travolgendo l’Europa a migliaia. Gli aerei, inizialmente utilizzati nella Prima Guerra Mondiale in ruoli di ricognizione, ora sciamavano in vaste orde, percorrendo centinaia di chilometri nello spazio nemico e sprigionando una potenza di fuoco senza precedenti. La radio divenne onnipresente sul campo di battaglia e fornì livelli di comando e controllo senza precedenti su unità lontane e in rapido movimento.

Carri armati, fanteria meccanizzata, artiglieria semovente, razzi, bombardieri strategici, supporto aereo ravvicinato: tutti elementi letali e cinematografici, parte di un nuovo, letale pacchetto tattico. Tuttavia, difficilmente potevano eguagliare il sinistro terrore indotto dal più discreto e sottile rappresentante di quest’epoca di guerra in via di maturazione: il sottomarino.

La Seconda Guerra Mondiale fu teatro di due campagne simultanee in cui i sottomarini furono utilizzati nel tentativo di isolare economicamente e degradare una nazione insulare nemica. Uno di questi tentativi ebbe un successo straordinario. Nel Pacifico, i sottomarini statunitensi affondarono milioni di tonnellate di navi giapponesi, più di quante ne possedesse il Giappone allo scoppio della guerra. Una campagna sottomarina brutalmente efficace contro le petroliere giapponesi determinò una quasi totale carestia della macchina bellica giapponese: dopo aver assorbito il 40% della produzione di greggio delle Indie Orientali nel 1942, solo il 5% raggiunse le coste giapponesi nel 1944. Si trattò di un declino catastrofico a cui il Giappone non poté sopravvivere, dovuto in gran parte alle 155 petroliere affondate dai sottomarini americani nel 1943 e nel 1944. Nell’ultimo anno di guerra, le navi americane riuscirono a realizzare il sogno più grande dei teorici dei sottomarini: un blocco navale serrato delle isole giapponesi, con i sottomarini americani che pattugliavano praticamente ogni insenatura e baia.

Il successo della campagna sottomarina americana fu davvero sorprendente e provocò una quasi completa asfissia dell’economia di guerra giapponese, con le importazioni di praticamente ogni fattore industriale essenziale che crollarono quasi a zero entro il 1944. L’ammiraglio Charles Lockwood, che comandava la flotta sottomarina del Pacifico, si stava probabilmente vantando solo un po’ quando in seguito disse a un istruttore dell’Accademia Navale:

Ora non insegnate a quei guardiamarina che i sommergibilisti hanno vinto la guerra. Sappiamo che c’erano anche altre forze in guerra. Ma se avessero tenuto le forze di superficie e i piloti fuori dalle nostre aree di pattugliamento, avremmo vinto la guerra sei mesi prima.

Nonostante il fenomenale successo delle operazioni sottomarine americane contro il Giappone, la guerra americana contro le navi giapponesi riceve generalmente scarsa attenzione. Per fare solo un esempio, il magistrale e colossale tomo di Francis Pike sulla Guerra del Pacifico relega le operazioni sottomarine americane a un’appendice. Al contrario, esiste un’incredibile quantità di letteratura dedicata all’altra grande campagna sottomarina della guerra: la cosiddetta Battaglia dell’Atlantico . I famosi U-Boot tedeschi tentarono una guerra di interdizione strategica simile contro le navi destinate alle isole britanniche. A differenza della forza sottomarina americana nel Pacifico, tuttavia, gli U-Boot fallirono.

La campagna tedesca dei sottomarini contro la Gran Bretagna è sempre stata ampiamente documentata, non solo per le sue caratteristiche intrinsecamente interessanti – con a volte centinaia di sottomarini in mare a caccia su uno spazio di battaglia di oltre 10.000 miglia quadrate – ma anche perché sembrava offrire una delle poche vere leve della Germania contro la Gran Bretagna, e quindi una delle poche vere vie attraverso cui la Germania avrebbe potuto vincere la guerra. Winston Churchill osservò notoriamente nelle sue memorie che “L’unica cosa che mi ha mai veramente spaventato durante la guerra è stato il pericolo dei sottomarini”, sottintendendo che la guerra alla navigazione avesse davvero un certo potenziale di rottura bellica.

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La campagna degli U-Boot fu, senza dubbio, un elemento importante della guerra globale che stava emergendo. In quanto importante punto di partenza per le storie alternative, tuttavia, la Battaglia dell’Atlantico è sempre destinata a suscitare qualche elemento di controversia. È sempre più diffuso, nella storiografia, concentrarsi sulla vastità della potenza industriale americana e concludere che non ci fosse nulla che la forza tedesca degli U-Boot potesse realmente fare per bloccare il flusso di navi attraverso l’Atlantico. In quest’ottica, i tedeschi stavano combattendo un’azione dilatoria brutale ma in definitiva inutile contro una forza economica inarrestabile, e non avevano migliori prospettive di successo di un uomo che cerca di tappare una diga che cede con le dita. La presunzione generale è che la Germania non abbia mai avuto reali prospettive di vincere la guerra globale, il che rende la storia alternativa uno spreco di energie mentali. Vale la pena ripetere, tuttavia, che gli uomini che condussero la guerra contro la Germania – uomini come Churchill e l’Ammiragliato britannico – consideravano gli U-Boot in tempo reale come una minaccia realmente letale. Liquidare tutto questo come una follia smascherata da brutali statistiche industriali sarebbe un errore. Sia i vertici navali tedeschi che quelli britannici consideravano la Battaglia dell’Atlantico un aspetto davvero decisivo della guerra, e dovremmo fare loro la cortesia di cercare di vedere ciò che videro loro.

Il problema britannico di Hitler

Uno dei problemi più evidenti e quasi onnipresenti della storiografia popolare della Seconda Guerra Mondiale è la pratica di esagerare drammaticamente il pericolo strategico della Gran Bretagna all’indomani della sconfitta francese del 1940. Da film come Dunkirk e L’ora più buia , a banali storie popolari come La splendida e la vile, la pratica comune è quella di ritrarre una Gran Bretagna barcollante e assediata, sola e sotto assedio da spietati bombardamenti della Luftwaffe , che guarda dritto nella canna del fucile verso una sconfitta catastrofica. Il culto di Churchill cerca sempre di enfatizzare questa percezione, enfatizzando una nebbia strisciante di disfattismo e crisi che fu superata solo dall’irascibile coraggio del primo ministro, alcolizzato e guidatore accanito.

Raramente la posizione strategica della Gran Bretagna viene considerata dal punto di vista tedesco. Dal punto di vista dei tedeschi, la Gran Bretagna non era uno stato martoriato e assediato in crisi, ma piuttosto un grande porcospino che vagava al largo della costa e che non avevano una via d’uscita chiara da colpire. La Gran Bretagna conservava una forza aerea significativa e in crescita, un enorme impianto industriale, legami economici con una vasta base di risorse d’oltremare (sia nel suo impero che negli Stati Uniti) e una supremazia assoluta in mare. Quindi, per quanto la Gran Bretagna scegliesse di continuare a combattere, la Germania aveva sorprendentemente poche leve cinetiche dirette contro di lei.

La campagna aerea strategica della Luftwaffe, la famosa Battaglia d’Inghilterra , ne è un esempio ideale. L’impressione generale è che l’aeronautica tedesca fosse davvero sul punto di portare la RAF al punto di rottura nel 1940, ma si trattava in gran parte di un miraggio derivante dalla scarsa intelligence di entrambe le parti. L’intelligence tedesca tendeva a sottostimare drasticamente la produzione aerea britannica, dando l’impressione che la Royal Air Force fosse vicina alla sconfitta quando non lo era. Ad esempio, nel 1940 lo stato maggiore della Luftwaffe stimò la produzione aerea britannica a 9.900 unità, di cui 2.790 erano caccia. La produzione effettiva britannica quell’anno fu di 15.049 velivoli, di cui 4.283 caccia. L’intelligence tedesca sovrastimò drasticamente anche l’efficacia dei bombardamenti e ritenne che la produzione britannica sarebbe scesa a circa 7.000 velivoli nel 1941; in realtà, la produzione britannica stava accelerando e avrebbe superato i 20.000 velivoli quell’anno.

La RAF non è mai stata così vicina al collasso come l’intelligence tedesca presumeva

Senza addentrarci troppo nei dettagli del memorandum tedesco, il fatto fondamentale è che per tutta la seconda metà del 1940 la Luftwaffe ritenne generalmente che la RAF stesse ricevendo molti meno aerei di quanti ne avesse in realtà, concludendo erroneamente di essere sull’orlo della supremazia aerea sulla Gran Bretagna meridionale. Ciò causò un senso di disillusione e un lieve sconcerto quando, contrariamente alle aspettative, il Comando Caccia della RAF continuò a lanciare aerei in combattimento anziché collassare. Le grandi speranze riposte nella campagna aerea strategica svanirono gradualmente e i piani per uno sbarco anfibio in Gran Bretagna furono silenziosamente accantonati.

D’altro canto, l’intelligence britannica aveva la tendenza opposta a sopravvalutare la forza tedesca. Ciò era dovuto in parte al fatto che il rapporto tra velivoli operativi e riserve nella Luftwaffe era erroneamente ritenuto in linea con la prassi britannica (il che portava a credere che i tedeschi avessero molti più velivoli di riserva di quanto effettivamente ne avessero), e in parte al fatto che l’intelligence britannica sovrastimava notevolmente la produzione tedesca. Un rapporto dell’agosto dell’Air Intelligence britannica stimava la produzione tedesca di 24.400 velivoli nel 1940, con una forza di prima linea di circa 5.800. In realtà, la produzione di velivoli tedesca quell’anno fu di sole 10.247 unità, con una forza di prima linea operativa di sole 2.054 unità.

Questi numeri si riducono a un problema piuttosto semplice. I tedeschi sottostimarono la produzione aerea britannica del 50%, e gli inglesi la sovrastimarono del 140%. Di conseguenza, gli inglesi credevano di stare combattendo una lotta disperata contro un nemico schiacciante, e i tedeschi credevano di stare lavorando per finire un nemico surclassato e praticamente sconfitto. Sommando tutto, tutti apparentemente concordarono sul fatto che la RAF fosse in guai seri. Ma non fu mai davvero così, e la “Battaglia d’Inghilterra” divenne una sorta di lotta reciprocamente logorante che non fu mai particolarmente decisiva. Nell’ottobre del 1940, quando finalmente divenne chiaro che la Luftwaffe non era riuscita a ottenere la supremazia aerea, entrambe le parti disponevano di circa 700 aerei da caccia operativi con un numero adeguato di piloti addestrati. Nessuna delle due parti fu realmente sconfitta, ma la situazione di stallo nei cieli lasciò la Germania senza un meccanismo per colpire direttamente la Gran Bretagna su una scala significativa.

Da questo momento in poi, la dispersione strategica tedesca procedette rapidamente. La pianificazione dell’Operazione Barbarossa iniziò a dominare i problemi di allocazione delle risorse nel 1941, e il fallimento della campagna a est ebbe ulteriori implicazioni per la guerra emergente contro il blocco anglo-americano, sia in termini di ritardo nel consolidamento dello spazio economico continentale tedesco a prova di blocco, sia di cambiamento della natura della prospettiva strategica tedesca a ovest. Nel 1942, l’attenzione si era spostata dalla ricerca di un meccanismo per sconfiggere definitivamente la Gran Bretagna a un metodo per impedire l’apertura di un secondo fronte a ovest.

Arrivò Karl Dönitz. Befehlshaber der Unterseeboote ( Comandante degli U-Boot) della Marina , Dönitz divenne l’ideatore e il promotore di una particolare teoria della guerra contro la marina mercantile alleata. Dönitz identificò la capacità di trasporto marittimo alleata come il problema strategico critico che gli anglo-americani si trovavano ad affrontare e quindi l’obiettivo cruciale che la Marina avrebbe dovuto ridurre.

Ammiraglio Dönitz

La Kriegsmarine aveva operato contro le navi alleate fin dall’inizio della guerra, utilizzando sia navi da guerra di superficie che U-Boot; infatti, un memorandum di Hitler del giorno prima dell’invasione della Polonia ordinava alla Marina di “operare contro le navi mercantili, con l’Inghilterra come punto focale”. Nulla nelle idee di Dönitz era particolarmente innovativo o interessante da quella prospettiva. Ciò che era nuovo, tuttavia, era la duplice affermazione di Dönitz: in primo luogo, l’obiettivo delle operazioni della Marina era quello di affondare in modo molto esplicito il più alto tonnellaggio complessivo di navi nemiche, calcolato in base alla costruzione prevista, e in secondo luogo, che questo obiettivo poteva essere raggiunto solo dagli U-Boot.

Dönitz, in particolare e personalmente, fu l’ideatore del quadro matematico per la guerra degli U-Boot: l’idea che gli anglo-americani potessero essere logorati e forse persino sconfitti a condizione che il loro tonnellaggio navale fosse affondato a un ritmo superiore a quello delle nuove costruzioni. L’implicazione di ciò era che la Marina doveva adottare tattiche volte ad affondare il massimo tonnellaggio navale in assoluto. In termini pratici, ciò significava che gli U-Boot non dovevano essere posizionati in base ad altre considerazioni operative (come la difesa delle coste norvegesi o l’interdizione nel Mediterraneo): piuttosto, i sottomarini dovevano trovarsi nei luoghi in cui potevano affondare il maggior tonnellaggio navale. Nell’aprile del 1942, Dönitz scrisse:

Le marine mercantili nemiche sono un fattore collettivo. È quindi irrilevante dove una singola nave venga affondata, poiché alla fine deve essere sostituita da una nuova costruzione. Ciò che conta a lungo termine è la preponderanza degli affondamenti rispetto alle nuove costruzioni. La cantieristica navale e la produzione di armi sono concentrate negli Stati Uniti, mentre l’Inghilterra è l’avamposto europeo e il porto di sbarco.

La guerra del tonnellaggio aveva tre fattori sublimi che la sostenevano. Il primo era l’idea che il suo successo potesse essere garantito dal raggiungimento di obiettivi quantificati e misurabili: se i tedeschi fossero riusciti, per un lungo periodo di tempo, ad affondare più navi (in tonnellaggio equivalente) di quante gli anglo-americani potessero costruire, l’economia bellica britannica si sarebbe inevitabilmente deteriorata fino a paralizzarla e infine a collassare. In secondo luogo, la guerra del tonnellaggio aveva un aspetto sia offensivo che difensivo: non solo offriva la possibilità di far crollare l’economia bellica britannica, ma avrebbe anche compromesso la capacità anglo-americana di trasportare materiale bellico dall’America alla Gran Bretagna. Ciò avrebbe ritardato l’accumulo di forze terrestri americane in Europa e, per estensione, l’apertura di un secondo fronte in Francia o Norvegia. Infine, la guerra del tonnellaggio poteva essere condotta, secondo Dönitz, esclusivamente da U-Boot, che, a differenza delle navi da guerra di superficie, potevano essere attivati ​​in tempi relativamente rapidi e dislocati in sicurezza sulla costa atlantica francese.

Quest’ultimo punto era particolarmente importante. Dopo l’affondamento della Bismarck, nessuna nave ammiraglia tedesca si avventurò più nell’Atlantico, e quando Dönitz…Quando iniziò la sua aggressiva spinta per la guerra del tonnellaggio, i tedeschi avevano già implementato l’Operazione Cerberus per richiamare le corazzate rimanenti dalla costa francese. Questo perché le basi atlantiche si erano dimostrate notevolmente vulnerabili agli attacchi aerei britannici. I sottomarini, tuttavia, essendo significativamente più compatti, potevano mantenere le loro basi in Francia al riparo di recinti fortificati a prova di bomba che non potevano essere costruiti per navi da guerra di superficie più grandi. In effetti, la RAF avrebbe ripetutamente bombardato le basi degli U-Boot sulla costa francese e sarebbe rimasta leggermente stupita dalla loro resistenza.

Recinti sottomarini fortificati a Saint-Nazaire

Ancora più importante, gli U-Boot, a differenza delle navi di superficie, potevano attaccare anche convogli ben scortati. Secondo Dönitz, le navi di superficie come gli incrociatori non potevano attaccare liberamente le rotte di navigazione perché avevano una priorità fondamentalmente “difensiva” di eludere le forze nemiche superiori. Come si legge in un promemoria dello staff di Dönitz:

Solo gli U-Boot possono quindi continuare a penetrare nelle aree in cui il nemico gode della supremazia navale, rimanervi e combattere, poiché non hanno bisogno di contestare tale supremazia. La maggiore presenza di corazzate e incrociatori nemici in queste aree non significa un maggiore pericolo per gli U-Boot, ma al contrario un gradito aumento dei bersagli. Il Comandante degli U-Boot contesta fermamente che le nostre corazzate e incrociatori siano indispensabili per la condotta della guerra nell’Atlantico.

Tutto ciò porta, in modo indiretto, a una domanda piuttosto elementare: cosa fu esattamente la “Battaglia dell’Atlantico” e quando ebbe luogo. “Ufficialmente” – notando appieno il sarcasmo implicito nelle virgolette – la Battaglia dell’Atlantico durò per tutta la durata della guerra, con sottomarini tedeschi in mare e impegnati in operazioni di combattimento fino al giorno letterale della resa tedesca, l’8 maggio 1945. Allo stesso modo, gli U-Boot erano in navigazione e conducevano attacchi contro le navi alleate nel 1939 e nel 1940, e i tedeschi iniziarono a stabilire basi sulla costa atlantica francese entro poche settimane dalla resa francese. Se per “Battaglia dell’Atlantico” si intende l’intera serie di operazioni degli U-Boot tedeschi nell’Atlantico, allora di fatto coprì la durata dell’intera guerra europea e fu tra le operazioni navali più lunghe e complesse della storia.

Uno schema di datazione più significativo colloca l’azione critica nell’Atlantico in un periodo di due anni, dal maggio 1941 al maggio 1943. L’8 maggio 1941, Dönitz prese la fatidica decisione di ampliare l’area delle operazioni dei sottomarini. In precedenza, le operazioni dei sottomarini erano state limitate alle linee di pattugliamento sulle rotte di avvicinamento alle isole britanniche, ma l’ordine dell’8 maggio gettò le basi per gli attacchi ai convogli nell’Atlantico settentrionale aperto. L’area delle operazioni si sarebbe poi ulteriormente ampliata fino a includere la costa orientale americana, dopo l’entrata ufficiale degli Stati Uniti in guerra. Circa due anni dopo, il 24 maggio 1943, Dönitz impose la cessazione di tali attacchi, adducendo che la perdita di sottomarini aveva raggiunto un “livello intollerabile”. Una stima più precisa degli eventi farebbe quindi risalire la Battaglia dell’Atlantico all’8 maggio 1941 e al 24 maggio 1943. Non a caso, questo periodo coincise anche con la costante crescita della forza U-Boot nell’Atlantico. Nel maggio 1941, in media, operavano nell’Atlantico solo 24 imbarcazioni. Questo numero crebbe costantemente fino alla fine dell’anno, prima di esplodere nel 1942 con l’avvio di un programma di costruzione accelerato, raggiungendo il picco nel maggio 1943 con una forza media in mare di 118 imbarcazioni, un totale che in seguito diminuì.

Dönitzispeziona un sottomarino in arrivo

Le tendenze operative variarono notevolmente in quegli anni cruciali della guerra sottomarina. Naturalmente, la base materiale della campagna U-Boot cambiò sostanzialmente con il miglioramento della progettazione degli U-Boot e delle contromisure alleate. La situazione si intensificò con particolare rapidità nel 1942, sia a causa dell’entrata in guerra degli Stati Uniti, sia perché solo in quell’anno la produzione sottomarina tedesca iniziò a raggiungere livelli significativi. Inoltre, il luogo e l’intensità delle operazioni U-Boot avrebbero avuto alti e bassi in base sia alle opportunità che alle priorità strategiche. Nel febbraio e marzo del 1942, ad esempio, l’area delle operazioni si spostò nei Caraibi, con i sommergibilisti tedeschi attratti sia dal clima relativamente mite sia dalle petroliere rudimentali in partenza dal Venezuela. Anche i teatri europei ausiliari come il Mediterraneo e il Mar Nero assorbirono risorse, e Dönitz fu sempre costretto a mantenere più U-Boot attorno alla Norvegia di quanto avrebbe voluto, semplicemente per accontentare Hitler, che trascorse anni preoccupato per una presunta reinvasione britannica della Scandinavia, che non avvenne mai.

Nonostante tutti i particolari e le distrazioni, per DönitzLe operazioni degli U-Boot assunsero il carattere di una guerra assoluta contro il tonnellaggio alleato. Poiché il tonnellaggio navale era considerato una capacità essenzialmente fungibile, o intercambiabile, per Dönitz la questione era semplice: gli U-Boot dovevano operare su larga scala nelle aree in cui potevano affondare il maggior tonnellaggio in termini assoluti, comprese le rotte ad alto traffico del Nord Atlantico. Nella primavera del 1942, stimò che Stati Uniti e Gran Bretagna avrebbero potuto costruire collettivamente 8,1 milioni di GRT (Gross Register Tonnage) nel 1942, aumentando a 10,3 milioni di GRT nel 1943. Su questa base, Dönitz sostenne: “Dovremmo affondare circa 700.000 tonnellate al mese per compensare le nuove costruzioni”. A condizione che gli U-Boot riuscissero a raggiungere costantemente questo traguardo per un periodo di tempo prolungato, l’economia di guerra nemica si sarebbe *necessariamente* degradata e alla fine sarebbe crollata.

Il risultato fu un tipo peculiare di guerra basata su rendiconti contabili. Dönitz e il suo staff valutarono i risultati della guerra degli U-Boot in funzione di due semplici rapporti: il tonnellaggio affondato rispetto alla costruzione prevista da parte degli Alleati e gli U-Boot persi rispetto al completamento. Poiché si prevedeva che un programma accelerato di costruzione di sottomarini avrebbe prodotto una ventina di nuovi battelli al mese, e sulla base delle sue stime sulla costruzione navale alleata, la matematica di questa guerra di logoramento industriale era semplice: se la forza degli U-Boot fosse riuscita ad affondare più di 700.000 tonnellate di navi al mese riducendo al minimo le perdite, allora la flotta alleata si sarebbe inesorabilmente deteriorata, mentre la forza sottomarina sarebbe cresciuta in forza. Se ciò fosse accaduto, la Germania avrebbe vinto.

Cacciatori di branco

Karl Dönitz era un personaggio interessante. Invariabilmente descritto come un uomo di imponente intelligenza, era senza dubbio tra gli uomini più intelligenti e organizzati tra i vertici tedeschi. Una delle grandi peculiarità della sua vita fu il suo inglorioso (e fortunatamente breve) mandato come successore di Hitler. Quando la leadership nazista crollò alla fine di aprile del 1945 – con Hitler e Goebbels suicidati e Himmler e Goering bollati come traditori – Dönitz si ritrovò con il cerino in mano, nominato postumo Capo di Stato dal defunto Führer. Le memorie postbelliche dell’ammiraglio, intitolate ” Dieci anni e venti giorni” , erano un omaggio ai suoi due alti incarichi al servizio del Reich: dieci anni come comandante degli U-Boot e venti giorni come presidente di una Germania sconfitta.

In ogni caso, a Norimberga fu trovato intelligente, vivace e relativamente affabile dal personale anglo-americano. Sembrava sinceramente convinto che gli anglo-americani gli sarebbero stati grati per aver consegnato la flotta di U-Boot a loro, anziché ai sovietici. Questo si accordava con l’esperienza del personale britannico che prese in custodia gli U-Boot consegnati dopo la guerra: documentarono che molti degli equipaggi tedeschi erano decisamente amichevoli e chiesero agli inglesi quando avrebbero combattuto insieme “i russi”.

Se Dönitz si aspettava gratitudine, rimase deluso. Il suo fascicolo d’interrogatorio riporta che si indignò all’idea di poter essere processato come criminale di guerra e sostenne con assoluta convinzione che la Marina aveva combattuto una guerra pulita. Molti ufficiali alleati concordarono con lui. L’ammiraglio statunitense Daniel Gallery riteneva che le azioni di Dönitz fossero coerenti con la guerra sottomarina americana e che il suo processo di Norimberga fosse un “eccezionale esempio di sfacciata ipocrisia”, che era “un insulto ai nostri sommergibilisti”. In seguito scrisse che se mai avesse incontrato Dönitz, “avrei avuto difficoltà a guardarlo negli occhi. L’unico crimine che ha commesso è stato quello di averci quasi sconfitto in una lotta sanguinosa ma legale”.

Dönitz non fu contento di essere accusato di crimini di guerra, ma su quasi tutti gli altri argomenti, tuttavia, si dimostrò disponibile a conversare in tono sostanzialmente amichevole, e discusse di argomenti come il radar e i progetti sperimentali di sottomarini. La Divisione britannica di intelligence navale concluse:

Doenitz, classificato dai test psicologici appena al di sotto della classe dei geni, è un pensatore indipendente, chiaro e preciso, ed è un esperto nel suo campo.

Il fascicolo annota inoltre, con un tono minaccioso:

A Dönitz viene attribuito il merito di aver inventato la tecnica del “branco di lupi” per la guerra sottomarina.

Qualsiasi discussione sugli U-Boot della Seconda Guerra Mondiale si scontra inevitabilmente con questo termine intimidatorio e spinoso, generalmente considerato l’innovazione tattica fondamentale di Dönitz. L’impressione generale dei branchi di lupi è solitamente quella di un sistema tattico che consentiva di attaccare i convogli alleati con sottomarini ammassati, a volte composti da una dozzina o più unità. Ma questo non è del tutto corretto. Il branco di lupi non era un sistema tattico in senso stretto, in quanto non consentiva un comando e un controllo ordinati o movimenti sinergici durante un attacco. Il sistema dei branchi di lupi non era affatto una questione di tattica, ma era invece strettamente correlato ai significativi progressi tedeschi nell’intelligence e nelle comunicazioni.

Per capire cosa significhi, dobbiamo tornare alla Prima Guerra Mondiale e ricordare perché i convogli furono una risposta così efficace ai sottomarini in quel conflitto. Sebbene le navi di scorta nella prima guerra avessero ottenuto alcuni successi nel dissuadere o affondare i sottomarini, gli U-Boot che incontravano i convogli erano generalmente in grado di attaccare. I principali vantaggi dei convogli, piuttosto, erano principalmente l’occultamento e la sopravvivenza. Concentrando le navi in ​​convogli, gli angloamericani furono in grado di sgomberare il mare di bersagli e rendere molto più difficile per gli U-Boot individuare le loro prede. Inoltre, sebbene gli U-Boot potessero solitamente attaccare i convogli con successo e poi fuggire, in genere avevano il tempo di silurare solo uno o due bersagli prima di fuggire a rotta di collo. Ci si aspettava che la maggior parte del convoglio fosse illesa e, cosa ancora più importante, erano in servizio per salvare i sopravvissuti.

Il sistema dei branchi di lupi di Dönitz era un elemento di una risposta completa al sistema dei convogli, che ne stravolse completamente la logica. Rispetto alla Prima Guerra Mondiale, la forza di U-Boot di Dönitz disponeva di due capacità cruciali che in precedenza erano state gravemente carenti: potevano localizzare in modo affidabile i convogli e potevano attaccarli su larga scala una volta individuati. Questi vantaggi, tuttavia, derivavano principalmente dai miglioramenti nelle comunicazioni e nell’intelligence dei segnali, piuttosto che da una metodologia tattica in quanto tale.

Il primo passo per superare il sistema dei convogli fu l’ideazione di un metodo affidabile per localizzarli. Durante la Prima Guerra Mondiale, gli inglesi avevano rapidamente scoperto che un convoglio contenente decine di navi non era particolarmente più facile da individuare di una singola nave, e gli U-Boot, con i loro profili bassi e le torri di comando corte, erano inefficaci nell’avvistare bersagli lontani. I vantaggi della ricognizione aerea erano evidenti, ma l’unico velivolo da ricognizione a lungo raggio tedesco adatto, l’Fw 200 Condor, non fu mai disponibile in numero adeguato. Gli sforzi del comando navale per rafforzare la ricognizione aerea furono vanificati sia dalla carenza di aerei sia dal truculento Goering, che non era interessato a collaborare con la marina.

Un convoglio in viaggio

Sebbene i voli Condor abbiano occasionalmente fornito preziose ricognizioni, la sorveglianza aerea ad ampio raggio non fu mai sistematicamente disponibile per i tedeschi e poté fare ben poco per compensare la scarsa portata visiva degli U-Boot su larga scala. Tuttavia, i tedeschi trassero enormi benefici dai grandi progressi compiuti nell’intelligence dei segnali, nella crittografia e nelle comunicazioni radio. Gli Alleati ottennero notoriamente successo nel decifrare i cifrari tedeschi e nel decifrare il famoso traffico Enigma. Molto meno famoso fu l’impegno parallelo dell’ufficio tedesco B-Dienst (abbreviazione di Beobachtungsdienst , o servizio di osservazione). Si trattava di un dipartimento di intelligence dei segnali del Servizio di intelligence navale tedesco, che nell’autunno del 1941 aveva decifrato il cifrario combinato navale britannico, che forniva un flusso costante di indizi su dimensioni, posizioni, rotte e scorte dei convogli.

Le informazioni fornite dal B-Dienst permisero alla forza tedesca di sottomarini di posizionare linee di pattugliamento lungo la rotta prevista dei convogli in mare. La soluzione ottimale era quella di posizionare un gran numero di sottomarini in linea di pattugliamento (con intervalli di circa 40 miglia nautiche tra loro) lungo la rotta sospetta del convoglio. Fu a questo punto che il sistema tedesco di traffico di segnali e comunicazioni wireless divenne di cruciale importanza. Il primo sottomarino in linea di pattugliamento non avrebbe attaccato immediatamente, ma si sarebbe piazzato dietro il convoglio in una posizione di coda nascosta, mantenendo il contatto visivo e chiamando le restanti imbarcazioni in linea di pattugliamento.

Questo era molto più difficile di quanto sembrasse. L’idea di convocare l’intera linea di pattuglia per attaccare simultaneamente un convoglio sembra abbastanza ovvia e solleva una domanda: perché Dönitz era così stimato per aver ideato una tattica così elementare? La risposta, in quanto tale, è che, sebbene la tattica di un attacco di gruppo o di branco fosse generalmente abbastanza ovvia, richiedeva un notevole sistema di comunicazione e controllo per essere effettivamente attuata.

Il controllo operativo degli U-Boot richiedeva un’estesa rete di comunicazioni radio instradate attraverso il quartier generale di Dönitz in Francia. Era necessario impartire ordini per formare e indirizzare le linee di pattugliamento, coordinare attacchi di massa ai convogli e quindi ricostituire i gruppi d’attacco. Nel 1943, quando i tedeschi avevano più di 100 U-Boot in navigazione in qualsiasi momento, il quartier generale di Dönitz gestiva ben oltre 2.000 segnali radio al giorno, tutti criptati e poi ripetuti episodicamente per garantire che ogni imbarcazione ricevesse gli ordini pertinenti. Inoltre, gli addetti alle comunicazioni di ogni U-Boot dovevano ricevere e trascrivere ogni singolo segnale prima di decriptarlo per scoprire se fosse pertinente per loro. Il controllo del traffico radio è decisamente poco attraente nel contesto di una guerra globale, ma Dönitz disponeva di una rete di segnali sofisticata e straordinariamente efficiente, che era la chiave per rendere possibili le tattiche di branco. Sir Francis Harry Hinsley, un ufficiale dell’intelligence britannica che in seguito scrisse una magistrale storia in più volumi dell’intelligence britannica durante la guerra, affermò che la rete di segnali della Kriegsmarine era sostanzialmente ineguagliabile per complessità, efficienza e flessibilità.

Sede centrale di Dönitz : il castello di Kernevel

In altre parole, il grande successo del servizio U-Boot non fu la scoperta dei vantaggi dell’attacco in gruppo (cosa che era sempre stata ovvia), ma piuttosto una vittoria nell’organizzazione e nella comunicazione che permise a Dönitz, operando dal suo quartier generale di Villa Kerlilon a Lorient, di dirigere in modo affidabile decine di U-Boot verso convogli individuati a migliaia di chilometri di distanza. Una volta che un convoglio veniva individuato da un U-Boot in pattuglia, l’imbarcazione chiamava il quartier generale e l’agile ed efficiente rete di segnali tedesca iniziava a richiamare altre imbarcazioni dalla linea di pattuglia per piombare sul convoglio.

L’ideale, quindi, era che tutte le imbarcazioni a portata di mano convergessero davanti al convoglio, ammassandosi lungo il suo percorso e sostando in attesa di un attacco notturno. L’ideale assoluto, sebbene ciò non fosse sempre realizzabile, era che gli U-Boot attaccassero simultaneamente di notte dal lato “oscuro” del convoglio, in modo che le navi nemiche fossero stagliate dalla luna mentre i sottomarini erano immersi nell’oscurità.

Tuttavia – e qui sta un punto di grande confusione – non vi fu alcun controllo tattico della battaglia una volta iniziato l’attacco. Gli U-Boot generalmente comunicavano molto poco una volta iniziata l’azione, e né Dönitz al Quartier Generale né un ufficiale di stanza esercitavano il controllo centrale dell’attacco. La gestione della battaglia si limitava a contare gli U-Boot di stanza, confermare l’esistenza di condizioni favorevoli e quindi dare inizio all’attacco. Una volta effettivamente iniziato l’attacco, ogni capitano di U-Boot sceglieva i propri obiettivi in ​​modo opportunistico e si disperdeva a suo piacimento, senza direttive esterne. Il risultato di tutto ciò, e la conclusione singolare, è che la caccia in branco di U-Boot non era un metodo tattico per coordinare gli attacchi ai convogli, ma piuttosto un sistema operativo-organizzativo che consentiva agli U-Boot, distribuiti in ampie linee di pattuglia, di convergere sui loro obiettivi.

Il concetto di Wolfpack

L’ironia della guerra degli U-Boot fu che, sebbene fosse sempre più considerata un elemento decisivo del conflitto più ampio, si trattò di uno scontro per il quale né gli inglesi né i tedeschi erano ben preparati. Gli inglesi, sulla base del successo ottenuto nella sconfitta degli U-Boot nella Prima Guerra Mondiale, non consideravano i sottomarini una seria minaccia per il loro trasporto marittimo. Consideravano il convoglio una soluzione sostanzialmente adeguata e non riuscirono a prevedere come attacchi di massa avrebbero potuto capovolgere la logica del trasporto. Inoltre, gli inglesi erano fin troppo ottimisti sull’effetto di nuove armi antisommergibile come l’Asdic (un sonar primitivo) e le bombe di profondità. Il sonar Asdic si rivelò presto un sistema terribilmente imperfetto. Aveva una gittata limitata a un miglio e mezzo al massimo, il che lasciava grandi vuoti lungo il perimetro dei convogli. Ancora più importante, tuttavia, l’Asdic non era in grado di rilevare i sottomarini in superficie, il che lo rendeva inutile nella maggior parte degli scenari di attacco. Il problema di gran lunga più grande per gli inglesi, tuttavia, era la catastrofica carenza di navi di scorta. Nei primi anni di guerra, convogli di cinquanta o più navi che viaggiavano in 9 colonne potevano avere solo 4 o 5 navi di scorta, lasciando enormi vuoti facili da penetrare per gli U-Boot. Una volta iniziati gli attacchi sottomarini, le scorte si trovarono nell’impossibilità di reagire correttamente quando erano in inferiorità numerica rispetto ai branchi di U-Boot: virare per dare la caccia al sottomarino in agguato non faceva altro che aprire un nuovo varco nel perimetro, che sarebbe stato sicuramente sfruttato da altre imbarcazioni.

Ciò non significa che i tedeschi fossero più preparati degli inglesi a una guerra espansiva contro gli U-Boot. La carenza di scorte offriva agli U-Boot buone prospettive tattiche quando attaccavano un convoglio, ma nel 1941 gli U-Boot erano semplicemente troppo pochi per sfruttare queste opportunità su larga scala. I tedeschi erano anche ostacolati dai loro punti ciechi tecnologici, ma mentre nel caso britannico fu il sonar Asdic a rivelarsi deludente, i tedeschi furono delusi dalla loro crittografia.

La storia delle macchine Enigma tedesche, del Progetto Ultra, di Alan Turing e del progetto crittografico britannico di Bletchley Park – sebbene sostanzialmente sconosciuta fino alla declassificazione dei materiali rilevanti nel 1974 – è ormai una storia abbastanza nota. Grazie al vantaggio iniziale dei servizi segreti polacchi (che studiavano le macchine cifranti tedesche fin dagli anni ’20), ai loro sforzi erculei e al fortuito recupero di materiale cifrante tedesco, il fatto fondamentale è che gli inglesi furono generalmente in grado di decifrare il traffico radio degli U-Boot nell’Atlantico per tutto il 1941. La cattura, intatta, del sommergibile danneggiato U-110, completo di tutto il suo materiale cifrante, delle chiavi e del registro dei segnali, fu un colpo particolarmente significativo.

Il vantaggio più diretto della lettura del traffico U-Boot, dal punto di vista britannico, non fu necessariamente quello di dare la caccia ai sottomarini (che disponevano ancora di metodi tattici per sfuggire ai cacciatori), ma di deviare i convogli attorno alle linee di pattugliamento degli U-Boot. Questo obiettivo fu raggiunto con notevole successo. Sebbene il numero medio di U-Boot nell’Atlantico triplicò tra febbraio e agosto 1941, il tonnellaggio perso diminuì drasticamente, tanto che il luglio di quell’anno vide le perdite più basse dalla caduta della Francia. Dönitz era molto sospettoso dei risultati deludenti e sospettava che gli inglesi stessero leggendo la sua posta, ma un'”indagine” dell’intelligence navale concluse che il sistema Enigma era fondamentalmente sicuro.

L’intelligence britannica riuscì a ridurre sostanzialmente le perdite di navi negli ultimi mesi del 1941. Lo storico militare tedesco Jürgen Rohwer stimò, sulla base del numero di imbarcazioni in mare, che i tedeschi si aspettassero ragionevolmente di affondare circa 2.035.000 tonnellate di stazza lorda nella seconda metà del 1941, mentre gli affondamenti effettivi, grazie a Ultra, furono di sole 629.000 tonnellate di stazza lorda: ben il 70% al di sotto dell’obiettivo. Questo era decisamente troppo basso per ottenere un risultato decisivo nella “guerra del tonnellaggio”. Il bilancio di base del 1941 era quindi incerto. Gli inglesi avevano appreso che il sistema dei convogli, soprattutto data la scarsità di scorte, era vulnerabile agli attacchi di U-Boot in massa, ma avevano attenuato il danno maggiore leggendo il traffico radio tedesco ed eludendo le linee di pattugliamento.

Diversi fattori concorsero a far sì che il 1942 fosse l’anno in cui la guerra sottomarina iniziò ad accelerare e a raggiungere picchi di intensità potenzialmente decisivi. Tre cambiamenti importanti emergono soprattutto. Innanzitutto, il 1942 fu l’anno in cui la forza sottomarina in mare iniziò effettivamente a crescere fino a raggiungere una massa critica. Dönitz iniziò il 1941 con una media di soli 22 U-Boot nell’Atlantico, e alla fine dell’anno questa era salita a 60. Nel 1942, un programma di costruzione accelerato iniziò a prendere piede e la forza sottomarina atlantica salì a 160 imbarcazioni (anche se non tutte sarebbero state in mare contemporaneamente). In secondo luogo, nel febbraio del 1942 i tedeschi aggiunsero un quarto rotore alle loro macchine cifratrici navali, il che aumentò esponenzialmente la complessità della crittografia e costrinse gli inglesi a lavorare alla cieca per il resto dell’anno. Infine, l’entrata in guerra degli Stati Uniti nelle ultime settimane del 1941 ampliò notevolmente le aree operative degli U-Boot nell’anno successivo.

L’entrata in guerra degli Stati Uniti aprì nuovi e redditizi territori di caccia per gli U-Boot, in gran parte grazie ai permissivi protocolli difensivi americani. Il traffico lungo la costa americana era così vulnerabile agli U-Boot, infatti, che Dönitz abbandonò progressivamente gli sforzi contro i convogli in Atlantico aperto per dare la caccia lungo la costa americana, nonostante i viaggi più lunghi richiesti. Le ragioni della debolezza delle difese americane erano numerose. Innanzitutto, la Marina statunitense aveva pochissime scorte disponibili e teorizzò erroneamente che i convogli senza scorta fossero più vulnerabili delle navi che navigavano individualmente (deducendo che un convoglio senza scorta creasse quello che equivaleva a poco più di un poligono di tiro per gli U-Boot). Gli americani evitarono anche una serie di buone pratiche suggerite dagli inglesi, tra cui l’oscuramento delle coste: al contrario, le città americane rimasero splendidamente illuminate, il che di notte metteva in risalto le sagome delle navi, rendendole più facili da colpire.

Fase 2 della guerra degli U-Boot: caccia nelle Americhe. Gennaio-luglio 1942. Si noti la proliferazione di affondamenti lungo la costa americana, nei Caraibi e nel Golfo del Messico. Fonte: La Germania e la Seconda Guerra Mondiale, V. 6, La Guerra Globale, p. 381

Più in generale, è giusto affermare che le misure antisommergibile non fossero semplicemente una priorità assoluta per l’ammiraglio Ernest King, che – a dire il vero – aveva già parecchio da fare. Un pizzico di arroganza nei confronti dei consigli britannici, l’indifferenza del sovraccaricato King e la carenza di navi di scorta crearono la miscela perfetta per una letargia difensiva, e il risultato fu una fantastica serie di attacchi da parte degli U-Boot lungo la costa orientale americana, il Golfo del Messico e i Caraibi. Infatti, da gennaio a luglio 1942, gli U-Boot raggiunsero il loro massimo tasso di efficienza (calcolato in tonnellate di stazza affondate per ogni sottomarino in mare) e ridussero drasticamente le perdite evitando scontri con convogli scortati. Solo nell’estate del 1942, quando gli americani introdussero tardivamente i convogli lungo la costa orientale, le perdite di tonnellaggio si stabilizzarono e Dönitz fu costretto ad ammettere che un ritorno agli attacchi con gruppi di convogli scortati era ormai l’unica via d’uscita.

L’introduzione tardiva delle misure di sicurezza standard e il convoglio lungo la costa orientale americana portarono a un calo immediato degli affondamenti a partire da luglio, sebbene gli U-Boot continuassero a cacciare in modo produttivo nei Caraibi, dove le difese erano più deboli. Il crollo della facile caccia lungo il litorale americano diede il via a una massiccia offensiva U-Boot contro i convogli nel Nord Atlantico, iniziata nell’agosto del 1942. Questo è solitamente identificato come il culmine e la fase finale della guerra U-Boot.

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