Sovranità, controllo industriale e transizione energetica (2), di Jean-Paul Bouttes

Siamo alla seconda parte dell’articolo di Jean-Paul Bouttes. Il ruolo dello Stato dovrà essere necessariamente determinante. Molto di più contano gli indirizzi concreti che lo Stato sceglie e in base ai quali si possono favorire o pregiudicare i destini di un paese. Richiamare il gaullismo, nell’attuale contesto e con le attuali figure politiche, pare pretestuoso e strumentale.

Articolo comunque interessante al netto della evidente rischiosa, avventata forzatura della scelta strategica compiuta dalla UE. Giuseppe Germinario

Sintesi

Le questioni energetiche sono una questione di prosperità e di sovranità dello Stato. Gli anni 1945-1990 in Francia illustrano come sia stato possibile esplorare nuove strade e impiegare rapidamente e su vasta scala tecnologie innovative adatte a queste sfide essenziali per il nostro Paese. Anche gli ultimi decenni in Cina e negli Stati Uniti dimostrano l’efficacia di questo metodo. Esso si basa sul ruolo fondamentale dello Stato nel padroneggiare le condizioni per il successo industriale e può consentire di rilanciare il settore e di riconquistare la potenza e la prosperità che gli sono proprie, a condizione che una visione politica sia condivisa dai vari attori. Nella prima parte di questo studio, Jean-Paul Bouttes ci riporta indietro nel tempo per svelare le caratteristiche principali del periodo che ha visto la Francia diventare pioniera nel campo dell’energia nucleare.

Nella seconda parte, l’autore allarga il discorso alla transizione energetica, basandosi su esempi esteri e più recenti di successo industriale, come i pannelli fotovoltaici in Cina o la versione americana (Advanced Research Projects Agency-Energy, ARPA-E) dei Programmes d’investissements d’avenir (PIA). Lo studio si conclude con la situazione francese, dove gli ultimi due decenni sono stati segnati da un declino delle nostre competenze industriali, in particolare nei nostri tradizionali punti di forza (nucleare, fossile, rete), dalle difficoltà di EDF, Areva, Framatome, Alstom e, cosa più preoccupante, dai fallimenti dei tentativi industriali nel fotovoltaico e nell’eolico onshore.

https://www.fondapol.org/etude/souverainete-maitrise-industrielle-et-transition-energetique-2/

Jean-Paul Bouttes,

ex direttore della strategia e delle previsioni e capo economista di EDF, ex docente di economia all’École Polytechnique.

Leggi anche

Copyright: William Beaucardet; PWP; CAPA Pictures
Fonte: EDF R&D Les Renardières, Dipartimento ENERBAT [foto ritoccata]. PVLab, laboratorio fotovoltaico, simulatore solare continuo per valutare le prestazioni dei pannelli solari.
https://www.fondapol.org/etude/souverainete-maitrise-industrielle-et-transition-energetique-2/216_nucleaire_ii_couv_fond/

Elenco delle abbreviazioni e degli acronimi utilizzati nel secondo volume

AIE: Agenzia internazionale per l’energia.
ARPA-E: Advanced Research Projects Agency-Energy.
ASN: Autorité de sûreté nucléaire (Autorità per la sicurezza nucleare).
BARDA: Autorità per la ricerca avanzata e lo sviluppo in campo biomedico.
BPA: Bonneville Power Authority.
BPI: Banque publique d’investissement (Banca pubblica d’investimento).
CCGT: turbina a gas a ciclo combinato.
CCS: cattura e stoccaggio del carbonio.
CEA: Commissariat à l’énergie atomique (Commissione per l’energia atomica).
CEGB: Central Electricity Board.
Cnes: Centre national d’études spatiales (Agenzia spaziale nazionale francese).
DARPA: Defense Advanced Research Project Agency.
DGA: Direction Générale de l’Armement (Direzione Generale degli Armamenti).
DOE: Dipartimento dell’Energia.
EDF: Électricité de France.
EJ: exajoule.
EOR: enhanced oil recovery.
EPR: reattore pressurizzato europeo.
ETI: entreprise de taille intermédiaire (impresa di dimensioni intermedie).
OCSE: Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico.
Onera: Office national d’études et de recherches aérospatiales (Agenzia nazionale di ricerca aerospaziale francese).
PIA: Piani per gli investimenti futuri.
PMI: Piccole e medie imprese.
PUC: Commissioni di pubblica utilità.
R&S: Ricerca e Sviluppo.
PWR: reattore ad acqua pressurizzata.
SMR: piccolo reattore modulare.
TVA: Tennessee Valley Authority.

Le sfide della transizione energetica per i prossimi tre decenni sono notevoli, in termini di necessità di innovazione tecnologica e di capacità di diffondere massicciamente in tutto il mondo sistemi energetici più sobri, più efficienti e, soprattutto, decarbonizzati grazie all’elettricità. La padronanza industriale di questi sistemi tecnici sarà quindi al centro delle prospettive di sviluppo delle varie regioni del mondo. Sia la Cina che gli Stati Uniti sembrano aver preso la misura della dimensione industriale di queste sfide, a differenza dell’Europa, in particolare della Francia, che è in contrasto con la sua storia recente. Questo articolo propone un’analisi delle ragioni del ritardo e delle vie d’uscita della Francia, ispirandosi agli approcci cinesi e americani e allo spirito che ha animato l’azione pubblica tra il 1945 e il 1975.

I
Parte
Il successo della transizione energetica: efficienza economica e sovranità

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1
Le sfide dei prossimi tre decenni: il ritorno della geopolitica, obiettivi climatici rafforzati con emissioni nette zero

Note
1. Cfr. Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE), Net Zero by 2050, 2021; Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), Global Warming of 1.5°C, 2019, Climate Change 2022. Mitigazione del cambiamento climatico, 2022.
2. A maggior ragione se ci accontentiamo di obiettivi sempre più ambiziosi senza interrogarci sulle modalità credibili per raggiungerli e sulle condizioni di successo.
3. A patto che si riesca a portare a maturazione questo nuovo settore dell’idrogeno a basse emissioni di carbonio nei prossimi decenni.
Prendersi il tempo di guardare con attenzione al periodo storico 1945-1975 è davvero di grande interesse in un momento in cui dobbiamo intraprendere una transizione energetica ancora più ambiziosa e rapida su scala globale, in un contesto geopolitico ancora una volta permanentemente sensibile e conflittuale: Le sfide che dobbiamo affrontare in campo energetico sono infatti vicine a quelle dei decenni della ricostruzione e della modernizzazione, quando abbiamo dovuto trovare forme di azione collettiva che ci permettessero di inventare nuove tecnologie, portarle a maturazione e distribuirle su larga scala con efficienza, perseveranza e reattività.

Gli impegni per la riduzione delle emissioni di gas serra assunti alla COP21 di Parigi nel 2015 portano a obiettivi energetici particolarmente impegnativi, che rompono con le tendenze degli ultimi due decenni, tra cui l’obiettivo di raggiungere zero emissioni nette di CO2 (“emissioni nette zero”) entro il 2050-20601. La tabella di marcia è costituita da alcuni punti chiave che forniscono le indicazioni rilevanti, anche se sembra difficile, nella prospettiva odierna, rispettare le scadenze2.

Stabilizzare il consumo energetico mondiale entro il 2050

La stabilizzazione del consumo mondiale di energia può comportare una riduzione significativa di quello dei Paesi sviluppati e quindi disaccoppiare il consumo di energia dalla crescita del PIL attraverso un risparmio energetico molto significativo, che può essere ottenuto in particolare riducendo in modo significativo l’intensità energetica degli usi. Questi risparmi energetici possono essere ottenuti con l’impiego di tecnologie efficienti: pompe di calore, LED per l’illuminazione, processi industriali efficienti, abitazioni a basso consumo energetico. Ciò può comportare anche cambiamenti nei nostri comportamenti individuali e collettivi: sobrietà energetica attraverso cambiamenti nell’organizzazione della mobilità, del lavoro e dell’abitazione, in particolare l’equilibrio città/campagna e una nuova pianificazione territoriale. Il controllo industriale di queste nuove infrastrutture (città e abitazioni, trasporti, telecomunicazioni e telelavoro) e le tecnologie efficienti per l’uso dell’energia saranno quindi al centro del successo di queste misure.

Decarbonizzazione completa del mix elettrico

È essenziale decarbonizzare completamente il mix elettrico per gli usi attuali dell’elettricità, ma anche sostituire l’elettricità ai combustibili fossili negli edifici, nei trasporti e nell’industria, ove possibile, e produrre idrogeno3 utilizzando l’elettricità decarbonizzata per gli usi più difficili da elettrificare, come il trasporto a lunga distanza (aerei, trasporto marittimo internazionale) o alcuni processi industriali. Questa sostituzione dovrebbe portare a un aumento di due volte e mezzo della produzione e del consumo di elettricità a livello mondiale entro il 2050. Entro tale data, le centrali elettriche che utilizzano combustibili fossili dovrebbero essere chiuse (a meno che non siano dotate di cattura e stoccaggio della CO2), dovrebbe essere costruito un parco elettrico globale pari a circa tre volte l’attuale in termini di capacità installata, utilizzando tecnologie decarbonizzate (idroelettrico, pannelli fotovoltaici ed eolici, nucleare), e le reti di trasmissione e distribuzione dovrebbero essere sviluppate in modo coerente con l’ubicazione dei siti di produzione e dei nuovi usi dell’elettricità. Inoltre, dovrebbe essere assicurata una quota sufficiente di impianti di produzione e stoccaggio controllabili per garantire l’equilibrio tra domanda e offerta in tutti gli orizzonti temporali.

2
Il ruolo dello Stato: lungimiranza sistemica, controllo industriale e sovranità

Note
4. Cfr. Oliver E. Williamson, Markets and Hierarchies: Analysis and Antitrust Implications, The Free Press, 1975; Jean-Paul Bouttes, “Organisation du secteur électrique et déréglementation: quelques références théoriques” e “L’organisation des systèmes électriques: un premier état des lieux”, Economia delle fonti di energia e dell’ambiente, n. 36, 1988, pp. 81-110 e pp. 111-134; Jean-Paul Bouttes e Raymond Leban “Concurrence et réglementation dans les industries de réseau en Europe. Du cas général à celui de l’électricité”, Journal des économistes et des études humaines, vol. 6, n. 2-3, giugno-settembre 1995, pp. 413-448; Jean-Paul Bouttes e Jean-Michel Trochet, “La conception des règles des marchés de l’électricité ouverts à la concurrence”, Économie publique, études et recherches, n. 14, 2004; Jean-Paul Bouttes, “Sécurité d’approvisionnement et investissements dans l’électricité”, Revue de l’Energie, n. 566, luglio-agosto 2005.
5. Cfr. Jean-Paul Bouttes, Raymond Leban e Pierre Lederer, Organisation et régulation du secteur électrique : un voyage dans la complexité, Cerem, 1993; Thomas P. Hughes, Networks of Power. Electrification in Western Society 1880-1930, John Hopkins University Press, 1993; Jean-Paul Bouttes e François Dassa, Europe de l’électricité. Une perspective historique, Institut français des relations internationales (Ifri), novembre 2016.+
6. Per una prima versione degli scenari a “emissioni nette zero” nel settore elettrico per la Francia, si veda Réseau de transport d’électricité (RTE), Futurs énergétiques 2050, 2022.
7. Cfr. Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE), rapporti World Energy Outlook, anni 2020, 2021 e 2022, e Net Zero by 2050. A Roadmap for the Global Energy Sector, 2021.
8. Con i loro “convertitori di energia”, occupano molto più spazio e mobilitano molto più materiale per unità di energia prodotta rispetto alle energie dense come il petrolio o il gas, o alle energie molto dense come il nucleare (cfr. Vaclav Smil, Power Density. A Key to Understanding Energy Sources and Uses, The MIT Press, 2016).+
9. Si veda lo scenario Announced Pledges Case (APC), in Net Zero by 2050…, op. cit.
Le tre ragioni principali della forte relazione tra elettricità e sovranità economica, e del ruolo di primo piano svolto dallo Stato in questo settore negli anni 1945-1975, si ritrovano nel nuovo contesto odierno. Come accade anche oggi e per i prossimi decenni, il settore elettrico appare allora come essenziale per la vita economica del Paese, per la sua potenza industriale e per la sicurezza dell’approvvigionamento energetico.

L’elettricità è un bene essenziale per l’economia e viene utilizzata massicciamente nelle case, nelle fabbriche e nei territori. Ha irrigato tutte le attività del Paese durante i Trente Glorieuses in Francia. La sua efficienza economica è stata un elemento chiave per la prosperità del Paese. Lo Stato svolge un ruolo essenziale nell’efficienza di questo settore per garantire la coerenza e il coordinamento degli investimenti nelle centrali elettriche, nelle reti e nello sviluppo degli usi. Questi richiedono anche notevoli investimenti da parte dei consumatori, il che rende necessari segnali di prezzo e tariffe che riflettano i costi di utilizzo a lungo termine. Gli equilibri tra domanda e offerta devono essere garantiti per tutti gli orizzonti temporali, compreso il breve termine, in tempo reale, per evitare il fenomeno del crollo della rete “come un castello di carte”. La “mano visibile” delle autorità pubbliche è quindi necessaria di fronte ai fallimenti del mercato costituiti dal “monopolio naturale” delle reti e dalle “esternalità di rete” tra le centrali, le reti e gli usi4.

La necessità di questo coordinamento statale è stata sempre più percepita dagli attori nel periodo tra le due guerre, con i primi passi significativi verso l’elettrificazione e l’interconnessione delle reti in Francia. Il periodo di crescita sostenuta e di investimenti che ha caratterizzato i decenni 1945-1975 ha reso ancora più rilevante l’organizzazione del settore decisa nel 1946 con la creazione di EDF, che riunisce tutte le società private di generazione e di rete. Il “modello industriale” dell’elettricità si è affermato nel periodo 1920-1960 nella maggior parte dei Paesi sviluppati con una grande diversità istituzionale, che riflette le diverse storie politiche, giuridiche ed economiche, ma anche secondo alcuni principi comuni: società di rete con un monopolio a livello di regione o di Paese, integrate verticalmente con la produzione, legalmente o tramite contratti a lungo termine, i cui investimenti e prezzi di vendita sono controllati dalle autorità pubbliche locali o nazionali5.

I prossimi tre decenni 2022-2050 dovrebbero essere ancora più impegnativi in termini di coordinamento degli investimenti nella produzione, nelle reti e negli usi: Gli scenari “emissioni nette zero” prevedono un’elettrificazione che dovrebbe passare dal 20% della domanda finale di energia a più del 50%, il che implica un forte aumento della produzione di energia elettrica in Francia, con mezzi di produzione decarbonizzati ad alta intensità di capitale come il nucleare, i pannelli fotovoltaici e le turbine eoliche, e un notevole sviluppo delle reti per accompagnare questi nuovi usi e queste nuove centrali, tanto più che la quota di energia intermittente, solare o eolica, sarà significativa6.

Possiamo aggiungere che questo requisito di coordinamento sarà dello stesso ordine per lo sviluppo di alcuni usi: Ad esempio, lo sviluppo dei veicoli elettrici dovrà essere coerente con quello delle infrastrutture di ricarica pubbliche e private e con il potenziamento a monte delle reti di distribuzione e di trasporto, il cui costo è almeno dello stesso ordine di grandezza di quello delle batterie dei veicoli elettrici; anche per lo sviluppo delle reti di idrogeno, come complemento dell’elettricità per alcuni usi difficilmente elettrificabili, sarà essenziale un coordinamento a lungo termine tra lo sviluppo di questi usi, gli elettrolizzatori, le reti di trasporto tecnicamente in grado di trasportare e distribuire l’idrogeno e i sistemi di stoccaggio dell’idrogeno.

Le autorità pubbliche dovranno quindi possedere competenze strategiche di previsione e pianificazione di questi sistemi elettrici ed energetici decarbonizzati, per poter alimentare i decisori politici e poi attuare queste decisioni a livello operativo, creando i giusti quadri istituzionali e inviando i giusti segnali di incentivo a tutti gli attori.

Anche il controllo industriale di queste tecnologie elettriche decarbonizzate è essenziale per la potenza industriale e la competitività del Paese. Si tratta di tecnologie avanzate, con significativi incrementi potenziali di produttività, e quindi di una fonte di crescita a lungo termine e di posti di lavoro qualificati, se non ci accontentiamo di servizi a basso valore aggiunto, ma produciamo i componenti industriali e le apparecchiature chiave con i relativi servizi a valore aggiunto (digitali e 4.0) nel Paese. È quindi una sfida importante ripristinare le prospettive di progresso economico e sociale in un momento in cui stiamo mettendo in discussione le leve della crescita a lungo termine con i dibattiti sulla stagnazione secolare e i vincoli che la necessità di proteggere gli ecosistemi e il nostro pianeta, nonché i rischi geopolitici, pongono oggi alle economie. Come abbiamo visto nella storia dell’energia nucleare, questo controllo industriale implica che non ci limitiamo alla funzione di ricerca e sviluppo (R&S) a monte, che è ovviamente essenziale, o al marketing e alle vendite a valle, ma che ci interessiamo ad avvicinare i laboratori e le fabbriche per l’innovazione di processo, al tessuto industriale, con in particolare i fattori di produzione, le macchine utensili e i materiali critici, e alla catena di approvvigionamento industriale nel suo complesso.

Anche in questo caso, anche se il discernimento è più delicato se si vuole evitare di fare cattiva “meccanica industriale”, lo Stato ha un ruolo importante da svolgere riguardo a queste “esternalità positive verticali e orizzontali” per facilitarle e verificare che siano ben attuate: dare la sua visione di lungo periodo, possibilmente coerente, fondata e robusta, dei bisogni del Paese; semplificare le normative e renderle coerenti; sviluppare le infrastrutture pubbliche e i relativi bandi di gara con le giuste forme contrattuali e in tempo utile. È necessario inventare, in modo pragmatico, politiche industriali adeguate alle nuove poste in gioco e rilevanti per accompagnare le imprese industriali così come gli enti locali e le iniziative territoriali.

L’elettricità, vettore energetico per eccellenza, è stata chiaramente il mezzo privilegiato per contribuire alla sicurezza dell’approvvigionamento energetico della Francia in un periodo dominato dai combustibili fossili, petrolio e carbone, di cui il Paese era privo. L’energia idroelettrica e l’elettricità nucleare hanno quindi contribuito a ridurre la nostra dipendenza energetica nella misura in cui il combustibile uranio o la fabbricazione di attrezzature chiave (in questi due settori) sono stati padroneggiati.

Nei prossimi anni, con l’elettrificazione della maggior parte degli usi, il sistema elettrico sarà ancora più essenziale per la sovranità e la resilienza del Paese di fronte ai rischi sistemici e geopolitici (come la guerra della Russia in Ucraina). Ma il fatto che la geopolitica del petrolio possa essere eliminata tra qualche decennio non significa che le questioni di sovranità scompariranno gradualmente. Al contrario, come spiega chiaramente l’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE)7 nelle sue recenti pubblicazioni, le fonti di preoccupazione sono destinate a moltiplicarsi.

Si prevede che il nostro approvvigionamento energetico ed elettrico si affidi sempre meno ai combustibili e sempre più alle tecnologie decarbonizzate ad alta intensità di capitale. La sicurezza dell’approvvigionamento che prima riguardava i combustibili fossili (petrolio, gas) dovrebbe quindi riguardare progressivamente le attrezzature e i materiali critici delle tecnologie a bassa emissione di CO2 come il nucleare, i pannelli fotovoltaici o le turbine eoliche, oltre a quelli associati alla rete elettrica. Inoltre, poiché l’energia solare ed eolica sono energie a bassissima densità8 , le quantità di materiali critici mobilitati (terre rare, cobalto, nichel, rame, ecc.) saranno considerevoli e richiederanno l’apertura di numerose miniere e impianti di lavorazione in tutto il mondo, il che richiederà tempo – da uno a due decenni – e anticipazioni.

I sistemi elettrici che saranno al centro del nostro approvvigionamento dipenderanno in larga misura da sistemi digitali, con un gran numero di programmi software essenziali per garantire l’equilibrio tra domanda e offerta. Il rischio di attacchi informatici sarà quindi anche al centro delle questioni di sovranità energetica e industriale. Va notato che più aumenta la quota di energie intermittenti nel mix elettrico, più il funzionamento a breve termine e in tempo reale del sistema dovrà fare affidamento sull’elettronica di potenza e su un’automazione sofisticata, nonché su strumenti di controllo digitali, il che implica che gran parte di questi strumenti tecnologici richiederà un’innovazione, la cui affidabilità dovrà essere dimostrata. Questa caratteristica costituisce anche una sfida per l’affidabilità degli equilibri tra domanda e offerta di energia elettrica, che potrebbe essere ridotta anche dal rischio di attacchi informatici.

L’esame dei diversi scenari al 2050 mostra una grande variabilità nei tassi di penetrazione delle tecnologie decarbonizzate, e quindi nei fabbisogni di petrolio e gas durante questo periodo di transizione. Questi ultimi dovrebbero dipendere anche dalla capacità di catturare la CO2 e, soprattutto, di trovare siti geologici affidabili per il suo stoccaggio. Se lo scenario “emissioni nette zero” dell’AIE per il 2021 prevede 20 milioni di barili/giorno nel 2050 (solo il 20% del consumo attuale), basterà fare un passo indietro9 per arrivare a 80 o 100 milioni di barili/giorno, cioè quanto oggi. Sapendo che dobbiamo costantemente investire in nuovi giacimenti (o in ampliamenti di quelli esistenti) per compensare il naturale esaurimento dei giacimenti (un calo del 3-4% all’anno), possiamo immaginare i rischi di sotto- o sovra-capacità, e quindi la volatilità dei prezzi nei prossimi decenni. Oggi ne stiamo purtroppo vivendo gli inizi con l’aumento dei prezzi del petrolio e del gas, che si è verificato anche prima della guerra della Russia in Ucraina, a causa della rapida ripresa della domanda mondiale dopo i forti cali dei primi due anni della pandemia e del fortissimo rallentamento degli investimenti degli ultimi anni (incertezza sulla velocità della transizione energetica, pandemia e bassa domanda, assenza di contratti a lungo termine non indicizzati al mercato spot).

Infine, la geopolitica dell’idrogeno potrebbe sostituire e/o integrare quella del petrolio e del gas. L’idrogeno non è una fonte di energia come il petrolio o il carbone, ma un vettore energetico come l’elettricità e quindi deve essere prodotto. Attualmente viene prodotto principalmente da combustibili fossili, gas, mediante steam reforming, e quindi emette molta CO2 (10 tonnellate di CO2 emesse per 1 tonnellata di idrogeno prodotto). L’idrogeno decarbonato può essere prodotto sia dall’elettrolisi dell’acqua utilizzando elettricità decarbonata (nucleare o rinnovabile), sia installando un sistema di cattura e stoccaggio della CO2 con il processo di steam reforming (a condizione che ne venga catturata un’alta percentuale, cosa non ovvia). Queste tecnologie sono ancora molto costose e la filiera dell’idrogeno decarbonizzato deve dimostrare di aver superato la fase dei dimostratori e di aver raggiunto la maturità economica per poter essere diffusa e integrare i sistemi elettrici decarbonizzati, che saranno comunque essenziali per avere idrogeno a bassa emissione di CO2. In questa transizione verso la maturità, uno dei fattori chiave, oltre a una drastica riduzione del costo degli elettrolizzatori, è rappresentato da un’elettricità decarbonizzata molto economica e abbondante.

La Germania, che conta su volumi considerevoli di idrogeno entro il 2040-2050, vista la rinuncia al nucleare, non sarà in grado di produrli in buone condizioni sul proprio territorio a causa della mancanza di quantità sufficienti di elettricità decarbonizzata, a causa dei vincoli di spazio per la costruzione di ulteriori pannelli solari o turbine eoliche (o per la realizzazione delle relative reti) e dei vincoli di costo dovuti al basso livello di insolazione del Paese. Si sta quindi valutando la possibilità di importare idrogeno su scala massiccia da aree più favorevoli in termini di bassi costi dell’elettricità (Nord Africa, Medio Oriente, Russia, ecc.), fatti salvi ovviamente i costi di trasporto dell’idrogeno su lunghe distanze. Sapendo che questo idrogeno sarà centrale, non solo per rifornire la loro industria, ma anche per far funzionare i mezzi di picco e semi-base essenziali per gli equilibri domanda-offerta del loro sistema elettrico basato principalmente su energie intermittenti, si possono misurare i rischi geopolitici assunti sui sistemi energetici ed elettrici, non solo tedeschi ma anche europei, tenendo conto delle interconnessioni tra i sistemi nazionali.

II
Parte
Strategie energetiche e ruolo dello Stato: gli esempi della Cina (pannelli fotovoltaici) e degli Stati Uniti (preparazione delle tecnologie future e ARPA-E)

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Negli ultimi decenni l’energia e l’elettricità sono state al centro di tre dimensioni importanti per lo sviluppo a lungo termine delle nostre società:

affrontare la sfida del cambiamento climatico;
trovare nuove fonti di crescita e di progresso;
conservare un margine di manovra in un mondo segnato dal ritorno della geopolitica e dai limiti della globalizzazione.
Mentre negli ultimi anni l’Europa e la Francia non hanno preso realmente le misure di questo nuovo contesto, grandi potenze come la Cina e gli Stati Uniti hanno iniziato ad attuare strategie di sovranità economica nel settore energetico, con i loro punti di forza e di debolezza. Sembra utile condividere alcuni elementi su questi due esempi che illustrano bene il modo in cui questi Stati si stanno mobilitando per sviluppare e attuare queste strategie, tenendo conto dei loro interessi a lungo termine, dei loro vantaggi comparativi e delle loro storie e tradizioni istituzionali molto diverse.

1
Cina

Note
10. Si veda il libro del suo ex leader, Zhenya Liu, Global Energy Interconnection, Academic Press, 2015.
11. Si veda International Energy Agency (IEA), Solar PV Global Supply Chains, 2022.
12. Ibidem, pag. 58 e segg.
13. Ibidem, pag. 106 e segg.
14. La diaspora scientifica cinese svolgerà un ruolo importante in questa ascesa di potere.
15. Hanno anche messo in funzione impianti AP1000, tecnologia americana di terza generazione, con prestazioni industriali molto migliori rispetto agli americani di Vogtle – costi di investimento da due a tre volte inferiori -, così come hanno fatto per la tecnologia francese.
La Cina, Paese del continente, ha un notevole fabbisogno energetico. Pur disponendo di scarse riserve di petrolio e di gas, possiede riserve di carbone, di cui è oggi di gran lunga il primo produttore e consumatore mondiale, ma con i principali difetti di questa energia legati alle elevate emissioni di CO2 e all’inquinamento locale (soprattutto quando il carbone viene utilizzato senza passare attraverso centrali elettriche dotate di sistemi di controllo dell’inquinamento da SOx, NOx e particolato). Negli ultimi due decenni ha quindi attuato una strategia di controllo industriale su larga scala, sia per il fabbisogno interno che per l’esportazione, di tutte le tecnologie di produzione prive di CO2: Pannelli fotovoltaici, energia nucleare, energia idraulica, turbine eoliche, cattura e stoccaggio di CO2 per le centrali a carbone, batterie, elettrolizzatori, ecc. Un’attenzione specifica è rivolta all’anello chiave delle reti di trasmissione (corrente continua e alternata, elettronica di potenza e relativo software di controllo), con in particolare una strategia di acquisizione di partecipazioni nelle reti elettriche di altri Paesi per controllare la funzione di acquisto ed esportare le attrezzature cinesi (linee ad altissima tensione per la trasmissione a lunga distanza). La grande società di rete pubblica State Grid svolge un ruolo importante grazie ai suoi forti legami con il tessuto industriale dei produttori cinesi10.

La Cina può far leva sulle sue competenze industriali di “produttore mondiale”, sulla presenza di molti materiali critici necessari nel suo sottosuolo e sulla capacità dello Stato di attuare politiche pubbliche coerenti. Il suo metodo articola una visione e una strategia chiare e sostenibili, poiché queste due dimensioni sono profondamente legate ai suoi interessi a lungo termine, con un’attuazione proattiva che si concentra su un’azione forte sugli ecosistemi industriali, sia a livello verticale, dalla funzione di R&S alla fabbrica, sia a livello orizzontale, dalla produzione di componenti chiave e macchine utensili agli input e ai materiali critici. La costruzione della sua posizione iper-dominante nel mondo nel settore fotovoltaico ne è un’eccellente illustrazione.

La storia recente dell’industria fotovoltaica

La radiazione solare è la fonte di energia con il potenziale maggiore e più sostenibile, ma è diffusa e non direttamente utilizzabile dall’uomo per esigenze concentrate e significative. Il collettore-convertitore di energia solare più promettente è il pannello fotovoltaico, che converte la radiazione solare in energia elettrica. Questa conversione sfrutta l’effetto fotoelettrico: i fotoni della luce solare, raggiungendo alcuni materiali che sono semiconduttori (oggi soprattutto il silicio monocristallino), provocano un movimento di elettroni nei loro atomi che può essere trasformato in una corrente elettrica. Questo principio, scoperto da Antoine Becquerel nel 1839 e spiegato da Albert Einstein solo nel 1905, fa riferimento alla fisica quantistica, scoperta all’inizio del XX secolo contemporaneamente alla radioattività. Solo negli anni ’60 sono state realizzate le prime costosissime realizzazioni, utilizzate per alimentare i satelliti. Solo negli anni ’80 e ’90 sono nati i pannelli fotovoltaici per l’uso stazionario in aree lontane dalle reti di interconnessione. Il fotovoltaico ha quindi molti punti in comune con il nucleare civile: sono entrambe fonti di energia con un forte potenziale sostenibile, l’una perché è l’energia di flusso più abbondante, l’altra per l’esistenza di riserve di uranio (235 e 238) e di torio che rappresentano un notevole volume di energia (data la loro estrema densità energetica, a differenza della radiazione solare). In entrambi i casi, sono necessari convertitori di energia ad altissima tecnologia, che sfruttano recenti scoperte scientifiche la cui maturità economica risale solo agli anni ’70-’80 per l’energia nucleare e agli anni ’10 per i pannelli fotovoltaici. Questi convertitori trasformano queste due fonti di energia in elettricità, aprendo così la più ampia gamma di utilizzi possibili.

L’industria di produzione dei pannelli fotovoltaici e i moduli che ne costituiscono il nucleo sono quindi un esempio molto importante e complementare delle condizioni per il successo industriale. L’energia nucleare beneficia di significative economie di dimensione che portano a impianti di produzione di grandi dimensioni e a grandi cantieri dove vengono assemblati i principali componenti dell’impianto. Da questo punto di vista, è rappresentativa di altri impianti come le centrali a gas o a carbone dotate di cattura e stoccaggio del carbonio (CCS) o le turbine eoliche offshore in ambienti marini difficili. I pannelli solari, invece, sono rappresentativi di un’apparecchiatura industriale ad alta tecnologia e su piccola scala, prodotta per lo più in fabbrica e in grandi quantità, con significative economie di scala nelle dimensioni delle fabbriche che producono il modulo e i suoi componenti; lo stesso vale per le batterie o gli elettrolizzatori.

La storia della padronanza industriale di questa tecnologia è rapida e recente: si gioca essenzialmente tra i primi pannelli fotovoltaici, molto costosi e di alta qualità, utilizzati sui satelliti nello spazio a partire dagli anni Sessanta, e lo spostamento di gran parte dell’industria in Cina e nel Sud-Est asiatico nell’ultimo decennio, che rende competitivi i pannelli solari “terrestri e stazionari” e apre la possibilità di uno sviluppo significativo nel mix elettrico globale (3% del mix oggi, una quota ancora modesta, ma con tassi di crescita annuali molto significativi).

Questa storia comprende tre grandi periodi, a partire dalle due crisi petrolifere, durante i quali i Paesi OCSE, soprattutto gli Stati Uniti ma anche Giappone, Germania e Francia, hanno avviato programmi di ricerca per passare dall’energia spaziale a quella terrestre. Questa prima fase, iniziata nel 1974, ha permesso, grazie a importanti innovazioni, di dividere i costi spaziali di un fattore superiore a quattro o cinque, per arrivare a livelli di prezzo di 500 dollari/MWh nei primi anni 2000. Si tratta di un prezzo ancora dieci volte troppo alto per le grandi reti interconnesse, ma abbastanza promettente da indurre diversi Paesi industrializzati a istituire programmi di sostegno per avviare la seconda fase, dal 2000 al 2010, in vista delle sfide a lungo termine del cambiamento climatico.

La Germania è stata la prima a farlo, seguita da Spagna, Italia e Francia. Le tariffe di alimentazione preferenziali saranno dell’ordine di 400-600 euro/MWh nel corso di questo decennio, innescando un aumento significativo della produzione di pannelli solari, con un conseguente volume considerevole di sussidi, soprattutto in Germania, che, complessivamente, ammonteranno a diverse centinaia di miliardi di euro. I costi totali di produzione dell’energia elettrica da ciclo combinato a gas o nucleare si aggirano infatti intorno ai 50 euro/MWh, cioè da otto a dieci volte più economici.

Questa prima ondata di industrializzazione, in particolare negli Stati Uniti, in Germania e in Giappone, ma anche in parte in Francia (Photowatt è uno dei pionieri del fotovoltaico), ha permesso una prima serie di innovazioni di processo nelle fabbriche nel decennio 2000-2010, che potenzialmente avrebbero potuto consentire una significativa riduzione dei costi. Tuttavia, la domanda massiccia e imprevista di alcuni fattori produttivi, in particolare il silicio cristallino, ha portato a notevoli aumenti dei prezzi: il fotovoltaico è diventato il principale utilizzatore di silicio prima dell’industria dei semiconduttori, con un conseguente aumento dei prezzi del silicio cristallino di un fattore compreso tra 5 e 10. Questo episodio illustra la necessità di prestare attenzione ai costi dei materiali critici e dei collegamenti chiave. Di conseguenza, fino alla fine degli anni 2000 si sono osservate solo modeste diminuzioni dei prezzi dei pannelli.

Alla fine degli anni Duemila, l’istituzionalizzazione a lungo termine del sostegno all’energia solare in Europa e negli Stati Uniti e l’intensità della concorrenza tra gli operatori hanno indotto i produttori a delocalizzare la produzione in luoghi dove potevano trovare condizioni e competenze favorevoli. La Cina, che si è preparata per questo, coglierà l’opportunità. L’inizio della terza fase è previsto per il 2010. Si tratta di uno spostamento dell’industria verso la Cina (e il Sud-Est asiatico), con la stabilizzazione del mercato del silicio a livelli di prezzo bassi. I costi scenderanno poi molto rapidamente grazie soprattutto all’efficienza industriale della Cina: i costi di produzione dei moduli si quintuplicheranno tra il 2010 e il 2022 e il costo di produzione del silicio cristallino si quintuplicherà rispetto al 2010 a partire dal 2015, con un forte aumento della capacità cinese anche in questo segmento11. Questo è l’elemento strutturale che spiega perché i livelli di prezzo dell’elettricità prodotta dai pannelli sono ormai vicini alla competitività in alcuni sistemi elettrici, per le fattorie a terra, senza considerare i costi legati all’intermittenza, tenendo conto che i costi dei tetti devono essere moltiplicati per due o tre per le abitazioni residenziali.

La strategia cinese di controllo industriale

I risultati ottenuti dall’industria cinese nell’ultimo decennio in termini di riduzione dei costi e di quota di mercato globale nell’intera catena del valore del fotovoltaico sono impressionanti. I costi sono stati ridotti di almeno 5 volte, consentendo al fotovoltaico di essere oggi economicamente maturo nello spazio tecnologico. La quota di mercato globale della Cina è superiore all’80% in tutti i settori: produzione di silicio cristallino, lingotti, wafer, celle e moduli. La maggior parte del restante 20% è prodotto nel Sud-Est asiatico da operatori cinesi per aggirare i dazi doganali sulle apparecchiature prodotte in territorio cinese. L’Europa importa l’84% dei suoi moduli dalla Cina e il 60-80% dei moduli prodotti altrove dipende da celle importate dalla Cina. Una serie di incidenti (esplosioni o altro) nel 2020 in quattro mega-fabbriche cinesi di silicio cristallino (una delle quali produce l’8% della domanda) ha portato a un calo del 4% della produzione globale annuale e a una triplicazione dei prezzi tra il 2020 e il 2021.12 Una parte significativa della produzione cinese di silicio cristallino sarà importata dalla Cina.

Una parte significativa della produzione di apparecchiature si trova in un piccolo numero di province cinesi, in particolare nello Xinjiang (la regione degli Uiguri), che produce oltre il 40% del silicio cristallino cinese, una produzione che richiede molta elettricità a basso costo. Questo grazie all’abbondanza di carbone del territorio. Lo Xinjiang possiede anche molte risorse naturali, petrolio, gas, vento, materiali. La Cina dispone di elettricità a basso costo, soprattutto grazie al carbone nazionale, che viene utilizzato dall’industria dei pannelli fotovoltaici. L’elettricità è infatti un input importante per la produzione dei pannelli, insieme a molti beni intermedi come il vetro, i prodotti chimici e molti materiali come l’argento. La Cina ha un tessuto industriale completo che produce questi beni intermedi in modo particolarmente efficiente, a differenza della Francia e di altri Paesi europei che hanno perso alcune delle loro industrie. La Cina produce anche la maggior parte delle materie prime e/o la loro raffinazione necessarie all’industria dei pannelli solari: alluminio, antimonio, cadmio, molibdeno, tellurio, stagno, zinco, rame e raffinazione dell’indio.

Questa strategia cinese è innanzitutto una strategia a lungo termine, attuata per tempo, che le ha permesso di superare le tre fasi chiave descritte nell’esempio del programma nucleare francese13. Negli anni ’90, l’industria cinese stava guadagnando slancio nei settori della chimica, dei semiconduttori e dell’elettronica rilevanti per il solare e le università cinesi, come l’Accademia delle Scienze, stavano investendo nella scienza legata a questi temi14. All’inizio degli anni 2000, il governo cinese ha scelto il solare come industria chiave per la sua economia e le sue esportazioni, in vista dei primi significativi programmi di sostegno economico in Europa e negli Stati Uniti. Questa decisione si traduce concretamente in obiettivi per la produzione di celle e moduli nel 10° Piano quinquennale 2001-2005 e per la produzione di polisilicio cristallino e delle necessarie macchine utensili nell’11° Piano quinquennale 2006-2010, partendo dall’iniziale dipendenza del 95% della Cina dalle importazioni di silicio cristallino. L’obiettivo è poi chiaramente quello di sviluppare le esportazioni verso Europa, Stati Uniti e Giappone. L’Accademia delle Scienze, le principali università cinesi, la Commissione Nazionale per lo Sviluppo e le Riforme (NDRC), sotto l’autorità del Consiglio di Stato presieduto dal Primo Ministro, e il Ministero della Scienza e della Tecnologia si stanno coordinando sotto l’egida del governo, con l’aiuto di consulenti statali che sono grandi ingegneri e scienziati ben integrati nelle reti internazionali, L’obiettivo era quello di mettersi al passo con le migliori innovazioni tecniche di europei, americani e giapponesi, leader in questo campo, per perfezionarle e utilizzarle in fabbriche più grandi e di migliore qualità (“camere bianche” per la produzione ad alta tecnologia). Questo decennio di aggiornamento scientifico, di “dimostratori industriali” e di risalita nella catena del valore consentirà loro di raggiungere quote di mercato del 20-30% nel 2010 e di essere pronti a passare alla fase di diffusione massiccia su larga scala negli anni 2010-2020.

Questa massiccia diffusione è legata principalmente al boom di obiettivi e sussidi in Europa nel 2010-2013 (a seguito dei primi piani clima-energia) e alla decuplicazione delle prospettive di esportazione verso l’OCSE, ma anche la Cina fisserà obiettivi di penetrazione del solare nel mix elettrico cinese nell’ambito delle sue prime politiche climatiche. Lo sviluppo del mercato interno consentirà alla Cina di attutire gli effetti di stop-and-go delle politiche occidentali e di procedere al contempo verso la limitazione delle sue (ancora modeste) emissioni di CO2.

Il periodo 2010-2022 è quello che, dopo l’accumulo di competenze scientifiche e industriali, prototipi e dimostratori, farà la differenza con i leader tedeschi, giapponesi o americani. La Cina dimezzerà o triplicherà i costi di produzione dei componenti della catena del valore rispetto a quelli dei leader tedeschi, giapponesi o americani e garantirà all’industria cinese la fornitura di materiali e input critici. Questa strategia industriale, che combina efficienza economica e sovranità, può essere attuata nel caso del fotovoltaico impostando le seguenti azioni

Visibilità a lungo termine data dalla politica agli attori industriali, alle province e alle autorità locali, con, oltre alla coerenza delle regole del gioco nel tempo (volume e livello dei contratti a lungo termine o delle tariffe di alimentazione, tariffe doganali, bandi di gara pubblici, collegamento con le reti, ecc.), un sostegno mirato all’industria in caso di calo delle esportazioni;
incoraggiare lo sviluppo di gigafabbriche per sfruttare le economie di scala e gli effetti di apprendimento;
coordinamento degli industriali privati e dei laboratori scientifici per trovare e diffondere innovazioni incrementali nei processi (fili di diamante per tagliare i wafer nel 2018), e per stare un passo avanti rispetto ai costi di produzione;
sostegno al tessuto industriale e a un ecosistema industriale di qualità in grado di produrre input chiave a costi competitivi (vetro, acciaio, chimica, polimeri) inferiori del 10-30% rispetto ai nostri;
un passaggio a monte della catena del valore nella produzione di macchine utensili negli stabilimenti di produzione e assemblaggio di componenti chiave (al posto dei tedeschi);
produzione e fornitura di materiali critici.
Per un’attuazione efficace, vi sono due aspetti strutturanti:

una forte azione sugli ecosistemi industriali, sia a livello verticale, avvicinando la funzione di R&S alle fabbriche, sia a livello orizzontale, assicurando la produzione in Cina di tutti i fattori di produzione e degli anelli chiave delle catene del valore, nonché sviluppando le competenze e le professioni chiave (come hanno fatto la CEA e l’EDF per l’energia nucleare dal 1950 al 1990);
una forte coerenza a lungo termine delle varie politiche pubbliche che inquadrano il funzionamento di questo settore e consentono iniziative locali e private.
La strategia cinese non è priva di interrogativi. È deliberatamente orientata alle esportazioni e crea un’eccessiva dipendenza dalla maggior parte dei Paesi per i beni strumentali strategici.

Il fabbisogno cinese di pannelli fotovoltaici rappresenta solo il 30-35% della domanda mondiale, che la Cina attualmente soddisfa all’80-90%, con una sovraccapacità di un fattore 2 in molti settori (ad eccezione dell’attuale silicio cristallino, ma i programmi di investimento dovrebbero sviluppare questa produzione nel breve-medio termine). L’introduzione di barriere doganali per proteggersi e il ricorso a sussidi per superare i momenti di difficoltà sono chiaramente troppo sistematici per essere accettabili e potrebbero rivelarsi pericolosi, anche per gli equilibri commerciali e per la stessa Cina, se dovessero continuare e generalizzarsi a batterie, elettrolizzatori, energia nucleare o reti, come sembra stia accadendo gradualmente.

È inoltre evidente che parte del vantaggio competitivo è dovuto a norme ambientali meno restrittive in Cina rispetto all’Europa (emissioni di CO2, controllo degli scarichi chimici delle fabbriche e legge sulle miniere), nonché alle condizioni di lavoro delle popolazioni locali, che andrebbero esaminate (nello Xinjiang, ad esempio). È particolarmente sorprendente che i nostri Paesi non ne tengano conto nelle loro regole di confine e nei bandi di gara che pubblicano. Detto questo, queste ultime osservazioni spiegano probabilmente una parte significativa ma minoritaria del vantaggio competitivo della Cina, che fa riferimento innanzitutto a una strategia di controllo industriale di qualità e alle competenze industriali e scientifiche dello Stato cinese. Se le istituzioni cinesi non sono certo trasponibili, noi potremmo comunque prendere il meglio delle loro idee, come hanno fatto attingendo in gran parte ai nostri successi passati e alle nostre innovazioni tecnologiche e organizzative. Come contraltare, possiamo anche ricordare che i cinesi hanno recentemente messo in funzione due impianti EPR, con tecnologia nucleare di terza generazione di concezione francese, a costi di investimento da due a tre volte inferiori a quelli di Flamanville, per ragioni simili a quelle che ci hanno permesso di fare il doppio degli americani qualche decennio fa15.

2
Gli Stati Uniti

Note
16. Si veda, ad esempio, Dipartimento dell’Energia (DOE), Quadrennial Technology Review 2015, 2015.+
La strategia energetica di un Paese pragmatico e reattivo, ma soprattutto ricco di fonti energetiche e di competenze scientifiche e industriali.

A differenza della Cina, gli Stati Uniti sono stati dotati per natura di un’eccezionale gamma di fonti energetiche, sia fossili che rinnovabili, e hanno ereditato lo status di leader della seconda rivoluzione industriale, quella dell’elettricità e del petrolio, degli anni 1880-1945. Gli Stati Uniti sono il maggior produttore mondiale di petrolio, davanti ad Arabia Saudita e Russia – nel 2020, 19,5 milioni di barili/giorno, contro 11,8 e 11,5 milioni rispettivamente – e il maggior produttore mondiale di gas, davanti a Russia e Iran – nel 2020, 32,7 exo-joule (EJ) contro 24,8 e 8,3 rispettivamente. Hanno inoltre aree particolarmente ventose (Midwest, Texas, ecc.) e soleggiate (California, Stati Uniti sud-occidentali, ecc.). Il loro tessuto industriale è alla frontiera tecnologica nel settore dell’elettricità, con in particolare le aziende pioniere General Electric e Westinghouse tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo.

Nel corso del XX secolo, gli Stati Uniti hanno consolidato questo primato scientifico e industriale, in particolare grazie alla Seconda Guerra Mondiale, che ha permesso loro di integrare i migliori scienziati europei nelle proprie università e laboratori di ricerca (in particolare nel campo nucleare con il Progetto Manhattan, nei missili e nello spazio, nelle telecomunicazioni, nella chimica degli esplosivi, ecc.) Poi la crisi petrolifera ha spinto il Paese a lanciare nei suoi principali laboratori e università ambiziosi programmi di ricerca sulle nuove energie che potessero contribuire a ridurre l’uso dei combustibili fossili. Di conseguenza, il Paese gode tuttora di una posizione di leadership scientifica “naturale” nei settori delle energie decarbonizzate, come il nucleare e il fotovoltaico, così come nei combustibili fossili (petrolio e gas di scisto) o nelle reti intelligenti, grazie alla padronanza dei semiconduttori e della tecnologia digitale.

La prima parte della strategia americana consiste nello sfruttare questa duplice padronanza delle fonti energetiche abbondanti e dei convertitori di energia e uso. I loro vantaggi comparativi consentiranno di raggiungere gli obiettivi di efficienza economica e di sovranità in modo più semplice e pragmatico. Questa strategia di efficienza economica e di sovranità viene attuata a breve e medio termine attraverso le politiche energetiche degli Stati: in questo senso, gli Stati Uniti sono molto più decentralizzati dell’Unione Europea. Gli Stati sono responsabili del loro mix energetico ed elettrico, nonché delle principali regole del gioco relative alle normative e alle forme di concorrenza nel settore dell’elettricità (prezzi di mercato vs. tariffe regolamentate per i clienti finali, forme di concorrenza e/o monopoli, ecc.) Da parte sua, il livello federale si concentra sul secondo aspetto, ossia il lungo termine, le questioni internazionali e le relazioni interstatali all’interno degli Stati Uniti: gli scambi di elettricità, gas e petrolio con la regolamentazione delle reti di interconnessione e delle relazioni commerciali tra Stati, in particolare attraverso la Federal Energy Regulatory Commission, le questioni di sovranità e le relazioni internazionali, nonché la ricerca e lo sviluppo per prepararsi al futuro su questi ultimi aspetti con il Dipartimento dell’Energia (DOE), il cui ruolo è importante.

In parte a causa di questa energia fossile abbondante e a buon mercato, gli Stati Uniti sono partiti due decenni fa da una situazione caratterizzata da una mediocre efficienza energetica. Infatti, il suo consumo di energia ed elettricità pro capite era circa il doppio di quello dei Paesi europei o giapponesi allo stesso livello di sviluppo. Il loro mix di elettricità era costituito per il 70% da combustibili fossili e dominato per il 50% dal carbone, rispetto al mix europeo del 2000, che era molto meno ad alta intensità di carbonio, con solo il 50% di combustibili fossili e quasi un terzo di energia nucleare, mentre il resto proveniva da fonti rinnovabili, soprattutto idroelettriche. Sono stati quindi in grado di migliorare le loro prestazioni in termini di risparmio energetico e, soprattutto, di riduzione relativa delle emissioni di CO2, nonostante politiche climatiche moderatamente ambiziose – le loro prestazioni su questi due fronti rimangono meno buone di quelle dell’Europa di oggi -, perché queste misure erano spesso naturalmente redditizie per gli attori, in particolare la sostituzione del gas naturale al carbone, sempre più grazie allo shale gas. Le innovazioni tecnologiche che hanno permesso lo sfruttamento del gas di scisto (fratturazione idraulica, trivellazione orizzontale, additivi chimici per migliorare la permeabilità e il recupero del gas) sono probabilmente la “rivoluzione energetica” più significativa degli ultimi vent’anni, insieme ai guadagni di produttività ottenuti dai cinesi nel fotovoltaico e alle numerose innovazioni nel risparmio energetico, grazie in particolare alle tecnologie elettriche efficienti (LED, pompe di calore, processi industriali, ecc.). Nel 2021 gli Stati Uniti avranno un mix elettrico composto “solo” dal 22% di carbone, dal 38% di gas, e ancora da circa il 19% di nucleare e il 6% di idroelettrico, con l’ulteriore penetrazione di turbine eoliche (9%) e fotovoltaiche (4%): una “rivoluzione energetica” grazie al sostegno governativo a queste energie, al gas e alle rinnovabili, sostegno che è mirato soprattutto a livello di R&S e di dimostratori. Va inoltre sottolineato che la penetrazione delle rinnovabili è significativa negli Stati americani, dove i livelli di insolazione e di vento sono notevoli e dell’ordine del doppio di quelli francesi.

Il principale motore del declino del carbone è quindi legato alla sua sostituzione con l’abbondante ed economico gas di scisto. È interessante notare che queste innovazioni sono state possibili solo grazie alla perseveranza del sostegno dato dalle autorità pubbliche a ingegneri, geologi e imprenditori texani dall’inizio degli anni ’80, dopo la crisi petrolifera, fino all’inizio degli anni 2000. La politica di R&S e di apertura delle opzioni tecnologiche del DOE ha permesso di sviluppare idee e prototipi in prodotti industriali, con le aziende che hanno fatto il resto grazie agli aumenti di produttività legati alle innovazioni di processo e alle economie di scala al momento della prima diffusione massiccia, nella seconda metà degli anni 2000, innescata dal significativo aumento dei prezzi del gas sui mercati internazionali. Questo successo illustra l’importanza di un forte coinvolgimento delle autorità pubbliche in termini di sostegno finanziario solo nelle fasi a monte dei prototipi e dei dimostratori industriali, con importi relativamente modesti; la diffusione massiccia è considerata auspicabile solo quando la competitività è dimostrata, un ragionamento simile a quello dei leader francesi tra il 1966 e il 1971 per la scelta dei settori e i primi impegni dei reattori ad acqua pressurizzata (PWR), e contrario a quella che è stata la politica europea sulle rinnovabili. In questa fase di diffusione massiccia, le autorità pubbliche devono quindi favorire altri strumenti di azione, come la coerenza delle diverse normative (organizzazione della concorrenza per i contratti a lungo termine, ecc.

Preparare il futuro con tecnologie decarbonizzate: un ruolo centrale per lo Stato federale

La preparazione del futuro è quindi centrale per il governo federale, che tradizionalmente dispone del DOE e di grandi laboratori pubblici (Argonne, Idaho, Lawrence Livermore) simili alla Commissione francese per l’energia atomica (CEA). Il governo federale può contare anche sulle importantissime esigenze e risorse del Dipartimento della Difesa, per la fornitura di energia alle numerose basi americane sul territorio nazionale o in altri Paesi e per il funzionamento di alcuni sistemi d’arma. In particolare, il nucleare è stato utilizzato per la propulsione di sottomarini e portaerei fin dagli anni Sessanta, il che spiega l’interesse a lungo termine per i reattori di piccole dimensioni e le innovazioni nel campo dei piccoli reattori modulari (SMR), dato che il numero di reattori militari è superiore a quello dei reattori civili negli Stati Uniti. Questa collaborazione tra difesa ed energia ha permesso agli Stati Uniti di mantenere un alto livello di attività di ricerca negli ultimi anni, per rimanere alla frontiera tecnologica e disporre delle migliori tecnologie nucleari nel momento in cui è necessario fare un salto di qualità in termini di decarbonizzazione, riducendo la quota del gas.

Per completare il sistema, le autorità pubbliche americane hanno deciso, sulla base delle raccomandazioni delle accademie nazionali, di creare nel 2007 un’agenzia incaricata di promuovere la ricerca in campo energetico su progetti innovativi e rischiosi, coinvolgendo i principali laboratori pubblici, l’industria e le università: l’Advanced Research Projects Agency-Energy (ARPA-E). L’idea è quella di fornire i mezzi per identificare le lacune nei programmi di ricerca esistenti con uno strumento ispirato alla Defense Advanced Research Project Agency (DARPA), un’agenzia creata nel 1958 inizialmente nel campo dello spazio e dei missili di fronte ai progressi dell’Unione Sovietica. Questa agenzia sarebbe diventata un modello per l’organizzazione di una ricerca audace ed efficace. Concentrandosi in questo caso su questioni militari, avrebbe svolto un ruolo importante in molti campi come l’intelligenza artificiale o la genesi di Internet. Nel 2006 ha anche ispirato la creazione dell’Autorità per la ricerca avanzata e lo sviluppo biomedico (BARDA), che ha contribuito alle risposte a Covid-19.

La missione di ARPA-E è garantire che la R&S americana consenta di costruire e testare prototipi e dimostratori industriali per tutte le tecnologie chiave del futuro mix energetico americano. Il suo funzionamento è strutturato su tre livelli:

analisi di previsione scientifica e tecnologica con roadmap tecnologiche per diversi decenni;
un piano strategico di azioni da realizzare nell’arco di alcuni anni;
su queste basi, l’organizzazione di bandi di gara e il finanziamento di progetti, dalla ricerca ai prototipi, ai dimostratori e agli impianti di produzione.
Gli studi di previsione tecnologica per trentacinque anni16 e le strategie tecnologiche/settoriali per dieci anni mobilitano le migliori competenze scientifiche e industriali al servizio del Paese, provenienti dalle accademie scientifiche, dai grandi laboratori pubblici e dal mondo industriale. Si tratta di un’operazione chiaramente diversa da quella, sempre più diffusa in Francia e in Europa, dei gruppi di interesse con una presenza significativa di alti funzionari, finanzieri o economisti che non sono esperti in campo tecnologico. Negli Stati Uniti, è sulla base di questi approcci informati e coerenti, che permettono di dare visibilità a lungo termine agli attori, che i finanziamenti vengono assegnati a laboratori pubblici o privati, a start-up o a grandi gruppi industriali, a seconda dei casi, e sempre sotto la supervisione di persone con una reale esperienza e una riconosciuta conoscenza scientifica e industriale.

Il terzo livello di ARPA-E ha obiettivi che, a prima vista, possono essere simili a quelli di France Relance, France 2030 o dei Piani di Investimento Futuri (PIA) in materia di energia, ma con un forte quadro prospettico e strategico sulle questioni tecnologiche ed energetiche e competenze industriali e scientifiche esperte, due dimensioni fondamentali per essere rilevanti in questo settore.

III
Parte
E la Francia?

https://www.fondapol.org/etude/souverainete-maitrise-industrielle-et-transition-energetique-2/#chap-3
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Gli ultimi due decenni sono stati quelli del “sorgere dei pericoli” nel settore energetico: l’aumento delle preoccupazioni legate al cambiamento climatico e all’urgenza della transizione energetica, il ritorno della geopolitica con gli attentati dell’11 settembre 2001, la rivalità tra Stati Uniti e Cina e la messa in discussione delle fonti di potenziale crescita a lungo termine e dell’accesso alle energie che consentono lo sviluppo economico e sociale. In un momento in cui grandi regioni del mondo come la Cina e gli Stati Uniti seguono con determinazione le strategie industriali e tecnologiche di lungo periodo che abbiamo appena citato, l’Europa, e in particolare la Francia, vede peggiorare le proprie prestazioni energetiche ed elettriche (prezzi dell’energia e dell’elettricità, dipendenza energetica, ecc.) e soprattutto, tema preoccupante per il futuro, indebolire il proprio tessuto industriale e le proprie capacità di sviluppo tecnologico. Analizzeremo più da vicino le ragioni di questa situazione in Francia e proporremo alcune linee d’azione ispirate da risorse tratte dalla nostra storia e da quelle più recenti di Cina e Stati Uniti.

1
Negli ultimi vent’anni, le prestazioni del settore elettrico sono diminuite e il tessuto industriale è diventato più fragile.

Note
17. Cfr. Matthieu Glachant, “Le point de vue d’un économiste sur la rénovation énergétique des logements et sa régulation”, Réalités industrielles-Annales des Mines, n. 2022/2, maggio 2022, pp. 19-21.
18. Mireille Campana, Jean-François Sorro e Quentin Peries-Joly, “Opportunités industrielles de la transition énergétique”, Conseil général de l’économie, de l’industrie, de l’énergie et des technologies, febbraio 2017.
Il settore elettrico francese, ereditato dai cinque decenni precedenti all’inizio del XX secolo, è uno dei più efficienti al mondo in termini di emissioni di CO2, competitività e sicurezza dell’approvvigionamento grazie a un mix elettrico basato sul 75% di nucleare e sul 15% di idroelettrico: le emissioni dirette di CO2 della Francia sono pari a 5-6 tonnellate di CO2 per abitante, rispetto a quasi il doppio della Germania, grazie al suo mix basato per metà su lignite e carbone e per metà su gas I prezzi dell’elettricità in Francia sono tra i più bassi d’Europa, in particolare grazie alla padronanza industriale del nucleare (costi di investimento dimezzati rispetto agli Stati Uniti) e alla qualità della gestione operativa del sistema integrato produzione-trasporto-distribuzione. La padronanza dell’intera catena di valore del nucleare e la quota di energia idroelettrica contribuiscono in larga misura a ridurre la dipendenza energetica della Francia e le hanno permesso di esportare volumi significativi di elettricità ai paesi vicini per diversi decenni.

Queste prestazioni si sono gradualmente deteriorate negli ultimi due decenni, soprattutto a causa di una politica energetica esitante in un contesto globale di accelerata deindustrializzazione del Paese. La pressione delle idee dominanti e una visione a breve termine hanno infatti spinto a privilegiare il gas, i cui prezzi erano relativamente bassi dal controshock petrolifero del 1986 fino alla seconda metà degli anni 2000, rispetto al nucleare. Sono state quindi interrotte le politiche di elettrificazione degli usi, favorendo il gas, soprattutto per il riscaldamento degli edifici, anche se emette CO2, a differenza dell’elettricità, che è ampiamente decarbonizzata. La tendenza è stata quella di favorire scenari con un basso fabbisogno di energia elettrica, per mostrare chiaramente la volontà di non affidarsi al nucleare. Per i nuovi investimenti nella produzione di energia elettrica, le autorità pubbliche favoriranno anche i cicli combinati a gas con un complemento di energie rinnovabili intermittenti, eolico e fotovoltaico, grazie a sussidi significativi che contribuiranno a un progressivo aumento dei prezzi dell’elettricità.

Inoltre, le politiche di risparmio energetico, essenziali per la transizione energetica, sono state spesso inefficaci e poco mirate, determinando elevati sussidi a carico dei francesi a fronte di scarsi risultati in termini di risparmio energetico e, soprattutto, di minori emissioni di CO2: così, negli ultimi anni, le diagnosi di prestazione termica hanno sovrastimato di 2 o 3 volte i risparmi associati alle misure raccomandate. E, proprio come le normative termiche, queste diagnosi hanno privilegiato l’energia primaria, un criterio di difficile comprensione e di nessun interesse in Francia, a scapito di un criterio basato sull’importo della bolletta energetica, che è comunque fondamentale per le famiglie meno privilegiate, e sulle emissioni di CO2, la cui riduzione è il principale obiettivo per il pianeta. Strumenti economici come i certificati di risparmio energetico o i regolamenti termici per le abitazioni sono stati mal concepiti dal punto di vista economico (mancanza di padronanza delle griglie analitiche legate ai fallimenti del mercato e ai costi di transazione) e manipolati in base alle influenze di gruppi di interesse e associazioni17. Le emissioni dirette di CO2 della Francia sono rimaste più o meno stabili negli ultimi due decenni, intorno alle 5 tonnellate di CO2 pro capite, ma ciò è dovuto in gran parte alla deindustrializzazione del Paese, che ci ha portato a “esportare” le emissioni legate ai nostri modelli di consumo e a “importare” sempre più carbone tedesco e, soprattutto, cinese: le emissioni totali di CO2 che integrano l’intera impronta di CO2 sono quindi, nel 2020, dell’ordine del doppio delle emissioni dirette, con circa 11 tonnellate di CO2 pro capite. Stiamo quindi perdendo gradualmente competitività, riduzione complessiva delle emissioni di CO2 e sicurezza degli approvvigionamenti.

In questo contesto globale di accelerata deindustrializzazione del Paese, l’indebolimento del tessuto industriale è ancora più preoccupante. Stiamo assistendo a una perdita di competenze e di controllo industriale sui nostri vantaggi comparativi storicamente ereditati. Questo vale per Alstom, la cui attività ha risentito in particolare dello stop-and-go europeo sul mercato del ciclo combinato a gas, e, naturalmente, per l’industria nucleare. Le esitazioni sul posto e sull’interesse del nucleare hanno portato a posticipare l’impegno per il dimostratore industriale EPR dal 1997 al 2006 e ad aspettare fino ad oggi per dare il segnale di un impegno per una serie di unità. Per più di due decenni, quindi, l’industria non ha avuto visibilità su prospettive credibili per le centrali nucleari di terza generazione. Sapendo che in termini di prototipi o dimostratori per altre tecnologie promettenti che sono oggetto di progetti negli Stati Uniti, in Canada, in Cina e in Russia, come gli SMR o i reattori veloci, la Francia ha interrotto il suo progetto di reattore veloce Astrid nel 2019, e solo recentemente ha lanciato un progetto SMR (Nuward).

L’altra sfida per i prossimi anni è quella di prolungare la vita delle unità nucleari esistenti: la maggior parte di esse è stata commissionata tra il 1980 e il 1990 e avrà 40 anni tra il 2020 e il 2030. È noto che questo tipo di impianti può essere esteso a 60 anni. Negli Stati Uniti ci si sta preparando per estendere alcune di esse a 80 anni. La Francia ha avviato un ambizioso programma di grandi lavori di ristrutturazione (il “Grand Carénage”), che mira a portare le sue centrali di generazione 2 a un livello di sicurezza che dovrebbe essere vicino a quello della generazione 3 e incorporare gli insegnamenti dell’incidente di Fukushima. Dovremmo quindi essere in grado, sotto il controllo dell’Autorità per la sicurezza nucleare (ASN), di portare queste unità a 50 anni in prima istanza, il che permetterebbe di andare avanti fino al 2030-2040, e probabilmente almeno a 60 anni per gran parte di esse. Ma anche in questo caso, senza una chiara visibilità a lungo termine, il tessuto industriale non può essere sufficientemente mobilitato. Fino all’anno scorso, l’obiettivo delle autorità pubbliche era invece quello di chiudere altre dodici unità nucleari esistenti nel prossimo decennio, oltre alle due unità di Fessenheim appena spente, per raggiungere un obiettivo di consumo nucleare inferiore al 50% entro il 2035, nell’ambito, come abbiamo visto, di scenari di consumo sottostimati. Poter estendere la maggior parte della flotta esistente ad almeno 60 anni, come fanno altri Paesi e previo parere dell’ASN, contribuirebbe in modo significativo all’equilibrio domanda-offerta dei prossimi due decenni, portando la maggior parte della flotta all’orizzonte 2040-2050. Ciò consentirebbe al tessuto industriale di aumentare rapidamente la propria capacità di costruire nuove unità di terza generazione, che potrebbero essere messe in servizio progressivamente a partire dal decennio 2030-2040 per completare la flotta esistente e rinnovarla.

Questa mancanza di visibilità da parte delle autorità pubbliche negli ultimi vent’anni, con un tira e molla, sia sul prolungamento della vita delle centrali di generazione 2 che sull’impegno per le nuove centrali di generazione 3, o per i dimostratori SMR e di generazione 4, ha indebolito l’intera industria nucleare francese, EDF, Areva, Framatome, così come le numerose PMI.

Se dobbiamo migliorare i nostri vantaggi comparativi, in particolare nei settori del nucleare e delle reti, la situazione è ancora più problematica in altre tecnologie e nuovi settori a basse emissioni di carbonio (fotovoltaico, eolico, batterie, pompe di calore). Abbiamo fallito nei nostri tentativi nel fotovoltaico (si vedano, ad esempio, le difficoltà di Photowatt, un’azienda pioniera in questo settore) e nell’eolico onshore (si veda la vendita delle attività eoliche di Areva a Gamesa). In questi settori del futuro, siamo presenti nell’installazione e nei servizi a basso valore aggiunto, ma poco o nulla nella fabbricazione industriale di prodotti e componenti chiave che portano guadagni di produttività e alto valore aggiunto18 e nei relativi servizi ad alto valore aggiunto (forse con l’eccezione delle turbine eoliche offshore, se riusciremo a fare un passo avanti e a trasformare il processo).

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Le ragioni di questo deterioramento

Note
19. Si veda Paul L. Joskow e Richard Schmalensee, Markets for Power. An Analysis of Electric Utility Deregulation, The MIT Press, 1983.
20. Jean-Paul Bouttes e Jean-Michel Trochet, “Le pragmatisme des réformes américaines”, Revue de l’énergie, n° 465, gennaio-febbraio 1995.
21. Cfr. Jean-Paul Bouttes e François Dassa, “Elettricità: gli errori dell’Europa e come uscirne”, Le Débat, n° 197, novembre-dicembre 2017, pp. 167-181; Jean-Paul Bouttes, “Quelle politique de l’énergie pour assurer la compétitivité de notre économie, réduire notre dépendance extérieure et protéger l’environnement? “, in Michel Pébereau (a cura di), Réformes et transformations, PUF, 2018, pp. 235-279; François Dassa, “Reinventing European energy policy”, Revue de l’énergie, n. 643, marzo-aprile 2019.
Le ragioni di questo deterioramento delle prestazioni possono essere collegate a un nuovo contesto geopolitico e geoeconomico dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989 e la globalizzazione del commercio, il movimento di deregolamentazione delle telecomunicazioni, dei trasporti e delle reti energetiche, Ciò è dovuto alla deregolamentazione delle reti di telecomunicazione, trasporto ed energia, avviata negli Stati Uniti alla fine degli anni ’70 e poi “dogmatizzata” in Europa, e al cambiamento di mentalità in Francia tra le élite politiche, intellettuali e mediatiche a favore di una società post-industriale che privilegia l’individuo e la mano invisibile dei mercati a breve termine rispetto alla produzione di ricchezza a lungo termine e alla gestione collettiva dei beni comuni.

La globalizzazione del commercio, l’abbandono della geopolitica e l’abbondanza di combustibili fossili e gas

Con la caduta del Muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda, le questioni geopolitiche sembravano svanire. La globalizzazione del commercio di beni e capitali è avvenuta all’ombra della protezione americana e il coordinamento dell’azione delle banche centrali ha permesso di controllare l’inflazione e di avere accesso ai finanziamenti a buone condizioni (nonostante le ricorrenti crisi internazionali). Infine, dopo gli shock petroliferi, le innovazioni tecnologiche nel settore energetico hanno dato l’impressione che stessimo entrando in un mondo di abbondanza energetica basata principalmente sui fossili: la capacità di sfruttare giacimenti di petrolio e gas offshore in profondità, così come nelle stesse rocce di origine (shale oil e gas), e di recuperare una quota molto più ampia delle riserve di petrolio presenti nei grandi giacimenti esistenti o futuri (enhanced oil recovery, EOR) ha creato un contro-shock sostenibile per il petrolio e il gas a partire dal 1986. Inoltre, ci sono state innovazioni nelle centrali elettriche a combustibili fossili: sono stati sviluppati cicli combinati a gas, basati su turbine aeroderivate, che hanno permesso di utilizzare il gas con un’efficienza molto più elevata rispetto alle turbine a vapore, e sono stati trovati sistemi in grado di limitare l’inquinamento locale o regionale del carbone (Denox e Desox per evitare le piogge acide). Stiamo quindi assistendo a uno sviluppo massiccio nei Paesi emergenti come Cina, India, Indonesia, Turchia e Sudafrica, che potranno sfruttare l’uso del carbone nazionale, abbondante nella maggior parte di questi Paesi e in grado di fornire loro elettricità sicura ed economica. Questi Paesi introdurranno gradualmente queste tecnologie di controllo dell’inquinamento, almeno nelle grandi centrali elettriche, tenendo presente che il problema dell’inquinamento rimane irrisolto per l’uso diretto del carbone, in particolare nelle abitazioni. Nello stesso periodo si assisterà a una “corsa al gas” (corsa alle centrali a gas) prima negli Stati Uniti, poi in Europa grazie all’abbondanza di gas russo a basso costo e geopoliticamente accessibile (o almeno così si crede, soprattutto in Germania), e anche altrove nel mondo grazie alla padronanza del trasporto marittimo a lunga distanza di gas naturale liquefatto a bassissima temperatura, che permetterà di trasportare il gas americano e quello mediorientale in Asia e in Giappone. Siamo quindi in un periodo che dimentica le preoccupazioni geopolitiche e ambientali degli idrocarburi e non comprende ancora bene le sfide del riscaldamento globale. Alcuni di questi Paesi emergenti, primo fra tutti la Cina, stanno diventando i “produttori del mondo” grazie all’energia a basso costo e al basso costo della manodopera. La Germania può sfruttare la sua specializzazione in beni strumentali e macchine utensili, prodotti grazie al gas russo a basso costo, per costruire fabbriche di beni di consumo nei Paesi emergenti, mentre la Francia può importare massicciamente beni di consumo grazie a tassi di interesse piuttosto bassi all’ombra dell’euro, lasciando che il Paese si deindustrializzi in settori importanti per il futuro.

Deregolamentazione, apertura delle reti elettriche e del gas in Europa

Questa eccessiva fiducia nel funzionamento efficiente dei mercati a tutte le scale geografiche sarà estesa alle grandi infrastrutture di rete, telecomunicazioni, trasporti, gas ed elettricità, tradizionalmente considerate come servizi pubblici sotto il controllo delle autorità pubbliche nazionali e locali. Queste idee sono nate prima negli Stati Uniti, per ragioni specifiche e rilevanti, e con approcci pragmatici alla loro attuazione, come spesso accade nel mondo anglosassone19. Se ci concentriamo sul caso dell’elettricità, è vero che le regolamentazioni americane delle Public Utilities Commission, le commissioni di regolamentazione indipendenti incaricate a livello degli Stati americani di controllare gli investimenti e i prezzi delle aziende del settore elettrico (in monopolio e il più delle volte private), erano spesso pignole e inefficienti. In Stati come la California e il New England, le sovvenzioni incrociate potevano essere molto significative per ragioni politiche a favore delle famiglie e a scapito dell’industria. In questo contesto, gli industriali di questi Stati volevano avere accesso a prezzi dell’elettricità che riflettessero i costi degli impianti di generazione, in modo da poter competere ad armi pari con i loro concorrenti in altri Stati come il Midwest o il Texas, dove gli industriali pagavano il “costo economico” dei loro usi. Questi stessi industriali avrebbero inoltre preferito acquistare da “produttori indipendenti”, nuovi entranti in grado di utilizzare impianti con la nuova tecnologia dei cicli combinati a gas, più facili da costruire rispetto ai grandi impianti tradizionali a vapore, poco costosi in termini di investimento e con ottimi rendimenti, e che, inoltre, utilizzavano un gas diventato economico. La risposta del governo federale a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 è stata pragmatica, autorizzando la nascita di questi nuovi soggetti produttivi e consentendo agli Stati che lo desideravano di introdurre l’accesso di terzi alle reti, ossia la possibilità per i clienti finali – prima industriali e poi domestici, se del caso – di scegliere il proprio fornitore di energia elettrica (o, per dirla in modo più semplice, le centrali elettriche responsabili della fornitura). Negli Stati Uniti la sussidiarietà rimane fondamentale e gli Stati che hanno voluto continuare ad affidarsi a monopoli pubblici (grandi aziende federali simili a EDF, come la Tennessee Valley Authority e la Bonneville Power Authority, e/o le “muni’s”, le municipalizzate molto numerose e talvolta potenti in alcune regioni), o affidarsi a sistemi con monopoli privati controllati dalle Public Utility Commission (PUC), hanno potuto farlo20.

Nel Regno Unito, Margaret Thatcher ha sfruttato l’idea dell’accesso di terzi alle reti per allontanare il sistema elettrico britannico dalla dipendenza dal carbone, troppo costoso e inquinante, e per costringere il potente sindacato dei minatori ad accettare la chiusura delle miniere inglesi, sempre meno redditizie, a favore della costruzione di turbine a gas a ciclo combinato (CCGT) che utilizzavano il gas britannico scoperto nel Mare del Nord negli anni Ottanta. Il radicale smantellamento del Central Electricity Board (CEGB), l’EDF britannico, in una serie di entità private e competitive ha modernizzato un settore che era diventato uno dei più inefficienti d’Europa, afflitto da frequenti e opportunistici interventi politici nelle scelte economiche, soprattutto burocratiche. La privatizzazione di queste società, in concorrenza tra loro e sotto il controllo di un regolatore indipendente dalla politica, è stata finalmente il mezzo con cui il governo conservatore si è mosso verso la proprietà popolare.

A seguito dell’Atto Unico Europeo del 1986, l’Europa ha ripreso queste idee all’inizio degli anni ’90 e le ha attuate dal 1996 al 2000 in modo sistematico e dogmatico, senza alcuna seria analisi delle opportunità economiche e del rapporto costi-benefici. I tedeschi, inizialmente contrari a questa idea, l’hanno adottata a metà degli anni ’90 per modernizzare l’organizzazione delle loro grandi aziende elettriche, allora conglomerati che combinavano la produzione e le reti elettriche con numerose altre attività industriali (come Veba, Viag e RWE).

La Francia, come altri Paesi europei, non aveva motivo di andare in questa direzione e sarebbe stato possibile sviluppare un mercato europeo dell’elettricità all’ingrosso con un coordinamento efficace dello sviluppo e del funzionamento delle grandi reti di interconnessione, nella continuità della forte cooperazione storica tra gli elettricisti in Europa, lasciando ai diversi Paesi la possibilità di avere sistemi a livello nazionale basati su diverse regole del gioco e forme di concorrenza come negli Stati Uniti. I dibattiti di questo periodo (1990-2005) illustrano già la progressiva mancanza di capacità in termini di previsioni energetiche a lungo termine, sia a livello della Commissione Europea che in Francia e Germania. Il ragionamento proposto si basava essenzialmente sulla minore prevalenza dei “fallimenti del mercato” già menzionati, grazie a una rete interconnessa molto potente (più della rete interstatale americana) grazie all’ottima cooperazione storica tra gli elettricisti europei, e anche grazie alla relativa sovraccapacità dei mezzi di produzione durante questo periodo e, Infine, pensando a un’unica tecnologia di produzione “miracolosa” per i decenni a venire, con le CCGT a gas, che non sono ad alta intensità di capitale, possono essere costruite più facilmente in prossimità delle reti di trasporto esistenti e con costi pieni derivanti per più di due terzi o tre quarti dal solo combustibile.

In un contesto in cui il gas beneficiava di prezzi a bassa volatilità e di una situazione geopolitica sicura, la maggior parte degli economisti dell’energia, dei funzionari pubblici e dei politici pensava di aver trovato la risposta giusta, dimenticando i rischi geopolitici, le sfide climatiche e la necessità di aprire lo spettro dei possibili scenari e tecnologie a mezzi di produzione decarbonizzati come le fonti rinnovabili e il nucleare. Un approccio prospettico meno miope e più aperto avrebbe portato a prendere in considerazione il possibile dispiegamento di mezzi ad alta intensità di capitale che, per le rinnovabili in particolare, richiedono importanti sviluppi delle reti, caratteristiche che rendono le scelte di investimento a lungo termine difficilmente conciliabili con forme di concorrenza come l’accesso di terzi alle reti. Poiché occorrono circa quindici anni per attuare una tale evoluzione istituzionale, l’accesso di terzi alle reti sarà attivo solo dal 2005-2010 ed effettivo nell’ultimo decennio, cioè proprio quando tutte le premesse degli anni Novanta e Duemila si stanno rivelando superate, con il primo pacchetto clima europeo del 2008 che favorirà le energie decarbonizzate, in via prioritaria e forse solo le rinnovabili, e i prezzi del gas sempre più imprevedibili e soggetti a shock geopolitici. In pratica, a partire dal 2010 in Europa non si decideranno più nuovi investimenti sulla base dei prezzi di mercato; al contrario, quasi tutti, che si tratti di impianti di produzione o di reti, dovranno essere realizzati su iniziativa della “mano visibile” dei regolatori e/o delle autorità pubbliche.

Una Francia “post-industriale” che dimentica i suoi interessi a lungo termine?

Invece di difendere i suoi interessi a lungo termine e i suoi vantaggi comparativi, la Francia seguirà con zelo questo movimento europeo. Un numero crescente di élite, nei circoli accademici, politici e amministrativi, ha preso le distanze dal progetto di prosperità e sovranità basato sulla scienza e sull’industria e sul sostegno di uno Stato attivo e competente in questi campi.

Questo lento cambiamento di mentalità è più marcato nel nostro Paese che in altri in Europa. Siamo passati da un liberalismo ereditato dalla Rivoluzione francese e ancora dominante sotto la Terza Repubblica a uno Stato che è un attore economico, come incarnato dallo Stato bonapartista, dallo Stato pianificatore della Quarta Repubblica e poi dallo Stato gollista e pompidoliano, che ha avviato la grande politica industriale condotta dal 1958 al 1974. Questo Stato deve molto alla modestia e all’apertura mentale di molti alti funzionari e funzionari pubblici degli anni Cinquanta e Sessanta, le cui esperienze personali erano spesso segnate dalla tragedia della storia e dalle sue incertezze. Tuttavia, a partire dal 1975-1980, parte di questa alta funzione pubblica è stata sostituita da una tecnocrazia meno efficace perché troppo sicura di sé e troppo fiduciosa nel futuro. Abbiamo quindi assistito a un graduale disimpegno dello Stato nei discorsi e nelle mentalità e a una frammentazione delle iniziative e delle responsabilità all’interno della sfera pubblica. Questo apparente disimpegno dello Stato nel discorso è, in un certo senso, paradossale perché, in realtà, si assiste a un’inflazione di norme spesso incoerenti e a un significativo rafforzamento dell’apparato amministrativo che, allo stesso tempo, risulta impoverito in termini di visione d’insieme e di capacità operative. Ciò è particolarmente vero per alcune grandi direzioni settoriali incaricate di servizi pubblici con una dimensione scientifica e industriale, come l’energia, l’ambiente, la sanità, l’edilizia e i trasporti.

Anche il tenore di vita e l’istruzione sono aumentati in modo significativo durante i Trente Glorieuses e gli individui ora aspirano legittimamente a un maggiore benessere e a un maggiore tempo libero. Per molti intellettuali, il futuro appartiene alla società “post-industriale”, con meno tempo di lavoro, meno industria e più servizi (senza distinguere abbastanza tra i servizi a valore aggiunto, spesso legati alle attività industriali, e gli altri): padroneggiare la ricerca e lo sviluppo, il marketing e le vendite è sufficiente, e le fabbriche e l’inquinamento associato (visto soprattutto come locale) possono essere lasciati nei Paesi emergenti. Negli anni ’90 si è verificata una paradossale e parziale convergenza tra le idee ecologiste, che allora si occupavano principalmente della protezione dell’ambiente locale e non di questioni globali, e il movimento neoliberista, che promuoveva la globalizzazione e i mercati europei. Per dare un’immagine, i cicli combinati a gas russo, che rispondevano alle preoccupazioni dei promotori della concorrenza, sono stati impiegati nello stesso momento in cui si sono moltiplicati i sussidi ai pannelli fotovoltaici, importati prima dalla Germania e poi dalla Cina, per soddisfare le preoccupazioni degli ecologisti.

La Francia ha così declinato con zelo le dottrine in vigore in Europa, con il risultato che

una frammentazione dello Stato e la mancanza di un luogo di sintesi e di coerenza delle politiche pubbliche, legata all’applicazione della “teoria dei giuristi” che propugna la creazione di un’agenzia indipendente (o di un ente pubblico) per ogni obiettivo specifico (concorrenza, regolazione delle reti, risparmio energetico…) e spesso fonte, in particolare in Francia, di una legislazione secondaria particolarmente complessa e abbondante;
una frammentazione delle attività operative del settore elettrico, con riferimento alla teoria della deregolamentazione (e dell’accesso di terzi alle reti) che sostiene la separazione contabile e giuridica delle attività di produzione, rete e servizio al cliente. Non esiste quindi più un vero e proprio luogo di sintesi con tutte le competenze e la legittimità per garantire la responsabilità degli equilibri domanda-offerta nel lungo periodo e le performance industriali e operative del settore elettrico nel suo complesso;
competenze scientifiche di alto livello che non sono molto richieste e competenze industriali operative che quasi non esistono all’interno dello Stato, che dimentica le sfide del controllo industriale ed esternalizza queste funzioni al settore privato.
Un discorso sui mercati dell’elettricità che maschera la realtà di un settore iper-regolamentato e di un’economia dei sussidi

Lo Stato ha così perso una parte significativa della sua lungimiranza sistemica e delle sue coerenti capacità di elaborazione delle politiche pubbliche, nonché delle sue capacità di attuazione industriale nel settore energetico. Ma la realtà è ostinata: le reti elettriche sono un monopolio naturale e le tecnologie sofisticate, ad alta intensità di capitale e prive di CO2, non nascono e crescono da sole. Le autorità pubbliche europee e francesi hanno quindi dovuto intervenire direttamente e permanentemente nel funzionamento dei mercati.

In effetti, il mercato europeo dell’elettricità è microgestito da burocrazie europee e nazionali, con una miriade di regolamenti, e questa economia iperamministrata è dominata dai sussidi pubblici: la maggior parte degli investimenti nella generazione e nella rete negli ultimi decenni non sono stati decisi e remunerati dai prezzi del mercato dell’elettricità, ma da sussidi e/o gare d’appalto sotto l’autorità delle autorità pubbliche. Il codice di rete, che stabilisce le regole di funzionamento delle reti per i loro utenti, è lungo migliaia di pagine.

Non si tratta di stabilire se le autorità pubbliche possano svolgere un ruolo chiave nel settore dell’elettricità, perché questo avviene ovunque nel mondo, anche in Europa, dove alcuni Paesi sono stati in grado di far leva su Bruxelles per portare avanti i propri interessi con il pretesto della “concorrenza”: Il Regno Unito, ad esempio, è riuscito a far passare il suo modello di accesso di terzi alle reti negli anni ’90 e poi, dopo aver ripensato la regolamentazione del suo sistema elettrico per promuovere le energie rinnovabili e l’energia nucleare, è riuscito a far approvare gli aiuti di Stato alle centrali nucleari prima della Brexit; Allo stesso modo, i tedeschi hanno approvato i loro obiettivi di sostegno alle energie rinnovabili negli anni 2000 per compensare il loro ritiro dal nucleare, mantenere la loro strategia carbone-gas e sostenere le loro industrie eoliche e fotovoltaiche emergenti, prima che i cinesi arrivassero nel 2010 attraverso la delocalizzazione. La questione non è quindi se lo Stato debba svolgere un ruolo importante, ma come possa esercitare le proprie responsabilità in modo efficace e coerente nel tempo, permettendo alle iniziative pubbliche, locali e private di fare l’essenziale21.

Lo sviluppo della diagnosi richiede quindi lavoro e discernimento per trovare il significato delle parole. Occorre individuare sia le inefficienze legate a mercati a breve termine non adeguati, sia le inefficienze legate a normative invasive e incoerenti; occorre riformare sistemi ibridi con quelli che gli economisti chiamano “fallimenti del mercato e del governo”. La qualità del sistema francese e la sua solidità gli hanno permesso di resistere. Abbiamo dovuto aspettare la crisi di Covid-19 e il conflitto Russia-Ucraina per misurare le incongruenze delle regole del gioco e la loro fragilità di fronte ai rischi economici, industriali e geopolitici. Al di là della dipendenza dal gas russo, i contratti di acquisto di gas a lungo termine non indicizzati al prezzo spot sono praticamente scomparsi in Europa sotto l’azione costante della Commissione europea. Non è così in Giappone o in Cina, che li hanno mantenuti. Di conseguenza, i prezzi del gas in Europa sono determinati dal mercato a breve termine per quasi tutti i volumi scambiati. L’Europa sta quindi subendo tutto il peso del vertiginoso aumento dei prezzi del gas, moltiplicato per un fattore compreso tra 5 e 10 tra il giugno 2021 e l’ottobre 2022 (in primo luogo a causa della ripresa economica con la diminuzione dell’impatto della pandemia, e poi soprattutto a causa della guerra condotta dalla Russia in Ucraina), che si trasmette meccanicamente al prezzo all’ingrosso dell’elettricità, in particolare a causa dell’ampia quota di centrali a gas nel mix europeo degli ultimi anni.

Possiamo anche citare gli errori di valutazione relativi alle previsioni di equilibrio tra domanda e offerta e la necessità di mantenere i margini di potenza a fronte di scenari di domanda più elevati del previsto, e la possibilità di rischi sfavorevoli in termini di condizioni idriche, vento, o rischi sulla manutenzione delle centrali nucleari. Queste sono le basi dell’attività nel funzionamento sicuro di un sistema elettrico complesso. Non avremmo dovuto smantellare alcune vecchie centrali termiche negli ultimi anni e tenerle in riserva (cosa che è stata proposta e scelta da altri Paesi come la Germania). Avremmo dovuto mantenere anche le due unità nucleari della centrale di Fessenheim, che avevano ottenuto l’autorizzazione dell’ASN a prolungare la loro durata di vita. Anche in questo caso, la decisione è stata presa contro il parere degli esperti che qualche anno fa avevano chiaramente spiegato che era meglio mantenere i margini di potenza nel nucleare in caso di rischi generici che colpissero le unità più recenti.

È quindi giunto il momento di condividere una diagnosi lucida e precisa dei nostri fallimenti e delle nostre debolezze, e di cambiare il nostro “software” sul ruolo dello Stato in settori come quello elettrico.

3
Riconoscere il ruolo dello Stato nel settore dell’energia e dell’elettricità

Il primo passo consiste nel condividere un’analisi economica che faccia luce sul ruolo “misurato e determinato” dello Stato, per uscire dalla dottrina degli ultimi trent’anni. Negli ultimi tre decenni, la Francia ha visto la quota dell’industria sul PIL ridursi a circa il 12%, mentre la Germania è ormai quasi al doppio (23%). La consapevolezza del problema è iniziata alla fine degli anni Duemila e sono state gradualmente messe in atto misure per migliorare la competitività delle imprese industriali francesi, con i cluster di competitività, le riforme della formazione professionale e del codice del lavoro, la riduzione delle imposte sulla produzione, le misure per favorire la nascita di start-up e la loro trasformazione in imprese di dimensioni intermedie (ETI) nei settori del futuro con i Programmi di Investimento Futuro, la Banca Pubblica di Investimento (BPI), i piani France Relance e France 2030.

Queste misure globali sulla tassazione delle imprese, sulla ricerca, sulla formazione, sul sostegno alle imprese nelle regioni e sulla loro crescita sono utili e devono essere adeguate e rafforzate. Ma non affrontano i punti chiave specifici relativi a settori di sovranità e/o servizi pubblici come la difesa, lo spazio, la sanità, i trasporti, l’energia o l’elettricità. Sebbene la difesa e lo spazio abbiano in gran parte conservato l’organizzazione e le competenze stabilite negli anni 1945-1975 all’interno dello Stato, che può assumersi le sue responsabilità di grande cliente del tessuto industriale, in particolare con la Direction générale de l’armement (DGA), il Centre national d’études spatiales (Cnes) e l’Office national d’études et de recherches aérospatiales (Onera), la situazione è diversa per la maggior parte degli altri settori chiave per il potere economico del Paese e per la vita dei suoi cittadini, in particolare il settore elettrico. Quest’ultimo presenta, come abbiamo accennato, tre tipi di “fallimenti del mercato” legati alla gestione dei beni comuni e delle esternalità che richiedono l’azione della “mano visibile” delle autorità pubbliche per integrare la “mano invisibile” dei mercati:

le infrastrutture di rete pubbliche (monopoli naturali), la garanzia degli equilibri domanda-offerta del sistema produzione-rete-uso in ogni momento e su diversi orizzonti temporali;
esternalità ambientali (emissioni di CO2, rifiuti e inquinamento locale, sicurezza);
esternalità “industriali”, soprattutto per le fasi che precedono la diffusione di massa, da un lato tra laboratori, ricerca e fabbriche, per l’innovazione; dall’altro, tra ambiti industriali complementari ma distanti, che contribuiscono all'”ecosistema industriale” del settore (dimensione dei “sistemi tecnici” e “anelli strategici” della catena del valore).
In questo contesto, dobbiamo reinventare uno Stato strategico modesto ed efficiente, con un ruolo “misurato e determinato”, come avrebbero detto i filosofi greci. L’obiettivo non è quello di sostituirsi alle imprese e al mercato, né di imbrigliarli in una ragnatela di norme burocratiche elaborate unicamente dallo Stato centralizzato, ma al contrario di liberare le iniziative private o quelle degli enti locali reinserendole in una solida visione lungimirante e strategica, e garantendo la coerenza e l’efficacia delle politiche pubbliche, il controllo industriale e la resilienza delle infrastrutture pubbliche. Lo Stato ha a disposizione molteplici strumenti senza bisogno di mobilitare finanziamenti eccessivi, dagli appalti pubblici con le loro clausole ambientali, locali o tecniche, alla tassazione e alle tariffe doganali. L’utilizzo di questi strumenti deve essere preceduto da una chiara gerarchia di scopi e obiettivi e dalla definizione da parte delle autorità pubbliche di una visione a lungo termine del mix elettrico e del fabbisogno di reti e mezzi di produzione, basata su una previsione credibile e aperta alle incertezze. Il semplice allineamento e la garanzia di qualità di tutti questi strumenti costituirebbe già una leva considerevole e permetterebbe senza dubbio di eliminare una parte significativa dei sussidi inefficienti (che ammontano a miliardi di euro). Le risorse tratte dalla storia dell’elettricità e del nucleare in Francia, così come i pochi esempi stranieri che abbiamo citato (Cina, Stati Uniti) potrebbero contribuire a questa reinvenzione.

Il coordinamento con la politica energetica europea e con le strategie energetiche dei nostri principali partner – la Germania, ovviamente, ma anche l’Italia, la Spagna, il Belgio, i Paesi Bassi, la Polonia, la Repubblica Ceca, la Finlandia, la Svezia, eccetera – è ovviamente una questione importante e una difficoltà, ma non è un ostacolo insormontabile se le autorità pubbliche hanno una visione chiara, razionale e sostenibile degli interessi a lungo termine del Paese e una comprensione degli obiettivi e degli interessi dei nostri partner. Le complementarietà potrebbero essere più forti delle opposizioni, a condizione che i francesi siano più presenti a Bruxelles al giusto livello di rappresentanza, con dossier elaborati sulla base di argomentazioni economiche, tecniche e giuridiche molto più solide, come hanno fatto i britannici e i tedeschi negli ultimi anni.

Infine, dobbiamo trovare il modo di rendere lo Stato meglio organizzato e più efficiente, sulla base di tre semplici idee riguardanti l’organizzazione, lo spirito operativo e la scelta di uomini e donne:

– un centro di sintesi incaricato di elaborare previsioni energetiche che articolino le dimensioni tecnologiche, industriali e geopolitiche, e di proporre tabelle di marcia strategiche credibili e solide di fronte alle incertezze;

– una sfera pubblica meno frammentata per rafforzare la coerenza delle politiche pubbliche e degli investimenti industriali, per rendere gli enti e gli attori pubblici responsabili delle aree rilevanti. Ciò consentirebbe di riscoprire la cultura dell’innovazione, dell’assunzione di rischi e della responsabilità del “sistema”, affidandosi anche alle istituzioni per il confronto dei punti di vista, consentendo l’implementazione di soluzioni rapide e semplici e soprattutto basate su solide argomentazioni tecniche e scientifiche;

– competenze industriali e scientifiche al centro dello Stato, mobilitate a partire dallo sviluppo di visioni a lungo termine fino all’assegnazione dei finanziamenti. Dovrebbero garantire che nessuna decisione strategica venga presa senza esplicitare le condizioni per il successo industriale nell’attuazione (in termini di efficienza economica e sovranità).

Per il ritorno di uno Stato strategico ed educativo nell’energia
1) Uno Stato strategico che responsabilizzi gli attori e liberi le iniziative private e pubbliche locali nell’interesse generale.

a) Tre obiettivi strettamente legati alla garanzia:

energia a prezzi accessibili per lo sviluppo economico e sociale ;
sicurezza dell’approvvigionamento e autonomia strategica (sovranità)
il rispetto degli ecosistemi e del pianeta Terra (clima, biodiversità, ambiente locale).
b) In vista di questi tre obiettivi, lo Stato strategico dovrebbe

elaborare una previsione energetica e determinare il mix energetico ed elettrico di lungo periodo, tenendo conto delle incertezze geopolitiche, tecnologiche, economiche, sociali e ambientali
stabilire le regole del gioco che consentano la coerenza e l’efficienza degli investimenti a lungo termine e incanalare i finanziamenti verso le scelte energetiche e industriali del Paese;
garantire un controllo industriale di lungo periodo (il punto centrale di questo documento).
Queste tre dimensioni sono essenziali per raggiungere i primi due obiettivi, e ancora più necessarie in vista delle sfide legate alle emissioni di CO2.

c) Mettere la finanza al servizio dell’industria e dell’economia:

Grazie a regole del gioco efficienti e coerenti, delegare la responsabilità degli equilibri domanda-offerta e dei volumi di investimento a un pilota operativo pubblico con competenze industriali, in particolare nei “sistemi elettrici” (centrali elettriche-reti-dispacciamento-utilizzi) (e non a un’agenzia burocratica con scarse competenze e nessuna responsabilità nei confronti del pubblico);
attraverso opportune regole del gioco, facilitare l’accesso ai finanziamenti per gli investimenti a lungo termine in termini economici e industriali (i premi per il rischio dovrebbero essere moderati e i finanziamenti dovrebbero essere molto meno difficili da trovare di quanto non lo fossero sotto la Quarta Repubblica e all’inizio della Quinta Repubblica).
d) Stabilire ruoli equilibrati tra l’Unione europea, gli Stati membri e le autorità locali:

Un’Europa rifocalizzata sui suoi reali “vantaggi comparativi” con una significativa sussidiarietà a favore degli Stati (si veda in particolare l’esempio degli Stati Uniti) [1].
Autorità locali che prendono l’iniziativa nel quadro di regole del gioco chiare e finanziariamente responsabili e orientate agli obiettivi di mix energetico del Paese, responsabili della pianificazione energetica locale per quanto riguarda la scelta dell’uso del suolo (in particolare per l’energia a bassa densità) in base ai loro progetti territoriali.
2) Uno Stato che insegna per un’effettiva “democrazia tecnica” al servizio dei cittadini dovrebbe :

affermare il proprio ruolo centrale nella ricerca scientifica e tecnica, nonché nella promozione dei legami tra industria e artigianato e tra scienza e laboratori [2] ;
garantire la formazione scientifica e tecnica e la diffusione delle conoscenze sui rischi per la salute e l’ambiente;
dotarsi di griglie di analisi economiche e prospettiche, in particolare tecnologiche;
promuovere l’invenzione di un’effettiva “democrazia tecnica”, in particolare promuovendo competenze scientifiche e industriali multidisciplinari al servizio dei cittadini e dei politici, e garantire una chiara distinzione tra il livello logico della consultazione tra le parti interessate e i gruppi di interesse e il livello logico del lavoro collettivo di queste competenze scientifiche e industriali apartitiche e “disinteressate” (lo spirito scientifico e l’epocalità al servizio dell’interesse generale) [3].
[1] Cfr. Jean-Paul Bouttes, “Quelle politique de l’énergie pour assurer la compétitivité de notre économie, réduire notre dépendance extérieure et protéger l’environnement”, in Michel Pébereau (a cura di), Réformes et transformations, PUF, 2018, pp. 235-279.

[2] Si veda Joël Mokyr, La Culture de la croissance. Les origines de l’économie moderne, Gallimard, 2017, e François Caron, La Dynamique de l’innovation. Cambiamento tecnico e cambiamento sociale (XVIe-XXe siècle), Gallimard, 2017.

[3] Si veda Jean-Paul Bouttes, Les Déchets nucléaires: une approche globale (4). La gestion des déchets: rôle et compétence de l’État en démocratie, Fondation pour l’innovation politique, gennaio 2022.

Conclusione

https://www.fondapol.org/etude/souverainete-maitrise-industrielle-et-transition-energetique-2/#chap-4
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Note
22. Le modalità comuni sono le correlazioni tra vento, sole e temperatura e la domanda nei diversi Paesi europei, ad esempio l’assenza di vento durante una settimana invernale fredda nella maggior parte dell’Europa.
23. Si veda Jacques Le Goff, Un long Moyen Âge, Fayard, 2004, e Joël Chandelier, L’Occident Médiéval. D’Alaric à Léonard, 400-1450, Belin, coll. “Mondes anciens”, 2021.
24. Cfr. Rémi Brague, Europe, la voie romaine [1992], Gallimard, collezione “Folio essais”, 1999.
Con la transizione energetica dei prossimi tre decenni, l’elettricità diventerà il principale vettore energetico decarbonizzato delle nostre economie. La sicurezza dell’approvvigionamento elettrico e il suo livello di prezzo per le famiglie e le imprese saranno questioni importanti per le nostre società, in futuro ancora più di oggi. Date le caratteristiche specifiche e l’importanza di queste sfide, è essenziale poter contare su uno Stato strategico ed efficiente, in particolare per proporre e condividere una visione lungimirante e sistemica del mix elettrico a lungo termine, per garantire le condizioni di controllo industriale e per determinare il quadro istituzionale e le regole del gioco per coordinare le iniziative degli attori privati e pubblici. Le autorità pubbliche cinesi e americane sono chiaramente e direttamente coinvolte in questi temi, riunendo le competenze necessarie in questo spirito e hanno messo in atto, ognuna a modo suo e con il proprio genio, gli elementi costitutivi che consentono di preparare il futuro delle tecnologie chiave. La Francia, come l’Europa, ha seguito un percorso diverso. Un tempo modello di successo nel settore elettrico, negli ultimi anni ha visto peggiorare le sue prestazioni e il suo tessuto industriale ha faticato in alcuni dei settori più importanti per il futuro, come il fotovoltaico e il nucleare. Questo diverso percorso, a favore dei mercati a breve termine e di un apparente ritiro dello Stato, è stato intrapreso dai decisori in modo deliberato ed esplicito. Si può cambiare solo se la diagnosi collettiva degli errori degli ultimi decenni e le strategie auspicabili per uscirne oggi sono condotte con rigore e determinazione. Non basta usare nei discorsi le parole o le espressioni “pianificazione”, “industria” o “lungo termine”, dopo due o tre decenni di oblio collettivo del loro significato concreto. Occuparsi degli equilibri tra domanda e offerta di energia elettrica significa lavorare sulla considerazione precisa dell’intermittenza, dei modelli di insolazione e di vento a lungo termine e delle loro modalità comuni22 nello spazio europeo. Ciò implica anche una precisa comprensione dei vincoli delle leggi dell’elettricità in tempo reale, del ruolo delle macchine rotanti nell’inerzia del sistema e del vero stato dell’arte dell’elettronica di potenza e del software di controllo. Ciò implica ancora la considerazione di uno spettro sufficientemente ampio di scenari relativi alla domanda, alle tecnologie e alle incertezze associate per avere un sistema resiliente, con i necessari margini di riserva. Infine, la padronanza industriale delle tecnologie future presuppone, come abbiamo visto, una visione affidabile a lungo termine dei temi e delle tecnologie in cui i politici vogliono che il Paese investa, e la mobilitazione di reali competenze industriali al servizio di questa visione.

Dobbiamo avere l’umiltà di riconoscere oggi la nostra debolezza in tutti questi settori per darci una reale possibilità domani di invertire la tendenza e raccogliere queste sfide. Forse abbiamo abbandonato troppo in fretta, negli anni ’90, lo spirito di previsione abitato dalle incertezze, dalla tragedia della storia e dall’importanza della volontà e dell’impegno degli attori, a favore di una visione troppo semplice delle tecnologie del futuro e del funzionamento dei mercati internazionali ed europei. Occorre riscoprire una previsione modesta e lucida sulla fragilità delle società e che si basi, per l’azione, sulla conoscenza sia dei sistemi tecnici specifici sia dei dati culturali, sociali e territoriali. Previsione aperta alle grandi incertezze e alle determinanti geopolitiche, culturali ed ecologiche di lungo periodo, e “lavoro duro” sulle condizioni di successo delle strategie (industriali e tecnologiche, regole del gioco e politiche pubbliche): sono queste le due dimensioni che ci sono sembrate animare il lavoro collettivo al servizio della politica e dello Stato in Francia tra il 1945 e il 1975. Queste due dimensioni potrebbero ispirarci ancora oggi e permetterci di ricostruire uno Stato strategico competente e attivo, capace di liberare le iniziative private e locali.

Nella storia dell’Europa, le tre rinascite del “lungo Medioevo” descritte dallo storico Jacques Le Goff23 – la rinascita carolingia, la rinascita del XII secolo e la rinascita del XV-XVI secolo – sono state preparate in periodi difficili e sono state pensate con modestia e speranza in riferimento a culture del passato vissute come modelli, come simboleggia questa frase attribuita a Bernardo di Chartres nel XII secolo e così spesso ripetuta per tutto il Medioevo fino all’inizio dell’era moderna: “Siamo nani sulle spalle di giganti. “. È questa, per certi versi, anche la suggestiva tesi del filosofo Rémi Brague della “via romana” dell’Europa24 , il cui dinamismo deriverebbe da una modestia ereditata da Roma e dal cristianesimo di fronte ai riferimenti eterni e ideali di una doppia alterità, Atene e Gerusalemme, la civiltà e la lingua greca da un lato, e la civiltà e la lingua ebraica dall’altro. Dovrebbe anche essere un invito ad affidarsi sempre più senza riserve alle risorse della nostra storia recente e più lunga, così come a quelle di altre grandi regioni del mondo, per raccogliere la sfida della transizione energetica e inventare la nostra “via francese ed europea”.

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Sovranità, controllo industriale e transizione energetica (1), di Jean-Paul Bouttes

Articolo interessante pur con la riserva sul merito delle politiche attuali di conversione energetica. Giuseppe Germinario

Sintesi

 

Le questioni energetiche sono una questione di prosperità e di sovranità dello Stato. Gli anni 1945-1990 in Francia illustrano come sia stato possibile esplorare nuove strade e impiegare rapidamente e su vasta scala tecnologie innovative adatte a queste sfide essenziali per il nostro Paese. Anche gli ultimi decenni in Cina e negli Stati Uniti dimostrano l’efficacia di questo metodo. Esso si basa sul ruolo fondamentale dello Stato nel padroneggiare le condizioni per il successo industriale e può consentire di rilanciare il settore e di riconquistare la potenza e la prosperità che gli sono proprie, a condizione che una visione politica sia condivisa dai vari attori.

 

Nella prima parte di questo studio, Jean-Paul Bouttes ci riporta indietro nel tempo per svelare le caratteristiche principali del periodo che ha visto la Francia diventare pioniera nel campo dell’energia nucleare.

 

Nella seconda parte, l’autore allarga il discorso alla transizione energetica, basandosi su esempi esteri e più recenti di successo industriale, come i pannelli fotovoltaici in Cina o la versione americana (Advanced Research Projects Agency-Energy, ARPA-E) dei Programmes d’investissements d’avenir (PIA). Lo studio si conclude con la situazione francese, dove gli ultimi due decenni sono stati segnati da un declino delle nostre competenze industriali, in particolare nei nostri tradizionali punti di forza (nucleare, fossile, rete), dalle difficoltà di EDF, Areva, Framatome, Alstom e, cosa più preoccupante, dai fallimenti dei tentativi industriali nel fotovoltaico e nell’eolico onshore.

Copyright: Archivio EDF

Fonte: Nel 1958, il generale de Gaulle visitò il centro atomico di Marcoule, nella regione del Gard, dove constatò i progressi compiuti dal 1945, data in cui firmò l’atto di nascita dell’industria nucleare in Francia. Al suo fianco, Maurice Pascal (a destra del generale de Gaulle nella foto), allora responsabile degli studi sulle batterie presso il Commissariat à l’énergie atomique (CEA), spiega al Capo di Stato i dettagli della sala di controllo del reattore G2. Ex studente dell’École polytechnique, Maurice Pascal (1920-1996) iniziò la sua carriera presso la delegazione ministeriale per gli armamenti. Nel 1954 è stato inserito in una posizione di responsabilità presso il CEA. Dal 1964 è stato responsabile della politica industriale.

https://www.fondapol.org/etude/souverainete-maitrise-industrielle-et-transition-energetique-1/216_nucleaire_i_couv_fond/

 

Ringraziamenti

Questo lavoro deve molto agli scambi condivisi con molti attori della storia del nucleare francese. Desidero ringraziare in particolare Bernard Esambert per la sua attenta lettura, nonché Gilles Bellamy, Lorraine Bouttes, Yves Bréchet, Michel Clavier, Pierre Daurès, Sylvain Hercberg, Bruno Lescoeur, Bernard Tinturier e Gilles Zask per i loro commenti e suggerimenti. Tuttavia, sono naturalmente l’unico responsabile delle analisi e delle opinioni espresse in questo libro.

 

Jean-Paul Bouttes

 

1

Elenco delle abbreviazioni e degli acronimi utilizzati nel primo volume

 

AGR: Reattore avanzato raffreddato a gas.

AHEF: Association pour l’histoire de l’électricité en France.

AIE: Agenzia Internazionale dell’Energia.

ARPA-E: Advanced Research Projects Agency-Energy.

ASN: Autorité de sûreté nucléaire (Autorità per la sicurezza nucleare).

CEA: Commissione francese per l’energia atomica.

CEE: Comunità economica europea.

CEEA/Euratom: Comunità europea dell’energia atomica.

CEGB: Central Electricity Generating Board.

CGE: Compagnie générale d’électricité.

Cigre: Conferenza internazionale dei grandi sistemi elettrici.

WEC: Consiglio Mondiale dell’Energia.

COP: Conferenza delle Parti.

DGSNR: Direction générale de la sûreté nucléaire et de radioprotection.

DSIN: Direction de la sûreté nucléaire (Direzione della sicurezza nucleare).

EDF: Électricité de France.

ENA: École nationale d’administration.

EPR: Reattore pressurizzato europeo.

INSTN: Institut national des sciences et techniques nucléaires (Istituto nazionale di scienze e tecnologie nucleari).

IPSN: Institut de protection et de sûreté nucléaire (Istituto per la protezione e la sicurezza nucleare).

IRSN: Institut de radioprotection et de sûreté nucléaire (Istituto di radioprotezione e sicurezza nucleare).

PEON: Produzione di energia elettrica da fonti nucleari.

PWR: Reattore ad acqua pressurizzata.

SCSIN: Service central de sécurité des installations nucléaires.

Sfac: Société des forges et ateliers du Creusot.

SENA: Société d’énergie nucléaire franco-belge des Ardennes.

UKAEA: Autorità per l’energia atomica del Regno Unito.

UNGG: Uranio naturale, grafite e gas.

Unipede: Unione internazionale dei produttori e distributori di energia elettrica.

 

Introduzione

 

https://www.fondapol.org/etude/souverainete-maitrise-industrielle-et-transition-energetique-1/#chap-1

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Note

  1. La prima parte di questo articolo si concentra sulla storia del nucleare civile dal 1945 al 1975 in Francia. L’autore si basa in particolare sul libro di Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, L’Énergie de la France. De Zoé aux EPR, l’histoire du programme nucléaire (Éditions François Bourin, 2013).

del programma nucleare basato non solo su documenti storici ma anche su interviste a molti degli attori di questa avventura. Marcel Boiteux e Philippe Boulin sono all’origine di questo progetto, che l’autore di questo documento ha potuto realizzare e accompagnare.+

  1. Con, ovviamente, la mobilitazione e lo sviluppo di tutte le altre energie rinnovabili rilevanti: biomassa, geotermia, energie marine…
  2. IEA, Energy Technology Perspectives 2006. A sostegno del Piano d’azione del G8, OCSE, 2006.
  3. Il termine progetto di base si riferisce al progetto complessivo della centrale, che deve essere integrato da piani dettagliati dell’impianto (progetto dettagliato). Si sviluppa sulla base di uno schizzo iniziale a livello di progettazione, il progetto concettuale.+ 5. La preoccupante situazione economica in Europa e nel mondo è stata caratterizzata da una serie di problemi.

La preoccupante situazione economica in Europa e in Francia, dovuta alla guerra di Vladimir Putin in Ucraina, ci ricorda l’importanza centrale, sia per la nostra prosperità che per la nostra sicurezza, di un’energia competitiva che risponda a due criteri aggiuntivi: disponibilità garantita e impatto limitato sull’ambiente1 . Per raggiungere questo obiettivo, il controllo industriale delle tecnologie di produzione e trasformazione dell’energia e la capacità di anticipare il mix energetico più adatto alle nostre esigenze a lungo termine sono i due principali fattori di successo. Queste sfide saranno ancora più grandi se vogliamo attuare la transizione energetica necessaria nei prossimi decenni per affrontare la sfida del riscaldamento globale, tenendo conto di un contesto geopolitico che sarà fonte di preoccupazione duratura.

 

Per raggiungere questi obiettivi, dimenticando le lezioni della storia e le caratteristiche tecnico-economiche e industriali dell’energia, in particolare dell’elettricità, gli Stati europei si sono affidati quasi esclusivamente ai mercati europei (per il gas e l’elettricità) o internazionali (per le attrezzature o le materie prime). Il compito era impossibile per i soli mercati e, di fronte alla resistenza della realtà, gli Stati membri dell’UE e la stessa Unione Europea hanno reagito moltiplicando leggi, obiettivi e regolamenti, ma senza assumere chiaramente il loro ruolo. Questi interventi incoerenti di fronte ai “fallimenti del mercato” si sono tradotti in un grave fallimento delle autorità pubbliche.

 

Questo fallimento è ancora superabile a patto che si faccia una diagnosi corretta del ruolo degli Stati e che si correggano le loro carenze e quelle dei mercati. Si tratta di mobilitare le necessarie competenze industriali, scientifiche e lungimiranti, di impostare un’organizzazione leggera e responsabile della sfera pubblica, di incoraggiare le iniziative, sia del settore privato che degli enti locali, nel quadro di regole del gioco semplici ed efficaci. Gli esempi qui presentati, relativi alle sfide del controllo industriale nei settori delle grandi tecnologie per la decarbonizzazione, come il nucleare o i pannelli fotovoltaici, dimostrano che tutto ciò è stato attuato con successo in Francia negli anni ’50-’90, e in Cina o negli Stati Uniti negli ultimi trent’anni. Spetta ora a noi trovare il percorso francese ed europeo che ci permetta, con una diagnosi condivisa e rigorosa che non si accontenti di parole troppo spesso fuorvianti, di apportare i necessari cambiamenti strutturali in termini di organizzazione dello Stato e di regole del gioco europeo per correggere la situazione il più rapidamente possibile nel prossimo decennio.

 

Di fronte al cambiamento climatico, dobbiamo intraprendere una transizione energetica globale di dimensioni senza precedenti, con obiettivi di “emissioni nette zero” entro la metà del secolo. Per ridurre in modo significativo le emissioni di gas serra, dovremo innanzitutto decarbonizzare la produzione di energia elettrica ed elettrificare in modo massiccio gli usi energetici, attuando al contempo un’ambiziosa politica di risparmio energetico. Per la maggior parte, conosciamo le tecnologie che dobbiamo sviluppare e implementare: dal punto di vista della produzione, l’energia nucleare, i pannelli fotovoltaici e le turbine eoliche, la cattura e lo stoccaggio delle emissioni di CO2, l’energia idraulica2 ; dal punto di vista dell’utilizzo, le batterie e i veicoli elettrici, le pompe di calore, i processi industriali elettrici… Questa roadmap è nota da circa vent’anni, come dimostrano, ad esempio, le dichiarazioni del vertice del G8 presieduto da Tony Blair nel 2005 a Gleneagles, il primo rapporto dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE) del 2006, Energy Technology Perspectives3 , sul rapporto energia-clima, o le proposte di roadmap settoriali discusse alla Conferenza delle Parti (COP) di Montreal nel 2005. Tuttavia, ad oggi, i risultati in termini di decarbonizzazione sono deludenti. Una delle ragioni principali è l’aver trascurato le questioni industriali e la perdita di controllo industriale nel settore energetico, soprattutto in Europa e in Francia negli ultimi decenni. La massiccia diffusione di queste tecnologie ad alta intensità di capitale richiede un controllo dei costi per conciliare clima e sviluppo economico, nonché gli anelli chiave delle catene del valore (apparecchiature a valore aggiunto, materiali critici, digitale) in un contesto di geopolitica di ritorno. La padronanza delle questioni industriali legate alla produzione e alla costruzione di queste tecnologie ad alta intensità di capitale è al centro degli obiettivi inscindibili di efficienza economica, competitività, sovranità economica e autonomia strategica. Il raggiungimento di questi obiettivi richiede una solida cooperazione internazionale.

 

In questa prospettiva, la Francia può offrire un esempio di successo nel guidare una transizione basata sulla padronanza di queste problematiche industriali. Tra il 1974 e il 1990, è stata in grado di attuare una delle transizioni più rapide nel mondo dell’energia, sostituendo l’energia nucleare alle centrali a carbone e a petrolio, consentendole, al termine di questa transizione, di beneficiare di un mix elettrico decarbonizzato al 90% (75% nucleare, 15% idroelettrico), di prezzi dell’elettricità tra i più bassi d’Europa, di costi d’investimento pari alla metà di quelli degli Stati Uniti e della padronanza industriale del settore dei reattori ad acqua pressurizzata. Il programma nucleare civile francese è stato un successo in termini economici e di sovranità: il Paese si è liberato dalla dipendenza dalle importazioni di combustibili fossili, compreso il petrolio, per la produzione di energia elettrica, e ha padroneggiato la catena del valore nucleare, compreso l’arricchimento, facendo leva su una forte cooperazione internazionale (licenza francese Westinghouse, impianto di arricchimento Eurodif a Tricastin, partecipazioni di società elettriche europee in centrali nucleari francesi, ecc.) Inoltre, grazie alla sua portata (ogni anno, per dieci anni, sono state messe in funzione da quattro a sei unità da 900 a 1.300 MW), questo programma ha permesso una significativa elettrificazione degli usi residenziali (scaldabagni, riscaldamento, ecc.) e industriali, soddisfacendo nel 1990 un consumo di elettricità doppio rispetto a quello del 1973, in un momento in cui la sobrietà energetica, istituita nel quadro della “caccia allo spreco” dopo i due shock petroliferi, ha portato a una quasi stagnazione del consumo finale di energia. Questi movimenti sono esattamente in linea con l’attuale scenario “zero emissioni nette” dell’AIE, che si basa sia sulla sobrietà energetica sia su un aumento di due volte e mezzo della produzione di elettricità entro il 2050.

 

Pensiamo spesso alle condizioni del successo industriale della massiccia diffusione dal 1974 al 1990, dopo la prima crisi petrolifera: una decisione politica nel 1974-1975 che offre una visibilità a lungo termine concretizzata da un programma, una progettazione di base4 finalizzata su un prodotto robusto e semplice da costruire (i reattori ad acqua pressurizzata Westinghouse), serie standardizzate, un tessuto industriale di qualità e un architetto industriale chiaramente responsabile e competente, ovvero EDF. Tutto questo è vero, ma non è sufficiente a spiegare il successo di questa realizzazione. È stata preparata in modo altrettanto decisivo nel periodo dal 1945 al 1974, combinando tentativi ed errori, visione a lungo termine e determinazione incrollabile nell’azione. Questi tre decenni sono stati caratterizzati dalla capacità di una generazione di attori, spesso provenienti dalla Resistenza e dalla Francia Libera, di rischiare, di provare quasi tutti i metodi – rapido, acqua pesante, gas grafite, acqua leggera -, di accettare tentativi, errori e fallimenti, con la volontà di trovare rapidamente soluzioni efficaci e di avere successo. La figura e la personalità del generale de Gaulle hanno segnato questo periodo, prima direttamente nel 1945, attraverso la creazione della Commissione per l’energia atomica (CEA) e il processo di nazionalizzazione dell’energia elettrica, con la creazione dell’EDF nel 1946; poi, indirettamente, attraverso uomini chiave che condividono gli stessi obiettivi durante la Quarta Repubblica (Félix Gaillard, Raoul Dautry, Gaston Palewski, Pierre Guillaumat, Jules Horowitz, Pierre Taranger, Pierre Ailleret…); poi con la creazione di un’agenzia di ricerca e di sviluppo che si occupa di energia nucleare. ) ; e, infine, ancora, nel momento chiave del passaggio alla fase industriale e del dibattito sulla scelta dell’uranio naturale, della grafite e del gas (UNGG) rispetto all’acqua pressurizzata o all’acqua bollente, tra il 1958 e il 1975, con Georges Pompidou, Primo Ministro e poi Presidente della Repubblica, Pierre Messmer, Bernard Esambert, Pierre Massé, Francis Perrin, Claude Fréjacques, Georges Besse, André Giraud, André Decelle, Paul Delouvrier, Marcel Boiteux, Michel Hug, Philippe Boulin, Maurice Aragou, Jean-Claude Leny…

 

Nella prima parte di questa nota, ripercorreremo la storia per individuare le caratteristiche principali di questo periodo e trarne alcuni utili insegnamenti. Nella seconda parte, allargheremo la questione alla transizione energetica che deve essere realizzata oggi, basandoci su esempi più recenti di successo industriale riguardanti altre tecnologie energetiche e altri Paesi, come i pannelli fotovoltaici in Cina o la versione americana (Advanced Research Projects Agency-Energy, ARPA-E) dei programmi di investimento futuro (PIA). Infine, torniamo alla situazione francese, dove gli ultimi due decenni sono stati segnati da un declino delle competenze industriali, in particolare in quelli che erano i nostri tradizionali punti di forza: l’energia nucleare, l’energia fossile, la rete, con le difficoltà di EDF, Areva, Framatome, Alstom, e, cosa più preoccupante, dal fallimento dei tentativi industriali nel fotovoltaico e nelle turbine eoliche onshore, settori in cui la Francia sembra accontentarsi per lo più di installazioni e servizi a basso valore aggiunto, nonostante la ricerca di qualità in questi campi industriali.

 

Gli anni 1945-1990 in Francia o gli ultimi decenni in Cina o negli Stati Uniti dimostrano come sia stato possibile aprire delle opzioni, esplorare nuove strade e implementare tecnologie adatte alle sfide dei Paesi interessati su larga scala e in tempi rapidi. Su queste questioni energetiche, che riguardano la prosperità e la sovranità dei Paesi, questi esempi illustrano chiaramente il ruolo fondamentale svolto dagli Stati nel controllare le condizioni per il successo industriale, compresa la diversità dei percorsi possibili in base alle istituzioni e alle tradizioni dei vari Paesi. La capacità degli Stati di assumere il proprio ruolo per consentire la mobilitazione di tutti gli attori sembra essere decisiva. Ciò presuppone la capacità di indicare chiaramente le proprie debolezze, se possibile prima che la situazione diventi troppo grave, e di farlo lasciandosi interpellare dal proprio passato o da altre esperienze attuali. Le competenze e la buona volontà non mancano. Potrebbero permetterci di riformare il settore in profondità e di prepararci al prossimo decennio, a condizione che gli attori condividano una visione politica.

 

I

Parte

Superare le idee preconcette

 

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1

La solita narrazione

 

Per capire la storia del nucleare francese, dobbiamo accettare di mettere in discussione la narrazione abituale, generalmente espressa come segue:

 

il programma è stato deciso nel 1974-1975 in reazione a un evento: la prima crisi petrolifera del 1973;

si riduce a una decisione presa da un ristretto numero di decisori politici: l’abbandono della linea nazionale di centrali a uranio naturale e gas grafite (NUG) a favore della linea Westinghouse di centrali a uranio arricchito e acqua leggera;

è stato ottenuto attraverso il semplice trasferimento del know-how americano senza aver dovuto affrontare la “frontiera tecnologica”;

illustra la tradizione francese – e il “genio francese” – dell’intervento statale nell’economia attraverso grandi programmi.

2

Una storia diversa

 

Note

  1. L’obiettivo a lungo termine era presente fin dalla creazione del CEA nel 1945 e divenne più chiaro con il progredire del lavoro di ricerca negli anni Cinquanta.
  2. Decisione strategica, per ragioni industriali, logistiche e militari.

La lettura della storia qui difesa è diversa. L’immagine proiettata dalla narrazione abituale è fuorviante, perché le affermazioni che la costruiscono riflettono un profondo fraintendimento di cosa sia un’industria ad alta tecnologia come quella nucleare.

 

Innanzitutto, la decisione di affidarsi a un programma nucleare civile era un obiettivo chiaro fin dall’inizio degli anni ’60 5 , nonostante il calo del prezzo dell’olio combustibile pesante in quel decennio. Questa decisione deriva da una visione condivisa della sicurezza di approvvigionamento a lungo termine del Paese e dalle prospettive di competitività del nucleare alla luce dei primi dimostratori industriali.

 

Inoltre, l’esigenza di avere più ferri da stiro, compresi quelli ad acqua leggera, e di sperimentare diverse tecnologie era già all’opera nel 1958 con la decisione di costruire Chooz A, un prototipo franco-belga basato sulla prima generazione di reattori ad acqua pressurizzata Westinghouse, presa dal generale de Gaulle non appena tornato al potere nel 1958. Questa decisione fu presa a complemento dei dimostratori UNGG costruiti a Chinon tra il 1957 e il 1961.

 

Solo nel 1975 la linea ad acqua bollente di General Electric, trasportata in Francia dalla Compagnie Générale d’Electricité (CGE) di Ambroise Roux, fu abbandonata e ci si concentrò sulla sola linea ad acqua pressurizzata di Westinghouse, non senza rammarico per gli operatori che desideravano mantenere la concorrenza tra almeno due fornitori per i componenti chiave. La decisione di abbandonare l’UNGG e di costruire una prima serie di reattori ad acqua pressurizzata (PWR) fu presa in un periodo in cui i prezzi dell’olio combustibile pesante erano ancora ai minimi tra il 1969 e il 1971; fu allora che si decise di costruire due unità a Fessenheim e due unità a Bugey, che entrarono in funzione nel 1977 e nel 1978. Queste decisioni furono prese da Georges Pompidou all’inizio del suo mandato di Presidente della Repubblica.

 

Westinghouse non avrebbe mai accettato di collaborare con i francesi, né permesso che la licenza diventasse francese, se la Francia non avesse dimostrato l’eccellenza delle sue competenze industriali, in particolare nella fabbricazione dei contenitori dei reattori a Le Creusot, e l’eccellenza delle competenze scientifiche della CEA, che stava lavorando non solo sull’UNGG, ma anche sui PWR per la propulsione militare. Tra il 1950 e il 1970, la Francia aveva effettivamente raggiunto da sola la frontiera tecnologica, e questo è probabilmente ciò che ha permesso di utilizzare con successo la tecnologia Westinghouse.

 

Infine, il ruolo chiave dello Stato nel controllo e nella diffusione dell’energia nucleare non è specificamente francese. Per convincersene, basta osservare l’esempio americano con il programma dell’ammiraglio Rickover, inizialmente incentrato sulla propulsione militare e che mobilita insieme i grandi laboratori federali americani (simili alla CEA) con Westinghouse e General Electric (la CEA, e poi l’EDF, mobiliteranno anche i grandi industriali francesi più capaci, prima sull’UNGG e poi sul PWR). Anche il Regno Unito, il Canada, la Cina, il Giappone e la Corea del Sud potrebbero illustrare, ciascuno a suo modo, questo ruolo dello Stato strategico, coinvolto nella dimensione scientifica e industriale. Va aggiunto che, sebbene in Francia lo Stato abbia svolto in precedenza un ruolo di stimolo allo sviluppo di alcune grandi reti, come le ferrovie6 , come dimostra il piano Freycinet del 1879, e abbia avuto un ruolo importante nella regolamentazione tecnica di alcuni settori industriali, come il controllo tecnico delle fucine, la Francia degli anni Trenta e Quaranta del XIX secolo era innanzitutto un Paese economicamente e industrialmente liberale, in conformità con l’eredità della Rivoluzione francese.

 

3

La rapida transizione della Francia

 

Dal 1945 al 1990, la Francia ha realizzato una delle più rapide transizioni nelle tecnologie energetiche, dalla ricerca di base alla diffusione industriale. La scoperta della fissione e della reazione a catena risale agli anni ’30, con il lavoro di Enrico Fermi, Otto Hahn, Lise Meitner e Fritz Strassmann, e poi di Frédéric Joliot-Curie, con Hans Halban e Lew Kowarski nel 1939. È sulla base di quest’ultimo lavoro che il CEA è venuto a conoscenza delle varie tecnologie nucleari – UNGG, acqua pesante, reattori a neutroni veloci raffreddati a sodio, reattori ad acqua leggera – e ha prodotto prototipi, in particolare per la tecnologia UNGG, negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta. Negli anni ’60, il CEA e l’EDF sono riusciti a costruire dimostratori su scala industriale nel reattore a gas di grafite (Chinon A1, A2 e A3) e nel reattore PWR (Chooz A e poi Tihange), con i nostri partner belgi, basati sul reattore Westinghouse. Ci sono voluti solo vent’anni, tra il 1970 e il 1990, per implementare in modo massiccio il parco nucleare e produrre tre quarti dell’elettricità per la Francia, con prestazioni, come abbiamo visto, molto migliori in termini di costi rispetto a quelle di Stati Uniti, Inghilterra, Germania o Giappone con tecnologie simili nello stesso periodo.

 

Si è trattato di sfide particolarmente difficili. Gli ostacoli successivi hanno dovuto essere superati con perseveranza, uno dopo l’altro. Le sfide variavano a seconda dei periodi e delle circostanze, sia che si trattasse del periodo della ricerca e dei prototipi (1945-1960), sia che si trattasse del periodo dei dimostratori industriali e della scelta della tecnologia da impiegare (1960-1971), sia che si trattasse del periodo dell’impiego massiccio (iniziato nel 1972-1975 e che continuerà in gran parte fino al 1990). Fin dall’inizio è stato necessario pensare in termini di sistema industriale, con il controllo dell’intero ciclo del combustibile, dall’estrazione al ritrattamento e alla gestione delle scorie, con la fabbricazione del combustibile, nonché con l’arricchimento dell’uranio necessario nelle tecnologie ad acqua leggera, e il controllo del reattore e dei suoi componenti chiave: forgiatura primaria, termoidraulica e neutronica, scienza dei materiali, automazione e controllo, unità turbo-alternatore, ingegneria civile, ecc.

 

Il termine “industria nucleare” può essere fuorviante, perché si tratta in realtà di mobilitare competenze e professionalità molto diverse provenienti da diversi settori industriali, con requisiti di qualità particolarmente elevati, in quanto la sicurezza è ovviamente un punto centrale in questo caso. È stato inoltre necessario affrontare e risolvere numerosi problemi tecnici almeno altrettanto delicati di quelli che stiamo vivendo da quindici anni a questa parte nello sviluppo dei reattori di terza generazione, come l’EPR in Francia e Finlandia o l’AP 1000 negli Stati Uniti. La reattività e la determinazione delle comunità scientifiche e ingegneristiche sono state notevoli nel proporre “soluzioni di riparazione”, mantenendo sempre la capacità di aprire altre opzioni tecniche (involucro in acciaio o cemento armato precompresso, ecc.), e anche opzioni più radicali, come l’esplorazione di altri metodi. Infine, al di là della gestione efficace dei ricorrenti guasti tecnici che sono una caratteristica inevitabile di questi grandi progetti tecnologici, il contesto internazionale e politico era particolarmente turbolento: la guerra fredda a partire dal 1947, la decolonizzazione, la crisi di Suez nel 1956, la creazione della Comunità economica europea (CEE) e del trattato Euratom nel 1958, la crisi del maggio 1968 e gli shock petroliferi del 1973-1974 dopo un lungo periodo di calo dei prezzi del petrolio pesante. La cooperazione internazionale ha dovuto trovare la sua strada, tenendo conto delle questioni geopolitiche e di sovranità. Lo dimostrano l’opposizione degli Stati Uniti a qualsiasi cooperazione in campo nucleare, con la legge McMahon del 1946, la crisi di Suez, che evidenziò la vulnerabilità di una Francia che non padroneggiava l’energia nucleare, e le opportunità aperte dal Trattato Euratom.

 

La questione principale che vogliamo evidenziare in questa sede riguarda questa sorprendente capacità di rimbalzo nel tempo, una capacità di apportare cambiamenti adottando una visione sistemica, con la preoccupazione di una rapida attuazione, al fine di mantenere la rotta stabilita per quanto riguarda lo sviluppo di un’industria nucleare. Si tratta quindi di individuare le tracce di questo lavoro collettivo, dello Stato con le sue componenti politiche e il loro sostegno – i consiglieri, l’amministrazione, il Piano – ma anche del CEA e dell’EDF, del tessuto industriale e dei partner internazionali. È importante capire le ragioni di questa efficienza nel lungo periodo. Questo sguardo al passato dovrebbe aiutarci a determinare quale organizzazione e quali competenze industriali al centro dell’apparato statale, quali relazioni tra quest’ultimo e il tessuto industriale privato e quali strategie di cooperazione internazionale hanno permesso l’elaborazione di una visione comune e a lungo termine da cui trarre ispirazione per prendere a nostra volta le decisioni necessarie nel tempo.

 

II

Parte

Un viaggio nella storia: 1945-1975

 

https://www.fondapol.org/etude/souverainete-maitrise-industrielle-et-transition-energetique-1/#chap-2

1

Dal 1945 al 1960, dalla scienza ai prototipi: il ruolo centrale del CEA imparando da EDF e dal tessuto industriale

 

Note

  1. In questa sezione ci basiamo in particolare sul già citato lavoro di Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, nonché sulle interviste condotte con gli attori del programma nucleare nell’ambito del loro progetto di libro, sul libro di Georges Lamiral, Chroniques de trente années d’équipement nucléaire à Électricité de France, Association pour l’histoire de l’électricité en France (AHEF), 2 vols, 1988, e sul libro di Dominique Grenèche, Histoire et techniques des réacteurs nucléaires et de leurs combustibles, EDP Sciences, 2016.+
  2. Gli Stati Uniti hanno gradualmente aperto la possibilità di cooperazione con i Paesi europei a partire dalla fine degli anni ’50, ma sempre alle condizioni restrittive della sovranità e del controllo industriale dei Paesi interessati.
  3. Nonostante le loro riserve, ci saranno contatti con gli Stati Uniti su alcuni temi scientifici e industriali. Inoltre, è chiaro che, in questo contesto, il programma nucleare civile con le Nazioni Unite è stato particolarmente sostenuto anche in relazione al programma militare. Anche l’esperienza del CEA nei reattori ad acqua pressurizzata per la propulsione è stata preziosa.
  4. Si può sottolineare il carattere multipartitico di questa volontà e il ruolo di animazione, per non dire di guida, che lo Stato deve svolgere in questa prospettiva, che si è tradotto nella creazione del Commissariat général du Plan o in quella della CEA o dell’EDF. Il Fronte Popolare aveva già tentato, in parte con questo spirito, di organizzare la ricerca francese – il Centre national de la recherche scientifique (CNRS) fu creato poco più tardi, nell’ottobre 1939 – e aveva intrapreso una politica di riarmo.
  5. Cfr. Bertrand Goldschmidt, Le Complexe atomique. Histoire politique de l’énergie nucléaire, Fayard, 1980, p. 71.
  6. Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, op. cit. p. 38.
  7. Charles de Gaulle, “Discorso del 14 giugno 1960”, archivi INA, ina.fr.
  8. Cfr. Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, op. cit. p. 56.
  9. Cfr. Henri Morel (a cura di), Histoire de l’électricité, Fayard, 1996, t. 3, p. 143 ss.
  10. Cfr. Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, op. cit. p. 68.

Il contesto e la posta in gioco7

 

Le due guerre mondiali furono in gran parte un confronto tra potenze industriali ed energetiche. Nei suoi scritti degli anni Trenta, il futuro generale de Gaulle prevedeva già l’importanza dei carri armati e degli aerei per la potenza degli eserciti, sostenendo una dottrina d’uso innovativa e, più in generale, nel 1940, prevedendo un conflitto il cui esito sarebbe stato dominato dall’ingresso della grande potenza industriale ed energetica, l’America. Dopo la guerra, le élite politiche, amministrative e industriali francesi, in gran parte provenienti dalla Resistenza e dalle Forze libere francesi, intendevano recuperare il ritardo scientifico, industriale ed economico della Francia, conseguenza della crisi degli anni Trenta e delle distruzioni della guerra. I leader erano anche consapevoli della necessità di un approvvigionamento energetico sicuro a costi controllati. Priva di petrolio, la Francia aveva sofferto fin dal XIX secolo di una scarsa disponibilità di carbone a basso costo, a differenza di Regno Unito, Germania e Stati Uniti. Per molto tempo, la sua industria siderurgica è stata alimentata dal carbone delle foreste francesi e dall’energia idraulica “meccanica” fornita dai fiumi. Poi il “carbone bianco”, l’acqua, è diventato un imperativo nazionale nel periodo tra le due guerre e negli anni Cinquanta e Sessanta, con grandi programmi idroelettrici che hanno prodotto circa la metà dell’elettricità in questo periodo, ma che hanno gradualmente rallentato a causa del numero limitato di siti.

 

Già nel 1945-1950 l’energia nucleare era un obiettivo a lungo termine, sostenuto da politici come Félix Gaillard e Gaston Palewski. La presenza di miniere di uranio in Francia fu presto messa in discussione. Le riserve limitate percepite nella prima fase della storia del nucleare civile e l’aspettativa di scoprire nuovi giacimenti portarono, a partire dal dopoguerra, a lavorare su prototipi di reattori fast-breeder per utilizzare non solo l’uranio 235 (0,7% dell’uranio naturale) ma anche tutto il potenziale dell’uranio 238 (99,3% dell’uranio).

 

Gli Stati Uniti, che disponevano di petrolio e carbone in abbondanza, lanciarono allora un programma di reattori nucleari, inizialmente concepiti per la propulsione militare. L’ammiraglio Rickover fece in modo che i laboratori federali americani collaborassero con le principali società elettriche, General Electric e Westinghouse, per sviluppare reattori ad acqua leggera che sarebbero stati più semplici e robusti, ma avrebbero richiesto la padronanza dell’arricchimento, allora prerogativa degli Stati Uniti. Nel contesto del graduale emergere della Guerra Fredda, gli Stati Uniti posero un embargo su tutti i trasferimenti di tecnologia nucleare con il McMahon Act del 1946, con alcune eccezioni per i partner britannici e canadesi del Progetto Manhattan8.

 

Inoltre, alla fine del XIX secolo e nella prima metà del XX secolo, la Francia, come il Regno Unito, è rimasta indietro rispetto agli Stati Uniti e alla Germania nella corsa alla rivoluzione industriale dell’elettricità, nonostante il suo alto livello di ricerca e di scienziati. Il suo tessuto industriale è frammentato e spesso dipendente dalle licenze americane. È stato quindi necessario affidarsi all’inizio essenzialmente a enti pubblici di natura scientifica e industriale: la CEA, poi l’EDF. Il Regno Unito, per le stesse ragioni, si affida alla United Kingdom Atomic Energy Authority (UKAEA), l’equivalente della CEA, e al Central Electricity Generating Board (CEGB), l’equivalente di EDF. Anche i nostri vicini britannici sono preoccupati per l’aumento del costo del carbone e per le sfide legate alla sicurezza dell’approvvigionamento di petrolio. Il Regno Unito è stato quindi particolarmente motivato dal nucleare civile e ha sviluppato il suo reattore nazionale Magnox, a gas grafite, simile al reattore UNGG francese, anche più velocemente della Francia: il primo prototipo di reattore è stato messo in funzione a Calder Hall nel 1956, pochi mesi prima del primo reattore prototipo del CEA G1 a Marcoule, e la potenza installata del Magnox sarebbe stata di circa 5.000 MW nel 1970, il doppio dell’UNGG francese.

 

Politica: visione a lungo termine e decisioni di strutturazione

 

Informati da scienziati e industriali e attenti al contesto internazionale, i politici presero importanti decisioni durante la Quarta Repubblica e l’inizio della Quinta Repubblica. Per loro, il mix energetico ed elettrico della Francia doveva consentirle di diventare una potenza industriale ed economica e di garantire la sua autonomia e sovranità strategica10.

 

Nel luglio 1944, durante una visita a Ottawa, il generale de Gaulle fu informato della portata del lavoro svolto sulle batterie atomiche e sulla bomba nucleare da Pierre Auger, Jules Guéron e Bertrand Goldschmidt, gli scienziati francesi coinvolti in questi studi11. Dopo le interazioni con Raoul Dautry e Frédéric Joliot-Curie, e un dossier presentato da Raoul Dautry al capo del governo provvisorio, il generale de Gaulle creò la CEA con un’ordinanza nell’ottobre 1945, con le missioni di ricerca, energia nucleare civile e applicazioni militari: l’obiettivo era quello di “perseguire la ricerca scientifica e tecnica al fine di utilizzare l’energia atomica nei vari campi della scienza, dell’industria e della difesa nazionale “12 . Tornato al potere nel 1958, il Generale accelerò i lavori sulla linea dell’UNGG e accettò il progetto di un reattore ad acqua leggera con licenza americana nell’ambito del trattato Euratom appena messo in atto (alla doppia condizione che il reattore fosse situato in Francia e che EDF ne detenesse il 50%). Il suo discorso radiotelevisivo del 14 giugno 1960 esprime chiaramente la sua visione della posta in gioco industriale ed energetica per la Francia: “Come popolo francese, dobbiamo elevarci al rango di grande Stato industriale o rassegnarci al declino. La nostra scelta è fatta. Il nostro sviluppo è in corso. […] Naturalmente, è per dotarla [la Francia] delle fonti di energia che le mancavano che ci applicheremo innanzitutto. […] Energia atomica che gli impianti modello hanno cominciato a fornire.13

 

Félix Gaillard, combattente della Resistenza e deputato radical-socialista nel 1946, era interessato all’energia atomica. Visitò il CEA ed ebbe lunghe discussioni con Frédéric Joliot-Curie. Nel 1951, Félix Gaillard fu nominato Segretario di Stato presso la Presidenza del Consiglio e fu responsabile delle questioni nucleari. Nel luglio 1952 presentò ai deputati il primo piano nucleare quinquennale, che diede alla CEA e al suo amministratore generale Pierre Guillaumat i mezzi per passare alla fase dei primi prototipi (G1, seguito da G2 e G3 a Marcoule) e alla realizzazione dei primi elementi del ciclo del combustibile.

 

Félix Gaillard era Ministro delle Finanze, dell’Economia e della Pianificazione quando il secondo piano nucleare quinquennale fu adottato a larga maggioranza nel luglio 1957. Questo piano raccomandava di raggiungere una capacità installata di 850 MW nel 1965 e di 2.500 MW nel 1970, obiettivo che fu praticamente raggiunto. Presidente del Consiglio dal novembre 1957 al maggio 1958, nel marzo 1958 diede il via libera alla costruzione di un impianto di arricchimento dell’uranio a Pierrelatte per scopi militari. L’atteggiamento degli americani durante la crisi di Suez e nella NATO spinse la Francia ad accelerare i lavori sul nucleare militare per garantire la propria autonomia strategica. La decisione è importante. Avrebbe aperto la strada all’uso di reattori ad acqua leggera, mantenendo il controllo del combustibile un decennio dopo14.

 

Gaston Palewski, ex capo di gabinetto di Paul Reynaud e storico gollista, nel 1955 fu ministro delegato alla Presidenza del Consiglio, responsabile del Coordinamento della Difesa Nazionale, della Ricerca Scientifica, degli Affari Atomici e degli Affari Sahariani. Con il suo governo, incrementò le risorse della CEA per passare all’UNGG e alla propulsione nucleare. Il 21 aprile 1955 creò la Commissione per la produzione di elettricità da fonti nucleari (Commissione PEON), che avrebbe svolto un ruolo importante fino agli anni Ottanta. Essa riuniva al massimo livello i rappresentanti del Piano, dello Stato (Ministero dell’Economia e delle Finanze, Ministero dell’Industria, ecc.), della CEA e dell’EDF. L’obiettivo era quello di esaminare le dimensioni economiche dei metodi di produzione dell’energia elettrica e quindi di proporre linee guida per la politica nucleare francese.

 

Il CEA, principale artefice della transizione dalla scienza all’industria

 

Fin dall’inizio, la CEA si affidò a un team di grandi scienziati nel campo della fisica nucleare, come Frédéric Joliot-Curie, Francis Perrin, Bertrand Goldschmidt e Pierre Auger. Fin dall’inizio, creò gruppi di ricercatori di alto livello in tutte le discipline necessarie, con forti competenze in neutronica, fisica matematica, metallurgia, chimica, automazione, ecc. Il dipartimento “Stack Design” si occupava in particolare della progettazione dei futuri reattori, con personalità come Jacques Yvon, Jules Horowitz, Georges Vendryes e Jean Bourgeois, che avrebbe svolto un ruolo importante nello sviluppo e nella considerazione delle questioni di sicurezza dalla progettazione all’esercizio. Con queste competenze scientifiche di alto livello, la Francia sarà quasi alla pari con gli Stati Uniti. D’altra parte, il passaggio alla fase industriale è più delicato.

 

Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo, la Francia non è stata in grado di sviluppare grandi attori industriali, come General Electric e Westinghouse, capaci di padroneggiare la progettazione di sistemi complessi come le nuove centrali nucleari, anche se un grande capo come Charles Schneider (Gruppo Creusot-Loire e Schneider) aveva capito l’importanza del tema.

 

Più in generale, dopo la lunga crisi economica degli anni Trenta e poi la guerra, il punto di partenza era un tessuto industriale francese certamente quasi completo e che “sapeva fare le cose per esperienza”, ma frammentato e artigianale, in ritardo dal punto di vista tecnico, con deboli capacità di ricerca, pochi legami con il mondo scientifico e spesso dipendente dalle licenze americane. Pierre Guillaumat, politecnico e ingegnere del Corpo delle Miniere, che aveva partecipato alla Resistenza, affrontò questo problema come amministratore generale del CEA dal 1951 al 1958. Il CEA accolse nei suoi team ingegneri provenienti dall’industria e dall’EDF e li formò all’ingegneria atomica. Nel 1952 Pierre Guillaumat creò anche un dipartimento industriale presso il CEA per produrre i primi prototipi UNGG G1, G2 e G3 a Marcoule e nominò Pierre Taranger, proveniente dal settore petrolifero, a capo di questo dipartimento industriale.

 

La sfida per il CEA – come per EDF – era quella di affrontare due fallimenti del mercato (“esternalità negative”) in questa prima fase, istituendo due modalità di coordinamento fondamentali per l’innovazione e l’efficienza economica a lungo termine:

 

riunire scienziati, uffici di progettazione e fabbriche;

far collaborare aziende industriali con un’ampia gamma di competenze tecniche per progettare e costruire i sistemi complessi e impegnativi in termini di sicurezza e qualità che sono le centrali nucleari e il relativo ciclo del combustibile.

All’interno della stessa CEA, Pierre Guillaumat doveva far lavorare scienziati di alto livello con gli industriali e formare generazioni di ingegneri industriali, mentre la CEA doveva facilitare la formazione di gruppi industriali e il loro aumento di competenze facendo affidamento sui punti di forza dell’industria francese: Pechiney e la sua padronanza della grafite pura, Saint-Gobain e la chimica del ritrattamento, e Le Creusot con le sue competenze nella metallurgia e le sue fucine. Responsabile della costruzione di questa prima generazione di reattori, la CEA preparò anche la padronanza tecnica dell’intero ciclo, in particolare l’arricchimento dell’uranio, importante a breve termine per la propulsione nucleare e le armi atomiche, e a più lungo termine per aprire l’opzione dell’acqua leggera per l’energia nucleare civile, mobilitando ingegneri delle polveri (Georges Fleury, Claude Fréjacques) e reclutando Georges Besse (politecnico e ingegnere del Corpo delle Miniere) nel 1952, proprio per lavorare sull’arricchimento dell’uranio. Georges Besse fu responsabile di Pierrelatte negli anni Sessanta, poi di Eurodif negli anni Settanta.

 

Oltre alla padronanza tecnica ed economica, la sfida per la CEA era ovviamente quella di garantire la sovranità industriale. In questi primi anni, garantire questa sovranità significava essere soli sulla frontiera tecnologica, sia in campo civile che militare, a causa dell’atteggiamento degli Stati Uniti. Ma il controllo ricercato è anche un obiettivo a lungo termine, se si vuole garantire l’autonomia strategica e la sicurezza degli approvvigionamenti. Senza escludere la cooperazione internazionale, anche in settori sensibili, ciò implica la padronanza, per il ciclo del combustibile, delle miniere di uranio – i giacimenti saranno trovati in Francia e sfruttati, in particolare nel Limousin -, della fabbricazione del combustibile, della chimica nucleare sofisticata per il ritrattamento – Bertrand Goldschmidt alla CEA e Saint-Gobain – e, a lungo termine, dell’arricchimento di questo uranio. Ciò implica anche la padronanza di alcuni collegamenti industriali chiave per l’impianto: la fabbricazione di grafite pura, il controllo e il comando, nonché la metallurgia dei cassoni, che richiede forge di qualità, la padronanza della scienza dei materiali e delle tecniche di saldatura. Le équipe del Creusot potranno inoltre avvalersi delle competenze dell’industria degli armamenti, in particolare di quelle della fonderia Indret e dell’esperienza di Yvon Bonnard, ingegnere navale.

 

L’apprendistato di EDF, per preparare con gli attori industriali il passaggio al dimostratore su scala industriale aprendo opzioni: UNGG-acqua leggera

 

All’epoca della nazionalizzazione dell’elettricità, i dirigenti di EDF erano anche spinti dall'”ardente obbligo” di consentire la ricostruzione e la prosperità del Paese grazie all’elettricità economica, contribuendo alla sicurezza dell’approvvigionamento del Paese. Questa era la loro missione principale. Dal 1946 al 1957, Pierre Ailleret, politecnico ed ex studente dell’École nationale des ponts et chaussées e del Supélec, fu direttore del Dipartimento di Ricerca di EDF, che contribuì a creare, prima di diventare vice direttore generale di EDF dal 1958 al 1968. Era un uomo di esperienza, responsabile di progetti idraulici e della costruzione di reti di interconnessione. Convinto dell’importanza dei progressi scientifici per l’energia, seguì i corsi di fisica nucleare di Jean Perrin prima della guerra e spinse il Dipartimento Studi e Ricerche a non accontentarsi di sostenere gli altri dipartimenti di EDF nelle loro questioni operative a breve termine, ma ad aprire tutte le possibili strade delle nuove energie avvicinandosi al mondo scientifico e aprendosi a livello internazionale: l’energia eolica, l’energia delle maree, l’energia termica oceanica, le turbine e i compressori a gas, ecc. e l’energia nucleare15.

 

Nominato nel 1950 membro del consiglio scientifico e del comitato (consiglio di amministrazione) del CEA16 , inviò giovani ingegneri dell’EDF, come Denis Gaussot, futuro direttore del Service d’études et projets thermiques et nucléaires (Septen), poi vicedirettore dell’Équipement, a formarsi al CEA presso l’Institut national des sciences et techniques nucléaires (INSTN). Nel 1953 propose di produrre elettricità dal vapore del G1 di Marcoule e la CEA decise di affidare la responsabilità all’EDF.

 

La diffusione massiccia dell’energia nucleare, una volta raggiunta la maturità economica, dovrebbe essere responsabilità di un industriale come EDF, e non di un’organizzazione scientifica come la CEA. D’altra parte, si pone la questione della responsabilità della fase intermedia dei dimostratori industriali UNGG tra le fasi dei prototipi G1, G2, G3 di Marcoule (commissionati alla fine degli anni ’50) e il dispiegamento a lungo termine. La discussione fu inizialmente difficile tra la CEA e l’EDF, ma Pierre Taranger, della CEA, era convinto che l’EDF sarebbe stato il più adatto ad aumentare significativamente le dimensioni delle unità e a rischiare su soluzioni innovative che avrebbero permesso di testare realmente il potenziale economico della tecnologia e quindi di ottenere i guadagni necessari durante il dispiegamento.

 

Nel 1954, la decisione è stata presa rapidamente da Pierre Guillaumat e Roger Gaspard (direttore generale di EDF): EDF sarà l’appaltatore principale e l’operatore delle tre unità di Chinon: Chinon A1, iniziata nel 1957, 70 MW; Chinon A2, nel 1959, 210 MW; Chinon A3, nel 1961, 460 MW. La CEA è responsabile della parte nucleare e le due entità devono collaborare su tutti i temi. EDF doveva assumere il ruolo di architetto industriale e di gestore del progetto in una modalità “idraulica” non standardizzata, adattando le dimensioni della struttura alla geografia del sito e lasciando a ogni regione di attrezzature EDF la libertà di scegliere i propri fornitori. Questo è ancora in gran parte il caso dell’energia termica convenzionale, dove, sebbene esista una politica di fasi standardizzate di dimensioni – 125 MW, poi 250 MW, prima di 600 MW a carbone e olio combustibile e 700 MW a olio combustibile – le regioni di attrezzature di EDF sono molto autonome nell’adattarsi ai siti e nella scelta dei contratti e dei fornitori industriali. Questo decentramento del reparto apparecchiature, in parte ereditato dalla storia frammentata del settore elettrico prima della nazionalizzazione del 1946, è accompagnato da una forte concorrenza tra i fornitori basata sulla suddivisione in centinaia di lotti. Anche in questo caso, troviamo l’eredità di un tessuto industriale poco concentrato, che dovrà continuare ad aumentare le proprie competenze e la propria capacità di assumersi la responsabilità di sottosistemi più ampi.

 

Il contesto internazionale sta cambiando e gli attori francesi dovranno essere in grado di reagire rapidamente per approfittare delle circostanze favorevoli. Gli americani hanno cambiato atteggiamento e, alla fine degli anni Cinquanta, si sono dimostrati favorevoli alla cooperazione con gli alleati europei nel campo dell’energia nucleare civile; erano pronti a fornire il combustibile arricchito necessario per utilizzare le nuove tecnologie ad acqua leggera e i primi dimostratori industriali stazionari sono stati messi in servizio negli Stati Uniti: per la tecnologia ad acqua pressurizzata, alla fine del 1957 entrò in funzione l’impianto di Shippingport da 60 MW (derivato direttamente dal sottomarino Nautilus), mentre nel 1960 entrò in funzione Yankee Rowe (170 MW), da cui era stato derivato il progetto di Chooz A. Questa è stata la prima generazione di energia nucleare civile negli Stati Uniti.

 

La Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom) è stata creata da un trattato specifico firmato a Roma, contemporaneamente al trattato che istituiva la CEE nel 1957, ed è entrata in vigore nel gennaio 1958. Il suo scopo era quello di promuovere la cooperazione europea nel campo dell’energia nucleare civile. Dall’inizio del 1958 al febbraio 1959 fu presieduto da Louis Armand, politecnico e ingegnere del Corpo delle Miniere, membro della Resistenza, direttore generale e poi presidente della SNCF, grande ingegnere e professore all’École nationale d’administration (ENA) su questioni industriali ed energetiche dal 1945 al 1967.

 

I belgi erano particolarmente interessati alla tecnologia dell’acqua leggera. Volevano implementarla insieme ai francesi. EDF, in particolare Pierre Ailleret, era fortemente coinvolto nelle associazioni internazionali – la Conferenza internazionale dei grandi sistemi elettrici (Cigre), l’Unione internazionale dei produttori e distributori di energia elettrica (Unipede), il Consiglio mondiale dell’energia (WEC), ecc. Raymond Giguet, ex direttore delle apparecchiature e all’origine, con Pierre Massé, della Nota Blu, uno strumento economico per aiutare nella scelta degli investimenti, vicedirettore generale di EDF, è molto favorevole a questa opzione in aggiunta all’UNGG, data la semplicità e la robustezza del suo design. Pierre Ailleret, pur essendo piuttosto partigiano all’interno di EDF dell’UNGG, è anche disposto a guardare più da vicino le interessanti soluzioni americane sviluppate da General Electric e Westinghouse. Gli ingegneri di Creusot-Schneider, molto interessati all’energia nucleare, sotto l’impulso di Charles Schneider e dell’ingegnere Maurice Aragou, erano un po’ scettici sulla qualità delle prime realizzazioni americane (giustamente), ma erano pronti a investire in considerazione della forte relazione storica con Westinghouse, di cui già detenevano alcune licenze in diversi campi.

 

La Société d’énergie nucléaire franco-belge des Ardennes (SENA) fu costituita nel 1960 da EDF e da diverse società elettriche belghe per la costruzione e la gestione dell’impianto nell’ambito di Euratom. Il generale de Gaulle diede il suo consenso di principio a condizione che il sito fosse situato in Francia e che EDF ne possedesse il 50% e lo gestisse. Nel 1959 fu costituito un consorzio per rispondere alla gara d’appalto indetta dal SENA per la gestione della licenza Westinghouse, sul modello della centrale di Yankee Rowe negli Stati Uniti, con una capacità installata di 250 MW: Framatome, una società franco-americana di costruzioni atomiche presieduta da Maurice Aragou (di Creusot-Schneider), e inizialmente posseduta al 60% da Schneider, al 30% da Empain e al 10% da Westinghouse. Il consorzio vinse la gara d’appalto e i lavori di ingegneria civile iniziarono nel 1962. Tutto ciò permise a EDF di muovere i primi passi, insieme ai belgi, nel settore dell’acqua pressurizzata e di sperimentare diversi rapporti contrattuali e tecnici con gli industriali responsabili dei principali sistemi dell’impianto.

 

2

Dal 1960 al 1971, dai dimostratori industriali alla scelta del tipo di impianto da realizzare

 

Note

  1. Si tratta di una rottura netta di un materiale senza deformazione plastica macroscopica sotto l’azione di una sollecitazione e in determinate circostanze specifiche (esistenza di un difetto, condizioni di temperatura-pressione, ecc.)
  2. Cfr. Georges Lamiral, op. cit. 1, p. 87-88.
  3. Cfr. Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, op. cit. p. 137.
  4. Siemens e AEG sono tradizionalmente legate a Westinghouse e General Electric e sono in grado di costruire centrali elettriche.
  5. Georges Lamiral, op. cit. 1, p. 355-356.
  6. Ibidem, pp. 145-146.
  7. Bernard Esambert rimase in carica nel 1968 con Maurice Couve de Murville come Primo Ministro, poi si unì a Georges Pompidou che divenne Presidente della Repubblica nel giugno 1969. Svolse un ruolo importante nei grandi programmi industriali di questo periodo, promossi da Georges Pompidou (cfr. Bernard Esambert, Pompidou, capitaine d’industries, Odile Jacob, 1994).
  8. Cfr. Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, op. cit. p. 165-166.
  9. Cfr. la nota al Piano di Jacques Lacoste e la lettera di André Decelle citata in precedenza.
  10. Cfr. Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, op. cit. pp. 165-166.

Dubbi e dibattiti tra ingegneri e industriali

 

Questo lungo decennio di costruzione di dimostratori industriali sotto la responsabilità di EDF e con un forte coinvolgimento industriale della CEA sulla parte nucleare illustra le sfide tecniche e industriali da affrontare. I problemi tecnici saranno ricorrenti e importanti, con conseguenze significative sui tempi di costruzione e sull’indisponibilità delle unità nei primi anni. Questo è in particolare il caso delle tre unità UNGG di Chinon, ma anche di Chooz A.

 

Durante la costruzione della centrale A1 di Chinon, nel febbraio 1959, si sviluppò improvvisamente una fessura di circa dieci metri di lunghezza sul cassone in acciaio (quelli successivi erano in cemento armato precompresso), con le caratteristiche del fenomeno della “frattura fragile “17 . Yvon Bonnard, ingegnere capo del dipartimento di ingegneria navale, fu mobilitato per ricorrere alle competenze del laboratorio di metallurgia della Marina francese di Indret. Problemi simili si presentarono anche negli Stati Uniti con le grandi navi d’acciaio per le centrali elettriche ad acqua leggera all’inizio degli anni ’60 e le soluzioni trovate permisero di aumentare significativamente le dimensioni delle unità dei reattori ad acqua leggera.

 

All’inizio del suo funzionamento, Chinon A3 subì una serie di incidenti che impedirono la visita prevista dal generale de Gaulle nell’autunno del 1966 e ne posticiparono la messa in funzione di due anni. Questi incidenti erano in particolare legati alla complessità del sistema di manipolazione del combustibile e di rilevamento delle rotture del rivestimento, nonché a una cattiva progettazione dell’impianto (insufficiente considerazione dell’espansione termica e delle sollecitazioni dei tubi di acciaio inossidabile utilizzati per il campionamento necessario a rilevare le rotture del rivestimento)18 .

 

Anche Chooz A ha subito diversi incidenti gravi che ne hanno posticipato la messa in servizio di due anni (1970 anziché 1967-1968), in particolare le viti di assemblaggio del nocciolo del reattore che si sono allentate a causa delle vibrazioni provocate dal flusso idraulico19.

 

Grazie alla qualità dell’organizzazione e alla cooperazione industriale e tecnica tra gli attori industriali (EDF, CEA, fornitori e uffici di progettazione) e alle competenze acquisite nel decennio precedente, questi problemi multipli sono stati un’opportunità per progredire collettivamente nella comprensione dei fenomeni fisici e nella capacità di trovare e implementare rapidamente soluzioni. Tuttavia, il metodo UNGG appare molto complicato rispetto alle centrali ad acqua leggera (si veda il sistema continuo di scarico-ricarica di una miriade di elementi di combustibile) e, con serbatoi già molto grandi (con la grafite come moderatore per poter utilizzare l’uranio naturale), sembra a priori molto difficile aumentare le dimensioni delle unità oltre i 500 MW (i PWR sono più compatti a parità di potenza installata).

 

Nel 1964, la decisione di principio di impiegare massicciamente l’UNGG nel decennio fu comunque presa in un piccolo consiglio a Matignon, sotto la presidenza di Georges Pompidou, allora primo ministro. Il prezzo dell’olio combustibile era ancora alto, le lezioni delle difficoltà dell’UNGG non erano ancora state analizzate collettivamente e le prestazioni dei primi impianti americani ad acqua leggera non erano eccellenti. Le tre unità UNGG di Saint-Laurent-des-Eaux A1 e A2 e Bugey 1 (da 500 a 550 MW) furono messe in funzione nel 1964 e nel 1965 e sarebbero state le ultime in Francia.

 

Un anno dopo, durante la riunione di programma CEA-EDF del 14 dicembre 1965, presieduta dall’amministratore generale Robert Hirsch e dall’alto commissario CEA Francis Perrin, il direttore generale André Decelle e il presidente di EDF Pierre Massé, Francis Perrin e André Decelle si interrogarono sull’interesse di aprire l’opzione dei reattori ad acqua leggera alla luce dei nuovi elementi raccolti di recente. Negli Stati Uniti, Westinghouse e General Electric hanno imparato dai problemi incontrati nella prima generazione di reattori e stanno proponendo agli elettricisti americani ed europei centrali di seconda generazione a prezzi molto interessanti (e con unità più grandi). Washington era pronta a offrire combustibile arricchito a condizioni economiche interessanti, vista la sovraccapacità americana. Nello stesso anno, il 1964, il Regno Unito decise di abbandonare il suo reattore a uranio naturale (Magnox) a causa dei costi eccessivi in un contesto di calo dei prezzi dell’olio combustibile. Il governo britannico optò per l’Advanced Gas-cooled Reactor (AGR), un miglioramento del Magnox con combustibile a uranio arricchito di diversa concezione, e i dirigenti del Central Electricity Generating Board (CEGB) dissero chiaramente ai loro omologhi dell’EDF che era stato un errore non scegliere i reattori americani ad acqua leggera. Nel 1965, gli elettricisti tedeschi, che stavano iniziando a utilizzare le tecnologie americane20 , proposero a EDF di realizzare insieme uno studio economico di confronto tra UNGG e acqua leggera per esaminare l’opportunità di realizzare un progetto UNGG congiunto con i francesi a Fessenheim. Al termine di questo studio, l’acqua leggera è risultata molto più economica.

 

La questione della sovranità dell’acqua leggera è soggetta a valutazioni diverse a causa dell’evoluzione dei dati relativi a due punti essenziali: l’arricchimento e la possibilità di “affrancamento” della licenza Westinghouse. L’impianto di arricchimento militare di Pierrelatte è entrato gradualmente in funzione tra il 1964 e il 1967 (sotto la direzione di Georges Besse). Philippe Boulin, per Creusot-Schneider e la linea ad acqua pressurizzata di Westinghouse, e Ambroise Roux, per CGE e la linea ad acqua bollente di General Electric, erano convinti che la seconda generazione, che si stava rapidamente diffondendo negli Stati Uniti e veniva proposta agli europei, fosse economicamente e tecnicamente più efficiente. La costruzione del reattore Chooz A da parte della Société des forges et ateliers du Creusot (Sfac), parte del gruppo Creusot-Schneider, fu un successo industriale. Le competenze metallurgiche dei francesi interessarono e impressionarono particolarmente Westinghouse, alla quale gli americani ordinarono in seguito sette reattori ad acqua pressurizzata. In particolare, le fucine Creusot utilizzarono per la prima volta il “metodo di calcolo agli elementi finiti” (all’avanguardia nei metodi di calcolo tecnico-scientifici) e si avvalsero della consulenza di Yvon Bonnard per migliorare la composizione dell’acciaio. Come sottolinea Georges Lamiral analizzando il funzionamento dell’industria francese in questo periodo: “I francesi commettono talvolta errori e fallimenti, ma una delle loro principali qualità è quella di saper reagire rapidamente”. Le prestazioni delle fucine Creusot, il tessuto industriale francese e le competenze del CEA-EDF-Framatome in materia di reattori ad acqua pressurizzata resero possibile la prospettiva di affrancamento della licenza Westinghouse.

 

In tre anni, dal 1963 al 1966, gli attori industriali francesi discussero la scelta dei reattori negli organismi di lavoro collettivo di più alto livello (commissione PEON, comitati EDF-CEA, ecc.), in modo tanto professionale quanto conflittuale, e si convinsero collettivamente che le due opzioni, UNGG e acqua leggera, dovevano essere aperte. La “frattura” si è verificata anche all’interno di EDF e della CEA: André Decelle, direttore generale di EDF, ha spinto per l’acqua leggera, mentre Pierre Ailleret, vicedirettore generale di EDF, ha sostenuto l’UNGG. Il vigore delle discussioni va di pari passo con la loro qualità tecnica ed economica e con la presa in considerazione di nuovi dati internazionali e di questioni industriali e di sovranità. La loro convergenza “relativa” fu quindi piuttosto rapida. Il 7 marzo 1966, André Decelle (EDF) inviò una lettera a Robert Hirsch (CEA) per spiegare queste questioni. Il 4 maggio 1966, il direttore generale dell’EDF e il direttore generale del CEA hanno istituito la commissione Cabanius-Horowitz (dal nome rispettivamente del direttore delle apparecchiature dell’EDF e del direttore delle batterie atomiche del CEA), con il compito di redigere un rapporto di sintesi che metta a confronto l’UNGG, l’acqua leggera (pressurizzata e bollente) e l’olio termico. Questo rapporto congiunto EDF-CEA dovrebbe servire come base per le discussioni della commissione PEON, che ha il compito di consigliare il governo sulla strategia nucleare civile. Il rapporto EDF-CEA, favorevole alle tecnologie ad acqua leggera, è stato presentato nel giugno 1967 e la commissione PEON ha raccomandato, nell’aprile 1968, di proseguire la costruzione delle UNGG con le prossime due unità a Fessenheim e, soprattutto, di testare l’acqua leggera su scala reale mettendo rapidamente in funzione una nuova unità in Francia.

 

Una prima gara d’appalto per due unità UNGG a Fessenheim, lanciata da EDF nell’ottobre 1968, si rivelò troppo costosa. Rifletteva la riluttanza degli industriali a impegnarsi nella realizzazione di questo tipo di impianti. Alla fine del 1969, dopo il via libera di Georges Pompidou, divenuto Presidente della Repubblica, fu indetta una seconda gara d’appalto per Fessenheim. Framatome presentò un’offerta industriale credibile con prezzi competitivi. Una gara d’appalto simile seguì rapidamente per due unità a Bugey. Dal 1967 al 1971, le autorità politiche disponevano quindi della sovranità e degli elementi tecnico-economici necessari per scegliere l’opzione nucleare, con argomenti convincenti a favore dell’acqua leggera. Ma le centrali a olio combustibile erano più attraenti del nucleare a breve termine, compresa l’acqua leggera, con i prezzi del petrolio ancora in calo. Tuttavia, Jacques Lacoste, consigliere di Marcel Boiteux, divenuto direttore generale di EDF nel 1967 dopo aver diretto il Dipartimento di Studi Economici Generali, scrisse una nota importante e premonitrice che indirizzò al Piano per sottolineare i rischi geopolitici che l’eccessiva dipendenza della Francia dal petrolio comportava a lungo termine, e di conseguenza la necessità di dare visibilità e prospettive al settore nucleare. Così l’industria non si impegnò a costruire nuove unità dal 1966 al 1971. Durante questo periodo, l’industria era in attesa di decisioni politiche. Per convincersene, basta leggere la lettera del 7 novembre 1968 di André Decelle, allora Consigliere di Stato, indirizzata ad André Bettencourt, Ministro dell’Industria, in cui si proponeva un rapido piano di rilancio per preservare le competenze dell’industria nucleare e il tessuto industriale22.

 

La riflessione e le decisioni politiche sulla scelta dei settori: 1966-1971

 

Tra il 1966 e il 1969, il punto di vista del generale de Gaulle si evolve progressivamente a favore della tecnica dell’acqua leggera. Nel settembre 1967, espresse la sua insoddisfazione nei confronti dell’EDF di fronte ai ritardi e alle difficoltà del programma UNGG (la visita a Chinon A3, annullata nel 1966, fu sostituita da quella alla centrale mareomotrice di Rance) e di fronte agli insuccessi nella realizzazione dell’unità termica da 250 MW, legati in particolare a un’insufficiente standardizzazione, causa di sforamenti dei costi e di ritardi nel completamento. André Decelle e Pierre Ailleret, direttore generale e vicedirettore generale di EDF, sono stati sostituiti da Marcel Boiteux e Charles Chevrier. Georges Pompidou, rinominato Primo Ministro dopo le elezioni legislative della primavera del 1967, era piuttosto favorevole alla tecnica dell’acqua leggera, a differenza di Maurice Schumann, Ministro di Stato per la Ricerca Scientifica e le Questioni Atomiche e Spaziali.

 

Durante il Consiglio interministeriale del 7 dicembre 1967, il generale de Gaulle espresse nuovamente la sua insoddisfazione al presidente di EDF, Pierre Massé, che era presente in quel momento. Si decise di avviare la costruzione di due reattori UNGG a Fessenheim e, per mantenere aperta l’opzione dell’acqua leggera, di studiare un impianto di arricchimento per scopi civili, che sarebbe stato essenziale per la sovranità del Paese se avesse fatto un uso significativo dell’opzione dell’acqua leggera. È stato inoltre deciso di autorizzare EDF a partecipare alla costruzione di una centrale ad acqua leggera di seconda generazione a Tihange, in Belgio, insieme ai belgi. Si tratterà di una centrale ad acqua pressurizzata basata sul modello Beaver Valley, che è stato poi scelto per Fessenheim. Va notato che lo studio di un’altra centrale ad acqua leggera, con gli svizzeri, che doveva essere una centrale ad acqua bollente, era stato appena autorizzato a Kaiseraugst nel luglio 1967, ma il progetto fu infine abbandonato.

 

Nel settembre 1967, Bernard Esambert, un giovane funzionario del Corpo delle Miniere, fu nominato consigliere industriale del Primo Ministro Georges Pompidou23 . La decisione presa nel dicembre 1967 di costruire due UNGG a Fessenheim non era in linea con quella che, con il rapporto Cabanius-Horowitz, cominciava a essere la visione quasi condivisa dei dirigenti di EDF e CEA. L’argomento è complesso, molto controverso e non ben compreso a livello politico. Il ruolo dei consulenti nei gabinetti ministeriali o all’Eliseo non era quello di sostituirsi ai servizi statali o agli enti pubblici, ma di attingere alle loro competenze aprendosi a punti di vista esterni per dare spessore alla diagnosi e consentire ai leader politici di andare a fondo della questione. Questo lavoro permise a Georges Pompidou, così come ad alcuni dei suoi ministri che sarebbero rimasti in carica con Maurice Couve de Murville, di appropriarsi della diagnosi: l’opzione dell’acqua leggera aveva il miglior potenziale, era ormai possibile “francesizzare” le tecnologie americane, e se gli altri europei non avessero facilitato la partecipazione di EDF all’ultracentrifugazione per l’arricchimento, sarebbe stato necessario sviluppare un impianto civile con la tecnologia francese della diffusione gassosa proponendo agli europei interessati di partecipare. Georges Pompidou trasmise questi elementi al generale de Gaulle, senza alcun riscontro positivo. Egli lasciò l’incarico all’inizio di luglio del 1968 (Maurice Couve de Murville divenne allora Primo Ministro), ma tornò come Presidente della Repubblica nel giugno del 1969 con la stessa convinzione.

 

Il rapporto della commissione PEON presentato al governo nell’aprile 1968 sottolineava l’interesse dell’acqua leggera rispetto all’UNGG e raccomandava la costruzione di un’unità ad acqua leggera in Francia dopo le due UNGG di Fessenheim, per testare questa nuova generazione e verificarne l’interesse per il futuro. Nel luglio 1968 si tenne un decisivo consiglio dei ministri su questo tema, con Maurice Couve de Murville, Primo Ministro, André Bettencourt, Ministro dell’Industria, e Robert Galley, Ministro delegato alla Ricerca Scientifica e alle Questioni Atomiche e Spaziali. André Bettencourt si prese il tempo necessario per entrare nel vivo della questione (basandosi in particolare sugli elementi preparati da Roger Ginnochio, ex vicedirettore della produzione/trasporti di EDF e membro del suo gabinetto) per riferire al Generale de Gaulle al Consiglio dei Ministri24 . Il Generale ascoltò con interesse e indicò che le cose dovevano essere rimesse in carreggiata e la decisione sulle due unità UNGG a Fessenheim riconsiderata. In quel periodo fu completato l’impianto di arricchimento di Pierrelatte.

 

Nell’ottobre 1968, il ritorno della gara d’appalto per l’UNGG di Fessenheim presentava clausole inaccettabili e prezzi troppo alti per EDF. Gli industriali hanno puntato su una tecnologia che sembrava loro rischiosa. Inoltre, i prezzi dell’olio combustibile pesante sono ai minimi e più interessanti. Nel contesto delle difficoltà di finanziamento pubblico a seguito degli eventi del maggio 1968, si è quindi tentati di rimandare di qualche anno qualsiasi ulteriore impegno nucleare a favore dell’olio combustibile. Tuttavia, gli attori industriali richiamarono l’attenzione delle autorità pubbliche sulla necessità di dare una visibilità a medio-lungo termine agli industriali per preservare le competenze in assenza di impegni in nuove centrali dal 1966 e per tenere pronta l’opzione nucleare di fronte ai rischi geopolitici sul petrolio25. Nel gennaio 1969, il generale de Gaulle, ricevendo Pierre Delouvrier quando quest’ultimo stava per sostituire Pierre Massé alla presidenza dell’EDF, si dichiarò d’accordo con l’acqua leggera, a condizione che venisse creato un impianto di arricchimento civile26.

 

Georges Pompidou, eletto Presidente della Repubblica nel giugno 1969 e già convinto nel 1968 come Primo Ministro dell’interesse dell’acqua leggera, decise nel febbraio 1971 di impiegarla nel decennio successivo. In occasione del Consiglio interministeriale ristretto del 13 novembre 1969, decise di abbandonare le due unità UNGG previste a Fessenheim alla luce dei risultati della gara d’appalto indetta da EDF. La società pubblica avrebbe dovuto costruire a Fessenheim due unità ad acqua leggera, pressurizzata o bollente.

 

Nel febbraio 1970, EDF indisse una nuova gara d’appalto per Fessenheim con Framatome-Sfac per la tecnologia Westinghouse e CGE per la tecnologia General Electric. La proposta di Framatome si basava, come per Tihange, sulla seconda generazione di reattori ad acqua pressurizzata, molto più efficienti di Chooz A (basato sul progetto dell’impianto di Beaver Valley ordinato dagli Stati Uniti nel 1967). Philippe Boulin, a capo di Creusot-Loire, e il suo team hanno azzardato un’offerta che anticipava la costruzione di una serie di centrali, riducendo così i costi. La sua offerta, nettamente migliore di quella di CGE, fu quindi selezionata. Seguì rapidamente una seconda gara d’appalto per Bugey, dove fu nuovamente selezionata Framatome.

 

Nel novembre 1970, la commissione PEON raccomandò la costruzione di 8.000 MW di energia nucleare ad acqua leggera (da otto a dieci unità) tra il 1971 e il 1975. Un consiglio ristretto riunitosi all’Eliseo il 26 febbraio 1971 ha accolto questa raccomandazione, autorizzando l’impegno di tre nuove unità per il 1971 e il 1972. EDF si preparò a un ritmo di impegno di una o due unità all’anno nel corso del decennio, mentre il ritmo previsto dal contratto di programma firmato tra EDF e lo Stato, a seguito del rapporto Nora, era di due unità all’anno. Cinque unità sono state impegnate nel 1971, 1972 e 1973, prima della prima crisi petrolifera.

 

3

Dal 1972 al 1975, gli shock petroliferi e la preparazione industriale di un dispiegamento massiccio e standardizzato di acqua pressurizzata

 

Note

  1. Anche in questo caso, i punti di vista degli attori industriali sono stati contrapposti, anche se, in EDF, Michel Hug non era molto favorevole all’ebollizione (aveva lavorato sui problemi di cavitazione), e Marcel Boiteux e Paul Delouvrier erano favorevoli alla standardizzazione piuttosto che alla concorrenza tra due settori (su questa “battaglia dei settori nucleari”, si veda Marcel Boiteux, Haute tension, Odile Jacob, 1993, p. 137-156).
  2. Cfr. la nota di Michel Hug del 5 dicembre 1973, che definisce le nuove regole del gioco e crea la

Si veda la nota di Michel Hug del 5 dicembre 1973, che definisce le nuove regole del gioco e crea il Comitato dei responsabili degli studi, inizialmente guidato da Denis Gaussot, direttore del Septen dal 1972 al 1976 (Georges Lamiral, op. cit., vol. 2, p. 127).

  1. Cfr. Cyril Foasso, Histoire de la sûreté de l’énergie nucléaire civile en France (1945-2000) : technique d’ingénieur, processus d’expertise, question de société, tesi di dottorato, Université Lyon-II, 28 ottobre 2003.

La strutturazione e la reazione politica su larga scala alla crisi petrolifera e all’abbandono del settore dell’acqua bollente

 

Gli shock petroliferi dell’ottobre 1973 e del gennaio 1974 portarono a quadruplicare il prezzo del barile di petrolio in meno di quattro mesi: in pochi giorni, il costo dell’importazione di petrolio per la Francia passò da meno dell’1,5% del PIL a quasi il 5%. Il 22 novembre 1973, il Consiglio interministeriale presieduto da Pierre Messmer, primo ministro, ratificò il progetto di un impianto di arricchimento a Tricastin, Eurodif, diretto da Georges Besse, che aveva lanciato il progetto all’inizio del 1974. Il 30 novembre 1973 Pierre Messmer si rivolge ai francesi per annunciare una serie di misure di risparmio energetico. Era l’inizio di un’operazione di “risparmio energetico” che avrebbe stabilizzato il consumo di energia del Paese nell’arco di un decennio. Il 6 marzo 1974, il Consiglio interministeriale presieduto da Georges Pompidou decise quello che sarebbe stato chiamato il “piano Messmer”, elaborato sulla base delle proposte della commissione PEON: impegno di sei unità nucleari di circa 1.000 MW nel 1974, poi sette unità nel 1975, mantenendo l’obiettivo di una coesistenza e di un’emulazione tra le due tecnologie ad acqua leggera (Westinghouse e General Electric). Nell’agosto 1975, data la sua debolezza industriale sull’isola nucleare rispetto a Creusot-Loire-Framatome, CGE rinunciò allo sviluppo della linea di ebollizione di General Electric. Il governo avrebbe rinunciato alla competizione sulla caldaia e sul turbogeneratore, mentre EDF avrebbe lavorato con gli industriali e la CEA per mettere l’industria in ordine di battaglia per affrontare questo nuovo periodo e queste nuove sfide associate a un dispiegamento su vasta scala per più di un decennio (1975-1990)27 .

 

L’industria in ordine di battaglia per una transizione energetica senza precedenti

 

Tutti gli attori erano consapevoli della necessità di cambiare nuovamente software rispetto ai periodi precedenti, sia in termini di organizzazione e metodi operativi, sia di fronte alle nuove sfide industriali ed economiche associate all’attuazione di un programma di costruzione particolarmente ambizioso.

 

Nel 1967, la Divisione Apparecchiature di EDF, a causa della sua storia, era composta da una quindicina di regioni di apparecchiature gelose della loro autonomia, ognuna con i propri uffici di progettazione e abituate a competere su centinaia di lotti con un’industria frammentata e con scarse capacità di progettazione. A partire dal 1967-1968, l’azienda si preparò a un impiego standardizzato, traendo insegnamento dal difficile avvio della fase termica da 250 MW, legato a questa assenza di dottrina tecnica e a questo eccessivo decentramento. Allo stesso tempo, si trattava della fine graduale dei grandi programmi idraulici – la maggior parte dei siti era attrezzata – che si basavano naturalmente su approcci “su misura”. Nel 1968, Charles Chevrier, vicedirettore generale, creò il Septen, che avrebbe avuto la responsabilità tecnica della progettazione delle apparecchiature termiche e nucleari. Dal 1972 al 1976, Michel Hug, Direttore dell’Equipaggiamento, ha riorganizzato le regioni dell’equipaggiamento e nel 1973 ha creato il comitato dei responsabili degli studi delle regioni dell’equipaggiamento28 : questo comitato controlla e decide, su delega del Direttore dell’Equipaggiamento, su tutti gli argomenti chiave riguardanti la progettazione delle fasi tecniche; è presieduto dal capo del Septen e decide sulla base di un consenso tecnico che viene poi imposto a tutte le regioni. Alcune regioni sono responsabili dei principali pacchetti di teste portanti, in particolare la caldaia nucleare e il gruppo generatore della turbina.

 

EDF intende inoltre adattare le proprie relazioni contrattuali a un tessuto industriale più concentrato, meglio attrezzato con uffici di progettazione e in grado di assumersi la responsabilità di sottosistemi tecnici più grandi. Soprattutto, l’azienda rinuncerà alla competizione tra i suoi fornitori per due importanti lotti: la caldaia nucleare, con Framatome, e il gruppo turbogeneratore, con Alsthom. Con le scuole professionali saranno avviati programmi di formazione molto importanti su tutte le competenze necessarie per la costruzione e il funzionamento di queste unità, e mobiliteremo il know-how degli ex lavoratori idraulici, termici e UNGG. Il tessuto industriale dovrà avere una visibilità a lungo termine, con un controllo tecnico rigoroso della produzione dei componenti chiave e un controllo dell’andamento dei costi. EDF sta inoltre lavorando costantemente allo sviluppo della rete ad altissima tensione, in particolare la rete a 400 kV, essenziale per il trasporto dell’elettricità dai nuovi siti di produzione agli usi in rapida crescita.

 

L’industria è concentrata e ristrutturata intorno a Framatome-Creusot-Loire per la caldaia nucleare (che assorbe le competenze dei gruppi industriali UNGG, G3A, Indatom) e intorno a CGE-Alsthom per la parte dei turbo-alternatori. Framatome costruisce in diciotto mesi un nuovo stabilimento a Saint-Marcel, nella regione di Saône-et-Loire, che diventa operativo alla fine del 1975. Con i suoi due stabilimenti, Creusot-Loire-Framatome avrebbe avuto una capacità produttiva annua di otto serbatoi e di diciotto-ventiquattro generatori di vapore, nonché le migliori competenze per produrre i componenti chiave del circuito primario (la parte “nucleare” dell’impianto). La scommessa dei suoi direttori, Philippe Boulin, Maurice Aragou e Jean-Claude Leny, di far leva sulla loro credibilità industriale e sull’impegno dei politici e di EDF in una serie di unità è stata vinta. Questo permetterà, con l’atteggiamento cooperativo di Westinghouse e la maestria scientifica della CEA (legata in particolare alla sua padronanza dell’acqua leggera per la propulsione nucleare), di “affrancare” la tecnologia Westinghouse in pochi anni. In questo contesto, la CEA acquisì una partecipazione in Framatome nel 1975.

 

André Giraud, amministratore generale della CEA dal 1970 al 1978, riorganizzò le attività della CEA adattando le regole di gestione e le strutture giuridiche alle sue diverse missioni. Nel 1976, Jean Bourgeois, un pioniere della sicurezza nucleare, creò l’Istituto per la protezione e la sicurezza nucleare (IPSN) presso il CEA, che oggi è diventato l’Istituto per la protezione dalle radiazioni e la sicurezza nucleare (IRSN), il supporto tecnico dell’Autorità per la sicurezza nucleare (ASN). Il CEA ha creato filiali per alcune parti industriali, come TechnicAtome nel 1972 (dal dipartimento di costruzione delle batterie) e Cogema per il ciclo a valle nel 1976. Il CEA è particolarmente coinvolto nel controllo industriale dell’intero ciclo del combustibile del settore dell’acqua pressurizzata, da monte, con la fabbricazione del combustibile e soprattutto l’arricchimento (costruzione di Eurodif), a valle, con il ritrattamento del combustibile e la gestione delle scorie nucleari. Tra le personalità che hanno svolto un ruolo importante in questo periodo con André Giraud, possiamo citare Claude Fréjacques, responsabile degli studi sull’arricchimento presso il CEA dal 1957, poi direttore della chimica del CEA negli anni ’70, prima di diventare presidente del CNRS nel 1981.

 

Il controllo della sicurezza è un punto centrale del successo del programma nucleare. All’inizio degli anni ’70 è stata creata una nuova organizzazione per la sicurezza con la creazione, nel 1973, del Service central de sécurité des installations nucléaires (SCSIN) all’interno del Ministero dell’Industria, non più integrato nel CEA. Esso ha potuto contare sulle competenze in materia di sicurezza del CEA, che nel 1976 sono state riunite, come già detto, nell’IPSN sotto la direzione di Jean Bourgeois29. Nel 1991, lo SCSIN è diventato la Direction de la sûreté nucléaire (DSIN), dipendente dal Ministero dell’Industria e dell’Ambiente, poi, nel 2002, la Direction générale de la sûreté nucléaire et de radioprotection (DGSNR), anch’essa dipendente dal Ministero della Salute, prima di diventare, nel 2006, l’ASN, un’autorità amministrativa indipendente.

 

III

Parte

Un’impegnativa preparazione collettiva sostenuta dallo Stato

 

https://www.fondapol.org/etude/souverainete-maitrise-industrielle-et-transition-energetique-1/#chap-3

1

Assunzione di rischi, fallimento e successo nella prospettiva del potere economico e della sovranità

 

Note

  1. Su questo periodo si veda Fondation Charles-de-Gaulle, Défendre la France. L’eredità di

L’eredità di De Gaulle alla luce delle questioni attuali. Actes de colloque, Nouveau Monde Éditions/Ministère des Armées, 2020; Collectif, Puissance et faiblesses de la France industrielle XIXe-XXe siècle, Seuil, coll. “Points histoire”, 1997; Marc Bloch, L’Étrange défaite [1946], Gallimard, coll. “Folio histoire”, 1990; Gaston Berger, Jacques de Bourbon-Busset et Pierre Massé, De la prospective. Textes fondamentaux de la Prospective française 1955-1966, L’Harmattan, 2007; Jean-François Sirinelli, Les Vingt Décisives. Le passé proche de notre avenir (1965-1985), Fayard, 2007 (riedito nella collana “Pluriel”, con una prefazione inedita, 2012).

L’aspetto più sorprendente è senza dubbio il contrasto tra, da un lato, i notevoli risultati della massiccia diffusione del programma negli anni 1975-1990, con costi di investimento da due a tre volte inferiori a quelli degli Stati Uniti e il controllo industriale dell’intera catena del valore (sovranità ed economia), e, dall’altro, i tentativi e le difficoltà che li hanno preceduti dal 1945 al 1975, Abbiamo visto le difficoltà, i tentativi e gli errori, le battute d’arresto tecniche ed economiche a volte considerevoli, e la diversità delle sfide a seconda del periodo – ricerca e prototipi, dimostratori industriali e scelta del settore (o dei settori), preparazione alla diffusione di serie standardizzate -, una diversità di sfide che ha richiesto organizzazioni e competenze molto diverse30. La chiave dell’enigma risiede indubbiamente nella comprensione di questa capacità di rimbalzo e di resilienza per diversi decenni, basata sulla scelta di accettare e assumere queste prove ed errori, questi rischi, con una ripartizione delle responsabilità e delle organizzazioni appropriate e la scelta di personalità impegnate e competenti per l’azione.

 

In questo spirito, quattro ingredienti principali o “quattro elementi” ci sembrano in grado di spiegare questa resilienza e capacità di rimbalzo che hanno permesso un successo eccezionale:

 

una visione politica a lungo termine e bipartisan delle questioni energetiche, basata su scienza e industria;

uno Stato che assume il proprio ruolo nella modernizzazione del Paese in settori chiave come l’energia

un’organizzazione e un funzionamento dello Stato che lo rendano responsabile dei risultati e facilitino l’azione collettiva;

uno Stato che mobiliti le migliori competenze industriali e scientifiche per il processo decisionale e l’azione.

Una visione a lungo termine e un’ambizione portata avanti dai leader politici, condivisa con le élite scientifiche e industriali e con l’alta funzione pubblica: sovranità economica ed energetica, progresso economico e sociale, grazie alla scienza e a un’industria efficiente e potente.

 

Questa visione a lungo termine è interessante ed efficace solo perché accompagnata dall’attenzione e dalla priorità data alla qualità dell’implementazione industriale, ai risultati ottenuti, all’ascolto dei professionisti e alla mobilitazione del loro know-how, anche nello sviluppo delle strategie, e all’ascolto delle opportunità legate agli eventi, anche geopolitici.

 

Una visione che si rifà alla concezione di uno Stato “determinato e misurato”,

impegnato nella modernizzazione economica e industriale del Paese.

 

Per la maggior parte degli attori è chiaro dalla storia, in particolare dal periodo delle due guerre mondiali e dal decennio di crisi economica degli anni ’30, che non si può semplicemente fare affidamento sui settori privati e sui mercati per garantire la sicurezza delle nazioni di fronte ai rischi geopolitici e geoeconomici, né di garantire la prosperità economica quando si verifica un “fallimento del mercato” legato alla presenza di monopoli naturali (reti energetiche o di trasporto), o di “esternalità positive31 ” dovute al riavvicinamento laboratorio-fabbrica o al coordinamento industriale sul controllo a lungo termine di sistemi socio-tecnici complessi, come le reti energetiche o elettriche, o il settore nucleare.

 

Laureato all’Ecole Polytechnique e al Ponts et Chaussées, Pierre Massé è stato successivamente direttore delle attrezzature di EDF, commissario generale per la pianificazione dal 1959 al 1965 e poi presidente di EDF dal 1965 al 1969; Marcel Boiteux, laureato all’Ecole Normale Supérieure, matematico ed economista, è stato capo degli studi economici generali, direttore generale di EDF dal 1967 al 1979 e poi presidente di EDF dal 1979 al 1987. Entrambi hanno guidato, sia all’interno di EDF che nei lavori del Piano, la riflessione sugli strumenti economici rilevanti per attuare le politiche dello Stato e inviare i giusti segnali economici agli attori economici: il tasso di sconto per integrare in modo coerente il costo del finanziamento nella scelta degli investimenti pubblici, la programmazione stocastica dinamica per ottimizzare la scelta degli investimenti tenendo conto delle incertezze e del lungo periodo, la tariffazione al costo marginale di lungo periodo per inviare i giusti incentivi al consumatore in termini di investimenti negli usi, la Nota Blu per decentrare le scelte di investimento e dimensionamento nel settore idraulico (importanza di poter fare “su misura”).

 

Il Piano strutturerà questo lavoro per collocarlo nel quadro sistemico di una previsione di lungo periodo che integri tutti gli attori economici e sociali, i sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro, gli enti locali, le complessità e le incertezze. Questo “obbligo ardente” di pianificazione in Francia è spesso poco conosciuto e mal compreso. In particolare, si dimentica spesso la grande diversità dei profili mobilitati, da Pierre Massé, grande ingegnere e scienziato, a Gaston Berger, direttore generale dell’istruzione superiore dal 1953 al 1960 e filosofo, che fu uno dei primi fenomenologi in Francia a scrivere su Husserl e Heidegger con Emmanuel Levinas. Anche Gaston Berger ha svolto un ruolo decisivo nel lavoro di previsione in Francia, dando grande importanza all’istruzione e alla cultura, oltre che al ruolo centrale degli attori, alla loro libertà e ai loro vincoli.

 

Uno di questi grandi ingegneri, Louis Armand, a capo della SNCF e poi dell’Euratom, era un industriale, uno scienziato e un servitore dello Stato e per più di due decenni ha tenuto agli studenti dell’ENA corsi notevoli di pedagogia e di precisione concreta sulle poste in gioco tecniche, economiche e sociali dell’energia e dell’industria per la Francia. Non è certo che i decenni successivi abbiano offerto un approccio così approfondito e sistemico alle classi che si sono succedute all’ENA o all’École Polytechnique. Il successo di tutti questi ambiziosi obiettivi in termini di sviluppo economico e sociale era tutt’altro che assicurato, dopo tre decenni di guerra, crisi e declino in Francia. La maggior parte di questi attori era abitata dall’importanza delle incertezze e dalla necessità di rimanere modesti e prudenti, pur essendo determinati a uscire dal comportamento spesso malthusiano, egoista e retrogrado che Marc Bloch aveva così bene analizzato. È stato più negli anni ’70 e ’80 che questa modestia è stata troppo spesso abbandonata, lasciando talvolta il posto a tecnocrazie che hanno confuso la scienza con lo scientismo e hanno trasformato la speranza di progresso in certezza.

 

Organizzazione statale per l’azione e la realizzazione di grandi progetti industriali di interesse generale

 

Questa organizzazione si basava in particolare su :

 

enti industriali e/o scientifici come il CEA e l’EDF, o dipartimenti governativi come la Direzione dell’Energia e delle Materie Prime (DGEMP), prima denominata Segretariato Generale dell’Energia dal 1963 al 1973, poi Delegazione Generale dell’Energia dal 1974 al 1978. Jean Blancard fu quindi Delegato Generale per l’Energia nel 1974-1975, dopo essere stato Delegato Ministeriale per gli Armamenti dal 1968 al 1974, con forti responsabilità in campi coerenti e sufficientemente vasti per sentirsi davvero responsabile del futuro del Paese in questi settori, integrando la dimensione sistemica e quella industriale. La creazione da parte del generale de Gaulle, nel 1961, del Centre national d’études spatiales (Cnes) nel settore spaziale e della Délégation ministérielle pour l’armement (DMA), poi divenuta Direction générale de l’armement (DGA), rientravano nella stessa logica: l’obiettivo era quello di “trasformare il mondo” e i servizi statali erano responsabili della coerenza delle regole concrete del gioco con gli obiettivi;

uno Stato efficiente che funziona sotto l’autorità del politico, che polarizza le energie, ascolta gli attori e decide in modo pragmatico. Si tratta di giungere rapidamente a soluzioni attraverso istituzioni che gestiscano i conflitti e confrontino i punti di vista a livello di competenze rilevanti: consigli ministeriali ristretti, commissione Plan e PEON, comitati CEA-EDF, comitato dei responsabili delle regioni di equipaggiamento all’interno del FES, ecc.

Uno Stato con le migliori competenze industriali e scientifiche.

 

Lo Stato si avvaleva quindi, sia all’interno che all’esterno, delle migliori competenze industriali e scientifiche portate da uomini animati da questa visione collettiva e addestrati all’azione e all’attuazione: EDF era stata creata dalla nazionalizzazione di più di mille imprese nel 1946 e la maggior parte dei suoi dirigenti aveva realizzato progetti, costruito centrali e reti, nell’ambito delle imprese private del periodo tra le due guerre (Pierre Massé, Pierre Ailleret, André Decelle). La CEA era gestita da industriali come Pierre Guillaumat e Pierre Taranger, e da grandi scienziati come Francis Perrin e Jules Horowitz. E fornitori industriali come Creusot-Schneider (Charles Schneider, Philippe Boulin, Maurice Aragou, Jean-Claude Leny), CGE o Saint-Gobain erano coinvolti nelle discussioni. Questi uomini, per il loro passato industriale e anche, per molti di loro, per il loro passato di combattenti della Resistenza e di francesi liberi, erano abituati a mettersi in gioco, a non evitare il conflitto, a rischiare e a sentirsi responsabili individualmente e collettivamente dell’insieme.

 

Possiamo quindi vedere chiaramente l’emergere di una concezione forte e precisa del ruolo dello Stato nel campo del controllo industriale al servizio della sovranità e del potere economico, con un’organizzazione dello Stato snella, coerente e responsabilizzante e, al centro dello Stato, competenze industriali e scientifiche dotate di esperienza d’azione e preoccupazione per la realizzazione operativa. Questa organizzazione e queste competenze industriali e scientifiche sono in diretta interazione con i politici, che le interpellano e le coinvolgono nei loro processi decisionali. I politici forniscono la visione e si aspettano risultati dall’industria, ma anche iniziative e gestione cooperativa dei conflitti tra di loro. E, alla fine, sono loro che, ascoltando la posta in gioco e le circostanze geopolitiche, decidono le opzioni strategiche nei momenti chiave e la cooperazione internazionale.

 

2

Sovranità ed efficienza economica attraverso il controllo industriale e la cooperazione internazionale mirata

 

La sovranità energetica viene spesso contrapposta all’efficienza economica attraverso il commercio e la cooperazione internazionale. Secondo questa visione, qualsiasi politica industriale comporterebbe protezionismo, regolamenti e sussidi, con costi aggiuntivi significativi per l’economia e i contribuenti. L’analisi della storia del programma nucleare francese dimostra che questo, lungi dall’essere una fatalità, può essere esattamente il contrario, se comprendiamo che il controllo industriale di un settore chiave da parte del tessuto industriale di un Paese è un fattore comune di progresso economico e sociale e di autonomia strategica. Ci rendiamo anche conto che se questo controllo industriale richiede l’intervento dello Stato in settori come il sistema elettrico e l’energia nucleare, non si tratta di un intervento qualsiasi: un intervento mirato a questioni di sovranità e “fallimenti del mercato”, e basato su un alto livello di competenza industriale al servizio dell’interesse generale. Abbiamo visto che questo intervento, pur assumendo forme diverse a seconda del periodo (prototipi/dimostratori industriali/dispiegamento su larga scala), deve sempre articolare le due preoccupazioni: sovranità ed efficienza economica. È chiaro che la diffusione su larga scala di una tecnologia di produzione di energia elettrica meno competitiva di quella di altri grandi Paesi segnerebbe la fine del potere economico e quindi della sovranità: come ricordava spesso il generale de Gaulle, il potere industriale ed economico di un Paese nei settori strutturanti dell’energia, dei trasporti o della difesa è la condizione dell’autonomia strategica. È quindi necessario, come abbiamo detto, avere la capacità di identificare da un lato gli anelli chiave della catena del valore che sono una questione di sovranità, e dall’altro i “fallimenti del mercato industriale” che richiedono un’azione consapevole e mirata da parte dello Stato, e non una miriade di sussidi, regolamenti e obiettivi non gerarchici.

 

La cooperazione internazionale è ovviamente molto utile in questi settori ad alta tecnologia, in quanto le economie di scala sono importanti sia per i prototipi e i dimostratori che per la produzione di attrezzature nella fase di diffusione. Tuttavia, occorre prestare attenzione alle dimensioni sensibili legate, da un lato, al duplice aspetto della tecnologia nucleare (non proliferazione e controllo dei materiali) e, dall’altro, all’autonomia strategica negli anelli chiave per il controllo industriale ed economico, garantendo al contempo il mantenimento dei vantaggi comparativi associati. La prima dimensione riguarda la catena del combustibile, in particolare l’arricchimento e il ritrattamento; la seconda la sicurezza dell’approvvigionamento di combustibile (miniere di uranio diversificate, scorte strategiche per tutto il ciclo), nonché il controllo e il comando della fabbricazione di componenti chiave (serbatoi, metallurgia e saldatura, motori di emergenza) per i reattori (in particolare la sicurezza). Nel quadro di una visione a lungo termine dei rischi industriali e geopolitici, è necessario creare un’offerta diversificata, che possa articolare una base francese, un complemento più o meno importante acquistato da fornitori stranieri e le scorte strategiche necessarie, proteggendo al contempo i segreti di fabbricazione e i vantaggi comparativi legati a determinate innovazioni. I partenariati sostenibili richiedono quindi l’articolazione di precise considerazioni industriali ed economiche con questioni geopolitiche. Anche in questo caso, se i politici hanno una visione che collega le questioni geopolitiche e di politica estera con quelle industriali, e se possono contare su competenze che integrano la lungimiranza geopolitica e industriale all’interno dello Stato, è possibile attuare una forte cooperazione a seconda del contesto, anche con gli alleati storici, sui legami di sovranità come l’arricchimento (come nel caso di Eurodif con gli alleati europei) o il ritrattamento (nel caso della cooperazione con il Giappone).

 

La storia del nucleare civile illustra bene queste osservazioni. Se negli anni Cinquanta i francesi si sono messi in proprio con l’UNGG, non è stato volontariamente, ma a causa dell’atteggiamento degli Stati Uniti, che si sono rifiutati di condividere le loro conoscenze tecnologiche e il lavoro in corso tra i grandi laboratori pubblici e Westinghouse o General Electric (McMahon Act del 1946). Non appena si aprì la possibilità, visto il mutato atteggiamento degli Stati Uniti e la creazione dell’Euratom alla fine degli anni Cinquanta, il generale de Gaulle in persona autorizzò la partecipazione dell’EDF alla costruzione di Chooz A con i belgi e la tecnologia di Westinghouse. I primi reattori di serie ad acqua leggera, e anche l’UNGG, furono oggetto di partnership con altre società elettriche: Vandellos, UNGG in Spagna; Tihange con i belgi; la partecipazione di tedeschi e svizzeri nelle due unità ad acqua pressurizzata di Fessenheim. Abbiamo già accennato alla cooperazione sull’arricchimento e sul riprocessamento con partner europei o giapponesi, ma possiamo anche citare la presenza della società giapponese MHI nel capitale di Framatome, che è anche un importante attore industriale non solo in Francia ma anche a livello internazionale, in particolare negli Stati Uniti per la manutenzione degli impianti esistenti.

 

Il rischio può derivare da un cambiamento nella strategia nucleare civile di uno dei partner, come nel caso della Germania, che ha abbandonato il nucleare all’inizio degli anni 2000, indebolendo così il progetto franco-tedesco di generazione 3, l’EPR. Può anche derivare da un’evoluzione del contesto geopolitico e del comportamento dei potenziali partner, ad esempio con l’atteggiamento negativo degli Stati Uniti all’inizio della Guerra Fredda. La questione dei partner sostenibili nello sviluppo di tecnologie chiave come l’energia nucleare è ovviamente importante per il futuro, con la rivalità strategica tra Cina e Stati Uniti e la guerra tra Russia e Ucraina.

 

Le questioni energetiche sono questioni di prosperità e sovranità statale. Gli anni 1945-1990 in Francia illustrano come sia stato possibile esplorare nuove strade e impiegare in modo massiccio e rapido tecnologie innovative adatte a queste questioni essenziali per il nostro Paese. Anche gli ultimi decenni in Cina e negli Stati Uniti dimostrano l’efficacia di questo metodo. Esso si basa sul ruolo fondamentale dello Stato nel padroneggiare le condizioni del successo industriale e può consentire di rilanciare il settore e di riconquistare la potenza e la prosperità che gli sono proprie, a condizione che i vari attori condividano una visione politica.

 

Nella prima parte di questo studio, Jean-Paul Bouttes ci riporta indietro nel tempo per svelare le caratteristiche principali del periodo che ha visto la Francia diventare pioniera nel campo dell’energia nucleare.

 

Nella seconda parte, l’autore allarga il discorso alla transizione energetica, basandosi su esempi esteri e più recenti di successo industriale, come i pannelli fotovoltaici in Cina o la versione americana (Advanced Research Projects Agency-Energy, ARPA-E) dei Programmes d’investissements d’avenir (PIA). Lo studio si conclude con la situazione francese, dove gli ultimi due decenni sono stati segnati da un declino delle nostre competenze industriali, in particolare nei nostri tradizionali punti di forza (nucleare, fossile, rete), dalle difficoltà di EDF, Areva, Framatome, Alstom e, cosa più preoccupante, dai fallimenti dei tentativi industriali nel fotovoltaico e nell’eolico onshore.

 

Leggi anche

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Copyright: Archivio EDF

Fonte: Nel 1958, il generale de Gaulle visitò il centro atomico di Marcoule, nella regione del Gard, dove constatò i progressi compiuti dal 1945, data in cui firmò l’atto di nascita dell’industria nucleare in Francia. Al suo fianco, Maurice Pascal (a destra del generale de Gaulle nella foto), allora responsabile degli studi sulle batterie presso il Commissariat à l’énergie atomique (CEA), spiega al Capo di Stato i dettagli della sala di controllo del reattore G2. Ex studente dell’École polytechnique, Maurice Pascal (1920-1996) iniziò la sua carriera presso la delegazione ministeriale per gli armamenti. Nel 1954 è stato inserito in una posizione di responsabilità presso il CEA. Dal 1964 è stato responsabile della politica industriale.

https://www.fondapol.org/etude/souverainete-maitrise-industrielle-et-transition-energetique-1/216_nucleaire_i_couv_fond/

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Ringraziamenti

Questo lavoro deve molto agli scambi condivisi con molti attori della storia del nucleare francese. Desidero ringraziare in particolare Bernard Esambert per la sua attenta lettura, nonché Gilles Bellamy, Lorraine Bouttes, Yves Bréchet, Michel Clavier, Pierre Daurès, Sylvain Hercberg, Bruno Lescoeur, Bernard Tinturier e Gilles Zask per i loro commenti e suggerimenti. Tuttavia, sono naturalmente l’unico responsabile delle analisi e delle opinioni espresse in questo libro.

 

Jean-Paul Bouttes

 

1

Elenco delle abbreviazioni e degli acronimi utilizzati nel primo volume

 

AGR: Reattore avanzato raffreddato a gas.

AHEF: Association pour l’histoire de l’électricité en France.

AIE: Agenzia Internazionale dell’Energia.

ARPA-E: Advanced Research Projects Agency-Energy.

ASN: Autorité de sûreté nucléaire (Autorità per la sicurezza nucleare).

CEA: Commissione francese per l’energia atomica.

CEE: Comunità economica europea.

CEEA/Euratom: Comunità europea dell’energia atomica.

CEGB: Central Electricity Generating Board.

CGE: Compagnie générale d’électricité.

Cigre: Conferenza internazionale dei grandi sistemi elettrici.

WEC: Consiglio Mondiale dell’Energia.

COP: Conferenza delle Parti.

DGSNR: Direction générale de la sûreté nucléaire et de radioprotection.

DSIN: Direction de la sûreté nucléaire (Direzione della sicurezza nucleare).

EDF: Électricité de France.

ENA: École nationale d’administration.

EPR: Reattore pressurizzato europeo.

INSTN: Institut national des sciences et techniques nucléaires (Istituto nazionale di scienze e tecnologie nucleari).

IPSN: Institut de protection et de sûreté nucléaire (Istituto per la protezione e la sicurezza nucleare).

IRSN: Institut de radioprotection et de sûreté nucléaire (Istituto di radioprotezione e sicurezza nucleare).

PEON: Produzione di energia elettrica da fonti nucleari.

PWR: Reattore ad acqua pressurizzata.

SCSIN: Service central de sécurité des installations nucléaires.

Sfac: Société des forges et ateliers du Creusot.

SENA: Société d’énergie nucléaire franco-belge des Ardennes.

UKAEA: Autorità per l’energia atomica del Regno Unito.

UNGG: Uranio naturale, grafite e gas.

Unipede: Unione internazionale dei produttori e distributori di energia elettrica.

 

Introduzione

 

https://www.fondapol.org/etude/souverainete-maitrise-industrielle-et-transition-energetique-1/#chap-1

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Note

  1. La prima parte di questo articolo si concentra sulla storia del nucleare civile dal 1945 al 1975 in Francia. L’autore si basa in particolare sul libro di Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, L’Énergie de la France. De Zoé aux EPR, l’histoire du programme nucléaire (Éditions François Bourin, 2013).

del programma nucleare basato non solo su documenti storici ma anche su interviste a molti degli attori di questa avventura. Marcel Boiteux e Philippe Boulin sono all’origine di questo progetto, che l’autore di questo documento ha potuto realizzare e accompagnare.+

  1. Con, ovviamente, la mobilitazione e lo sviluppo di tutte le altre energie rinnovabili rilevanti: biomassa, geotermia, energie marine…
  2. IEA, Energy Technology Perspectives 2006. A sostegno del Piano d’azione del G8, OCSE, 2006.
  3. Il termine progetto di base si riferisce al progetto complessivo della centrale, che deve essere integrato da piani dettagliati dell’impianto (progetto dettagliato). Si sviluppa sulla base di uno schizzo iniziale a livello di progettazione, il progetto concettuale.+ 5. La preoccupante situazione economica in Europa e nel mondo è stata caratterizzata da una serie di problemi.

La preoccupante situazione economica in Europa e in Francia, dovuta alla guerra di Vladimir Putin in Ucraina, ci ricorda l’importanza centrale, sia per la nostra prosperità che per la nostra sicurezza, di un’energia competitiva che risponda a due criteri aggiuntivi: disponibilità garantita e impatto limitato sull’ambiente1 . Per raggiungere questo obiettivo, il controllo industriale delle tecnologie di produzione e trasformazione dell’energia e la capacità di anticipare il mix energetico più adatto alle nostre esigenze a lungo termine sono i due principali fattori di successo. Queste sfide saranno ancora più grandi se vogliamo attuare la transizione energetica necessaria nei prossimi decenni per affrontare la sfida del riscaldamento globale, tenendo conto di un contesto geopolitico che sarà fonte di preoccupazione duratura.

 

Per raggiungere questi obiettivi, dimenticando le lezioni della storia e le caratteristiche tecnico-economiche e industriali dell’energia, in particolare dell’elettricità, gli Stati europei si sono affidati quasi esclusivamente ai mercati europei (per il gas e l’elettricità) o internazionali (per le attrezzature o le materie prime). Il compito era impossibile per i soli mercati e, di fronte alla resistenza della realtà, gli Stati membri dell’UE e la stessa Unione Europea hanno reagito moltiplicando leggi, obiettivi e regolamenti, ma senza assumere chiaramente il loro ruolo. Questi interventi incoerenti di fronte ai “fallimenti del mercato” si sono tradotti in un grave fallimento delle autorità pubbliche.

 

Questo fallimento è ancora superabile a patto che si faccia una diagnosi corretta del ruolo degli Stati e che si correggano le loro carenze e quelle dei mercati. Si tratta di mobilitare le necessarie competenze industriali, scientifiche e lungimiranti, di impostare un’organizzazione leggera e responsabile della sfera pubblica, di incoraggiare le iniziative, sia del settore privato che degli enti locali, nel quadro di regole del gioco semplici ed efficaci. Gli esempi qui presentati, relativi alle sfide del controllo industriale nei settori delle grandi tecnologie per la decarbonizzazione, come il nucleare o i pannelli fotovoltaici, dimostrano che tutto ciò è stato attuato con successo in Francia negli anni ’50-’90, e in Cina o negli Stati Uniti negli ultimi trent’anni. Spetta ora a noi trovare il percorso francese ed europeo che ci permetta, con una diagnosi condivisa e rigorosa che non si accontenti di parole troppo spesso fuorvianti, di apportare i necessari cambiamenti strutturali in termini di organizzazione dello Stato e di regole del gioco europeo per correggere la situazione il più rapidamente possibile nel prossimo decennio.

 

Di fronte al cambiamento climatico, dobbiamo intraprendere una transizione energetica globale di dimensioni senza precedenti, con obiettivi di “emissioni nette zero” entro la metà del secolo. Per ridurre in modo significativo le emissioni di gas serra, dovremo innanzitutto decarbonizzare la produzione di energia elettrica ed elettrificare in modo massiccio gli usi energetici, attuando al contempo un’ambiziosa politica di risparmio energetico. Per la maggior parte, conosciamo le tecnologie che dobbiamo sviluppare e implementare: dal punto di vista della produzione, l’energia nucleare, i pannelli fotovoltaici e le turbine eoliche, la cattura e lo stoccaggio delle emissioni di CO2, l’energia idraulica2 ; dal punto di vista dell’utilizzo, le batterie e i veicoli elettrici, le pompe di calore, i processi industriali elettrici… Questa roadmap è nota da circa vent’anni, come dimostrano, ad esempio, le dichiarazioni del vertice del G8 presieduto da Tony Blair nel 2005 a Gleneagles, il primo rapporto dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE) del 2006, Energy Technology Perspectives3 , sul rapporto energia-clima, o le proposte di roadmap settoriali discusse alla Conferenza delle Parti (COP) di Montreal nel 2005. Tuttavia, ad oggi, i risultati in termini di decarbonizzazione sono deludenti. Una delle ragioni principali è l’aver trascurato le questioni industriali e la perdita di controllo industriale nel settore energetico, soprattutto in Europa e in Francia negli ultimi decenni. La massiccia diffusione di queste tecnologie ad alta intensità di capitale richiede un controllo dei costi per conciliare clima e sviluppo economico, nonché gli anelli chiave delle catene del valore (apparecchiature a valore aggiunto, materiali critici, digitale) in un contesto di geopolitica di ritorno. La padronanza delle questioni industriali legate alla produzione e alla costruzione di queste tecnologie ad alta intensità di capitale è al centro degli obiettivi inscindibili di efficienza economica, competitività, sovranità economica e autonomia strategica. Il raggiungimento di questi obiettivi richiede una solida cooperazione internazionale.

 

In questa prospettiva, la Francia può offrire un esempio di successo nel guidare una transizione basata sulla padronanza di queste problematiche industriali. Tra il 1974 e il 1990, è stata in grado di attuare una delle transizioni più rapide nel mondo dell’energia, sostituendo l’energia nucleare alle centrali a carbone e a petrolio, consentendole, al termine di questa transizione, di beneficiare di un mix elettrico decarbonizzato al 90% (75% nucleare, 15% idroelettrico), di prezzi dell’elettricità tra i più bassi d’Europa, di costi d’investimento pari alla metà di quelli degli Stati Uniti e della padronanza industriale del settore dei reattori ad acqua pressurizzata. Il programma nucleare civile francese è stato un successo in termini economici e di sovranità: il Paese si è liberato dalla dipendenza dalle importazioni di combustibili fossili, compreso il petrolio, per la produzione di energia elettrica, e ha padroneggiato la catena del valore nucleare, compreso l’arricchimento, facendo leva su una forte cooperazione internazionale (licenza francese Westinghouse, impianto di arricchimento Eurodif a Tricastin, partecipazioni di società elettriche europee in centrali nucleari francesi, ecc.) Inoltre, grazie alla sua portata (ogni anno, per dieci anni, sono state messe in funzione da quattro a sei unità da 900 a 1.300 MW), questo programma ha permesso una significativa elettrificazione degli usi residenziali (scaldabagni, riscaldamento, ecc.) e industriali, soddisfacendo nel 1990 un consumo di elettricità doppio rispetto a quello del 1973, in un momento in cui la sobrietà energetica, istituita nel quadro della “caccia allo spreco” dopo i due shock petroliferi, ha portato a una quasi stagnazione del consumo finale di energia. Questi movimenti sono esattamente in linea con l’attuale scenario “zero emissioni nette” dell’AIE, che si basa sia sulla sobrietà energetica sia su un aumento di due volte e mezzo della produzione di elettricità entro il 2050.

 

Pensiamo spesso alle condizioni del successo industriale della massiccia diffusione dal 1974 al 1990, dopo la prima crisi petrolifera: una decisione politica nel 1974-1975 che offre una visibilità a lungo termine concretizzata da un programma, una progettazione di base4 finalizzata su un prodotto robusto e semplice da costruire (i reattori ad acqua pressurizzata Westinghouse), serie standardizzate, un tessuto industriale di qualità e un architetto industriale chiaramente responsabile e competente, ovvero EDF. Tutto questo è vero, ma non è sufficiente a spiegare il successo di questa realizzazione. È stata preparata in modo altrettanto decisivo nel periodo dal 1945 al 1974, combinando tentativi ed errori, visione a lungo termine e determinazione incrollabile nell’azione. Questi tre decenni sono stati caratterizzati dalla capacità di una generazione di attori, spesso provenienti dalla Resistenza e dalla Francia Libera, di rischiare, di provare quasi tutti i metodi – rapido, acqua pesante, gas grafite, acqua leggera -, di accettare tentativi, errori e fallimenti, con la volontà di trovare rapidamente soluzioni efficaci e di avere successo. La figura e la personalità del generale de Gaulle hanno segnato questo periodo, prima direttamente nel 1945, attraverso la creazione della Commissione per l’energia atomica (CEA) e il processo di nazionalizzazione dell’energia elettrica, con la creazione dell’EDF nel 1946; poi, indirettamente, attraverso uomini chiave che condividono gli stessi obiettivi durante la Quarta Repubblica (Félix Gaillard, Raoul Dautry, Gaston Palewski, Pierre Guillaumat, Jules Horowitz, Pierre Taranger, Pierre Ailleret…); poi con la creazione di un’agenzia di ricerca e di sviluppo che si occupa di energia nucleare. ) ; e, infine, ancora, nel momento chiave del passaggio alla fase industriale e del dibattito sulla scelta dell’uranio naturale, della grafite e del gas (UNGG) rispetto all’acqua pressurizzata o all’acqua bollente, tra il 1958 e il 1975, con Georges Pompidou, Primo Ministro e poi Presidente della Repubblica, Pierre Messmer, Bernard Esambert, Pierre Massé, Francis Perrin, Claude Fréjacques, Georges Besse, André Giraud, André Decelle, Paul Delouvrier, Marcel Boiteux, Michel Hug, Philippe Boulin, Maurice Aragou, Jean-Claude Leny…

 

Nella prima parte di questa nota, ripercorreremo la storia per individuare le caratteristiche principali di questo periodo e trarne alcuni utili insegnamenti. Nella seconda parte, allargheremo la questione alla transizione energetica che deve essere realizzata oggi, basandoci su esempi più recenti di successo industriale riguardanti altre tecnologie energetiche e altri Paesi, come i pannelli fotovoltaici in Cina o la versione americana (Advanced Research Projects Agency-Energy, ARPA-E) dei programmi di investimento futuro (PIA). Infine, torniamo alla situazione francese, dove gli ultimi due decenni sono stati segnati da un declino delle competenze industriali, in particolare in quelli che erano i nostri tradizionali punti di forza: l’energia nucleare, l’energia fossile, la rete, con le difficoltà di EDF, Areva, Framatome, Alstom, e, cosa più preoccupante, dal fallimento dei tentativi industriali nel fotovoltaico e nelle turbine eoliche onshore, settori in cui la Francia sembra accontentarsi per lo più di installazioni e servizi a basso valore aggiunto, nonostante la ricerca di qualità in questi campi industriali.

 

Gli anni 1945-1990 in Francia o gli ultimi decenni in Cina o negli Stati Uniti dimostrano come sia stato possibile aprire delle opzioni, esplorare nuove strade e implementare tecnologie adatte alle sfide dei Paesi interessati su larga scala e in tempi rapidi. Su queste questioni energetiche, che riguardano la prosperità e la sovranità dei Paesi, questi esempi illustrano chiaramente il ruolo fondamentale svolto dagli Stati nel controllare le condizioni per il successo industriale, compresa la diversità dei percorsi possibili in base alle istituzioni e alle tradizioni dei vari Paesi. La capacità degli Stati di assumere il proprio ruolo per consentire la mobilitazione di tutti gli attori sembra essere decisiva. Ciò presuppone la capacità di indicare chiaramente le proprie debolezze, se possibile prima che la situazione diventi troppo grave, e di farlo lasciandosi interpellare dal proprio passato o da altre esperienze attuali. Le competenze e la buona volontà non mancano. Potrebbero permetterci di riformare il settore in profondità e di prepararci al prossimo decennio, a condizione che gli attori condividano una visione politica.

 

I

Parte

Superare le idee preconcette

 

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1

La solita narrazione

 

Per capire la storia del nucleare francese, dobbiamo accettare di mettere in discussione la narrazione abituale, generalmente espressa come segue:

 

il programma è stato deciso nel 1974-1975 in reazione a un evento: la prima crisi petrolifera del 1973;

si riduce a una decisione presa da un ristretto numero di decisori politici: l’abbandono della linea nazionale di centrali a uranio naturale e gas grafite (NUG) a favore della linea Westinghouse di centrali a uranio arricchito e acqua leggera;

è stato ottenuto attraverso il semplice trasferimento del know-how americano senza aver dovuto affrontare la “frontiera tecnologica”;

illustra la tradizione francese – e il “genio francese” – dell’intervento statale nell’economia attraverso grandi programmi.

2

Una storia diversa

 

Note

  1. L’obiettivo a lungo termine era presente fin dalla creazione del CEA nel 1945 e divenne più chiaro con il progredire del lavoro di ricerca negli anni Cinquanta.
  2. Decisione strategica, per ragioni industriali, logistiche e militari.

La lettura della storia qui difesa è diversa. L’immagine proiettata dalla narrazione abituale è fuorviante, perché le affermazioni che la costruiscono riflettono un profondo fraintendimento di cosa sia un’industria ad alta tecnologia come quella nucleare.

 

Innanzitutto, la decisione di affidarsi a un programma nucleare civile era un obiettivo chiaro fin dall’inizio degli anni ‘605 , nonostante il calo del prezzo dell’olio combustibile pesante in quel decennio. Questa decisione deriva da una visione condivisa della sicurezza di approvvigionamento a lungo termine del Paese e dalle prospettive di competitività del nucleare alla luce dei primi dimostratori industriali.

 

Inoltre, l’esigenza di avere più ferri da stiro, compresi quelli ad acqua leggera, e di sperimentare diverse tecnologie era già all’opera nel 1958 con la decisione di costruire Chooz A, un prototipo franco-belga basato sulla prima generazione di reattori ad acqua pressurizzata Westinghouse, presa dal generale de Gaulle non appena tornato al potere nel 1958. Questa decisione fu presa a complemento dei dimostratori UNGG costruiti a Chinon tra il 1957 e il 1961.

 

Solo nel 1975 la linea ad acqua bollente di General Electric, trasportata in Francia dalla Compagnie Générale d’Electricité (CGE) di Ambroise Roux, fu abbandonata e ci si concentrò sulla sola linea ad acqua pressurizzata di Westinghouse, non senza rammarico per gli operatori che desideravano mantenere la concorrenza tra almeno due fornitori per i componenti chiave. La decisione di abbandonare l’UNGG e di costruire una prima serie di reattori ad acqua pressurizzata (PWR) fu presa in un periodo in cui i prezzi dell’olio combustibile pesante erano ancora ai minimi tra il 1969 e il 1971; fu allora che si decise di costruire due unità a Fessenheim e due unità a Bugey, che entrarono in funzione nel 1977 e nel 1978. Queste decisioni furono prese da Georges Pompidou all’inizio del suo mandato di Presidente della Repubblica.

 

Westinghouse non avrebbe mai accettato di collaborare con i francesi, né permesso che la licenza diventasse francese, se la Francia non avesse dimostrato l’eccellenza delle sue competenze industriali, in particolare nella fabbricazione dei contenitori dei reattori a Le Creusot, e l’eccellenza delle competenze scientifiche della CEA, che stava lavorando non solo sull’UNGG, ma anche sui PWR per la propulsione militare. Tra il 1950 e il 1970, la Francia aveva effettivamente raggiunto da sola la frontiera tecnologica, e questo è probabilmente ciò che ha permesso di utilizzare con successo la tecnologia Westinghouse.

 

Infine, il ruolo chiave dello Stato nel controllo e nella diffusione dell’energia nucleare non è specificamente francese. Per convincersene, basta osservare l’esempio americano con il programma dell’ammiraglio Rickover, inizialmente incentrato sulla propulsione militare e che mobilita insieme i grandi laboratori federali americani (simili alla CEA) con Westinghouse e General Electric (la CEA, e poi l’EDF, mobiliteranno anche i grandi industriali francesi più capaci, prima sull’UNGG e poi sul PWR). Anche il Regno Unito, il Canada, la Cina, il Giappone e la Corea del Sud potrebbero illustrare, ciascuno a suo modo, questo ruolo dello Stato strategico, coinvolto nella dimensione scientifica e industriale. Va aggiunto che, sebbene in Francia lo Stato abbia svolto in precedenza un ruolo di stimolo allo sviluppo di alcune grandi reti, come le ferrovie6 , come dimostra il piano Freycinet del 1879, e abbia avuto un ruolo importante nella regolamentazione tecnica di alcuni settori industriali, come il controllo tecnico delle fucine, la Francia degli anni Trenta e Quaranta del XIX secolo era innanzitutto un Paese economicamente e industrialmente liberale, in conformità con l’eredità della Rivoluzione francese.

 

3

La rapida transizione della Francia

 

Dal 1945 al 1990, la Francia ha realizzato una delle più rapide transizioni nelle tecnologie energetiche, dalla ricerca di base alla diffusione industriale. La scoperta della fissione e della reazione a catena risale agli anni ’30, con il lavoro di Enrico Fermi, Otto Hahn, Lise Meitner e Fritz Strassmann, e poi di Frédéric Joliot-Curie, con Hans Halban e Lew Kowarski nel 1939. È sulla base di quest’ultimo lavoro che il CEA è venuto a conoscenza delle varie tecnologie nucleari – UNGG, acqua pesante, reattori a neutroni veloci raffreddati a sodio, reattori ad acqua leggera – e ha prodotto prototipi, in particolare per la tecnologia UNGG, negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta. Negli anni ’60, il CEA e l’EDF sono riusciti a costruire dimostratori su scala industriale nel reattore a gas di grafite (Chinon A1, A2 e A3) e nel reattore PWR (Chooz A e poi Tihange), con i nostri partner belgi, basati sul reattore Westinghouse. Ci sono voluti solo vent’anni, tra il 1970 e il 1990, per implementare in modo massiccio il parco nucleare e produrre tre quarti dell’elettricità per la Francia, con prestazioni, come abbiamo visto, molto migliori in termini di costi rispetto a quelle di Stati Uniti, Inghilterra, Germania o Giappone con tecnologie simili nello stesso periodo.

 

Si è trattato di sfide particolarmente difficili. Gli ostacoli successivi hanno dovuto essere superati con perseveranza, uno dopo l’altro. Le sfide variavano a seconda dei periodi e delle circostanze, sia che si trattasse del periodo della ricerca e dei prototipi (1945-1960), sia che si trattasse del periodo dei dimostratori industriali e della scelta della tecnologia da impiegare (1960-1971), sia che si trattasse del periodo dell’impiego massiccio (iniziato nel 1972-1975 e che continuerà in gran parte fino al 1990). Fin dall’inizio è stato necessario pensare in termini di sistema industriale, con il controllo dell’intero ciclo del combustibile, dall’estrazione al ritrattamento e alla gestione delle scorie, con la fabbricazione del combustibile, nonché con l’arricchimento dell’uranio necessario nelle tecnologie ad acqua leggera, e il controllo del reattore e dei suoi componenti chiave: forgiatura primaria, termoidraulica e neutronica, scienza dei materiali, automazione e controllo, unità turbo-alternatore, ingegneria civile, ecc.

 

Il termine “industria nucleare” può essere fuorviante, perché si tratta in realtà di mobilitare competenze e professionalità molto diverse provenienti da diversi settori industriali, con requisiti di qualità particolarmente elevati, in quanto la sicurezza è ovviamente un punto centrale in questo caso. È stato inoltre necessario affrontare e risolvere numerosi problemi tecnici almeno altrettanto delicati di quelli che stiamo vivendo da quindici anni a questa parte nello sviluppo dei reattori di terza generazione, come l’EPR in Francia e Finlandia o l’AP 1000 negli Stati Uniti. La reattività e la determinazione delle comunità scientifiche e ingegneristiche sono state notevoli nel proporre “soluzioni di riparazione”, mantenendo sempre la capacità di aprire altre opzioni tecniche (involucro in acciaio o cemento armato precompresso, ecc.), e anche opzioni più radicali, come l’esplorazione di altri metodi. Infine, al di là della gestione efficace dei ricorrenti guasti tecnici che sono una caratteristica inevitabile di questi grandi progetti tecnologici, il contesto internazionale e politico era particolarmente turbolento: la guerra fredda a partire dal 1947, la decolonizzazione, la crisi di Suez nel 1956, la creazione della Comunità economica europea (CEE) e del trattato Euratom nel 1958, la crisi del maggio 1968 e gli shock petroliferi del 1973-1974 dopo un lungo periodo di calo dei prezzi del petrolio pesante. La cooperazione internazionale ha dovuto trovare la sua strada, tenendo conto delle questioni geopolitiche e di sovranità. Lo dimostrano l’opposizione degli Stati Uniti a qualsiasi cooperazione in campo nucleare, con la legge McMahon del 1946, la crisi di Suez, che evidenziò la vulnerabilità di una Francia che non padroneggiava l’energia nucleare, e le opportunità aperte dal Trattato Euratom.

 

La questione principale che vogliamo evidenziare in questa sede riguarda questa sorprendente capacità di rimbalzo nel tempo, una capacità di apportare cambiamenti adottando una visione sistemica, con la preoccupazione di una rapida attuazione, al fine di mantenere la rotta stabilita per quanto riguarda lo sviluppo di un’industria nucleare. Si tratta quindi di individuare le tracce di questo lavoro collettivo, dello Stato con le sue componenti politiche e il loro sostegno – i consiglieri, l’amministrazione, il Piano – ma anche del CEA e dell’EDF, del tessuto industriale e dei partner internazionali. È importante capire le ragioni di questa efficienza nel lungo periodo. Questo sguardo al passato dovrebbe aiutarci a determinare quale organizzazione e quali competenze industriali al centro dell’apparato statale, quali relazioni tra quest’ultimo e il tessuto industriale privato e quali strategie di cooperazione internazionale hanno permesso l’elaborazione di una visione comune e a lungo termine da cui trarre ispirazione per prendere a nostra volta le decisioni necessarie nel tempo.

 

II

Parte

Un viaggio nella storia: 1945-1975

 

https://www.fondapol.org/etude/souverainete-maitrise-industrielle-et-transition-energetique-1/#chap-2

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1

Dal 1945 al 1960, dalla scienza ai prototipi: il ruolo centrale del CEA imparando da EDF e dal tessuto industriale

 

Note

  1. In questa sezione ci basiamo in particolare sul già citato lavoro di Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, nonché sulle interviste condotte con gli attori del programma nucleare nell’ambito del loro progetto di libro, sul libro di Georges Lamiral, Chroniques de trente années d’équipement nucléaire à Électricité de France, Association pour l’histoire de l’électricité en France (AHEF), 2 vols, 1988, e sul libro di Dominique Grenèche, Histoire et techniques des réacteurs nucléaires et de leurs combustibles, EDP Sciences, 2016.+
  2. Gli Stati Uniti hanno gradualmente aperto la possibilità di cooperazione con i Paesi europei a partire dalla fine degli anni ’50, ma sempre alle condizioni restrittive della sovranità e del controllo industriale dei Paesi interessati.
  3. Nonostante le loro riserve, ci saranno contatti con gli Stati Uniti su alcuni temi scientifici e industriali. Inoltre, è chiaro che, in questo contesto, il programma nucleare civile con le Nazioni Unite è stato particolarmente sostenuto anche in relazione al programma militare. Anche l’esperienza del CEA nei reattori ad acqua pressurizzata per la propulsione è stata preziosa.
  4. Si può sottolineare il carattere multipartitico di questa volontà e il ruolo di animazione, per non dire di guida, che lo Stato deve svolgere in questa prospettiva, che si è tradotto nella creazione del Commissariat général du Plan o in quella della CEA o dell’EDF. Il Fronte Popolare aveva già tentato, in parte con questo spirito, di organizzare la ricerca francese – il Centre national de la recherche scientifique (CNRS) fu creato poco più tardi, nell’ottobre 1939 – e aveva intrapreso una politica di riarmo.
  5. Cfr. Bertrand Goldschmidt, Le Complexe atomique. Histoire politique de l’énergie nucléaire, Fayard, 1980, p. 71.
  6. Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, op. cit. p. 38.
  7. Charles de Gaulle, “Discorso del 14 giugno 1960”, archivi INA, ina.fr.
  8. Cfr. Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, op. cit. p. 56.
  9. Cfr. Henri Morel (a cura di), Histoire de l’électricité, Fayard, 1996, t. 3, p. 143 ss.
  10. Cfr. Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, op. cit. p. 68.

Il contesto e la posta in gioco7

 

Le due guerre mondiali furono in gran parte un confronto tra potenze industriali ed energetiche. Nei suoi scritti degli anni Trenta, il futuro generale de Gaulle prevedeva già l’importanza dei carri armati e degli aerei per la potenza degli eserciti, sostenendo una dottrina d’uso innovativa e, più in generale, nel 1940, prevedendo un conflitto il cui esito sarebbe stato dominato dall’ingresso della grande potenza industriale ed energetica, l’America. Dopo la guerra, le élite politiche, amministrative e industriali francesi, in gran parte provenienti dalla Resistenza e dalle Forze libere francesi, intendevano recuperare il ritardo scientifico, industriale ed economico della Francia, conseguenza della crisi degli anni Trenta e delle distruzioni della guerra. I leader erano anche consapevoli della necessità di un approvvigionamento energetico sicuro a costi controllati. Priva di petrolio, la Francia aveva sofferto fin dal XIX secolo di una scarsa disponibilità di carbone a basso costo, a differenza di Regno Unito, Germania e Stati Uniti. Per molto tempo, la sua industria siderurgica è stata alimentata dal carbone delle foreste francesi e dall’energia idraulica “meccanica” fornita dai fiumi. Poi il “carbone bianco”, l’acqua, è diventato un imperativo nazionale nel periodo tra le due guerre e negli anni Cinquanta e Sessanta, con grandi programmi idroelettrici che hanno prodotto circa la metà dell’elettricità in questo periodo, ma che hanno gradualmente rallentato a causa del numero limitato di siti.

 

Già nel 1945-1950 l’energia nucleare era un obiettivo a lungo termine, sostenuto da politici come Félix Gaillard e Gaston Palewski. La presenza di miniere di uranio in Francia fu presto messa in discussione. Le riserve limitate percepite nella prima fase della storia del nucleare civile e l’aspettativa di scoprire nuovi giacimenti portarono, a partire dal dopoguerra, a lavorare su prototipi di reattori fast-breeder per utilizzare non solo l’uranio 235 (0,7% dell’uranio naturale) ma anche tutto il potenziale dell’uranio 238 (99,3% dell’uranio).

 

Gli Stati Uniti, che disponevano di petrolio e carbone in abbondanza, lanciarono allora un programma di reattori nucleari, inizialmente concepiti per la propulsione militare. L’ammiraglio Rickover fece in modo che i laboratori federali americani collaborassero con le principali società elettriche, General Electric e Westinghouse, per sviluppare reattori ad acqua leggera che sarebbero stati più semplici e robusti, ma avrebbero richiesto la padronanza dell’arricchimento, allora prerogativa degli Stati Uniti. Nel contesto del graduale emergere della Guerra Fredda, gli Stati Uniti posero un embargo su tutti i trasferimenti di tecnologia nucleare con il McMahon Act del 1946, con alcune eccezioni per i partner britannici e canadesi del Progetto Manhattan8.

 

Inoltre, alla fine del XIX secolo e nella prima metà del XX secolo, la Francia, come il Regno Unito, è rimasta indietro rispetto agli Stati Uniti e alla Germania nella corsa alla rivoluzione industriale dell’elettricità, nonostante il suo alto livello di ricerca e di scienziati. Il suo tessuto industriale è frammentato e spesso dipendente dalle licenze americane. È stato quindi necessario affidarsi all’inizio essenzialmente a enti pubblici di natura scientifica e industriale: la CEA, poi l’EDF. Il Regno Unito, per le stesse ragioni, si affida alla United Kingdom Atomic Energy Authority (UKAEA), l’equivalente della CEA, e al Central Electricity Generating Board (CEGB), l’equivalente di EDF. Anche i nostri vicini britannici sono preoccupati per l’aumento del costo del carbone e per le sfide legate alla sicurezza dell’approvvigionamento di petrolio. Il Regno Unito è stato quindi particolarmente motivato dal nucleare civile e ha sviluppato il suo reattore nazionale Magnox, a gas grafite, simile al reattore UNGG francese, anche più velocemente della Francia: il primo prototipo di reattore è stato messo in funzione a Calder Hall nel 1956, pochi mesi prima del primo reattore prototipo del CEA G1 a Marcoule, e la potenza installata del Magnox sarebbe stata di circa 5.000 MW nel 1970, il doppio dell’UNGG francese.

 

Politica: visione a lungo termine e decisioni di strutturazione

 

Informati da scienziati e industriali e attenti al contesto internazionale, i politici presero importanti decisioni durante la Quarta Repubblica e l’inizio della Quinta Repubblica. Per loro, il mix energetico ed elettrico della Francia doveva consentirle di diventare una potenza industriale ed economica e di garantire la sua autonomia e sovranità strategica10.

 

Nel luglio 1944, durante una visita a Ottawa, il generale de Gaulle fu informato della portata del lavoro svolto sulle batterie atomiche e sulla bomba nucleare da Pierre Auger, Jules Guéron e Bertrand Goldschmidt, gli scienziati francesi coinvolti in questi studi11. Dopo le interazioni con Raoul Dautry e Frédéric Joliot-Curie, e un dossier presentato da Raoul Dautry al capo del governo provvisorio, il generale de Gaulle creò la CEA con un’ordinanza nell’ottobre 1945, con le missioni di ricerca, energia nucleare civile e applicazioni militari: l’obiettivo era quello di “perseguire la ricerca scientifica e tecnica al fine di utilizzare l’energia atomica nei vari campi della scienza, dell’industria e della difesa nazionale “12 . Tornato al potere nel 1958, il Generale accelerò i lavori sulla linea dell’UNGG e accettò il progetto di un reattore ad acqua leggera con licenza americana nell’ambito del trattato Euratom appena messo in atto (alla doppia condizione che il reattore fosse situato in Francia e che EDF ne detenesse il 50%). Il suo discorso radiotelevisivo del 14 giugno 1960 esprime chiaramente la sua visione della posta in gioco industriale ed energetica per la Francia: “Come popolo francese, dobbiamo elevarci al rango di grande Stato industriale o rassegnarci al declino. La nostra scelta è fatta. Il nostro sviluppo è in corso. […] Naturalmente, è per dotarla [la Francia] delle fonti di energia che le mancavano che ci applicheremo innanzitutto. […] Energia atomica che gli impianti modello hanno cominciato a fornire.13

 

Félix Gaillard, combattente della Resistenza e deputato radical-socialista nel 1946, era interessato all’energia atomica. Visitò il CEA ed ebbe lunghe discussioni con Frédéric Joliot-Curie. Nel 1951, Félix Gaillard fu nominato Segretario di Stato presso la Presidenza del Consiglio e fu responsabile delle questioni nucleari. Nel luglio 1952 presentò ai deputati il primo piano nucleare quinquennale, che diede alla CEA e al suo amministratore generale Pierre Guillaumat i mezzi per passare alla fase dei primi prototipi (G1, seguito da G2 e G3 a Marcoule) e alla realizzazione dei primi elementi del ciclo del combustibile.

 

Félix Gaillard era Ministro delle Finanze, dell’Economia e della Pianificazione quando il secondo piano nucleare quinquennale fu adottato a larga maggioranza nel luglio 1957. Questo piano raccomandava di raggiungere una capacità installata di 850 MW nel 1965 e di 2.500 MW nel 1970, obiettivo che fu praticamente raggiunto. Presidente del Consiglio dal novembre 1957 al maggio 1958, nel marzo 1958 diede il via libera alla costruzione di un impianto di arricchimento dell’uranio a Pierrelatte per scopi militari. L’atteggiamento degli americani durante la crisi di Suez e nella NATO spinse la Francia ad accelerare i lavori sul nucleare militare per garantire la propria autonomia strategica. La decisione è importante. Avrebbe aperto la strada all’uso di reattori ad acqua leggera, mantenendo il controllo del combustibile un decennio dopo14.

 

Gaston Palewski, ex capo di gabinetto di Paul Reynaud e storico gollista, nel 1955 fu ministro delegato alla Presidenza del Consiglio, responsabile del Coordinamento della Difesa Nazionale, della Ricerca Scientifica, degli Affari Atomici e degli Affari Sahariani. Con il suo governo, incrementò le risorse della CEA per passare all’UNGG e alla propulsione nucleare. Il 21 aprile 1955 creò la Commissione per la produzione di elettricità da fonti nucleari (Commissione PEON), che avrebbe svolto un ruolo importante fino agli anni Ottanta. Essa riuniva al massimo livello i rappresentanti del Piano, dello Stato (Ministero dell’Economia e delle Finanze, Ministero dell’Industria, ecc.), della CEA e dell’EDF. L’obiettivo era quello di esaminare le dimensioni economiche dei metodi di produzione dell’energia elettrica e quindi di proporre linee guida per la politica nucleare francese.

 

Il CEA, principale artefice della transizione dalla scienza all’industria

 

Fin dall’inizio, la CEA si affidò a un team di grandi scienziati nel campo della fisica nucleare, come Frédéric Joliot-Curie, Francis Perrin, Bertrand Goldschmidt e Pierre Auger. Fin dall’inizio, creò gruppi di ricercatori di alto livello in tutte le discipline necessarie, con forti competenze in neutronica, fisica matematica, metallurgia, chimica, automazione, ecc. Il dipartimento “Stack Design” si occupava in particolare della progettazione dei futuri reattori, con personalità come Jacques Yvon, Jules Horowitz, Georges Vendryes e Jean Bourgeois, che avrebbe svolto un ruolo importante nello sviluppo e nella considerazione delle questioni di sicurezza dalla progettazione all’esercizio. Con queste competenze scientifiche di alto livello, la Francia sarà quasi alla pari con gli Stati Uniti. D’altra parte, il passaggio alla fase industriale è più delicato.

 

Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo, la Francia non è stata in grado di sviluppare grandi attori industriali, come General Electric e Westinghouse, capaci di padroneggiare la progettazione di sistemi complessi come le nuove centrali nucleari, anche se un grande capo come Charles Schneider (Gruppo Creusot-Loire e Schneider) aveva capito l’importanza del tema.

 

Più in generale, dopo la lunga crisi economica degli anni Trenta e poi la guerra, il punto di partenza era un tessuto industriale francese certamente quasi completo e che “sapeva fare le cose per esperienza”, ma frammentato e artigianale, in ritardo dal punto di vista tecnico, con deboli capacità di ricerca, pochi legami con il mondo scientifico e spesso dipendente dalle licenze americane. Pierre Guillaumat, politecnico e ingegnere del Corpo delle Miniere, che aveva partecipato alla Resistenza, affrontò questo problema come amministratore generale del CEA dal 1951 al 1958. Il CEA accolse nei suoi team ingegneri provenienti dall’industria e dall’EDF e li formò all’ingegneria atomica. Nel 1952 Pierre Guillaumat creò anche un dipartimento industriale presso il CEA per produrre i primi prototipi UNGG G1, G2 e G3 a Marcoule e nominò Pierre Taranger, proveniente dal settore petrolifero, a capo di questo dipartimento industriale.

 

La sfida per il CEA – come per EDF – era quella di affrontare due fallimenti del mercato (“esternalità negative”) in questa prima fase, istituendo due modalità di coordinamento fondamentali per l’innovazione e l’efficienza economica a lungo termine:

 

riunire scienziati, uffici di progettazione e fabbriche;

far collaborare aziende industriali con un’ampia gamma di competenze tecniche per progettare e costruire i sistemi complessi e impegnativi in termini di sicurezza e qualità che sono le centrali nucleari e il relativo ciclo del combustibile.

All’interno della stessa CEA, Pierre Guillaumat doveva far lavorare scienziati di alto livello con gli industriali e formare generazioni di ingegneri industriali, mentre la CEA doveva facilitare la formazione di gruppi industriali e il loro aumento di competenze facendo affidamento sui punti di forza dell’industria francese: Pechiney e la sua padronanza della grafite pura, Saint-Gobain e la chimica del ritrattamento, e Le Creusot con le sue competenze nella metallurgia e le sue fucine. Responsabile della costruzione di questa prima generazione di reattori, la CEA preparò anche la padronanza tecnica dell’intero ciclo, in particolare l’arricchimento dell’uranio, importante a breve termine per la propulsione nucleare e le armi atomiche, e a più lungo termine per aprire l’opzione dell’acqua leggera per l’energia nucleare civile, mobilitando ingegneri delle polveri (Georges Fleury, Claude Fréjacques) e reclutando Georges Besse (politecnico e ingegnere del Corpo delle Miniere) nel 1952, proprio per lavorare sull’arricchimento dell’uranio. Georges Besse fu responsabile di Pierrelatte negli anni Sessanta, poi di Eurodif negli anni Settanta.

 

Oltre alla padronanza tecnica ed economica, la sfida per la CEA era ovviamente quella di garantire la sovranità industriale. In questi primi anni, garantire questa sovranità significava essere soli sulla frontiera tecnologica, sia in campo civile che militare, a causa dell’atteggiamento degli Stati Uniti. Ma il controllo ricercato è anche un obiettivo a lungo termine, se si vuole garantire l’autonomia strategica e la sicurezza degli approvvigionamenti. Senza escludere la cooperazione internazionale, anche in settori sensibili, ciò implica la padronanza, per il ciclo del combustibile, delle miniere di uranio – i giacimenti saranno trovati in Francia e sfruttati, in particolare nel Limousin -, della fabbricazione del combustibile, della chimica nucleare sofisticata per il ritrattamento – Bertrand Goldschmidt alla CEA e Saint-Gobain – e, a lungo termine, dell’arricchimento di questo uranio. Ciò implica anche la padronanza di alcuni collegamenti industriali chiave per l’impianto: la fabbricazione di grafite pura, il controllo e il comando, nonché la metallurgia dei cassoni, che richiede forge di qualità, la padronanza della scienza dei materiali e delle tecniche di saldatura. Le équipe del Creusot potranno inoltre avvalersi delle competenze dell’industria degli armamenti, in particolare di quelle della fonderia Indret e dell’esperienza di Yvon Bonnard, ingegnere navale.

 

L’apprendistato di EDF, per preparare con gli attori industriali il passaggio al dimostratore su scala industriale aprendo opzioni: UNGG-acqua leggera

 

All’epoca della nazionalizzazione dell’elettricità, i dirigenti di EDF erano anche spinti dall'”ardente obbligo” di consentire la ricostruzione e la prosperità del Paese grazie all’elettricità economica, contribuendo alla sicurezza dell’approvvigionamento del Paese. Questa era la loro missione principale. Dal 1946 al 1957, Pierre Ailleret, politecnico ed ex studente dell’École nationale des ponts et chaussées e del Supélec, fu direttore del Dipartimento di Ricerca di EDF, che contribuì a creare, prima di diventare vice direttore generale di EDF dal 1958 al 1968. Era un uomo di esperienza, responsabile di progetti idraulici e della costruzione di reti di interconnessione. Convinto dell’importanza dei progressi scientifici per l’energia, seguì i corsi di fisica nucleare di Jean Perrin prima della guerra e spinse il Dipartimento Studi e Ricerche a non accontentarsi di sostenere gli altri dipartimenti di EDF nelle loro questioni operative a breve termine, ma ad aprire tutte le possibili strade delle nuove energie avvicinandosi al mondo scientifico e aprendosi a livello internazionale: l’energia eolica, l’energia delle maree, l’energia termica oceanica, le turbine e i compressori a gas, ecc. e l’energia nucleare15.

 

Nominato nel 1950 membro del consiglio scientifico e del comitato (consiglio di amministrazione) del CEA16 , inviò giovani ingegneri dell’EDF, come Denis Gaussot, futuro direttore del Service d’études et projets thermiques et nucléaires (Septen), poi vicedirettore dell’Équipement, a formarsi al CEA presso l’Institut national des sciences et techniques nucléaires (INSTN). Nel 1953 propose di produrre elettricità dal vapore del G1 di Marcoule e la CEA decise di affidare la responsabilità all’EDF.

 

La diffusione massiccia dell’energia nucleare, una volta raggiunta la maturità economica, dovrebbe essere responsabilità di un industriale come EDF, e non di un’organizzazione scientifica come la CEA. D’altra parte, si pone la questione della responsabilità della fase intermedia dei dimostratori industriali UNGG tra le fasi dei prototipi G1, G2, G3 di Marcoule (commissionati alla fine degli anni ’50) e il dispiegamento a lungo termine. La discussione fu inizialmente difficile tra la CEA e l’EDF, ma Pierre Taranger, della CEA, era convinto che l’EDF sarebbe stato il più adatto ad aumentare significativamente le dimensioni delle unità e a rischiare su soluzioni innovative che avrebbero permesso di testare realmente il potenziale economico della tecnologia e quindi di ottenere i guadagni necessari durante il dispiegamento.

 

Nel 1954, la decisione è stata presa rapidamente da Pierre Guillaumat e Roger Gaspard (direttore generale di EDF): EDF sarà l’appaltatore principale e l’operatore delle tre unità di Chinon: Chinon A1, iniziata nel 1957, 70 MW; Chinon A2, nel 1959, 210 MW; Chinon A3, nel 1961, 460 MW. La CEA è responsabile della parte nucleare e le due entità devono collaborare su tutti i temi. EDF doveva assumere il ruolo di architetto industriale e di gestore del progetto in una modalità “idraulica” non standardizzata, adattando le dimensioni della struttura alla geografia del sito e lasciando a ogni regione di attrezzature EDF la libertà di scegliere i propri fornitori. Questo è ancora in gran parte il caso dell’energia termica convenzionale, dove, sebbene esista una politica di fasi standardizzate di dimensioni – 125 MW, poi 250 MW, prima di 600 MW a carbone e olio combustibile e 700 MW a olio combustibile – le regioni di attrezzature di EDF sono molto autonome nell’adattarsi ai siti e nella scelta dei contratti e dei fornitori industriali. Questo decentramento del reparto apparecchiature, in parte ereditato dalla storia frammentata del settore elettrico prima della nazionalizzazione del 1946, è accompagnato da una forte concorrenza tra i fornitori basata sulla suddivisione in centinaia di lotti. Anche in questo caso, troviamo l’eredità di un tessuto industriale poco concentrato, che dovrà continuare ad aumentare le proprie competenze e la propria capacità di assumersi la responsabilità di sottosistemi più ampi.

 

Il contesto internazionale sta cambiando e gli attori francesi dovranno essere in grado di reagire rapidamente per approfittare delle circostanze favorevoli. Gli americani hanno cambiato atteggiamento e, alla fine degli anni Cinquanta, si sono dimostrati favorevoli alla cooperazione con gli alleati europei nel campo dell’energia nucleare civile; erano pronti a fornire il combustibile arricchito necessario per utilizzare le nuove tecnologie ad acqua leggera e i primi dimostratori industriali stazionari sono stati messi in servizio negli Stati Uniti: per la tecnologia ad acqua pressurizzata, alla fine del 1957 entrò in funzione l’impianto di Shippingport da 60 MW (derivato direttamente dal sottomarino Nautilus), mentre nel 1960 entrò in funzione Yankee Rowe (170 MW), da cui era stato derivato il progetto di Chooz A. Questa è stata la prima generazione di energia nucleare civile negli Stati Uniti.

 

La Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom) è stata creata da un trattato specifico firmato a Roma, contemporaneamente al trattato che istituiva la CEE nel 1957, ed è entrata in vigore nel gennaio 1958. Il suo scopo era quello di promuovere la cooperazione europea nel campo dell’energia nucleare civile. Dall’inizio del 1958 al febbraio 1959 fu presieduto da Louis Armand, politecnico e ingegnere del Corpo delle Miniere, membro della Resistenza, direttore generale e poi presidente della SNCF, grande ingegnere e professore all’École nationale d’administration (ENA) su questioni industriali ed energetiche dal 1945 al 1967.

 

I belgi erano particolarmente interessati alla tecnologia dell’acqua leggera. Volevano implementarla insieme ai francesi. EDF, in particolare Pierre Ailleret, era fortemente coinvolto nelle associazioni internazionali – la Conferenza internazionale dei grandi sistemi elettrici (Cigre), l’Unione internazionale dei produttori e distributori di energia elettrica (Unipede), il Consiglio mondiale dell’energia (WEC), ecc. Raymond Giguet, ex direttore delle apparecchiature e all’origine, con Pierre Massé, della Nota Blu, uno strumento economico per aiutare nella scelta degli investimenti, vicedirettore generale di EDF, è molto favorevole a questa opzione in aggiunta all’UNGG, data la semplicità e la robustezza del suo design. Pierre Ailleret, pur essendo piuttosto partigiano all’interno di EDF dell’UNGG, è anche disposto a guardare più da vicino le interessanti soluzioni americane sviluppate da General Electric e Westinghouse. Gli ingegneri di Creusot-Schneider, molto interessati all’energia nucleare, sotto l’impulso di Charles Schneider e dell’ingegnere Maurice Aragou, erano un po’ scettici sulla qualità delle prime realizzazioni americane (giustamente), ma erano pronti a investire in considerazione della forte relazione storica con Westinghouse, di cui già detenevano alcune licenze in diversi campi.

 

La Société d’énergie nucléaire franco-belge des Ardennes (SENA) fu costituita nel 1960 da EDF e da diverse società elettriche belghe per la costruzione e la gestione dell’impianto nell’ambito di Euratom. Il generale de Gaulle diede il suo consenso di principio a condizione che il sito fosse situato in Francia e che EDF ne possedesse il 50% e lo gestisse. Nel 1959 fu costituito un consorzio per rispondere alla gara d’appalto indetta dal SENA per la gestione della licenza Westinghouse, sul modello della centrale di Yankee Rowe negli Stati Uniti, con una capacità installata di 250 MW: Framatome, una società franco-americana di costruzioni atomiche presieduta da Maurice Aragou (di Creusot-Schneider), e inizialmente posseduta al 60% da Schneider, al 30% da Empain e al 10% da Westinghouse. Il consorzio vinse la gara d’appalto e i lavori di ingegneria civile iniziarono nel 1962. Tutto ciò permise a EDF di muovere i primi passi, insieme ai belgi, nel settore dell’acqua pressurizzata e di sperimentare diversi rapporti contrattuali e tecnici con gli industriali responsabili dei principali sistemi dell’impianto.

 

2

Dal 1960 al 1971, dai dimostratori industriali alla scelta del tipo di impianto da realizzare

 

Note

  1. Si tratta di una rottura netta di un materiale senza deformazione plastica macroscopica sotto l’azione di una sollecitazione e in determinate circostanze specifiche (esistenza di un difetto, condizioni di temperatura-pressione, ecc.)
  2. Cfr. Georges Lamiral, op. cit. 1, p. 87-88.
  3. Cfr. Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, op. cit. p. 137.
  4. Siemens e AEG sono tradizionalmente legate a Westinghouse e General Electric e sono in grado di costruire centrali elettriche.
  5. Georges Lamiral, op. cit. 1, p. 355-356.
  6. Ibidem, pp. 145-146.
  7. Bernard Esambert rimase in carica nel 1968 con Maurice Couve de Murville come Primo Ministro, poi si unì a Georges Pompidou che divenne Presidente della Repubblica nel giugno 1969. Svolse un ruolo importante nei grandi programmi industriali di questo periodo, promossi da Georges Pompidou (cfr. Bernard Esambert, Pompidou, capitaine d’industries, Odile Jacob, 1994).
  8. Cfr. Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, op. cit. p. 165-166.
  9. Cfr. la nota al Piano di Jacques Lacoste e la lettera di André Decelle citata in precedenza.
  10. Cfr. Boris Dänzer-Kantof e Félix Torres, op. cit. pp. 165-166.

Dubbi e dibattiti tra ingegneri e industriali

 

Questo lungo decennio di costruzione di dimostratori industriali sotto la responsabilità di EDF e con un forte coinvolgimento industriale della CEA sulla parte nucleare illustra le sfide tecniche e industriali da affrontare. I problemi tecnici saranno ricorrenti e importanti, con conseguenze significative sui tempi di costruzione e sull’indisponibilità delle unità nei primi anni. Questo è in particolare il caso delle tre unità UNGG di Chinon, ma anche di Chooz A.

 

Durante la costruzione della centrale A1 di Chinon, nel febbraio 1959, si sviluppò improvvisamente una fessura di circa dieci metri di lunghezza sul cassone in acciaio (quelli successivi erano in cemento armato precompresso), con le caratteristiche del fenomeno della “frattura fragile “17 . Yvon Bonnard, ingegnere capo del dipartimento di ingegneria navale, fu mobilitato per ricorrere alle competenze del laboratorio di metallurgia della Marina francese di Indret. Problemi simili si presentarono anche negli Stati Uniti con le grandi navi d’acciaio per le centrali elettriche ad acqua leggera all’inizio degli anni ’60 e le soluzioni trovate permisero di aumentare significativamente le dimensioni delle unità dei reattori ad acqua leggera.

 

All’inizio del suo funzionamento, Chinon A3 subì una serie di incidenti che impedirono la visita prevista dal generale de Gaulle nell’autunno del 1966 e ne posticiparono la messa in funzione di due anni. Questi incidenti erano in particolare legati alla complessità del sistema di manipolazione del combustibile e di rilevamento delle rotture del rivestimento, nonché a una cattiva progettazione dell’impianto (insufficiente considerazione dell’espansione termica e delle sollecitazioni dei tubi di acciaio inossidabile utilizzati per il campionamento necessario a rilevare le rotture del rivestimento)18 .

 

Anche Chooz A ha subito diversi incidenti gravi che ne hanno posticipato la messa in servizio di due anni (1970 anziché 1967-1968), in particolare le viti di assemblaggio del nocciolo del reattore che si sono allentate a causa delle vibrazioni provocate dal flusso idraulico19.

 

Grazie alla qualità dell’organizzazione e alla cooperazione industriale e tecnica tra gli attori industriali (EDF, CEA, fornitori e uffici di progettazione) e alle competenze acquisite nel decennio precedente, questi problemi multipli sono stati un’opportunità per progredire collettivamente nella comprensione dei fenomeni fisici e nella capacità di trovare e implementare rapidamente soluzioni. Tuttavia, il metodo UNGG appare molto complicato rispetto alle centrali ad acqua leggera (si veda il sistema continuo di scarico-ricarica di una miriade di elementi di combustibile) e, con serbatoi già molto grandi (con la grafite come moderatore per poter utilizzare l’uranio naturale), sembra a priori molto difficile aumentare le dimensioni delle unità oltre i 500 MW (i PWR sono più compatti a parità di potenza installata).

 

Nel 1964, la decisione di principio di impiegare massicciamente l’UNGG nel decennio fu comunque presa in un piccolo consiglio a Matignon, sotto la presidenza di Georges Pompidou, allora primo ministro. Il prezzo dell’olio combustibile era ancora alto, le lezioni delle difficoltà dell’UNGG non erano ancora state analizzate collettivamente e le prestazioni dei primi impianti americani ad acqua leggera non erano eccellenti. Le tre unità UNGG di Saint-Laurent-des-Eaux A1 e A2 e Bugey 1 (da 500 a 550 MW) furono messe in funzione nel 1964 e nel 1965 e sarebbero state le ultime in Francia.

 

Un anno dopo, durante la riunione di programma CEA-EDF del 14 dicembre 1965, presieduta dall’amministratore generale Robert Hirsch e dall’alto commissario CEA Francis Perrin, il direttore generale André Decelle e il presidente di EDF Pierre Massé, Francis Perrin e André Decelle si interrogarono sull’interesse di aprire l’opzione dei reattori ad acqua leggera alla luce dei nuovi elementi raccolti di recente. Negli Stati Uniti, Westinghouse e General Electric hanno imparato dai problemi incontrati nella prima generazione di reattori e stanno proponendo agli elettricisti americani ed europei centrali di seconda generazione a prezzi molto interessanti (e con unità più grandi). Washington era pronta a offrire combustibile arricchito a condizioni economiche interessanti, vista la sovraccapacità americana. Nello stesso anno, il 1964, il Regno Unito decise di abbandonare il suo reattore a uranio naturale (Magnox) a causa dei costi eccessivi in un contesto di calo dei prezzi dell’olio combustibile. Il governo britannico optò per l’Advanced Gas-cooled Reactor (AGR), un miglioramento del Magnox con combustibile a uranio arricchito di diversa concezione, e i dirigenti del Central Electricity Generating Board (CEGB) dissero chiaramente ai loro omologhi dell’EDF che era stato un errore non scegliere i reattori americani ad acqua leggera. Nel 1965, gli elettricisti tedeschi, che stavano iniziando a utilizzare le tecnologie americane20 , proposero a EDF di realizzare insieme uno studio economico di confronto tra UNGG e acqua leggera per esaminare l’opportunità di realizzare un progetto UNGG congiunto con i francesi a Fessenheim. Al termine di questo studio, l’acqua leggera è risultata molto più economica.

 

La questione della sovranità dell’acqua leggera è soggetta a valutazioni diverse a causa dell’evoluzione dei dati relativi a due punti essenziali: l’arricchimento e la possibilità di “affrancamento” della licenza Westinghouse. L’impianto di arricchimento militare di Pierrelatte è entrato gradualmente in funzione tra il 1964 e il 1967 (sotto la direzione di Georges Besse). Philippe Boulin, per Creusot-Schneider e la linea ad acqua pressurizzata di Westinghouse, e Ambroise Roux, per CGE e la linea ad acqua bollente di General Electric, erano convinti che la seconda generazione, che si stava rapidamente diffondendo negli Stati Uniti e veniva proposta agli europei, fosse economicamente e tecnicamente più efficiente. La costruzione del reattore Chooz A da parte della Société des forges et ateliers du Creusot (Sfac), parte del gruppo Creusot-Schneider, fu un successo industriale. Le competenze metallurgiche dei francesi interessarono e impressionarono particolarmente Westinghouse, alla quale gli americani ordinarono in seguito sette reattori ad acqua pressurizzata. In particolare, le fucine Creusot utilizzarono per la prima volta il “metodo di calcolo agli elementi finiti” (all’avanguardia nei metodi di calcolo tecnico-scientifici) e si avvalsero della consulenza di Yvon Bonnard per migliorare la composizione dell’acciaio. Come sottolinea Georges Lamiral analizzando il funzionamento dell’industria francese in questo periodo: “I francesi commettono talvolta errori e fallimenti, ma una delle loro principali qualità è quella di saper reagire rapidamente”. Le prestazioni delle fucine Creusot, il tessuto industriale francese e le competenze del CEA-EDF-Framatome in materia di reattori ad acqua pressurizzata resero possibile la prospettiva di affrancamento della licenza Westinghouse.

 

In tre anni, dal 1963 al 1966, gli attori industriali francesi discussero la scelta dei reattori negli organismi di lavoro collettivo di più alto livello (commissione PEON, comitati EDF-CEA, ecc.), in modo tanto professionale quanto conflittuale, e si convinsero collettivamente che le due opzioni, UNGG e acqua leggera, dovevano essere aperte. La “frattura” si è verificata anche all’interno di EDF e della CEA: André Decelle, direttore generale di EDF, ha spinto per l’acqua leggera, mentre Pierre Ailleret, vicedirettore generale di EDF, ha sostenuto l’UNGG. Il vigore delle discussioni va di pari passo con la loro qualità tecnica ed economica e con la presa in considerazione di nuovi dati internazionali e di questioni industriali e di sovranità. La loro convergenza “relativa” fu quindi piuttosto rapida. Il 7 marzo 1966, André Decelle (EDF) inviò una lettera a Robert Hirsch (CEA) per spiegare queste questioni. Il 4 maggio 1966, il direttore generale dell’EDF e il direttore generale del CEA hanno istituito la commissione Cabanius-Horowitz (dal nome rispettivamente del direttore delle apparecchiature dell’EDF e del direttore delle batterie atomiche del CEA), con il compito di redigere un rapporto di sintesi che metta a confronto l’UNGG, l’acqua leggera (pressurizzata e bollente) e l’olio termico. Questo rapporto congiunto EDF-CEA dovrebbe servire come base per le discussioni della commissione PEON, che ha il compito di consigliare il governo sulla strategia nucleare civile. Il rapporto EDF-CEA, favorevole alle tecnologie ad acqua leggera, è stato presentato nel giugno 1967 e la commissione PEON ha raccomandato, nell’aprile 1968, di proseguire la costruzione delle UNGG con le prossime due unità a Fessenheim e, soprattutto, di testare l’acqua leggera su scala reale mettendo rapidamente in funzione una nuova unità in Francia.

 

Una prima gara d’appalto per due unità UNGG a Fessenheim, lanciata da EDF nell’ottobre 1968, si rivelò troppo costosa. Rifletteva la riluttanza degli industriali a impegnarsi nella realizzazione di questo tipo di impianti. Alla fine del 1969, dopo il via libera di Georges Pompidou, divenuto Presidente della Repubblica, fu indetta una seconda gara d’appalto per Fessenheim. Framatome presentò un’offerta industriale credibile con prezzi competitivi. Una gara d’appalto simile seguì rapidamente per due unità a Bugey. Dal 1967 al 1971, le autorità politiche disponevano quindi della sovranità e degli elementi tecnico-economici necessari per scegliere l’opzione nucleare, con argomenti convincenti a favore dell’acqua leggera. Ma le centrali a olio combustibile erano più attraenti del nucleare a breve termine, compresa l’acqua leggera, con i prezzi del petrolio ancora in calo. Tuttavia, Jacques Lacoste, consigliere di Marcel Boiteux, divenuto direttore generale di EDF nel 1967 dopo aver diretto il Dipartimento di Studi Economici Generali, scrisse una nota importante e premonitrice che indirizzò al Piano per sottolineare i rischi geopolitici che l’eccessiva dipendenza della Francia dal petrolio comportava a lungo termine, e di conseguenza la necessità di dare visibilità e prospettive al settore nucleare. Così l’industria non si impegnò a costruire nuove unità dal 1966 al 1971. Durante questo periodo, l’industria era in attesa di decisioni politiche. Per convincersene, basta leggere la lettera del 7 novembre 1968 di André Decelle, allora Consigliere di Stato, indirizzata ad André Bettencourt, Ministro dell’Industria, in cui si proponeva un rapido piano di rilancio per preservare le competenze dell’industria nucleare e il tessuto industriale22.

 

La riflessione e le decisioni politiche sulla scelta dei settori: 1966-1971

 

Tra il 1966 e il 1969, il punto di vista del generale de Gaulle si evolve progressivamente a favore della tecnica dell’acqua leggera. Nel settembre 1967, espresse la sua insoddisfazione nei confronti dell’EDF di fronte ai ritardi e alle difficoltà del programma UNGG (la visita a Chinon A3, annullata nel 1966, fu sostituita da quella alla centrale mareomotrice di Rance) e di fronte agli insuccessi nella realizzazione dell’unità termica da 250 MW, legati in particolare a un’insufficiente standardizzazione, causa di sforamenti dei costi e di ritardi nel completamento. André Decelle e Pierre Ailleret, direttore generale e vicedirettore generale di EDF, sono stati sostituiti da Marcel Boiteux e Charles Chevrier. Georges Pompidou, rinominato Primo Ministro dopo le elezioni legislative della primavera del 1967, era piuttosto favorevole alla tecnica dell’acqua leggera, a differenza di Maurice Schumann, Ministro di Stato per la Ricerca Scientifica e le Questioni Atomiche e Spaziali.

 

Durante il Consiglio interministeriale del 7 dicembre 1967, il generale de Gaulle espresse nuovamente la sua insoddisfazione al presidente di EDF, Pierre Massé, che era presente in quel momento. Si decise di avviare la costruzione di due reattori UNGG a Fessenheim e, per mantenere aperta l’opzione dell’acqua leggera, di studiare un impianto di arricchimento per scopi civili, che sarebbe stato essenziale per la sovranità del Paese se avesse fatto un uso significativo dell’opzione dell’acqua leggera. È stato inoltre deciso di autorizzare EDF a partecipare alla costruzione di una centrale ad acqua leggera di seconda generazione a Tihange, in Belgio, insieme ai belgi. Si tratterà di una centrale ad acqua pressurizzata basata sul modello Beaver Valley, che è stato poi scelto per Fessenheim. Va notato che lo studio di un’altra centrale ad acqua leggera, con gli svizzeri, che doveva essere una centrale ad acqua bollente, era stato appena autorizzato a Kaiseraugst nel luglio 1967, ma il progetto fu infine abbandonato.

 

Nel settembre 1967, Bernard Esambert, un giovane funzionario del Corpo delle Miniere, fu nominato consigliere industriale del Primo Ministro Georges Pompidou23 . La decisione presa nel dicembre 1967 di costruire due UNGG a Fessenheim non era in linea con quella che, con il rapporto Cabanius-Horowitz, cominciava a essere la visione quasi condivisa dei dirigenti di EDF e CEA. L’argomento è complesso, molto controverso e non ben compreso a livello politico. Il ruolo dei consulenti nei gabinetti ministeriali o all’Eliseo non era quello di sostituirsi ai servizi statali o agli enti pubblici, ma di attingere alle loro competenze aprendosi a punti di vista esterni per dare spessore alla diagnosi e consentire ai leader politici di andare a fondo della questione. Questo lavoro permise a Georges Pompidou, così come ad alcuni dei suoi ministri che sarebbero rimasti in carica con Maurice Couve de Murville, di appropriarsi della diagnosi: l’opzione dell’acqua leggera aveva il miglior potenziale, era ormai possibile “francesizzare” le tecnologie americane, e se gli altri europei non avessero facilitato la partecipazione di EDF all’ultracentrifugazione per l’arricchimento, sarebbe stato necessario sviluppare un impianto civile con la tecnologia francese della diffusione gassosa proponendo agli europei interessati di partecipare. Georges Pompidou trasmise questi elementi al generale de Gaulle, senza alcun riscontro positivo. Egli lasciò l’incarico all’inizio di luglio del 1968 (Maurice Couve de Murville divenne allora Primo Ministro), ma tornò come Presidente della Repubblica nel giugno del 1969 con la stessa convinzione.

 

Il rapporto della commissione PEON presentato al governo nell’aprile 1968 sottolineava l’interesse dell’acqua leggera rispetto all’UNGG e raccomandava la costruzione di un’unità ad acqua leggera in Francia dopo le due UNGG di Fessenheim, per testare questa nuova generazione e verificarne l’interesse per il futuro. Nel luglio 1968 si tenne un decisivo consiglio dei ministri su questo tema, con Maurice Couve de Murville, Primo Ministro, André Bettencourt, Ministro dell’Industria, e Robert Galley, Ministro delegato alla Ricerca Scientifica e alle Questioni Atomiche e Spaziali. André Bettencourt si prese il tempo necessario per entrare nel vivo della questione (basandosi in particolare sugli elementi preparati da Roger Ginnochio, ex vicedirettore della produzione/trasporti di EDF e membro del suo gabinetto) per riferire al Generale de Gaulle al Consiglio dei Ministri24 . Il Generale ascoltò con interesse e indicò che le cose dovevano essere rimesse in carreggiata e la decisione sulle due unità UNGG a Fessenheim riconsiderata. In quel periodo fu completato l’impianto di arricchimento di Pierrelatte.

 

Nell’ottobre 1968, il ritorno della gara d’appalto per l’UNGG di Fessenheim presentava clausole inaccettabili e prezzi troppo alti per EDF. Gli industriali hanno puntato su una tecnologia che sembrava loro rischiosa. Inoltre, i prezzi dell’olio combustibile pesante sono ai minimi e più interessanti. Nel contesto delle difficoltà di finanziamento pubblico a seguito degli eventi del maggio 1968, si è quindi tentati di rimandare di qualche anno qualsiasi ulteriore impegno nucleare a favore dell’olio combustibile. Tuttavia, gli attori industriali richiamarono l’attenzione delle autorità pubbliche sulla necessità di dare una visibilità a medio-lungo termine agli industriali per preservare le competenze in assenza di impegni in nuove centrali dal 1966 e per tenere pronta l’opzione nucleare di fronte ai rischi geopolitici sul petrolio25. Nel gennaio 1969, il generale de Gaulle, ricevendo Pierre Delouvrier quando quest’ultimo stava per sostituire Pierre Massé alla presidenza dell’EDF, si dichiarò d’accordo con l’acqua leggera, a condizione che venisse creato un impianto di arricchimento civile26.

 

Georges Pompidou, eletto Presidente della Repubblica nel giugno 1969 e già convinto nel 1968 come Primo Ministro dell’interesse dell’acqua leggera, decise nel febbraio 1971 di impiegarla nel decennio successivo. In occasione del Consiglio interministeriale ristretto del 13 novembre 1969, decise di abbandonare le due unità UNGG previste a Fessenheim alla luce dei risultati della gara d’appalto indetta da EDF. La società pubblica avrebbe dovuto costruire a Fessenheim due unità ad acqua leggera, pressurizzata o bollente.

 

Nel febbraio 1970, EDF indisse una nuova gara d’appalto per Fessenheim con Framatome-Sfac per la tecnologia Westinghouse e CGE per la tecnologia General Electric. La proposta di Framatome si basava, come per Tihange, sulla seconda generazione di reattori ad acqua pressurizzata, molto più efficienti di Chooz A (basato sul progetto dell’impianto di Beaver Valley ordinato dagli Stati Uniti nel 1967). Philippe Boulin, a capo di Creusot-Loire, e il suo team hanno azzardato un’offerta che anticipava la costruzione di una serie di centrali, riducendo così i costi. La sua offerta, nettamente migliore di quella di CGE, fu quindi selezionata. Seguì rapidamente una seconda gara d’appalto per Bugey, dove fu nuovamente selezionata Framatome.

 

Nel novembre 1970, la commissione PEON raccomandò la costruzione di 8.000 MW di energia nucleare ad acqua leggera (da otto a dieci unità) tra il 1971 e il 1975. Un consiglio ristretto riunitosi all’Eliseo il 26 febbraio 1971 ha accolto questa raccomandazione, autorizzando l’impegno di tre nuove unità per il 1971 e il 1972. EDF si preparò a un ritmo di impegno di una o due unità all’anno nel corso del decennio, mentre il ritmo previsto dal contratto di programma firmato tra EDF e lo Stato, a seguito del rapporto Nora, era di due unità all’anno. Cinque unità sono state impegnate nel 1971, 1972 e 1973, prima della prima crisi petrolifera.

 

3

Dal 1972 al 1975, gli shock petroliferi e la preparazione industriale di un dispiegamento massiccio e standardizzato di acqua pressurizzata

 

Note

  1. Anche in questo caso, i punti di vista degli attori industriali sono stati contrapposti, anche se, in EDF, Michel Hug non era molto favorevole all’ebollizione (aveva lavorato sui problemi di cavitazione), e Marcel Boiteux e Paul Delouvrier erano favorevoli alla standardizzazione piuttosto che alla concorrenza tra due settori (su questa “battaglia dei settori nucleari”, si veda Marcel Boiteux, Haute tension, Odile Jacob, 1993, p. 137-156).
  2. Cfr. la nota di Michel Hug del 5 dicembre 1973, che definisce le nuove regole del gioco e crea la

Si veda la nota di Michel Hug del 5 dicembre 1973, che definisce le nuove regole del gioco e crea il Comitato dei responsabili degli studi, inizialmente guidato da Denis Gaussot, direttore del Septen dal 1972 al 1976 (Georges Lamiral, op. cit., vol. 2, p. 127).

  1. Cfr. Cyril Foasso, Histoire de la sûreté de l’énergie nucléaire civile en France (1945-2000) : technique d’ingénieur, processus d’expertise, question de société, tesi di dottorato, Université Lyon-II, 28 ottobre 2003.

La strutturazione e la reazione politica su larga scala alla crisi petrolifera e all’abbandono del settore dell’acqua bollente

 

Gli shock petroliferi dell’ottobre 1973 e del gennaio 1974 portarono a quadruplicare il prezzo del barile di petrolio in meno di quattro mesi: in pochi giorni, il costo dell’importazione di petrolio per la Francia passò da meno dell’1,5% del PIL a quasi il 5%. Il 22 novembre 1973, il Consiglio interministeriale presieduto da Pierre Messmer, primo ministro, ratificò il progetto di un impianto di arricchimento a Tricastin, Eurodif, diretto da Georges Besse, che aveva lanciato il progetto all’inizio del 1974. Il 30 novembre 1973 Pierre Messmer si rivolge ai francesi per annunciare una serie di misure di risparmio energetico. Era l’inizio di un’operazione di “risparmio energetico” che avrebbe stabilizzato il consumo di energia del Paese nell’arco di un decennio. Il 6 marzo 1974, il Consiglio interministeriale presieduto da Georges Pompidou decise quello che sarebbe stato chiamato il “piano Messmer”, elaborato sulla base delle proposte della commissione PEON: impegno di sei unità nucleari di circa 1.000 MW nel 1974, poi sette unità nel 1975, mantenendo l’obiettivo di una coesistenza e di un’emulazione tra le due tecnologie ad acqua leggera (Westinghouse e General Electric). Nell’agosto 1975, data la sua debolezza industriale sull’isola nucleare rispetto a Creusot-Loire-Framatome, CGE rinunciò allo sviluppo della linea di ebollizione di General Electric. Il governo avrebbe rinunciato alla competizione sulla caldaia e sul turbogeneratore, mentre EDF avrebbe lavorato con gli industriali e la CEA per mettere l’industria in ordine di battaglia per affrontare questo nuovo periodo e queste nuove sfide associate a un dispiegamento su vasta scala per più di un decennio (1975-1990)27 .

 

L’industria in ordine di battaglia per una transizione energetica senza precedenti

 

Tutti gli attori erano consapevoli della necessità di cambiare nuovamente software rispetto ai periodi precedenti, sia in termini di organizzazione e metodi operativi, sia di fronte alle nuove sfide industriali ed economiche associate all’attuazione di un programma di costruzione particolarmente ambizioso.

 

Nel 1967, la Divisione Apparecchiature di EDF, a causa della sua storia, era composta da una quindicina di regioni di apparecchiature gelose della loro autonomia, ognuna con i propri uffici di progettazione e abituate a competere su centinaia di lotti con un’industria frammentata e con scarse capacità di progettazione. A partire dal 1967-1968, l’azienda si preparò a un impiego standardizzato, traendo insegnamento dal difficile avvio della fase termica da 250 MW, legato a questa assenza di dottrina tecnica e a questo eccessivo decentramento. Allo stesso tempo, si trattava della fine graduale dei grandi programmi idraulici – la maggior parte dei siti era attrezzata – che si basavano naturalmente su approcci “su misura”. Nel 1968, Charles Chevrier, vicedirettore generale, creò il Septen, che avrebbe avuto la responsabilità tecnica della progettazione delle apparecchiature termiche e nucleari. Dal 1972 al 1976, Michel Hug, Direttore dell’Equipaggiamento, ha riorganizzato le regioni dell’equipaggiamento e nel 1973 ha creato il comitato dei responsabili degli studi delle regioni dell’equipaggiamento28 : questo comitato controlla e decide, su delega del Direttore dell’Equipaggiamento, su tutti gli argomenti chiave riguardanti la progettazione delle fasi tecniche; è presieduto dal capo del Septen e decide sulla base di un consenso tecnico che viene poi imposto a tutte le regioni. Alcune regioni sono responsabili dei principali pacchetti di teste portanti, in particolare la caldaia nucleare e il gruppo generatore della turbina.

 

EDF intende inoltre adattare le proprie relazioni contrattuali a un tessuto industriale più concentrato, meglio attrezzato con uffici di progettazione e in grado di assumersi la responsabilità di sottosistemi tecnici più grandi. Soprattutto, l’azienda rinuncerà alla competizione tra i suoi fornitori per due importanti lotti: la caldaia nucleare, con Framatome, e il gruppo turbogeneratore, con Alsthom. Con le scuole professionali saranno avviati programmi di formazione molto importanti su tutte le competenze necessarie per la costruzione e il funzionamento di queste unità, e mobiliteremo il know-how degli ex lavoratori idraulici, termici e UNGG. Il tessuto industriale dovrà avere una visibilità a lungo termine, con un controllo tecnico rigoroso della produzione dei componenti chiave e un controllo dell’andamento dei costi. EDF sta inoltre lavorando costantemente allo sviluppo della rete ad altissima tensione, in particolare la rete a 400 kV, essenziale per il trasporto dell’elettricità dai nuovi siti di produzione agli usi in rapida crescita.

 

L’industria è concentrata e ristrutturata intorno a Framatome-Creusot-Loire per la caldaia nucleare (che assorbe le competenze dei gruppi industriali UNGG, G3A, Indatom) e intorno a CGE-Alsthom per la parte dei turbo-alternatori. Framatome costruisce in diciotto mesi un nuovo stabilimento a Saint-Marcel, nella regione di Saône-et-Loire, che diventa operativo alla fine del 1975. Con i suoi due stabilimenti, Creusot-Loire-Framatome avrebbe avuto una capacità produttiva annua di otto serbatoi e di diciotto-ventiquattro generatori di vapore, nonché le migliori competenze per produrre i componenti chiave del circuito primario (la parte “nucleare” dell’impianto). La scommessa dei suoi direttori, Philippe Boulin, Maurice Aragou e Jean-Claude Leny, di far leva sulla loro credibilità industriale e sull’impegno dei politici e di EDF in una serie di unità è stata vinta. Questo permetterà, con l’atteggiamento cooperativo di Westinghouse e la maestria scientifica della CEA (legata in particolare alla sua padronanza dell’acqua leggera per la propulsione nucleare), di “affrancare” la tecnologia Westinghouse in pochi anni. In questo contesto, la CEA acquisì una partecipazione in Framatome nel 1975.

 

André Giraud, amministratore generale della CEA dal 1970 al 1978, riorganizzò le attività della CEA adattando le regole di gestione e le strutture giuridiche alle sue diverse missioni. Nel 1976, Jean Bourgeois, un pioniere della sicurezza nucleare, creò l’Istituto per la protezione e la sicurezza nucleare (IPSN) presso il CEA, che oggi è diventato l’Istituto per la protezione dalle radiazioni e la sicurezza nucleare (IRSN), il supporto tecnico dell’Autorità per la sicurezza nucleare (ASN). Il CEA ha creato filiali per alcune parti industriali, come TechnicAtome nel 1972 (dal dipartimento di costruzione delle batterie) e Cogema per il ciclo a valle nel 1976. Il CEA è particolarmente coinvolto nel controllo industriale dell’intero ciclo del combustibile del settore dell’acqua pressurizzata, da monte, con la fabbricazione del combustibile e soprattutto l’arricchimento (costruzione di Eurodif), a valle, con il ritrattamento del combustibile e la gestione delle scorie nucleari. Tra le personalità che hanno svolto un ruolo importante in questo periodo con André Giraud, possiamo citare Claude Fréjacques, responsabile degli studi sull’arricchimento presso il CEA dal 1957, poi direttore della chimica del CEA negli anni ’70, prima di diventare presidente del CNRS nel 1981.

 

Il controllo della sicurezza è un punto centrale del successo del programma nucleare. All’inizio degli anni ’70 è stata creata una nuova organizzazione per la sicurezza con la creazione, nel 1973, del Service central de sécurité des installations nucléaires (SCSIN) all’interno del Ministero dell’Industria, non più integrato nel CEA. Esso ha potuto contare sulle competenze in materia di sicurezza del CEA, che nel 1976 sono state riunite, come già detto, nell’IPSN sotto la direzione di Jean Bourgeois29. Nel 1991, lo SCSIN è diventato la Direction de la sûreté nucléaire (DSIN), dipendente dal Ministero dell’Industria e dell’Ambiente, poi, nel 2002, la Direction générale de la sûreté nucléaire et de radioprotection (DGSNR), anch’essa dipendente dal Ministero della Salute, prima di diventare, nel 2006, l’ASN, un’autorità amministrativa indipendente.

 

III

Parte

Un’impegnativa preparazione collettiva sostenuta dallo Stato

 

https://www.fondapol.org/etude/souverainete-maitrise-industrielle-et-transition-energetique-1/#chap-3

1

Assunzione di rischi, fallimento e successo nella prospettiva del potere economico e della sovranità

 

Note

  1. Su questo periodo si veda Fondation Charles-de-Gaulle, Défendre la France. L’eredità di

L’eredità di De Gaulle alla luce delle questioni attuali. Actes de colloque, Nouveau Monde Éditions/Ministère des Armées, 2020; Collectif, Puissance et faiblesses de la France industrielle XIXe-XXe siècle, Seuil, coll. “Points histoire”, 1997; Marc Bloch, L’Étrange défaite [1946], Gallimard, coll. “Folio histoire”, 1990; Gaston Berger, Jacques de Bourbon-Busset et Pierre Massé, De la prospective. Textes fondamentaux de la Prospective française 1955-1966, L’Harmattan, 2007; Jean-François Sirinelli, Les Vingt Décisives. Le passé proche de notre avenir (1965-1985), Fayard, 2007 (riedito nella collana “Pluriel”, con una prefazione inedita, 2012).

L’aspetto più sorprendente è senza dubbio il contrasto tra, da un lato, i notevoli risultati della massiccia diffusione del programma negli anni 1975-1990, con costi di investimento da due a tre volte inferiori a quelli degli Stati Uniti e il controllo industriale dell’intera catena del valore (sovranità ed economia), e, dall’altro, i tentativi e le difficoltà che li hanno preceduti dal 1945 al 1975, Abbiamo visto le difficoltà, i tentativi e gli errori, le battute d’arresto tecniche ed economiche a volte considerevoli, e la diversità delle sfide a seconda del periodo – ricerca e prototipi, dimostratori industriali e scelta del settore (o dei settori), preparazione alla diffusione di serie standardizzate -, una diversità di sfide che ha richiesto organizzazioni e competenze molto diverse30. La chiave dell’enigma risiede indubbiamente nella comprensione di questa capacità di rimbalzo e di resilienza per diversi decenni, basata sulla scelta di accettare e assumere queste prove ed errori, questi rischi, con una ripartizione delle responsabilità e delle organizzazioni appropriate e la scelta di personalità impegnate e competenti per l’azione.

 

In questo spirito, quattro ingredienti principali o “quattro elementi” ci sembrano in grado di spiegare questa resilienza e capacità di rimbalzo che hanno permesso un successo eccezionale:

 

una visione politica a lungo termine e bipartisan delle questioni energetiche, basata su scienza e industria;

uno Stato che assume il proprio ruolo nella modernizzazione del Paese in settori chiave come l’energia

un’organizzazione e un funzionamento dello Stato che lo rendano responsabile dei risultati e facilitino l’azione collettiva;

uno Stato che mobiliti le migliori competenze industriali e scientifiche per il processo decisionale e l’azione.

Una visione a lungo termine e un’ambizione portata avanti dai leader politici, condivisa con le élite scientifiche e industriali e con l’alta funzione pubblica: sovranità economica ed energetica, progresso economico e sociale, grazie alla scienza e a un’industria efficiente e potente.

 

Questa visione a lungo termine è interessante ed efficace solo perché accompagnata dall’attenzione e dalla priorità data alla qualità dell’implementazione industriale, ai risultati ottenuti, all’ascolto dei professionisti e alla mobilitazione del loro know-how, anche nello sviluppo delle strategie, e all’ascolto delle opportunità legate agli eventi, anche geopolitici.

 

Una visione che si rifà alla concezione di uno Stato “determinato e misurato”,

impegnato nella modernizzazione economica e industriale del Paese.

 

Per la maggior parte degli attori è chiaro dalla storia, in particolare dal periodo delle due guerre mondiali e dal decennio di crisi economica degli anni ’30, che non si può semplicemente fare affidamento sui settori privati e sui mercati per garantire la sicurezza delle nazioni di fronte ai rischi geopolitici e geoeconomici, né di garantire la prosperità economica quando si verifica un “fallimento del mercato” legato alla presenza di monopoli naturali (reti energetiche o di trasporto), o di “esternalità positive31 ” dovute al riavvicinamento laboratorio-fabbrica o al coordinamento industriale sul controllo a lungo termine di sistemi socio-tecnici complessi, come le reti energetiche o elettriche, o il settore nucleare.

 

Laureato all’Ecole Polytechnique e al Ponts et Chaussées, Pierre Massé è stato successivamente direttore delle attrezzature di EDF, commissario generale per la pianificazione dal 1959 al 1965 e poi presidente di EDF dal 1965 al 1969; Marcel Boiteux, laureato all’Ecole Normale Supérieure, matematico ed economista, è stato capo degli studi economici generali, direttore generale di EDF dal 1967 al 1979 e poi presidente di EDF dal 1979 al 1987. Entrambi hanno guidato, sia all’interno di EDF che nei lavori del Piano, la riflessione sugli strumenti economici rilevanti per attuare le politiche dello Stato e inviare i giusti segnali economici agli attori economici: il tasso di sconto per integrare in modo coerente il costo del finanziamento nella scelta degli investimenti pubblici, la programmazione stocastica dinamica per ottimizzare la scelta degli investimenti tenendo conto delle incertezze e del lungo periodo, la tariffazione al costo marginale di lungo periodo per inviare i giusti incentivi al consumatore in termini di investimenti negli usi, la Nota Blu per decentrare le scelte di investimento e dimensionamento nel settore idraulico (importanza di poter fare “su misura”).

 

Il Piano strutturerà questo lavoro per collocarlo nel quadro sistemico di una previsione di lungo periodo che integri tutti gli attori economici e sociali, i sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro, gli enti locali, le complessità e le incertezze. Questo “obbligo ardente” di pianificazione in Francia è spesso poco conosciuto e mal compreso. In particolare, si dimentica spesso la grande diversità dei profili mobilitati, da Pierre Massé, grande ingegnere e scienziato, a Gaston Berger, direttore generale dell’istruzione superiore dal 1953 al 1960 e filosofo, che fu uno dei primi fenomenologi in Francia a scrivere su Husserl e Heidegger con Emmanuel Levinas. Anche Gaston Berger ha svolto un ruolo decisivo nel lavoro di previsione in Francia, dando grande importanza all’istruzione e alla cultura, oltre che al ruolo centrale degli attori, alla loro libertà e ai loro vincoli.

 

Uno di questi grandi ingegneri, Louis Armand, a capo della SNCF e poi dell’Euratom, era un industriale, uno scienziato e un servitore dello Stato e per più di due decenni ha tenuto agli studenti dell’ENA corsi notevoli di pedagogia e di precisione concreta sulle poste in gioco tecniche, economiche e sociali dell’energia e dell’industria per la Francia. Non è certo che i decenni successivi abbiano offerto un approccio così approfondito e sistemico alle classi che si sono succedute all’ENA o all’École Polytechnique. Il successo di tutti questi ambiziosi obiettivi in termini di sviluppo economico e sociale era tutt’altro che assicurato, dopo tre decenni di guerra, crisi e declino in Francia. La maggior parte di questi attori era abitata dall’importanza delle incertezze e dalla necessità di rimanere modesti e prudenti, pur essendo determinati a uscire dal comportamento spesso malthusiano, egoista e retrogrado che Marc Bloch aveva così bene analizzato. È stato più negli anni ’70 e ’80 che questa modestia è stata troppo spesso abbandonata, lasciando talvolta il posto a tecnocrazie che hanno confuso la scienza con lo scientismo e hanno trasformato la speranza di progresso in certezza.

 

Organizzazione statale per l’azione e la realizzazione di grandi progetti industriali di interesse generale

 

Questa organizzazione si basava in particolare su :

 

enti industriali e/o scientifici come il CEA e l’EDF, o dipartimenti governativi come la Direzione dell’Energia e delle Materie Prime (DGEMP), prima denominata Segretariato Generale dell’Energia dal 1963 al 1973, poi Delegazione Generale dell’Energia dal 1974 al 1978. Jean Blancard fu quindi Delegato Generale per l’Energia nel 1974-1975, dopo essere stato Delegato Ministeriale per gli Armamenti dal 1968 al 1974, con forti responsabilità in campi coerenti e sufficientemente vasti per sentirsi davvero responsabile del futuro del Paese in questi settori, integrando la dimensione sistemica e quella industriale. La creazione da parte del generale de Gaulle, nel 1961, del Centre national d’études spatiales (Cnes) nel settore spaziale e della Délégation ministérielle pour l’armement (DMA), poi divenuta Direction générale de l’armement (DGA), rientravano nella stessa logica: l’obiettivo era quello di “trasformare il mondo” e i servizi statali erano responsabili della coerenza delle regole concrete del gioco con gli obiettivi;

uno Stato efficiente che funziona sotto l’autorità del politico, che polarizza le energie, ascolta gli attori e decide in modo pragmatico. Si tratta di giungere rapidamente a soluzioni attraverso istituzioni che gestiscano i conflitti e confrontino i punti di vista a livello di competenze rilevanti: consigli ministeriali ristretti, commissione Plan e PEON, comitati CEA-EDF, comitato dei responsabili delle regioni di equipaggiamento all’interno del FES, ecc.

Uno Stato con le migliori competenze industriali e scientifiche.

 

Lo Stato si avvaleva quindi, sia all’interno che all’esterno, delle migliori competenze industriali e scientifiche portate da uomini animati da questa visione collettiva e addestrati all’azione e all’attuazione: EDF era stata creata dalla nazionalizzazione di più di mille imprese nel 1946 e la maggior parte dei suoi dirigenti aveva realizzato progetti, costruito centrali e reti, nell’ambito delle imprese private del periodo tra le due guerre (Pierre Massé, Pierre Ailleret, André Decelle). La CEA era gestita da industriali come Pierre Guillaumat e Pierre Taranger, e da grandi scienziati come Francis Perrin e Jules Horowitz. E fornitori industriali come Creusot-Schneider (Charles Schneider, Philippe Boulin, Maurice Aragou, Jean-Claude Leny), CGE o Saint-Gobain erano coinvolti nelle discussioni. Questi uomini, per il loro passato industriale e anche, per molti di loro, per il loro passato di combattenti della Resistenza e di francesi liberi, erano abituati a mettersi in gioco, a non evitare il conflitto, a rischiare e a sentirsi responsabili individualmente e collettivamente dell’insieme.

 

Possiamo quindi vedere chiaramente l’emergere di una concezione forte e precisa del ruolo dello Stato nel campo del controllo industriale al servizio della sovranità e del potere economico, con un’organizzazione dello Stato snella, coerente e responsabilizzante e, al centro dello Stato, competenze industriali e scientifiche dotate di esperienza d’azione e preoccupazione per la realizzazione operativa. Questa organizzazione e queste competenze industriali e scientifiche sono in diretta interazione con i politici, che le interpellano e le coinvolgono nei loro processi decisionali. I politici forniscono la visione e si aspettano risultati dall’industria, ma anche iniziative e gestione cooperativa dei conflitti tra di loro. E, alla fine, sono loro che, ascoltando la posta in gioco e le circostanze geopolitiche, decidono le opzioni strategiche nei momenti chiave e la cooperazione internazionale.

 

2

Sovranità ed efficienza economica attraverso il controllo industriale e la cooperazione internazionale mirata

 

La sovranità energetica viene spesso contrapposta all’efficienza economica attraverso il commercio e la cooperazione internazionale. Secondo questa visione, qualsiasi politica industriale comporterebbe protezionismo, regolamenti e sussidi, con costi aggiuntivi significativi per l’economia e i contribuenti. L’analisi della storia del programma nucleare francese dimostra che questo, lungi dall’essere una fatalità, può essere esattamente il contrario, se comprendiamo che il controllo industriale di un settore chiave da parte del tessuto industriale di un Paese è un fattore comune di progresso economico e sociale e di autonomia strategica. Ci rendiamo anche conto che se questo controllo industriale richiede l’intervento dello Stato in settori come il sistema elettrico e l’energia nucleare, non si tratta di un intervento qualsiasi: un intervento mirato a questioni di sovranità e “fallimenti del mercato”, e basato su un alto livello di competenza industriale al servizio dell’interesse generale. Abbiamo visto che questo intervento, pur assumendo forme diverse a seconda del periodo (prototipi/dimostratori industriali/dispiegamento su larga scala), deve sempre articolare le due preoccupazioni: sovranità ed efficienza economica. È chiaro che la diffusione su larga scala di una tecnologia di produzione di energia elettrica meno competitiva di quella di altri grandi Paesi segnerebbe la fine del potere economico e quindi della sovranità: come ricordava spesso il generale de Gaulle, il potere industriale ed economico di un Paese nei settori strutturanti dell’energia, dei trasporti o della difesa è la condizione dell’autonomia strategica. È quindi necessario, come abbiamo detto, avere la capacità di identificare da un lato gli anelli chiave della catena del valore che sono una questione di sovranità, e dall’altro i “fallimenti del mercato industriale” che richiedono un’azione consapevole e mirata da parte dello Stato, e non una miriade di sussidi, regolamenti e obiettivi non gerarchici.

 

La cooperazione internazionale è ovviamente molto utile in questi settori ad alta tecnologia, in quanto le economie di scala sono importanti sia per i prototipi e i dimostratori che per la produzione di attrezzature nella fase di diffusione. Tuttavia, occorre prestare attenzione alle dimensioni sensibili legate, da un lato, al duplice aspetto della tecnologia nucleare (non proliferazione e controllo dei materiali) e, dall’altro, all’autonomia strategica negli anelli chiave per il controllo industriale ed economico, garantendo al contempo il mantenimento dei vantaggi comparativi associati. La prima dimensione riguarda la catena del combustibile, in particolare l’arricchimento e il ritrattamento; la seconda la sicurezza dell’approvvigionamento di combustibile (miniere di uranio diversificate, scorte strategiche per tutto il ciclo), nonché il controllo e il comando della fabbricazione di componenti chiave (serbatoi, metallurgia e saldatura, motori di emergenza) per i reattori (in particolare la sicurezza). Nel quadro di una visione a lungo termine dei rischi industriali e geopolitici, è necessario creare un’offerta diversificata, che possa articolare una base francese, un complemento più o meno importante acquistato da fornitori stranieri e le scorte strategiche necessarie, proteggendo al contempo i segreti di fabbricazione e i vantaggi comparativi legati a determinate innovazioni. I partenariati sostenibili richiedono quindi l’articolazione di precise considerazioni industriali ed economiche con questioni geopolitiche. Anche in questo caso, se i politici hanno una visione che collega le questioni geopolitiche e di politica estera con quelle industriali, e se possono contare su competenze che integrano la lungimiranza geopolitica e industriale all’interno dello Stato, è possibile attuare una forte cooperazione a seconda del contesto, anche con gli alleati storici, sui legami di sovranità come l’arricchimento (come nel caso di Eurodif con gli alleati europei) o il ritrattamento (nel caso della cooperazione con il Giappone).

 

La storia del nucleare civile illustra bene queste osservazioni. Se negli anni Cinquanta i francesi si sono messi in proprio con l’UNGG, non è stato volontariamente, ma a causa dell’atteggiamento degli Stati Uniti, che si sono rifiutati di condividere le loro conoscenze tecnologiche e il lavoro in corso tra i grandi laboratori pubblici e Westinghouse o General Electric (McMahon Act del 1946). Non appena si aprì la possibilità, visto il mutato atteggiamento degli Stati Uniti e la creazione dell’Euratom alla fine degli anni Cinquanta, il generale de Gaulle in persona autorizzò la partecipazione dell’EDF alla costruzione di Chooz A con i belgi e la tecnologia di Westinghouse. I primi reattori di serie ad acqua leggera, e anche l’UNGG, furono oggetto di partnership con altre società elettriche: Vandellos, UNGG in Spagna; Tihange con i belgi; la partecipazione di tedeschi e svizzeri nelle due unità ad acqua pressurizzata di Fessenheim. Abbiamo già accennato alla cooperazione sull’arricchimento e sul riprocessamento con partner europei o giapponesi, ma possiamo anche citare la presenza della società giapponese MHI nel capitale di Framatome, che è anche un importante attore industriale non solo in Francia ma anche a livello internazionale, in particolare negli Stati Uniti per la manutenzione degli impianti esistenti.

 

Il rischio può derivare da un cambiamento nella strategia nucleare civile di uno dei partner, come nel caso della Germania, che ha abbandonato il nucleare all’inizio degli anni 2000, indebolendo così il progetto franco-tedesco di generazione 3, l’EPR. Può anche derivare da un’evoluzione del contesto geopolitico e del comportamento dei potenziali partner, ad esempio con l’atteggiamento negativo degli Stati Uniti all’inizio della Guerra Fredda. La questione dei partner sostenibili nello sviluppo di tecnologie chiave come l’energia nucleare è ovviamente importante per il futuro, con la rivalità strategica tra Cina e Stati Uniti e la guerra tra Russia e Ucraina.

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“Molte questioni “woke” corrispondono all’agenda degli islamisti”, di Eugénie Boilait

FIGAROVOX/ INTRODUZIONE. – In uno studio per la Fondazione per l’Innovazione Politica, Lorenzo Vidino analizza il legame tra wokismo e islamismo. Gli islamisti usano la lotta alla discriminazione per diventare gli interlocutori privilegiati delle istituzioni occidentali, spiega.

FIGAROVOX. – Cosa intendi con “svegliato l’islamismo”? Non c’è una contraddizione in termini?

Lorenzo VIDINO. –  La contraddizione è solo apparente, in realtà il termine descrive una dinamica che si manifesta in tutti i paesi occidentali: gli islamisti, in particolare quelli delle generazioni più giovani, adottano le questioni e il quadro di pensiero del movimento vegliato (ndr, to be woke , sveglio in inglese comprende tutto ciò che riguarda l’ingiustizia e l’oppressione, la cui lotta è portata come standard dai seguaci di questo movimento). Nonostante i loro forti legami con i Fratelli Musulmani e altri gruppi islamisti, la maggior parte di questi giovani attivisti usa raramente riferimenti islamisti e, se lo fa, lo fa in termini sommessi. Piuttosto, parlano il linguaggio della discriminazione, dell’antirazzismo, dell’oppressione interiorizzata, dell’intersezionalità e della teoria postcoloniale. Molte delle cause che abbracciano, come l’ambiente o l’abbassamento delle tasse universitarie, non hanno nulla a che fare con l’islamismo. Altri possono essere visti come lamentele tradizionali sovrapposte dell’islamismo, ma sono inquadrate in termini tipicamente progressisti e senza apparente islamismo. Per esempio,

Lei menziona due gruppi target per gli islamisti occidentali: le comunità musulmane occidentali e le istituzioni occidentali. Perché gli islamisti si rivolgono particolarmente a loro?

Gli islamisti occidentali sono pragmatici e si sono resi conto che l’obiettivo che volevano raggiungere nella maggior parte dei paesi musulmani – creare regimi islamici che obbedissero alle leggi della Sharia – era irraggiungibile in Occidente. I loro obiettivi sono ora adattati al loro ambiente nella maggior parte delle società prevalentemente non musulmane. Il primo obiettivo degli islamisti è quello di diffondere la loro visione sociale, politica e religiosa del mondo alle comunità musulmane e per farlo hanno creato una rete estremamente sofisticata di moschee, associazioni, scuole e altre istituzioni.

Il secondo obiettivo è diventare l’interlocutore esclusivo delle élite europee, i rappresentanti moderati e affidabili a cui i governi europei, i media e la società civile nel suo insieme si rivolgerebbero quando cercheranno di mobilitare la comunità musulmana. Idealmente, diventerebbero persone incaricate dal governo di preparare curricula, scegliere insegnanti per l’educazione islamica nelle scuole pubbliche, scegliere imam nell’esercito, nella polizia o in prigione e ricevere sussidi per amministrare vari servizi sociali.

Questa posizione consentirebbe loro  di fatto  di essere la voce ufficiale dei musulmani nei dibattiti pubblici e nei media, eclissando così le forze in competizione. I poteri e la legittimità loro conferiti dai governi europei permetterebbero loro anche di esercitare un’influenza significativamente maggiore sulla comunità musulmana. Con un giudizioso calcolo politico, i Fratelli Europei desiderano trasformare il loro tentativo di leadership in una profezia che si autoavvera, cercando di essere riconosciuti come rappresentanti della comunità musulmana per diventarlo veramente. Inoltre, questa vicinanza consentirebbe loro di esercitare pressioni su tutte le cause care agli islamisti, sia in politica interna che estera.

Come si spiega il fascino di una certa frangia della sinistra occidentale per l’islamismo?

Va detto che alcune parti della sinistra, in Francia in particolare, non hanno simpatia per l’islamismo, perché sanno che fondamentalmente l’islamismo è un’ideologia di estrema destra, patriarcale e intollerante.

Tuttavia, una certa parte della sinistra, per alcuni decenni, ha cominciato ad ammirare l’islamismo. In Francia, l’esempio perfetto di questo fenomeno è Michel Foucault e il suo fascino per la rivoluzione iraniana, che ha poi riconsiderato. Il potente anticolonialismo dell’islamismo, il suo rifiuto di ciò che percepisce come costrutti sociali ed economici imposti dall’Occidente, il suo antiamericanismo e antisionismo e la sua capacità di mobilitare le masse hanno conquistato l’ammirazione di ampi settori della sinistra occidentale.

Anche altri elementi giocano un ruolo: la mancanza di comprensione della vera natura dell’Islam e dell’Islamismo; l’idea cinica di un sodalizio con gli islamisti per un quid pro quo politico; e l’idea ingenua che solo gli occidentali possano sostenere idee fasciste e intolleranti, concedendo anche agli islamisti un passaggio gratuito quando adottano opinioni che la sinistra avrebbe detestato se fossero stati sostenuti da un movimento occidentale.

Come definiresti il ​​wokismo? E in che modo gli islamisti occidentali hanno abbracciato questa nuova scuola di pensiero?

Il wokismo è un termine controverso, ma va bene vederlo come una forma accresciuta di politica dell’identità. E molte delle questioni risvegliate si adattano perfettamente all’agenda degli islamisti. La tendenza a prendere di mira il bianco e la presunta tendenza dominante dell’uomo bianco e la sua presunta responsabilità per la maggior parte delle disgrazie del mondo si adattano perfettamente, ad esempio, a un’ideologia come l’islamismo, nata nella prima metà del XX secolo in opposizione al colonialismo e che da allora ha accusato l’Occidente di molti dei problemi del mondo musulmano. Allo stesso modo,

Gli islamisti di oggi affermano in un linguaggio perfettamente sveglio e affermano che i musulmani hanno bisogno di “spazi sicuri” per essere protetti dal “razzismo strutturale” e per preservare la loro identità.

Gli islamisti sono davvero convinti delle cosiddette tesi sveglie o le usano come strumenti politici?

È difficile da dire e la risposta molto probabilmente si trova tra i due. Non c’è dubbio che gli islamisti hanno un’enorme flessibilità politica e ora si sono resi conto che il wokismo li aiuta su vari fronti, quindi non è irragionevole vedere questo solo come uno stratagemma cinico. Allo stesso tempo, i giovani attivisti islamisti, in gran parte nati in Europa, hanno trascorso i loro anni di formazione a cavallo di due mondi: un piede nelle reti islamiste tradizionali e l’altro nei circoli accademici progressisti e nella società civile, ed è logico pensare che essi assorbito elementi di entrambi, giustapponendoli e riconciliandoli. Ma stiamo assistendo a un nuovo fenomeno ed è difficile prevedere come si svilupperanno le cose, come reagirà la vecchia guardia islamista se certe tendenze wokiste si spingono troppo oltre e se le nuove generazioni potessero staccarsene. Le interpretazioni possibili sono molte, ma è chiaro che stiamo assistendo a un passaggio generazionale all’interno dell’islamismo europeo e dobbiamo osservare attentamente cosa questo comporta.

https://www.fondapol.org/dans-les-medias/de-nombreuses-problematiques-woke-correspondent-a-lagenda-des-islamistes/

Segue il saggio di

Lorenzo Vidino _ riassunto

Gli ultimi decenni hanno visto un cambiamento nella strategia e nel discorso dell’Islam radicale e dei suoi militanti. Questi cambiamenti sono il risultato della grande e ormai duratura presenza di popolazioni musulmane nel mondo occidentale. Di fronte all’irrealismo di un progetto originale di islamizzazione integrale, i suoi militanti si sono evoluti in una doppia direzione: la ricerca della massima influenza sulle comunità musulmane occidentali e la promozione della loro visione e delle loro rivendicazioni con le istituzioni e le principali istituzioni politiche, economiche, culturali e sociali attori nei paesi ospitanti. Questi attivisti provengono da nuove generazioni, nati e formati in Occidente, il più delle volte nelle scienze sociali, e non più nel campo scientifico e tecnologico come i loro predecessori. Contemporaneamente, questi nuovi islamisti sostengono temi ultraprogressisti, consentendo loro di concludere alleanze con la sinistra radicale. Gli sviluppi più recenti hanno così visto moltiplicarsi i ponti tra l’Islam radicale e quella che oggi viene chiamata “cultura sveglia”, in un contesto di propagazione di contenuti che è stato profondamente modificato dai canali satellitari e dai social network.

Questa nota di Lorenzo Vidino, direttore del programma di ricerca sull’estremismo alla George-Washington University, presenta le strutture, i supporti e i temi di questo “islamismo svegliato” o “islamo-wokismo”, ma anche le reazioni negative, soprattutto in Francia e persino tra i musulmani occidentali.

L’autore mostra che i nuovi attivisti islamisti usano raramente i riferimenti tradizionali ma piuttosto riprendono il linguaggio della discriminazione, dell’antirazzismo, dell’oppressione interiorizzata, dell’intersezionalità e della teoria postcoloniale. È questo nuovo approccio che dà loro accesso al mondo della politica, dei media e della società civile, che i loro predecessori non avrebbero mai osato sperare.

Resta la domanda se un tale cambiamento rifletta un’adozione dei valori occidentali da parte di questa nuova generazione di attivisti, attraverso il progressismo, o se, al contrario, il wokismo stia diventando un potente vettore di influenza islamista nel mondo occidentale.

Lorenzo Vidino,

Direttore del Programma Estremismo presso la George Washington University

Leggi anche

 

STUDIA

L’ideologia woke. Anatomia del wokismo (1)

STUDIA

L’ideologia sveglia. Di fronte al wokismo (2)

L’islamismo nel mondo occidentale ha una storia di quasi settant’anni, che risale all’arrivo in Europa e Nord America tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 dei primi membri della Fratellanza Musulmana, siano essi studenti che seguono un’istruzione superiore nelle università occidentali o alti funzionari in fuga dalla persecuzione a casa. Da allora, attivisti legati a vari rami della Fratellanza Musulmana nel mondo arabo e ad altri movimenti del subcontinente indiano (Jamaat-e-Islami) e della Turchia (Millî Görüş) appartenenti alla grande famiglia della politica islamica hanno stabilito una presenza stabile in l’ovest. Da allora questi movimenti si sono evoluti ideologicamente e organizzativa. Nonostante le loro dimensioni relativamente ridotte,

Alcuni aspetti di questa presenza non sono cambiati molto nel tempo. Ad esempio, il funzionamento interno di molte reti islamiste occidentali, come uno scrupoloso processo di selezione, il segreto interno e la struttura gerarchica, sono virtualmente identici a quelli dei primi tempi, replicando essenzialmente quelli delle strutture madri delle società a maggioranza musulmana.1 . Tuttavia, negli anni, i membri occidentali del movimento islamista, che si caratterizza per la sua flessibilità e pragmatismo, hanno capito che diversi aspetti della loro matrice politica devono essere adattati.

Giudizi

In primo luogo, hanno capito che gli obiettivi che il movimento perseguiva per le società a maggioranza musulmana – l’islamizzazione della società nel suo insieme e l’istituzione di un governo islamico che applicasse la sharia – non potevano essere raggiunti realisticamente in Occidente, dove i musulmani sono solo un piccola minoranza. Gli islamisti occidentali hanno quindi ritenuto più appropriati due obiettivi: da un lato, diffondere la loro visione politico-religiosa del mondo all’interno delle comunità musulmane occidentali; dall’altro, per influenzare le politiche pubbliche ei dibattiti occidentali sulle questioni che li interessano.

Inoltre, nel tempo, gli islamisti occidentali si sono resi conto che non solo i loro obiettivi, ma anche le loro tattiche dovevano essere adattate. Alcune delle narrazioni, dei modelli e del linguaggio che compongono il repertorio tradizionale dell’islamismo sono rimaste invariate. Ciò era particolarmente vero tra gli ex membri affiatati del movimento e anche quando il movimento cercava di raggiungere un pubblico più ampio, ma ancora relativamente piccolo, di simpatizzanti conservatori nelle comunità musulmane occidentali. Ma, allo stesso tempo, gli islamisti occidentali hanno cambiato radicalmente il modo in cui si presentano a due dei loro principali destinatari:

È di fondamentale importanza per gli islamisti occidentali raggiungere questi due gruppi target. Hanno capito fin dall’inizio degli anni ’80 che la loro presenza in Occidente non era temporanea e che potevano usarla non solo come rifugio per sfuggire ai regimi del Medio Oriente, ma anche per raggiungere una nuova serie di Obiettivi. Le comunità musulmane occidentali di recente costituzione e in crescita sono state viste come un pubblico perfettamente ricettivo alla visione religiosa e sociopolitica degli islamisti, e Yusuf Al-Qaradawi, il presunto leader spirituale del movimento islamista globale, ha affermato che “il dovere di il movimento islamico [doveva] non lasciare che questi espatriati [occidentali] fossero spazzati via dal vortice materialistico che prevale in Occidente 2“. Con l’obiettivo di influenzare le istituzioni occidentali, negli ultimi trent’anni gli islamisti hanno costantemente cercato di presentarsi come legittimi rappresentanti delle comunità musulmane locali, come interlocutori affidabili e moderati per i governi, i media e la società nel suo insieme.

Giudizi

Per convincere questi interlocutori alla loro causa, gli islamisti occidentali hanno subito capito la necessità di adattare i loro messaggi ei loro metodi. Questo processo di adattamento linguistico è iniziato diversi decenni fa, ma si è approfondito e accelerato negli ultimi dieci-quindici anni, con l’arrivo di una nuova generazione di giovani attivisti. A differenza della prima generazione di islamisti arrivati ​​dal Medio Oriente, questa nuova generazione ha più familiarità con le sensibilità culturali occidentali perché è nata in Occidente e si è formata principalmente nelle scienze sociali, umanistiche e della comunicazione (mentre la maggior parte degli attivisti di prima generazione tendeva a formazione in discipline come ingegneria e medicina). Molti di coloro che appartengono a questa nuova generazione di attivisti islamici mantengono solo tenui legami formali con le strutture islamiste consolidate. Potrebbero essere cresciuti sotto l’influenza dell’Islam – a volte letteralmente, poiché alcuni di loro sono figli di pionieri dell’Islam in Occidente – essendo attivi in ​​gruppi di giovani islamisti o tenendo spesso conferenze nelle moschee e in occasione di eventi legati alla rete, ma hanno spesso costruito i propri mezzi per amplificare il proprio discorso attraverso la creazione di nuove organizzazioni e una presenza online multipiattaforma. Il loro grado di connessione con le organizzazioni islamiste tradizionali è variabile e può essere piuttosto limitato, almeno formalmente.

Inoltre, la maggior parte di questi giovani attori islamisti usa raramente riferimenti islamisti e, se lo fanno, di solito è in termini alquanto sottovalutati. Piuttosto, parlano il linguaggio della discriminazione, dell’antirazzismo, dell’oppressione interiorizzata, dell’intersezionalità e della teoria postcoloniale. Molte delle cause che abbracciano, come l’ambiente o l’abbassamento delle tasse universitarie, non hanno nulla a che fare con l’islamismo. Altri possono essere visti come lamentele tradizionali sovrapposte dell’islamismo, ma sono inquadrate in termini tipicamente progressisti e senza apparente islamismo. Ad esempio, il recente abbraccio degli islamisti occidentali negli appelli alla “decolonizzazione” dei programmi scolastici corrisponde alla natura anticoloniale intrinseca dell’ideologia,

Questi approcci hanno consentito alla nuova generazione di islamisti occidentali l’accesso, cosa inaspettata per i loro predecessori, ai circoli del mondo politico, dei media e della società civile. Eliminando in gran parte il topoïLinguaggio islamista e abbracciando strutture e cause progressiste, i giovani islamisti occidentali hanno stretto forti alleanze nella società tradizionale e sono stati ampiamente accettati dall’élite occidentale. Molti di loro hanno quindi aderito a partiti politici, pubblicato articoli d’opinione e dibattiti sui media mainstream, si sono candidati alle cariche, hanno stretto alleanze con un’ampia gamma di organizzazioni progressiste e opinion leader. Hanno ricevuto sovvenzioni da fondazioni rispettate e agenzie governative.

Sono finiti i giorni in cui gli islamisti occidentali bruciavano libri pubblicamente, come nell’affare Rushdie 3 nel 1988. Molti islamisti oggi usano metodi, abbracciano cause e stringono alleanze che lasciano perplessi non solo gli osservatori membri di lunga data del movimento, ma anche la prima generazione di pionieri. Alcuni, soprattutto in Europa, hanno iniziato a chiamare questa tendenza “svegliato l’islamismo”. Questo termine è controverso e può essere visto come un po’ peggiorativo 4 , ma è diventato relativamente comune tra gli osservatori e gli anziani della scena islamista in Occidente, descrivendo giustamente una tendenza che ha accelerato notevolmente negli ultimi anni.

Questa nota cerca di analizzare alcune delle dinamiche chiave alla base dell’islamismo svegliato in Occidente, dalle sue origini alle sue numerose manifestazioni. L’analisi di questo nuovo islamismo è relativamente recente ed è complessa perché l’evoluzione non è la stessa da un Paese all’altro, il che rende impossibile una valutazione completa dei suoi aspetti e delle sue implicazioni. Nonostante queste difficoltà, questa nota mira a far luce su un fenomeno che sta cambiando in modo significativo il volto dell’islamismo in Occidente e che quindi deve essere compreso sia dagli accademici che dai responsabili politici.

Giudizi

Il rapporto tra sinistra e islamismo – due termini che, ovviamente, racchiudono una gamma molto diversificata di opinioni e correnti politiche – è complesso. Anche limitando la nostra analisi all’Occidente, è impossibile coglierne anche lontanamente le molteplici sfaccettature. In ogni caso, si tratterebbe di un compito che esula dallo scopo di questo lavoro 5 . Eppure è giusto dire che una delle tendenze più salienti che ha caratterizzato il rapporto tra alcuni di questi elementi più progressisti, e talvolta più radicali, della sinistra e l’islamismo è la simpatia e il desiderio di collaborare.

A sinistra, molte voci, anche negli ambienti più progressisti, adottano un approccio nettamente diverso, evidenziando le molte questioni su cui i due movimenti differiscono nettamente e opponendosi a qualsiasi visione favorevole dell’islamismo . Ma il fascino per l’islamismo ha attanagliato gran parte della sinistra occidentale dagli anni ’50. Il potente anticolonialismo dell’islamismo, il suo rifiuto di ciò che percepisce come costrutti sociali ed economici imposti dall’Occidente, il suo antiamericanismo e il suo antisionismo, nonché la sua capacità di mobilitare le masse ha conquistato l’ammirazione di ampi settori della sinistra occidentale.

Questa simpatia, insieme alla percezione di nemici comuni, ha portato ad ammettere un’alleanza con gli islamisti. Questo punto di vista è stato condiviso, apertamente o meno, da molti membri della sinistra occidentale, che vanno da personalità eminenti a certi gruppi marginali e violenti di estrema sinistra . Molte di queste teorie hanno trovato poca o nessuna realizzazione. Tuttavia, negli ultimi vent’anni, diversi casi di alleanza (a volte indicati come rosso-verde) hanno avuto luogo in circoli di sinistra più tradizionali in vari paesi occidentali. Molti considerano l’alleanza emersa nel Regno Unito all’inizio degli anni 2000 attorno alla Stop the War Coalition (STWC) come un tipico esempio di questa dinamica 8 .

Giudizi

9.

Intervista a Kamal Helbawi, Londra, dicembre 2008, e Richard Phillips, art. Citazione

10.

Ibidem .

11.

Vedi Richard Phillips, s. cit.

In origine era una partnership tra varie organizzazioni guidate dal Partito Socialista dei Lavoratori e dal Partito Comunista Britannico. Con l’avvicinarsi della guerra in Iraq nel 2003, STWC ha fatto appello alla Muslim Association of Britain (MAB), fondata e guidata da importanti attivisti della Fratellanza Musulmana con sede nel Regno Unito come Kamal Helbawy, Azzam Tamimi e Anas al-Tikriti. Impressionati dall’affluenza alle urne a una manifestazione anti-israeliana che il MAB aveva organizzato nel centro di Londra nell’aprile 2002, i leader del STWC chiesero al MAB di unirsi alla coalizione. Va notato che la manifestazione anti-israeliana del MAB è stata ampiamente criticata per la presenza degli emblemi di Hamas e Hezbollah e per l’incendio delle bandiere israeliane e americane .

L’offerta ha acceso un vivace dibattito interno, con i leader del MAB che hanno valutato i vantaggi di estendere il loro messaggio a un livello molto più ampio e i potenziali costi che un’alleanza con marxisti, atei e omosessuali avrebbe potuto causare loro, soprattutto tra i segmenti più conservatori dell’Islam comunità . Alla fine, MAB ha accettato di entrare in una forma di partenariato tra pari, cooperando strettamente ma rimanendo costituito come un blocco autonomo con una propria agenda. L’associazione ha anche imposto come condizioni necessarie per la sua partecipazione la presenza di cibo halal, alloggi adeguati alla sua pratica religiosa, nonché incontri e manifestazioni in cui uomini e donne sarebbero stati separati 11. Nonostante le proteste di alcuni dei suoi membri, i vertici dello STWC avrebbero accettato tutte queste condizioni 12 .

La cooperazione tra MAB e STWC è stata un successo, poiché centinaia di migliaia di manifestanti hanno partecipato ai loro vari eventi. Ha anche portato alla formazione di un partito politico, Respect/The Unity Coalition, che ha comunque ottenuto scarso successo alle urne. Tra i suoi candidati c’erano leader di estrema sinistra come il deputato laburista George Galloway e il leader trotskista del Partito socialista operaio Lindsey German, membri del MAB come Anas al-Tikriti e altri attivisti musulmani come Salma Yaqoob e Yvonne Ridley, una giornalista britannica che si è convertita all’Islam dopo tenuto prigioniero dai talebani.

Giudizi

Forme di cooperazione piuttosto simili si sono verificate in altri paesi occidentali negli ultimi vent’anni. Tuttavia, nell’ultimo decennio, alcune delle frazioni più progressiste della sinistra occidentale hanno adottato temi, modelli e retorica nettamente diversi da quelli tradizionalmente utilizzati. La politica dell’identità, l’intersezionalità, le preoccupazioni per le ingiustizie e i pregiudizi sistemici sono diventati i temi predominanti tra gli attivisti di sinistra, soprattutto tra le giovani generazioni. Il termine “svegliato”, sebbene contestato da alcuni per essere diventato in qualche modo peggiorativo della tendenza, è spesso usato per descrivere questo approccio all’attivismo politico.

Il wokismo, nelle sue varie manifestazioni, costituisce indubbiamente un perfetto vettore politico per gli islamisti. La tendenza a incolpare il bianco e la presunta tendenza dominante dell’uomo bianco e la sua presunta responsabilità per la maggior parte delle disgrazie del mondo, ad esempio, si adattano perfettamente a un’ideologia come l’islamismo, nata nella prima metà del XX secolo in opposizione al colonialismo e che da allora ha accusato l’Occidente di molti dei problemi del mondo musulmano. Allo stesso modo, le forme radicali di politica dell’identità si adattano perfettamente alla pretesa di lunga data degli islamisti occidentali secondo cui le comunità musulmane occidentali dovrebbero avere il diritto a proprie strutture sociali, educative e legali distinte. Se, nei suoi scritti degli anni Novanta,13 ”, le politiche identitarie contrastanti di oggi forniscono argomenti agli islamisti per sostenere che i musulmani hanno bisogno di spazi sicuri 14 per essere protetti dal “razzismo strutturale” e preservare la loro identità.

Inoltre, il wokismo fornisce agli islamisti occidentali un’arma retorica potente e versatile: l’islamofobia. Certo, l’odio e la discriminazione nei confronti dei musulmani sono purtroppo problemi abbastanza diffusi, che si manifestano in tutto l’Occidente sia in modi subdoli che, a volte, in spettacolari azioni violente. Ma gli islamisti tendono ad amplificare e strumentalizzare il problema per servire i propri obiettivi diversi, ma comuni. Insieme alle comunità musulmane, gli islamisti occidentali cercano di utilizzare la carta dell’islamofobia per promuovere una forte identità islamica e ritagliarsi una leadership. Gli islamisti occidentali hanno capito da tempo che nessun altro fattore ha un impatto maggiore sulla formazione di un’identità collettiva dell’esistenza o della percezione di una forza esterna che minaccia la comunità. Hanno anche dimostrato grande abilità nell’affermarsi come principali sostenitori di cause che hanno indignato la maggior parte dei musulmani, anche quelli che non condividevano tendenze islamiste. Dall’affare Rushdie ai cartoni animati danesi15 , dal conflitto israelo-palestinese alle controversie sul velo in vari paesi europei, gli islamisti occidentali hanno utilizzato le loro vaste risorse e capacità di mobilitazione per guidare le proteste contro gli eventi che hanno descritto come parte di un modello di aggressione occidentale contro i musulmani e l’Islam.

Giudizi

17.

“Aggiungere la prima linea di difesa dell’Islam e dei musulmani di tutto il mondo” (MAB).

Promuovendo l’idea che i musulmani siano assediati, discriminati e vittimizzati, gli islamisti occidentali si sono presentati come le uniche voci disposte e in grado di difendere la comunità. Presentandoli in un modo che li servisse, hanno sfruttato le crisi politiche globali, le innegabili forme di discriminazione che hanno afflitto i musulmani occidentali e le tensioni culturali che sono sorte costantemente nella maggior parte dei paesi occidentali negli ultimi vent’anni. Una “comunità assediata”, per usare un’espressione spesso usata nei circoli dei Fratelli Musulmani dopo l’11 settembre, è chiamata a stringere i ranghi, rafforzare la propria identità comunitaria e fare affidamento su leader aggressivi e competenti che possano difendere 16. Avendo coltivato questa cultura del vittimismo, gli islamisti occidentali, in quanto abili imprenditori dell’identità, hanno costantemente sfruttato le lamentele dei musulmani occidentali e si sono descritti come l’unica forza in grado di “agire come la prima linea di difesa” dell’Islam e dei musulmani di tutto il mondo 17 »

Esternamente, l’islamofobia ha due scopi principali nell’agenda degli islamisti occidentali. Il primo è creare un’ampia gamma di alleanze con altre comunità che subiscono discriminazioni e con organizzazioni che la combattono. Gli islamisti occidentali hanno sempre più inquadrato l’islamofobia come parte delle ingiustizie strutturali che ritengono affliggono le società occidentali e su questa base hanno stretto alleanze con organizzazioni ampiamente disparate che combattono contro la discriminazione. Ciò include entità appartenenti a gruppi a cui il movimento islamista ha storicamente mostrato ostilità, come organizzazioni ebraiche o LGBTQ.

E gli islamisti occidentali usano anche l’islamofobia per stigmatizzare qualsiasi critica non solo all’Islam e ai musulmani, ma anche qualsiasi critica che li riguardi loro stessi. Qualsiasi esame dell’ideologia islamista e del comportamento dei suoi attori può essere facilmente etichettato come razzista o presentato come un tentativo da parte di gruppi sociali privilegiati di mettere a tacere le persone di colore emarginate. Questa accusa è rivolta anche a coloro che, di origine musulmana, criticano l’islamismo, e non è raro che vengano accusati anche loro di essere islamofobi.

IIParte

Le reti islamiste investono nel wokismo

Giudizi

Mentre il wokismo si è diffuso nelle società occidentali nell’ultimo decennio del nostro secolo, anche gli islamisti occidentali lo hanno abbracciato. Hanno sostituito sempre più spesso in questo nuovo quadro molti dei loro problemi storici, come la Palestina o la discriminazione anti-musulmana. Questo nuovo quadro progressista a volte accompagna, ma più spesso sostituisce, il quadro islamista, almeno in apparenza. Hanno anche abbracciato nuovi temi tradizionalmente estranei o addirittura contrari al discorso islamista, come l’agenda anticapitalista per combattere il cambiamento climatico o persino l’uguaglianza di genere.

Questo nuovo approccio solleva la questione della sua sincerità. Un osservatore scettico potrebbe obiettare che questa è pura apparenza, che gli islamisti stanno usando il linguaggio della sinistra progressista semplicemente per essere percepiti come moderati, per liberarsi della cattiva immagine che offusca i circoli islamisti da cui provengono e per essere accettati nel mainstream cerchi. Il timore dei critici è che gli islamisti non abbiano abbandonato le loro opinioni e abbiano semplicemente astutamente adottato il wokismo come strumento politico per promuovere meglio i loro obiettivi che, in realtà, hanno poco a che fare con le cause progressiste.

Come abbiamo visto, questi nuovi attivisti sono nati in Occidente. Hanno fatto il loro debutto nei circoli islamisti occidentali. Studiarono principalmente nelle università di scienze umane e sociali, e non nelle università tecniche, a differenza dei pionieri del movimento. Spesso hanno preso parte alle attività di associazioni non islamiste. Tutto questo, nel suo insieme, significa che i nuovi islamisti erano profondamente esposti al wokismo. Potrebbero aver effettivamente adottato almeno alcuni elementi della sua visione del mondo e della sua struttura interpretativa. Fondamentalmente, non è impossibile che i giovani islamisti occidentali abbiano veramente integrato vari aspetti del wokismo,

Conversione sincera o discorso di facciata, è impossibile determinare quale delle due posizioni sia quella giusta. Ovviamente ogni caso va considerato singolarmente. Diversi esempi mostrano che una posizione di mezzo è probabilmente più appropriata, quella che vede gli islamisti occidentali sia abbracciare cause e strutture progressiste per convinzione genuina, ma anche usarli in modo più cinismo per portare avanti la propria causa.

Ciò che sembra chiaro in questa tendenza relativamente nuova e fiorente è che mentre i singoli attivisti possono abbracciare il wokismo personalmente e in modo indipendente, anche organizzazioni e reti con legami chiari e di lunga data con l’Islam svolgono un ruolo importante nel facilitare questo processo. In sostanza, in quello che sembra essere uno sforzo abbastanza concertato, gruppi o strutture islamiste affermate hanno messo in contatto attivisti, con o senza origini islamiste, che prendono posizioni intrise di wokismo che possono promuovere gli obiettivi del movimento islamista. . Hanno offerto loro una piattaforma e li hanno supportati finanziariamente. In sostanza, mentre l’adozione del wokismo può essere stata spontanea, ci sono ampie prove che le strutture islamiste cercano di incoraggiarlo.

Gli esempi di questa dinamica abbondano. Uno dei più eloquenti è quello di Al Jazeera+ (meglio noto come AJ+), che afferma di lanciare “uno sguardo di giustizia sociale in un mondo in lotta per il cambiamento”: “AJ+ è una piattaforma di narrativa e notizie digitali del marchio unica e globale dedicata a diritti umani e uguaglianza, detenendo il potere di rendere conto e amplificando le voci delle comunità emarginate che cercano di far conoscere e ascoltare le loro storie. […]

Lanciato nel 2014, AJ+ è l’idea innovativa e pionieristica di menti giovani, creative e instancabili dell’Unità di Incubazione e Innovazione di Al Jazeera, che ha visto prima di chiunque altro l’opportunità di raggiungere la generazione Y con un prodotto informativo video diffuso attraverso piattaforme di social media. […] AJ+ fa parte della rete di media Al Jazeera, un’entità editorialmente indipendente finanziata dal governo del Qatar nell’ambito di un investimento per promuovere il “bene pubblico” – in modo simile ai contribuenti britannici che finanziano la BBC 18 . »

Giudizi

20.

Samantha Grasso, ” La vera storia di Alamo “, ajplus.net, 25 agosto 2021.

21.

William Shoki, ” Il capitalismo è una malattia “, ajplus.net, 20 maggio 2021.

26.

Samantha Grasso, “ Su COVID, India e privilegio ”, ajplus.net, 12 maggio 2021.

Al Jazeera Arabic, l’entità madre del gruppo, è noto per essere composto da molti membri e simpatizzanti dei Fratelli Musulmani e per trasmettere regolarmente punti di vista islamisti, che hanno portato al bando del canale in diversi paesi arabi e a subire dure critiche in Occidente. AJ+, che ha una forte presenza sui social media in quattro lingue (inglese, spagnolo, arabo e francese), si rivolge a un pubblico molto diverso da quello del canale principale e adotta un approccio radicalmente opposto. AJ+, infatti, presenta regolarmente storie incentrate su questioni centrali del movimento progressista e inquadrate in modo tipicamente sveglio.

La maggior parte degli argomenti di AJ+ hanno poco o nulla a che fare con questioni legate all’Islam, ma accusano costantemente le società occidentali di un modello pervasivo di ingiustizia e discriminazione nei confronti di vari gruppi di vittime, che vanno dalle minoranze etniche e religiose alla comunità LBGTQ. Questi temi, che costituiscono la spina dorsale della linea editoriale di AJ+, sono integrati da altri articoli che trattano temi più vicini agli interessi tradizionali degli islamisti, come i vari conflitti in Medio Oriente oi sentimenti anti-musulmani in Occidente. Inserirli in una narrazione più ampia e utilizzare un linguaggio simile per affrontarli è chiaramente mirato a rendere i punti di vista islamisti appetibili al pubblico di AJ+,

Ad esempio, AJ+ English demonizza regolarmente il governo degli Stati Uniti per vari illeciti passati e attuali con articoli o rapporti filmati come “The Government Plot To Erase Native Languages ​​​​19 “, “The Real Story of the Alamo 20 “, “Il capitalismo è un Malattia 21 ” o “Il viaggio di Raoul Peck nel cuore della bianchezza 22“. Possiamo anche citare “Fleeing to the Heart of the Empire”, un articolo che mette a confronto le esperienze dei profughi vietnamiti e afgani in America (“il cuore dell’impero”): “Ancora una volta, leggiamo nell’articolo, coloro che sono stati colpiti Le avventure imperialiste americane si stanno rivoltando, cercando di sfuggire alla conflagrazione mentre le truppe si ritirano. E ancora una volta si scontrano con l’indifferenza generale 23 . Tra gli altri articoli possiamo citare anche “Resistance and the War on Terror in East Africa 24 ”, “I Palestinesi stanno colpendo per combattere l’apartheid 25 ” o “On COVID, India and Privlege 26 ”.

Giudizi

28.

Ibidem .

29.

Francese AJ+, messaggio Twitter , 19 gennaio 2018.

Una dinamica simile è visibile per la versione francese di AJ+ 27 . Il francese AJ+ ha lanciato o promosso attivamente una serie di campagne, molte intrise di cultura pop vicino ai millennial e ai loro fratelli minori, per esporre incidenti considerati razzisti nella più pura espressione del pensiero sveglio. Questi includono la promozione dell’hashtag #BlackHogwarts per evidenziare che le persone di colore sono gravemente sottorappresentate nella serie di Harry Potter 28 , denunciando il twerking di Miley Cyrus e l’acconciatura di Kylie Jenner come appropriazioni culturali 29o per criticare la Federcalcio francese per aver proposto un giocatore bianco, Antoine Griezmann, come principale testimone della sua campagna contro il razzismo.

Accompagnando questi messaggi, che non hanno alcuno scopo islamista se non quello di ritrarre i paesi occidentali come irrimediabilmente razzisti e potenzialmente indebolire l’attaccamento al loro paese che i giovani possono provare, il canale francese AJ + trasmette messaggi più coerenti con le tradizionali visioni islamiste. Il canale, ad esempio, ha promosso attivamente la campagna a sostegno di Tariq Ramadan, legato ai Fratelli musulmani, dopo essere stato accusato dalle autorità francesi di violenze sessuali contro diverse donne 30. Negli ultimi due anni, mentre il governo di Emmanuel Macron ha iniziato a prendere posizioni più dure sull’islamismo, l’AJ+ francese ha intensificato la sua retorica anti-francese. Quindi, ad esempio, un articolo confronta la Francia con l’Afghanistan, l’Arabia Saudita e l’Iran, sostenendo che le leggi anti-hijab del paese europeo sono identiche a quelle dei paesi che dettano alle donne cosa dovrebbero indossare.

Mentre AJ+ è una brillante piattaforma multimediale rivolta alla generazione TikTok con messaggi brevi e semplici ma prodotti professionalmente, altre entità con un passato islamista indiscusso cercano di diffondere una versione più accademica del wokismo islamista. Un perfetto esempio di questa dinamica è il Center for Islam and Global Affairs (CIGA), un “istituto di ricerca e politica pubblica indipendente, senza scopo di lucro con sede a Istanbul, in Turchia, e affiliato con l’Università Zaim di Istanbul 31“. Da un inizio modesto, quando è stata fondata nel 2010, l’Università di Zaim è stata strettamente affiliata al Partito per la giustizia e lo sviluppo (AKP) al potere in Turchia. Ha beneficiato di ingenti finanziamenti governativi e ha quindi registrato una crescita notevole, raggiungendo in pochi anni il numero di 10.000 studenti iscritti 32 .

Giudizi

33.

Vedi CIGA , “Coordinatore”.

39.

Vedi CIGA, ” Islamofobia “.

La CIGA è stata creata a Zaim dall’eminente studioso e attivista palestinese Sami al-Arian 33 , una figura ben nota negli ambienti islamisti e che è stato al centro di una vicenda di terrorismo molto pubblicizzata negli Stati Uniti 34 . È stato arrestato nel febbraio 2003 in Florida con un atto d’accusa con diciassette capi di imputazione. Alla fine si è dichiarato colpevole di uno dei conteggi. È stato condannato a cinquantasette mesi di carcere per aver cospirato per violare una legge federale che vieta di fare o ricevere contributi di fondi, beni o servizi aoa beneficio della Jihad islamica palestinese (PIJ), classificata come SDT (Specially Designated Terrorist) 35. Secondo il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, “nella sua dichiarazione di colpevolezza, al-Arian36 ha ammesso che durante il periodo dalla fine degli anni ’80 all’inizio e alla metà degli anni ’90 è stato associato alla Jihad islamica palestinese, con molti dei suoi co-cospiratori. Ha anche ammesso di aver fornito vari servizi al PIJ nel 1995 e successivamente, sapendo che il PIJ era stato classificato come SDT e che stava compiendo atti di violenza orribili e omicidi .

Dopo il suo rilascio, al-Arian ha ottenuto asilo politico in Turchia, dove ha aperto la CIGA 38 . Sotto la guida di al-Arian, la CIGA si è affermata come un importante centro di studi sull’islamofobia. Dal 2018, la CIGA organizza ogni anno un’importante conferenza sull’islamofobia, riunendo decine di accademici e attivisti che sono tra i più impegnati nella ricerca e nella denuncia dell’islamofobia 39 . L’analisi degli ospiti, degli sponsor e dei temi delle conferenze della CIGA mostra chiaramente una commistione tra islamismo tradizionale e ultraprogressismo, ovvero la perfetta combinazione del wokismo islamista.

Giudizi

41.

Vedi CIGA, “ Prof. Dott. Farid Hafez, PhD ”.

42.

“ Un progetto di ricerca pluriennale sull’islamofobia ” (“The Bridge Initiative”).

Il convegno CIGA 2021 che, a causa della pandemia di Covid-19, si è svolto online, ha messo in luce con chiarezza queste caratteristiche 40. L’evento è stato co-sponsorizzato, tra gli altri, dall’Università Ahmed-bin-Khalifa del Qatar e da Cage, un’organizzazione britannica molto controversa creata all’inizio degli anni 2000 per difendere il rilascio dei detenuti di Guantanamo Bay e che da allora ha abbracciato diverse cause islamiste. . Tra i relatori figuravano persone con evidenti legami con l’islamismo, come Yasin Aktai, consigliere senior del presidente dell’AKP in Turchia; Chafika Attalai, membro di spicco del Collettivo contro l’islamofobia in Francia (CCIF), organizzazione sciolta dal governo francese in seguito all’assassinio dell’insegnante di francese Samuel Paty; e Moazzam Begg, di Cage, lui stesso ex detenuto di Guantanamo. Molti altri oratori non avevano un background islamista, erano per lo più accademici,

La persona che in qualche modo incarna il wokismo islamista universitario transnazionale della CIGA è un giovane studente universitario austriaco, Farid Hafez, borsista della CIGA e presente alle tre edizioni della conferenza della CIGA sull’islamofobia 41 . È anche membro della Bridge Initiative, un progetto di ricerca pluriennale sull’islamofobia 42ospitato dall’Alwaleed Bin Talal Center for Muslim-Christian Understanding (ACMCU) presso la Georgetown University. Secondo il sito web dell’università: “Il Center for Muslim-Christian Understanding […] è stato istituito nel 1993 con la missione di rafforzare i legami di cooperazione tra musulmani e cristiani e di migliorare la comprensione del mondo islamico attraverso l’Occidente. Nel dicembre 2005 Georgetown ha ricevuto una donazione di 20 milioni di dollari da Sua Altezza Reale il Principe Alwaleed Bin Talal dell’Arabia Saudita per sostenere e sviluppare il centro 43 . »

Giudizi

44.

Vedi “ Jonathan Brown ”.

Il centro è diretto da due eminenti studiosi di studi islamici con note simpatie islamiste, John Esposito e Jonathan C. Brown 44 . È interessante notare che questi due accademici hanno stretti legami con Sami al-Arian, il fondatore della CIGA. Esposito ha pubblicamente descritto al-Arian come un “buon amico”. Durante il processo di al-Arian negli Stati Uniti con l’accusa di terrorismo, John Esposito ha fornito ai giudici una lettera in cui lo elogiava, descrivendolo come “un accademico e intellettuale militante straordinariamente brillante ed eloquente, un uomo di coscienza con un forte impegno per la pace e la società giustizia 45“. Quanto a Brown, è sposato con Leila al-Arian, figlia di Sami al-Arian e, per inciso, produttrice di Al-Jazeera. La posizione di Hafez in entrambi i centri non è quindi sorprendente.

Hafez è una stella nascente negli studi sull’islamofobia. Insegna in istituzioni su entrambe le sponde dell’Atlantico e collabora con molti altri ricercatori del circolo. Il suo approccio all’argomento adotta schemi progressivi per discutere la questione dell’islamofobia. Pertanto, l’ultima pubblicazione che ha curato è intitolata in modo rivelatore Das ‘andere’ Österreich. Leben in Österreich abseits männlich-weiß-heteronormativ-deutsch-katholischer Dominanz 46 (“L’“altra” Austria. La vita in Austria oltre la dominazione cattolica tedesca eteronormativa maschile bianca”). Ma Hafez è anche una figura molto controversa a causa dei suoi legami con gli islamisti. Nel novembre 2020, ad esempio, Hafez è stato arrestato nell’ambito dell’operazione Luxor 47, la più grande operazione antiterrorismo mai realizzata in Austria. Secondo le autorità austriache, gli indagati facevano parte di una rete austriaca a sostegno dei Fratelli musulmani e di Hamas. Hafez ha costantemente affermato la sua innocenza e ha affermato che il caso era infondato e politicamente motivato. Alcune delle sue difese hanno suscitato polemiche, come quando in uno dei suoi articoli ha paragonato le azioni del governo austriaco nell’operazione Luxor alla persecuzione degli ebrei da parte del regime nazista e al trattamento brutale degli uiguri da parte del governo cinese 48 . L’articolo ha suscitato forti critiche da parte delle organizzazioni ebraiche, sia in Austria che negli Stati Uniti 49. Hafez è comunque diventato una figura famosa nei circoli islamisti e progressisti, scatenando petizioni online e raccolte fondi a suo sostegno.

Giudizi

50.

Vedi “ Ibrahim Kalin ”.

A livello accademico, Hafez ha guadagnato l’attenzione internazionale per il suo ruolo di co-editore dell’annuale European Islamophobia Report (EIR). Lanciato nel 2015, l’EIR registra presunti incidenti e sviluppi della discriminazione anti-musulmana in vari paesi europei. È significativo che la copertina dell’ultima edizione di questo rapporto (2021), un’opera di oltre 900 pagine che copre 31 paesi, riporti in copertina il presidente Emmanuel Macron, il che indica chiaramente che gli obiettivi dell’EIR non sono solo gli individui e attori che si impegnano in un palese odio anti-musulmano, ma anche personaggi pubblici che mettono in discussione l’influenza dell’islamismo.

I redattori di EIR hanno stretti legami con la Turchia, un paese il cui regime, sotto il governo del Partito per la giustizia e lo sviluppo (AKP), negli ultimi anni ha ripetutamente accusato l’Europa di diffusa islamofobia. Il co-editore del rapporto è Enes Bayrakli, che è stato direttore degli studi europei e coordinatore dell’ufficio di Bruxelles di Siyaset, Ekonomi ve Toplum Araştırmaları Vakfı (SETA, “Fondazione per la politica economica e la ricerca sociale”). Ufficialmente indipendente, la SETA è considerata da molti osservatori il braccio propagandistico dell’AKP. Il suo fondatore è İbrahim Kalın, portavoce del presidente Erdoğan e recentemente coautore di un libro con John Esposito, direttore della Bridge Initiative presso la Georgetown University 50. Kalin è anche membro dell’ACMCU di Georgetown, l’istituzione madre della Bridge Initiative.

Da diversi anni l’EIR è pubblicato da SETA 51 e finanziato dall’Unione Europea nell’ambito del Dialogo Unione Europea-Turchia Società Civile 52 . Ciò ha creato polemiche e diversi governi europei, nonché deputati europei, si sono pubblicamente opposti all’uso di fondi europei per finanziare un tale rapporto sull’islamofobia pubblicato da un think tank collegato all’AKP. L’edizione 2020 dell’EIR non è più stata pubblicata da SETA ma dal Leopold-Weiss Institute di Vienna. L’istituto non ha un sito web e non è noto che organizzi alcuna attività, ma una ricerca nelle banche dati austriache mostra che il suo direttore è Farid Hafez.

Il ruolo della Turchia nelle precedenti edizioni dell’EIR era evidente, ed è particolarmente interessante notare come politici turchi di alto rango abbiano partecipato agli eventi di lancio dell’EIR e siano stati anche attori chiave. I risultati dell’EIR sono stati spesso utilizzati anche dai politici turchi per sostenere le loro posizioni. Ad esempio, in occasione del lancio dell’edizione 2018 dell’EIR, Faruk Kaymakci, viceministro degli affari esteri e direttore degli affari europei della Turchia, ha affermato che l’ascesa dei movimenti di estrema destra e la crescente islamofobia sono state le principali sfide per l’Unione europea, sostenendo che l’adesione della Turchia all’Ue potrebbe essere l'”antidoto” a questi problemi: “Con l’adesione della Turchia, l’Ue può cambiare la sua immagine”, ha dichiarato. Le istituzioni dell’UE possono raggiungere il mondo musulmano; altrimenti l’UE sarà percepita come un club cristiano imperialista53 . »

IIIParte

Possibili reazioni e sviluppi

Giudizi

Come abbiamo detto sopra, sia che l’adozione da parte degli islamisti occidentali delle domande sveglie e degli schemi di pensiero sia sincera o simulata, ha portato molti dei suoi attivisti ad essere accettati in circoli ultra-progressisti, cosa che i pionieri del movimento islamista in Occidente avevano non ho potuto fare. Dalle strutture antirazziste ai media mainstream, dalle agenzie governative che finanziano la lotta contro la discriminazione e la diversità ai circoli e alle chiese intellettuali progressisti, gli islamisti occidentali hanno stretto alleanze preziose che danno loro maggiore visibilità e un migliore accesso all’opinione pubblica. Inoltre, la loro stessa vicinanza a questi ambienti li protegge in parte dalle accuse di islamismo mosse dai critici.

Allo stesso tempo, negli ultimi anni, il fenomeno dell’islamismo sveglio ha ricevuto crescenti attenzioni e critiche. Ciò è particolarmente vero in Francia e, più in generale, nel mondo francofono, dove le preoccupazioni per l’islamismo e il suo impatto sulla società sono state probabilmente più forti che in qualsiasi altra parte dell’Occidente. Inoltre, in Francia, sono state diffuse le preoccupazioni per la diffusione del wokismo in generale, che è ampiamente visto come un’importazione culturale americana divisiva e il presidente Macron ha pubblicamente dichiarato di essere “contro la cultura sveglia 54 “.

In questo contesto, non sorprende che le discussioni sul termine controverso islamo-gauchismo si stiano svolgendo ai massimi livelli del governo e della cultura francesi. Ricordiamo il ministro francese dell’Istruzione superiore Frédérique Vidal che ha dichiarato che “l’islamo-sinistra sta mangiando la nostra società nel suo insieme 55 “.

Un articolo su Le Figaro su questo argomento descrive come il Forum della European Muslim Youth And Student Organization (Femyso, “Forum européen des organization muslims de jeunes et d’études”), un’organizzazione studentesca e giovanile con sede a Bruxelles fondata dai principali leader della Fratellanza Musulmana in Occidente e guidata storicamente dai discendenti di eminenti leader della Fratellanza e leader di gruppi studenteschi legati ai Fratelli Musulmani in tutta Europa, ha ricevuto importanti finanziamenti dall’Unione Europea per realizzare campagne contro l’islamofobia e pro-hijab 56. Femyso ha formulato molti dei suoi slogan nello stile tipico dell’islamismo svegliato. Ad esempio, descrive uno dei suoi progetti, “Project Meet”, come un “programma globale finanziato dall’Unione Europea volto a combattere l’islamofobia di genere”, che descrive come “discriminazione intersezionale subita da donne e ragazze musulmane, basata principalmente su etnia, religione e genere .

Giudizi

Ma aspre critiche all’islamismo sveglio sono arrivate anche da figure non governative, molte delle quali sono di origine musulmana. Naëm Bestandji, autore franco-tunisino, ha sostenuto che l’islamismo è un’ideologia di estrema destra per eccellenza, ma che il movimento ha capito che collaborare con la sinistra progressista è una tattica più promettente: “Infiltrarsi nei circoli antirazzisti è quindi essenziale, ha spiega. Per questo, devi trasformare una religione in una “razza”. Qualsiasi critica alla loro ideologia, presentata come giusto Islam, sarebbe quindi un attacco agli individui. È la creazione di una bestemmia propria dell’Islam attraverso la deviazione della lotta contro il razzismo. Questa è l’arte del termine “islamofobia”. La lotta religiosa e la lotta al razzismo si intrecciano poi. Il secondo serve da pretesto per l’avanzata del primo. È un colpo da maestro58 . »

Un altro modo di interpretare questa sovrapposizione razza-religione e quindi razzismo-islamofobia è interpretarla non come uno stratagemma calcolato ma come un fenomeno reale che sarebbe l’occidentalizzazione dell’islamismo. Probabilmente, stiamo assistendo a un processo generazionale che porta i nuovi attori islamisti con sede in Occidente a liberarsi di alcuni aspetti dell’islamismo tradizionale e ad abbracciare sinceramente elementi di altre ideologie. Ciò potrebbe potenzialmente portare a una diluizione e atomizzazione dell’islamismo, poiché vari militanti potrebbero abbracciare correnti ideologiche diverse e intraprendere percorsi altrettanto diversi.

Naturalmente si tratta di teorie e scenari puramente ipotetici, difficili da verificare, ammesso che la tendenza continui e sia accolta dalla corrente principale dei movimenti islamisti occidentali. Ma sia tatticamente o effettivamente abbracciato, il wokismo islamista è diventato una preoccupazione per molti. L’apprensione per le implicazioni di questa dinamica è stata formulata in modo appropriato dall’attivista belga Dyab Abou Jahjah. Il background di Abu Jahjah rende il suo punto di vista particolarmente interessante. Nato in Libano nel 1971, ha combattuto con le milizie sciite prima di stabilirsi in Belgio nel 1991. È lì che ha fondato la Lega Araba Europea, un gruppo di attivisti che divenne particolarmente controverso negli anni immediatamente successivi agli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti, con Abu Jahjah che espresse sostegno implicito all’attacco e varie opinioni anti-occidentali, facendogli guadagnare il soprannome di “nemico pubblico numero 1” del Belgio. Da allora ha lasciato l’attivismo e ha lavorato come insegnante, ma è rimasto un attento osservatore delle scene islamiste e musulmane in Belgio.59 .

Come scrive Abu Jahjah sul suo blog: “È meglio che gran parte degli islamisti oggi abbraccino la politica ultraprogressista che il fascismo jihadista. Tuttavia, l’attacco alla modernità e alla maggior parte dei suoi valori, compreso il secolarismo, è condotto in modo più raffinato ed efficace e all’interno di un’alleanza ampia con un serio potenziale di mobilitazione. Questa strategia non mira a creare uno Stato islamico, ma può portare a una frammentazione della società lungo linee identitarie in modo che ognuno possa “essere se stesso”. Questo nuovo islamismo risvegliato, insieme al resto del movimento progressista estremo (spesso chiamato “svegliato”), sogna un arcipelago di “spazi sicuri” che interagiscono in giustizia ed equità.

Insieme ad altre tendenze risvegliate, i neo-islamisti risvegliati decostruiscono l’“universalismo” a favore dell’“intersezionalità” delle eccezioni. Così, un giorno, tutte le eccezioni potrebbero finire per diventare la regola. Quando l’eccezionalismo, non l’universalismo, diventa la pietra angolare della cittadinanza, chi osa allora sfidare le richieste di tribunali separati e persino leggi separate? 60 ”

È difficile valutare la previsione di Abu Jahjah sull’evoluzione dell’islamismo risvegliato. Ciò che è chiaro, come questo articolo ha tentato di descrivere sommariamente, è che c’è una tendenza crescente all’interno dei circoli islamisti occidentali ad adottare temi e linguaggi ultra-progressisti/svegliati ea stringere alleanze con entità provenienti da questo ambiente. Le domande relative a questo sviluppo senza precedenti sono numerose, sia che si tratti di sapere se ci troviamo di fronte a una metamorfosi sincera o finta, autentica o tattica dell’islamismo; se questo islamismo risvegliato sia in grado di causare divisioni nei ranghi islamisti, poiché alcune delle sezioni più conservatrici potrebbero sentirsi a disagio nell’abbracciare alcune cause ultra-progressiste; o se non sono certi circoli progressisti che abbracceranno l’islamismo risvegliato. Queste dinamiche possono manifestarsi in modi diversi in circostanze e paesi diversi. Ma è chiaro che il movimento dell’islamismo-woke merita di essere seguito da vicino.

https://www.fondapol.org/etude/la-montee-en-puissance-de-lislamisme-woke-dans-le-monde-occidental/

“La propaganda antirussa polacca è la più viziosa, la più volgare e la più pacchiana. Una vera comunità di pazzi politici. »_ di Dmitry Medvedev

Qui sotto un articolo dell’ex presidente e primo ministro russo Dmitry Medvedev, pubblicato il 21 marzo 2022 sul suo canale Telegram. L’articolo va inserito certamente nel contesto del conflitto con l’Ucraina, all’epoca già in corso da un mese; va quindi tarato e valutato per quello che è. Il testo pone tuttavia una questione più volte sollevata da questo sito e che meriterà, in futuro, certamente maggiore attenzione. Tutta la narrazione occidentale, ad impronta americana e conseguentemente quella europeista ha giustificato la scelta dell’estensione della NATO e dell’allargamento della Unione Europea come una risposta alle enormi pressioni della opinione pubblica dei paesi dell’Europa Orientale determinate dalla paura del pericolo russo, dalla fisiologica reazione a quaranta anni di dominio sovietico su tutta quell’area. Sentimenti in realtà solo in parte reali e comunque volutamente fraintesi, perché interpretati come un trionfo dello spirito e del lirismo europeista anche in quell’area così negletta. Quello che si è subito affermata in quei paesi è stata invece e soprattutto una pretesa di risarcimento nei confronti dei paesi occidentali, rei di aver abbandonato all’orso russo quella parte di Europa ed una forma predominante di nazionalismo etnico che faceva e fa letteralmente a pugni con il lirismo europeista. La conseguenza è stata che in questo trentennio si è accentuata ulteriormente la natura “contrattualistica” delle pratiche europeiste interne alla UE. L’adesione alla Unione Europea è stata in realtà una evidente subordinata rispetto alla scelta strategica, ritenuta assolutamente prioritaria da quei paesi, di adesione alla NATO. Una condizione ben conosciuta dai vertici e dai funzionari della Commissione Europea, stando ai numerosi rapporti interni che circolavano già all’epoca, alcuni dei quali pubblicati su questo sito. Una rimozione che sta conducendo velocemente alla nemesi del lirismo europeista.

E’ stato un processo relativamente facile da perseguire e da gestire, ma non del tutto indolore. Almeno nella fase iniziale, sia in buona parte dei paesi dell’Europa Orientale che in Germania e in minor misura in Italia, vi è stata una componente politico-sociale importante che propugnava un sistema di relazioni più equilibrato, un programma di riconversione economica più cauto e rispettoso degli equilibri delle economie locali di quei paesi e degli interessi dei paesi europei piuttosto che di quelli americani. Grosso modo questa divisione politica nei paesi orientali aveva come discrimine i settori di economia locale chiusa o integrata esclusivamente nel circuito sovietico da una parte, i settori dell’economia, controllati dalle alte sfere di partito, minoritari economicamente ma importanti finanziariamente e politicamente, relazionati con l’export occidentale o in parte a gestione privatistica, come in Polonia e in Ungheria, dall’altra. Nel giro di pochissimi anni sia in Italia e in Germania che in vario grado nei paesi orientali hanno preso nettamente il sopravvento i secondi con tutte le implicazioni ormai sempre più visibili. Ben istigate dai centri decisori statunitensi, con la complicità interessata dei loro accoliti tedeschi, ma anche svedesi e britannici, quelle pulsioni nazionaliste si sono rapidamente trasformate in uno spirito di rivincita ostile verso la Russia e le componenti filorusse o neutraliste presenti nelle popolazioni di quell’area. I vecchi fantasmi che hanno funestato la prima metà del secolo scorso, che non hanno riguardato solo la Germania e l’Italia, come la narrazione tende invece ad imporre, stanno pian piano tornando e rischiano di trascinare nuovamente il continente europeo in una situazione di conflitto endemico e distruttivo, ma con una postura geopolitica infinitamente più subordinata a scelte e strategie esterne all’area rispetto al secolo passato. Una condizione deprimente e drammatica della quale alcuni paesi dell’Europa Orientale e l’Italia, così “degnamente” rappresentata da un funzionario dal passato e un presente più che eloquente, sono gli esempi preclari. E’ arrivato ormai il tempo di pagare il conto salatissimo di settanta anni di pax americana che ci ha resi “mediamente felici”, avvinghiati come siamo dalle sue catene; una pax ormai in aperta discussione, anche se avviluppata in un contenzioso dall’esito finale ancora incerto. Un conto che sarà lungi dall’essere ripartito equamente, così come le portate del banchetto dal menu sempre più deludente. Un motivo in più per diffidare di questa Unione Europea. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Sulla Polonia

Quando l’Europa si renderà conto delle conseguenze dannose delle sanzioni anti-russe, il Paese europeo a noi più caro sta andando, come al solito, più veloce della musica. Il primo ministro Mateusz Morawiecki, accompagnato dal vice primo ministro Kaczyński e dai primi ministri della Repubblica ceca e della Slovenia, si è recato a Kiev su un treno pesantemente sorvegliato. Proprio come Lenin ai suoi tempi, nella sua auto blindata finanziata dai tedeschi. Che discussioni con Zelensky! Che promesse di amicizia e di aiuto! Ciò che mente, ovviamente. Al suo ritorno, Moravetsky annunciò solennemente un programma di “derussificazione dell’economia polacca ed europea”. Specificando coraggiosamente che “sarà costoso”.

Ha assolutamente e totalmente ragione: sarà costoso e non necessario. Ma la Polonia non deve più preoccuparsi delle sue perdite. Ha già perso tutto ciò che poteva perdere durante tutti questi anni di russofobia patologica. Così ora, come dicono i vicini così cari ai polacchi: “Il fienile è andato a fuoco, brucia la casa!” »

Quando si tratta di Russia, la Polonia si contorce letteralmente in “dolorosi fantasmi”. È molto difficile per le sue élite accettare che il tempo dei guai si sia concluso con l’espulsione degli occupanti polacchi dal Cremlino quasi quattrocento anni fa. E che la Repubblica delle Due Nazioni (“Rzeczpospolita Obojga Narodów”) non è mai diventata un grande impero. Tutti questi fallimenti non provengono dagli intrighi della Russia, gli unici responsabili sono le liti interne, la corruzione, i fallimenti economici e le battaglie perse. E questo per molti secoli.

La propaganda antirussa polacca è la più feroce, la più volgare e la più sgargiante. Una vera comunità di pazzi politici. A differenza del nostro Paese, dove non sorvoliamo nemmeno sui capitoli più oscuri della nostra storia, in Polonia si sogna di dimenticare i tempi della seconda guerra mondiale. E, soprattutto, quei soldati sovietici che sconfissero il fascismo, cacciarono gli occupanti dalle città polacche e impedirono loro di distruggere Cracovia, liberarono i prigionieri di Auschwitz e Majdanek.

I polacchi stanno riscrivendo la storia, demolendo monumenti. L’occupazione fascista è apertamente identificata con l'”occupazione” sovietica. Chi avrebbe potuto immaginare un discorso più fuorviante e disgustoso? I polacchi l’hanno fatto.

Tuttavia, non ci sono sentimenti anti-polacchi in Russia e non lo sono mai stati. I sociologi lo testimoniano: i cittadini del nostro Paese sono molto amichevoli verso questo popolo. È impossibile dimenticare l’ondata di simpatia e compassione causata da questo incidente aereo vicino a Smolensk, in cui una delegazione di alto livello e il presidente polacco sono morti. I cittadini russi hanno portato fiori all’ambasciata e alle chiese polacche, hanno espresso le loro condoglianze sulla stampa e sui social network. Come capo di stato, ho dichiarato un giorno di lutto in tutto il paese.

Successivamente, durante le mie visite in Polonia, mi sono convinto che non ci fossero ostacoli al miglioramento delle relazioni tra i nostri paesi, è una strada a doppio senso dove tutti dobbiamo vincere lì. Tuttavia, il partito n. 2 del PiS di Kaczyński ,  guidato dai suoi padroni americani, e il resto delle élite politiche hanno fatto di tutto per bloccare qualsiasi normale comunicazione.

Oggi, gli interessi dei cittadini polacchi sono stati sacrificati alla russofobia di quei politici mediocri e dei loro burattinai d’oltreoceano, che mostrano evidenti segni di senilità. Il rifiuto di acquistare gas, petrolio e carbone russi, l’opposizione al Nord Stream 2 hanno già causato gravi danni all’economia di questo Paese. E andrà solo peggio. Lo stesso vale per molte altre misure, che non si basano sull’economia ma sulla politica con il pretesto della “derussificazione”. A loro non importa. Piuttosto che venire in aiuto dei propri cittadini, è molto più importante per le élite vassalli polacchi giurare fedeltà al loro signore americano e fare di tutto per mantenere vivo il fuoco dell’odio verso il nemico rappresentato dalla Russia.

Cosa ci guadagneranno i cittadini? Assolutamente niente. Ma prima o poi capiranno che l’odio per la Russia non rafforza i legami della società e non contribuisce al benessere o alla pace. Al contrario, la cooperazione economica con il nostro Paese avvantaggia i polacchi, i legami umani sono indispensabili e gli scambi culturali e scientifici tra le patrie di Pushkin e Mickiewicz, di Tchaikovsky e Chopin, di Lomonosov e Copernico sono essenziali. Molto probabilmente, i polacchi faranno quindi la scelta giusta, da soli, senza sollecitazioni o pressioni da parte di élite straniere afflitte da demenza.

“L’avvento della Russia e il nuovo mondo”, di Pyotr Akopov

Definire “progetto imperialista” un disegno di ricostruzione nazionale significa non voler comprendere o, peggio ancora, voler travisare. Le dinamiche geopolitiche in corso potranno seguire una piega di contrapposizione tra imperialismi, ma potranno anche creare lo spazio per la conduzione di politiche autonome, indipendenti e neutraliste di singoli paesi. Tutto sta alle capacità ed ambizioni delle rispettive classi dirigenti. La condizione necessaria e preliminare è comunque la sconfitta delle ambizioni unipolari_Giuseppe Germinario

“La Russia non ha solo sfidato l’Occidente, ha dimostrato che l’era del dominio globale occidentale può essere considerata completamente e definitivamente finita”

Fondazione per l’Innovazione Politica | 02 mar 2022

La Fondazione per l’innovazione politica ha tradotto dal russo al francese la versione integrale di un editoriale dell’agenzia russa RIA Novosti, firmato dall’editorialista Pyotr Akopov e intitolato “L’avvento della Russia e il nuovo mondo”. Questo articolo è stato caricato accidentalmente il 26 febbraio 2022. Inizialmente, la pubblicazione di questo testo doveva aver luogo dopo l’occupazione dell’Ucraina da parte della Russia. L’articolo è stato eliminato rapidamente, ma il servizio Web Internet Archive è riuscito a salvarlo.

Questo articolo descrive il progetto imperialista concepito da Putin. La russificazione totale di Ucraina e Bielorussia si presenta come il punto di partenza per una ricomposizione dell’ordine mondiale. Il testo è stato tradotto dal russo da Inna Uryvskaya.

Giudizi

Un nuovo mondo sta nascendo davanti ai nostri occhi. L’operazione militare russa in Ucraina ha inaugurato una nuova era, e questo in tre dimensioni 1 alla volta. Senza dimenticare la quarta, la dimensione interna della Russia. Inizia oggi un nuovo periodo, sia dal punto di vista ideologico che socio-economico; ma questo argomento merita di essere discusso in seguito.

La Russia ristabilisce la sua unità. In effetti, la tragedia del 1991, questa terribile catastrofe nella nostra storia, questo sconvolgimento innaturale, è stata finalmente superata. Questa restaurazione richiede grandi sacrifici, attraverso i tragici eventi di una guerra quasi civile, in cui i fratelli, separati dalla loro appartenenza all’esercito russo e ucraino, si sparano ancora a vicenda, ma non ci sarà più un’Ucraina antirussa. La Russia viene riportata alla sua integrità storica, riunendo il mondo russo, il popolo russo: i Grandi Russi 2 , i Bielorussi ei Piccoli Russi 3 .

Abbandonare l’idea di questa riunificazione, lasciare che questa divisione temporanea si stabilizzi per secoli, significa tradire la memoria dei nostri antenati ed essere maledetti dai nostri discendenti per aver lasciato che la terra russa si disintegrasse.

Vladimir Putin si è assunto, senza alcuna esagerazione, una responsabilità storica prendendo la decisione di non lasciare la questione ucraina alle generazioni future. In effetti, la necessità di risolvere il problema dell’Ucraina non poteva che rimanere una priorità della Russia, per due ragioni principali. E la questione della sicurezza nazionale della Russia, cioè lasciare che l’Ucraina diventi anti-russa, non è la ragione più importante.

Il motivo principale è un eterno complesso di popoli divisi, un complesso di umiliazioni nazionali dovute al fatto che la patria russa ha prima perso parte delle sue fondamenta (kiev), e deve sopportare l’idea dell’esistenza di due Stati, di due popoli. Continuare a vivere così significherebbe rinunciare alla nostra storia, sia accettando l’idea folle che “solo l’Ucraina è la vera Russia” o ricordando, impotenti e digrignando i denti, il tempo in cui “abbiamo perso l’ucraino”. Nel corso dei decenni, la riunificazione della Russia con l’Ucraina sarebbe diventata sempre più difficile: sarebbero aumentati il ​​cambio dei codici, la derussificazione dei russi che vivono in Ucraina e la propaganda antirussa tra i Piccoli Russi ucraini. Inoltre, se l’Occidente avesse consolidato il controllo geopolitico e militare in Ucraina, il ritorno in Russia sarebbe diventato totalmente impossibile, dal momento che i russi avrebbero dovuto confrontarsi con l’intero blocco atlantico.

Ora questo problema non esiste più: l’Ucraina è tornata in Russia. Questo ritorno non significa che l’Ucraina perderà la sua statualità. Semplicemente, sarà trasformato, riorganizzato e riportato al suo stato originale come parte integrante del mondo russo. Sotto quali confini? In che forma? Sarà stabilita un’alleanza con la Russia, attraverso la CSTO e l’Unione economica eurasiatica o come stato che fa parte dell’Unione di Russia e Bielorussia? Questo sarà deciso quando l’Ucraina anti-russa non esisterà più. Comunque sia, il periodo di divisione del popolo russo sta volgendo al termine.

È qui che inizia la seconda dimensione della nuova era: riguarda le relazioni della Russia con l’Occidente, e non solo della Russia, ma del mondo russo, cioè tre Stati: Russia, Bielorussia e Ucraina, che agiscono come un’unica entità geopolitica. Queste relazioni sono entrate in una nuova fase e l’Occidente vede la Russia tornare ai suoi confini storici in Europa. Ne è fortemente indignato, anche se nel profondo della sua anima deve ammettere che non avrebbe potuto essere altrimenti.

Chi, nelle vecchie capitali europee, a Parigi o a Berlino, poteva davvero credere che Mosca avrebbe rinunciato a Kiev? Che i russi sarebbero stati per sempre un popolo diviso? E questo, proprio nel momento in cui l’Europa si unisce, quando le élite tedesca e francese stanno cercando di riprendere il controllo dell’integrazione europea dagli anglosassoni e di costruire un’Europa unita! Dimenticando che l’unificazione dell’Europa è stata resa possibile solo dall’unificazione della Germania, ottenuta grazie alla buona – seppur poco intelligente – volontà russa. Qualsiasi pretesa sulle terre russe è più che l’apice dell’ingratitudine, è stupidità geopolitica. L’Occidente nel suo insieme, e l’Europa in particolare, non avevano il potere di mantenere l’Ucraina nella sua sfera di influenza, per non parlare di conquistare l’Ucraina.

Per essere più precisi, c’era una sola opzione: scommettere sull’ulteriore crollo della Russia, cioè della Federazione Russa. Ma il fatto che questa opzione non funzionasse avrebbe dovuto essere chiaro vent’anni fa. Quindici anni fa, dopo il discorso di Putin a Monaco, anche i sordi avrebbero potuto sentire che la Russia era tornata.

Oggi l’Occidente sta cercando di punire la Russia per essere tornata, per aver impedito agli occidentali di arricchirsi a sue spese, per aver fermato l’espansione occidentale verso est. Cercando di punirci, l’Occidente crede che il nostro rapporto con esso sia di vitale importanza. Ma ormai non è più così da molto tempo. Il mondo è cambiato e gli europei così come gli anglosassoni che governano l’Occidente lo capiscono. Qualsiasi pressione occidentale sulla Russia sarà vana. Il danno dovuto all’escalation del confronto sarà bilaterale, ma la Russia è moralmente e geopoliticamente preparata, quando un aggravamento dell’opposizione comporterà per l’Occidente costi significativi, i principali dei quali non saranno necessariamente economici.

L’Europa, come l’Occidente, voleva l’autonomia. In effetti, il progetto tedesco di una maggiore Europa integrata è una sciocchezza strategica se gli anglosassoni mantengono il controllo ideologico, militare e geopolitico sul Vecchio Mondo. Inoltre, questo progetto non può avere successo poiché gli anglosassoni hanno bisogno di un’Europa che controllino. Tuttavia, l’Europa deve cercare l’autonomia per un altro motivo: nel caso in cui gli Stati Uniti si isolino (a causa dei crescenti conflitti e controversie interne) o si concentrino nella regione del Pacifico, dove oggi il baricentro geopolitico si sta spostando.

Gli anglosassoni conducono l’Europa in un confronto con la Russia e privano così gli europei di ogni possibilità di indipendenza. Allo stesso modo, l’Europa sta cercando di imporre una rottura con la Cina. Se gli atlantisti oggi si rallegrano che la “minaccia russa” stia unificando il blocco occidentale, Berlino e Parigi devono capire che, avendo perso ogni speranza di autonomia, il progetto europeo crollerà nel medio termine. Questo è il motivo per cui gli europei indipendenti non sono affatto interessati a costruire una nuova cortina di ferro ai loro confini orientali, rendendosi conto che si trasformerà in un bullpen per l’Europa. L’era della leadership mondiale del Vecchio Mondo (più precisamente, mezzo millennio) è comunque finita. Tuttavia, sono ancora possibili varie opzioni per il suo futuro.

La terza dimensione dell’attualità è l’accelerazione della costruzione di un nuovo ordine mondiale, i cui contorni sono sempre più chiaramente dovuti al fatto che la globalizzazione anglosassone è così diffusa. Un mondo multipolare è finalmente diventato realtà. In questa operazione in Ucraina solo l’Occidente si oppone alla Russia, perché il resto del mondo la comprende perfettamente: è un conflitto tra Russia e Occidente, è una risposta all’espansione geopolitica degli atlantisti, è il ritorno della Russia al suo spazio storico e il suo posto nel mondo.

Cina, India, America Latina, Africa, mondo islamico e Sud-est asiatico, nessuno crede che l’Occidente governi l’ordine mondiale, tanto meno ne stabilisca le regole del gioco.La Russia non ha solo sfidato l’Occidente, ha dimostrato che l’era del dominio globale occidentale può considerarsi completamente e definitivamente conclusa. Il nuovo mondo sarà costruito da tutte le civiltà e da tutti i centri di potere, e questo, ovviamente, in collaborazione con l’Occidente (unito o meno), ma quest’ultimo non potrà più imporre né i suoi termini né le sue regole .

https://www.fondapol.org/decryptage/la-russie-na-pas-seulement-defie-loccident-elle-a-montre-que-lere-de-la-domination-occidentale-mondiale-peut-etre-consideree-comme-completement-et-definitivement-revolue/

La lunga regola di Putin, di Vladislav Surkov.

Il più famoso consigliere del presidente russo, Vladislav Surkov, ha pubblicato un clamoroso saggio nel febbraio 2019. In essa annunciava, nel contesto dell’ascesa del populismo, la quasi vittoria del modello Putin.

Ecco la traduzione integrale, seguita da un’analisi di Michel Eltchaninoff, filosofo e giornalista francese, autore di Dans la Tête de Vladimir Poutine (Solin-Actes Sud, 2015). L’ultima parte di questa nota è dedicata alla versione originale del testo russo di Vladislav Surkov.

“Che abbiano una scelta è solo un’illusione. Queste parole colpiscono per la loro profondità e la loro audacia. Pronunciate circa quindici anni fa, oggi sono dimenticate e non vengono mai citate. Ma le leggi della psicologia mostrano che ciò che dimentichiamo ci colpisce molto più di ciò che ricordiamo. E queste parole, ben al di là del contesto in cui sono state pronunciate, sono diventate il primo assioma della nuova governance russa, su cui si basano tutte le teorie e le pratiche della politica attuale.

L’illusione della scelta è l’ultimo stratagemma dello stile di vita occidentale, in particolare della democrazia occidentale che ha aderito a lungo più alle idee di Barnum 1 che a quelle di Clistene di Atene 2 . Il rifiuto di questa illusione, che favorisce un realismo fatalistico, ha in primo luogo portato la nostra società a riflettere sul proprio modello sovrano di sviluppo democratico 3 . L’ha poi portata a ignorare completamente la questione di cosa dovrebbe essere la democrazia, e anche se dovrebbe esistere in linea di principio.

Sono apparse vie per costruire uno stato libero, guidate non da chimere importate ma dalla logica dei processi storici, dall’“arte del possibile”. La disintegrazione della Russia – impossibile, contrariamente alla natura e alla storia – è stata fermata, tardivamente ma con fermezza. Crollando dal livello dell’URSS al livello della Federazione Russa, il paese ha interrotto la sua decomposizione. La Russia ha iniziato a ricostruirsi ed è tornata al suo unico stato naturale: un paese immenso, che estende e riunisce le terre di una comunità di popoli. Il ruolo immodesto che la storia del mondo ha attribuito al nostro Paese gli vieta di uscire di scena o di tacere tra le comparse. Non garantisce riposo e determina la natura ardua del nostro governo.

Comunque sia, lo stato russo persevera nel suo essere ed è diventato uno stato di un tipo senza precedenti, che non abbiamo mai conosciuto prima. Formatosi a metà degli anni 2000, rimane poco studiato. Ma la sua specificità e la sua fattibilità sono evidenti. Gli stress test che ha già superato, e sta ancora superando, mostrano che è proprio questo modello organicamente costituito l’unico mezzo efficace di sopravvivenza e di elevazione della nazione russa, non solo per i prossimi anni ma per i prossimi decenni, o meglio per tutto il secolo a venire.

La storia della Russia ha conosciuto quattro grandi modelli statali che possono essere designati secondo i loro creatori: lo Stato di Ivan III (Granducato/Regno di Moscovia e tutte le Russie, XV-XVII secolo), lo Stato di Pietro il Grande (Russian Impero, 18°-19° secolo), Stato di Lenin (Unione Sovietica, 20° secolo) e Stato di Putin (Federazione Russa, 21° secolo). Create da persone che potremmo chiamare, nello stile di Goumilev 4 , “di lunga volontà”, queste grandi macchine politiche si sono succedute, riparate e adattate man mano che procedevano, assicurando nei secoli l’ostinata ascesa del mondo russo.

La grande macchina politica di Putin sta appena iniziando a prendere slancio e si prepara a un lavoro lungo, difficile e decisivo. La sua piena capacità è ancora molto lontana. Inoltre, quando sarà raggiunto, tra molti anni, questo Stato sarà ancora la Russia di Putin, così come la Francia di oggi è chiamata la Quinta Repubblica di De Gaulle, così come la Turchia poggia sull’ideologia delle Sei Frecce di Atatürk (nonostante il fatto che gli anti-kemalisti sono ora al potere) o come gli Stati Uniti fanno ancora affidamento sulla visione e sui valori dei padri fondatori semileggendari.

È essenziale comprendere, comprendere e descrivere il sistema di governo di Putin, l’insieme delle idee e delle dimensioni del Putinismo come l’ideologia del futuro. Proprio dal futuro, perché Putin non è proprio un putinista, così come Marx non è un marxista e probabilmente non avrebbe accettato di esserlo se avesse saputo di cosa si trattava. Questo lavoro di analisi dell’ideologia di Putin deve essere svolto per servire tutti coloro che vorrebbero essere come Putin. Per rendere possibile la diffusione dei suoi metodi e approcci in futuro.

Questa descrizione non dovrebbe essere fatta nello stile di due propaganda, quella “nostra” e quella “di altri”, ma in un linguaggio accettabile per i discorsi filo-russi così come per i discorsi anti-russi. Questa lingua può essere accolta da un pubblico abbastanza ampio. Ciò è necessario perché il sistema politico inventato in Russia non è solo adatto a un futuro interno, ma ha anche un forte potenziale di esportazione. Inoltre, tale domanda, per tutte o per alcune parti di questo sistema, esiste già. La sua esperienza è studiata e parzialmente adottata. Leader o gruppi di opposizione lo imitano in molti paesi.

All’estero, i politici accusano la Russia di interferire nelle elezioni e nei referendum in tutto il mondo. In realtà, la questione è molto più seria. La Russia si sta insinuando nei loro cervelli e non sanno cosa fare con la propria coscienza alterata. Dai catastrofici anni ’90, quando il nostro Paese ha rifiutato i prestiti ideologici e quando abbiamo iniziato a dare il nostro significato agli eventi e abbiamo lanciato il nostro contrattacco informativo verso l’Occidente, esperti europei e americani hanno iniziato a ingannare sempre più spesso nelle loro previsioni. Le preferenze paranormali del loro elettorato li stupivano e li facevano infuriare. Confusi, annunciarono l’espansione del populismo. Possiamo anche dirlo così, se non abbiamo le parole.

L’interesse degli stranieri per l’algoritmo politico russo è comprensibile: nessuno è un profeta nel suo Paese. Ma tutto ciò che sta accadendo oggi nel resto del mondo è stato previsto dalla Russia per molto tempo.

Quando tutti erano entusiasti della globalizzazione e propagandavano un mondo piatto e senza confini, Mosca ci ricordava chiaramente che la sovranità e gli interessi nazionali erano importanti. A quel tempo, molti erano coloro che ci accusavano di un attaccamento “ingenuo” a queste cose vecchie, presumibilmente obsolete da molto tempo. Ci hanno insegnato che non c’è più niente da trattenere dai valori del 19° secolo, che dovevamo entrare coraggiosamente nel 21° secolo, dove non ci sarebbero più nazioni indipendenti o stati sovrani. Ma, nel 21° secolo, le nostre previsioni si sono avverate. La Brexit inglese, il “#GreatAgain” americano, il partizionamento europeo anti-migrazione sono solo i primi elementi di un elenco esaustivo di manifestazioni onnipresenti di de-globalizzazione,

Quando, ad ogni angolo di strada, Internet è stato elogiato come uno spazio inviolabile di libertà illimitata, dove pensavamo di poter fare tutto e dove eravamo tutti uguali, è stata ancora una volta la Russia ad aver osato porre una domanda che ha fatto riflettere su questa ingenua umanità : “Chi siamo su questo Web: ragni o mosche? E ora tutti si precipitano a districare il Web, comprese le burocrazie più impegnate per la libertà personale, arrivando ad accusare Facebook di complicità nelle ingerenze straniere. Questo spazio un tempo libero, presentato come il prototipo di un paradiso futuro, è ora monitorato e delimitato da cyberpolizia e cybercrime, cybereserciti e cyberspie, cyberterroristi e cybermoralisti.

Quando l’egemonia dell’egemonia americana era incontrastata da nessuno, quando il grande sogno americano del dominio del mondo era quasi realizzato e quando molti furono coloro che videro questa fine della storia dove “il popolo tace”, in questa atmosfera di silenzio globale, il Monaco di Baviera il discorso risuonò improvvisamente 5 . All’epoca questo discorso sembrava dissenziente, ma oggi tutto ciò che esprime risuona come prova: il mondo intero è scontento degli Stati Uniti, compresi gli americani.

Non molto tempo fa, il termine politico turco “derin devlet” è stato ripreso dai media americani e tradotto in inglese come “deep state” e poi diffuso dai nostri media. Il termine designa un’organizzazione del potere rigida e totalmente antidemocratica, mascherata da una bella immagine delle istituzioni democratiche presentata al mondo intero. In realtà, questo meccanismo operativo si basa sulla violenza, sulla corruzione e sulla manipolazione, e si nasconde nel profondo sotto la superficie di una società civile che (ipocritamente o ingenuamente) condanna ogni manipolazione, corruzione o violenza.

Notata l’esistenza di questo spiacevole “deep state” all’interno del proprio paese, gli americani non furono però molto sorpresi: ne sospettavano l’esistenza da molto tempo. Se la rete profonda e la rete oscura esistono, perché non dovrebbero esserci uno stato profondo e uno stato oscuro ? Dalle profondità e dalle tenebre di questo potere oscuro e nascosto emergono i miraggi sublimi della democrazia creati per le masse: l’illusione della scelta, il sentimento di libertà, il sentimento di superiorità, ecc.

La sfiducia e l’invidia, utilizzate dalla democrazia come fonti prioritarie di energia sociale, portano necessariamente ad un’assolutizzazione della critica e ad un aumento del livello di ansia. Odiatori , troll e robot malvagi che si unirono a loro, formarono una maggioranza urlante, soppiantando l’onorevole classe media che un tempo esprimeva un tono completamente diverso.

Nessuno crede alle buone intenzioni dei politici. Sono gelosi e quindi considerati viziosi, astuti e persino decisamente marci. Famose serie che vanno da Boss a House of Cards mostrano immagini molto realistiche della opaca vita quotidiana dell’establishment politico .

A un bastardo non dovrebbe essere permesso di esagerare solo perché è un bastardo. E quando assumiamo che ci siano solo bastardi, dobbiamo usare, per scoraggiare i bastardi, le tecniche dei bastardi. Un cattivo deve essere espulso da un altro cattivo. C’è una vasta gamma di bastardi e una vasta gamma di regole complicate per negare l’impatto della loro lotta per il potere. Così viene creato un sistema benefattore di controlli ed equilibri, come un equilibrio dinamico di bassezza, un equilibrio di avidità, un’armonia di imbrogli. E se qualcuno dimentica se stesso, si spinge troppo oltre in questo gioco e ne danneggia l’armonia, lo Stato Profondo, sempre vigile, emerge come un salvatore e trascina il rinnegato nelle sue profondità.

Non c’è niente di spaventoso in questa descrizione della democrazia occidentale. Basta cambiare leggermente l’angolazione del tiro in modo che la paura si dissipi. Ma il dubbio persiste. E l’uomo occidentale comincia a guardarsi intorno alla ricerca di altri modelli e modi di esistere. E vede la Russia.

Il nostro sistema politico, come tutto nel nostro Paese, sembra meno raffinato, ma comunque più onesto. E anche se “più onesto” non è sinonimo di “migliore” per tutti, le attrazioni non mancano.

Il nostro stato non è diviso tra uno stato profondo e uno stato esterno. È intero e tutti i suoi componenti sono chiaramente visibili. Le costruzioni più brutali della sua struttura di forza sono sulla facciata, senza alcun artificio architettonico. La nostra burocrazia, anche quando imbroglia, non prende mai le pinze, partendo dal presupposto che “nessuno si fa fregare”.

Forti tensioni interne dovute alla necessità di tenere sotto controllo permanente immensi spazi eterogenei, nonché la partecipazione costante del nostro Paese alla lotta geopolitica internazionale, rendono indispensabile e decisivo il potere militare e di polizia. Questo potere è sempre stato avanzato, perché né i mercanti, che considerano gli interessi militari inferiori agli interessi del commercio, né i liberali che basano la loro dottrina sul rifiuto totale di ogni militarismo, hanno mai governato la Russia (con poche eccezioni: un pochi mesi nel 1917 6 e qualche anno negli anni ’90 7). Non c’era nessuno che velasse la verità di illusioni, mettendola timidamente in secondo piano e nascondendo il più possibile la proprietà primaria di ogni Stato: essere strumento di attacco e di difesa.

Non esiste uno stato profondo in Russia, ma esiste un popolo profondo. In superficie brilla l’élite. Secolo dopo secolo, con dinamismo (va riconosciuto), coinvolge il popolo in alcune sue attività: assemblee di partito, guerre, elezioni, esperimenti economici… Il popolo partecipa a queste attività, ma in modo un po’ distaccato, non mostrandosi non in superficie, vivendo la propria vita nel profondo. Due nazioni, una superficiale e l’altra profonda, a volte vanno in direzioni opposte, a volte si intersecano, ma non si fondono mai.

Le persone profonde mantengono sempre la propria opinione, sfuggendo a sondaggi, propaganda, minacce e altri metodi di studio e influenza diretti. A volte le persone fortunate riescono a capire chi è, cosa pensa e cosa vuole. Ahimè! questa conoscenza spesso non viene colta se non troppo tardi e dalle persone sbagliate.

I sociologi rari osano determinare con precisione se le persone profonde rappresentano l’intera nazione o solo una parte – e quale parte! In tempi diversi erano considerati a volte contadini, a volte proletari, a volte apartitici, a volte hipster , a volte funzionari. Questo popolo, lo cercavamo, volevamo immergerci in esso. A volte si diceva che fosse un teoforo 8 , o addirittura il contrario. A volte abbiamo deciso che era immaginario e non esisteva realmente. Abbiamo iniziato le riforme in fretta e furia, senza tenerne conto, e molto presto ci siamo imbattuti in essa, accorgendoci improvvisamente che esisteva nonostante tutto. A volte, si ritirava sotto la pressione di occupanti interni o esterni. Ma tornava sempre.

Con la sua gigantesca supermassa, il popolo profondo crea un’irresistibile forza di gravitazione culturale, che unisce la nazione e attira (getta) l’élite a terra (sulla terra natale), e talvolta cerca di elevarsi verso il cosmopolitismo.

Il principio popolare, qualunque sia il significato della parola, domina lo stato, ne determina la forma, limita le fantasie dei teorici e costringe gli uomini d’azione a compiti specifici. È un potente attrattore a cui conducono tutte le traiettorie politiche, senza eccezioni. In Russia, non importa con quale movimento politico inizi: conservatorismo, socialismo, liberalismo…, tutto andrà più o meno allo stesso modo. Vale a dire, da ciò che è.

La capacità di ascoltare e comprendere le persone, di vedere tutto in loro, in profondità, e di agire in modo adeguato con loro, costituisce la principale ed eccezionale virtù del governo di Putin. Questa sposa il popolo, segue la stessa strada, non affronta quindi i sovraccarichi distruttivi delle controcorrenti della storia. E, quindi, è efficace e durevole.

In questo nuovo sistema tutte le istituzioni sono subordinate allo stesso compito principale: quello di instaurare uno spirito di fiducia attraverso la comunicazione e l’interazione del capo supremo con i cittadini. Diversi rami del potere convergono sulla persona del leader. Il valore di questi rami è determinato solo dall’importanza e dalla vicinanza del loro legame con lui. Inoltre, i mezzi di comunicazione informali operano aggirando le strutture ufficiali e i gruppi d’élite. E quando la stupidità, l’arretratezza o la corruzione creano interferenze tra le onde di comunicazione con le persone, vengono prese misure drastiche per ristabilire il collegamento il prima possibile.

La struttura multilivello delle istituzioni politiche, copiata dal modello occidentale, è qui talvolta vista come non necessaria e adottata solo per “fare come tutti gli altri”. Quindi le differenze nella nostra cultura politica non sono evidenti ai nostri vicini: li irritano e li spaventano meno. Sono come gli indumenti da esterno che indossi per uscire ma non indossi mai a casa.

La società si fida davvero solo del leader. È l’orgoglio di un popolo non conquistato, il desiderio di rendere più facile il cammino verso la verità o qualcos’altro? Difficile dirlo, ma è un dato di fatto e questo fatto non è nuovo. La novità è che lo Stato ne è consapevole, ne tiene conto e ad esso si riferisce nell’esercizio di tutte le sue funzioni.

Sarebbe una semplificazione eccessiva ridurre questo argomento alla famosa “fede nel buon re”. Le persone profonde non sono affatto ingenue e non considerano la gentilezza dello Zar un valore primario. Piuttosto, sarebbe incline a considerare un buon leader come Einstein considerava Dio, “sottile, ma non malevolo”.

Il modello contemporaneo dello stato russo inizia con la fiducia e tiene insieme la fiducia. Questo è ciò che lo differenzia fondamentalmente dal modello occidentale, che coltiva sfiducia e critica. È qui che attinge la sua forza.

Il nostro nuovo Stato, in questo nuovo secolo, avrà una storia lunga e gloriosa. Non sarà rotto. Agirà a modo suo, otterrà e manterrà i posti migliori nella champions league della lotta geopolitica. Prima o poi tutti coloro che chiedono alla Russia di “cambiare comportamento” dovranno rassegnarsi ad accettarlo così com’è. Dopotutto, che abbiano una scelta è solo un’illusione.

https://www.fondapol.org/etude/la-longue-gouvernance-de-poutine-%d0%b4%d0%be%d0%bb%d0%b3%d0%be%d0%b5-%d0%b3%d0%be%d1%81%d1%83%d0%b4%d0%b0%d1%80%d1%81%d1%82%d0%b2%d0%be-%d0%bf%d1%83%d1%82%d0%b8%d0%bd%d0%b0/

La Russia non ha solo sfidato l’Occidente_di Pyotr Akopov

Proseguiamo con la pubblicazione di testi inediti in Italia di esponenti ed accademici russi, necessari alla comprensione del retroterra culturale alla base delle drammatiche decisioni politiche di questa fase. I giudizi di merito sul testo, ovviamente, non sono riconducibili alla linea editoriale del blog_Giuseppe Germinario

“La Russia non ha solo sfidato l’Occidente, ha dimostrato che l’era del dominio globale occidentale può essere considerata completamente e definitivamente finita”

Fondazione per l’Innovazione Politica | 02 mar 2022

La Fondazione per l’innovazione politica ha tradotto dal russo al francese la versione integrale di un editoriale dell’agenzia russa RIA Novosti, firmato dall’editorialista Pyotr Akopov e intitolato “L’avvento della Russia e il nuovo mondo”. Questo articolo è stato caricato accidentalmente il 26 febbraio 2022. Inizialmente, la pubblicazione di questo testo doveva aver luogo dopo l’occupazione dell’Ucraina da parte della Russia. L’articolo è stato eliminato rapidamente, ma il servizio Web Internet Archive è riuscito a salvarlo.

Questo articolo descrive il progetto imperialista concepito da Putin. La russificazione totale di Ucraina e Bielorussia si presenta come il punto di partenza per una ricomposizione dell’ordine mondiale. Il testo è stato tradotto dal russo da Inna Uryvskaya.

Un nuovo mondo sta nascendo davanti ai nostri occhi. L’operazione militare russa in Ucraina ha inaugurato una nuova era, e questo in tre dimensioni 1 alla volta. Senza dimenticare la quarta, la dimensione interna della Russia. Inizia oggi un nuovo periodo, sia dal punto di vista ideologico che socio-economico; ma questo argomento merita di essere discusso in seguito.

La Russia ristabilisce la sua unità. In effetti, la tragedia del 1991, questa terribile catastrofe nella nostra storia, questo sconvolgimento innaturale, è stata finalmente superata. Questa restaurazione richiede grandi sacrifici, attraverso i tragici eventi di una guerra quasi civile, in cui i fratelli, separati dalla loro appartenenza all’esercito russo e ucraino, si sparano ancora a vicenda, ma non ci sarà più un’Ucraina antirussa. La Russia viene riportata alla sua integrità storica, riunendo il mondo russo, il popolo russo: i Grandi Russi 2 , i Bielorussi ei Piccoli Russi 3 .

Abbandonare l’idea di questa riunificazione, lasciare che questa divisione temporanea si stabilizzi per secoli, significa tradire la memoria dei nostri antenati ed essere maledetti dai nostri discendenti per aver lasciato che la terra russa si disintegrasse.

Vladimir Putin si è assunto, senza alcuna esagerazione, una responsabilità storica prendendo la decisione di non lasciare la questione ucraina alle generazioni future. In effetti, la necessità di risolvere il problema dell’Ucraina non poteva che rimanere una priorità della Russia, per due ragioni principali. E la questione della sicurezza nazionale della Russia, cioè lasciare che l’Ucraina diventi anti-russa, non è la ragione più importante.

Il motivo principale è un eterno complesso di popoli divisi, un complesso di umiliazioni nazionali dovute al fatto che la patria russa ha prima perso parte delle sue fondamenta (Kiev), e deve sopportare l’idea dell’esistenza di due Stati, di due popoli. Continuare a vivere così significherebbe rinunciare alla nostra storia, sia accettando l’idea folle che “solo l’Ucraina è la vera Russia” o ricordando, impotenti e digrignando i denti, il tempo in cui “abbiamo perso l’ucraino”. Nel corso dei decenni, la riunificazione della Russia con l’Ucraina sarebbe diventata sempre più difficile: sarebbero aumentati il ​​cambio dei codici, la derussificazione dei russi che vivono in Ucraina e la propaganda antirussa tra i Piccoli Russi ucraini. Inoltre, se l’Occidente avesse consolidato il controllo geopolitico e militare in Ucraina,

Ora questo problema non esiste più: l’Ucraina è tornata in Russia. Questo ritorno non significa che l’Ucraina perderà la sua statualità. Semplicemente, sarà trasformato, riorganizzato e riportato al suo stato originale come parte integrante del mondo russo. Sotto quali confini? In che forma? Sarà stabilita un’alleanza con la Russia, attraverso la CSTO e l’Unione economica eurasiatica o come stato che fa parte dell’Unione di Russia e Bielorussia? Questo sarà deciso quando l’Ucraina anti-russa non esisterà più. Comunque sia, il periodo di divisione del popolo russo sta volgendo al termine.

È qui che inizia la seconda dimensione della nuova era: riguarda le relazioni della Russia con l’Occidente, e non solo della Russia, ma del mondo russo, cioè tre Stati: Russia, Bielorussia e Ucraina, che agiscono come un’unica entità geopolitica. Queste relazioni sono entrate in una nuova fase e l’Occidente vede la Russia tornare ai suoi confini storici in Europa. Ne è fortemente indignato, anche se nel profondo della sua anima deve ammettere che non avrebbe potuto essere altrimenti.

Chi, nelle vecchie capitali europee, a Parigi o a Berlino, poteva davvero credere che Mosca avrebbe rinunciato a Kiev? Che i russi sarebbero stati per sempre un popolo diviso? E questo, proprio nel momento in cui l’Europa si unisce, quando le élite tedesca e francese stanno cercando di riprendere il controllo dell’integrazione europea dagli anglosassoni e di costruire un’Europa unita! Dimenticando che l’unificazione dell’Europa è stata resa possibile solo dall’unificazione della Germania, ottenuta grazie alla buona – seppur poco intelligente – volontà russa. Qualsiasi pretesa sulle terre russe è più che l’apice dell’ingratitudine, è stupidità geopolitica. L’Occidente nel suo insieme, e l’Europa in particolare, non avevano il potere di mantenere l’Ucraina nella sua sfera di influenza, per non parlare di conquistare l’Ucraina.

Per essere più precisi, c’era una sola opzione: scommettere sull’ulteriore crollo della Russia, cioè della Federazione Russa. Ma il fatto che questa opzione non funzionasse avrebbe dovuto essere chiaro vent’anni fa. Quindici anni fa, dopo il discorso di Putin a Monaco, anche i sordi avrebbero potuto sentire che la Russia era tornata.

Oggi l’Occidente sta cercando di punire la Russia per essere tornata, per aver impedito agli occidentali di arricchirsi a sue spese, per aver fermato l’espansione occidentale verso est. Cercando di punirci, l’Occidente crede che il nostro rapporto con esso sia di vitale importanza. Ma ormai non è più così da molto tempo. Il mondo è cambiato e gli europei così come gli anglosassoni che governano l’Occidente lo capiscono. Qualsiasi pressione occidentale sulla Russia sarà vana. Il danno dovuto all’escalation del confronto sarà bilaterale, ma la Russia è moralmente e geopoliticamente preparata, quando un aggravamento dell’opposizione comporterà per l’Occidente costi significativi, i principali dei quali non saranno necessariamente economici.

L’Europa, come l’Occidente, voleva l’autonomia. In effetti, il progetto tedesco di una maggiore Europa integrata è una sciocchezza strategica se gli anglosassoni mantengono il controllo ideologico, militare e geopolitico sul Vecchio Mondo. Inoltre, questo progetto non può avere successo poiché gli anglosassoni hanno bisogno di un’Europa che controllino. Tuttavia, l’Europa deve cercare l’autonomia per un altro motivo: nel caso in cui gli Stati Uniti si isolino (a causa dei crescenti conflitti e controversie interne) o si concentrino nella regione del Pacifico, dove oggi il baricentro geopolitico si sta spostando.

Gli anglosassoni conducono l’Europa in un confronto con la Russia e privano così gli europei di ogni possibilità di indipendenza. Allo stesso modo, l’Europa sta cercando di imporre una rottura con la Cina. Se gli atlantisti oggi si rallegrano che la “minaccia russa” stia unificando il blocco occidentale, Berlino e Parigi devono capire che, avendo perso ogni speranza di autonomia, il progetto europeo crollerà nel medio termine. Questo è il motivo per cui gli europei indipendenti non sono affatto interessati a costruire una nuova cortina di ferro ai loro confini orientali, rendendosi conto che si trasformerà in un bullpen per l’Europa. L’era della leadership mondiale del Vecchio Mondo (più precisamente, mezzo millennio) è comunque finita. Tuttavia, sono ancora possibili varie opzioni per il suo futuro.

La terza dimensione dell’attualità è l’accelerazione della costruzione di un nuovo ordine mondiale, i cui contorni sono sempre più chiaramente dovuti al fatto che la globalizzazione anglosassone è così diffusa. Un mondo multipolare è finalmente diventato realtà. In questa operazione in Ucraina solo l’Occidente si oppone alla Russia, perché il resto del mondo la comprende perfettamente: è un conflitto tra Russia e Occidente, è una risposta all’espansione geopolitica degli atlantisti, è il ritorno della Russia alla il suo spazio storico e il suo posto nel mondo.

Cina, India, America Latina, Africa, mondo islamico e Sud-est asiatico, nessuno crede che l’Occidente governi l’ordine mondiale, tanto meno ne stabilisca le regole del gioco.La Russia non ha solo sfidato l’Occidente, ha dimostrato che il l’era del dominio globale occidentale può considerarsi completamente e definitivamente conclusa. Il nuovo mondo sarà costruito da tutte le civiltà e da tutti i centri di potere, e questo, ovviamente, in collaborazione con l’Occidente (unito o meno), ma quest’ultimo non potrà più imporre né i suoi termini né le sue regole .

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