(7) Tutti gli Stati membri della zona euro diventeranno membri del MES. Per effetto dell’adesione alla zona euro, lo Stato membro dell’Unione europea dovrebbe diventare membro del MES con gli stessi diritti e obblighi delle parti contraenti.
Categoria: ZIBALDONE
THE TMP THEORY. (TMP=Trump-Macron-Putin), di Pierluigi Fagan
A fine agosto in occasione del G7 di Biarritz, a seguito del lungo colloquio tra Macron e Trump, avanzammo l’ipotesi di un patto tra i due per il quale Macron avrebbe cercato si risolvere il contenzioso russo-ucraino, con successiva normalizzazione dei rapporti tra UE e Russia (quindi uscire dallo stato sanzionatorio), onde permettere a Trump di invitare Putin al successivo vertice in Florida nel 2020, come per altro Trump aveva annunciato possibile. Su questa supposta operazione di diplomazia inclusiva si sommano una serie di interessi, alcuni a favore, altri contro.
Trump cerca di perseguire il dialogo con Mosca dalla sua elezione ma è stato a lungo tenuto sotto scacco dal Russiagate poi terminato in un nulla di fatto. Ora è sotto procedura di impeachment però questo non pregiudica la sua operatività in politica estera. Il fine è noto a chiunque sappia due-cose-due di geopolitica. Ostracizzando al contempo Russia e Cina, gli USA si creano un nemico bicefalo che compensa mancanze con punti di forza. Potenza militare la Russia ma non economica, potenza economica ma non militare la Cina, un vero capolavoro di stupidità strategica. Il fatto è che buona parte del Deep State americano non ha nulla di specifico contro la Cina mentre confinare la Russia nel corner dei nemici assoluti ha grande utilità soprattutto per alimentare la macchina militar-industriale, NATO annessa. Di contro, per Trump ed il suo gruppo di potere, le posizioni sono esattamente inverse. La Russia potrebbe su base gas-petrolifera addirittura esser un partner come lo è stato per lungo tempo prima dell’affaire ucraino (si pensi anche a gli sviluppi siberiano-polari che avevano portato alla nomina a Segretario di Stato dell’ex CEO di Exoxn-Mobil, Rex Tillerson, grande amico dei russi) , il nemico strutturale e prospettico è obiettivamente la Cina in quanto la partita dei poteri mondiali è certo economico-finanziaria e non certo militare, spingere i primi ad unirsi ai secondi è esattamente il contrario di ciò che fece a sui tempo Kissinger ai tempi di Mao e Nixon, quando Cina ed URSS erano oltretutto allineate ideologicamente.
Putin certo è consapevole delle trappole insite in questo disegno e certo non ha nessuna intenzione di ri-orientarsi strategicamente dal formato “strana coppia” (RUS-CHI) come la chiama Limes, ad un improbabile nuova amicizia con gli infidi occidentali però, realisticamente, ottenere una qualche possibilità di “bilanciamento” avrebbe un suo appeal. Questo aumenterebbe il potere negoziale russo ed aiuterebbe la Russia ad aprirsi ventagli di possibilità sul prezzo a cui vendere i suoi patrimoni energetici fossili e potersi comprare tecnologia per far fare qualche salto alla sua industria.
Macron ne otterrebbe molti vantaggi. Il prestigio del ruolo di Ministro degli Esteri nella diarchia di Aquisgrana in cui Merkel è il Ministro del Tesoro, la possibilità del ruolo di intermediario primo con ricadute di affari con i russi a seguire, la diminuzione del peso geopolitico dell’Europa del’Est vs Europa dell’Ovest, un credito nei confronti di Trump ma anche di Putin, la titolarità per portare avanti la sua idea di parziale sganciamento dell’Europa dalla NATO che è la precondizione per i progetti di costituzione di una potenza militare europea che è l’unica carta che le permetterebbe di sedersi al tavolo della nuova fase di geopolitica multipolare.
Merkel di fatto è già da tempo e nonostante le roboanti dichiarazioni pubbliche contrarie, di fatto partner commerciale coi russi, si pensi al raddoppio del North Stream 2. Per altro, larga parte della confindustria tedesca e della politica bavarese sarebbe entusiasta di una normalizzazione. Pubblicamente però non si espone per salvaguardare equilibri interni contrari e soprattutto per non creare tensioni con quell’Europa dell’Est che è il suo bacino egemonico naturale. Lascia fare a Macron con l’aria di chi deve pur permettere al junior partner di avere il suo protagonismo.
Zelensky ha ricevuto poteri largamente maggioritari in Ucraina anche se le minoranze nazionaliste sono agguerrite e poco disposte al disgelo. Nei fatti, il gruppo di potere attorno a Zelensky bada a gli interessi ucraini e l’Ucraina dopo esser stata sedotta dall’amministrazione Obama che ha pilotato il colpo di stato travestito da insurrezione popolare, è stata nei fatti abbandonata. La situazione economica e sociale in Ucraina è pessima ed è su questo scontento palese che Zelensky sta costruendo la sua fortuna politica. La relazione a due vie tra Ucraina e Russia è di logica geo-storica, si può far davvero poco per trovare una logica sostitutiva e certo non senza il favore di Trump, Macron e Merkel che nei fatti vanno in direzione opposta.
Contro questo movimento si segnano: l’Europa dell’Est in perenne paranoia anti-russa, i britannici al solito inorriditi dalle pretese geopolitiche degli euro-continentali viepiù se saldate in relazioni coi russi (l’incubo Heartland di Mackinder), la NATO che dal felice esito di questo movimento vedrebbe fortemente ridimensionati i suoi interessi (con un bel po’ di generali e funzionari disoccupati, nonché parte del complesso industriale americano connesso in crisi), buona parte del Deep State americano, i democratici americani, i loro alleati liberali europei.
Ecco allora che si fa fatica a trovare oggi notizie sul felice esito della riunione “formato Normandia” (Macron, Merkel, Putin, Zelensky) di ieri a Parigi, sia sulla stampa nazionale che internazionale, molto meglio la notizia del ban alle Olimpiadi e forse Mondiali di calcio, per presunto doping russo. Una spessa cortina di silenzio intorno alla notizia che quando data, è data con sospetto corredato da sfiducia e dubbi.
Nei fatti però, dopo Biarritz, Macron è andato in Ucraina e si è sentito spesso con Putin, Zelensky si è telefonato con Putin quattro volte, hanno cominciato e sono a buon punto nello scambio dei prigionieri reciproci, hanno annunciato una sospensione delle ostilità in Donbass sebbene non sempre rispettata da chi ha evidentemente interessi contrari (nazionalisti ucraini e del Donbass), ieri si sono stretti la mano e parlato a quattro occhi fissando un successivo piano di diplomazia attiva a scadenza marzo 2020. Difficile chiudere in tempo e con venti contrari il processo per firmare una pace ad aprile e revocare le sanzioni a maggio per il G8 americano che è a giugno, con le elezioni americane a novembre. Però sembra che più d’uno abbia voglia di provarci, vedremo …
Certo va notato che il tema “pace e diplomazia” non riscuote grande successo d’attenzione presso le opinioni pubbliche occidentali, il che denota una forte contraddizione adattiva a quello che volenti o nolenti sarà lo statuto multipolare del nuovo equilibrio mondiale. Meglio spingere senza tregua ad odiare qualcuno e poi inveire contro l'”odio dilagante”, no?
commenti:
https://www.facebook.com/pierluigi.fagan/posts/10219535446952376
Operazione Barkhane : una messa a punto necessaria, di Bernard Lugan
– La zona CFA nel suo complesso, i paesi del Sahel inclusi, rappresenta poco più dell’1% di tutto il commercio estero della Francia, i paesi del Sahel per un totale di un massimo di un quarto del 1%. Basti dire che il Sahel non esiste per l’economia francese.
– Per quanto riguarda l’uranio dal Niger, contrariamente a una sciocchezza e contro-verità sentite parlare dal momento che in realtà non è essenziale. Circa 63.000 tonnellate estratte nel mondo, il Niger ne produce a regime 2900 … E’ più economico, e senza problemi di sicurezza dal Kazakistan che ne estrae 22.000 tonnellate, quasi dieci volte, Canada (7000 t.), Namibia (5500 t.), Russia (3.000 t.), Uzbekistan (2400 t.) o l’Ucraina (1200 t.), ecc ..
– Per quanto riguarda l’oro in Burkina Faso e Mali, la realtà è che è schiacciante la quantità estratta dalle aziende canadesi, australiani e turche.
IL DESTINO DI TARANTO E’ SEGNATO DALLA SUA STORIA MILITARE E DALLA SUA GEOGRAFIA di Luigi Longo
IL DESTINO DI TARANTO E’ SEGNATO DALLA SUA STORIA MILITARE E DALLA SUA GEOGRAFIA
di Luigi Longo
E Pensare Che C’era Il Pensiero*
Il secolo che sta morendo è un secolo piuttosto avaro nel senso della produzione di pensiero.
Dovunque c’è un grande sfoggio di opinioni piene di svariate affermazioni che ci fanno bene e siam contenti.
Un mare di parole un mare di parole ma parlan più che altro i deficienti.
Il secolo che sta morendo diventa sempre più allarmante a causa della gran pigrizia della mente.
E l’uomo che non ha più il gusto del mistero che non ha passione per il vero che non è cosciente del suo stato.
Un mare di parole un mare di parole è come un animale ben pasciuto.
E pensare che c’era il pensiero che riempiva anche nostro malgrado le teste un po’ vuote.
Ora inerti e assopiti aspettiamo un qualsiasi futuro con quel tenero e vago sapore di cose oramai perdute.
Va’ pensiero sull’ali dorate va’ pensiero sull’ali dorate.
Nel secolo che sta morendo s’inventano demagogie e questa confusione è il mondo delle idee.
A questo punto si può anche immaginare che potrebbe dire o reinventare un Cartesio nuovo e un po’ ribelle.
Un mare di parole un mare di parole io penso dunque sono un imbecille.
Il secolo che sta morendo appare a chi non guarda bene il secolo del gran trionfo dell’azione.
Nel senso di una situazione molto urgente dove non succede proprio niente dove si rimanda ogni problema.
Un mare di parole un mare di parole e anch’io sono più stupido di prima.
E pensare che c’era il pensiero era un po’ che sembrava malato ma ormai sta morendo.
In un tempo che tutto rovescia si parte da zero.
E si senton le note dolenti di un coro che sta cantando.
(sull’aria di va pensiero)
Vieni azione coi piedi di piombo Vieni azione coi piedi di piombo.
Giorgio Gaber
1.Un breve racconto di storia militare e geografica della città di Taranto
Il destino della città di Taranto è segnato dalla storia militare e dalla geografia che la rende un luogo strategico nel Mediterraneo e nell’Oriente. Per l’importanza geografica e militare di Taranto riporto una ampia sintesi tratta dal bel libro del 1930 dello storico Giuseppe Carlo Speziale << Alcune condizioni geografiche particolarmente felici hanno fatto sì che il golfo di Taranto sia sempre stato considerato come un nodo di traffici marittimi, sin dalla più remota antichità; e, per meglio specificare, i due bacini interni, il mar Grande ed il mar Piccolo, vasti e completamente chiusi come due laghi, sono sempre stati ancoraggi militari di prim’ordine e, in caso di conflitti o di attività nel Mediterraneo orientale, vere risorse anche per le armate più numerose. Quello di Taranto, infatti, è porto di concentramento e di imbarco per truppe e di preparazione alla guerra per le navi, porto di sorveglianza in posizioni strategica vantaggiosa, in quanto prossimo all’Oriente e posto in mezzo ai due bacini dell’Adriatico e dell’Egeo, che sono stati di tutto il Mediterraneo i mari più ricchi di storia e di eventi >>.
Taranto servì da nodo per i romani per la loro espansione; fu distrutta dagli Arabi di Sicilia per privare i Bizantini di uno dei porti migliori del loro dominio; << […] al tempo delle Crociate esso (il porto, mia specificazione) servì per concentramenti di navi e per l’imbarco delle milizie; ed in seguito, col determinarsi di nuovi antagonismi nell’Egeo e nell’Adriatico, ne ambirono il possesso sia i Turchi sia i Veneti appunto per questa sua posizione dominate […]; Federico II […] colla sua acutezza ed il suo senno politico, aveva già incluso in un suo vasto disegno militare una simile città e, in tempi di crociate e di guerre in Oriente, aveva già fatti i suoi calcoli e previsti i vantaggi che poteva trarre da quell’osservatorio sul Mediterraneo, da quel porto per il Levante, da quel “baluardo del regno” […] >>; Napoleone trasformò Taranto in una << piazzaforte d’appoggio della sua politica orientale […] In tale epico periodo una simile piazzaforte poté contemporaneamente servire a diversissimi scopi, che andavano dalla sorveglianza sui Balcani, alla minaccia di uno sbarco in Dalmazia per tenere a bada l’Austria, dal frazionamento delle forze navali inglesi alla creazione d’un centro d’informazione per il Levante e l’Adriatico, dalla preparazione di spedizioni navali a tutti i vantaggi marittimi sempre offerti da sì provveduto ancoraggio >>.
Nel primo decennio del Novecento Taranto fu sede del terzo dipartimento militare marittimo, così come Napoli fu sede del secondo Dipartimento (come vedremo in seguito le città di Napoli e Taranto diventano basi strategiche degli USA). << Le grandi manovre navali del 1907 furono come una specie di prova generale per gli impianti militari di Taranto, che quattro anni dopo venivano improvvisamente messe in febbrile travaglio dalla guerra di Libia. Nella prima impresa mediterranea della giovane Nazione, Taranto ebbe un’importanza, oltre il previsto ed il prevedibile, come luogo di appoggio per le forze marittime […] uno sguardo alla carta geografica […] fa subito rilevare come sia felice la posizione di Taranto per ogni attività navale da esplicare nel Mediterraneo centrale ed orientale […] Se alle considerazioni […] si aggiungono quella della difesa aerea […] Questa coesistenza nello stesso porto militare degli impianti dell’arsenale, della base navale e della base aerea ha una importanza infine che va anche al di là, e molto al di là, delle necessità e delle questioni del momento […] I destini di Taranto paiono quindi, ora più che mai, vincolati alle ragioni militari, e questa è e rimane la linea saliente della tradizione storica della città […] Federico II e Napoleone rimangono quindi i due profeti dei destini militari di Taranto: il tempo e le varie vicende han dato ampiamente ragione a quelle previsioni. (corsivo mio) >> (1).
Le suddette infrastrutture e basi furono utilizzate nella guerra di occupazione della Libia e nelle due guerre mondiali (2).
La città di Taranto, dall’antichità ad oggi, nelle fasi multicentriche e policentriche storicamente determinate, è stata condizionata dalle strategie militari delle potenze dominanti e in ascesa, in conflitto fra loro.
Oggi, nella fase multicentrica, la città di Taranto torna ad essere una base militare importante, una città Nato per gli USA (potenza dominante), per le sue strategie contro la Cina e la Russia (potenze in ascesa).
Nelle diverse fasi storiche Taranto ha usufruito di una posizione di rendita geografica (assoluta e differenziata) in quelle monocentriche (fasi di sviluppo pacifiche coordinate dalla potenza egemone) e di una posizione di sventura geografica in quelle multicentriche e policentriche (fasi di sviluppo conflittuale coordinate dalle strategie militari e dalle guerre).
2.La Nato a Taranto
Ho utilizzato i saperi della storia e della geopolitica per capire perché l’Ilva di Taranto dovrà essere chiusa per far posto alla base USA (via Nato) per le sue strategie di guerra nel Mediterraneo, nei Balcani, nel Vicino Oriente, nel Medio Oriente e nell’estremo Oriente.
Il V° Centro siderurgico di Taranto è stato costruito nei primi anni sessanta del secolo scorso, nella fase monocentrica coordinata dagli USA che non erano preoccupati dalla potenza dell’ex URSS perché era un gigante militare-nucleare con i piedi di argilla (3). Con la caduta del muro di Berlino (1989), con l’implosione dell’ex URSS (1991), dopo un decennio di apparente indiscusso dominio mondiale da parte degli Stati Uniti (tant’è che si parlò di fine della storia e di una prospettiva di pace mondiale), le relazioni mondiali cambiano e con l’ascesa di due potenze quali la Cina e la Russia, entriamo nella fase multicentrica. E’ in questa fase che gli USA costruiscono la base NATO di Napoli chiudendo l’Ilva di Bagnoli per le loro strategie di contrasto delle potenze in ascesa e approntano la base NATO di Taranto con la prevedibile chiusura dell’Ilva (4).
<< A Taranto ha sede il quartiere generale della High Readiness Force (Maritime), una forza marittima di rapido spiegamento che, al momento dell’impiego, sarebbe come le altre inserite nella catena di comando del Pentagono. L’importanza del porto di Taranto per la marina Usa trova conferma nel fatto che una società statunitense, la Westland Security, intende acquistare una parte dell’area portuale da destinare, oltre che a non precisate attività commerciali, a servizi per la Sesta Flotta Usa nel Mediterraneo, composta da 40 navi, 175 aerei e 21 mila uomini. Sempre a Taranto, c’è un importante nodo dei sistemi di comando, controllo, comunicazioni, computer e intelligence (C4I) del Centro della marina Usa per la “interoperabilità dei sistemi tattici”: in altre parole, un centro di comando e di spionaggio del Pentagono. La conferma si trova in un documento ufficiale dello stesso Pentagono, in cui si parla di un contratto da 9,8 milioni di dollari stipulato nel 1998 dal Dipartimento Usa della Difesa con la Logicon Inc. di Arlington per la messa a punto dei nodi della rete di comando e di spionaggio, tra cui-unico in Europa e nel Mediterraneo-quello di Taranto. Tutte queste forze e basi statunitensi, pur essendo in territorio italiano, sono inserite nella catena di comando del Pentagono e quindi sottratte a qualsiasi meccanismo decisionale italiano (corsivo mio) >> (5).
A partire dall’importanza del suo porto per la Marina statunitense Taranto, in maniera segreta e con libidine di servitù, sta diventando un polo Nato (6) e i suoi servili decisori attuali e futuri gestiranno, con il “Cantiere Taranto”, che è una riproposizione del Contratto Istituzionale di Sviluppo per questa area (CIS), la chiusura dell’Ilva e metteranno a completa disposizione il Mar Grande (nuova base navale) e il Mar Piccolo (Arsenale) per le strategie NATO (7).
Da qui bisogna partire per capire la trasformazione di Taranto da polo siderurgico a polo strategico della NATO, cioè degli USA.
3.La fine dell’Ilva di Taranto
Il soggetto che si è fatto carico dell’esplosione delle contraddizioni dell’Ilva, nel rapporto capitale-salute e capitale-ambiente, è stato la magistratura, nel 2012, per questioni legittime ma vecchie di 50 anni [la salute e la sicurezza dei lavoratori/trici sul luogo di lavoro e l’inquinamento territoriale (suolo, aria, mare) con conseguenze devastanti sulla popolazione]; contraddizioni, inoltre, che sono intrinseche alle dinamiche del modo di produzione capitalistico che non ha come obiettivo né la tutela della salute dei lavoratori/trici e della popolazione né il rispetto delle leggi della natura con i suoi cicli (8).
La magistratura non spiega perché arriva con 50 anni di ritardo ad affrontare le suddette questioni, né perché non ha messo sotto inchiesta tutti i poli siderurgici e chimici italiani.
E’ mia convinzione che l’azione della magistratura, che è parte integrante dei ceti decisori (altro che la teoria della separazione dei poteri, che la realtà smentisce…), è stata la testa di ariete che ha fatto saltare le contraddizioni del modo di produzione dell’Ilva (coinvolgendo anche il rapporto capitale-lavoro) affinchè si mettesse in moto una precisa strategia: quella della gestione della chiusura della più grossa impresa siderurgica europea perché incompatibile con le esigenze territoriali e strategiche degli agenti dominanti statunitensi attraverso i loro strumenti di intervento (Pentagono e Nato). Faccio osservare che l’impresa Ilva dei Riva era sulla strada della dismissione per mancanza di a) manutenzione ordinaria, straordinaria e di investimenti; b) rispetto di qualsiasi norma e legge; c) strategia per migliorare qualsiasi aspetto della produzione (l’introduzione di nuove tecnologie era impossibile su vecchi e usurati macchinari!), della salute, dell’ambiente, della città (9). La gestione dell’impresa Ilva, in un rapporto sociale storicamente determinato, è stata attuata con modalità da plusvalore assoluto e non da plusvalore relativo (10), senza pensare minimamente ad una strategia di ricaduta e di innervamento con lo sviluppo locale del territorio a diverse scale (locale, regionale, nazionale e mondiale). I Riva, ottimi cotonieri lagrassiani, hanno raschiato il fondo di tutte le risorse possibili nella produzione dell’acciaio. (11).
Perché i Riva hanno potuto muoversi ed operare in queste condizioni? E la mitica classe operaia che ruolo ha avuto insieme ai sindacati? (12) E le istituzioni che ruolo hanno svolto per fare rispettare le norme e i principi costituzionali? E la destra e la sinistra (oggi fa ridere la volontà di questa distinzione ideologica) quale ruolo hanno esercitato? In sintesi: il blocco di potere che si è formato intorno all’impresa Ilva dei Riva sapeva benissimo in quale condizioni essa operava e dove conduceva la strategia dei cotonieri. Perché nulla è stato fatto né in termini di salute dei lavoratori/trici e della popolazione, né in termini di difesa ambientale e delle risorse esistenti, né in termini di impresa aperta al territorio e al suo sviluppo?
- La gestione della chiusura dell’Ilva di Taranto
Anche se la strategia di gestione della chiusura dell’Ilva ha come scena principale la sfera economica (oltre a quelle istituzionale, giuridica e ideologica), attraverso il libero mercato (sic) e il ruolo di una grande impresa multinazionale (12 bis), le vere ragioni della chiusura dell’Ilva vanno ricercate nella sfera politica dei pre-dominanti statunitensi i quali hanno bisogno, nel conflitto per l’egemonia mondiale, di quello spazio geograficamente e militarmente strategico (le basi nato).
Il ruolo di ArcelorMittal. ArcelorMittal (ora in avanti AM), il principale produttore mondiale di acciaio che << dallo scoppio della crisi (2007-2012, mia precisazione) ha avviato un processo di ridimensionamento della propria presenza nel vecchio continente >> (13), ha due obiettivi da raggiungere: a) liquidare, incorporandola, una delle più grandi imprese siderurgiche europee, b) compiere una rottura, un salto decisivo verso la chiusura con i conseguenti licenziamenti degli operai. << Oggi compie un anno la gestione targata AM del complesso aziendale ex Ilva […] Le ipotesi di rilancio dell’acciaieria di Taranto […] hanno ormai lasciato spazio ai piani di ridimensionamento […] lo stabilimento siderurgico annaspa, fermo a poco più di 4 milioni di tonnellate di acciaio liquido prodotto nel 2019, con 1400 degli 8200 dipendenti in cassa integrazione (i dipendenti erano 10500 con i commissari, 12000 con la famiglia Riva, fino a 25000 con la gestione statale) […] >> (14). Federico Pirro (docente di storia dell’industria dell’Università di Bari) così chiarisce << […] se nella prossima trattativa fra gli esperti nominati dal governo e quelli di Arcelor non verrà ribadito con chiarezza dai rappresentanti italiani che il sito di Taranto non può scendere ad una capacità di 4 o 4,5 milioni di tonnellate all’anno, pena un drastico ridimensionamento del tutto antieconomico per un impianto di quelle dimensioni che è ancora la più grande acciaieria a ciclo integrale d’Europa e la maggiore fabbrica manifatturiera d’Italia con i suoi 8277 addetti diretti. […] Il gruppo franco-indiano, dopo aver ceduto alcuni suoi impianti in Europa a causa delle prescrizioni di Bruxelles per poter acquistare il gruppo Ilva, al momento gestito in locazione finalizzata all’acquisto, sta riorganizzando le produzioni nei suoi stabilimenti di Dunkerque e di Fos-sur-Mer vicino Marsiglia, portandole- con il consenso del governo francese- da 4 a 6 milioni di tonnellate ciascuno e, pertanto, potrebbe non aver interesse a conservare un’elevata capacità a Taranto, perché i 12 milioni di tonnellate dei due siti francesi e gli eventuali 4 del capoluogo ionico sarebbe sufficienti a conservare il suo mercato continentale. Si punterebbe così ad una mini Ilva. Secondo la sua strategia tale disegno sarebbe comprensibile, ma non sarebbe condivisibile per l’Italia che deve conservare adeguata capacità nel ciclo integrale. […] Pesantissimi, non solo per l’attuale manodopera diretta che con 4 o 4,5 milioni di tonnellate sarebbe dimezzata- senza alcuna speranza inoltre di poter un giorno recuperare in fabbrica gli attuali 1700 cassaintegrati in carico all’Amministrazione straordinaria-ma anche per gli addetti diretti di Genova e Novi Ligure, e per alcune migliaia di occupati dell’indotto manifatturiero delle altre città, ma soprattutto di Taranto e non solo di quello industriale. […] Le movimentazioni del porto cittadino che potrebbe anche perdere entro qualche anno, se non recuperasse traffici, la classificazione di porto core con la scomparsa della sua Autorità di sistema portuale […] ma anche il settore dell’autotrasporto su gomma e su ferrovia, tutto l’indotto di secondo e terzo livello, dalle pulizie industriali alle mense aziendali, senza considerare l0impoverimento complessivo di territori provinciali e regionali in cui viene speso il reddito di operai e tecnici dell’Ilva. Insomma, una catastrofe. >> (15). Rita Querzè ci informa che << L’uscita di ArcelorMittal dall’Ilva e dall’Italia è più vicina. La Corte suprema indiana ha dato il via libera ad AM per l’acquisizione del gruppo siderurgico indiano Essar Steel. Valore, tra acquisizione e investimenti: 6,15 miliardi di euro. Mittal non dovrà pagare tutto di tasca propria visto che l’operazione è condotta in joint venture con i giapponesi di Nippon Steel. Ma si tratta comunque di un impegno finanziario non distante da quello preventivato per acquisire l’ex Ilva (4,2 miliardi). L’investimento che doveva convergere su Taranto viene dirottato verso l’India. Secondo i siti specializzati, Essar Steel impiega meno della metà dei dipendenti dell’ex Ilva: 3.800 contro 10.700. Ma la capacità produttiva di Essar sarebbe superiore: 10 milioni di tonnellate di acciaio l’anno solo nello stabilimento di Hazira contro i 4 milioni di tonnellate di acciaio di Taranto (che dovevano diventare però 8 milioni a regime). Ad Hazira un manager a inizio carriera guadagna l’equivalente di 5.500 euro l’anno. Grazie a questo «colpo» AM entrerà nel mercato domestico: finora i Mittal non avevano investito a casa propria, il secondo mercato mondiale dell’acciaio. Questa operazione, con il nuovo posizionamento di Arcelor Mittal in India come fatto strategico, penalizza Taranto dal punto di vista dell’impegno delle risorse. >> (16).
E’ possibile, chiedo, che una multinazionale del livello di AM, che avrà sicuramente degli ottimi strateghi geoeconomici e geopolitici al suo interno, abbia partecipato al bando di gara non conoscendo la situazione di Taranto e, soprattutto, non conoscendo gli interessi militari degli Stati Uniti per il golfo di Taranto? E gli strateghi di AM saranno sicuramente informati che i due giganti asiatici del trasporto marittimo, la taiwanese Evergreen Maritime Corporation e la cinese Hutchison Whampoa, che controllavano al 90% la società terminalistica dello scalo pugliese (la Taranto Container Terminal), e movimentavano il 70% dei traffici, con dietro una potenza mondiale come la Cina, hanno dovuto abbandonare il porto di Taranto e trasferirsi nel porto del Pireo di Atene?
Una grande multinazionale come AM non può entrare in contraddizione dicendo, dopo un anno, che non può mantenere gli impegni presi per quanto stabilito nel bando di gara e nel contratto di acquisto dell’Ilva e nello stesso tempo investire in Francia e in India (la contraddizione va vista nell’insieme delle attività mondiali e tenendo presente i due Stati di appartenenza di AM con le loro strategie politiche nazionali). Né può addurre giustificazione di crisi dell’acciaio perché proprio in virtù di essa ha avviato un processo di ridimensionamento della propria presenza nel vecchio continente. Né può trincerarsi dietro la mancanza dello scudo penale perché è una pantomima politica in quanto tutti sanno che chiunque interviene sull’Ilva di Taranto, sia pubblico sia privato, ha bisogno dello scudo penale (17).
Il ruolo dei ceti decisori. La macchina della chiusura dell’Ilva (che avrà i suoi tempi) è già in movimento. Riporto quanto scritto nel 2013 perché nella sostanza ha ancora la sua validità, con l’aggiunta: a) il ruolo di AM, b) i nuovi formali strumenti di sviluppo del territorio (il “Cantiere di Taranto” e il CIS), c) una fantomatica svolta green degli impianti, d) un processo di decarbonizzazione che presuppone un radicale processo di trasformazione degli impianti oltre ad una chiara strategia di investimenti (forni elettrici…) considerando i tempi, le verifiche, l’occupazione (18), e) la farsa di una impresa di interesse strategico per il Paese << La UE, il governo italiano, la regione Puglia e il comune di Taranto sono i luoghi istituzionali dove saranno gestite le risorse finanziarie ( derogando al Patto di stabilità) per il rilancio di uno sviluppo dell’area tarantina nei settori della bonifica ambientale, del risanamento del territorio, della rigenerazione urbana della città, della smart city, del riuso del porto ( l’Autorità Portuale vede con favore la chiusura dell’Ilva per puntare a un riuso del porto e al superamento dell’attuale crisi sul modello di quello di Rotterdam: fare di Taranto, la Rotterdam del Mediterraneo), eccetera, in stretta collaborazione con le strategie di intervento che integrano la dimensione militare e quella civile della NATO. >>.
La solitudine degli operai, prima e la loro reazione di indifferenza e apatia poi, alla chiusura nei fatti dell’Ilva sono indici paradigmatici del degrado politico, sociale e culturale di Taranto, dell’Italia e dell’Europa. Per dirla con Costanzo Preve siamo in piena << […] libidine di servilismo della cultura europea contemporanea verso l’unico modello dominante americanocentrico >> (19).
E pensare che c’era il pensiero.
- L’ideologia dell’interesse nazionale
L’Ilva è uno stabilimento di interesse strategico nazionale (articolo 1 del decreto legge del 3 dicembre 2012 n.207 e sua conversione in legge n.231 del 2012). Ciò ha permesso, in una prima fase, di espropriarla per affidarla alla gestione pubblica (20) per il risanamento aziendale e territoriale per poi restituirla ai proprietari. Successivamente c’è una diversa gestione: pubblicazione di un bando di gara e assegnazione con un contratto di acquisto (non è il caso di approfondire in questa sede la costruzione del bando e del contratto di affitto con obbligo di acquisto anche se è facile intuire l’impostazione). Sarà il libero mercato con meccanismi democratici e trasparenti ad aggiudicare l’Ilva: il metodo della menzogna sistematica!
Perché non gestire il risanamento aziendale con i sub-decisori italiani invece di affidarla ad una multinazionale franco-indiana? Cioè mettiamo una impresa strategica nazionale in mano a una multinazionale straniera: è il trionfo della legge fondamentale della stupidità umana, dello storico Carlo Maria Cipolla (21). Una nazione seria non consegna una impresa strategica ad una multinazionale come AM che ha dietro due stati come la Francia e l’India. Chiedo: in questa fase di crisi da sovrapproduzione dell’acciaio e di processi di ristrutturazione, chi penalizzerà l’AM? La risposta è: l’Italia! Così come già sta accadendo con gli investimenti surriportati in Francia e in India.
Una impresa strategica nazionale non si consegna alla prima multinazionale mondiale dell’acciaio a meno che i sub-decisori italiani non abbiano affidato la liquidazione dell’Ilva, su comando dei pre-dominanti statunitensi i quali non fidandosi hanno optato per AM sapendo che dietro c’erano sub-dominanti servili, sì, ma affidabili e capaci di portare a termine la chiusura dell’Ilva (oltre ai giochi geoeconomici e geopolitici tra Usa, Francia e India).
In questa logica parlare di industria strategica di interesse nazionale diventa una farsa nazionale (22).
La magistratura con il gioco dello scudo penale (l’Ilva non può essere gestita senza lo scudo penale e questo lo sanno tutti! Anche i magistrati che discutono di grande dottrina giuridica per la incostituzionalità dello scudo penale utilizzato ad hoc) e con il gioco dell’interesse nazionale (tutelando una impresa strategica nazionale dopo averla data alla multinazionale AM?) entra nella vicenda Ilva per creare complessità strumentale al fine di perseguire l’obiettivo della chiusura.
Ancora una volta il ruolo della magistratura è funzionale alle strategie dei pre-dominanti statunitensi e ci vuole una bella faccia tosta a parlare della separazione dei poteri, una architettura giuridica-istituzionale creata per confondere il reale corso della dura realtà conflittuale.
Chiedo, ammesso e non concesso che ci siano le condizioni (23): quale impresa italiana (e sottolineo italiana perché deve essere espressione di una strategia di difesa degli interessi nazionali così come fanno tutte le nazioni non servili) investirebbe in questa complessità rischiosa e pericolosa? Rischiosa per le condizioni storiche oggettive del modo di produzione dell’Ilva dei cotonieri italiani (dal 1960 ad oggi) e pericolosa perché, come ci ricorda Gianfranco La Grassa, gli Stati Uniti d’America << […] sono ormai un grave pericolo e ostacolo […] per il mantenimento dell’autonomia di ogni singola area, di ogni singolo paese; difendiamoci dalla voracità statunitense. Del resto, anche dal punto di vista interno ad ogni paese, i gruppi dominanti più oppressivi, più parassitari e sanguisughe rispetto alla maggioranza della popolazione (non del “popolo”, questa maschera di tutti i traditori), sono quelli che si pongono alle dipendenze degli Usa; da essi sono quindi aiutati a mantenere la loro preminenza interna (corsivo mio) >> (24).
Se, come ho già sostenuto, rimaniamo nella logica capitale-lavoro, capitale-salute, capitale-ambiente, non capiremo perché l’Ilva di Taranto chiuderà. Se invece ci mettiamo nella logica del conflitto strategico (supportato dai saperi della storia, della geopolitica) allora capiremo che l’Ilva di Taranto chiuderà perché è incompatibile con le strategie USA (via Nato) delle fasi multicentrica e policentrica.
Il secolo che sta morendo è un secolo piuttosto avaro nel senso della produzione di pensiero. Dovunque c’è un grande sfoggio di opinioni piene di svariate affermazioni che ci fanno bene e siam contenti. Un mare di parole un mare di parole ma parlan più che altro i deficienti.
La citazione che ho scelto come epigrafe è tratta da:
Giorgio Gaber, E pensare che c’era il pensiero dall’album E pensare che c’era il pensiero, CD, 1995/1996.
NOTE
1.Giuseppe Carlo Speziale, Storia militare di Taranto. Negli ultimi cinque secoli, Giuseppe Laterza & Figli, Bari, 1930, pp. 14-15-16-246-258.
- Sul ruolo di Taranto nella guerra in Libia e nelle due guerre mondiali si rimanda a Giuseppe Carlo Speziale, Storia militare di Taranto, op. cit., pp.206-259; Mario Gismondi, Taranto: La notte più lunga. Foggia: la tragica estate, Dedalo, Bari, 1968; Giuliano Lapesa, Taranto dall’Unità al 1940: industrializzazione, quadri ambientali e demografici, politiche urbane, Tesi di Dottorato Università degli Studi di Napoli Federico II, www.fedoa.unina.it/3291/1/Lapesa_Giuliano_TesiDottorato.pdf; Roberto Nistri, Taranto nella grande guerra, www.taranto.anpi.it/2014/11/taranto-nella-grande-guerra/. Sulla relazione tra Arsenale e sviluppo economico, sociale, politico e strutturale della città si veda Rosa Alba Petrelli, L’Arsenale Marittimo Militare di Taranto. Un’indagine archeologico-industriale, Crace editore, Roma, 2005; Antonio Verardi, Quando la grande guerra arrivò a Taranto, www.pugliain.net, 17/1/2016.
3.Luigi Longo, Gli Stati Uniti e lo spettro della Russia, www.italiaeilmondo.com, maggio 2017.
4.Luigi Longo, Taranto, da polo siderurgico a polo strategico della NATO, www.conflittiestrategie.it, 20/7/2013 e www.italiaeilmondo.com, 20/5/2018.
5.Manlio Dinucci, Geopolitica di una “guerra globale” in AaVv, Escalation. Anatomia di una guerra infinita, Derive Approdi, Roma, 2005, pp.82-83.
- Sulla segretezza degli interventi NATO si rinvia al Dossier di Peacelink “Nato a Taranto”, www.peacelink.it; Interrogazione parlamentare al Ministro della Difesa presentata da Deiana Elettra in data 22/4/2004, htpp://dati.camera.it/ocd/aic.rdf/aic4_09815_14.
- Sugli interventi e gli obiettivi contenuti nel CIS dell’area di Taranto si veda www.cistaranto.coesionemezzogiorno.it; sul ruolo e sul rilancio dell’Arsenale Militare di Taranto nelle strategie Nato si legga Maristella Massari, Taranto, è l’Arsenale il perno del rilancio in La Gazzetta del Mezzogiorno del 14/11/2019; Redazione AnalisiDifesa, Dimostrazione in mare per il progetto di ricerca militare OCEAN2020, www.analisidifesa.it, 20/11/2019; Redazione AnalisiDifesa, La portaerei Cavour esce dal bacino di carenaggio di Taranto, www.analisidifesa, 27/11/2019.
- Luigi Longo, L’Ilva di Taranto, www.conflittiestrategie.it, 7/8/2012.
- Per una analisi economica si rimanda a Riccardo Colombo e Vincenzo Comito, L’Ilva di Taranto e cosa farne. L’ambiente, la salute, il lavoro, Edizioni dell’asino, Roma, 2013; Emiliano Brancaccio e Salvatore Romeo, Piatto d’Acciaio, Limes n.3/2014; Salvatore Romeo, L’acciaio in fumo. L’Ilva di Taranto dal 1945 a oggi, Donzelli editore, Roma, 2019; Federico Pirro, Fare squadra per ripartire da un futuro d’acciaio in La Gazzetta del Mezzogiorno del 22/6/2019.
- Per capire la differenza di produzione in condizioni di plusvalore assoluto e plusvalore relativo si rimanda a Karl Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, Einaudi, Torino, 1975, Libro primo, pp.621-648; Karl Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, Einaudi, Torino, 1975, Libro primo, Appendici: Per la critica dell’economia politica. Capitolo VI inedito e altri scritti, pp.1185-1260.
- Per le funzioni dei cotonieri Riva e del loro blocco di potere si veda, sia pure in una logica di diritti sociali insufficiente a capire le cause profonde della crisi dell’Ilva, Loris Campetti, Ilva connection. Inchiesta sulla ragnatela di corruzioni, omissioni, colpevoli negligenze, sui Riva e le istituzioni, Manni editore, Lecce, 2013.
- Non mi stancherò di dare merito a Costanzo Preve e a Gianfranco La Grassa di aver svelato la non intermodalità della classe operaia. Oggi, si può dire, a partire dallo spettro del comunismo che si aggira per l’Europa del Manifesto del partito comunista del 1847-1848 di Karl Marx e Friedrich Engels. << Per indicare la nostra tesi che la classe operaia, proletariato, partiti comunisti, non sono realmente in grado di costruire una società basata su un modo di produzione diverso da quello capitalistico, parliamo di “non-intermodalità della classe operaia, del proletariato, dei partiti comunisti” >> in Costanzo Preve, Gesù tra i dottori. Esperienza religiosa e pensiero filosofico nella costituzione del legame sociale capitalistico, editrice Petite Plaisance, Pistoia, 2019, pag. 104.
12.bis. Le imprese multinazionali hanno sempre dietro di sé le Nazioni. Senza il loro potere, che si esercita attraverso lo stato, le imprese multinazionali non avrebbero la forza di penetrare coi i loro investimenti le economie degli altri Paesi, di allargare i loro mercati, di allargare le aree di influenza, eccetera. Esse sono strumenti degli agenti strategici egemoni dei Paesi di appartenenza finalizzati all’accrescimento della propria potenza attraverso il conflitto strategico. A mò di esempio ricordo il ruolo delle multinazionali a servizio della politica imperiale USA nell’Iran degli anni ’50 durante la fase di consolidamento dell’egemonia statunitense nel Medio Oriente: esempio di politica pianificata centralmente altro che mercato e democrazia. Per questo si veda Peter Frankopan, Le vie della seta. Una nuova storia del mondo, Monadadori, Milano, 2017, pp.478-498.
- Emiliano Brancaccio e Salvatore Romeo, Piatto d’Acciaio, op. cit., pag.235; si veda anche Matteo Meneghello, ArcelorMittal, ecco cosa fa, e dove opera nel mondo, www.ilsole24ore.com, 8/11/2019; Giandomenico Serrao, Bilancio rosso per ArcelorMittal, che taglia la produzione in Europa, www.agi.it, 7/11/2019.
14.Mimmo Mazza, Taranto, un anno di Mittal: siderurgico in affanno, nuovi vertici taglia-personale, www.lagazzettadelmezzogiorno.it, 1/11/2019.
- Federico Pirro, L’Ilva non diventi un centro di servizi, intervista a cura di R. R., in La Gazzetta del mezzogiorno del 2/12/2019.
- Rita Querzè, ArcelorMittal investe 6 miliardi in India. L’addio all’ex Ilva più vicino, www.corriere.it, 16/11/2019; Federico Pirro, Una cordata italiana, un’orgogliosa risposta nazionale in La Gazzetta del Mezzogiorno, 6/12/2019.
- Federico Pirro, Anche la mano pubblica vorrà ottenere lo scudo penale in La Gazzetta del Mezzogiorno del 8/11/2019.
18.Sul piano B dell’Ilva e della via della decarbonizzazione si rinvia a Federico Pirro, La drammatica prospettiva di una fuga dall’acciaio in La Gazzetta del Mezzogiorno del 23/10/2019.
- Costanzo Preve, Gesù tra i dottori. Esperienza religiosa e pensiero filosofico nella costituzione del legame sociale capitalistico, op. cit., pag.65.
- Intendo i luoghi pubblici, i luoghi dell’interesse generale, i luoghi delle istituzioni ramificate territorialmente, i luoghi dello Stato, come luoghi dove non si espleta la politica dell’interesse generale del Paese ma luoghi dove i gruppi strategicamente egemonici (pre-dominati e sub-dominanti) realizzano i loro indirizzi strategici di dominio.
- Carlo M Cipolla, Allegro ma non troppo, il Mulino, Bologna, 1988.
- Non poteva mancare la voce di Romano Prodi su una fumosa perdita di fiducia dell’Italia da parte dell’Unione Europea; è veramente irritante sentirlo dire da un esecutore di ordini dei sub-dominanti europei e pre-dominanti Usa, da chi è stato il protagonista della svendita delle società alimentari, facenti capo principalmente alla finanziaria SME dell’IRI; si legga Romano Prodi, L’Italia e l’industria. Una scossa o nessun si fiderà più di noi, www.ilmessagero.it, 6/11/2019.
- Il problema non è di una mini Ilva o Maxi Ilva (Paolo Bricco, Ex Ilva, il piano pubblico costerà almeno un miliardo. E i dipendenti che fine faranno? www.ilsole24ore.com., 6/12/2019) o di una newco tra pubblico e privato (Federico Pirro, Una cordata italiana. Una orgogliosa risposta nazionale in La Gazzetta del Mezzogiorno del 6/12/2019), quanto piuttosto quello serio che non ci sono le condizioni soggettive (decisori sub-dominanti servili e incapaci di autodeterminazione interna ed esterna) e oggettive (la città di Taranto è importante per le strategie statunitensi nelle fasi multicentrica e policentrica) per rilanciare l’Ilva.
24.Gianfranco La Grassa, Il compito dei compiti, www.conflittiestrategie.it, 4/12/2019.
le prime crepe, di Giuseppe Germinario
Qui sotto in calce, il testo di un appello ostile al Trattato ESM e alle modifiche che dovranno essere apposte entro il prossimo marzo 2020. Lo hanno sottoscritto trentadue economisti, accademici di varie università italiane.
L’importanza dell’iniziativa non risiede nell’originalità degli argomenti. Sono gli stessi, benché formulati più organicamente, sostenuti da tempo da singoli intellettuali e da particolari ambiti politici, ben circoscritti ma sempre più rilevanti.
Nemmeno risiede nel fondamento etico degli stessi giacché la forza degli argomenti sul merito del trattato poggia ancora sul binomio giusto/sbagliato oppure razionale/irrazionale. Una convinzione che punta a confidare fideisticamente sulla possibilità, addirittura sulla ineluttabilità di un riconoscimento dell’errore e dell’irrazionalità delle condotte politiche, in particolare politico-economiche, perseguite dalla Unione Europea e dai paesi e dalle classi dirigenti che ne determinano gli indirizzi complessivi. Da qui l’illusione che l’azione politica debba piegarsi prima o poi alla razionalità delle leggi economiche e che i propugnatori nella fattispecie di questi particolari indirizzi, in particolare la Germania, debbano alla fine rinunciare ad essi sino a determinare, di loro volontà, l’implosione o la rottura di questi meccanismi. Coltivare una illusione del genere implica il disconoscimento non solo della forza delle dinamiche geopolitiche e delle inerzie che contraddistinguono l’azione dei sistemi imperiali e/o imperialistici, quale è quello a trazione statunitente, ma anche paradossalmente del ruolo destrutturante e positivo che possono avere forze politiche e classi dirigenti in formazione alternative in azione nel centro politico.
L’aspetto significativo e positivo riguarda invece il carattere organizzato e concordato dell’appello in un ambiente, quello accademico, sino ad ora quasi integralmente allineato, almeno ufficialmente, ai canoni e agli indirizzi politico-economici più ortodossi al credo europeista e alla classe dirigente e politica italiana. E’ il segno che la crisi di consenso inizia ad intaccare la stessa solidità e monoliticità di quel blocco di potere e istituzionale imperante da decenni che ha consentito, tra i capricci e le fibrillazioni dello scenario politico, una sostanziale continuità di azione. E’ l’indizio che questa classe dirigente è sempre meno capace di rappresentare gli stessi interessi forti residui del paese e di partire da essi per trattare la propria posizione e condizione, sia pure subordinata, almeno nel contesto dell’Unione Europea. I mercimoni che hanno portato a scambiare i decimali di deficit con la gestione dei flussi migratori e la spoliazione economica del paese sono solo gli esempi più appariscenti di una débacle ben più drammatica. La forza politica sempre più rilevante espressa dagli ambienti del terzo settore ed i malumori sempre più espliciti ormai manifestatisi tardivamente negli ambienti bancari ed industriali, specie sulla questione del MES e dell’Unione Bancaria e dell’ILVA, sono il segnale di questa dissociazione. Una classe dirigente e politica ormai arroccata e sempre più esposta ai capricci e ai voleri di forze esterne. Una condizione pericolosissima per un paese prostrato, incapace di esprimere alternative solide, ancora inconsapevole della condizione nella quale si sta cacciando in maniera pressoché irreversibile. Uno stato che rischia di esporlo alla suggestione di nuovi profeti altrettanto pericolosi quanto i vecchi sacerdoti arroccati sugli altari_Giuseppe Germinario
“No all’Esm se non cambia la logica europea”
Sergio Bruno (univ. Roma La Sapienza)
Sergio Cesaratto (univ. Siena)
Carlo Clericetti (giornalista)
Massimo D’Antoni (univ. Siena)
Antonio Di Majo (univ. Roma 3)
Giovanni Dosi (Scuola Superiore Sant’Anna)
Sebastiano Fadda (univ. Roma 3)
Maurizio Franzini (univ. Roma La Sapienza)
Andrea Fumagalli (univ. Pavia)
Mauro Gallegati (univ. Politecnica delle Marche)
PierGiorgio Gawronsky (economista)
Claudio Gnesutta (univ. Roma La Sapienza)
Riccardo Leoni (univ. Bergamo)
Stefano Lucarelli (univ Bergamo)
Ugo Marani (univ. Napoli l’Orientale)
Massimiliano Mazzanti (univ. Ferrara)
Domenico Mario Nuti (univ. Roma La Sapienza)
Ruggero Paladini (univ. Roma La Sapienza)
Gabriele Pastrello (univ. Trieste)
Anna Pettini (univ. Firenze)
Paolo Pini (univ. Ferrara)
Felice Roberto Pizzuti (univ. Roma La Sapienza)
Roberto Romano (economista)
Guido Rey (Scuola superiore Sant’Anna)
Roberto Schiattarella (univ. Camerino)
Alessandro Somma (univ. Roma La Sapienza)
Antonella Stirati (univ. Roma 3)
Leonello Tronti (univ. Roma 3)
Andrea Ventura (univ. Firenze)
Il regno dell’accusa, di Caroline B. Glick
In Israele dinamiche politiche sorprendentemente analoghe a quelle italiane_Giuseppe Germinario
In Israele giovedì mattina, i politici erano la grande narrazione. Il presidente di Israele Beitenu, Avigdor Lieberman, era il cattivo che aveva tenuto in ostaggio il paese per quasi un anno mentre nutriva il suo disturbo narcisistico della personalità.
L’ultimo fiore all’occhiello della sinistra, il Partito Blu e Bianco, è tutta la prospettiva politica un tempo vibrante che può mettere insieme ora che ha perso la sua ideologia. Con il suo Dio della pace ucciso da attentatori suicidi e missili e le sue statue di socialismo schiacciate dal peso delle società governative fallite, tutto ciò che resta della sinistra è Blu e Bianco. Il partito poggia su due assi: distruggere il primo ministro Benjamin Netanyahu ed eternizzare il regime dei burocrati non eletti di Israele.
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La polena del partito – Benny Gantz – era tentata di unirsi a un governo di unità con Netanyahu che le avrebbe garantito l’incarico di primo ministro in un accordo di avvicendamento. Ma i suoi compagni non glielo avrebbero permesso. Unirsi a un governo con Netanyahu sarebbe un tradimento della loro vera ragione di esistere. Quindi, purtroppo, se ne è andata.
E poi c’era Netanyahu stesso. Giovedì mattina, i suoi sostenitori hanno scosso la testa frustrati e i suoi nemici hanno battuto le mani in allegria alla vista del più grande statista israeliano, il leader che il pubblico vuole mantenere in carica, incapace di formare un governo.
La conversazione sui politici israeliani è durata meno di 24 ore.
Alle quattro del pomeriggio, l’ufficio del procuratore generale Avichai Mandelblit annunciò che alle 7:30 di sera avrebbe annunciato la sua decisione di incriminare Netanyahu. Il messaggio di fondo era cristallino: il giorno dopo Gantz restituì il suo mandato per formare un governo al presidente Reuven Rivlin dopo che non era riuscito a ottenere un numero sufficiente di partner della coalizione per costruire un governo; Mandelblit disse che non aveva senso parlare se Israele andrà alle nuove elezioni a marzo.
Gli elettori non decidono nulla. Lo fanno gli avvocati. I politici sono irrilevanti. Le uniche persone che contano in Israele oggi sono gli avvocati non eletti che gestiscono il paese.
Ma allora lo sapevamo già. E il fatto che – come previsto – Mandelblit abbia annunciato solennemente che stava accusando Netanyahu con tre accuse di violazione della fiducia e un’accusa di corruzione era nella migliore delle ipotesi destabilizzante. Il gioco era finito, se mai fosse stato giocato, a febbraio.
Lo scorso febbraio, al culmine della prima campagna elettorale dell’anno, quando Netanyahu e i suoi partner della coalizione di destra stavano conducendo in tutti i sondaggi con ampio margine, Mandelblit ha preso il passo senza precedenti – e legalmente dubbioso – di annunciare la sua intenzione di accusare Netanyahu di tali reati – in attesa di udienza preliminare. Nel momento in cui ha fatto il suo annuncio, la destra ha iniziato a scivolare nei sondaggi. Il leader aveva parlato. E non avevamo il diritto di interrogarlo. Il fulcro della campagna di Blue and White convergeva attorno alla “raccomandazione” di Mandelblit. La sinistra aveva un grido di battaglia e un motivo per votare. Il collo di Netanyahu era sul ceppo.
Da quando Mandelblit ha proferito le sue “raccomandazioni”, lui e i suoi compagni sono stati gli unici attori politici con qualsiasi facoltà di parola. I nostri attuali leader eletti sono diventati attori del regime degli avvocati. L’annuncio di Mandelblit giovedì lo ha appena reso ufficiale.
Con il plauso dei media corrotti di Israele, negli ultimi tre anni i nostri signori legali hanno eroso tutti gli aspetti del potere politico in Israele, e nel processo – non che a loro importasse – hanno corrotto il sistema legale di Israele da cima a fondo. Dall’inizio alla fine, la loro persecuzione criminale contro Netanyahu è stata una parodia di ogni norma nelle società democratiche governate dallo stato di diritto. Registrazioni e trascrizioni sapientemente curate e completamente distorte degli interrogatori ad opera della polizia di Netanyahu, sua moglie, suo figlio e i suoi consulenti sono state sistematicamente diffuse ai media. Il fatto che ogni simile falla fosse un’azione criminale non aveva importanza. Gli avvocati di Netanyahu hanno presentato richiesta dopo richiesta di Mandelblit per ordinare un’indagine sulle fughe criminali di informazioni. Tutte furono sommariamente e con disprezzo respinte.
Mentre le indagini proseguivano in crescendo, sotto la supervisione del procuratore Shai Nitzan, gli investigatori della polizia hanno coartato i consiglieri più stretti di Netanyahu per costringerli a diventare testimoni contro il primo ministro di maggior successo e ammirato che Israele abbia mai avuto. Gli investigatori hanno minacciato l’ex portavoce di Netanyahu Nir Hefetz che avrebbero distrutto la sua famiglia e lo avrebbero fatto fallire se non avesse accusato Netanyahu. Alla fine sono riusciti a romperlo dopo averlo incarcerato in una cella di prigione infestata da pulci per 15 notti, negandogli il sonno e le cure mediche e portando una giovane donna che conosceva in una stanza degli interrogatori accanto a lui e poi minacciando di distruggere la sua famiglia.
Nelle prime fasi delle indagini, l’allora ispettore generale della polizia Roni Elshech ha lanciato teorie cospirative demenziali, prive di fondamento e francamente pazze su Netanyahu, inclusa l’affermazione di aver assunto investigatori privati per seguire gli investigatori della polizia. Elshech ha quindi fatto di tutto per impedire al governo di nominare un suo successore mentre si avvicinava alla fine del suo mandato. Ancora oggi, più di un anno dopo, Israele non ha un ispettore generale di polizia.
Quindi, naturalmente, c’è Mandelblit stesso. Mandelblit, che afferma di non aver saputo dell’abuso dei testimoni, ha quindi rifiutato di indagare sulle accuse. E Mandelblit che ha promesso – dopo aver pubblicato le sue “raccomandazioni” per l’accusa al culmine della campagna elettorale – che si sarebbe avvicinato all’udienza pre-processuale di Netanyahu con una mente aperta. Quella promessa si è rivelata una falsità quando il procuratore capo Liat Ben Ari lasciò l’udienza due giorni prima per portare la sua famiglia in un safari in Sudafrica. Non vorrebbe che una piccola cosa come il destino legale del Primo Ministro le rovinasse la possibilità di vedere gli elefanti.
Lo stesso Mandelblit ha rifiutato di indagare su Ben Ari quando sono emerse le registrazioni il mese scorso che mostravano che aveva presentato una falsa deposizione a un tribunale in relazione a una causa intentata contro di lei da un ex avvocato subordinato.
Quindi, naturalmente, c’è la sostanza delle accuse stesse. L’accusa che Netanyahu abbia accettato una bustarella si basa sull’idea inventata che la copertura mediatica positiva di un politico è corruzione. L’idea che la copertura della stampa possa essere considerata corruzione non esiste da nessuna parte nel mondo democratico. Nessun pubblico ministero al mondo ha mai accusato – o indagato – un politico o un’organizzazione mediatica di aver commesso corruzione con la fornitura di una copertura positiva. Gli alti giuristi americani sono apparsi davanti a Mandelblit nell’udienza di accusa di Netanyahu (evidentemente poco seria) per avvertirlo che perseguire accuse di corruzione contro i politici per aver ricevuto una copertura positiva è una ricetta per distruggere la libertà di stampa e la democrazia stessa.
Ma poi, questo è il punto cruciale di tampinare Netanyahu con i crimini inventati. Ora che Netanyahu è stato accusato di corruzione – e per inciso, non ha mai nemmeno ricevuto una copertura positiva dall’organo mediatico concentrato su di lui – ogni politico che si schiera dalla parte cattiva degli avvocati suderà freddo ogni volta che un giornalista scrive qualcosa di carino su di lui .
Dopo che Mandelblit fece il suo annuncio in prima serata, Netanyahu si impegnò a lottare per la sua libertà e per il ripristino della democrazia israeliana e dello stato di diritto. Nel suo discorso di giovedì sera, ha lanciato un appello appassionato ai suoi “dignitosi” rivali politici per unirsi a lui in questa lotta.
Se alcuni politici dubitano che la lotta di Netanyahu sia la loro lotta, non dovrebbero guardare oltre l’annuncio della procura della scorsa settimana che stava aprendo una revisione, prima di un’indagine penale – del ruolo di Gantz nel cosiddetto “Affare di quinta dimensione”. La Quinta Dimensione era una start-up diretta da Gantz. La sua vendita per $ 14 milioni presumibilmente violò le procedure standard.
Forse Gantz non ha fatto nulla di male. Ma poi, Netanyahu viene accusato di crimini che in realtà non esistono. Quindi non importa. Il messaggio è chiaro Ogni politico è in balia dei pubblici ministeri. Esci dalla linea e diventerai un sospetto criminale prima di poter dire “abuso della giustizia”.
È certamente vero che la sinistra condivide l’odio dei procuratori nei confronti di Netanyahu. Blue and White esiste per distruggerlo. Ma tutti i politici di sinistra – e Liberman – che stanno celebrando oggi devono capire che il Netanyahu che amano odiare è il loro migliore amico e difensore oggi. Se Netanyahu viene dichiarato colpevole di crimini inventati allo scopo di distruggerlo, la loro oca verrà cucinata insieme alla sua.
I politici possono renderci felici o tristi, frustrati o infuriati. Ma oggi, nell’Israele post-democratica, non importa. La scorsa notte Netanyahu ha chiesto una “indagine sugli investigatori”. A meno che i nostri funzionari eletti non uniscano le forze per seguire la sua chiamata, loro – e gli elettori che li hanno eletti – non saranno mai più rilevanti.
PROSPETTIVE, di Andrea Zhok
PROSPETTIVE
Di fronte alla prospettiva di un possibile default italiano, indotto dal combinato disposto delle modifiche del MES, c’è chi si chiede se i paesi che guidano questa riforma (Germania e Francia) non siano consapevoli che un default italiano sarebbe una catastrofe che porterebbe con sé anche i sistemi bancari altrui.
Su questo punto però c’è un equivoco che bisogna sfatare. Si trova spesso come argomento consolatorio l’idea che l’Italia è ‘too big to fail’. E questo è tecnicamente vero. Nessuno infatti ha interesse a vedere un default incontrollato dell’Italia, che metterebbe in crisi con effetto domino tutti i sistemi finanziari connessi.
Però la minaccia di un default unilaterale e senza paracadute sarebbe una minaccia effettiva solo se gestita autonomamente dall’Italia in una trattativa, alle proprie condizioni (e, naturalmente, se a gestirla ci fossero persone tecnicamente e diplomaticamente assai capaci, il che rende al momento questa trattativa del tutto implausibile).
Non è questa la prospettiva, e la riforma del MES indica già proprio le condizioni che si prevedono come desiderabili a livello UE per un ‘default controllato’.
La prospettiva che viene presa in considerazione come scenario desiderabile è quella in cui si procede ad alcuni ‘haircut’ circoscritti sui titoli del debito pubblico, sottoponendo simultaneamente il paese a rigide condizionalità.
Queste condizionalità devono indurre il paese che vi è soggetto a privatizzare tutto il patrimonio pubblico che c’è ancora da privatizzare, e a svendere le parti più interessanti del patrimonio privato connesso alla produzione (banche innanzitutto).
Gruppi come Leonardo-Finmeccanica, e le maggiori banche italiane sarebbero i primi a cadere, seguiti dalla delega dello sfruttamento estensivo del patrimonio ambientale e culturale.
Nel caso qualche anima bella ritenga che questa prospettiva sia troppo maligna, che i ‘fratelli tedeschi e francesi’ mai sarebbero così inclementi, ricordo che questo è esattamente quanto è successo, su scala minore, con la Grecia. (Solo che lì hanno imparato strada facendo, mentre ora la riforma del MES vuole disporre tutto in modo regolamentato a monte.)
In Grecia non c’è stato alcun default incontrollato (che avrebbe effettivamente coinvolto istituti bancari francesi e tedeschi). Si è invece proceduto a uno ‘haircut’ controllato e dilazionato, con allungamento dei tempi di restituzione dei prestiti, ed erogazioni centellinate quanto bastava per consentire al paese di ‘mantenere i propri impegni’, cioè di continuare nelle interazioni economiche più proficue con l’estero.
Ma tutto ciò avveniva sotto rigorosissime condizionalità, che hanno ristretto il settore pubblico greco ai minimi termini, e che hanno costretto a privatizzare tutti gli asset maggiormente produttivi, come il sistema aeroportuale e il porto del Pireo, oggi gestiti da compagnie straniere.
Il simpatico effetto collaterale di questa strategia è che oggi anche quando il Pil greco nominalmente cresce (e sui nostri giornali ci spiegano che la Grecia è ‘uscita dal tunnel’), comunque la maggior parte dei ricavi sono immediatamente veicolati su banche estere, ai gestori, contribuendo in maniera irrisoria a un miglioramento delle condizioni di vita dei Greci.
Il modello che abbiamo di fronte non è dunque quello del ‘crollo’, ma quello del saccheggio legalizzato, alla fine del quale resta il simulacro di una nazione, con la sua bandieretta e l’inno, ma di fatto ridotta ad un protettorato economico privo di ogni margine di reale indipendenza.
YES, WE MES
Come notava un amico c’è chi dice che il MES dopo tutto non è che una specie di assicurazione.
Bene così, se si vuol giocare al gioco delle semplificazioni, facciamolo.
Il MES, come emergerebbe nelle formulazione recentemente emendata, sarebbe un po’ come un’assicurazione sulla casa.
Un’assicurazione un po’ speciale, però.
L’assicurazione MES è un’assicurazione assai costosa (14 miliardi già versati, 125 miliardi di possibile versamento futuro).
Beh, però ne varrà la pena, no?
Dunque, vediamo. Se un meteorite mi distrugge la casa, un’assicurazione qualunque mi ripagherà di norma almeno i costi di ricostruzione.
Non l’assicurazione MES, però.
Essa può decidere insindacabilmente se conferirmi il premio dell’assicurazione oppure no.
(La decisione ultima è stata tolta alla Commissione, in modo da non subire pressioni, ed è affidata direttamente ai funzionari del MES, le cui decisioni non devono rispondere a nessuno, neanche legalmente, e non sono messe a conoscenza all’esterno.)
Ma non basta.
Nel caso decidesse di conferirmi il premio, poi, la nostra munifica assicurazione marca MES ci richiede preventivamente e inderogabilmente di vendere la macchina, le scarpe e un rene.
(La precondizione per l’accesso all’aiuto è una ristrutturazione automatica del debito, cioè un default).
Arrivati a questo punto, sono all’addiaccio, a piedi, scalzo e con un catetere. Si potrebbe sperare che finalmente la mia assicurazione mi erogherà l’agognato premio?
Beh, non precisamente.
A questo punto essa – ma proprio perché siamo noi, eh! – ci concederà un magnifico PRESTITO, in piccole comode rate, per ricostruirmi un muro qua e uno là, che poi Dio vede e provvede.
Ma beninteso, un prestito a interessi convenientissimi!
Ecco, ora se qualcuno si sente attratto da una simile compagnia di assicurazioni, lo prego gentilmente di contattarmi in privato.
Avrei giusto da vendergli una splendida fontana storica in piazza di Trevi a Roma.
Un affarone, giuro.
tratto da facebook
PRÌNCIPI E PRINCÌPI, di Pierluigi Fagan
PRÌNCIPI E PRINCÌPI. Le società economiche hanno sede legale lì dove pagano le tasse, questo è il princìpio della loro soggettività giuridica. Così il prìncipe, in senso machiavelliano il “sovrano”, è colui che si fa pagare le tasse, cosa che assieme al monopolio di fatto e di diritto della forza (interna ed esterna), costituisce la base storica delle entità statali. Lo Stato in senso moderno, fu una invenzione progressiva che si affermò per prima in Francia, nel ‘500.
Così i francesi che sulla questione hanno le idee -in teoria- chiare, di recente, prima hanno cominciato a rivendicare il proprio diritto fiscale nei confronti delle compagnie americane del Mondo 2.0 (la dig-info sfera), poi a rumoreggiare intorno a fini e ragioni della NATO.
Così Trump, poco prima dell’inizio del vertice NATO a Londra, ha fatto sapere ai francesi ed a chiunque altro europeo volesse seguirli su queste idee balzane, che i princìpi sono prerogative dei prìncipi ovvero dei sovrani ed in mancanza di forza reale per competere sul punto, il sovrano dell’Occidente sono gli Stati Uniti d’America, quindi lui. “ Se voi suonerete le vostre trombe” dice Trump “noi suoneremo le nostre campane”. Lo scontro del 1494 era appunto su una questione di sovranità su pezzi d’Italia pretesa dal francese ed osteggiata dalla ritornata repubblica fiorentina. Le campane di Trump sono i dazi, fino al 100% di dazi ovvero l’estromissione dal più ricco mercato di acquirenti del mondo. Poi non sono solo i dazi però, come ben si sa ma si fa finta di non ricordare pensando che il sovrano lontano (USA) è meno incombente del sovrano vicino (UE).
Stante la presenza di fondo del problema dell’alleanza militare, il caso d’attualità è sulla “web tax” che i francesi vorrebbero elevare ai big five -Facebook, Amazon, Google, Apple, Netflix- i quali notoriamente non pagano le tasse nei paesi in cui pur operano. Non solo drenano ricchezza aspirando voracemente e riportando il bottino in USA, non solo la loro presenza commerciale monopolista (un solo venditore) e monopsonista (un solo acquirente) distrugge il mercato locale facendo chiudere imprese concorrenti -concorrenti nel Mondo 2.0 dig-info invero poche ma nel Mondo 1.0 del materiale (giornali, librerie, negozi vari, cinema, elettronica e molto altro) sempre di più- ma, seguendo a fondo il princìpio si potrebbe venir a creare la conseguenza che anche la responsabilità legale di queste imprese, verrà rivendicata di territorialità americana. Princìpio forse oggi di apparente non grave peso, ma che invece sempre più l’avrà all’espandersi egemonico del Mondo 2.0. Bioetica ad esempio?
A noi può sembrare che il Mondo 2.0 in cui si svolge questa guerra della sovranità, la prima guerra che è quella fondamentale perché stabilisce della sovranità il princìpio, sia solo una appendice poco rilevante della consistenza generale di un Paese ma già oggi non è propriamente così, ma soprattutto lo sarà sempre meno. Il Mondo 2.0 ha in animo di sostituire una buona parte del Mondo 1.0.
Non abbiamo qui spazio per fare una pur veloce overview dell’economia digitale all’oggi, ma soprattutto nell’immediato domani. Se vi fidate, sappiate che il disegno è quello di portare una grande parte del Mondo come lo conosciamo, nel Mondo 2.0 creato a partire dagli anni ’60 dagli Stati Uniti d’America a partire dalle idee del loro think tank militare RAND Corporation e del braccio operativo della Defense Advanced Research Projects Agency- DARPA del Dipartimento alla Difesa di Washington e da loro dominato con giganti deregolamentati che sono ormai di dimensione e potenza inarrivabile per chiunque volesse sfidarli. Naturalmente tutta questa storia è stata impacchettata con carta sbrilluccicosa di soft power ovvero scienziati che volevano il bene del mondo, giovani scamiciati imprenditori geniali nati in un garage, geek un po’ autistici in missione per conto della Fratellanza Universale. Ma si sa, “dare un pacco” è l’arte di far sembrare fuori una cosa che dentro è poi diversa, vedi Treccani alla voce: cavallo di Troia. “Temo i Greci anche quando portano doni” ammoniva il virgiliano Laocoonte, ma i laocoonti alla fine non contano niente, i donatori di pacchi sanno di psicologia molto più di Freud.
Il Progetto Mondo 2.0 ha piani ambiziosi. Non si tratta solo di informazione e comunicazione che già di per sé sarebbe già una bella potenza (naturalmente invisibile per chi sta ancora alle ferriere, il proletariato, l’acciaio e l’altoforno), ma anche di sanità e biologia, finanza, valute, distribuzione commerciale al servizio privilegiato di produzioni di paesi amici, funzioni amministrative d’impresa, telecomunicazioni, piazze e mercati, standard giuridici del lavoro, redditi, sviluppo ricerca e tecnologia, trasporti e logistica, reti, cultura popolare e non, sistema educativo, fisco e molto altro. Infine il nuovo “oro del Klondike”, i dati su tutto di tutti. L’insieme secondo logica cibernetica ovvero scienza del controllo tramite comunicazione. Ciò che Platone chiamava “kybernetikès techne” ovvero arte del governo (Alcibiade I, Repubblica). Potere alla sua essenza.
Così, non mi rimane che ricordarvi il contestato ed antipatico solito ammonimento. I volenterosi che oggi si pongono giustamente il delicato e complicato problema della sovranità ai tempi del secondo millennio, dovrebbero considerare che il controllo (la sovrantà) è nullo senza la potenza. Vale per la Grande Sorella di Bruxelles e vale per il Grande Fratello di Washington che assieme a zio Xi e cugino Putin saranno l’Addams Family dei prossimi, complicati, decenni. Auguri a tutti noi!
[L’articolo di riferimento alla notizia dell’ammonimento di Trump: https://www.repubblica.it/…/dazi_trump_minaccia_italia_fr…/…
tratto da facebook
Il calvario di Roger Stone; il tramonto della democrazia americana, di Gianfranco Campa
IL MARTIRIO DI ROGER STONE
All’annuncio della condanna di Roger Stone, Meghan McCain, la figlia del defunto guerrafondaio John Mccain, ha dichiarato “Marcisci all’inferno, Roger Stone.” Ana Navarro una commentatrice “repubblicana” della CNN ha rincarato la dose: “Marcisci in prigione e poi all’inferno.” Questi sono solo due esempi di centinaia di tweet e commenti che hanno invaso la sfera mediatica dopo la condanna di Roger Stone. Potrei riempire decine di pagine di queste reazioni volgari e demenziali, esibite da esponenti di entrambe le correnti politiche dominanti; questo solo per rendere l’idea dell’odio riversato su qualsiasi persona o entità che abbia collaborato, nel caso di Roger Stone addirittura creato, la figura politica di Donald Trump. Questo atteggiamento nei riguardi di Roger Stone è il riflesso diretto dell’odio che un numero notevole di persone prova per tutto ciò che viene identificato con Donald Trump; in aggiunta Roger Stone paga il dazio di anni di schermaglie con i poteri forti di Washington.
Il sacrificio di Roger Stone è stato concepito e celebrato sull’altare dello stato ombra e di tutte quelle forze malefiche che hanno sferrato negli ultimi quattro anni attacchi incessanti, violenti, quasi ossessivi contro chi ha sfidato lo “status quo” del potere di Washington. Ne sono rimasti travolti figure come appunto Roger Stone, Paul Manafort, Michael Flynn e molti altri. In particolare Stone è stato colui che forse ha pagato il prezzo più alto.
I problemi per Roger Stone sono iniziati quando ha cominciato ad essere bandito da ogni piattaforma mediatica, censurando la sua libertà di espressione, negandogli la possibilità di spiegare la propria versione dei fatti di fronte all’opinione pubblica americana. I problemi sono continuati dopo essere stato intercettato dall’FBI, indagato dal procuratore speciale Robert Muller ed arrestato nella sua casa in Florida. Ventinove agenti FBI, armati fino ai denti, fecero irruzione all’alba nella casa di Stone per arrestare un 67enne che non ha mai commesso nessun reato, neanche una multa per un parcheggio e quindi con una fedina penale, fin a quel momento, immacolata. Se vogliamo fare un paragone, neanche per trasportare El Chapo si erano visti dispiegati così tanti agenti federali.
I problemi di Roger Stone si sono aggravati quando il giudice preposto ha ingiunto al suo di team di avvocati e allo stesso Roger Stone “un gag order” cioè un bavaglio mediatico; in altre parole non potevano parlare o discutere del caso giudiziario, pubblicamente, con nessuno. Un provvedimento giudiziario con qualche precedente, ma nel suo caso portato alla massima esponenza, visto che, sia prima che dopo il processo, l’ingiunzione al silenzio non è stata ancora revocata. Una persecuzione giudiziaria feroce senza precedenti quella contro Stone, riservata solo ai mostri criminali più pericolosi. Una persecuzione giudiziaria trasformata in una caccia alle streghe, sfociata in un processo e una condanna a cui fra poco (a Febbraio) seguirà una sentenza.
Roger Stone è stato riconosciuto colpevole di tutte le accuse formulate contro di lui; sette capi di accusa tra le quali ostruzione della giustizia, manipolazione di testimoni e ultimo, ma non meno importante, l’accusa di aver mentito al Congresso. Il quasi settantenne Stone per queste condanne rischia fino a cinquant’anni anni di carcere, l’equivalente di un ergastolo per un uomo della sua età; una sentenza di morte in una prigione federale.
Il più fedele alleato del presidente Donald Trump, colui che non l’ho ha mai tradito, che lo ha sempre sostenuto anche quando, nei momenti più difficili della presidenza, altri personaggi hanno, per mancanza di coraggio o per interessi personali, ripudiato pubblicamente e privatamente il presidente. Roger Stone invece ha sempre difeso il Presidente. Solo in rare occasioni, come fu con l’attacco missilistico ordinato da Trump contro la Siria, Stone si permise di criticare Trump, non accusandolo, ma semplicemente facendo una critica costruttiva alla sua decisione bellicosa, esortando il presidente ad essere più cauto nel dare ascolto agli elementi oltranzisti dello stato ombra che pullano numerosi nella sua amministrazione.
Veniamo al processo svoltosi contro Roger Stone.
Alcuni aspetti interessati da tenere in considerazione:
Primo Il processo si è svolto in una corte del distretto della Colombia, cioè quel pezzo di terra meglio conosciuto come Washington DC. Praticamente Roger Stone è stato giudicato proprio nel ventre della bestia, dello stato ombra, dei poteri amministrativi e dell’establishment politico della capitale americana. Vi ricordo che Hillary Clinton, a Washington, alle presidenziali del 2016, aveva ricevuto il 91% dei voti a favore, mentre solo il 4% era stato appannaggio di Donald Trump; praticamente l’intera Washington è una fogna burocratico-politica. Il processo in una corte di Washington comporta quindi una giuria composta interamente da elettori o simpatizzanti democratici. Un fattore che ha reso la difesa di Roger Stone improba, a prescindere dalla consistenza delle prove presentate.
Secondo Il giudice che ha presieduto il processo si chiama Amy Berman Jackson, un giudice nominato da Obama. La giudice Jackson è recidiva. Jackson era già venuta alla ribalta nazionale quando, nel 2017, aveva archiviato la causa civile contro Hillary Clinton presentata da due delle famiglie che avevano perso i propri cari nell’attacco all’ambasciata americana di Bengasi, in Libia. Le famiglie sostenevano, a ragione, che Hillary Clinton non aveva fatto niente per aiutare i loro familiari durante l’attacco all’ambasciata e poi aveva anche mentito per nascondere le proprie pesanti responsabilità. .
I procuratori del Russiagate hanno cercato volutamente di far sì che il processo contro Roger Stone si svolgesse presso la corte del giudice Jackson, ben sapendo che la cosiddetta giudice non era certo un modello di imparzialità; nasconde negli armadi una agenda pro-stato ombra, pro-partito democratico. Il giudice Jackson tra l’altro presiede anche il processo contro Paul Manofort. Il caso Manofort è stato trasferito l’anno scorso nel distretto del giudice ammazza trumpiani sotto richiesta del Dipartimento di Giustizia. Si profila quindi per Manofort lo stesso destino di Roger Stone.
Durante il processo a Roger Stone la giuria ha avuto modo di ascoltare una delle accuse principali; la tesi quindi secondo la quale Stone avrebbe cercato di nascondere il suo tentativo, nel 2016, di collaborare con WikiLeaks e con il fondatore Julian Assange per ottenere informazioni sull’allora candidato Hillary Clinton.
Questa peculiare tesi di collaborazione, tra Wikileaks e Roger Stone, collaborazione che Wikileaks e Julian Assange negano, sarebbe per qualcuno la motivazione maggiore del martirio di Stone. Infatti secondo alcune tesi complottistiche, Stone sarebbe odiato dallo stato ombra non solo per essere stato uno dei costruttori, uno degli architetti del fenomeno Trump, ma soprattutto per la sua decennale avversità e ostruzione allo stato ombra, tra cui appunto la collaborazione con una entità, Wikileaks, che è stata e continua ad essere una spina nel fianco dei poteri oscuri di Washington.
Lo scontro Roger Stone-Stato Ombra risale a tempi immemorabili, all’epoca dell’amministrazione Nixon, quando un giovane Stone partecipò alla campagna presidenziale 1972 di Richard Nixon. Prima di Nixon, Stone si era offerto come volontario per la campagna di Barry Goldwater del 1964. Fu con Goldwater prima e Nixon dopo che Stone comprese velocemente le modalità dei giochi che manovrano le stanze del potere di Washington. Soprattutto nel caso delle dimissioni di Nixon per lo scandalo Watergate, Stone all’epoca individuò i meccanismi di Washington rendendosi conto di chi realmente tesseva la rete del potere negli Stati Uniti.
Apriamo un piccolo capitolo su Richard Nixon. Stone ha sempre sostenuto che la corruzione di Nixon era seconda solo alla stato ombra, ma nonostante ciò, lo scandalo Watergate era stata solo il pretesto, non la reale ragione del suo siluramento. Per Roger Stone, Nixon fu costretto a dimettersi sotto la minaccia di un impeachment (suona familiare?) per essersi opposto allo stato ombra e alla CIA, dopo averla venerata e usata. Il prezzo pagato da Nixon e` stato alto per aver intrapreso attività anti stato ombra come per esempio la distensione con l’Unione Sovietica. “Durante i giorni bui e difficili di Watergate, mentre la frenesia consumava i media e gran parte dell’attenzione pubblica negli Stati Uniti, al presidente Nixon furono inviati messaggi di sostegno da Leonid Brezhnev. Breznev disse al suo ex nemico che sapeva che sarebbe rimasto forte e che non avrebbe ‘ceduto sotto la pressione’. Anatoly Dobrynin, ambasciatore sovietico negli Stati Uniti per oltre venti anni e figura di spicco nelle relazioni USA-Unione Sovietica, ha ricordato che Richard Nixon lo ha ringraziato per il fatto che lui, unico tra i leader di altre nazioni, inclusi gli alleati, aveva trovato semplici parole di conforto per risollevargli il morale” https://www.nixonfoundation.org/2010/07/nixon-and-brezhnev-personal-partners-in-detente/
Secondo Roger Stone, quando Nixon fu eletto al suo secondo mandato come presidente nel 1972, ottenne un grado di indipendenza che lo rese pericoloso per lo stato ombra. Verso la fine del suo primo mandato, Nixon iniziò a progettare l’eliminazione dell’intera leadership della CIA. Sfortunatamente, Nixon non si rese conto che la CIA si era infiltrata nel circolo più ristretto della sua amministrazione e riempiva il suo staff di spie. Lo stato ombra era ben consapevole dei piani di Nixon. Non sono teorie della cospirazione, di complottisti, bensi verità ben suffragate da testimonianze e registrazioni audio. Nixon e i suoi collaboratori erano pronti, dopo l’elezione al secondo mandato, ad assumere il controllo completo di un governo federale che ritenevano ostile al presidente e alla sua agenda. “Di fronte a una burocrazia che non controlliamo, non avevamo personale fedele a noi e con il quale non sapevamo come comunicare, abbiamo creato la nostra burocrazia“, scrissero alla Casa Bianca in un promemoria del 1972 trovato nei documenti di HR Haldeman , che in seguito andò in prigione per aver nascosto i crimini di Watergate.
Nixon diede ai suoi aiutanti istruzioni dettagliate, dopo aver vinto le elezioni, su come sbarazzarsi dei burocrati ostili al suo governo. Nixon dettò ai suoi collaboratori le istruzioni per una “pulizia interna” alla CIA. “Voglio uno studio fatto immediatamente su quante persone nella CIA potrebbero essere rimosse tramite ordine presidenziale. . . . Naturalmente, la riduzione dovrebbe essere giustificata esclusivamente per il fatto che è necessaria per motivi di bilancio, ma entrambi conoscete il vero motivo. . . . Voglio che si abbandoni il reclutamento da una delle qualsiasi scuole Ivy League o di altre università in cui il presidente dell’università o le facoltà universitarie hanno condannato i nostri sforzi per porre fine alla guerra in Vietnam.” (Richard Nixon). Su questo capitolo Nixon-stato ombra ci sarebbe da scrivere fiumi di inchiostro, ma non abbiamo il tempo a disposizione e francamente neanche la voglia di intraprendere questo lavoro.
Roger Stone si è scontrato con gli apparati del potere di Washington in altre occasioni, per esempio con il suo lavoro investigativo svolto sull’assassinio di JFK che Stone attribuisce ad un complotto CIA-LBJ (Lyndon B.Johnson.)
Stone ha scritto molti libri sulle fasi più oscure e controverse della moderna storia americana, libri di denuncia contro lo stato ombra, i poteri forti di Washington :
-The Man Who Killed Kennedy: The Case Against LBJ
-Nixon’s Secrets: The Rise, Fall and Untold Truth about the President, Watergate, and the Pardon
-Jeb! and the Bush Crime Family
-The Myth of Russian Collusion: The Inside Story of How Donald Trump REALLY Won
Stone è stato anche il principale personaggio, la forza che ha convinto Trump a pubblicare i fascicoli sulla morte di JFK, anche se poi altre forze, opposte, presenti all’interno della amministrazione, convinsero Trump a rendere pubblici i fascicoli con molte omissioni, perpetuando così il silenzio che ormai vige da quasi 60 anni sulle reali ragioni della morte del presidente Kennedy. Il 26 aprile 2017 l’Archivio Nazionale pubblicò 19.045 documenti inerenti all’assassinio di JFK. Tuttavia, ripeto, alcuni documenti non furono divulgati.
Per anni Roger Stone è riuscito a sfuggire all’attenzione dello stato ombra facendo la parte dell’istrione. Per molti anni i mass media e i poteri di Washington hanno posto poca attenzione a quel ”giullare di Stone” e Stone è stato piu che felice di interpretare quella parte. Alla fine però il ruolo centrale di Stone nella costruzione del fenomeno Trump ha rimosso il velo che lo aveva fino ad ora protetto Per lo stato ombra non era più possibile ignorare il ruolo e il livello di influenza che Stone si era ritagliato nel circolo di Trump. Un conto sono i libri e le idee complottiste che la maggior parte degli americani ignorano, un altro è la raggiunta capacità di essere determinante nell’insediare un presidente alla casa Bianca e persuaderlo a pubblicare gli archivi segreti su JFK, un pericolo mortale per lo stato ombra che non può più permettersi di ignorare. Ci sono molte entità che considerano Roger Stone ancora come un pagliaccio; ma se così fosse le componenti dei poteri forti di Washigton non avrebbero scantenato una offensiva giudiziaria di tale violenza da rendere il potere di Stone inefficace.
Cosa rimarrà dopo la sentenza contro Roger Stone? E una domanda che molti degli amici e familiari di Stone si fanno. E’ inconcepibile per loro veder morire Roger Stone in galera. Due sono le vie da seguire: la prima, un ricorso giudiziario che verrà presentato al più presto dai suoi avvocati. La seconda, la speranza di un perdono presidenziale da parte di Trump. Quell’ultima non è solo l’opzione più sicura per salvare Stone ma è anche la più pericolosa per tutti i personaggi coinvolti. La pressione su Trump per graziare Roger Stone è ora enorme. Molti dei sostenitori di Trump chiedono a voce alta il perdono di Stone; ma perdonare Stone in questo momento per Trump significherebbe spostare tutta l’attenzione dello stato ombra sul presidente, rinnovando e dando nuovo impeto a quel moto di odio intenso che certe forze sovversive esprimono nei confronti del fenomeno Trumpiano. Un perdono di Stone ora come ora inasprirebbe una guerra fra stato ombra e Trump già così dura, feroce, mortale; una stalingrado politica “scherzando amaramente disse di aver catturato la cucina ma lottiamo ancora per il soggiorno e la camera da letto”
Se fossi in Trump aspetterei i risultati elettorali del 2020. Se Trump dovesse vincere, potrà permettersi il perdono di Stone, in caso contrario perdonare Stone equivarrebbe a correre un rischio enorme. Una volta decaduto, Trump potrebbe essere messo sotto inchiesta dal prossimo dipartimento di giustizia in mano a un presidente democratico.
Concludo con una aggiornamento sul fronte della guerra Trump-stato ombra. Fra cinque giorni il rapporto dell’ispettore generale Michael Horowitz sarà presentato al senato americano. La indagine riguarda gli abusi commessi dall’FBI nel servirsi della corte FISA per ottenere mandati di sorveglianza per spiare la campagna di Trump, in particolare l’azione su Carter Page. Si tratta quindi di stabilire se vi sia stato un abuso del processo FISA. Il rapporto di Horowitz non è giuridicamente vincolante, cioè Horowitz non può portare capi di imputazione ma può solo raccomandarli al dipartimento di giustizia. A differenza di molti sostenitori di Trump che sperano in un ribaltamento dei fronti, io sono personalmente pessimista. Il rapporto di Horowitz non conterrà nessuna condanna degli attori chiave del complotto di spionaggio contro Trump e i suoi collaboratori, cioè il cosiddetto spygate. Se condanna sarà; saranno solo piccoli pesci ha pagare il prezzo dei crimini commessi da ben altri personaggi posizionati più in alto.
L’unica speranza per Tump rimangono le indagini tuttora in corso del procuratore speciale John Durham, incaricato dal procuratore generale Bill Barr di far chiarezza sull’origine del Russiagate. Se il procuratore Durham non individuerà i colpevoli di questa farsa, lo stato ombra potrà continuare impunemente e senza più ostacoli la sua guerra di demolizione della presidenza Trump. Non ci resta che sperare nell’onestà di Bill Barr e di John Durham. Nel frattempo sono passati tre anni dall’inizio di questa guerra e mentre molti collaboratori amici di Trump rischiano la galera a vita i rappresentanti dello stato ombra, colpevoli di crimini ben più gravi, sono tuttora liberi di esprimere le loro opinioni sui canali televisivi americani. In base a questo è chiaro che la querra tra Trump e lo stato ombra è impari e fino ad ora è stata giocata da Trump in posizione di difesa. Si spera che le cose cambino per Trump nelle prossime settimane, ma il tempo a disposizione per ribaltare la situazione sta scadendo. Novembre 2020 è dietro l’angolo.
DALLA MANO ALLA MENTE INVISIBILE, di Pierluigi Fagan
DALLA MANO ALLA MENTE INVISIBILE. Negli anni ’60, al centro del sistema moderno o capitalistico occidentale e cioè negli Stati Uniti d’America, si mostra un preoccupante e poco noto effetto. La spinta alla crescita mostruosa oltre il 5% annuo per diversi anni di fila, che stava distinguendo la crescita post bellica un po’ in tutto il mondo e che in Europa meritò i concetti di Miracolo economico, Les Trente Glorieuses, Wirtschaftswunder, negli Stati Uniti cominciava a flettere pronunciatamente.
L’abitudine all’analisi qualitativa che produce narrazioni e contro-narrazioni, qualche volta si perde il quantitativo con risultato che, se da una parte si pensa si capire bene le cose, cioè la loro narrazione, dall’altra non si capisce mai perché certe cose avvengono ed in che misura. Quello che avveniva era che gli Stati Uniti, avendo per primi iniziato a crescere poderosamente negli anni ’50, stavano perdendo la spinta, non occasionalmente, strutturalmente. Spinta invece che continuava a sostenere il Resto del Mondo (Europa del’Ovest, dell’Est e dell’Asia, Giappone più di tutti, ma anche altrove). Il Nixon shock del 1971, per chi scrive, proviene da questo.
In quel decennio succedono molte cose interessanti. Sono gli anni in cui si sviluppa la tecnica produttivo-commerciale che poi si chiamerà marketing. Come molte cose del moderno, ahinoi, i primi passi della tecnica ragionata della manipolazione del mercato, sono fatti da un italiano che sviluppa i primi passi delle “ricerche di mercato”. P. Kotler conierà poi il termine e diventerà il fondatore e più illustre rappresentante teorico di questa tecnica. Sono gli anni del consumismo poi ragionati e raccontati criticamente da autori di cui spesso inconsapevolmente continuiamo a ripetere le intuizioni, tipo Adorno, Horkheimer, Marcuse, Fromm, ancora dopo cinquanta e passa anni.
Della tecnica fa parte la strategia “push and pull”. Se “push” è un insieme di tecniche per spingere i prodotti verso gli acquirenti ed intermediari, “pull” è l’insieme di tecniche utilizzate per attirarli. Tra queste tecniche c’è la conoscenza da parte delle aziende del proprio gruppo d’acquisto ideale detto target, termine mutuato come gran parte del vocabolario dei marketer, da quello militare (Marketing è guerra, Al Ries, JackTrout, testo anni ’80 McGraw-Hill). Se la mano invisibile mostrava pigrizia, c’era da dargli una mano visibile che spingesse concretamente, un aiutino insomma.
Negli anni ’60 in USA, si sviluppa una tecnica di analisi dei target che non è più quella tradizionale statistica su variabili socio-demografiche classiche (sesso, età, reddito), ma su variabili comportamentali. Si scopre cioè che i comportamenti d’acquisto originano dalla psiche che è certo correlata al sesso, età e reddito ma non così precisamente come si potrebbe pensare. Si scopre cioè che la “piramide dei bisogni” teorizzata negli anni ’50 dalla psicologo americano A. Maslow, ha sede e profonda origine in una psiche che ha proprie regole decorrelate in parte da quelle oggettive della condizione sociale. In accordo ai principi guida della psicologia americana a quel tempo dominante che è il behaviorismo (il comportamentismo), si decide di ignorare l’analisi del cosa succede davvero in quella psiche. Si sigilla il sistema e lo si definisce “scatola nera” ovvero sistema di causa che però non si analizza dentro, solo fuori. Se la psiche origina il comportamento, si osserverà direttamente il comportamento e per tentativi ed errori come negli esperimenti coi topi o cani del russo Pavlov, si cercherà di capire a quali imput corrispondono certi output (stimolo-risposta-rinforzo). Se si comprendono questi meccanismi si potrà condizionare il comportamento. Il corrispettivo nelle ricerche di mercato che anticipano ogni strategia di marketing, diventerà un nuovo tipo di analisi che si chiamerà “psicografica”. Siamo sempre negli anni’60.
Mentre i teorici dell’economia ovvero gli economisti ripetono il mantra dell’homo oeconomicus che è un calcolatore razionale delle sue utilità a presupposto della loro scolastica matematizzata, i pratici dell’economia cinquanta anni fa, si occupavano invece di psiche e comportamento reale. Il mondo dei bisogni su cui si basa mercato ed economia, per gran parte non è razionale. Un economista teorico si sveglierà cinquanta anni dopo e ci scriverà su un libro che gli varrà nel 2017 quel premio della Banca di Svezia che gli economisti chiamano Nobel (tale R.Thaler). Da quella svolta degli anni ’60, conseguirono marketing, pubblicità, società dei consumi, dei segni, innovazione, rivoluzioni economiche, tecnologie, neuromarketing e molto altro tra cui tutto il nostro Mondo 2.0 ovvero quello on line.
Come spesso racconto, io ho per venticinque anni fatto parte di quel mondo e non a livelli secondari. Quando ho cambiato vita e sono diventato uno studioso, balzellando tra meccanica quantistica e filosofia hardcore, quando ho cominciato a studiare i sacri testi degli economisti, per molti di loro sopratutto del Novecento (a parte Keynes) a lungo ho fatto fatica a capire di cosa stessero parlando per questo motivo. La rappresentazione del mercato come universo liscio con traiettorie perfettamente razionali che disegnano curve e linee geometriche posso dire sia una del tutto infondata astrazione non per piglio critico intellettuale, ma proprio perché so di certo che nulla ha a che fare con il fenomeno che si vorrebbe descrivere. Le narrazioni non corrispondono mai precisamente alle cose ma molte non hanno proprio nulla a che fare assolvono altri compiti.
La svolta psichica del capitalismo origina da più di cinquanta anni fa e le conseguenze giungono oggi a Cambridge Analytica, il totalitarismo dei Big Data, i Facebook-Amazon-Google-Apple-Netflix (FAGAN), la colonizzazione dell’immaginario, il “Capitalismo di sorveglianza” (Zuboff), “L’Internet ci rende stupidi” (N. Carr), la psicopolitica (P. Sloterdijk – Byung-chul Han), l’utilizzo di queste tecniche (nel frattempo, nel mondo della psicologia teorica americana il behaviorismo si è trasformato in un 2.0 detto “cognitivismo” ed è proceduto parallelo allo sviluppo delle scienze neuro-cognitive che oggi sfociano nel grande sviluppo dei programmi di ricerca detti A.I. Artificial Intelligence) non più o non solo per il dominio produttivo-commerciale ma ora anche direttamente sociale e politico.
Il discorso sarebbe lungo e complesso ma qui lo spazio c’impone la chiusura. Chiudiamo quindi osservando due cose:
1) La svolta psichica del capitalismo origina dal momento in cui l’economia americana non funzionava più in modo diciamo “naturale” o “semi-spontaneo”, occorreva collegare la stanca mano invisibile ad una vivace mente invisibile stimolata la quale sarebbero conseguiti comportamenti, prima economici, quindi sociali, infine politici. Da allora, è per lo più “economia del criceto”.
2) L’area critica del moderno e del capitalismo, origina da un pensatore di metà XIX secolo che ha detto molte cose giuste ed interessanti ma coloro che ancora usano quelle strumentazione analitica come integrale tendono a considerare le relazioni tra “struttura e sovrastruttura” in modo uni-diretto, del tutto simile al mainstream liberale che domina la disciplina economica (del resto sono in unità di tempo -metà XIX secolo- e luogo -Londra-) e che non ha alcuna attinenza con quello che è il nostro mondo moderno che intanto chiamiamo post-moderno già da diversi decenni. Ne consegue lo spiazzo di ogni teoria politica alternativa poiché i presupposti antropologico-sociali sono parziali se non infondati. Per costoro immagine di mondo, cultura, psiche e comportamento, valori, motivazione all’azione, sono conseguenze di presupposti ficcati da qualche parte in una scatola nera mossa solo dalla condizione sociale. Toccherebbe invece aprirla quella scatola e provare ad illuminarla se si vuole dare una bacchettata a chi ci sta da tempo mettendo le mani dentro. Oppure scriviamo l’ennesimo saggio corrucciato sul neoliberismo impazzito ed attrezziamoci per un lungo inverno di servitù volontaria.