Il rapporto Draghi interrompe la silenziosa “cena di famiglia” dell’UE, di Olga Butorina

Il rapporto Draghi interrompe la silenziosa “cena di famiglia” dell’UE

Qui sotto un interessante articolo, pubblicato dal Club Valdai russo, sul recente rapporto di Mario Draghi alla Commissione Europea. Rappresenta una fedele fotografia di quanto rappresentato dall’autore. Utile, ma dal punto di vista dello scrivente, però, sin troppo letterale, forse epifenomenica. Il segno probabile che nei circoli intellettuali russi non si sia ancora del tutto consumata l’illusione sulla reale natura e ragione di esistenza della Unione Europea e sulla funzione reale di protagonisti del calibro di Mario Draghi. Il protagonista viene presentato come un “libero pensatore” per il fatto di non avere incarichi effettivi e di aver raggiunto un età che lo libera da stretti vincoli politici, ma che conserva, comunque, una grande autorevolezza che rischia, nel peggiore dei casi, di farlo scivolare nel ruolo di “Cassandra”, rispettato, ma inascoltato. Penso, al contrario, che la stesura di quel rapporto sottenda finalità recondite, molto più sofisticate, pur condizionate da incongruenze ed incoerenze legate in parte alla formazione tecnocratica dell’estensore, in parte allo stridore con la realtà che le politiche comunitarie, specie quelle ecologiche-ambientali, dell’innovazione e sanitarie, hanno determinato. Non paiono mere fughe in avanti di un uomo ormai estraneo alle quisquilie dei giochi politici correnti, proclami inascoltati o momenti di reale e drammatica rottura, quanto, al contrario, orientamenti di massima all’interno dei quali proseguire la classica tattica funzionalista inaugurata da Jean Monnet e proseguita coerentemente da tutti i suoi epigoni.

  • E così l’incongruenza denunciata da Mario Draghi sulle politiche di decarbonizzazione, consistenti nella eccessiva tassazione, si rivela in realtà essere una consapevole omissione del fatto che tassazione ed oneri impropri, riscontrabili nelle bollette e nei prezzi al consumo riguarda, in vario grado, tutti i prodotti energetici e non solo quelli utili alla conversione ecologica. Se è vero che le politiche di conversione più spinte potrebbero, non potranno, nel giro di diversi decenni coprire nel migliore dei casi il 25% dei consumi energetici si comprenderà che, più che essere una panacea verso l’indipendenza, si risolverebbero in un solo parziale contributo al risanamento ambientale e alla energetica dei paesi europei. L’estensore, per la verità, sottolinea due aspetti che pregiudicano la fattibilità e la positività del piano di conversione: il ritardo tecnologico e l’assenza di una matura base industriale europea, la frammentazione e il groviglio burocratico che asfissia la rete energetica europea da una parte; l’assenza di autonomia ed indipendenza energetica dall’altra. Nel primo caso, la conclusione coerente rispetto alle premesse dovrebbe portare ad un rinvio e ad una riconsiderazione espliciti delle politiche e dei tempi di conversione, di fatto parziale, energetiche oltre ad una definizione precisa delle modalità di creazione delle piattaforme industriali; nel secondo il nostro dovrebbe chiarire l’impossibilità di una totale autonomia, se non relativa, anche nel caso di buona parte dell’energia ecologica e chiarire, quindi, il significato di indipendenza, riferito ad indipendenza dalla Russia, non assoluta. Si tratterebbe in realtà di una politica di diversificazione, in realtà di fatto in buona parte pregiudicata dallo stesso ostracismo verso la Russia e dalla imprevedibilità ed insicurezza dei due nuovi corridoi energetici alternativi in costruzione dal Mediterraneo Orientale e dall’Africa Nord-Occidentale che attraversano paesi instabili politicamente, se non addirittura schierati sempre più nel campo dichiarato avversario dal nostro. Paradossalmente, se c’è un paese del campo occidentale che sta tentando un recupero di capacità egemonica in queste due aree, sia militarmente che attraverso le società di fondi di investimento, sono gli Stati Uniti, non certo i paesi europei. Lo stesso ricorso al mercato-spot e alle forniture surrettizie, per vie traverse, di provenienza russa creano il percorso obbligato delle pratiche speculative del quale lamenta Draghi senza possibilità di soluzione.
  • Quanto ad un altro cavallo di battaglia esibito nel documento, l’innovazione tecnologica e la ricerca scientifica, Draghi si prodiga nell’assumere la veste del paladino della sovranità europea. All’atto pratico, però, viene fuori il carattere dualistico ed ambiguo della sua proposta. Da una parte propugna una politica altamente selettiva, in tecnologie di secondo livello e relativamente più mature (batterie elettriche, eolico e fotovoltaico), rivolta in particolare alla Cina, glissando, escludendo quindi a priori una sua partecipazione nella diffusione delle tecnologie più strategiche legate alle comunicazioni e alla elaborazione e trasmissione dei dati; dall’altra, dando per scontato ed irreversibile il ritardo europeo su queste ultime, accettando l’apertura alle tecnologie statunitensi; andando, quindi, al di là delle chiacchiere dei recenti piani europei di recupero dei ritardi.
  • Un capitolo a parte merita l’argomento, caldamente sostenuto, della creazione di un complesso militare-industriale europeo di supporto ad un sistema europeo di difesa. Un nobile proposito che glissa su due aspetti strutturali fondamentali del settore e su di un aspetto politico-strategico sostenuto e dato per scontato dal nostro: la presenza massiccia e determinante dei fondi di investimento statunitensi, mai messa in discussione nel documento, nell’economia generale e nei complessi militari-industriali europei; l’integrazione di gran parte delle aziende europee della difesa nei sistemi industriali statunitensi; la prosecuzione scontata delle politiche russofobe subite e perpetrate dalla UE e da gran parte dei paesi europei.

Mario Draghi, a corredo di queste proposte che meriterebbero ulteriori riflessioni legate ad un esame approfondito dei suoi dieci piani settore e dei cinque piani di intervento orizzontali, si presenta come paladino di un percorso accelerato verso una Europa Federale ed una struttura comunitaria “decisionista”. Sa benissimo, però, che è improponibile nell’attuale contesto e che la realtà porta al contrario verso un collasso delle istituzioni europee, specie in caso di affermazione di Trump alle prossime presidenziali; il suo obbiettivo reale è quello di arrivare a gestire, nella maniera più gestibile e meno dolorosa possibile, la dinamica di predazione e ridimensionamento delle economie europee, nonché di nuova divisione del lavoro e delle catene produttive a guida statunitense. La retorica e l’afflato europeista ignora volutamente il carattere fondamentalmente nazionale dei sistemi di relazione e dei rapporti interni alla UE e delle sue istituzioni e non fa che propugnare, alla fine, quei “rapporti di cooperazione rafforzata” che puntano ad assecondare sempre più la fedeltà atlantica, poggiandosi di volta in volta alle variabili degli assi franco-tedesco, anglosassone e dell’Europa Orientale di volta in volta in conflitto e/o cooperazione tra di essi. Se, quindi, il rapporto contribuirà ad “interrompere la silenziosa cena di famiglia della UE”, lo farà per serrare ancora di più il recinto dell’ovile nel quale sono racchiuse le pecorelle europee. La nemesi che affligge spesso i propositi politici più ambiziosi e surrettizi potrebbe, però, rivelare finalmente che il lupo, piuttosto che oltre cortina, si nasconde sotto le sembianze del buon pastore di quell’ovile; che una reale emancipazione dei paesi europei, almeno di parti importanti di essi, debba passare da un recupero prioritario delle relazioni con la Russia, su basi più paritarie con la Cina, da iniziative autonome rispettose verso i paesi della “maggioranza globale” e da una ridefinizione drastica delle relazioni con gli Stati Uniti. In questo senso, quel rapporto, se discusso seriamente, potrebbe svolgere una funzione positiva ed aprire spazi e margini di azione interna agli attuali schieramenti. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Il 9 settembre 2024, l’ex presidente della Banca Centrale Europea (BCE) ed ex primo ministro italiano Mario Draghi ha presentato alla Commissione Europea (CE) un rapporto di 400 pagine sul futuro della competitività europea.1 Il documento è composto da due parti: La parte A contiene una panoramica critica dell’economia dell’UE e della sua posizione globale, mentre la parte B offre un’analisi approfondita delle questioni settoriali e intersettoriali, fornendo obiettivi e proposte per ciascuna di esse.

La crescita economica è stata una priorità assoluta per l’UE fin dalla sua nascita. Le cose sono cambiate, tuttavia, alla fine del 2019, quando si è insediata la nuova Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen, che ha spostato l’attenzione sul Green Deal europeo (ossia il raggiungimento della neutralità climatica entro il 2050), sulla trasformazione digitale e sulla costruzione di un’economia che funzioni per le persone.2

La quota dell’UE nel PIL mondiale si è ridotta costantemente negli ultimi tempi, passando dal 21,8% nel 2010 al 17,5% nel 2023. Nel frattempo, la quota degli Stati Uniti è salita dal 22,5 al 26,0% e quella della Cina è passata dal 9,2 al 17,0%. Nel 2021, per la prima volta, la Cina ha superato l’UE in termini di PIL nominale, chiudendo l’anno con 17.800 miliardi di dollari contro i 17.300 miliardi dell’UE.3

Silenzio verde

Nel 2023, il PIL reale dell’area dell’euro è cresciuto di appena lo 0,4% e si prevede che aumenterà dello 0,8% nel 2024.4 La crescita dinamica è stata una priorità fondamentale per l’UE fin dai primi anni ’70, quando il crollo del sistema di Bretton Woods e gli shock petroliferi hanno provocato un’impennata dell’inflazione e della disoccupazione in tutta Europa. All’inizio degli anni ’80, la Comunità Economica Europea (predecessore dell’UE) ha adottato una serie di misure radicali per rendere l’industria europea più competitiva e ridurre il divario tecnologico tra l’Europa, da un lato, e gli Stati Uniti e il Giappone, dall’altro. Una crescita dinamica era l’unico modo in cui l’Europa poteva risolvere il suo più grande problema sociale: la disoccupazione.

I due principali sforzi dell’UE degli ultimi decenni – il mercato unico europeo e l’Unione economica e monetaria – hanno entrambi dato priorità alla crescita economica. Il piano per la creazione di un mercato interno unico, annunciato nel 1985, mirava a sfruttare il potenziale di integrazione garantendo la libera circolazione di merci, persone, servizi e capitali. Secondo il Rapporto Cecchini del 1988, questi sforzi avrebbero aggiunto circa il 5% al prodotto interno lordo della Comunità, aprendo migliori opportunità per la crescita, la creazione di posti di lavoro, le economie di scala e il miglioramento della produttività.5 Questo ampio programma è stato in gran parte completato entro il 1992.6

Il successivo passaggio all’Unione Economica e Monetaria e la transizione alla moneta unica all’inizio del 1999 avevano l’obiettivo di facilitare l’integrazione dei mercati finanziari, intensificare la concorrenza e migliorare l’allocazione delle risorse. Si prevedeva l’emergere di nuovi incentivi per la promozione della produttività e degli investimenti. Presumibilmente, tutto ciò, insieme alla stabilità dei prezzi a lungo termine (mantenuta dalla Banca Centrale Europea) e a una moneta riconosciuta a livello internazionale, costituiva un ambiente favorevole per la crescita e l’occupazione a lungo termine.7

In seguito l’UE ha adottato tre strategie di crescita a lungo termine: la Strategia di Lisbona del 2000, la sua versione aggiornata del 2005 e la Strategia Europa 2020 proposta dalla Commissione europea nel marzo 2010. Tuttavia, come sottolinea Draghi nel suo rapporto, “sono passate varie strategie per aumentare i tassi di crescita, ma la tendenza è rimasta invariata”.8

Dopo il 2020, l’UE ha abbandonato i programmi a lungo termine. Gli indirizzi di massima per le politiche economiche a medio termine sono stati abbandonati senza alcuna spiegazione, nonostante il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea preveda che il Consiglio formuli indirizzi di massima per le politiche economiche degli Stati membri (art. 5, p.1). Sembrava che Bruxelles si stesse spostando dal classico concetto di crescita verso le moderne idee di post-crescita, enfatizzando le dimensioni ambientali, strutturali e sociali.9

Questo può essere illustrato dai fatti. La relazione generale sulle attività dell’Unione europea nel 2019 si è aperta, come di consueto, con un ampio capitolo sulle politiche economiche.10 La relazione sul 2020, invece, era incentrata sulla risposta COVID-19 (naturalmente) e su una sezione di 25 pagine sulla neutralità climatica, con una grande foto di giovani che inscenano una protesta ambientale.11 Seguiva una sezione sulla protezione delle persone e delle libertà, e solo dopo veniva la sezione economica, di sole sette pagine, foto comprese. I rapporti pubblicati dal 2021 al 2023 non si soffermano affatto sulla crescita economica. La crescita è stata menzionata solo occasionalmente come uno dei sottoprodotti attesi da varie iniziative legislative proposte dalla Commissione europea, dalle norme sul mercato del lavoro alle pratiche di tassazione delle imprese.12

Gli osservatori esterni hanno dovuto concludere che Bruxelles ha completamente abbandonato l’idea di avere una politica economica comune (che era uno dei due pilastri dell’Unione economica e monetaria). Oppure ha delegato questo lavoro ai tecnocrati, concentrandosi invece sul dipingere un bel quadro che potesse piacere all’opinione pubblica e ai suoi elettori. È emblematico che ultimamente i documenti chiave dell’UE siano sempre più arricchiti da illustrazioni appariscenti, il che rende molto più difficile navigare al loro interno e coglierne il significato.

Dichiarando il Green Deal, la Commissione europea ha adottato un’agenda nuova e accattivante, non macchiata dai fallimenti del passato. L’atmosfera delle “cene di famiglia” è migliorata, perché i partecipanti non dovevano più preoccuparsi di tutti quei brutti deficit, distorsioni e sproporzioni.

La missione di Draghi

Forse nessun economista dell’UE gode della stessa fama internazionale di Mario Draghi. Ha iniziato il suo mandato di presidente della BCE il 1° novembre 2011, quando la crisi dell’eurozona stava raggiungendo il suo apice. All’inizio del 2012, il rendimento dei titoli di Stato portoghesi a 10 anni è salito al 13% e quello dei titoli greci ha sfiorato il 30%. La politica monetaria non ortodossa di Draghi ha salvato il settore bancario dell’UE da un potenziale collasso.

Parlando alla Global Investment Conference di Londra il 26 luglio 2012, Draghi ha pronunciato il famoso giuramento: “Nell’ambito del nostro mandato, la BCE è pronta a fare tutto il necessario per preservare l’euro. E credetemi, sarà sufficiente”.13 I mercati gli credettero e gli spread iniziarono a ridursi. Non tutti i capi della BCE possono affermare che le loro parole abbiano un tale impatto.

Ecco perché il rapporto sulla competitività presentato da Draghi merita tutta la nostra attenzione. Sfata il mito che l’agenda verde renda irrilevante la crescita. Parlando con il suo solito candore, Draghi afferma in un paragrafo a parte: “Il bisogno di crescita dell’Europa sta aumentando”. Spiega che oggi l’UE si trova ad affrontare una maggiore concorrenza sui mercati globali, che ha perso la Russia come suo principale fornitore di energia e che è debole nelle tecnologie emergenti, in parte perché ha perso ampiamente la rivoluzione digitale. Inoltre, la situazione demografica appare desolante: entro il 2040, si prevede che la forza lavoro dell’UE si ridurrà di 2 milioni di unità all’anno.

Draghi e i suoi coautori sono ben consapevoli, ovviamente, del galateo di Bruxelles, quindi “guarniscono” le loro raccomandazioni in linea con le ultime tendenze e le servono con il giusto “condimento”. Nella prefazione sottolineano che saranno necessari grandi investimenti per digitalizzare e decarbonizzare l’economia e aumentare la capacità di difesa. I numeri specifici, tuttavia, vengono citati solo verso la fine della Parte A. L’UE avrà bisogno di almeno 750-800 miliardi di euro all’anno di investimenti aggiuntivi, pari al 4,4-4,7% del PIL dell’UE nel 2023. Ciò richiederebbe che la quota di investimenti dell’UE passi dall’attuale 22% del PIL a circa il 27%, ossia di cinque punti percentuali, “invertendo un declino pluridecennale nella maggior parte delle grandi economie dell’UE”. In altre parole, la digitalizzazione e la decarbonizzazione sono solo un “topping” alla moda.

Il rapporto delinea tre aree su cui l’UE dovrebbe concentrarsi per riaccendere la crescita sostenibile.

Il primo – e più importante – obiettivo è quello di colmare il divario di innovazione con gli Stati Uniti e la Cina, soprattutto nelle tecnologie avanzate. Attualmente, gran parte degli investimenti per la ricerca e l’innovazione nell’UE sono concentrati nei settori tradizionali, in particolare quello automobilistico. All’inizio degli anni 2000 la situazione era la stessa negli Stati Uniti, ma ora è cambiata. Di fronte alle normative restrittive dell’UE, le start-up europee di successo si rivolgono ai venture capitalist statunitensi per ottenere fondi e si trasferiscono negli Stati Uniti man mano che crescono. Nell’era del rapido sviluppo dell’intelligenza artificiale, l’Unione europea non può permettersi di rimanere bloccata alle tecnologie del secolo precedente.

Il secondo obiettivo è far coincidere gli obiettivi climatici dell’UE con un piano chiaro e coerente. Senza un piano di questo tipo, secondo il rapporto, invece di essere un’opportunità per l’Europa, la decarbonizzazione potrebbe essere contraria alla competitività e alla crescita. Un’affermazione incredibilmente schietta! Ciò significa, tradotto in parole povere, che l’UE ha intrapreso la sua transizione gemellare senza un piano chiaro, senza valutare correttamente tutti i costi e i benefici. E oggi, a distanza di cinque anni, non ha ancora un piano d’azione completo.

Draghi sottolinea che le imprese dell’UE devono far fronte a prezzi dell’elettricità due o tre volte superiori a quelli degli Stati Uniti e a prezzi del gas naturale quattro o cinque volte superiori. La ragione di questo divario di prezzo non si limita alla mancanza di risorse naturali in Europa; ci sono anche “problemi fondamentali” con il mercato comune dell’energia dell’UE, vale a dire tasse elevate e rendite catturate dai commercianti finanziari.

Il terzo obiettivo è aumentare la sicurezza e ridurre le dipendenze. L’economia dell’UE dipende da una manciata di fornitori di materie prime essenziali, tra cui la Cina. Inoltre, dipende in larga misura dalle importazioni di tecnologia digitale. Ciò significa che l’UE ha bisogno di una vera e propria “politica economica estera”. Questa sezione è piuttosto breve e riprende in gran parte i punti chiave della Strategia europea di sicurezza economica adottata nell’estate del 2023.14 Le nuove aggiunte riguardano l’industria della difesa e il settore spaziale.

Strumenti e prospettive di attuazione

Il rapporto indica chiaramente le potenziali conseguenze dell’inazione. Senza una crescita dinamica, l’Unione Europea dovrà ridimensionare almeno alcune delle sue ambizioni. Non sarà in grado di diventare leader nelle nuove tecnologie e nella responsabilità climatica, di essere un attore indipendente sulla scena mondiale e di finanziare il suo modello sociale tutto in una volta. Ma se l’UE non sarà più in grado di offrire ai suoi cittadini le opportunità e i diritti di cui hanno diritto, “avrà perso la sua ragione d’essere”.

Mentre la Parte A spiega cosa è necessario fare, la Parte B spiega in dettaglio come farlo. Vengono fornite analisi approfondite per dieci settori specifici e cinque questioni orizzontali e intersettoriali. I settori prioritari includono l’energia, le materie prime critiche, la digitalizzazione e le tecnologie avanzate, le reti a banda larga ad alta velocità/capacità, l’informatica e l’IA, i semiconduttori, le industrie ad alta intensità energetica, le tecnologie pulite, l’industria automobilistica, la difesa, lo spazio, la farmaceutica e i trasporti. Le cinque politiche orizzontali sono: accelerare l’innovazione, colmare il divario di competenze, sostenere gli investimenti, rinnovare la concorrenza e rafforzare la governance.

L’ultimo punto riguarda chiaramente le istituzioni dell’UE. L’eccessivo carico normativo e amministrativo rende più difficile fare impresa e incide sulla competitività dell’UE. Per rimediare alla situazione, il rapporto raccomanda sia strumenti tradizionali (un esercizio più vigoroso del principio di sussidiarietà e della procedura di cooperazione rafforzata) sia alcuni nuovi strumenti. Gli autori raccomandano di semplificare le regole, di sviluppare un nuovo quadro di coordinamento della competitività, di estendere o generalizzare il voto a maggioranza qualificata in Consiglio e di snellire l’acquis dell’UE in modo sistematico.

Quali sono le prospettive di attuazione di queste raccomandazioni?

Mario Draghi ha compiuto 77 anni pochi giorni prima di presentare il suo rapporto. Ha avuto una carriera così stellare che ora può permettersi di dire ciò che pensa veramente. Non ha nulla da perdere. Ha una buona conoscenza dell’economia e una profonda comprensione dell’integrazione. Già nel 1970, prima di laurearsi con lode alla Sapienza di Roma, scrisse una tesi su “Integrazione economica e variazione dei tassi di cambio”. Draghi ha conseguito il dottorato di ricerca presso il Dipartimento di Economia del MIT, con la supervisione dei futuri premi Nobel Franco Modigliani e Robert Solow.

In seguito, Draghi ha conosciuto Tommаso Padoa-Schioppa, un economista italiano che è stato il principale sostenitore dell’Unione economica e monetaria, e hanno lavorato insieme, rappresentando l’Italia nei negoziati dell’UEM.

Draghi sa come funziona la “trinità impossibile” 15 e cosa potrebbe accadere se l’UE continuasse a trascurare la questione della crescita, essenziale per il normale funzionamento dell’UEM e, nello specifico, della sua governance economica.

Ma la competenza e il candore di Draghi si scontrano con una forza di natura diversa. A giudicare dal suo primo mandato, sembra che la Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen abbia scelto di non affrontare tutti i problemi economici ereditati. L’agenda verde fornisce all’UE il fascino di un nuovo marchio, moderno e conveniente, che sottolinea la posizione di leadership dell’UE nel mondo e il suo potere normativo. La relazione di Draghi è in dissonanza con questa bella immagine. Pertanto, alcuni cercheranno sicuramente di sminuirne l’importanza. Questa è la natura umana e non bisogna sottovalutarla.

L’attuazione del programma dovrà affrontare una serie di ostacoli pratici. Il primo e più ovvio è che non è chiaro da dove verranno questi 750-800 miliardi di euro all’anno. Gli Stati membri che sono contribuenti netti al bilancio dell’UE sono riluttanti ad assumersi ulteriori impegni finanziari, soprattutto ora che i livelli di debito pubblico sono elevati. I tentativi di aumentare il bilancio dell’UE sono spesso sfociati in aspre dispute tra gli Stati membri, e ottenere progressi significativi in questo campo sarebbe un miracolo. Altrettanto problematico sarà garantire un importo così consistente dai bilanci nazionali, dai fondi internazionali o da fonti private.

Il secondo ostacolo è meno evidente. Ha a che fare con il “marchio di fabbrica” dell’integrazione europea, nato dal compromesso politico tra Germania e Francia. La Germania ebbe l’opportunità di rivitalizzare la propria industria, ma il prezzo imposto dalla Francia fu molto alto. La CEE adottò la protezionistica Politica Agricola Comune. Ancora oggi, la PAC contiene meccanismi che chiaramente non sono in accordo con il libero mercato e consuma una quota sproporzionata del bilancio dell’UE, fino al 30%. Avere una politica agricola comune è un fattore chiave che mantiene la Francia interessata all’integrazione europea. Il fatto che il rapporto Draghi non tocchi affatto il tema dell’agricoltura può essere un’indicazione della gravità del problema. Tuttavia, quando l’UE inizierà a ridistribuire il suo bilancio comune per promuovere l’innovazione, la questione dei sussidi all’agricoltura verrà inevitabilmente sollevata prima o poi.

Il terzo ostacolo potrebbe essere rappresentato dalle lobby verdi, che difficilmente vedranno di buon occhio l’emergere di una nuova priorità. Con una minore importanza attribuita all’agenda climatica, dovrebbero ridurre le risorse finanziarie, umane, politiche e amministrative. All’interno della burocrazia dell’UE ci sono molti funzionari che hanno lavorato al Green Deal negli ultimi cinque anni e il loro benessere e le loro prospettive di carriera sono strettamente legate a questa politica.

Infine, il quarto ostacolo è la rigidità dei meccanismi di governance. Le istituzioni europee sono, da un lato, molto prolifiche (a giudicare dal numero di atti legislativi che producono e dalla velocità con cui li emanano), ma, dall’altro, sono difficili da riformare. La proposta di Draghi di estendere o generalizzare il voto a maggioranza qualificata riguarderà un gruppo ristretto ma estremamente controverso di questioni economiche. Attualmente, il Consiglio delibera all’unanimità quando adotta decisioni relative all’armonizzazione dell’imposizione indiretta (che può avere ripercussioni sul commercio elettronico), agli aspetti fiscali della politica energetica dell’UE e al sistema delle risorse proprie dell’Unione, ossia il bilancio comune.

Sembra che il piano possa avere successo? Sì, è così. Negli ultimi cinque anni, mentre la Commissione europea si occupava dell’agenda verde, a Bruxelles sono cambiate molte cose. Le vecchie dispute tra gli Stati membri su vari aspetti della politica economica sono state dimenticate; molti dei funzionari che erano coinvolti in quelle dispute sono scomparsi. I dibattiti sulle violazioni delle regole di bilancio si sono placati. I ricordi della crisi della zona euro si sono affievoliti e le nazioni non puntano più il dito l’una contro l’altra, discutendo di chi sia la colpa, chi sia stato colpito più duramente e chi abbia salvato chi. La Direzione generale degli Affari economici e finanziari della Commissione europea, che per decenni ha plasmato la politica economica europea e ne ha curato l’attuazione insieme all’ECOFIN, è passata in secondo piano.

Sarebbe il momento giusto per riorganizzare gli elementi frammentati del sistema di governance economica dell’UE e configurarli in modo più adatto alle attuali esigenze dell’Unione e al nuovo paradigma globale. Se ciò accadesse, significherebbe che la politica di minimizzazione delle questioni economiche che abbiamo osservato negli ultimi anni è stata un atto di distruzione creativa con ramificazioni di vasta portata e magistralmente nascoste. In questo scenario, la Commissione europea si salverà la faccia di fronte all’opinione pubblica, compresi gli attivisti ambientali. Potranno sempre dire che questa disperata ricerca della crescita non è stata una loro idea; lo fanno solo perché la crescita è necessaria per preservare il modello sociale dell’UE, che è in pericolo a causa dell’aumento della concorrenza da parte dei due rivali globali dell’Europa, uno a Est e uno a Ovest.

Conclusione

Il rapporto Draghi, pubblicato ora, all’inizio di un nuovo ciclo politico, pone la Commissione europea di fronte a un difficile dilemma. Deve concentrarsi sulla crescita e sul rendere più competitivi i produttori dell’UE (attraverso massicci investimenti) ora? O dovrebbe conservare le riforme per il futuro? Quest’ultima ipotesi significherebbe rinunciare alla crescita e perdere la posizione globale dell’Europa insieme al Green Deal e al modello sociale europeo. L’attuazione delle raccomandazioni contenute nel rapporto richiederebbe il superamento di una serie di ostacoli: la mancanza di fonti evidenti per gli investimenti, la limitatezza del bilancio dell’UE, in gran parte riservato ad altre esigenze, l’opposizione della lobby verde che ha acquisito un notevole peso negli ultimi anni e la rigidità delle procedure decisionali.

Ciononostante, c’è la possibilità che l’Unione europea si imbarchi in un’opera di rinnovamento della sua politica economica, perché gli anni trascorsi a perseguire la doppia transizione (decarbonizzazione e trasformazione digitale) hanno portato nuovi volti negli organi di governo e le aspre dispute sulle questioni economiche sono in gran parte dimenticate. Entro un anno sapremo meglio se questo scenario è verosimile: se l’UE creerà gli organi di governo raccomandati nel rapporto, sarà un’indicazione che il piano ha ricevuto il via libera.

 

1 Il futuro della competitività europea. https://commission.europa.eu/topics/strengthening-european- competitiveness/eu-competitiveness-looking-ahead_en#paragraph_47059 (visitato il 12 settembre 2024).

2 Commissione europea, Direzione generale della Comunicazione, Leyen, Ursula von der, A Union that strives for more – My agenda for Europe – Political guidelines for the next European Commission 2019-2024, Publications Office, 2019, https://data.europa.eu/doi/10.2775/018127 (visitato il 10 settembre 2024).

3 UNCTADStat: Prodotto interno lordo totale e pro capite, annuale. https://unctadstat.unctad.org/datacentre/dataviewer/US.GDPTotal (visitato il 12 settembre 2024). Nel 2023, a causa del rallentamento dell’economia cinese, la sua economia si è ridotta a 17,8 trilioni di dollari, retrocedendo rispetto all’UE con i suoi 18,4 trilioni di dollari.

4      Commissione europea. Relazione sulle finanze pubbliche nell’UEM 2023. Documento istituzionale 295, settembre 2024. https://economy-finance.ec.europa.eu/document/download/0aaf8190-b9fe-46b2- 9dac912b98bef0da_en?filename=ip295_en_0.pdf (accesso 13 settembre 2024).

5      Commissione delle Comunità europee (1988), Europa 1992: la sfida globale, SEC (88) 524 def.

Bruxelles, 13 aprile. http://aei.pitt.edu/3813/1/3813.pdf (visitato il 12 settembre 2024).

6      Kondratyeva, Natalia (2020), European Model of Market Integration: Formazione e prospettive. RAS, Mosca (in russo).

 

7      Commissione europea (1995). Libro verde sulle modalità pratiche di introduzione della moneta unica, 31 maggio. COM/95/333 def.

8      Il futuro della competitività europea, parte A, pag. 1.

9     Tsibulina, Anna (2024). Nuove priorità di crescita della politica economica dell’Unione europea, Saint Petersburg University Journal of Economic Studies, vol. 40 (2), pp. 175-190 (in russo). doi.org/10.21638/spbu05.2024.202.

10 L’UE nel 2019. Relazione generale sulle attività dell’Unione europea. https://op.europa.eu/en/publication- detail/-/publication/66c4ad7e-6281-11ea-b735-01aa75ed71a1/language-en (visitato il 12 settembre 2024).

11 L’UE nel 2020. Relazione generale sulle attività dell’Unione europea. https://op.europa.eu/en/publication- detail/-/publication/f59f7b32-8084-11eb-9ac9-01aa75ed71a1/language-en (visitato il 12 settembre 2024).

12 Si veda, ad esempio, The  EU  in  2023.  General  report  on  the  activities  of the European  Union. https://op.europa.eu/webpub/com/general-report-2023/pdf/the-eu-in-2023.pdf (visitato il 12 settembre 2024).

13 Draghi, Mario (2012). “Testo integrale delle osservazioni di Mario Draghi. Discorso di Mario Draghi, Presidente della Banca Centrale Europea, alla Global Investment Conference”, Londra, 26 luglio. https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2012/html/sp120726.en.html (visitato il 12 settembre 2024).

14 Comunicazione congiunta della Commissione europea al Parlamento europeo, al Consiglio europeo e al Consiglio sulla “Strategia europea di sicurezza economica”, Bruxelles, 20.06.2003. JOIN (2023) 20 definitivo. https://eur- lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/PDF/?uri=CELEX:52023JC0020 (visitato il 12 settembre 2024).

15 La trinità impossibile è un concetto che afferma l’impossibilità per uno Stato di perseguire contemporaneamente tre politiche macroeconomiche: (1) sovranità monetaria; (2) libero flusso di capitali; (3) tasso di cambio fisso. I meccanismi di mercato permettono di perseguire due di queste politiche contemporaneamente, ma non tutte e tre.

Olga Butorina

Dr. of Science (Economics), Corresponding Members of the Russian Academy of Sciences, Professor, Deputy Director for scientific work, RAS Institute of Europe, RIAC Member

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La maggioranza mondiale e i suoi interessi, di Timofei Bordachev Denis Degterev, Victor Jeifets, Yevgeny Kanaev, Vasily Kashin, Alexander Korolev, Alexei Kupriyanov, Mayya Nikolskaya, Dmitry Rozental, Ivan Safranchuk, Nikolai Surkov, Dmitry Suslov

…. non vi è altra logica che l’utile … l’ostilità o l’amicizia devono risultare caso per caso dalle circostanze …” Eufemo (ateniese) ai Camarinesi – La guerra del Peloponneso/Tucidide

Il Valdai Club è passato dall’essere la voce che racconta la Russia al mondo, al rivestire un ruolo riconosciuto e consolidato di formatore dell’agenda globale. Il suo recente rapporto “The World’s Majority and its interests” introduce concetti fondamentali, direi scientifici, in relazione al gruppo di Paesi revisionisti; in sostanza quelli che contestano l’attuale ordine internazionale ad egemonia USA, non hanno aderito alle sanzioni USA contro la Federazione Russa e si sono rifiutati di interrompere le relazioni economiche con essa. Lo proponiamo come una lettura importante per capire il dibattito che sul tema si tiene in Russia e per ricavarne elementi di riflessioni utili anche per chi in occidente si batte per l’accelerazione della fase multipolare e per una crescente autonomia nazionale. Approfondire la conoscenza degli interessi delle nazioni amiche, privilegiare il livello bilaterale rispetto a quello multilaterale, evitare retoriche che promuovano ruoli da “seguaci”, promuovere la competizione fra le idee oltre che economica e militare, sono utili indicazioni pratiche per qualsiasi decisore/élite che agisca in questa fase storica, a partire da una visione del mondo assolutamente realista dove non ci sono alleati-per-sempre ma interessi-per-sempre.
Buona lettura.
Piergiorgio Rosso
Il Club Valdai russo inietta una salutare dose di realismo a chi soffre, nell’ormai significativa area simpatizzante e di sostegno al movimento dei BRICS, di una visione irenica di quella realtà che ne impedisce di valutare l’effettiva potenzialità dirompente, le peculiarità rispetto al carattere più strutturato delle alleanze politico-militari a guida statunitense e i corrispondenti limiti. Un documento da leggere con attenzione.
Giuseppe Germinario

 

La maggioranza mondiale e i suoi interessi,

di Timofei Bordachev Denis Degterev, Victor Jeifets, Yevgeny Kanaev, Vasily Kashin, Alexander Korolev, Alexei Kupriyanov, Mayya Nikolskaya, Dmitry Rozental, Ivan Safranchuk, Nikolai Surkov, Dmitry Suslov

Le opinioni e i pareri espressi in questo rapporto sono quelli degli autori e non rappresentano il punto di vista del Valdai Discussion Club, a meno che non sia esplicitamente indicato il contrario.

Contenuti

3 Introduzione

4 Alla ricerca di una definizione

9 La maggioranza mondiale e l’ordine internazionale

13 La maggioranza mondiale e il conflitto Russia-Occidente

22 La maggioranzamondiale e il vecchio ordine mondiale

25 I confini della maggioranza mondiale

27 I contorni della politica russa

Introduzione

L’emergere, nel 2022, di un ampio gruppo di Paesi, che nel discorso di politica estera russa viene definito “Maggioranza Mondiale”, è stato un evento molto significativo nella vita internazionale moderna. I Paesi della Maggioranza Mondiale hanno rifiutato di far parte delle sanzioni economiche e di altro tipo imposte a Mosca dall’Occidente e hanno mantenuto invariate, o addirittura ampliato, le relazioni commerciali e di investimento con la Russia. Questo concetto comprende un gruppo variegato di Paesi di tutti i continenti (tranne l’Australia) di dimensioni diverse, che non fanno parte delle stesse associazioni politiche e spesso sono in conflitto tra l o r o . Questo gruppo non è emerso esclusivamente in r e l a z i o n e alla Russia, ma è piuttosto un prodotto dell’evoluzione del sistema internazionale. Tuttavia, il conflitto Russia-Occidente ne ha catalizzato la comparsa come concetto formale. Le motivazioni alla base del comportamento dei Paesi della Maggioranza Mondiale possono essere spiegate solo in parte dalla logica dei precedenti studi di politica internazionale. In altre parole, la scienza delle relazioni internazionali non dispone di strumenti convincenti per condurre un’analisi delle motivazioni che spingono un gruppo così eterogeneo di Paesi, che finora abbiamo considerato come un tutt’uno solo in teoria. Tuttavia, la Maggioranza Mondiale è qualcosa che esiste realmente nella politica e nell’economia globale, che ha un impatto sulla crisi militare e politica nelle relazioni tra la Russia e i Paesi occidentali e che contiene caratteristiche che potrebbero plasmare il futuro ordine internazionale. In ogni c a s o , questa somma di Paesi è stata unita da un aspetto importante del loro comportamento rispetto al conflitto in corso di portata globale, che può seriamente influenzare le posizioni dei suoi partecipanti chiave. Pertanto, può essere considerato un fattore epocale per i l processo storico e l’evoluzione del sistema internazionale, piuttosto che un caso isolato.La domanda chiave per la Russia è se s i a possibile una politica unica nei confronti di un vasto gruppo di Paesi che non sono né consolidati né uniti da principi comuni. La risposta a questa domanda ha uno scopo puramente pratico e non sembra avere un taglio nettamente positivo o negativo. Siamo ai primi passi per capire cosa c i riserverà l’evoluzione della realtà internazionale. Una serie di dibattiti con la partecipazione dei maggiori esperti russi specializzati nello sviluppo e nei sistemi politici di regioni e Paesi specifici si è svolta al Valdai Club nel 2024. Tra i principali partecipanti alle discussioni, Denis Degterev, professore presso la Facoltà di Economia Mondiale e Affari Internazionali

dell’Università HSE; Victor Jeifets, professore della RAS, direttore del Centro di Studi Iberoamericani dell’Università Statale di San Pietroburgo; Yevgeny Kanaev, professore della Facoltà di Economia Mondiale e Affari Internazionali dell’Università HSE; Vasily Kashin, direttore del Centro di Studi Europei e Internazionali dell’Università HSE; Alexander Korolev, vicedirettore del Centro di studi europei e internazionali dell’Università HSE; Alexei Kupriyanov, responsabile del Centro per la regione indo-pacifica dell’Istituto di economia mondiale e relazioni internazionali della RAS (IMEMO); Mayya Nikolskaya, direttrice ad interim del Centro di studi africani dell’Istituto di studi internazionali (IMI) dell’Università MGIMO; Dmitry Rozental, direttore dell’Istituto per l’America Latina della RAS; Ivan Safranchuk, professore presso il Dipartimento di relazioni internazionali e politica estera della Russia, direttore del Centro di studi eurasiatici dell’Istituto di studi internazionali (IMI) dell’Università MGIMO; Nikolai Surkov, professore associato presso il Dipartimento di Studi Orientali dell’Università MGIMO; Dmitry Suslov, vicedirettore del Centro di Studi Europei e Internazionali dell’Università HSE. Le questioni affrontate in questo rapporto sono state ampiamente discusse durante una serie di altri eventi Valdai nel 2022-2024. I risultati di queste
discussioni sono state utilizzate dall’autore principale di questo rapporto.
Questo documento affronta gli sforzi per definire il fenomeno a cui si fa riferimento nel discorso russo come “Maggioranza Mondiale”. Evidenzia il suo potenziale impatto sull’ordine internazionale esistente e futuro e cerca di chiarire le motivazioni che hanno influenzato le decisioni di politica estera prese da specifici Paesi appartenenti a questo gruppo. Il rapporto si concentra sui punti chiave dell’interazione tra la Maggioranza Mondiale e gli avversari della Russia in Occidente e analizza i limiti del suo impatto sui principali processi ed eventi internazionali. Infine, il rapporto fornisce un’ampia panoramica degli approcci prospettici che la Russia potrebbe utilizzare in futuro nelle sue politiche di Maggioranza Mondiale.

Alla ricerca di una definizione

La terminologia è fondamentale in tempi di confronto: il modo in cui un messaggio viene trasmesso diventa esso stesso un messaggio. Non va sottovalutata nemmeno l’importanza delle parole che vengono usate per discutere le questioni internazionali più importanti. Dal nostro punto di vista, è f o n d a m e n t a l e capire come la Russia possa propagare le sue categorie nella comunità politica e intellettuale internazionale e quali ostacoli possa incontrare lungo il percorso.

Negli ultimi due anni, il concetto di Maggioranza Mondiale si è saldamente radicato nel dibattito politico russo e in quello degli esperti di politica internazionale ed economia. È stato utilizzato per la prima volta nel 20221 e da allora è stato ampiamente utilizzato nelle dichiarazioni ufficiali dei funzionari dei ministeri degli Esteri della Russia e di molti altri Paesi, nonché nelle ricerche accademiche e nelle valutazioni degli esperti.2 Il termine “Maggioranza Mondiale” è un concetto fondamentale utilizzato nella politica internazionale e nell’economia russa di oggi. Serve come punto di riferimento per valutare le attività dei diversi partner internazionali e il potenziale di sviluppo della cooperazione.Questo è sia un vantaggio che un difetto del nostro modo di ragionare sulla politica internazionale. È un vantaggio, perché consente una comprensione più sistematica delle realtà politiche ed economiche globali e aiuta a vedere le motivazioni alla base della condotta dei nostri partner. È un difetto, perché inevitabilmente crea una “tentazione di eccessiva generalizzazione, con l’implicito presupposto che la ‘maggioranza’ sia qualcosa di consolidato e unito da principi comuni”. Tuttavia, “è importante essere consapevoli del fatto che la Maggioranza Mondiale non è assolutamente un blocco antioccidentale consolidato. E non è nemmeno un blocco pro-Russia, per quanto si possa desiderare che lo sia”.3Il concetto di Maggioranza Mondiale non è ancora stato incorporato nel discorso dei Paesi amici della Russia e non viene utilizzato a livello di dichiarazioni politiche, documenti o dichiarazioni. Inoltre, i rappresentanti della comunità di esperti di alcuni Paesi, che la Russia classifica come membri della Maggioranza Mondiale, a volte si oppongono all’uso di questo termine nei documenti congiunti. Gli specialisti che abbiamo consultato non hanno notato alcun esempio di utilizzo del termine simile a quello della Russia nei Paesi dell’Asia, del Medio Oriente, dell’America Latina o dell’Africa, anche se gli esperti ritengono che la comunità intellettuale africana sia più ricettiva alle narrazioni russe.

Il Sud globale

Gli opinionisti e i capi dei Paesi stranieri amici non u s a n o termini specifici per descrivere il gruppo di Paesi che non si oppongono alla Russia, oppure usano termini come “Sud globale”, “economie emergenti” o “maggioranza globale” (cioè i Paesi in via di sviluppo precedentemente noti come “terzo mondo”).Il “Sud globale” è il termine più utilizzato e sembra portare avanti la tradizione dei Paesi in via di sviluppo che si posizionano in opposizione all’Occidente in quanto ex potenze coloniali o neocoloniali. In particolare, il termine “Sud Globale” è quello più comunemente utilizzato dalla diplomazia indiana per promuovere le proprie prospettive sugli affari internazionali e per illustrare la propria posizione sulle questioni chiave dello sviluppo. Questo termine è utilizzato anche nella retorica della politica estera dei Paesi del Sud-Est asiatico, occasionalmente della Cina, dei Paesi arabi del Golfo, del Medio Oriente e del Nord Africa.Il termine “Sud Globale” (che ha di fatto sostituito il termine “Paesi in via di sviluppo”) è più comunemente usato nei Paesi dell’America Latina e dei Caraibi (ALC), ma con una sottile differenza: è relativamente poco diffuso nel discorso argentino (lo è stato sotto le amministrazioni neo-peroniste del 2006-2015 e kirchneriste del 2019-2023), poiché l’Argentina tende a identificarsi con l’ Occidente sul piano mentale, anche quando persegue politiche tipiche dei Paesi del Sud Globale. Nel frattempo, nel vicino Brasile, il termine ha preso piede da tempo ed è relativamente comune in Messico, che ha legami economici molto stretti con gli Stati Uniti e il Canada.I Paesi dell’America Latina e dei Caraibi, che per decenni sono stati vittime di politiche imperialiste e neocoloniali, si trovano in questo senso strettamente allineati con i Paesi del Sud globale, anche se molte delle loro élite opterebbero per un’alleanza con l’Occidente condizionato. Ecco perché la mancanza di un’equa rappresentanza nelle istituzioni finanziarie globali, che perpetua il loro status di periferia dell’economia globale, è al primo posto nella consapevolezza dei Paesi dell’America Latina e dei Caraibi di non essere parte dell’Occidente, in tutto o in parte. Cuba, Venezuela e Nicaragua (e in misura minore la Bolivia), ferocemente antiamericani, non hanno avuto problemi a trovare un linguaggio comune con la Colombia, il Cile, il Perù e il Messico, che si sono avvicinati a Washington.

Il “Sud globale” è un concetto consolidato nei discorsi politici e accademici dell’Occidente, dove viene utilizzato al pari del termine “Maggioranza globale”, tradizionalmente usato come eufemismo per i non bianchi di tutto il mondo o come nome collettivo per i Paesi in via di sviluppo. In generale, Global South è più comunemente usato per designare il mondo non occidentale nei Paesi che la Russia descrive come “Maggioranza Mondiale”, mentre “Maggioranza Globale” è il modo in cui l’Occidente descrive il non Occidente.Il concetto di Maggioranza Mondiale della Russia ha un potenziale di utilizzo molto più ampio, ma si scontra con le definizioni consolidate; per questo è essenziale prendere sul serio l’introduzione di questo concetto, che può essere utilizzato come strumento per la presenza della Russia nel discorso politico e accademico globale, nonché nella diplomazia statale, pubblica e scientifica, anche presso le organizzazioni internazionali a cui la Russia p a r t e c i p a attivamente.Il fatto che la definizione generale proposta dalla Russia venga respinta è un attributo del comportamento dei Paesi della Maggioranza Mondiale, una manifestazione della loro indipendenza. Questa indipendenza è spontanea e non è il prodotto di un calcolo strategico. È guidata dalle opportunità offerte dal conflitto Russia-Occidente, ma non è essenziale per la sopravvivenza del gruppo dei Paesi in questione.I Paesi della Maggioranza Mondiale non si sforzano di definirsi come una nuova realtà internazionale e preferiscono usare termini familiari nelle relazioni con i loro partner occidentali ad alto rischio, a n c h e se sottolineano il loro nuovo status. La Russia riveste per loro un’importanza cruciale in quanto leader politico che guida la trasformazione dell’ordine mondiale, importante partner economico estero e attore centrale della politica internazionale. Tuttavia, non seguire i concetti della Russia non rappresenta una minaccia, a differenza delle loro relazioni con l’Occidente, che detiene ancora risorse educative, scientifiche e finanziarie, oltre a importanti m e z z i d i comunicazione. In altre p a r o l e , la Russia può anche proporre le proprie categorie discorsive, ma non è in grado di costringere questi Paesi ad adeguarsi, minacciando le conseguenze che potrebbero verificarsi nel caso in cui non facessero ciò che dice.È fondamentale ricordare che anche il fatto di mantenere relazioni amichevoli con la Russia può provocare pressioni significative da parte dell’Occidente. La maggior parte dei Paesi della Maggioranza mondiale – con alcune eccezioni come il Nord  Corea, Iran, Siria, Venezuela, Myanmar e l’Alleanza del Sahel – non sono inclini al conflitto con gli Stati Uniti o con l’Europa su questioni di interessi e valori fondamentali, anche quando l’Occidente li tratta con disprezzo. Il concetto di Maggioranza Mondiale è interpretato in modo diverso in Cina, India, Oriente arabo (Paesi del Golfo), America Latina e Sud-Est asiatico. In ogni regione assume un’interpretazione propria e riflette l’identità di ciascun Paese, il che fa sperare in una graduale introduzione della visione russa nelle discussioni.

Africa: Uno spazio di opportunità

L’Africa vanta il maggior potenziale di diffusione del concetto di Maggioranza Mondiale per diversi motivi.In primo luogo, si stanno affacciando alla ribalta nuove generazioni politiche nel campo della diplomazia e delle competenze. Quelle più strettamente legate all’Occidente durante il periodo post-coloniale, che hanno agito da tramite per gli interessi e i discorsi occidentali, stanno gradualmente uscendo di scena, così come l’influenza dell’ideologia socialista di stampo sovietico abbracciata dalle vecchie generazioni di politici, diplomatici e studiosi africani. Ciò ha creato uno spazio relativamente aperto per la competizione di idee e l’adozione di paradigmi diplomatici e di scienza politica alternativi (russi o cinesi), in un contesto di crescente spinta del mondo accademico africano a diversificare le proprie fonti di conoscenza e a stabilire contatti più ampi con la comunità accademica russa.In secondo luogo, la popolazione africana, compresa l’intellighenzia, nutre una sfiducia latente nei confronti delle narrazioni occidentali. Le teorie alternative erano popolari nel continente negli anni ’80 e alcuni ricordi di esse persistono ancora oggi, motivo per cui i Paesi africani non sono completamente fagocitati dai concetti occidentali e si sforzano di adottare una nuova terminologia delle relazioni internazionali. Fanno eccezione i Paesi leader, come il Sudafrica, l’Etiopia, il Kenya, il Ghana, per citarne alcuni, in cui gli opinionisti e il mondo accademico utilizzano ancora principalmente termini occidentali. Tuttavia, anche lì, non tutti sono disposti a seguire la scia del dominio discorsivo occidentale.L’insieme di questi due fattori significa che la generazione più giovane di leader, studiosi, figure pubbliche e personalità dei media dei Paesi africani è disposta ad adottare i concetti offerti dalla Russia. La Russia dovrebbe utilizzare le sue politiche per sostenere questa disponibilità.

Espansione dello spazio terminologico

Possiamo considerare la Maggioranza Mondiale come un concetto dotato di un significativo potenziale accademico, ovvero in grado di essere ulteriormente esplorato nella letteratura accademica. I circoli accademici russi offrono una definizione chiara e fondata di questo termine. La diffusione del concetto di Maggioranza Mondiale a livello di discorso accademico seguirà in parte un corso naturale, in quanto continuerà a essere utilizzato in testi accademici scritti o coscritti da studiosi russi. Questo percorso è tuttavia piuttosto impegnativo, se si considera il potere strutturale dell’Occidente nella diffusione della conoscenza – la cosiddetta “gerarchia della conoscenza” – attraverso le piattaforme bibliometriche e le case editrici occidentali sotto il suo controllo, tra le altre c o s e .L’internazionalizzazione delle riviste accademiche russe e la creazione di veri e propri partenariati con i Paesi BRICS sono fondamentali. Anche il sostegno statale a progetti di ricerca congiunti incentrati sul fenomeno della Maggioranza Mondiale, in collaborazione con i colleghi dei Paesi amici, è molto promettente.

La maggioranza mondiale e l’ordine internazionale

La Maggioranza Mondiale è una categoria strutturale che comprende un gruppo significativo di Paesi che perseguono politiche relativamente o completamente indipendenti rispetto agli interessi delle grandi potenze coinvolte nel confronto globale (Stati Uniti, Cina e Russia). Con l’eccezione dei Paesi che si sono schierati completamente con la Russia per quanto riguarda l’operazione militare speciale in Ucraina, la stragrande maggioranza dei Paesi del mondo non è pronta a scegliere, ora o in futuro, tra la Russia e i suoi avversari in Occidente, e ancor meno tra la Cina e gli Stati Uniti. La Maggioranza Mondiale non è un’organizzazione o un’associazione. Inoltre, l’emergere di questo fenomeno deriva dalla riluttanza di questi Paesi a subordinare la propria politica estera agli interessi collettivi o individuali di altre potenze mondiali. Questa caratteristica fondamentale di questo gruppo è destinata a persistere in futuro e a impedire la creazione di qualcosa di simile al Movimento dei Non Allineati. In primo luogo, i Paesi della Maggioranza mondiale non cercano di  diventare parte delle unioni, con la possibilità che un paese domini gli altri. In secondo luogo, il Movimento dei Non Allineati si poneva come alternativa all’Est e all’Ovest, cosa che oggi non è più possibile, perché la Russia non è a capo di un gruppo di alleati che si possa definire importante, né cerca di allineare completamente le politiche estere degli altri Paesi ai propri interessi. La probabilità di veder rinascere il movimento di non allineamento potrebbe diventare più realistica se la Russia e la Cina decidessero di formalizzare un’alleanza. Tuttavia, anche questo scenario non sarà privo di difficoltà, poiché abbiamo visto paesi amici della Russia, come l’India o il Vietnam, cercare di rafforzare i loro legami con l’Occidente. Certo, i Paesi della Maggioranza Mondiale stanno perseguendo una politica che non è una politica di “non allineamento”, ma una politica di uguale distanza dai partecipanti al confronto globale (di cui parleremo più avanti), da un lato, e di “multiallineamento” dall’altro, in quanto aderiscono a progetti e alleanze che coinvolgono i Paesi occidentali, la Cina e la Russia. Ad esempio, l’India è contemporaneamente membro del Quad, dei BRICS e della SCO.Finora, la Maggioranza Mondiale è stata concettualmente opposta all’Occidente collettivo, che è una comunità che si riunisce attorno a un unico leader e condivide interessi e valori comuni. Anche i Paesi che fanno parte di unioni economiche o addirittura politico-militari con la Cina e la Russia (come la CSTO e l’EAEU) fanno parte della Maggioranza Mondiale, poiché queste alleanze (salvo rare eccezioni) non seguono regole rigide e non sono concepite per opporsi ad altre grandi potenze, motivo per cui i Paesi della Maggioranza Mondiale possono, in alcuni casi, perseguire politiche simili nei confronti degli Stati Uniti e della Russia/Cina. In altre p a r o l e , la Russia può trovare discutibili le politiche dei Paesi della Maggioranza Mondiale che sono ipoteticamente vicini alla Russia. Allo stesso modo, Washington o l’UE potrebbero trovare insoddisfacenti le politiche dei Paesi alleati degli Stati Uniti, tradizionalmente vicini all’Occidente. Le azioni degli alleati della Russia in Asia centrale o degli alleati degli Stati Uniti nel Golfo Persico sono abbastanza convincenti a questo proposito. Pertanto, il fatto che i Paesi della Maggioranza Mondiale si oppongano con forza alle politiche perseguite dall’Occidente deriva dal loro rifiuto di cedere alle pressioni esterne, tranne quando non sono disponibili soluzioni alternative. In primo luogo, il problema è che questi Paesi sono sottoposti a pressioni da parte delle istituzioni finanziarie internazionali. Se ciò dovesse accadere, i governi dell’Asia centrale, che stanno perseguendo politiche amiche della Russia e della Cina, potrebbero vedere compromesso il loro potenziale di prestito con queste istituzioni. Quanto più leggera è questa dipendenza, tanto maggiore è il margine di manovra dei Paesi della Maggioranza Mondiale, poiché l’autosufficienza e la sostenibilità economica sono i fattori chiave che consentono loro di mantenere politiche amichevoli. Continuando a negare le pressioni esterne, i Paesi della Maggioranza Mondiale vedono la differenza tra Occidente, Russia e Cina. Per loro, la Russia è un partner e non si aspettano alcuna pressione da essa. Al contrario, un gran numero di questi Paesi vede gli Stati Uniti e la Cina come forze di natura simile, anche se ci sono delle distinzioni: molti Paesi africani considerano le politiche americane come ostili verso l’esterno, mentre le politiche della Cina sono viste come un aiuto per affrontare i problemi della sanità e dell’istruzione. Questo tipo di politica estera non è molto diverso dalla classica strategia di bilanciamento. Tuttavia, date le circostanze attuali, ha assunto nuove forme che devono essere studiate a livello teorico e applicativo soprattutto perché il sistema internazionale stesso si trova in uno stato di squilibrio, a differenza di quanto accadeva durante la Guerra Fredda o in periodi storici precedenti. Di conseguenza, le strategie di bilanciamento sono diventate più flessibili, non p o r t a n d o necessariamente ad alleanze o coalizioni stabili, anche quando si tratta di questioni particolari di affari internazionali. La spinta a massimizzare l’autonomia, che è alla base delle motivazioni della Maggioranza Mondiale, può non andare a genio all’Occidente, alla Russia o alla Cina e talvolta essere dannosa per i loro interessi. Strutturalmente, questi Paesi si comportano in modo simile e per Russia, Cina o Stati Uniti è difficile che questi Paesi seguano i loro interessi. Con alcune eccezioni, gli Stati Uniti e l’UE hanno un vantaggio in questo senso, poiché controllano la finanza globale e le istituzioni internazionali, anche se la Cina sta premendo molto con le proprie iniziative. Certo, Paesi come l’Iran o il Myanmar non possono essere considerati alleati della Russia o della Cina senza equivoci (né lo sono ufficialmente), poiché cercano di mantenere il pieno controllo sovrano sulle loro politiche estere, anche se si posizionano come avversari dell’Occidente e dei suoi procuratori, come Israele. La Maggioranza Mondiale è centrata sui propri interessi, che è il suo tratto distintivo. Con la capacità dell’Occidente di servire come fonte affidabile di investimenti  e tecnologia in diminuzione e la sua pressione politica in aumento, i Paesi della Maggioranza Mondiale opporranno una forte resistenza alla spinta degli Stati Uniti e dell’Unione Europea per costringere tutti a servire i loro interessi. La “capacità di politica estera” degli Stati Uniti e dei loro più stretti alleati in Europa e la loro capacità di fungere da fornitori di risorse per affrontare i compiti di sviluppo rimarranno uno dei fattori più importanti nell’evoluzione della Maggioranza Mondiale come fenomeno politico. I Paesi della Maggioranza Mondiale possono essere considerati come “ponti” tra l’Occidente e i suoi avversari, Cina e Russia, o piattaforme per negoziati o addirittura attività economiche. L’India, di gran lunga il più grande membro di questo gruppo, ne è un esempio lampante. L’India è un membro dei BRICS, un’associazione che si pone come la principale alternativa istituzionale all’Occidente. Allo stesso tempo, però, l’India si sta impegnando ad avere relazioni amichevoli con gli Stati Uniti e l’Europa. Il Vietnam, un Paese di calibro molto più piccolo dell’India, ha adottato una posizione simile. La Turchia, gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita e il Qatar svolgono importanti ruoli di intermediazione nell’affrontare le questioni pratiche legate al conflitto militare in Ucraina (come lo scambio di prigionieri, la restituzione dei bambini, l’accordo sul grano e così via) e offrono i loro servizi come mediatori e piattaforme negoziali per la piena risoluzione del conflitto. Ci sono segnali che indicano che anche numerosi altri Paesi della Maggioranza Mondiale, in particolare quelli arabi, desiderano diventare intermediari universali tra le grandi potenze in conflitto.In teoria, gli interessi della Maggioranza Mondiale possono essere sistematizzati sulla base di criteri comportamentali comuni.In primo luogo, i Paesi della Maggioranza Mondiale cercano sempre di rafforzare la loro capacità indipendente di prendere decisioni di politica estera e considerano persino il riavvicinamento con la Russia, la Cina o l’Occidente come una chiave per raggiungere questo obiettivo. Questi Paesi possono essere spinti a stabilire apertamente un’alleanza con una particolare grande potenza solo in caso di estrema pressione esistenziale proveniente da altre grandi potenze.In secondo luogo, i Paesi della Maggioranza Mondiale sono interessati a mantenere aperta l’economia globale e non faranno nulla che possa danneggiare questo stato di cose. Sono pienamente consapevoli del fatto che l’Occidente non è più un garante della globalizzazione, ma anzi la mina con le sue politiche. Di conseguenza, tutte le iniziative intraprese dalla Maggioranza Mondiale per creare un’infrastruttura per il commercio internazionale, la finanza e la tecnologia sono state prese in considerazione.

Gli scambi che sarebbero indipendenti dall’Occidente sono progettati non per abbattere la globalizzazione, ma per mantenerne intatti gli elementi.In terzo luogo, i Paesi della Maggioranza Mondiale non sono pronti a proporre o discutere seriamente un “nuovo ordine internazionale” astratto. Cercano una maggiore equità nei loro interessi, ma non sono disposti a intraprendere un percorso rivoluzionario per ottenerla.Anche se i Paesi della Maggioranza Mondiale sono sparsi in diverse regioni (Medio Oriente, Nord Africa, Sud-Est asiatico, Africa sub-sahariana e America Latina), sono tutti disposti a m a n t e n e r e relazioni amichevoli con la Russia. Le ex repubbliche sovietiche che non perseguono politiche ostili nei confronti della Russia e hanno relazioni e legami speciali con Mosca formano una categoria a parte. Per questi Paesi, un certo allontanamento dalla Russia è un comportamento tipico condiviso da tutti i membri della Maggioranza Mondiale. Questi Paesi mantengono politiche complessivamente amichevoli nei confronti della Russia, ma sono preoccupati di vederla rafforzata e cercano di sfruttare le circostanze attuali per assicurarsi posizioni più forti in futuro o almeno di coprire le loro posizioni rafforzando i legami con centri di potere alternativi, sia a livello globale (Stati Uniti, UE o Cina) che regionale (Turchia, Iran).

La maggioranza mondiale e il conflitto Russia-Occidente

Inizialmente, la non partecipazione alla guerra economica e politicoumanitaria condotta dagli Stati Uniti e dai loro alleati contro la Russia è stata la caratteristica del comportamento dei Paesi della Maggioranza Mondiale. Questa guerra è diventata un evento politico ed economico di proporzioni globali. Mai prima d’ora una grande potenza era stata sottoposta a una così vasta serie di restrizioni economiche esterne avviate da un gruppo relativamente ristretto di Paesi potenti.Se la Guerra Fredda ha visto un confronto sistemico tra l’Est e l’Ovest, la differenza fondamentale è che in quel periodo i Paesi del blocco socialista non partecipavano al mercato globale. La guerra delle sanzioni condotta dall’Occidente contro la Russia, intensificatasi dopo l’inizio dell’operazione militare speciale, è il primo evento storico di questa portata e natura che si verifica in un momento in cui ogni singola economia del mondo è un partecipante al mercato globale.  Questo tipo di connettività è alla base degli sforzi per valutare le politiche dei Paesi che non hanno aderito alle sanzioni, pur essendo costretti – nella maggior parte dei casi – a tener conto dei loro effetti. Le entità commerciali di quasi tutti i Paesi della Maggioranza Mondiale (con poche eccezioni) devono reagire alle restrizioni imposte dall’Occidente alla Russia, anche se l’aumento delle misure restrittive nei confronti di alcune aziende di questi Paesi da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Europea è indicativo dei loro sforzi per aggirare il regime di sanzioni.Questi sforzi sono spesso incoraggiati dai governi dei Paesi della Maggioranza Mondiale, soprattutto quando vedono che l’Occidente stesso ha interesse a espandere le relazioni con loro, rendendo difficile per l’Occidente imporre sanzioni secondarie alle loro aziende per punirle per aver fatto affari con la Russia (come nel caso dell’India). La riluttanza, per motivi economici e politici, a partecipare alle sanzioni contro la Russia rimane un segno e una manifestazione chiave di indipendenza. Molti di questi Paesi hanno incrementato in modo significativo le loro relazioni commerciali ed economiche con la Russia e criticano fortemente le sanzioni unilaterali dell’Occidente presso varie organizzazioni e alleanze internazionali (come l’ONU, i BRICS e la SCO, per citarne alcune).Negli ultimi due anni, abbiamo ripetutamente assistito a segnali d’intesa che andavano oltre la non partecipazione alle sanzioni contro la Russia. In particolare, la maggior parte dei Paesi della Maggioranza Mondiale, con poche eccezioni, ha adottato una posizione distinta nei confronti del “vertice di pace” convocato sotto il patrocinio degli Stati Uniti in Svizzera nel giugno 2024. Molti partecipanti non occidentali si sono astenuti dall’approvare il comunicato finale, hanno ritirato le loro firme in seguito o hanno usato la piattaforma per esprimere le loro posizioni nazionali piuttosto che la solidarietà con Kiev. I Paesi della Maggioranza Mondiale si oppongono all’invio di armi ed equipaggiamenti militari a Kiev e al prolungamento del conflitto. Quasi tutti concordano sulla necessità di raggiungere una rapida risoluzione pacifica con la piena partecipazione della Russia e la considerazione dei suoi interessi.La dura condanna da parte dei Paesi della Maggioranza Mondiale della guerra di Israele contro Gaza e il loro sostegno alla Palestina sono un altro vivido esempio di politiche indipendenti. Questa guerra ha diviso il mondo in  Maggioranza mondiale e minoranza occidentale, proprio come le sanzioni alla Russia.Pertanto, il comportamento dei Paesi della Maggioranza Mondiale è ora caratterizzato non solo dagli sforzi (passivi o attivi) per evitare di partecipare alle sanzioni anti-russe, ma anche dal desiderio di affermare le proprie posizioni su altre questioni importanti. Per molti di loro, il rifiuto di aderire alle sanzioni unilaterali dell’Occidente e di criticarle – in particolare di criticarne la natura extraterritoriale – sono strumenti che utilizzano per affermare e rafforzare la propria sovranità. I rappresentanti della Maggioranza Mondiale hanno sottolineato con precisione che le sanzioni extraterritoriali imposte dagli Stati Uniti e dai loro satelliti costringono i Paesi terzi ad astenersi da interazioni del tutto lecite con la Russia secondo il diritto internazionale, e non sono altro che un tentativo di imporre la propria volontà a tutte le nazioni e una violazione della loro sovranità nazionale.L’atteggiamento della Maggioranza Mondiale nei confronti della Russia non è puramente strumentale: per alcuni di loro, la Russia funge da contrappeso e per altri da ariete contro la posizione dominante dell’Occidente nella politica internazionale e, indirettamente, nell’economia. Questa visione del ruolo della Russia è la più popolare, anche se non a livello di dottrina. Inoltre, i Paesi della Maggioranza Mondiale ritengono che la Russia sostenga i propri interessi nel conflitto con l’Occidente, interessi che non sono necessariamente allineati con quelli perseguiti dai Paesi amici della Russia.Tuttavia, un elemento chiave del comportamento dei Paesi della Maggioranza Mondiale è il loro desiderio di mantenere relazioni costruttive ed equilibrate con tutti gli attori globali. Il loro rifiuto di partecipare alle sanzioni contro la Russia, e tanto meno di a v v i a r l e , non indica il desiderio di assumere una posizione critica o ostile nei confronti degli Stati Uniti o dell’UE. Esistono casi di comportamento di questo tipo, ma si tratta di rare eccezioni piuttosto che della regola. Al contrario, la condotta dei Paesi della Maggioranza Mondiale può essere descritta da una crescente spinta a sviluppare un dialogo con la Russia e i suoi principali oppositori. Questo è un attributo oggettivo d e l l a Maggioranza Mondiale, che è insito in quasi tutti i suoi membri.La Russia dovrebbe tenerlo a mente mentre cerca di ampliare il dialogo diplomatico con i Paesi amici e di portare avanti la sua politica di informazione. Le decisioni dei Paesi della Maggioranza Mondiale di non unirsi alla guerra delle sanzioni occidentali contro la Russia sono state (e continuano ad essere) prese sulla base sia degli attuali vantaggi economici che degli approcci concettuali alla politica estera.  I principali Paesi della Maggioranza Mondiale possono essere utilizzati come esempio per evidenziare le specificità dei Paesi nel prendere tali decisioni e i fattori che li accomunano.

Specifiche del paese

In India, ad esempio, la decisione di non aderire alle sanzioni è una parte fondamentale della strategia di politica estera nazionale del Paese. L’India crede fondamentalmente che le sanzioni debbano essere imposte solo sulla base di risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e non si impegna in questa pratica senza un ampio sostegno internazionale. I rappresentanti e i diplomatici indiani citano numerosi esempi storici in cui il loro Paese si è astenuto dal partecipare a regimi di sanzioni unilaterali. In questo modo, stanno chiarendo che la situazione attuale non rappresenta un’eccezione per la politica estera indiana, anche se la Russia e l’India condividono un rapporto unico di partnership strategica privilegiata. Partecipare alle sanzioni contro la Russia sarebbe contrario alla tradizione di politica estera di Nuova Delhi.Nel caso dell’India, oggi uno dei principali importatori di petrolio russo, gli interessi commerciali e la ricerca del profitto si integrano perfettamente con la sua posizione di principio a lungo termine sulle sanzioni. La posizione speciale dell’India e il suo rifiuto di aderire alle sanzioni occidentali contro la Russia sono visti come strumenti per aumentare il suo peso negli affari internazionali e per mantenere un approccio indipendente non subordinato agli interessi di altre grandi potenze o alleanze. Si tratta di una questione di principio per Nuova Delhi nel contesto delle relazioni con gli Stati Uniti, che ultimamente hanno assunto una dimensione particolarmente importante e sono utilizzate come strumento di contenimento della Cina e come fonte di tecnologia e investimenti. Il governo indiano ha dichiarato apertamente di dare priorità alle relazioni con gli Stati Uniti e l’Unione Europea per affrontare le sfide più urgenti per lo sviluppo del Paese.Tuttavia, ciò non impedisce alla leadership indiana di rimanere ferma quando le pressioni occidentali assumono un aspetto dimostrativo o politico, soprattutto nei confronti dell’India stessa. In questo contesto, possiamo ipotizzare che per molti altri Paesi – non solo per l’India – il rifiuto di unirsi alla “coalizione delle sanzioni” guidata dagli Stati Uniti sia un modo per migliorare la propria posizione e per mantenere una posizione unica negli affari internazionali, che altrimenti perderebbero. I Paesi occidentali, che finora sono rimasti il centro del potere nella politica globale, sono i principali bersagli di queste politiche.

Il rifiuto degli Stati arabi del Golfo di partecipare alle sanzioni si basa sulla loro forte opposizione a essere coinvolti nella competizione tra grandi potenze, considerata un fattore che può aumentare le tensioni in Medio Oriente e ostacolare gli sforzi per superare le sfide globali (come il cambiamento climatico, la sicurezza alimentare, le pandemie e simili). Inoltre, gli arabi (non solo gli Stati del Golfo) vedono la Russia come un contrappeso all’Occidente che impedisce agli Stati Uniti di imporre la propria volontà ad altri Paesi. I Paesi arabi non cercano di smantellare completamente l’ordine mondiale, ma vogliono che sia equilibrato e libero da un egemone. Sono noti per aver chiesto la creazione di meccanismi finanziari globali alternativi e la riforma del sistema di governance globale, al fine di renderlo più equilibrato e di aumentare l’influenza del Sud globale nelle istituzioni internazionali, come l’ONU o il FMI.I Paesi arabi cercano di far capire agli Stati Uniti e all’Unione Europea che devono fare i conti con i loro partner in Medio Oriente, soprattutto nell’area del Golfo. Cercano di non sfidare apertamente l’Occidente o di non creare minacce agli interessi statunitensi o europei che possono considerare vitali. Inoltre, continuano a cooperare con l’Occidente in questioni che sono in linea con i loro interessi. In particolare, dopo l’escalation del conflitto israelo-palestinese nell’ottobre 2023, le monarchie del Golfo hanno fatto pressione sugli Stati Uniti affinché intensificassero i loro sforzi di mediazione per evitare un’ulteriore escalation.I Paesi arabi hanno ragioni economiche per criticare le politiche occidentali e mantenere la cooperazione con la Russia. I Paesi del Golfo considerano le sanzioni a tappeto contro la Russia come una destabilizzazione del mercato globale, c h e può potenzialmente portare a sconvolgimenti devastanti nel commercio mondiale e nel sistema finanziario. Per loro, l’imposizione di restrizioni economiche di questa portata, in particolare il congelamento dei beni esteri russi, è un assaggio di ciò c h e li attende. Un altro motivo è che l’Occidente ha imposto sanzioni senza considerare gli interessi economici del Sud globale e senza chiedere il loro contributo, il che ha causato, tra l’altro, interruzioni nelle forniture alimentari al mercato globale. Attualmente, i Paesi arabi, in particolare gli Emirati Arabi Uniti, hanno beneficiato in modo significativo del fatto che la Svizzera (per non parlare di Londra) ha perso il suo status di Paese neutrale e, insieme a questo, il suo ruolo di piattaforma negoziale primaria per discutere di questioni politiche ed economiche. Sempre più spesso gli Emirati Arabi Uniti agiscono in questa veste. Inoltre, l’OPEC Plus, in cui la Russia è un attore importante, è diventato un fattore cruciale che contribuisce alla capacità dei Paesi arabi di perseguire politiche più indipendenti. Preservare questo formato è una priorità per i Paesi del Golfo nel contesto della loro posizione sui mercati globali e delle loro relazioni con i consumatori in Cina e in Occidente. La Russia conduce una politica di mercato energetico equilibrata, che coordina con loro e agisce come un attore responsabile, con cui sono disposti a fare affari anche in futuro.Per i Paesi africani, i fattori chiave alla base del loro rifiuto di partecipare alle sanzioni includono il loro interesse diretto per la Russia (anche come contrappeso all’Occidente), i legami di lunga data in ambito politico-militare ed economico e la possibilità di guadagnare o perdere l’accesso ai fondi necessari per affrontare le sfide dello sviluppo, le questioni della lotta alla povertà e alla fame. I Paesi africani sono i più vicini alla Russia, ma sono anche vulnerabili a causa della loro dipendenza dalle istituzioni finanziarie internazionali controllate dall’Occidente e dalle istituzioni delle Nazioni Unite, anch’esse dominate da Stati Uniti e Unione Europea. In un certo senso, i Paesi africani sono l’opposto dei ricchi Paesi arabi del Golfo, che non sono politicamente vicini alla Russia, ma sono meglio attrezzati per resistere alle pressioni degli Stati Uniti e dei loro alleati sul rispetto dei regimi sanzionatori, che li hanno colpiti in modo significativo. La soluzione a questo problema non è ancora in vista, poiché gli Stati Uniti e l’Unione Europea controllano saldamente l’apparato delle Nazioni Unite e gli uffici centrali di altre agenzie internazionali da cui dipendono i Paesi africani più bisognosi, n o n c h é , anche se in m i s u r a minore, l’ufficio centrale dell’Unione Africana e delle comunità economiche regionali in Africa, poiché finanziano una parte significativa dei loro bilanci annuali.Tra i Paesi del Sud-Est asiatico, solo Singapore ha aderito alle sanzioni, ma lo ha fatto in modo superficiale. Gli altri Paesi della regione sottolineano la loro cordialità nei confronti della Russia, ma rimangono guidati dalla dimensione effettiva delle loro relazioni commerciali.Il Vietnam si distingue e vede nella Russia un partner importante e un fornitore di armi, oltre che un contrappeso nelle relazioni con la Cina. Il Vietnam è attualmente considerato la nazione più amichevole tra i Paesi del Sud-Est asiatico come confermato durante la visita del Presidente russo nella Repubblica Socialista del Vietnam nel giugno 2024. Pur mantenendo e rafforzando le relazioni amichevoli con gli Stati Uniti, il Vietnam le considera un contrappeso alla crescente potenza della Cina, ma non cerca di diventare un tramite volontario per gli interessi statunitensi nella regione o a livello globale. Il fatto che la Cina non abbia reagito in alcun modo all’espansione delle relazioni tra Russia e Vietnam è indicativo dell’alto livello di fiducia nelle relazioni tra Cina e Russia e della maturità dell’approccio di Pechino a importanti questioni di politica regionale. Il rafforzamento politico dei legami tra Russia e Vietnam e altri Paesi del SudEst asiatico si allinea con l’interesse emergente di alcuni Paesi dell’ASEAN (Cambogia, Myanmar e Laos) a diventare partner di dialogo nella SCO.Il rifiuto a livello governativo di aderire alla pressione sanzionatoria sulla Russia nel 2014 e nel 2022 è stata una posizione comune e abbastanza prevedibile dei Paesi dell’America Latina e dei Caraibi (ALC), che fanno anche parte della Maggioranza Mondiale. La posizione dei Paesi dell’America Latina e dei Caraibi su questo tema è chiara: le sanzioni adottate da una minoranza sono inaccettabili e la maggioranza può adottarle solo nell’ambito e attraverso le istituzioni delle Nazioni Unite; tutte le altre sanzioni sono illegittime. Ciò ha portato le imprese dell’America Latina e dei Caraibi a partecipare in parte alle sanzioni, anche se non direttamente. In altre parole, le sanzioni secondarie sono osservate dalle entità commerciali, mentre i governi (ad eccezione delle Bahamas) si sono astenuti dal partecipare alle sanzioni primarie o secondarie.Il fatto che le imprese cinesi, che da tempo hanno spinto gli Stati Uniti e l’UE in seconda o addirittura terza posizione in diversi Paesi, continuino a fare breccia nelle economie dell’America Latina e dei Caraibi riduce anche la probabilità di una loro partecipazione diretta alle sanzioni. Inoltre, i Paesi dell’America Latina e dei Caraibi e le loro importazioni ed esportazioni sono stati significativamente colpiti dalle sanzioni europee contro la Russia, portando alla reazione negativa dei Paesi dell’America Latina e dei Caraibi nei confronti dell’embargo unilaterale che colpisce gli interessi del Sud globale.

 

Influenzati dalla loro dolorosa esperienza storica di essere sottoposti a pressioni e interventi da parte delle principali potenze globali, in primis gli Stati Uniti, i Paesi dell’America Latina denunciano l’operazione militare speciale della Russia in Ucraina. Questo li porta a vedere l’Ucraina come una vittima. Inoltre, i Paesi dell’America Latina sostengono il primato del diritto internazionale e quindi percepiscono negativamente il conflitto armato, interpretandolo come una violazione delle norme diplomatiche.A due anni dall’inizio del conflitto, la percezione emotiva del conflitto in America Latina si è notevolmente attenuata. Questa tendenza si evince dai sondaggi condotti nel 2022 e nel 2023: è aumentato il numero di intervistati che ritengono che le questioni ucraine siano lontane dalle sfide regionali. Inoltre, la situazione economica dei Paesi latinoamericani ha portato gli intervistati a esprimersi a favore di una riduzione del sostegno finanziario a Kiev. Inoltre, in tutti i Paesi latinoamericani intervistati, è diminuito il numero di intervistati che crede in un “possibile allargamento delle azioni militari russe” ad altri Paesi europei.I Paesi dell’America Latina (con rare eccezioni) cercano di mantenere uno status di interblocco e di non aderire a nessuna coalizione in particolare. Nonostante la loro dipendenza da una serie di prodotti di fabbricazione russa, in primo luogo i fertilizzanti, le aziende della regione sono caute nel violare il regime di sanzioni, temendo sanzioni secondarie e azioni penali da parte delle autorità statunitensi. Pertanto, i Paesi della regione adottano spesso una posizione pragmatica, cercando di interagire con tutti gli attori politici globali che possono fornire loro assistenza economica. Il diffuso rifiuto dell’egemonia statunitense da parte delle società latinoamericane non ha portato a un allontanamento politico da Washington. Anche i tradizionali oppositori degli Stati Uniti, come Cuba, Venezuela e Nicaragua, sono disposti a stabilire relazioni costruttive con la Casa Bianca. Nel complesso, i Paesi dell’America Latina e dei Caraibi aderiscono a una posizione di “neutralità attiva”, che spiega il loro rifiuto di partecipare al “vertice di pace” in Svizzera. Pur non sostenendo la posizione della Russia sull’operazione militare speciale, i Paesi dell’America Latina e dei Caraibi affermano chiaramente che il conflitto può essere risolto solo con mezzi diplomatici e compromessi, impossibili senza il coinvolgimento della Russia. Cile, Ecuador e Guatemala, che si sono allineati con i Paesi occidentali fin dall’inizio del conflitto, sono l’eccezione a questa regola.

Equidistanza della maggioranza mondiale

I Paesi della Maggioranza Mondiale distinguono chiaramente tra la partecipazione alle sanzioni occidentali e il rispetto forzato delle stesse da parte di singole aziende che cercano di mantenere la propria presenza sul mercato globale e di mantenere un buon ambiente commerciale. Per questi Paesi è importante valutare obiettivamente le conseguenze delle pressioni esercitate dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea e tenere presente la possibilità di diventare bersaglio di sanzioni secondarie. Esiste una correlazione evidente tra l’entità delle relazioni commerciali ed economiche con la Russia e la disponibilità dei Paesi partner a creare meccanismi più flessibili che possano mitigare completamente o temporaneamente i danni delle sanzioni secondarie o della minaccia di imporle.L’India e il Vietnam dimostrano che la spinta dei Paesi della Maggioranza Mondiale, grandi e relativamente grandi, a rimanere equidistanti dai partecipanti al confronto globale aiuta oggettivamente la Russia a portare avanti i propri interessi. Questi Paesi in particolare mostrano la maggiore flessibilità e iniziativa nel creare nuove forme di cooperazione e sono meno suscettibili alle pressioni degli Stati Uniti, che hanno le loro ragioni per cooperare con loro.La disponibilità dei Paesi della Maggioranza Mondiale a creare istituzioni finanziarie parallele, compresi i sistemi di pagamento, per continuare le relazioni con la Russia varia di conseguenza. In alcuni casi (Vietnam, Cina), questo processo sta prendendo p i e d e . È lecito aspettarsi che i Paesi più grandi, amici della Russia e non presenti sul mercato statunitense, si orientino gradualmente verso la creazione di infrastrutture commerciali parallele, immuni alle sanzioni statunitensi. Ciò getterà le basi per l’espansione dei sistemi internazionali di regolamento, pagamento e assicurazione al di fuori delle strutture create dall’Occidente. Una nuova infrastruttura per la finanza e il commercio globale prenderà forma gradualmente nel corso di diversi anni, se non decenni, man mano che gli Stati Uniti e l’Unione Europea dimostreranno sempre più la loro incapacità di negoziare e adattare i meccanismi che controllano al mutevole equilibrio di potere nel mondo e alle politiche sempre più indipendenti perseguite dai Paesi della Maggioranza Mondiale.  Per la Russia è essenziale mantenere la propria posizione nell’economia e nel commercio globale in trasformazione e fare un uso creativo delle criptovalute e di altre forme di pagamento ibride.La strategia di equidistanza dei Paesi della Maggioranza Mondiale nei confronti dei principali concorrenti globali, come Russia, Cina e Stati Uniti, è applicabile non solo al conflitto in corso tra Russia e Occidente. La prevalenza di questo approccio è radicata nella crisi del sistema dell'”ordine mondiale liberale” guidato dagli Stati Uniti. Una parte significativa dei Paesi non è più sicura che gli Stati Uniti, ancora la potenza globale più influente, possano agire efficacemente come distributore globale di benefici. Le crescenti rappresaglie negli Stati Uniti e le politiche occidentali, in generale, stanno spingendo molti Paesi a coprire i propri rischi. Anche il crescente potere della Cina è evidente. Tuttavia, la situazione è più complicata di così. Molti Paesi del sito5 sono diffidenti nei confronti della potenziale propensione al dominio della Cina e della sua pratica di indebitare i Paesi di piccole e medie dimensioni. Queste esperienze di cooperazione con la Cina sono diventate piuttosto comuni negli ultimi anni e vengono efficacemente sfruttate dalla propaganda occidentale per screditare le politiche cinesi.Inoltre, proprio come la Russia, la Cina non ha accesso alla supervisione delle operazioni delle agenzie e delle fondazioni internazionali che forniscono risorse per lo sviluppo. Si discute anche se iniziative importanti come la Banca asiatica di investimento per le infrastrutture o il Fondo per la via della seta possano essere utilizzate come alternative alle istituzioni finanziarie occidentali. In altre p a r o l e , la Cina non è ancora un’alternativa a tutti gli effetti all’Occidente, anche se il relativo indebolimento degli Stati Uniti e dell’UE contribuisce a una maggiore indipendenza e adattabilità dei Paesi della Maggioranza Mondiale.

La maggioranza mondiale e il vecchio ordine mondiale

I principali strumenti della politica statunitense nei confronti dei Paesi a maggioranza mondiale dovrebbero essere studiati più da vicino. Sappiamo dalle esperienze reali che, sebbene questi strumenti abbiano una natura comune, il loro livello di durezza e i loro metodi variano da una regione all’altra.  Ad esempio, i Paesi arabi del Golfo si trovano in una posizione più vulnerabile rispetto ai Paesi del Sud-Est asiatico o, i n parte, a q u e l l i africani, perché la loro sicurezza dipende d a l l a presenza militare statunitense. Tuttavia, stanno facendo del loro meglio per trovare il modo di ridurre questa dipendenza, anche sviluppando la propria industria della difesa e stabilendo legami con altri attori globali. L’India è un caso a parte, poiché coltiva relazioni amichevoli con l’Occidente e cerca di ottenere tecnologia e investimenti da esso, ma allo stesso tempo una parte significativa della sua popolazione e delle sue élite simpatizza per la Russia. Una situazione simile esiste in Indonesia, anche se questo sentimento è piuttosto limitato ai circoli militari e non fa parte di un discorso più ampio.L’Occidente rifiuta di riconoscere il fenomeno della Maggioranza Mondiale e la spinta dei Paesi della Maggioranza Mondiale verso una maggiore indipendenza e autonomia. Gli Stati Uniti e l’Europa tendono a vedere la situazione attraverso il paradigma binario, fin troppo familiare, del confronto tra blocchi: l’Occidente e l’ordine mondiale guidato dall’Occidente (oggi definito “ordine basato sulle regole”) contro un gruppo di “revisionisti” rappresentati da Cina, Russia, Iran, Corea del Nord e diversi altri Paesi che vi si avvicinano. A questo gruppo viene attribuito un complotto per distruggere l’ordine “corretto” esistente per stabilirne uno nuovo basato sui loro valori e interessi o per far precipitare il mondo n e l “caos globale”. Secondo gli Stati Uniti e i loro alleati, tutti gli altri Paesi devono necessariamente scegliere da che parte stare per quanto riguarda il conflitto in Ucraina e l’ordine internazionale in generale.L’Occidente impiega il suo consueto approccio del bastone e della carota sotto forma di intimidazione o di incentivi sotto forma di benefici o di lievi miglioramenti dello status. Esempi di tali “carote” sono la concessione al Kenya dello status di alleato chiave degli Stati Uniti non appartenenti alla NATO o la proposta del Ghana c o m e Paese ospite del prossimo “forum di pace” sull’Ucraina. Tuttavia, fatta eccezione per i Paesi particolarmente vulnerabili, questo vecchio metodo ha perso la sua efficacia, il che potrebbe costringere gli Stati Uniti e l’UE ad adottare approcci più flessibili.Una caratteristica distintiva del comportamento dei Paesi della Maggioranza Mondiale è la loro “presa di distanza” dalle grandi potenze con cui hanno i legami economici e geopolitici più forti. Poiché l’Occidente ha dalla sua parte un numero di Paesi “vicini” relativamente maggiore rispetto alla Russia o alla Cina, i suoi problemi derivanti dall’emergere della Maggioranza Mondiale come gruppo sono più pronunciati.  Per gli Stati Uniti, questo “allontanamento” è particolarmente sentito in America Latina, nei Caraibi e nel Golfo Persico. L’influenza statunitense in queste regioni rimane forte, per cui la sottolineatura della loro autonomia dagli Stati Uniti ha assunto un ruolo centrale. Tuttavia, in termini pratici, assume spesso la forma di una contrattazione, poiché la completa indipendenza dall’influenza statunitense sembra irrealistica o impraticabile per le élite locali al potere.La “presa di distanza” dall’Europa è più pronunciata in Africa, dove la Francia ha storicamente mantenuto posizioni forti. Con l’indebolimento geopolitico generale delle principali potenze europee, questa presa di distanza in Africa è un segnale di autodeterminazione strategica piuttosto che una semplice posizione di contrattazione.Questa “presa di distanza” può irritare la Russia quando si tratta di Paesi a lei vicini, ma è un tratto intrinseco della condotta della Maggioranza Mondiale. L’influenza della Russia rimane più forte nelle ex repubbliche sovietiche. Esse non vedono come obiettivo strategico la rottura completa con la Russia e il passaggio sotto l’ala dei suoi avversari (con l’eccezione degli attuali governi di Ucraina, Moldavia e in parte Armenia). La probabilità di “cambiare protettore” è più bassa nei Paesi asiatici che hanno posizioni forti nell’economia e nella politica globale; essi perseguono una strategia equilibrata e le loro azioni potrebbero servire da prototipo per la futura politica internazionale.I Paesi dell’America Latina e dei Caraibi (ALC), quasi tutti tradizionalmente legati agli Stati Uniti, si stanno ora concentrando sulla massimizzazione della diversificazione dei loro scambi commerciali e dei contatti economici e, in misura minore, politici. In questo contesto, molti di loro non si oppongono ad avere relazioni con l’Iran. 6 Questo comportamento non è né filo-russo, né filo-cinese, né tantomeno filooccidentale. I Paesi dell’America Latina e dei Caraibi cercano di ottenere una maggiore rappresentanza nelle istituzioni globali, e per questo motivo tendono a mantenere relazioni equilibrate e dinamiche con tutti i centri di potere globali. Anche quelli che hanno espresso esplicito interesse ad aderire ai BRICS (Cuba, Bolivia, Venezuela, Nicaragua hanno presentato domande ufficiali e il presidente della Colombia ha fatto dichiarazioni sull’adesione) non vedono i BRICS come un blocco anti-occidentale. Al contrario, lo considerano un mezzo per accrescere la propria influenza nel mondo e dialogare con l’Occidente su un piano di parità.  Anche se le relazioni commerciali tra l’America Latina e la Russia si sono notevolmente ampliate (20 miliardi di dollari di scambi commerciali hanno lasciato i livelli dell’era sovietica), sono ancora inferiori a quelle dell’America Latina e dei Caraibi con gli Stati Uniti, l’UE o la Cina. I numeri della cooperazione per gli investimenti sono infinitesimali. Pertanto, i legami commerciali giocano un ruolo minore nella decisione dell’America Latina e dei Caraibi di non aderire alle sanzioni rispetto al desiderio di dimostrare una posizione indipendente. I Paesi dell’America Latina e dei Caraibi non sono desiderosi di passare ai pagamenti in valuta nazionale nei loro scambi commerciali con la Russia (nel caso del Brasile, ciò non avrebbe senso dal punto di vista economico per la Russia a causa di un significativo squilibrio commerciale), anche s e desiderano abbandonare i pagamenti in dollari USA. Non sono nemmeno propensi a creare istituzioni finanziarie parallele, compresi i sistemi di pagamento. Tuttavia, sono aperti a considerare le transazioni con la Russia in yuan attraverso le banche cinesi. Questo vale soprattutto per i Paesi con il maggior numero di legami commerciali con la Cina.Trasporre il modello delle relazioni dell’ALC con l’Occidente e l’Unione Sovietica al contesto odierno non è possibile per una serie di ragioni. I tradizionali alleati sovietici – la sinistra, in particolare l’ala comunista – sono stati indeboliti politicamente e non sono in grado di diventare una forza politica fondamentale nella maggior parte dei Paesi. Alcuni esponenti della sinistra hanno addirittura posizioni più anti-russe rispetto ai politici di centro e di destra (soprattutto la nuova sinistra in Cile, Argentina e Perù). Anche Cuba è scettica: pur continuando a perseguire le sue tradizionali politiche anti-imperialiste, non vede la Russia come uno Stato anti-imperialista. Nicaragua e Venezuela, che a prima vista potrebbero sembrare gli alleati più affidabili, sono politicamente instabili. Inoltre, sono alla ricerca di modi pragmatici per coesistere con gli Stati Uniti e solo la posizione ostinata e rigida adottata dai falchi di Washington impedisce loro di avviare colloqui seri.
Confini della maggioranza mondiale

L’elaborazione del fenomeno della Maggioranza Mondiale e lo studio dei fattori chiave che stanno alla base della condotta e dello sviluppo dei Paesi che compongono questo gruppo, nonché le potenziali conseguenze delle loro decisioni e azioni e il loro impatto sugli interessi di Russia,Cina e l’Occidente, è ai primi passi. È ancora impossibile definire con precisione i confini dell’indipendenza dei Paesi della Maggioranza Mondiale, poiché questi confini sono fluidi a causa dell’eterogeneità del gruppo e dipendono da circostanze specifiche e dalle dinamiche dell’equilibrio di potere tra le principali potenze globali. È anche troppo presto per dire come il loro comportamento influenzerà la posizione unica dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nelle questioni di sicurezza internazionale.La maggioranza mondiale sta gradualmente acquisendo una voce propria. I Paesi del G5 hanno concordato che l’Africa e l’India diventeranno membri permanenti quando il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sarà riformato. Molto probabilmente, l’Unione Africana (UA) sarà il rappresentante permanente dell’Africa e un Paese africano che presiede l’UA in un determinato anno la rappresenterà nel Consiglio di Sicurezza.Quasi tutti i Paesi della Maggioranza Mondiale sostengono con forza l’abolizione del diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e la concessione all’Assemblea Generale del diritto di decidere su questioni di guerra e di pace, ogni volta che il Consiglio di Sicurezza si trova in una situazione di stallo. Ciò rappresenta una sfida significativa agli interessi dei membri permanenti. Inoltre, quasi tutti i Paesi della Maggioranza Mondiale sono firmatari del Trattato sulla proibizione delle armi nucleari e si oppongono allo sviluppo, alla sperimentazione, alla produzione, allo stoccaggio, al dispiegamento, al trasferimento e all’uso di armi nucleari.A lungo termine, è improbabile che questo grande gruppo di Paesi si unisca in massa alle alleanze esistenti che possono livellare i loro interessi o si sforzi di creare le proprie istituzioni internazionali o associazioni regionali. Hanno avuto (e continuano ad avere) esperienze di questo tipo che non hanno portato a successi eclatanti. La questione riguarda l’ASEAN, un progetto complessivamente riuscito, che attualmente si trova ad affrontare serie sfide, dovendo decidere del proprio futuro.La Maggioranza Mondiale rimarrà un fenomeno comportamentale distintivo. Nel lungo periodo, questi Paesi, che rappresentano un’area di competizione aperta, continueranno a mantenere la loro indipendenza nella definizione delle politiche e ad evitare la “scelta strategica” a favore di una particolare grande potenza o di un gruppo di potenze.La proiezione del futuro ordine internazionale tenendo conto del fenomeno della maggioranza mondiale può apparire come segue. Il nuovo ordine mondiale manterrà un nucleo rigido sotto forma di grandi Paesi con le maggiori capacità militari e relazioni speciali tra di l o r o , che combinerà competizione e bilanciamento a livello di minacce. Tuttavia, il controllo di queste potenze su tutti gli altri si allenterebbe, permettendo alla Maggioranza Mondiale di guadagnare stabilità e livelli di influenza commisurati. Questo scenario più probabile non implica un crollo completo, e tanto meno repentino, dello status dell’Occidente (Stati Uniti ed Europa in via di indebolimento), della Russia o della Cina. Tuttavia, il baluardo della struttura del sistema internazionale risalente all’ordine imperiale europeo, alla guerra fredda o al mondo unipolare si sgretolerà gradualmente e a un certo punto diventerà irrecuperabile.

I contorni della politica russa

Un’analisi preliminare della natura, delle motivazioni e del comportamento di un ampio gruppo di Paesi che in Russia sono diventati noti come la Maggioranza Mondiale permette di formulare diverse conclusioni/ipotesi/raccomandazioni su quali principi potrebbero, in futuro, costituire la base della politica russa nella sua interazione con questo gruppo.

1. La Russia non sta cercando di riunire una comunità così eterogenea attorno a un unico obiettivo che sia sostenuto da tutti i suoi partecipanti a livello concettuale e pratico. I Paesi della Maggioranza Mondiale hanno effettivamente l’obiettivo di creare un ordine internazionale più equo, ma potrebbe mancare una forza che li consolidi per condurre una lotta sistematica e strutturata. È meglio operare sulla base della premessa che le decisioni della Russia a livello bilaterale dovrebbero essere correlate al tipo di giustizia che il Paese partner sta cercando per sé e per i propri interessi.

2. L’interazione con la Maggioranza Mondiale prevede un insieme di relazioni bilaterali flessibili e dinamiche di diversa intensità. La Russia deve prepararsi a situazioni che non troverà del tutto confortevoli. Le azioni dei Paesi della Maggioranza Mondiale possono essere dettate da motivazioni diverse, condite da interessi nazionali di sopravvivenza e sviluppo. Ciò porta i requisiti per gli studi sui Paesi in Russia, compresa la formazione e l’aggiornamento del corpo diplomatico e degli specialisti del settore di altre agenzie, a un livello completamente nuovo. È necessario avere una comprensione dettagliata dei punti di forza e di debolezza di tutti i Paesi della Maggioranza Mondiale.

3. L’approccio multilaterale, anche a livello regionale, rimane importante, anche se su scala minore rispetto al passato. In un contesto di tensioni globali, i Paesi prendono sempre più spesso le decisioni in base ai propri interessi nazionali piuttosto che agli impegni assunti durante i forum o nell’ambito di associazioni. Tutti i formati multilaterali creati in passato, senza eccezione, stanno attraversando un periodo difficile, anche quelli di successo come l’ASEAN. La politica russa nei confronti della Maggioranza Mondiale dovrebbe essere volta ad appoggiare tutte le iniziative avanzate dai Paesi amici che non siano dannose per i suoi interessi.

4. L’adesione completa o dominante agli interessi e alle preferenze tattiche delle grandi potenze da parte dei Paesi medi e piccoli appartiene al passato. Tali pratiche sono sempre più localizzate all’interno della comunità dei Paesi occidentali uniti da interessi comuni in relazione al mondo esterno. Di conseguenza, è assolutamente da escludere, a livello di retorica politica, l’invito ad altri Paesi ad assumere la posizione di seguaci nei confronti della Russia. Il tentativo di inserirli nei propri schemi geopolitici speculativi sarebbe un errore.

5. L’area più importante di interazione con la maggioranza mondiale comprende la diffusione del discorso che la Russia ritiene corretto. La competizione delle idee ha lo stesso significato della competizione delle capacità economiche e militari. Pertanto, è importante che la Russia sia pienamente consapevole delle proprie risorse limitate e che partecipi attivamente alla discussione degli esperti internazionali. È inoltre importante che la Russia promuova le proprie categorie di comprensione della realtà politica e si sforzi di non seguire la semplice strada dell’assimilazione e dell’utilizzo dei costrutti creati dagli avversari occidentali della Russia, che ha sempre seguito. Senza dubbio, tutto ciò deve essere incentrato sul fatto che la Russia vede i suoi partner nel processo di evoluzione dinamica dei propri interessi e vincoli.

1 Vedi Караганов С.А. От не-Запада к Мировому большинству // Россия в глобальной политике. 2022. Т. 20.No. 5. С. 6-18. URL: https://globalaffairs.ru/articles/ot-ne-sapada-k-bolshinstvu/ (visitato il 11.09.2024).2 Тренин Д. В., Крамаренко А. М.Политика России в отношении Мирового большинства. Доклад под ред.С.А. Караганова // Национальный исследовательский университет “Высшая школа экономики”. 2023. URL:https://publications.hse.ru/books/885860684(visitato il 11.09.2024).3 Косачев: В 2023 году появилось отвергающе однополярную модель мировоеб о л ь ш и н с т в о / / Р о с с и й – ская газета. 26.12.2023. URL: https://rg.ru/2023/12/26/kosachev-v-2023-godu-poiavilos-otvergaiushchee- odnopoliarnuiu-model-mirovoe-bolshinstvo.html(visitato il 11.09.2024).

4 Naturalmente, tranne che per il Myanmar, che con il regime odierno – dopo un militare nel 2021 – è esso stesso aiferri corti con l’Occidente.

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Timofei BordachevDirettore del programma del Valdai Discussion Club; Supervisore accademico del Center for Comprehensive European and International Studies dell’Università HSE. Autore principale e redattore del rapportoDenis DegterevProfessore presso la Facoltà di Economia Mondiale e Affari Internazionali dell’Università HSEVictor JeifetsProfessore della RAS, direttore del Centro di studi iberoamericani dell’Università statale di San PietroburgoYevgeny KanaevProfessore presso la Facoltà di Economia Mondiale e Affari Internazionali dell’Università HSEVasily KashinDirettore del Centro di studi europei e internazionali completi dell’Università HSEAlexander KorolevVicedirettore del Centro di Studi Europei e Internazionali Complessivi dell’Università HSEAlexei KupriyanovCapo del Centro per la regione dell’IIndo-Pacifico, Istituto di economia mondiale e relazioni internazionali della RAS (IMEMO)Mayya NikolskayaDirettore facente funzioni del Centro di studi africani dell’Istituto di studi internazionali (IMI) dell’Università MGIMODmitry RozentalDirettore dell’Istituto di America Latina della RASIvan SafranchukProfessore presso il Dipartimento di Relazioni Internazionali e Politica Estera della Russia,Direttore del Centro di Studi Eurasiatici dell’Istituto di Studi Internazionali dell’Università MGIMO (IMI)Nikolai SurkovProfessore associato presso il Dipartimento di Studi Orientali dell’Università MGIMODmitry SuslovVicedirettore del Centro di studi europei e internazionali completi dell’Università HSE

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La crisi ucraina e i cicli di relazioni tra Russia e Occidente, di Andrey Sushentso

 La mancanza di dialogo tra Stati Uniti e Russia non ci permette di sollevare la questione di risolvere il nostro confronto con mezzi diplomatici. I nostri Paesi si scambiano colpi sul campo di battaglia, anche se gli Stati Uniti utilizzano uno strumento indiretto – l’Ucraina.

L’efficacia delle azioni della Russia nel raggiungere gli obiettivi della sua operazione militare speciale confonde e sbilancia i suoi avversari. Il terrore, a cui l’Ucraina ricorre sempre più spesso, è un’arma del regime debole, a dimostrazione del fatto che sia i curatori occidentali dell’Ucraina che lo stesso governo di Kiev hanno perso fiducia nella loro capacità di sconfiggere la Russia.

Anche l’Occidente sta ricevendo colpi dolorosi. Con l’evolversi della crisi ucraina, i media occidentali pubblicano costantemente necrologi di militari occidentali di alto livello morti in circostanze poco chiare. Il confronto della Russia con l’Occidente in Ucraina è indiretto, non diretto: non c’è uno stato di guerra tra noi e manteniamo relazioni diplomatiche. Questa forma di confronto indiretto è conveniente per molti, ma non esclude la risoluzione dei nostri problemi e riguarda anche gli specialisti occidentali che sono dislocati nel teatro delle operazioni militari. Per l’establishment militare, politico e strategico dei Paesi occidentali, queste perdite sono piuttosto sensibili.

La rivalità tra Russia e Stati Uniti sopravviverà alla crisi ucraina. Si tratta di una rivalità strutturale e a lungo termine che osserveremo, almeno, nella prima metà del XXI secolo. Tuttavia, non dobbiamo aspettarci una rapida risoluzione della crisi in Ucraina, perché il governo di Kiev non agisce nell’interesse dello Stato, ma si offre come strumento della strategia occidentale nei confronti della Russia. Kiev si vede come parte integrante di un grande consorzio di Stati ostili alla Russia e si presenta come una squadra di mercenari, pronta a sacrificarsi per gli interessi dell’Occidente, a sopportare costi per risolvere problemi comuni. Nessuno di questi compiti è positivo per l’Ucraina, non contribuisce alla sua prosperità o crescita economica, né alla conservazione e all’aumento della sua popolazione. Analizza completamente le sue prospettive di sviluppo in qualsiasi ambito e crea un vicolo cieco strategico per lo sviluppo di questo territorio come Stato indipendente. Il prolungamento della crisi aggrava ulteriormente la situazione e porterà allo spopolamento del Paese e all’impossibilità di gestirlo.

A quanto pare, queste circostanze sono il motivo per cui il tono della discussione a Kiev è cambiato: si solleva la questione dei negoziati, si esprimono tesi più razionali negli incontri con i leader stranieri. È possibile che questa linea sia dovuta alla necessità di evitare che la situazione sfugga al controllo e che l’Ucraina capitoli. Ora Kiev deve sostenere due eserciti: uno è coinvolto nelle operazioni militari e il secondo mantiene una stretta sorveglianza all’interno del Paese e sul confine occidentale. La perdita di controllo sulla situazione, l’imminente inverno freddo e la disorganizzazione dei sistemi di riscaldamento e di elettrificazione in tutto il Paese, nonché la sensazione di una crisi crescente, stanno costringendo il governo di Kiev a rendersi conto che gli Stati Uniti potrebbero prendere una decisione che non sarà affatto in linea con gli interessi dell’Ucraina. In un rapporto della Rand Corporation dell’inizio del 2023, gli analisti americani hanno indicato il momento in cui gli interessi statunitensi potrebbero divergere da quelli ucraini, e ammetto che Kiev ha finalmente letto questo documento.

Il conflitto tra Russia e Occidente è ciclico. Lo abbiamo osservato in diversi momenti della storia e in diverse dimensioni. Molti generali britannici e francesi, così come alcune figure politiche, in conversazioni private e in pubblicazioni, hanno paragonato la crisi attuale alla reincarnazione della guerra di Crimea. Secondo loro, ciò ha permesso di limitare l’influenza della Russia in Europa per 20 anni, di imporle condizioni di pace scomode e di contribuire allo spostamento del “fattore russo” che ha dominato l’Europa nella prima metà del XIX secolo. La Russia sconfisse Napoleone, lasciò la capitale francese senza chiedere un contributo significativo, mantenne l’ordine in Europa per circa un decennio e fu garante dello status quo, presidente della Santa Alleanza – un’organizzazione che all’epoca contribuì a preservare i regimi monarchici in Europa e a prevenire le rivoluzioni. L’Occidente faticava a perdonare la significativa partecipazione della Russia agli affari europei e, con una certa vendicatività, cercava un pretesto per sconfiggerla.

Le nostre relazioni con l’Occidente non sono prive di un’importante componente psicologica: l’Occidente vede nella Russia il suo “altro significativo”, cioè proietta tutte le cose negative di sé su un soggetto esterno. Di conseguenza, si forma una caricatura che non ha nulla a che fare con la realtà, che le persone sobrie in Occidente comprendono molto bene. Questa immagine è alla ricerca di una qualche soluzione sotto forma di vittoria, su cui ancora contano.

Vediamo che la nuova composizione dei leader della Commissione europea è una “squadra d’attacco”, non una squadra di negoziatori, che sta investendo in un altro ciclo di 4-5 anni di continuazione di questa crisi. Anche i Paesi dell’Europa occidentale non hanno un impulso significativo a cercare la riconciliazione con la Russia. In primo luogo, contano ancora sul fatto che la vittoria può essere ritardata, ma è raggiungibile. In secondo luogo, stanno sfruttando questa opportunità per consolidare l’Europa in chiave anti-russa. Il confronto con la Russia, il tentativo di sconfiggerla, la punizione per l’invasione di interessi autonomi, indipendenti dall’Occidente, riecheggiano gli eventi di 150 anni fa. I nostri cicli relazionali contengono periodi di guerra, conflitto e crisi, così come periodi di coesistenza pacifica.

Negli ultimi anni abbiamo osservato un crescente avvicinamento tra la Russia e l’Iran in diversi ambiti – politico, geostrategico, militare, economico, commerciale e dei trasporti. Il riavvicinamento non è notevole solo a livello retorico, ma si esprime anche in passi concreti. Tuttavia, vediamo che una serie di visite di delegazioni russe a Teheran ha prodotto risultati limitati. A cosa può essere collegato questo? Come si può spiegare la distanza che ancora esiste tra i due Paesi?

Il distacco reciproco è a volte un ostacolo più significativo allo sviluppo delle relazioni rispetto alla presenza di contraddizioni o conflitti profondi. Prendiamo l’esempio dello sviluppo delle relazioni russo-cinesi negli ultimi tre decenni. L’attuale fase delle relazioni tra Russia e Cina è essenzialmente senza precedenti, secondo i leader dei due Paesi, così come gli attori coinvolti nello sviluppo di queste relazioni, la comunità imprenditoriale e gli oppositori di Russia e Cina. Vorrei ricordare che queste relazioni si sono sviluppate a partire da uno stato di crisi: non si trattava semplicemente di un distacco tra i Paesi, ma di un’aperta ostilità, che era sfociata in un conflitto armato. Tuttavia, a partire dalla fine degli anni Ottanta, i due Paesi hanno deciso di rivedere le loro relazioni e di cercare modi per portarle a un nuovo livello. Ciò ha portato a una serie di negoziati che hanno permesso di formulare i principi fondamentali delle relazioni bilaterali e di sviluppare una visione comune russo-cinese dello sviluppo dell’intero sistema internazionale. Un elenco di questi principi è stato registrato nella dichiarazione congiunta russo-cinese su un mondo multipolare e la formazione di un nuovo ordine mondiale nel 1997. Una disposizione importante di questo documento era il consenso sui principi fondamentali, che si basavano sul fatto che i Paesi riconoscevano la sovranità reciproca. Si impegnavano a non interferire negli affari interni e a rispettare gli interessi reciproci. Per la metà degli anni Novanta, questa posizione rappresentava una svolta, poiché era completamente diversa dal pensiero predominante dell’epoca. In particolare, si sottolineava che le differenze nei sistemi sociali e politici non sono un ostacolo allo sviluppo di relazioni internazionali a tutti gli effetti. A questo quadro politico nazionale sono stati annessi due importanti processi politici: in primo luogo, i negoziati per risolvere le rivendicazioni territoriali; in secondo luogo, la fornitura di garanzie bilaterali di sicurezza agli Stati cuscinetto, ossia ai Paesi che si trovano tra la Russia e la Cina. Lo vediamo ora nell’interazione russo-cinese riguardo alla Mongolia e ai Paesi dell’Asia centrale.
Né i cicli elettorali di questi Paesi, né le brusche svolte nella loro vita politica interna li hanno trasformati in un’arena in cui si potrebbe giocare uno scontro tra gli interessi cinesi e quelli russi, a differenza di quanto sta accadendo in Europa orientale.
Il distacco nelle relazioni russo-iraniane è diverso dall’ostilità iniziale tra Russia e Cina, che alla fine è stata superata. Siamo consapevoli che non si tratta di un rapporto di fiducia incondizionata: La Cina ha i propri interessi in diverse parti del mondo, anche nella crisi ucraina e in relazione agli eventi che si verificano in Medio Oriente. Così, Pechino è interessata alla libertà di navigazione nel Mar Rosso e critica gli attacchi alle navi commerciali in questa regione. Non c’è un’unità assoluta di interessi, ma c’è comunque un alto livello di correlazione. Il riavvicinamento russo-cinese si è anche sovrapposto alla formazione di un nuovo modello economico all’interno della Cina, orientato al mercato globale. La Cina è diventata un potente centro industriale, dove sono state localizzate le capacità produttive di grandi potenze, soprattutto occidentali, ma anche di alcune orientali. Questo ha portato la Cina nell’economia globale e ha contribuito alla sua affermazione come importante partner degli Stati Uniti in termini di commercio e istituzioni finanziarie. L’attuale dilemma cinese è che le politiche strategiche di Stati Uniti e Cina sono ora in completa opposizione e gli eventi li rendono inevitabilmente avversari, indipendentemente dalle loro intenzioni. Sono oggettivamente rivali strutturali l’uno dell’altro.

Questa circostanza è comune a Cina, Iran e Russia, poiché le condizioni strutturali ci accomunano nella valutazione del contesto internazionale. Il paradosso della situazione è che Russia, Iran e Cina sono Stati autosufficienti, in grado di operare autonomamente, contando sulle proprie forze, senza sentire il bisogno di schiacciare e sconfiggere gli avversari. Da questo punto di vista, l’esperienza dell’Iran, che ha subito la pressione delle sanzioni per diversi decenni, è unica. I suoi risultati includono lo sviluppo di un sistema di governo, di economia, di medicina e di istruzione indipendente, originale ed efficace, importanti conquiste tecnologiche e il lancio di un programma spaziale indipendente. Teheran ha fatto tutto questo senza fare affidamento su alcun aiuto esterno.
Esercitazione navale Iran-Russia-Cina: Un altro tassello del puzzle geopolitico
Abas Aslani
C’è un punto in cui l’Iran, la Russia e la Cina si trovano d’accordo nel tenere la manovra, ovvero l’invio di un messaggio al loro comune avversario o rivale, ovvero gli Stati Uniti. Gli Stati Uniti, in un certo senso, hanno applicato una triplice politica di contenimento nei confronti di Cina, Russia e Iran. Ciò sarebbe sufficiente per unire questi tre Paesi su alcuni fronti.

Opinioni



Cosa unisce Russia, Iran e Cina? Non abbiamo la necessità di ottenere la completa sconfitta dei nostri avversari, a differenza dei Paesi occidentali che mantengono la prospettiva opposta. Perché il processo oggettivo di formazione del policentrismo è così pericoloso per gli Stati Uniti? Perché si tratta di un processo agevole di allineamento del PIL nominale dei Paesi del mondo all’equilibrio del potere finanziario ed economico nel mondo: il mercato azionario americano è più grande del 187% del PIL nazionale, mentre i mercati azionari degli altri Paesi rappresentano circa il 40-50% del loro PIL. In altre parole, una volta riequilibrata, la situazione comporterà un’enorme ridistribuzione del potere finanziario ed economico dagli Stati Uniti e dai Paesi occidentali. Questo accadrà indipendentemente dalla presenza o meno di una crisi militare: l’economia globale si sta adattando e questo accadrà inevitabilmente.

Un fattore importante che continua a sostenere le risorse e l’unità dell’Occidente è che la comunità occidentale, incentrata sugli Stati Uniti, si basa su un unico quadro normativo che ha avuto la sua genesi nel protestantesimo cristiano e nell’etica degli affari che ha dato origine. Questa etica è stata universalmente adottata dalla maggior parte dei principali Stati occidentali ed è ora percepita come un modo uniforme di agire all’interno di questa grande comunità. Attualmente non esiste un metodo d’azione uniforme nella comunità dei BRICS, negli Stati non occidentali e nelle relazioni tra Russia, Iran e Cina. Credo che un compito importante in questa fase sia quello di avviare un dibattito su cosa potrebbe comportare un quadro normativo unificato e se sia possibile.

Durante le mie visite a Teheran, mi sono più volte scontrato con il concetto che l’economia deve sempre cedere il passo alla sovranità e alla dignità umana. Gli esperti che osservano le file delle delegazioni russe dirette a Teheran, notano che tale interazione non ha molto effetto. Il processo di comunicazione con gli interlocutori iraniani non dovrebbe essere orientato agli obiettivi: dovrebbe creare un’atmosfera di fiducia, rispetto reciproco e riconoscimento della dignità del partner prima di passare alla discussione di questioni legate al raggiungimento di un obiettivo comune. In questo senso, le nostre pratiche di interazione e le nostre culture aziendali differiscono. È necessario creare piattaforme in cui si creino le condizioni per la conoscenza reciproca, e solo dopo aver conosciuto l’esperienza delle reciproche civiltà e averne riconosciuto l’unicità, si può passare a discutere di argomenti che potrebbero essere di natura propositiva: ad esempio, la costruzione di una centrale nucleare, la realizzazione del corridoio di trasporto Nord-Sud, l’approfondimento della cooperazione tecnico-militare, la formazione di un sistema finanziario non soggetto a sanzioni, le questioni riguardanti il Mar Caspio, ecc.

Questo approccio può sembrare paradossale e più innovativo di quello che è considerato la norma nei Paesi occidentali. La formazione della fiducia è essenzialmente la fiducia nella garanzia finanziaria di un prestito o di una transazione, poiché questa è la base dell’interazione nell’etica protestante; le basi materiali nel sistema occidentale sono molto significative. Quale potrebbe essere la base immateriale della fiducia nelle relazioni tra Russia e Iran? Si tratta di una domanda molto sottile e profonda che riguarda le relazioni tra potenze che hanno un proprio percorso di civiltà. Credo che trovare la risposta a questa domanda chiave ci permetterà di muoverci più rapidamente verso l’instaurazione di relazioni russo-iraniane

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La Russia ha ridefinito la sua strategia per l’Asia. Ecco come funzionerà, di Timofey Bordachev

La Russia ha ridefinito la sua strategia per l’Asia. Ecco come funzionerà

Mosca non è interessata a fare da semplice spettatrice nel conflitto tra Cina e Stati Uniti. Quindi, si sta espandendo.
Russia has redefined its Asia strategy. Here’s how it will work

Il modo più sbagliato di sviluppare la politica russa in Asia sarebbe quello di concentrarla sull’interazione con le istituzioni e le piattaforme regionali, “cimiteri fraterni” dove l’espressione individuale si perde nella necessità di trovare un denominatore comune. Ciò è tanto più vero ora che queste istituzioni sono diventate arene di confronto tra Cina e Stati Uniti, che non si limitano a utilizzarle esclusivamente nell’interesse della propria lotta. In precedenza erano solo gli americani a farlo, rendendo la maggior parte delle piattaforme regionali prive di significato come le conferenze internazionali. Ora la Cina si è aggiunta e sta spingendo la propria agenda. Di conseguenza, lo spazio per un’interazione positiva all’interno di entità come l’APEC o il Vertice dell’Asia orientale (EAS) – che fino a pochi anni fa erano considerate importanti per promuovere gli interessi russi in Asia – si sta riducendo. Pertanto, la strategia più promettente per la Russia in Asia oggi è quella di concentrarsi sul dialogo con i singoli Paesi della regione, tenendo conto dei loro interessi e dei propri.

Fin dall’inizio, il perno della Russia verso Oriente è stato visto come un progetto volto non solo ad aumentare il volume delle relazioni commerciali ed economiche con gli Stati asiatici, ma anche importante per la presenza politica di Mosca in questa regione. Va ricordato che il processo è iniziato in un’epoca storica fondamentalmente diversa, quando il mondo continuava a vivere secondo le regole della globalizzazione, create sotto la guida dei Paesi occidentali e principalmente nel loro interesse. Ora, la situazione in Asia e dintorni è cambiata in modo significativo.

In primo luogo, lo stesso spazio di apertura economica globale si sta gradualmente erodendo sotto la pressione della politica di sanzioni dell’Occidente contro la Cina e la Russia.

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In secondo luogo, nel contesto di una serie di gravi crisi militari e politiche che coinvolgono le principali potenze, viene messa in discussione la sostenibilità delle istituzioni internazionali che negli ultimi anni hanno agito come principali agenti della globalizzazione politica.

In terzo luogo, i processi multidirezionali stanno prendendo slancio nella stessa Asia a causa dell’intensificarsi delle contraddizioni sino-americane e della posizione rischiosa delle potenze regionali in queste condizioni.

Infine, negli ultimi anni la Russia stessa ha riorientato in modo significativo le sue relazioni economiche estere verso l’Asia. Ciò è stato stimolato dal conflitto con l’Occidente e dalla pressione delle sue sanzioni, mentre quasi tutti i Paesi asiatici rimangono amichevoli nei confronti della Russia.

Ciò significa che ora, quasi quindici anni dopo che il pivot to the East ha iniziato a prendere forma come componente importante della politica estera russa, è giunto il momento di esaminare criticamente i suoi vari aspetti dottrinali. In ogni caso, la politica russa in Asia non è rimasta invariata rispetto ai tempi in cui la situazione generale del mondo era molto diversa. E alcune disposizioni di questa politica devono essere sostanzialmente chiarite. Innanzitutto, per quanto riguarda i formati della presenza politica in Asia e l’instaurazione di un dialogo con i singoli Stati asiatici. Le recenti visite del Presidente russo in Corea del Nord e in Vietnam non fanno che confermare che la nostra strategia in Asia è sempre più incentrata sul dialogo con i singoli Stati. Ciò non preclude l’attenzione ai grandi formati internazionali. Ma questi non possono più servire come piattaforme primarie per promuovere gli interessi russi.

In entrambi i casi, l’intensificazione del dialogo è un segno dell’alto livello di fiducia tra la Russia e il suo principale partner in Asia, la Cina.

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Per Pechino, tutta l’Asia è un’area in cui la sua influenza culturale è stata dominante per secoli, se non millenni. È la cultura cinese, compresa la sua tradizione politica, ad aver plasmato le basi filosofiche della statualità dei Paesi, anche se le loro relazioni con la Cina non sono state prive di conflitti. Tuttavia, Pechino non è alleata con nessuno dei suoi vicini immediati e molti di loro sono preoccupati per il suo crescente potere. Un altro fattore preoccupante per i Paesi asiatici, che anche i cinesi comprendono, è il crescente conflitto tra Pechino e Washington. Per diversi decenni, quasi tutti i Paesi del Sud-Est asiatico hanno beneficiato della globalizzazione guidata dalla cooperazione sino-americana. Ora la situazione sta cambiando.

Si può ipotizzare che la Cina sia consapevole che un rafforzamento unilaterale della propria posizione nella regione potrebbe portare a un ulteriore avvicinamento tra Stati come il Vietnam e gli Stati Uniti. Questo sarebbe un fattore destabilizzante. La Corea del Nord è un caso diverso, ovviamente. Ma anche in questo caso le opzioni di Pechino sono fortemente limitate. Sebbene il confronto con Washington sia un processo irreversibile e oggettivo, la Cina vuole renderlo il più pacifico possibile. La Russia, invece, è molto più libera nelle sue azioni, come confermano i risultati della visita di Vladimir Putin a Pyongyang. La Cina sembra capire che il problema dell’isolamento della Corea del Nord deve essere risolto in un modo o nell’altro. Ma per ragioni proprie non è disposta a farlo direttamente. Allo stesso tempo, l’impegno e la partnership della Russia con Pyongyang non possono rappresentare una minaccia per gli interessi e la sicurezza di Pechino. Questa è la natura delle relazioni tra Russia e Cina.

Nel caso del Vietnam, il lavoro della diplomazia russa è anche legato al desiderio dei Paesi asiatici di bilanciare l’influenza della Cina e la pressione degli Stati Uniti. Le autorità vietnamite non nascondono che Washington è per loro un partner prioritario nel commercio, nella tecnologia e negli investimenti. E lo sviluppo dei legami politici tra i due Paesi rende chiaro a Pechino che il Vietnam, come l’India, non può considerarsi parte della sfera d’influenza cinese. Allo stesso tempo, anche gli Stati Uniti sembrano rendersi conto che nessuno in Vietnam diventerà un alleato incondizionato di Washington nel confronto con il potente vicino. Questo contraddice in generale la logica del comportamento delle maggiori potenze mondiali, tra le quali il Vietnam occupa un posto di rilievo.

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In questo caso, il rafforzamento dei legami con la Russia diventa l’alternativa più appropriata all’indesiderata scelta tra Cina e Stati Uniti.

Sarebbe certamente un po’ troppo sicuro di sé pensare che la Russia possa sostituire uno dei maggiori partner commerciali ed economici del Vietnam. Ma è un amico indipendente e affidabile in settori importanti come l’energia e il commercio alimentare. La questione della concorrenza con l’UE non si pone nemmeno in questo caso: negli ultimi anni le potenze dell’Europa occidentale hanno pienamente confermato la loro posizione di alleati minori degli Stati Uniti, senza alcun valore geopolitico proprio.

In sintesi, la politica russa in Asia è entrata nella fase successiva del suo sviluppo. Non si basa più sulle idee del passato, quando la cosa più importante era “illuminare” il maggior numero possibile di piattaforme e forum internazionali. Tale illuminazione ha ottenuto ben poco prima – il diritto di essere uno spettatore nel conflitto sino-americano – e ora è diventata completamente priva di significato. Ma il rafforzamento delle relazioni a livello bilaterale è un compito faticoso per i diplomatici e le imprese, e di scarso interesse per l’opinione pubblica e i media. Nei prossimi anni, quindi, il lavoro di avvicinamento agli Stati asiatici sembrerà un processo senza intoppi, ma dietro le quinte ci sarà molto da lavorare.

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Russia, Grande Eurasia e politica internazionale moderna, di Timofei Bordachev

Russia, Grande Eurasia e politica internazionale moderna
07.02.2024
Timofei Bordachev
© Sputnik/Alexei Maishev
I responsabili politici russi sembrano partire dal presupposto che l’interazione del Paese con i suoi partner più importanti, in termini di sviluppo e stabilità in Eurasia, non possa dipendere dalle dinamiche del conflitto tra Russia e Occidente.

I compiti attuali di Mosca per raggiungere i suoi obiettivi di sviluppo includono: rafforzare i legami economici naturali con i suoi vicini più vicini, prevenire le minacce dei movimenti religiosi radicali, stabilizzare i legami con i suoi vicini meridionali, sviluppare partnership economiche con la Cina, l’India e altri Paesi della Maggioranza Mondiale, e rafforzare nuove associazioni internazionali in Eurasia e oltre. Questi aspetti non sono meno importanti dell’esito del confronto con l’Occidente. Inoltre, tutte queste iniziative sono state sviluppate come iniziative di politica estera nazionale molto prima dell’escalation del conflitto con gli Stati Uniti e l’Europa, sebbene abbiano ricevuto un nuovo impulso dai cambiamenti ad esso associati. Inoltre, sarebbe sbagliato pensare che se questo impulso venisse meno, cambierebbero anche le attuali priorità delle relazioni estere della Russia.

A questo proposito, è ora estremamente importante per la Russia costruire una strategia in Eurasia e oltre, indipendentemente dalla rapidità con cui verranno raggiunti gli obiettivi dell’Operazione militare speciale in Ucraina e gli obiettivi generali nel campo della sicurezza europea formulati ufficialmente alla fine del 2021. L’espansione dei BRICS sta già diventando il compito più importante della Russia, che quest’anno presiede l’associazione. L’agenda della Grande Eurasia è formata dal rafforzamento dei meccanismi di cooperazione all’interno dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), dalla massimizzazione delle opportunità insite nella natura della CSI e dallo sviluppo dell’integrazione economica eurasiatica in nuove condizioni e dell’interazione con i Paesi dell’ASEAN.
In definitiva, la Russia è già al centro di un intero sistema di istituzioni e partenariati internazionali, ognuno dei quali ha un carattere unico inerente al futuro ordine internazionale, non a quello passato.
È importante che la politica estera russa sia altrettanto adattabile alle esigenze che ne derivano e in grado di beneficiare non solo di se stessa, ma anche del futuro dell’Eurasia, come spazio di cooperazione strategica paritaria tra Stati sovrani.

La strategia della Russia per la Grande Eurasia si forma sotto l’influenza di diversi fattori fondamentali. In primo luogo, non può svilupparsi indipendentemente dal modo in cui Mosca vede un nuovo ordine internazionale più equo. Esso si basa sul rispetto del diritto internazionale e sull’uguaglianza sovrana degli Stati, e non consente opportunità esclusive per uno Stato o un gruppo. La Grande Eurasia, per la sua posizione geopolitica, è la base materiale più solida di questo ordine, poiché gli Stati che vi si trovano considerano naturalmente la sicurezza dei loro vicini come parte della propria. Questo non può essere tipico degli Stati Uniti e dell’Europa occidentale, poiché la loro posizione è geograficamente isolata, il che consente la costruzione di linee di divisione e l’attuazione di politiche volte ad alimentare i conflitti al di fuori della ristretta comunità dei Paesi occidentali.

In secondo luogo, la cooperazione nella Grande Eurasia si basa inevitabilmente sulle strutture globali del nuovo ordine internazionale, tra le quali il posto centrale è occupato dai BRICS, la cui espansione è diventata l’evento internazionale più importante del 2023. Durante la sua presidenza del gruppo, la Russia dovrà considerare, nel complesso, le questioni relative allo sviluppo dei BRICS e al rafforzamento della cooperazione internazionale nella Grande Eurasia. La missione strategica generale dei BRICS – rafforzare la sovranità dei Paesi del mondo e aumentare il grado di democrazia nella politica internazionale – riflette gli obiettivi dell’interazione nelle organizzazioni e istituzioni eurasiatiche. Allo stesso tempo, la diplomazia russa terrà apparentemente conto delle restrizioni esistenti in alcuni nuovi Paesi BRICS, così come negli Stati eurasiatici in relazione alle loro relazioni con i Paesi occidentali. Non tutti i partecipanti alla cooperazione regionale sono grandi e potenti potenze immuni alle pressioni degli Stati Uniti e dell’Europa. A questa vulnerabilità contribuisce in parte l’eredità della transizione dal modello economico sovietico a quello di mercato, durante la quale alcuni Paesi della CSI hanno sviluppato legami speciali e una dipendenza dall’Occidente.

In terzo luogo, il movimento della Grande Eurasia verso una più intensa integrità interna non può e non potrà mai essere portato avanti nel quadro del modello di leadership caratteristico di tutte le istituzioni internazionali del passato. Nella Grande Eurasia si trovano tre delle quattro potenze più importanti del mondo moderno: Russia, India e Cina, ognuna delle quali bilancia le altre, il che è una garanzia contro la formazione di un modello di relazioni diseguali. Purtroppo, la natura della politica internazionale è tale che i grandi Stati cercano inevitabilmente di “nazionalizzare” le istituzioni comuni e i meccanismi di governance a livello globale e regionale in modo da riflettere i propri interessi. Possiamo contare solo su un equilibrio tra di loro, che rende impossibile per una sola potenza ottenere la leadership. Nella Grande Eurasia, tale equilibrio è abbastanza convincente, il che dovrebbe rassicurare i Paesi medi e piccoli sul fatto che la loro politica estera non sarà dettata da un grande attore e che non ci sono alternative. Finora, molti dei Paesi medi e piccoli dell’Eurasia si sono rivolti anche a potenze esterne, come gli Stati Uniti, per sottolineare la loro indipendenza nelle relazioni con i grandi vicini. Tuttavia, man mano che le risorse dell’Occidente si esauriscono e la regione si orienta verso un comportamento più egoistico, tale strategia diventerà sempre meno pragmatica. La politica russa nella Grande Eurasia, tuttavia, potrà sempre tenere conto della diversità di interessi e valori dei partner regionali, fare affidamento sulla loro sovranità e procedere dal fatto che il diritto a decisioni indipendenti è il valore principale di quella che chiamiamo la Maggioranza Mondiale.

Infine, un lavoro accurato sulla “interconnessione” pratica delle diverse forme di interazione istituzionale e informale tra i Paesi della regione rimarrà importante per la politica russa nella Grande Eurasia. Grazie alla sua posizione geografica, la Russia è presente nella maggior parte dei forum e dei formati regionali e la sua esperienza diplomatica comprende vari tipi di cooperazione nel loro ambito. Il processo di cooperazione tra l’Unione Economica Eurasiatica e la Cina, che sta promuovendo l’iniziativa Belt and Road, continua, l’agenda della SCO sta diventando più diversificata e l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva sta occupando la sua nicchia unica. Allo stesso tempo, le altre grandi potenze eurasiatiche – Cina e India – non hanno il potenziale per creare associazioni di integrazione paragonabili per grado di apertura reciproca all’UEEA. Si tratta di Paesi che, con poche eccezioni, non hanno alleati formali: sono i “pianeti solitari” della politica mondiale. Questo può essere visto come una sfida, perché significa che non c’è l’abitudine di limitare le proprie capacità, ma può anche essere positivo, perché non porta alla creazione di associazioni di integrazione chiuse o di alleanze strette nella Grande Eurasia. Il compito che sarà inevitabilmente presente nelle attività della diplomazia russa è la “coniugazione” dei propri interessi nazionali e delle dinamiche di sviluppo di forme strutturate di cooperazione internazionale in una regione enorme.

In generale, la ricchezza e la diversità dell’agenda di interazione tra i Paesi della Grande Eurasia crea per la Russia un numero enorme di aree promettenti di politica estera che non dipendono direttamente dalle dinamiche del conflitto in corso con l’Occidente. I successi pratici in questo ambito diventeranno nei prossimi anni un importante incentivo per i Paesi eurasiatici a raggiungere gli obiettivi di sviluppo nazionale e a stabilire un nuovo ordine internazionale in cui non ci sarà posto per la dittatura e la divisione degli Stati in un gruppo privilegiato e una maggioranza sfruttata.

Come la Russia può costruire relazioni con i Paesi amici
24.02.2023
Timofei Bordachev
© Sputnik/Evgeny Biyatov
Prima capiamo che la base del “soft power” è interna, e non nelle attività dei rappresentanti della Russia all’estero, prima saremo in grado di beneficiare dei nostri vantaggi oggettivi, scrive il direttore del programma del Valdai Club Timofei Bordachev.

A un anno dalla trasformazione del conflitto tra la Russia e l’Occidente in un confronto militare per procura, la lezione più importante appresa in termini di conseguenze internazionali di questi sviluppi è che un Paese così grande e potente non può davvero essere isolato in termini di politica estera. È difficile dire con certezza quanto questo sia legato ai meriti e all’attività dello Stato russo stesso, e quanto invece sia semplicemente una conseguenza inevitabile del cambiamento del mondo negli ultimi tre-quattro decenni.

Molto più importante è il risultato: un anno dopo che gli Stati Uniti e i loro alleati hanno annunciato la loro determinazione a limitare seriamente le opportunità di comunicazione internazionale di Mosca, la stragrande maggioranza dei Paesi mantiene rapporti di lavoro stabili con la Russia; commercia e collabora in vari settori.
Nella maggior parte dei casi, i nuovi contatti non sono limitati nemmeno dalle pressioni occidentali sui Paesi terzi, ma dall’impreparazione della Russia stessa a dare seguito a tante opportunità improvvisamente aperte.
Questo è diventato così evidente negli ultimi mesi da essere riconosciuto anche dagli avversari della Russia, per i quali ogni concessione al buon senso convenzionale è un’esperienza profonda e tragica.

Non possiamo ora dire con certezza fino a che punto la Russia stessa sia in grado di rendersi pienamente conto delle nuove caratteristiche della sua posizione internazionale o delle sue vere cause. La comprensione di ciò, a quanto pare, esiste tra i vertici della Russia ed è diventata una delle ragioni della sua fiducia nella ragione, insieme alla convinzione che una nuova fase nelle relazioni con l’Occidente non sia solo inevitabile, ma anche necessaria nel contesto dello sviluppo della civiltà politica della Russia. Tuttavia, a livello di attuazione di una politica specifica da parte dell’apparato statale, delle attività del settore imprenditoriale, delle riflessioni della comunità di esperti o delle attività pratiche delle ONG, dobbiamo ancora lavorare per sviluppare una serie di abitudini importanti e giungere a una comprensione della natura delle relazioni tra la Russia e il mondo esterno.

Innanzitutto, è necessario capire che la nuova qualità delle relazioni con il mondo esterno non può essere considerata nel contesto del conflitto tra Russia e Occidente. Il confronto politico-militare con gli Stati Uniti e i suoi alleati è centrale per garantire la sicurezza nazionale. Tuttavia, le cause specifiche del conflitto sono il risultato di come si sono sviluppate le relazioni tra Russia e Occidente dopo la Guerra Fredda e sono molto indirettamente legate al destino, agli interessi e alle aspirazioni del resto del mondo. Il modo in cui la maggior parte degli Stati si è comportata nei confronti della Russia è una conseguenza del proprio sviluppo e dei propri interessi. Questi due fattori sono molto più stabili e a lungo termine dell’attuale scontro tra Russia e Occidente, quindi sarebbe errato, anche a livello teorico, collegare il conflitto in una direzione e la cooperazione nell’altra. Inoltre, questo potrebbe rivelarsi un errore, poiché può creare la fiducia che lo sviluppo delle relazioni con gli Stati non occidentali sia una misura temporanea, una necessità che scomparirà o diminuirà dopo la fine della fase acuta del conflitto con l’Occidente.

In secondo luogo, il comportamento di quegli Stati che ora non si oppongono alla Russia e anzi collaborano con essa (cosa che è diventata comune) non è segno che sono alleati di Mosca o che sono destinati a diventarlo in determinate circostanze. Ci sono ovviamente delle eccezioni, e anche molto grandi. La Cina, ad esempio, associa la propria sicurezza e la capacità di realizzare interessi di politica estera alla Russia. Una posizione simile è quella dell’Iran, per il quale l’incapacità di Russia e Cina di limitare l’assertività dell’Occidente potrebbe rappresentare una seria minaccia in futuro. Inoltre, esiste un gruppo di Paesi già associati a Mosca in modo molto più significativo rispetto ai suoi avversari o alle terze potenze. Tuttavia, in generale, la cosiddetta Maggioranza Mondiale non è un gruppo di Stati uniti da interessi comuni, ma un indicatore dello stato democratico della politica internazionale.

In terzo luogo, un numero significativo di Stati è amico della Russia proprio perché, in linea di principio, non ha bisogno di alleati o patroni e fa affidamento solo sulle proprie capacità diplomatiche. In altre parole, ciò che li avvicina agli interessi della Russia in questo momento è allo stesso tempo un ostacolo all’instaurazione di una relazione più solida o formalizzata, per non parlare dell’ascolto delle opinioni della Russia su questioni di valore o addirittura sul modo in cui si fanno le cose nel mondo.
Uno dei motivi per cui gli Stati Uniti stanno diventando sempre più deboli nella loro capacità di convincere gli altri che hanno ragione è proprio il fatto che molti Paesi sono abbastanza capaci di formulare le proprie idee su un ordine interno e internazionale equo. Sarebbe un po’ ingenuo pensare che ci sia chi cerca di sostituire un consigliere esterno con un altro.
A questo proposito, la Russia potrebbe dover adottare un approccio più attento e prudente alla questione delle ragioni delle simpatie che esistono in tutto il mondo nei suoi confronti. Infatti, l’insoddisfazione per l’oppressione degli Stati Uniti e dell’Europa è solo un aspetto delle motivazioni che determinano il desiderio di maggiore indipendenza di molti Stati. Forse questo è anche un po’ più importante del desiderio di trarre vantaggio dalle relazioni con la Russia in condizioni in cui questa si è rivolta al resto del mondo e collega ad esso molte delle questioni relative alla propria stabilità economica. Ma anche le questioni di valore giocano un ruolo significativo. Da questo punto di vista, la Russia ha davvero qualcosa di cui essere orgogliosa, senza cercare allo stesso tempo di offrire piani e obiettivi più completi. Stiamo parlando di ciò che rende il moderno Stato russo attraente per gli altri.

Il cosiddetto “soft power”, ossia la capacità di influenzare le decisioni di altri Paesi in modi diversi dalla pressione e dalla corruzione, non è il prodotto dell’attività diplomatica di una nazione, ma il grado di vicinanza della struttura interna agli ideali astratti che esistono nella mente degli altri. Sarebbe un errore pensare che lo Stato possa aumentare la propria attrattiva solo investendo nell’espansione della cultura, della scienza o dell’istruzione. Inoltre, un’attenzione esagerata a queste aree di attività può provocare l’opposizione delle élite dei Paesi partner, per le quali il controllo sulle menti e sui cuori dei cittadini è una parte essenziale del rafforzamento del proprio potere. A maggior ragione, è impossibile diventare attraenti organizzando la corruzione diretta di giornalisti o di coloro che vengono comunemente chiamati leader dell’opinione pubblica. Innanzitutto perché gli avversari saranno sempre in grado di offrire un prezzo più alto e, inoltre, un rifugio più tranquillo.
Tuttavia, molto più efficace dell’investimento in auto-pubblicità all’estero può essere una maggiore apertura verso il mondo esterno. La Russia moderna, per la maggior parte dei Paesi dell’Asia, dell’Africa e del Medio Oriente, è davvero una società unica che combina segni visibili della cultura e delle tradizioni europee, da un lato, e una tolleranza per le altre religioni e le diversità etniche che non è assolutamente caratteristica dell’Occidente.
Già ora si sente dire da diplomatici di Paesi islamici che, tra tutti gli Stati del Nord globale, la Russia è il più confortevole per i musulmani.

Lo stesso vale per le comunità religiose più piccole. A differenza degli Stati europei, la Russia conserva e coltiva la diversità etnica. Tutti questi sono i veri vantaggi della Russia agli occhi dell’umanità, con cui dovremo convivere e cooperare nei prossimi decenni, se non oltre. Quanto prima capiremo che la base del “soft power” è interna, e non nelle attività dei rappresentanti della Russia all’estero, tanto prima saremo in grado di beneficiare dei nostri vantaggi oggettivi.

Dilemmi della maggioranza mondiale
20.03.2023
Timofei Bordachev
© Sputnik/Alexei Boytsov
Ci troviamo di fronte a un esempio piuttosto unico di lotta in cui le forze degli avversari sono approssimativamente comparabili, sebbene la superiorità dell’Occidente sia significativa. Non sappiamo assolutamente come si comporterebbero i Paesi della Maggioranza Mondiale in condizioni in cui gli Stati Uniti e l’Europa lanciassero un’offensiva contro un avversario più debole: ad esempio, contro l’Iran o un altro Paese di dimensioni comparabili. Pertanto, non possiamo dire in che misura la fiducia in se stessi di quei Paesi che ora non obbediscono agli ordini degli Stati Uniti si manifesterebbe in una situazione diversa”, scrive il direttore del programma del Valdai Club Timofei Bordachev.

Si può discutere quanto si vuole su come sarà il nuovo ordine internazionale, ma una cosa è già abbastanza chiara: non sarà come nessuno dei precedenti. La storia in genere non tende a ripetersi e questo significa sempre che gli appelli alle analogie storiche riflettono un fraintendimento intellettuale di ciò che sta accadendo. Quindi, ogni tentativo di trovare nel passato una base solida per un confronto con i processi e i fenomeni della vita internazionale che stiamo osservando in questo momento si scontra inevitabilmente con argomentazioni convincenti sul perché questa o quella analogia non sia appropriata. Anche in passato tali analogie erano difficili, poiché la questione principale era il cambiamento del potenziale di potere di un gruppo relativamente piccolo di Stati. Inoltre, è impossibile farle oggi, in un contesto internazionale completamente diverso. È molto probabile, tuttavia, che l’attenzione al contesto possa aiutarci a comprendere meglio i contorni dell’ordine che emergerà tra pochi anni, se non decenni.

La scoperta più importante del primo anno di confronto politico-militare tra Russia e Occidente è che la politica internazionale è contestualizzata da un gruppo significativo di Stati che non cercano di schierarsi sotto la bandiera di una delle parti in conflitto. Inoltre, essi perseguono attivamente una propria agenda di politica estera, che non è del tutto comoda né per la Russia né per i suoi avversari. Inoltre, poiché Mosca non è l’iniziatore delle tensioni nelle relazioni con gli Stati Uniti e i suoi alleati, non persegue nemmeno una politica di attacco; il comportamento moderato della maggior parte dei Paesi del mondo diventa un fattore che influenza in modo significativo lo sviluppo della situazione, proprio a favore degli interessi russi. Allo stesso tempo, con l’eccezione di una manciata di nazioni, non si può parlare di un sostegno diretto alla Russia da parte di più della metà dei Paesi del mondo. Come ha giustamente osservato uno dei maggiori esperti internazionali cinesi in un’intervista, la Russia sta affrontando un conflitto con l’intero Occidente “praticamente da sola”.

Tuttavia, indipendentemente dal fatto che il comportamento della cosiddetta maggioranza mondiale corrisponda alle aspettative russe o occidentali, il fatto stesso della sua partecipazione agli affari internazionali è diventato abbastanza evidente, così come la mancanza di intenzione di molti Paesi di schierarsi sotto la bandiera degli Stati Uniti, della Cina o della Russia nel futuro confronto tra le grandi potenze. Tuttavia, questo non nega la necessità di sforzarsi di comprendere le motivazioni e i fattori trainanti di un gruppo di Stati così significativo e influente come caratteristica strutturale della politica internazionale moderna.

A questo proposito, si può dare ampio spazio al ragionamento teorico e applicato. L’importanza di questa direzione di ricerca intellettuale è legata, a nostro avviso, al fatto che il comportamento della maggioranza è il fattore più importante tra quelli che determineranno la struttura del futuro ordine internazionale. Per quanto riguarda il comportamento delle grandi potenze, soprattutto quelle nucleari, tutto è più o meno chiaro: esse garantiranno la propria sicurezza facendo affidamento sulle proprie capacità militari uniche. Inoltre, la comprensione reciproca continentale tra Russia e Cina e la mancanza di presupposti per un oggettivo scontro di interessi creano una certa sicurezza. Lo stesso vale per gli Stati Uniti e i loro alleati europei: di fronte alla diminuzione delle risorse, rimarranno sulla difensiva per proteggere tutti i loro privilegi del secondo dopoguerra. Ma non possiamo dire nulla di simile in termini di chiarezza sulla Maggioranza Mondiale. Per questo, tra l’altro, molti dei miei stimati colleghi si sforzano di costruire le loro valutazioni sulla base di un fattore solo comparativamente stabile: la comunità dei Paesi occidentali che condividono, più o meno, gli stessi interessi e valori.

Ciò che non ci è chiaro è il legame tra il modo in cui questo grande gruppo di Paesi si comporta e la natura del particolare conflitto in relazione al quale devono determinare la loro posizione. La mancanza di una risposta a questa domanda ci obbliga a continuare a formulare ipotesi molto aleatorie. Attualmente, ci troviamo di fronte a un conflitto in cui le parti in causa sono potenze comparabili in termini di capacità militari – Russia e Stati Uniti, anche se questi ultimi agiscono per procura. Inoltre, la Russia è un attore importante nei mercati energetici mondiali ed è un grande esportatore di prodotti alimentari e di una serie di altri beni che beneficiano di una domanda stabile. Dietro la Russia c’è la Cina, membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che ha una solida influenza globale.

In altre parole, ci troviamo di fronte a un esempio piuttosto unico di lotta in cui le forze degli avversari sono approssimativamente comparabili, sebbene la superiorità dell’Occidente sia significativa. Non sappiamo assolutamente come si comporterebbero i Paesi della Maggioranza Mondiale in condizioni in cui gli Stati Uniti e l’Europa lanciassero un’offensiva contro un avversario più debole: ad esempio, contro l’Iran o un altro Paese di dimensioni comparabili. Pertanto, non possiamo dire in che misura la fiducia in se stessi di quei Paesi che ora non obbediscono agli ordini degli Stati Uniti si manifesterebbe in una situazione diversa. Questo potrebbe essere importante in futuro, poiché non si può escludere l’insorgere di nuovi conflitti in cui una delle parti sia una grande potenza nucleare.

In generale, è difficile stabilire quanto il comportamento dei Paesi di maggioranza sia legato alle loro capacità. È generalmente accettato che questo sia diventato il fattore più importante nel determinare le azioni di un’ampia gamma di Stati, dalle ricche monarchie del Golfo ai Paesi del Sud-Est asiatico. Ma non si può negare che il loro grado di dipendenza dall’infrastruttura dell’ordine mondiale liberale uscente guidato dagli Stati Uniti rimane molto, molto alto. Non c’è dubbio che i drammatici sviluppi del 2022 abbiano avviato il processo di desiderio di molte potenze medie e piccole di dotarsi di strumenti pratici per la propria autonomia. Tuttavia, hanno ancora molta strada da fare per raggiungere questo obiettivo.

È possibile che questo sia il motivo per cui i Paesi occidentali sono fiduciosi che, avendo ottenuto un successo nella lotta contro i loro principali avversari – Russia e Cina – saranno facilmente in grado di riprendere il controllo su tutti gli altri.
Fino a quando le capacità individuali comparate degli Stati di piccole e medie dimensioni non diventeranno così serie da permettere loro di essere veramente indipendenti, la sicurezza di sé dell’Occidente continuerà a spingere gli Stati Uniti e l’Europa a perseguire un comportamento conflittuale.
Ora i Paesi della Maggioranza Mondiale stanno cercando di trarre benefici a breve termine dallo sconvolgimento generale causato dalla lotta tra le grandi potenze. Non si sa fino a che punto tale estrazione di benefici tattici possa diventare la base di una strategia a lungo termine.

Il caos sarà inevitabilmente sostituito da un’interazione più o meno sistemica tra gli avversari più importanti. Non sappiamo come Paesi come la Turchia, l’Arabia Saudita, il Vietnam o il Pakistan saranno in grado di difendere la propria indipendenza in un ambiente internazionale meno favorevole. È possibile che le grandi potenze escano dalla fase acuta del loro confronto così indebolite da non essere in grado di imporre la propria volontà agli altri. È possibile che il comportamento di alcune di esse sia effettivamente dominato dai valori ora proclamati da Mosca e Pechino – uguaglianza, mutuo beneficio e autorità del diritto internazionale per tutti. In ogni caso, non si può escludere che sarà più difficile per le potenze che ora stanno aumentando la loro indipendenza, difendere queste conquiste quando il mondo sarà sempre più diviso in grandi regioni contrapposte.

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La guerra in una nuova epoca: Il ritorno dei grandi eserciti, di Vasily Kashin, Andrei Sushentsov

Ottobre 2023 Club Valdai

Partecipanti all’analisi situazionale:Yevgeny Buzhinsky,Presidente del Centro PIR, Tenente Generale (in pensione), membro e vicepresidente del RIACVasily Kashin,Ricercatore senior, direttore del Centro per la ricerca globaleIlya Kramnik,Borsista di ricerca, Gruppo di valutazione del rischio, IMEMO, Accademia russa delle scienze (RAS)Sergei Markedonov,R i c e r c a t o r e capo, Centro per la sicurezza euro-atlantica, Università MGIMOViktor Murakhovsky,Capo redattore della rivista “Arsenal”, esperto militare, colonnello (in pensione)Alexander Nikitin,Direttore del Centro di Sicurezza Euro-Atlantica, Università MGIMONikolai Silayev,Direttore, ricercatore capo, Laboratorio per l’analisi dei dati intellettuali, Università MGIMODmitry Stefanovich,Ricercatore, Settore Economia Militare e Innovazioni, Istituto di Economia Mondiale e Relazioni Internazionali (IMEMO), Accademia delle Scienze Russa (RAS)Andrei Sushentsov,Direttore del programma del Valdai Discussion Club; Preside della Scuola di Relazioni Internazionali dell’Università MGIMO.

Si ringrazia lo studente del Master MGIMO Alexei Danilenko per l’assistenza tecnica nella preparazione di questo rapporto.

Contenuti

La Grande Guerra: dal passato al presente

3 Esiste una base di confronto?

7 La guerra per il futuroLa guerra di Corea Il conflitto in Ucraina

11 Le grandi guerre in una nuova era

11 Come nascono gli eserciti e l’inutilità dell’esperienza

13 Politica manifatturiera: Ritorno alle origini

14 La produzione della difesa può essere autonoma?

15 Incursioni informative in un conflitto militare

16 La propaganda in evoluzione

19 Le conseguenze delle grandi guerre per la società e l’economia

19 Ideologia

19 Emigrazione

21 Vantaggi degli eserciti di massa

21 Interesse per la politica estera

21 Base industriale

22 Sfere prioritarie

22 Sviluppo di sistemi di difesa aerea e civile

22 Potenza spaziale

23 Un mondo nuovo e coraggioso

 

La Grande Guerra: dal passato al presente

La guerra ad alta intensità in Ucraina rappresenta il più grande conflitto militare in termini di forze coinvolte, vittime e durata dalla guerra Iran-Iraq del 1980-1988. Ma è solo l’entità dei combattimenti a giustificare un confronto. Dal punto di vista politico, gli eventi attuali sono unici nella storia recente.La guerra Iran-Iraq è stata uno scontro tra due potenze regionali, causato dalle l o r o differenze. Le operazioni militari lanciate dalle coalizioni guidate dagli Stati Uniti contro l’Iraq nel 1991 e nel 2003 hanno visto il leader mondiale attaccare una potenza regionale indebolita. Inoltre, nel 2003 l’Iraq era completamente isolato da dieci anni e non era in grado di acquistare o mantenere sistemi d’arma sofisticati. La guerra delle Falkland nel 1982 e il conflitto tra Georgia e Ossezia meridionale nel 2008 hanno coinvolto avversari altamente diseguali, il che ha reso questi impegni così brevi.

Esiste una base di confronto?

Il conflitto in Ucraina è il risultato delle divergenze tra due grandi potenze, gli Stati Uniti e la Russia. Pertanto, il precedente storico più vicino al conflitto ucraino è la guerra di Corea, conclusasi quasi settant’anni fa. Era molto diversa in termini di tattiche ed equipaggiamento militare, ma piuttosto vicina agli sviluppi attuali per quanto riguarda gli aspetti politici. In entrambi i casi, una grande potenza nucleare ha dovuto impegnare le proprie forze in una campagna militare prolungata contro uno Stato regionale non nucleare che riceve supporto militare ed equipaggiamento militare da una potenza nucleare ostile. In entrambi i casi, il conflitto riguarda il futuro dell’ordine mondiale, non i l destino del Paese che ospita il teatro delle operazioni.Nel suo discorso sulla politica asiatica degli Stati Uniti del gennaio 1950, il Segretario di Stato americano Dean Acheson lasciò la Corea al di fuori del “perimetro di difesa” dell’America in Asia, concepito per contrastare quello che definì “l’imperialismo sovietico”.1 L’entrata in guerra degli americani non aveva tanto a che fare con il destino della Corea quanto con il timore che la vittoria dei comunisti nella penisola coreana sarebbe stata il prologo della loro marcia vittoriosa in Asia e nel mondo. Dopo la guerra, il presidente Dwight Eisenhower concettualizzò questa visione come “teoria del domino”. 

L’esito del conflitto ucraino, qualunque esso sia, deciderà il futuro dell’ordine globale guidato dagli Stati Uniti. Ancora prima dell’inizio dell’operazione militare speciale (SMO) della Russia, il 17 febbraio 2022 il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha dichiarato al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che “la posta in gioco va ben oltre l’Ucraina. Si tratta di un momento di pericolo per la vita e la sicurezza di milioni di persone, nonché per le fondamenta della Carta delle Nazioni Unite e dell’ordine internazionale basato sulle regole che preserva la stabilità in tutto il mondo”.2 In seguito, sono seguite ripetute dichiarazioni che collegavano l’esito dei combattimenti in Ucraina a l destino dell’attuale ordine globale stabilito dagli Stati Uniti e dai loro alleati unilateralmente e nel loro interesse.In combinazione con il fattore nucleare, questa alta “posta in gioco” ha predeterminato la natura dell’attuale conflitto. Come l’URSS in Corea, gli Stati Uniti utilizzano le proprie forze armate in Ucraina in modo limitato, ma altamente sofisticato. Come in Corea, questo coinvolgimento è volto a minimizzare la probabilità di un’escalation verticale.L’Unione Sovietica inviò in Corea le sue unità di aviazione da combattimento, l’artiglieria di difesa aerea e le truppe radar. Pur essendo dislocate nelle retrovie, queste forze giocarono un ruolo importante nella guerra. Durante il conflitto, i sovietici abbatterono centinaia di aerei da guerra statunitensi e uccisero numerosi militari americani. Ma il coinvolgimento dell’URSS in quanto tale fu un fattore di i m p o r t a n z a strategica ancora maggiore. Fu l’Unione Sovietica a impedire alle forze ONU guidate dagli Stati Uniti di sfruttare la loro superiorità aerea, di tagliare le linee di rifornimento cinesi e nordcoreane e di isolare l’area delle operazioni di combattimento. Il risultato fu una guerra prolungata, con perdite considerevoli per gli Stati Uniti (36.000 morti e oltre 100.000 feriti) e un esito incerto.In Ucraina, i satelliti di ricognizione, gli aerei e i droni statunitensi fanno parte di una forza d’attacco integrata di ricognizione che comprende armi da fuoco controllate dall’Ucraina, come i sistemi missilistici. Il targeting americano è probabilmente alla base della maggior parte degli attacchi ucraini a lungo raggio che uccidono i soldati russi.Come in Corea, il coinvolgimento limitato della superpotenza ostile nelle operazioni di combattimento non è un segreto per la controparte. Il desiderio di evitare un’escalation è stato un fattore limitante per gli Stati Uniti negli anni Cinquanta. Lo stesso sentimento dissuade la Russia dall’attaccare le forze nemiche coinvolte nel conflitto. Gli Stati Uniti non hanno colpito le basi dell’aviazione da combattimento sovietica. La Russia finora si è astenuta dall’abbattere i velivoli spaziali statunitensi, i satelliti, il perno dei sistemi di ricognizione, comunicazione e comando ucraini.Oggi, le superpotenze e i loro più stretti alleati che non sono direttamente coinvolti nella campagna militare sono responsabili della consegna della maggior parte dei rifornimenti a coloro che sostengono il peso dei combattimenti. Questo richiede molte risorse. Secondo l’Istituto di Kiel per l’economia mondiale, gli aiuti esteri all’Ucraina tra il gennaio 2022 e il maggio 2023 sono stati pari a 165 miliardi di euro e questa cifra continua a crescere.Non sappiamo quanto denaro abbia speso l’URSS per la guerra di Corea. Le spedizioni di armi inviate in Corea consistevano per lo più in eccedenze e trofei lasciati dalla Grande Guerra Patriottica, ma anche questi costavano molto. In alcuni casi, l’URSS fornì ai suoi alleati cinesi e coreani armi avanzate, come gli aerei da combattimento MiG-15, che costarono anch’essi un bel po’ di soldi tra gli sforzi del dopoguerra per risanare l’economia sovietica e l’estrema povertà dell’URSS.Come la guerra di Corea, la campagna in Ucraina si svolge all’ombra delle armi nucleari, che non vengono utilizzate ma definiscono il quadro delle operazioni militari. A un certo p u n t o , l’escalation porta inevitabilmente a considerare le opzioni nucleari. Durante la guerra di Corea, il generale Douglas MacArthur esortò il presidente Harry Truman ad autorizzare l’uso di armi nucleari per evitare la minaccia della sconfitta. La Russia non ha mai dichiarato ufficialmente l’intenzione di usare le armi nucleari in Ucraina, nonostante le accuse dell’Occidente di voler brandire la sua “clava nucleare”. Né ha mai dato motivo di pensare che il loro uso fosse seriamente contemplato. Le dichiarazioni russe relative a una potenziale escalation nucleare avevano lo scopo di impedire l’aperta interferenza della NATO nel conflitto (ci riferiamo, ad esempio, alle opzioni di no-flight zone discusse nei primi mesi dell’operazione militare speciale) e si sono rivelate piuttosto efficaci.La guerra di Corea fu innescata dalle divergenze tra i due regimi coreani. Sebbene sia stato il Nord a lanciare l’attacco massiccio che ha scatenato la guerra, entrambi i regimi coreani nutrivano un’estrema ostilità nei confronti dell’altro nel periodo precedente la guerra e covavano piani per stabilire il controllo sulla penisola coreana. Si sono verificati regolarmente scontri armati tra i due regimi (il che ricorda la situazione del Donbass tra il 2015 e il 2021). Molte di queste schermaglie sono state avviate dal Sud, ambizioso e duro quanto il Nord.Il Nord considerava la conquista del Sud come essenziale per la propria sopravvivenza politica. Temendo le minacce del Sud, il Nord agiva sulla base di informazioni imprecise ed eccessivamente ottimistiche sulla situazione interna del Paese.

I nordcoreani credevano che un attacco decisivo e riuscito avrebbe portato alla caduta del regime sudcoreano, proprio come le élite russe hanno sottovalutato la disponibilità dell’Occidente a fornire una sostanziale assistenza militare e tecnico-militare a Kiev, permettendo all’Ucraina di continuare la sua resistenza militare.

La guerra per il futuro

Sia la guerra di Corea che l’operazione militare speciale russa in Ucraina sono esempi di scontri sul diritto di giocare un ruolo specifico nella formazione del futuro ordine internazionale. Entrambe sono emerse durante periodi di trasformazione strutturale del sistema di relazioni internazionali.

La guerra di Corea

La guerra di Corea ha segnato un passo significativo nell’istituzione di un sistema bipolare di relazioni internazionali, riflettendo la tendenza all’egemonia americana emersa dopo la Seconda guerra mondiale. Se gli Stati Uniti avessero ottenuto una vittoria convincente nella penisola coreana, sconfiggendo le forze comuniste e unificando la regione sotto il controllo d e l regime di Seoul, l’emergere del bipolarismo avrebbe potuto essere impedito o rimandato indefinitamente.L’assenza di una chiara vittoria americana, nonostante i notevoli sforzi compiuti dagli Stati Uniti (durante la guerra di Corea furono ripristinate alcune pratiche di gestione economica di emergenza risalenti alla seconda guerra mondiale, tra cui il controllo dei prezzi e dei salari), portò all’emergere di un avversario paragonabile all’America. I successivi successi sovietici nello sviluppo industriale, nella missilistica e nella tecnologia nucleare, insieme al raggiungimento della parità nucleare, hanno ulteriormente consolidato questa tendenza.D’altra parte, pur non riuscendo a raggiungere i propri obiettivi globali, gli Stati Uniti sono riusciti a evitare una grave sconfitta. La Corea del Sud è stata salvata, il sistema di alleanze americane è stato rafforzato e gli Stati U n i t i h a n n o ristrutturato e migliorato le loro politiche in ambito militare ed economico.Nei decenni successivi, gli Stati Uniti si trovarono sulla difensiva, mentre l’Unione Sovietica era all’offensiva, diffondendo la sua influenza in tutto il mondo. Ciononostante, gli Stati Uniti furono in grado di  mantenere la sua posizione di “superpotenza numero uno” fino al m o m e n t o i n cui, negli anni ’70, l’URSS ha iniziato ad avvicinarsi visibilmente al suo declino.Il successivo grande cambiamento nell’ordine mondiale – la transizione dal bipolarismo all’unipolarismo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 – non è stato accompagnato da ostilità a causa della rinuncia unilaterale dell’Unione Sovietica alle sue posizioni nella politica internazionale, seguita dall’autodissoluzione.I cambiamenti nella struttura delle relazioni internazionali si basano su spostamenti dell’equilibrio di potere nell’economia, nell’industria, nella scienza e nella tecnologia, e persino nella cultura e nell’ideologia. Questi cambiamenti si accumulano fino alla transizione verso una fase qualitativamente nuova. Di conseguenza, gli Stati si trovano ad affrontare sia nuove minacce strategiche sia nuove opportunità. Queste minacce e opportunità sono abbastanza convincenti da spingere i Paesi a sostenere le spese significative e gli enormi rischi associati alla guerra moderna.La minaccia di una grande guerra persiste durante tutta la fase di transizione nell’evoluzione dell’ordine mondiale. Il fatto che la guerra di Corea, un conflitto indubbiamente unico tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Sessanta, si sia conclusa con un armistizio non era predeterminato; è stato un colpo di fortuna per tutta l’umanità. Diverse crisi in quel periodo avevano il potenziale per degenerare in una vera e propria guerra prolungata, forse con una conseguente escalation nucleare.

Conflitto in Ucraina

Nel contesto della crisi ucraina, la Russia come grande potenza – pur essendo direttamente coinvolta – non è il motore principale dei cambiamenti in corso nell’equilibrio di potere globale, anche se vi contribuisce. I cambiamenti sono in gran parte legati all’indebolimento interno degli Stati Uniti, che si manifesta con il declino del loro ruolo nell’economia globale, il rapido accumulo di debito, le crescenti tensioni socio-politiche e la crescente disfunzione della politica interna. In questo contesto, i progressi della Cina hanno portato all’emergere di un centro economico alternativo che, pur rimanendo indietro rispetto agli Stati Uniti in termini di ruolo nella finanza globale, di PIL nominale e di livello di sviluppo di alcune tecnologie, li supera di gran lunga in termini di capacità industriale e sta rapidamente riducendo il divario in altri settori. Lo sviluppo di altre nazioni non occidentali non è forse progredito a un ritmo così vertiginoso, ma ha anche complicato notevolmente la posizione dell’America.La logica seguita dagli Stati Uniti e dai loro partner in queste circostanze è stata apertamente descritta nelle dichiarazioni pubbliche dei politici occidentali. Essi percepiscono l’Ucraina come uno strumento per infliggere una sconfitta strategica 

sulla Russia, che forse non è il loro più grande, ma certamente il loro più resistente e attivo avversario sulla scena internazionale. Questa sconfitta, come minimo, dovrebbe diminuire il ruolo della Russia come attore significativo nella politica internazionale e dare una lezione ad altri potenziali avversari, mentre il risultato massimo sarebbe un cambio di regime a Mosca e l’affermazione degli Stati Uniti come egemone indiscusso. I principali strumenti scelti per raggiungere questi obiettivi sono stati il sostegno militare all’Ucraina e l’imposizione di sanzioni a oltranza alla Russia. In combinazione con ostilità prolungate e un numero crescente di vittime, ci si aspettava che il crollo dell’economia russa destabilizzasse il Paese e lo costringesse a ritirarsi dal conflitto, completamente sconfitto, nel giro di poche settimane.Eliminando la Russia dallo scacchiere geopolitico, gli Stati Uniti hanno cercato di concentrare tutte le risorse, proprie e degli alleati, nell’isolamento economico e nella pressione militare sulla Cina. L’obiettivo dell’America è quello di minare la crescita economica della Cina e di innescare una destabilizzazione interna tagliandole l’accesso ai mercati esterni, alle fonti di tecnologia e alle risorse strategicamente importanti. Le dimensioni dell’avversario cinese rendono possibile il successo solo se gli Stati Uniti impiegano tutte le loro risorse per raggiungere questo obiettivo.A prescindere da dove sarà il confine finale dopo la conclusione dell’operazione militare speciale, si può affermare che il conflitto in Ucraina è già diventato un grave fallimento strategico per gli Stati Uniti. Gli Stati Uniti hanno già subito perdite significative a causa della loro incapacità di impedire alla Russia di lanciare l’operazione militare speciale, di provocarne una rapida sconfitta e di proteggere il loro partner, l’Ucraina, da perdite e distruzione. Le sanzioni contro la Russia sono state associate a grandi costi economici sia per gli Stati Uniti che per l’Europa, forse superiori alle perdite subite dalla Russia in t e r m i n i assoluti. Il sequestro dei beni russi all’estero ha accelerato il processo di allontanamento dal dollaro e dai servizi dell’infrastruttura finanziaria occidentale in tutto il mondo. Nonostante le azioni ostili dell’Occidente collettivo e le restrizioni imposte, la Russia è riuscita a evitare la destabilizzazione economica e politica interna, ha intrapreso la militarizzazione della sua economia e ha ampliato il suo esercito. È molto probabile che dopo la campagna, qualunque sia il suo esito, la Russia rappresenti una sfida maggiore per gli Stati Uniti di quanto non fosse prima dell’inizio dell’operazione militare speciale. Parlando dei “successi” degli avversari, vale la pena notare che gli Stati Uniti sono riusciti a solidificare il loro controllo sull’Europa e su alcuni alleati chiave nella regione Asia-Pacifico, a consolidare la propria élite attorno a nuovi obiettivi strategici e ad avviare il processo di creazione di un’economia militare innovativa.  Anche se la Russia non ha ancora eliminato il regime ostile in Ucraina, ha minato in modo significativo il potenziale economico e demografico del Paese (a causa dell’emigrazione di massa), riducendo la capacità degli Stati Uniti di utilizzare l’Ucraina come risorsa strategica contro la Russia in futuro. Considerando l’entità della distruzione economica in Ucraina, è possibile che nel prossimo futuro l’Ucraina si trasformi da risorsa strategica a passività strategica, richiedendo decine di miliardi di dollari all’anno per il suo mantenimento. In Russia, l’operazione militare speciale in Ucraina è diventata uno strumento per cambiamenti radicali nella politica interna, per la nazionalizzazione delle élite e per una nuova valutazione dei fondamenti della politica economica. Questi cambiamenti probabilmente non si sarebbero potuti realizzare in un contesto di stabilità fin troppo familiare.Gli Stati Uniti stanno preparando il terreno alla possibilità che il conflitto in Ucraina si concluda con un cessate il fuoco senza una soluzione politica globale, simile al modello della guerra di Corea. Questo non è in linea con i piani della Russia per raggiungere gli obiettivi della sua operazione militare speciale. In ogni caso, il conflitto ucraino servirà da preludio a successivi conflitti militari su larga scala in altre parti del mondo.

Le grandi guerre in una nuova era

La campagna militare in Ucraina non è affatto un confronto locale transfrontaliero, né un intervento di una forza superiore contro uno Stato più debole, né una guerra contro una guerriglia. Nei decenni passati, le grandi potenze sono state per lo più coinvolte in questi tre tipi di ostilità che hanno distorto l’economia delle loro politiche di difesa e degradato la loro abilità militare.

Come nascono gli eserciti e l’inutilità dell’esperienza

Nelle prime fasi del conflitto, sia l’esercito russo che quello ucraino dimostrarono di non avere le capacità necessarie per condurre una guerra su larga scala. Errori nel comando e nei rifornimenti hanno causato perdite significative per entrambe le parti.Le sfide che dovettero affrontare andavano oltre il fatto che la loro scienza e tattica militare si dimostrarono inadeguate allo scoppio del conflitto. Addestrato durante l’era precedente, il comando dell’esercito non era preparato psicologicamente ad affrontare le alte perdite, mentre era costantemente sotto pressione, essendo sotto  minaccia di armi di alta precisione, con nuovi strumenti di ricognizione e di guida, nonché il nuovo ruolo svolto dai fattori politici nella conduzione della guerra.In queste condizioni, i principali Paesi hanno scoperto che l’esperienza accumulata per decenni nel combattere le insurrezioni o nel confrontarsi con avversari più deboli si è rivelata non solo inutile, ma anche dannosa. Questo problema era già stato individuato in precedenza. In particolare, è un fatto che il comando militare sovietico aveva un motivo per non incoraggiare lo studio dell’esperienza della guerra in Afghanistan. Durante la perestrojka, i generali sovietici che lo facevano potevano essere criticati per essere troppo rigidi e arretrati, anche se ora è chiaro che avevano assolutamente ragione.All’inizio del 2023, la parziale mobilitazione della Russia ha eroso la schiacciante superiorità di uomini di cui l’Ucraina aveva goduto nel 2022. Il confronto si è evoluto in una guerra di trincea, almeno al momento della stesura di questo rapporto, mentre i tentativi d i entrambe le parti di lanciare un’offensiva decisiva n o n hanno raggiunto i loro obiettivi.Nell’ultimo anno, entrambi gli eserciti hanno subito cambiamenti radicali. È attraverso il loro coinvolgimento in azioni di combattimento e quindi dovendo pagare un prezzo molto alto in termini di perdite che la Russia e l’Ucraina hanno assistito alla nascita di eserciti equipaggiati per combattere una guerra terrestre su larga scala nella prima metà del XXI secolo.Gli eserciti russo e ucraino hanno ormai acquisito un know how unico in termini di tattiche e formazione del personale. Una grande guerra richiede una trasformazione così profonda che un Paese che non ha l’esperienza necessaria nel suo recente passato e che entra nel conflitto con il fardello di partecipare a operazioni ibride, antiterrorismo, anti-insurrezione, di mantenimento della pace o umanitarie, difficilmente riuscirà in questo sforzo.Gli attacchi di Hamas a Israele del 7 ottobre 2023 e il successivo conflitto armato dimostrano chiaramente che il conflitto ucraino è diventato una pietra miliare nello sviluppo dell’arte della guerra.Le tattiche delle Forze di Difesa Israeliane, uno degli eserciti più esperti e meglio equipaggiati del mondo occidentale, sono state commentate nei termini più sprezzanti dai partecipanti all’operazione militare speciale in Ucraina e dagli esperti militari, sia russi che ucraini.Secondo i commentatori, la ricognizione israeliana a livello tattico era debole rispetto agli standard del conflitto in Ucraina. Non c’era protezione contro i droni da combattimento utilizzati massicciamente dal nemico, mentre il personale non aveva le competenze per c o n t r a s t a r l i . È stato notato che grazie ai droni  la concentrazione di truppe e veicoli allo scoperto, il dispiegamento di pezzi di artiglieria a poca distanza l’uno dall’altro e vicino alle munizioni s a r e b b e impensabile in Ucraina a causa dell’efficienza del fuoco di controbatteria e della minaccia permanente dei droni. Sulla base dell’esperienza dei combattimenti a Mariupol, Soledar e Bakhmut, le tattiche di combattimento della fanteria israeliana nelle aree urbane appaiono obsolete e primitive.È possibile che gli eserciti asiatici, che non hanno avuto alcuna esperienza di combattimento negli ultimi 30 anni, tra cui Cina, Giappone, Corea del Sud e Vietnam, siano meglio equipaggiati per operare in questa nuova realtà rispetto a quelli che hanno passato questi anni a inseguire uomini musulmani barbuti con RPG-7 arrugginiti attraverso colline e deserti, pensando che la guerra fosse questo.

Politica manifatturiera: Tornare alle basi

Il conflitto in Ucraina ha dimostrato ancora una volta la saggezza delle parole di Friedrich Engels, secondo cui “la guerra è diventata un ramo della grande industria”.3 Ma l’Occidente sembra aver dimenticato questo principio, avendo spostato la produzione in Paesi con manodopera più economica. Questo, a sua volta, ha portato a un paradosso quando una coalizione di 50 Paesi che riforniva l’Ucraina non è riuscita ad eguagliare la Russia in termini di fornitura di proiettili d’artiglieria per il fronte.

Anche la Russia ha perso gran parte del suo potenziale manifatturiero durante i l periodo post-sovietico e ha dovuto affrontare molteplici colli di bottiglia in questo s e n s o . Sebbene sia stata in grado di aumentare la produzione di sistemi di difesa più velocemente rispetto all’Occidente, il ritmo non è ancora riuscito a soddisfare le aspettative d e l l e forze armate russe.

Come nelle epoche precedenti, ma con la dovuta considerazione per i progressi della tecnologia, per avere successo in guerra occorre la capacità non solo di produrre armi ed equipaggiamenti ad alta tecnologia, ma anche di fabbricare prodotti che rientrano nei livelli medi o addirittura inferiori in termini di sofisticazione tecnologica. Tra questi si possono annoverare camion, munizioni d’artiglieria non guidate e proiettili per fucili, uniformi e equipaggiamenti militari.

Vale la pena ricordare che un Paese può mettere al servizio della causa militare, in un modo o nell’altro, tutte le sue capacità di lavorazione ed estrazione, nonché l’agricoltura. Allo stesso tempo, il settore dei servizi è praticamente inutile e cade in secondo piano quando si tratta di sostenere gli sforzi militari, fatta eccezione per i trasporti, le TIC e la medicina.

Poiché i servizi dominano nella struttura del PIL delle economie moderne, sono quasi inutili come indicatore per misurare le capacità militari nazionali. Il fatto che i servizi rappresentino una grossa fetta delle economie degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, con circa il 78% e il 73% dei rispettivi PIL, potrebbe indicare la loro capacità relativamente limitata di convertire questa potenza economica in una risorsa militare.

Ciò appare evidente se si considera che i Paesi sviluppati h a n n o faticato a fornire armi all’Ucraina, anche se i Paesi del G7 da soli rappresentano il 44% dell’economia mondiale rispetto alla Russia.3,2%. Ma questa quota apparentemente piccola è compensata da settori estrattivi altamente sviluppati, dall’agricoltura e da un’industria manifatturiera relativamente sviluppata.Ciò presenta l’equilibrio del potere militare nel mondo sotto u n a nuova luce.

Ad esempio, la Cina da sola ha una produzione manifatturiera doppia rispetto a quella degli Stati Uniti e del Giappone, le due maggiori economie del G7.Le principali potenze militari stanno ora riflettendo se tornare ai principi di base della politica industriale risalente alla fine del XIX e all’inizio del XX secolo, dando priorità alla capacità di scalare la produzione nel settore della difesa.

La produzione della difesa può essere autonoma?

Oggi, a differenza della prima metà del XX secolo, non c’è nessun Paese al mondo in grado di raggiungere la piena autonomia nella produzione della difesa, il che è attribuibile alle catene di produzione sempre più complesse e al fatto che tutti i prodotti militari o i beni civili strategici richiedono oggi un mix più ampio di materiali, componenti e attrezzature.Gli Stati Uniti si affidano in larga misura a una rete di alleanze con le potenze industriali, non solo per unire gli sforzi militari, ma anche per promuovere la cooperazione industriale nella produzione della difesa. La Russia, invece, dipende meno dai legami di cooperazione nel settore della difesa. Tuttavia, la Russia non è in grado di soddisfare la propria domanda interna di attrezzature di produzione e di alcuni componenti elettronici.La Cina si è probabilmente avvicinata più di ogni altro Paese al livello di autonomia di cui godeva l’URSS al suo apice, anche se Pechino ha ancora un po’ di strada da fare, dato che continua a fare affidamento su componenti importati per alcuni dei suoi sistemi.

Altri Paesi sono ancora più vulnerabili, soprattutto quelli europei, dove la produzione di difesa probabilmente cesserebbe del tutto in caso di gravi interruzioni delle catene di approvvigionamento internazionali.Nel mondo di oggi, la dipendenza dalla divisione internazionale del lavoro per la produzione di beni strategici crea una grande vulnerabilità, con vari Paesi che cercano sistematicamente di capitalizzare questo fattore nel tentativo di indebolire i loro avversari.Gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno imposto sanzioni a tappeto alla Russia nella speranza non solo di portare la sua economia verso il baratro, ma anche di minare la sua produzione di difesa. Questo piano è fallito, in gran parte a causa di un’errata comprensione del funzionamento del settore manifatturiero in Russia e dell’atteggiamento di sostegno dei Paesi in via di sviluppo nei confronti della Russia, c h e h a persino contribuito a mantenere aperti alcuni canali di fornitura.L’interruzione delle catene di produzione dell’avversario è emersa come una priorità nella guerra fredda in corso tra Stati Uniti e Cina. Gli americani hanno vietato l’esportazione di microchip avanzati e di attrezzature per la loro produzione in Cina, mentre i cinesi hanno imposto restrizioni all’esportazione di componenti e materiali per la produzione di pannelli solari al di fuori del Paese.In questi tempi di incertezza, le grandi potenze sono state spinte a riqualificare la produzione dei loro principali prodotti civili strategici e dei principali armamenti, nonché a chiudere le loro catene di produzione. In effetti, l’aspirazione allo status di grande potenza implica ora l’autosufficienza nella produzione di questi prodotti, anche se ciò comporta un prezzo in termini di qualità inferiore e costi più elevati.

Incursioni informative in un conflitto militare

L’uso delle informazioni come componente della guerra moderna è diventato uno strumento efficace per sostenere gli alleati e condurre guerre per procura. Negli ultimi decenni gli sforzi per sviluppare la tecnologia militare si sono concentrati sulla ricognizione, il monitoraggio, le comunicazioni e il comando, mentre quasi tutti i Paesi, comprese le grandi potenze, hanno continuato a fare affidamento sulla tecnologia dell’era della Guerra Fredda in tutti gli altri settori. Tuttavia, le nuove strutture di ricognizione e di raccolta di informazioni, di comunicazione e di comando hanno cambiato radicalmente il modo in cui vengono utilizzate le armi più vecchie.In Ucraina, gli Stati Uniti sono riusciti a  migliorare le capacità delle Forze Armate ucraine comunicando efficacemente agli ucraini i dati provenienti dalla sua costellazione di satelliti di ricognizione, la più grande al mondo nel suo genere, nonché dai suoi aerei di rilevamento radar a lungo raggio dislocati nei Paesi dell’Europa orientale della NATO e dai centri americani di intelligence elettronica e di cyber-operazione in questi Paesi. I sistemi di comunicazione utilizzati dalle Forze armate ucraine si basano sulla tecnologia statunitense e su Starlink, anch’esso un sistema di produzione americana di cui la Russia non d i s p o n e . Questo tipo di assistenza è di primaria importanza per le Forze armate ucraine, superando anche le consegne di armi letali, tra cui cannoni, carri armati e missili.Sembra che nelle prime fasi del conflitto, l’Ucraina abbia beneficiato dei dati satellitari ricevuti dall’Occidente per sferrare i suoi colpi più distruttivi dal Tochka-U, un vecchio sistema missilistico di epoca sovietica, o da MRL altrettanto vecchi. Quando l’Ucraina ha ricevuto sistemi moderni come gli HIMARS, questi non sono riusciti a fare una differenza radicale in termini di prestazioni, poiché il fattore chiave sono stati i dati di intelligence provenienti dai satelliti occidentali, insieme alle contromisure della Russia, comprese le difese aeree, le tattiche di camuffamento, dispersione e fortificazione. Il flusso di dati di intelligence è rimasto invariato, mentre la Russia ha migliorato le sue difese aeree e le sue capacità di guerra elettronica, oltre a migliorare l’occultamento e la dispersione delle sue truppe.Questa componente informativa consente all’Occidente di avere un serio impatto sul modo in cui si svolge la campagna militare, fornendo informazioni in tempo reale all’Ucraina e condividendo le infrastrutture di comunicazione. Questo non porta a un’escalation, ma solo finché i politici e i militari rimangono all’interno del paradigma esistente. Prima o poi, il fatto che questo coinvolgimento non letale comporti pesanti perdite renderà le infrastrutture informatiche coinvolte nel conflitto un obiettivo legittimo, indipendentemente dal loro scopo originario.

La propaganda in evoluzione

Ciò che distingue l’Ucraina dai conflitti precedenti è che si svolge in un ambiente mediatico totalmente nuovo, in cui le parti in conflitto hanno un controllo minimo, se non nullo, sui flussi di informazione.

Quando i grandi Paesi hanno affrontato avversari scarsamente armati in un conflitto ibrido, le loro macchine propagandistiche hanno potuto facilmente far fronte a questa nuova realtà. In primo luogo, gli invasori avevano il controllo del modo in cui la guerra avanzava e del suo ritmo. Affrontando un nemico praticamente disarmato, potevano ridurre al minimo l’esposizione pubblica a eventi traumatizzanti come le perdite, le intere unità intrappolate in un accerchiamento o la possibilità che il nemico facesse prigionieri. In secondo luogo, ogni volta che gli eventi prendevano una brutta piega, potevano semplicemente abbandonare tutto e a n d a r s e n e , proprio come hanno fatto gli Stati Uniti in Afghanistan.Tuttavia, questo diventa impossibile in un conflitto su larga scala. Entrambe le parti, sia vincenti che perdenti, subiscono pesanti perdite, traumi e compiono passi sconsiderati per tutto il t e m p o , dal primo all’ultimo giorno del conflitto.Ad esempio, la Germania nazista ottenne la sua ultima grande vittoria sull’URSS nella battaglia di Bautzen del 21-30 aprile 1945, quando i tedeschi sopraffecero una forza combinata dell’Armata Rossa e della Polonia durante l’offensiva sovietica contro Berlino. I tedeschi uccisero generali sovietici e polacchi, accerchiarono una divisione sovietica e la battaglia causò diverse migliaia di vittime. Anche se questo fatto non ebbe alcuna rilevanza per l’offensiva sovietica contro Berlino, non è difficile immaginare come questa sconfitta avrebbe potuto influenzare l’opinione pubblica con la guerra vicina alla fine, cioè se qualcuno avesse saputo di queste perdite.Tuttavia, nel regno dei nuovi media non è p o s s i b i l e nascondere i grandi fallimenti o i passi falsi. Tutto ciò che si può fare è riconoscerli e poi muoversi rapidamente per scoprire cosa è successo, spiegarlo e rassicurare tutti che non si ripeterà. Durante l’operazione militare speciale, la Russia è stata la prima a r e n d e r s e n e conto, facendo di centinaia di canali Telegram il suo principale strumento di propaganda. Ogni canale si rivolge a un pubblico specifico, offrendo vari punti di vista su ciò che accade sul campo di battaglia. Ma nel loro insieme sono tutti progettati per sostenere lo sforzo bellico e mobilitare il sostegno popolare per gli obiettivi principali della campagna militare in corso.L’Occidente, compresa l’Ucraina, ha scelto un approccio diverso alla sua campagna militare nello spazio mediatico. Pur utilizzando i social media e i messaggeri, ha scelto di concentrarsi sui media tradizionali in un massiccio sforzo di propaganda sostenuto dal prestigio delle principali testate occidentali cosiddette indipendenti. Sfortunatamente, ciò ha portato alla pubblicazione ricorrente di  disinformazione che può essere facilmente sfatata. Poiché il pubblico è in grado di capire questi sforzi, ciò mina la fiducia nei confronti di questi m e d i a . Lo stesso vale per i politici occidentali e ucraini. Ad esempio, a l l ‘inizio del 2023, Vladimir Zelensky ha parlato di lunghe code ai centri di leva e ha parlato di uno sforzo di mobilitazione civile, mentre la gente ha caricato online centinaia di video che mostravano uomini inseguiti per le città ucraine dagli ufficiali di leva.L’Ucraina ha inasprito la censura di guerra durante il conflitto e ha cercato di portare il settore dei media sotto il controllo centralizzato del governo, introducendo qualcosa di simile a un divieto generalizzato di discutere le azioni di combattimento sui social media, reprimendo qualsiasi informazione sulla distruzione e sui danni causati dagli attacchi russi e sulla loro efficacia, esagerando al contempo le prestazioni delle difese aeree dell’Ucraina.Anche i Paesi occidentali che sostengono l’Ucraina hanno espresso la loro preoccupazione per la portata della propaganda, temendo che i media non riflettano la situazione reale. Questo sentimento sta diventando sempre più diffuso in Ucraina, dove il governo ha dovuto adottare misure draconiane p e r arruolare i coscritti nell’esercito.E tutto ciò avviene nonostante le risorse stanziate per lo sforzo propagandistico, la cura con cui vengono redatti i messaggi, la persistente reputazione dei media internazionali in lingua inglese e l e costose trovate pubblicitarie delle Forze Armate ucraine per mantenere viva la fiducia nella vittoria e sollevare il morale degli alleati. Spesso tutto ciò ha un prezzo altissimo, come nel caso dell’incursione nel distretto di Graivoronsky della regione di Belgorod nel maggio 2023.Nel complesso, l’operazione militare speciale ha dimostrato che, nel mondo di oggi, un’azione militare su larga scala richiede nuovi metodi in termini di preparazione della società ad accettare perdite e privazioni inevitabili, nonché di copertura del modo in cui si svolge la campagna militare. Modellato dalle circostanze più che dalla progettazione, l’approccio russo presenta molti difetti, tra cui la rapida diffusione di dati non verificati, i regolari attacchi di panico e l’uso di una rete decentrata di risorse mediatiche nelle lotte politiche interne. Tuttavia, offre anche alcuni vantaggi, come la possibilità di facilitare un dialogo franco con milioni di abbonati a Telegram o la possibilità di inviare aggiornamenti sull’operazione militare speciale in tempo reale a persone al di fuori della zona dell’operazione militare speciale. Ciò significa che le linee di comunicazione sono aperte per interagire con il pubblico.

Le conseguenze delle grandi guerre per la società e l’economia

A differenza delle guerre “ibride” degli anni ’90-’90, le ostilità su larga scala come l’operazione militare speciale non permettono alla società di “nascondersi” o “chiudersi” al loro impatto. Tendono a causare gravi traumi psicologici alle persone, dividendo il tempo in “prima” e “dopo” il conflitto. L’inevitabile coinvolgimento di un numero significativo di persone in una campagna militare attraverso la coscrizione, la mobilitazione o il reclutamento di soldati a contratto da tutti i gruppi della popolazione trasforma gli eventi in u n a causa nazionale.

Ideologia

Questi sforzi sono impossibili senza che la società si riunisca intorno a idee unificanti che vadano oltre valori comuni ma importanti come il patriottismo e la “difesa dell’integrità territoriale”. La Costituzione russa vieta l’ideologia di Stato obbligatoria nel suo primo capitolo. Per modificarla sarebbe necessaria l’adozione di una nuova Legge fondamentale. Tuttavia, in realtà, un’ideologia di Stato consolidata ha iniziato a formarsi spontaneamente dopo il 2014, e questo processo si è accelerato con l’inizio dell’operazione militare speciale. Alcune idee hanno iniziato ad acquisire una dimensione legislativa (come la legislazione conservatrice), mentre altre sono state percepite dalla società come nuove norme universalmente accettate, la cui violazione ha scatenato reazioni estremamente ostili (questo includeopinioni consolidate della società sui risultati storici dell’Unione Sovietica e sul suo ruolo nella Seconda Guerra Mondiale).

Emigrazione

L’incapacità di una parte della società russa di abbracciare nuove regole e un nuovo sistema di valori ha portato molti ad emigrare. Forse questa tendenza può essere un fattore di cambiamento nella composizione dell’élite russa. Allo stesso t e m p o , si registra un significativo deflusso di popolazione dall’Ucraina, sia verso l’Occidente che verso la Russia.

Vantaggi degli eserciti di massa

L’impossibilità di condurre operazioni militari con piccoli eserciti professionali nell’attuale conflitto, la trasformazione della guerra in una causa nazionale, come è avvenuto dalla metà del XIX secolo fino alla metà d e l XX, dovrebbe portare al riemergere di alcune vecchie priorità politiche. Questa tendenza non deve essere vista in una luce completamente negativa.Per esempio, durante l’epoca degli eserciti di massa, un aspetto positivo era l’attenzione che la maggior parte dei governi prestava all’istruzione universale, poiché le scuole erano considerate un elemento cruciale per la formazione e l’educazione dei futuri soldati, da cui dipendeva la sopravvivenza dello Stato. L’ascesa degli eserciti di massa è legata anche allo sviluppo dell’assistenza sanitaria tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, nonché all’enfasi posta sugli sport di massa (in contrapposizione agli sport ad alte prestazioni, che si sono trasformati in una forma di show business durante la Guerra Fredda). Nella fase iniziale, queste tendenze sono già evidenti in Russia.

Interesse per la politica estera

Nella nuova realtà, l’interesse per la politica estera sta crescendo tra ampi gruppi di persone. A differenza del periodo di stabilità degli anni 2000 e 2010, quando le relazioni internazionali erano principalmente appannaggio di pochi specialisti e non suscitavano un interesse pubblico diffuso, oggi tutti possono vedere il legame tra gli eventi globali e il proprio benessere personale. A differenza del p a s s a t o , uno Stato non può permettersi di condurre la politica estera solo in base alle proprie considerazioni, lasciando alla propaganda la spiegazione delle proprie azioni sulla scena internazionale. Si richiede invece una comunicazione diretta, sincera e aperta con il pubblico sulle ragioni delle decisioni, compreso il riconoscimento degli errori.

Base industriale

In termini di politica economica, una potente base industriale è tornata ad essere un attributo obbligatorio di una grande potenza. Questa base dovrebbe essere in grado di garantire il funzionamento stabile del complesso della difesa e dei settori strategicamente importanti anche in presenza di interruzioni delle connessioni esterne. Per la Russia, gli obiettivi critici che richiedono sforzi significativi includono il rilancio dell’industria meccanica e della produzione di microelettronica.

Sfere prioritarie

In questa nuova era, lo Stato deve dare priorità non solo all’industria, ma anche all’agricoltura, alle TIC e ai trasporti. È fondamentale investire maggiormente nella scienza e nell’istruzione. Ciò è importante sia per lo sviluppo interno, in un contesto di interruzione dei legami con l’esterno e di minori opportunità di collaborazione internazionale, sia per innalzare il livello intellettuale dei soldati di leva che si arruolano nell’esercito.

Sviluppo di sistemi di difesa aerea e civile

Durante l’operazione militare speciale, è emerso chiaramente che il costo e la diffusione dei mezzi per condurre attacchi di precisione a lungo raggio sono diminuiti in modo significativo. Ad esempio, i droni kamikaze con gittate di centinaia o addirittura migliaia di chilometri sono disponibili a prezzi che vanno dalle migliaia alle decine di migliaia di dollari. Tali armi sono potenzialmente facilmente accessibili anche ad attori non statali.Alla luce di ciò, è necessario riconsiderare gli approcci alla sicurezza delle infrastrutture, al backup di siti e sistemi critici e allo sviluppo di sistemi di difesa aerea. È necessaria anche una nuova prospettiva sui sistemi di difesa civile, che comprenda la costruzione di strutture protette dedicate, la formazione del pubblico e il miglioramento del sistema di amministrazione pubblica.

POTENZA SPAZIALE

Un potente gruppo orbitale non è solo un fattore cruciale per l’efficacia delle proprie forze armate, ma anche un mezzo ideale per influenzare l’equilibrio di potere e il corso delle ostilità in qualsiasi parte del mondo, come è apparso evidente durante l’operazione militare speciale. La capacità di fornire dati di ricognizione e di puntamento in tempo reale dai satelliti per le proprie forze armate o per quelle alleate, garantendo al contempo l’affidabilità delle comunicazioni spaziali, consente di modificare in modo significativo il corso della guerra senza alcun rischio e a costi contenuti. Lo spazio esterno come strumento per l’influenza globale e la proiezione di forza sostituisce e supera lo strumento tradizionale della Marina. Sembra che lo sviluppo di capacità spaziali debba essere un obiettivo primario per lo Stato, derivante dalle esigenze di difesa nazionale e di politica estera.

Un mondo nuovo e coraggioso

La ridistribuzione del potere e dell’influenza nel mondo, insieme alle mutevoli dinamiche di potere tra le principali nazioni, è diventata il catalizzatore di differenze estremamente acute tra di esse. Queste differenze, intensificandosi, coinvolgono l’ideologia, l’economia e i legami tecnicoscientifici e umanitari. I fattori che in passato hanno impedito alle grandi potenze di arrivare a un’escalation si stanno indebolendo. Per la prima volta dagli anni Sessanta, questi Paesi si trovano ad affrontare una minaccia reale di conflitti non nucleari su larga scala contro avversari comparabili.Tali conflitti possono portare all’escalation della minaccia di un conflitto nucleare, anche se non devono necessariamente culminare nell’uso di armi nucleari. Le armi nucleari stabiliscono piuttosto il quadro geografico e politico all’interno del quale le grandi potenze conducono tali guerre e impongono anche limitazioni all’uso di alcuni armamenti non nucleari.Le forze armate emerse nel periodo successivo alla Guerra Fredda non rispondono adeguatamente a questo nuovo livello di minacce militari. È necessaria una crescita quantitativa significativa degli eserciti moderni. Inoltre, conflitti come quello in Ucraina non possono essere combattuti pienamente da formazioni militari costituite su base volontaria, come dimostrano le esperienze di Russia e Ucraina. La mobilitazione della popolazione nelle forze armate diventa inevitabile, così come il mantenimento e l’espansione delle pratiche di coscrizione.La minaccia di una grande guerra e la rottura dei legami economici per motivi politici catalizzeranno inevitabilmente la diversificazione del sistema finanziario globale, portando al graduale emergere di diversi centri di crescita industriale e tecnologica indipendenti con potenzialità diverse.Ogni centro di questo tipo rappresenterà un’alleanza di Stati di diversa potenza, che perseguono il cammino dell’integrazione economica e industriale e puntano all’espansione.Per le nazioni di piccole e medie dimensioni, il desiderio naturale sarà quello di mantenere la massima autonomia politica il più a lungo possibile, diversificando i propri legami esterni. Cercheranno di formare coalizioni per contrastare la pressione delle grandi potenze che cercano di imporre loro delle scelte. È possibile che tali coalizioni di “piccole e medie dimensioni” si evolvano nel tempo in alleanze “militari ed economiche” e competano tra loro intorno alle grandi potenze.

Ogni centro cercherà di acquisire una propria piattaforma ideologica e valoriale ben definita, che in diversi Paesi e gruppi di Paesi costituirà una combinazione di concetti politici, ideologie e nazionalismi in proporzioni variabili. Il ruolo maggiore svolto dall’ideologia contribuirà all’alienazione tra questi centri, all’approfondimento delle linee di divisione e a un minore spazio di manovra in politica estera per l e élite al potere. Tutti i principali Paesi saranno costretti a ricorrere a quadri ideologici per le loro politiche estere e interne, con restrizioni della gamma di opinioni ammissibili e della libertà di parola (una tendenza che si osserva già tra tutti i principali attori della politica globale).La forma prevalente di conflitto tra le grandi potenze sarà quella delle guerre per procura di tipo nuovo, ossia conflitti di grandi dimensioni in cui una grande potenza nucleare concede al suo cliente l’accesso alle sue capacità informative (ricognizione e puntamento satellitare, infrastrutture di comunicazione, ecc.), nonché alla tecnologia e alle competenze militari e, se necessario, effettua u n intervento diretto limitato nel conflitto che non provochi un’escalation nucleare.Tuttavia, la minaccia di uno scontro militare diretto tra grandi potenze e di una guerra nucleare persisterà e, forse, diventerà ancora più acuta che durante la Guerra Fredda. L’obiettivo principale della diplomazia in questo nuovo mondo sarà quello di sviluppare un kit di strumenti che permetta di sopportare decenni di turbolenze senza bombardamenti nucleari. Questo obiettivo può essere raggiunto solo nel quadro di un rigoroso realismo di politica estera e di un graduale sviluppo di regole e restrizioni alla concorrenza.

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Vladimir Putin al Club Valdai

Riunione del Valdai International Discussion Club
Vladimir Putin ha partecipato alla sessione plenaria della riunione per il 20° anniversario del Valdai International Discussion Club.

5 ottobre 202316:45Sochi
Quest’anno il tema dell’incontro è “La multipolarità equa: come garantire sicurezza e sviluppo per tutti”.

Il direttore di ricerca del Valdai International Discussion Club Fyodor Lukyanov sarà il moderatore della discussione.

* * *

Il Presidente della Russia Vladimir Putin: Partecipanti alla sessione plenaria, colleghi, signore e signori,

sono lieto di darvi il benvenuto a Sochi in occasione dell’anniversario del Valdai International Discussion Club. Il moderatore ha già ricordato che questo è il 20° incontro annuale.

Come da tradizione, il nostro, o meglio il vostro forum, ha riunito leader politici e ricercatori, esperti e attivisti della società civile provenienti da molti Paesi del mondo, riaffermando ancora una volta il suo elevato status di piattaforma intellettuale di rilievo. Le discussioni di Valdai riflettono invariabilmente i più importanti processi politici globali del XXI secolo nella loro interezza e complessità. Sono certo che sarà così anche oggi, come probabilmente lo è stato nei giorni precedenti quando avete discusso tra di voi. E sarà così anche in futuro, perché il nostro obiettivo è fondamentalmente quello di costruire un mondo nuovo. Ed è in queste fasi decisive che voi, colleghi, avete un ruolo estremamente importante da svolgere e una responsabilità particolare come intellettuali.

Nel corso degli anni di lavoro del club, sia la Russia che il mondo hanno assistito a cambiamenti drastici, addirittura drammatici, colossali. Vent’anni non sono un periodo lungo per gli standard storici, ma durante le epoche in cui l’intero ordine mondiale si sgretola, il tempo sembra ridursi.

Credo che converrete che negli ultimi 20 anni si sono verificati più eventi che in decenni di periodi storici precedenti, e si è trattato di grandi cambiamenti che hanno dettato la trasformazione fondamentale dei principi stessi delle relazioni internazionali.

All’inizio del XXI secolo, tutti speravano che gli Stati e i popoli avessero imparato la lezione dei costosi e distruttivi scontri militari e ideologici del secolo precedente, si fossero resi conto della loro dannosità e della fragilità e interconnessione del nostro pianeta, e avessero capito che i problemi globali dell’umanità richiedono un’azione congiunta e la ricerca di soluzioni collettive, mentre l’egoismo, l’arroganza e il disinteresse per le sfide reali avrebbero inevitabilmente portato a un vicolo cieco, proprio come i tentativi dei Paesi più potenti di imporre le loro opinioni e i loro interessi a tutti gli altri. Questo avrebbe dovuto essere evidente a tutti. Avrebbe dovuto, ma non è stato così. Non è così.

Quando ci siamo incontrati per la prima volta alla riunione del club, quasi 20 anni fa, il nostro Paese stava entrando in una nuova fase del suo sviluppo. La Russia stava uscendo da un periodo di convalescenza estremamente difficile dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Abbiamo avviato con energia e buona volontà il processo di costruzione di un nuovo e, a nostro avviso, più giusto ordine mondiale. È una fortuna che il nostro Paese possa dare un enorme contributo, perché abbiamo qualcosa da offrire ai nostri amici, ai nostri partner e al mondo intero.

Purtroppo, il nostro interesse per un’interazione costruttiva è stato frainteso, è stato visto come un’obbedienza, come un accordo sul fatto che il nuovo ordine mondiale sarebbe stato creato da coloro che si sono dichiarati vincitori della guerra fredda. È stato visto come un’ammissione che la Russia era pronta a seguire la scia degli altri e a non essere guidata dai nostri interessi nazionali, ma da quelli di qualcun altro.

Nel corso di questi anni, abbiamo avvertito più di una volta che questo approccio non solo avrebbe portato a un vicolo cieco, ma che era anche gravato dalla crescente minaccia di un conflitto militare. Ma nessuno ci ha ascoltato o ha voluto ascoltarci. L’arroganza dei nostri cosiddetti partner occidentali è salita alle stelle. Questo è l’unico modo in cui posso dirlo.

Gli Stati Uniti e i loro satelliti hanno intrapreso un percorso costante verso l’egemonia negli affari militari, nella politica, nell’economia, nella cultura e persino nella morale e nei valori. Fin dall’inizio ci è stato chiaro che i tentativi di stabilire un monopolio erano destinati a fallire. Il mondo è troppo complicato e vario per essere sottoposto a un unico sistema, anche se sostenuto dall’enorme potere dell’Occidente accumulato in secoli di politica coloniale. Anche i vostri colleghi – molti di loro sono assenti oggi, ma non negano che, in misura significativa, la prosperità dell’Occidente è stata ottenuta derubando le colonie per diversi secoli. Questo è un dato di fatto. In sostanza, questo livello di sviluppo è stato raggiunto derubando l’intero pianeta.

La storia dell’Occidente è essenzialmente la cronaca di un’espansione senza fine. L’influenza occidentale nel mondo è un immenso schema piramidale militare e finanziario che ha costantemente bisogno di altro “carburante” per sostenersi, con risorse naturali, tecnologiche e umane che appartengono ad altri. Per questo l’Occidente non può e non intende fermarsi. Le nostre argomentazioni, i nostri ragionamenti, i nostri appelli al buon senso o le nostre proposte sono stati semplicemente ignorati.

L’ho detto pubblicamente sia ai nostri alleati che ai nostri partner. C’è stato un momento in cui ho semplicemente suggerito: forse dovremmo entrare anche noi nella NATO? Ma no, la NATO non ha bisogno di un Paese come il nostro. No. Voglio sapere: di cos’altro hanno bisogno? Pensavamo di essere diventati parte della folla, di aver messo un piede nella porta. Cos’altro avremmo dovuto fare? Non c’era più confronto ideologico. Qual era il problema? Credo che il problema fossero i loro interessi geopolitici e la loro arroganza nei confronti degli altri. Il problema era ed è la loro autocelebrazione.

Siamo costretti a rispondere a pressioni militari e politiche sempre più forti. Ho detto più volte che non siamo stati noi a iniziare la cosiddetta “guerra in Ucraina”. Al contrario, stiamo cercando di porvi fine. Non siamo stati noi a orchestrare un colpo di Stato a Kiev nel 2014, un colpo di Stato sanguinoso e anticostituzionale. Quando [eventi simili] accadono in altri luoghi, sentiamo immediatamente tutti i media internazionali – soprattutto quelli subordinati al mondo anglosassone, ovviamente – dire che questo è inaccettabile, che è impossibile, che è anti-democratico. Ma il colpo di Stato a Kiev era accettabile. Hanno persino citato la quantità di denaro speso per questo colpo di Stato. Tutto era improvvisamente accettabile.

All’epoca, la Russia ha fatto del suo meglio per sostenere la popolazione della Crimea e di Sebastopoli. Non abbiamo cercato di rovesciare il governo o di intimidire la popolazione di Crimea e Sebastopoli, minacciandola di pulizia etnica nello spirito nazista. Non siamo stati noi a cercare di costringere il Donbass all’obbedienza con bombardamenti e bombarde. Non abbiamo minacciato di uccidere chi voleva parlare la propria lingua madre. Qui tutti sono persone informate e istruite. Potrebbe essere possibile – scusate il mio “mauvais ton” – fare il lavaggio del cervello a milioni di persone che percepiscono la realtà attraverso i media. Ma dovete sapere che cosa stava realmente accadendo: hanno bombardato quel posto per nove anni, sparando e usando i carri armati. È stata una guerra, una vera guerra scatenata contro il Donbass. E nessuno ha contato i bambini morti nel Donbass. Nessuno ha pianto per i morti in altri Paesi, soprattutto in Occidente.

Questa guerra, quella che il regime di Kiev ha iniziato con il sostegno vigoroso e diretto dell’Occidente, dura da più di nove anni e l’operazione militare speciale della Russia mira a fermarla. E ci ricorda che le azioni unilaterali, a prescindere da chi le compie, provocano inevitabilmente delle ritorsioni. Come sappiamo, a ogni azione corrisponde una reazione opposta. Questo è ciò che fa ogni Stato responsabile, ogni Paese sovrano, indipendente e che si rispetti.

Tutti si rendono conto che in un sistema internazionale in cui regna l’arbitrio, in cui ogni decisione spetta a coloro che si ritengono eccezionali, senza peccato e giusti, qualsiasi Paese può essere attaccato semplicemente perché non piace a un egemone, che ha perso il senso delle proporzioni e, aggiungerei, il senso della realtà.

Purtroppo, dobbiamo ammettere che le nostre controparti in Occidente hanno perso il senso della realtà e hanno superato ogni limite. Non avrebbero dovuto farlo.

La crisi ucraina non è un conflitto territoriale, e voglio che sia chiaro. La Russia è il Paese più grande del mondo in termini di superficie e non abbiamo alcun interesse a conquistare altro territorio. Abbiamo ancora molto da fare per sviluppare adeguatamente la Siberia, la Siberia orientale e l’Estremo Oriente russo. Non si tratta di un conflitto territoriale né di un tentativo di stabilire un equilibrio geopolitico regionale. La questione è molto più ampia e fondamentale e riguarda i principi alla base del nuovo ordine internazionale.

Una pace duratura sarà possibile solo quando tutti si sentiranno al sicuro, capiranno che le loro opinioni sono rispettate e che esiste un equilibrio nel mondo in cui nessuno può forzare o costringere unilateralmente gli altri a vivere o a comportarsi come un egemone desidera, anche quando ciò contraddice la sovranità, gli interessi genuini, le tradizioni o le usanze di popoli e Paesi. In questo modo, il concetto stesso di sovranità viene semplicemente negato e, purtroppo, gettato nella spazzatura.

È chiaro che l’impegno verso approcci basati su blocchi e la spinta a portare il mondo in una situazione di continuo confronto “noi contro loro” è una cattiva eredità del XX secolo. È un prodotto della cultura politica occidentale, almeno delle sue manifestazioni più aggressive. Per ribadire che l’Occidente – almeno una certa parte dell’Occidente, l’élite – ha sempre bisogno di un nemico. Hanno bisogno di un nemico per giustificare la necessità di azioni militari e di espansione. Ma hanno anche bisogno di un nemico per mantenere il controllo interno all’interno di un certo sistema di questo stesso egemone e all’interno di blocchi come la NATO o altri blocchi politico-militari. Deve esserci un nemico, in modo che tutti possano stringersi attorno al “leader”.

Il modo in cui gli altri Stati gestiscono la loro vita non ci riguarda. Tuttavia, vediamo come l’élite al potere in molti di essi stia costringendo le società ad accettare norme e regole che il popolo – o almeno un numero significativo di persone e persino la maggioranza in alcuni Paesi – non è disposto ad accettare. Ma vengono comunque spinti a farlo, con le autorità che inventano continuamente giustificazioni per le loro azioni, attribuendo i crescenti problemi interni a cause esterne e inventando o esagerando minacce inesistenti.

La Russia è l’argomento preferito di questi politici. Ci siamo abituati a questo nel corso della storia, naturalmente. Ma cercano di dipingere come nemici coloro che non sono disposti a seguire ciecamente questi gruppi d’élite occidentali. Hanno usato questo approccio con vari Paesi, tra cui la Repubblica Popolare Cinese, e hanno cercato di farlo con l’India in alcune situazioni. Ora ci stanno provando, come possiamo vedere molto chiaramente. Siamo consapevoli e vediamo gli scenari che stanno utilizzando in Asia. Vorrei dire che la leadership indiana è indipendente e fortemente orientata a livello nazionale. Penso che questi tentativi siano inutili, eppure continuano. Cercano di dipingere il mondo arabo come un nemico; lo fanno in modo selettivo e cercano di agire in modo accurato, ma il risultato è questo. Cercano persino di presentare i musulmani come un ambiente ostile, e così via. Di fatto, chiunque agisca in modo indipendente e nel proprio interesse viene immediatamente visto dall’élite occidentale come un ostacolo che deve essere rimosso.

Si impongono al mondo associazioni geopolitiche artificiali e si creano blocchi ad accesso limitato. Lo vediamo accadere in Europa, dove da decenni si persegue una politica aggressiva di espansione della NATO, nella regione dell’Asia-Pacifico e nell’Asia meridionale, dove si cerca di distruggere un’architettura di cooperazione aperta e inclusiva. Un approccio basato sui blocchi, se vogliamo chiamare le cose con il loro nome, limita i diritti dei singoli Stati e la loro libertà di svilupparsi lungo il proprio percorso, cercando di spingerli in una “gabbia” di obblighi. In un certo senso, ciò equivale ovviamente all’espropriazione di parte della loro sovranità, spesso seguita dall’imposizione di soluzioni proprie non solo nell’ambito della sicurezza ma anche in altri settori, in primis quello economico, come sta accadendo ora nelle relazioni tra Stati Uniti ed Europa. Non c’è bisogno di spiegarlo ora. Se necessario, possiamo parlarne in dettaglio durante la discussione dopo il mio intervento di apertura.

Per raggiungere questi obiettivi, si cerca di sostituire il diritto internazionale con un “ordine basato sulle regole”, qualunque cosa significhi. Non è chiaro quali regole siano e chi le abbia inventate. È solo spazzatura, ma stanno cercando di impiantare questa idea nella mente di milioni di persone. “Dovete vivere secondo le regole”. Quali regole?

E in realtà, se posso permettermi, i nostri “colleghi” occidentali, soprattutto quelli statunitensi, non si limitano a stabilire arbitrariamente queste regole, ma insegnano agli altri come seguirle e come gli altri dovrebbero comportarsi in generale. Tutto questo viene fatto ed espresso in modo palesemente maleducato e invadente. Questa è un’altra manifestazione della mentalità coloniale. Sentiamo sempre dire: “Dovete”, “Siete obbligati”, “Vi avvertiamo seriamente”.

Chi siete voi per farlo? Che diritto avete di mettere in guardia gli altri? È semplicemente incredibile. Forse coloro che dicono tutto questo dovrebbero liberarsi della loro arroganza e smettere di comportarsi in questo modo nei confronti della comunità globale che conosce perfettamente i suoi obiettivi e i suoi interessi, e dovrebbero abbandonare questo pensiero di epoca coloniale? A volte vorrei dire loro: svegliatevi, quest’epoca è passata da tempo e non tornerà mai più.

Dirò di più: per secoli, questo comportamento ha portato a replicare una cosa sola: le grandi guerre, con varie giustificazioni ideologiche e quasi morali inventate per giustificare queste guerre. Oggi questo è particolarmente pericoloso. Come sapete, l’umanità ha i mezzi per distruggere facilmente l’intero pianeta e la continua manipolazione mentale, incredibile in termini di scala, porta a perdere il senso della realtà. È chiaro che occorre cercare una via d’uscita da questo circolo vizioso. A quanto ho capito, amici e colleghi, è per questo che siete venuti qui ad affrontare queste questioni vitali nella sede del Valdai Club.

Nel concetto di politica estera della Russia, il nostro Paese è caratterizzato come uno Stato-civiltà originale. Questa formulazione riflette in modo chiaro e conciso il modo in cui intendiamo non solo il nostro sviluppo, ma anche i principi fondamentali dell’ordine internazionale, che speriamo prevalga.

Dal nostro punto di vista, la civiltà è un concetto sfaccettato e soggetto a diverse interpretazioni. Un tempo esisteva un’interpretazione coloniale esteriore, secondo la quale esisteva un “mondo civilizzato” che fungeva da modello per il resto, e tutti dovevano conformarsi a questi standard. Chi non era d’accordo doveva essere costretto a entrare in questa “civiltà” dal manganello del padrone “illuminato”. Questi tempi, come ho detto, sono ormai passati e la nostra concezione di civiltà è molto diversa.

Innanzitutto, ci sono molte civiltà e nessuna è superiore o inferiore a un’altra. Sono uguali perché ogni civiltà rappresenta un’espressione unica della propria cultura, delle proprie tradizioni e delle aspirazioni del suo popolo. Nel mio caso, ad esempio, essa incarna le aspirazioni del mio popolo, di cui ho la fortuna di far parte.

I grandi pensatori di tutto il mondo che sostengono il concetto di approccio basato sulla civiltà si sono impegnati in una profonda contemplazione del significato di “civiltà” come concetto. Si tratta di un fenomeno complesso, composto da molte componenti. Senza addentrarci troppo nella filosofia, che potrebbe non essere appropriata in questa sede, cerchiamo di descriverlo pragmaticamente come si applica agli sviluppi attuali.

Le caratteristiche essenziali di uno Stato-civiltà comprendono la diversità e l’autosufficienza, che, a mio avviso, sono due componenti fondamentali. Il mondo di oggi rifiuta l’uniformità e ogni Stato e società si sforza di sviluppare il proprio percorso di sviluppo, radicato nella cultura e nelle tradizioni, impregnato di geografia e di esperienze storiche, sia antiche che moderne, nonché dei valori del suo popolo. Si tratta di una sintesi intricata che dà origine a una comunità civile distinta. La sua forza e il suo progresso dipendono dalla sua diversità e dalla sua natura multiforme.

La Russia si è formata nel corso dei secoli come una nazione di culture, religioni ed etnie diverse. La civiltà russa non può essere ridotta a un unico denominatore comune, ma non può nemmeno essere divisa, perché prospera come un’unica entità spiritualmente e culturalmente ricca. Mantenere l’unità coesiva di una tale nazione è una sfida formidabile.

Nel corso dei secoli abbiamo affrontato sfide difficili; ce l’abbiamo sempre fatta, a volte a caro prezzo, ma ogni volta abbiamo imparato la lezione per il futuro, rafforzando la nostra unità nazionale e l’integrità dello Stato russo.

L’esperienza acquisita è oggi davvero preziosa. Il mondo sta diventando sempre più vario e i suoi processi complessi non possono più essere gestiti con semplici metodi di governance, dipingendo tutti con lo stesso pennello, come diciamo noi, cosa che alcuni Stati stanno ancora cercando di fare.

C’è qualcosa di importante da aggiungere a tutto questo. Un sistema statale veramente efficace e forte non può essere imposto dall’esterno. Cresce naturalmente dalle radici civili dei Paesi e dei popoli e, a questo proposito, la Russia è un esempio di come ciò avvenga realmente nella vita, nella pratica.

Fare affidamento sulla propria civiltà è una condizione necessaria per avere successo nel mondo moderno, purtroppo un mondo disordinato e pericoloso che ha perso l’orientamento. Sempre più Stati stanno arrivando a questa conclusione, prendendo coscienza dei propri interessi e bisogni, delle opportunità e dei limiti, della propria identità e del grado di interconnessione con il mondo circostante.

Sono fiducioso che l’umanità non si stia muovendo verso la frammentazione in segmenti rivali, un nuovo confronto tra blocchi, indipendentemente dalle loro motivazioni, o un universalismo senz’anima di una nuova globalizzazione. Al contrario, il mondo è in cammino verso una sinergia di civiltà-stati, grandi spazi, comunità che si identificano come tali.

Allo stesso tempo, la civiltà non è un costrutto universale, uno per tutti – non esiste. Ogni civiltà è diversa, ogni civiltà è culturalmente autosufficiente, attinge alla propria storia e alle proprie tradizioni per i principi e i valori ideologici. Il rispetto di se stessi deriva naturalmente dal rispetto degli altri, ma implica anche il rispetto degli altri. Ecco perché una civiltà non impone nulla a nessuno, ma non permette nemmeno che venga imposto nulla a se stessa. Se tutti vivono secondo questa regola, possiamo vivere in una coesistenza armoniosa e in un’interazione creativa tra tutti nelle relazioni internazionali.

Naturalmente, proteggere la propria scelta civile è una responsabilità enorme. È una risposta alle violazioni esterne, allo sviluppo di relazioni strette e costruttive con altre civiltà e, soprattutto, al mantenimento della stabilità e dell’armonia interna. Tutti noi possiamo constatare che oggi l’ambiente internazionale è purtroppo instabile e piuttosto aggressivo, come ho sottolineato.

Ecco un’altra cosa essenziale: nessuno deve tradire la propria civiltà. Questo è il cammino verso il caos universale; è innaturale e, direi, disgustoso. Da parte nostra, abbiamo sempre cercato e continuiamo a cercare di offrire soluzioni che tengano conto degli interessi di tutte le parti. Ma le nostre controparti in Occidente sembrano aver dimenticato le nozioni di ragionevole autocontrollo, di compromesso e di disponibilità a fare concessioni in nome del raggiungimento di un risultato che soddisfi tutte le parti. No, sono letteralmente fissati su un solo obiettivo: far passare i loro interessi, qui e ora, e farlo a qualsiasi costo. Se questa è la loro scelta, vedremo cosa ne verrà fuori.

Sembra un paradosso, ma la situazione potrebbe cambiare domani, e questo è un problema. Ad esempio, le regolari elezioni possono portare a cambiamenti sulla scena politica interna. Oggi un Paese può insistere nel voler fare qualcosa a tutti i costi, ma domani la sua situazione politica interna potrebbe cambiare e iniziare a far passare un’idea diversa e a volte persino opposta.

Un esempio lampante è il programma nucleare iraniano. Un’amministrazione statunitense ha proposto una soluzione, ma l’amministrazione successiva ha ribaltato la questione. Come si può lavorare in queste condizioni? Quali sono le linee guida? Su cosa possiamo fare affidamento? Dove sono le garanzie? Sono queste le “regole” di cui ci parlano? È un’assurdità e un’assurdità.

Perché sta accadendo questo e perché tutti sembrano a proprio agio? La risposta è che il pensiero strategico è stato sostituito con gli interessi mercenari a breve termine, non solo dei Paesi o delle nazioni, ma anche dei gruppi di influenza che si succedono. Questo spiega l’incredibile, se giudicata in termini di Guerra Fredda, irresponsabilità dei gruppi politici d’élite, che si sono liberati di ogni paura e vergogna e si considerano senza colpe.

L’approccio civilistico si confronta con queste tendenze perché si basa sugli interessi fondamentali e a lungo termine degli Stati e dei popoli, interessi che non sono dettati dall’attuale situazione ideologica, ma dall’intera esperienza storica e dall’eredità del passato, su cui poggia l’idea di un futuro armonioso.

Se tutti fossero guidati da questo, credo che ci sarebbero molti meno conflitti nel mondo e gli approcci per risolverli diventerebbero molto più razionali, perché tutte le civiltà si rispetterebbero a vicenda, come ho detto, e non cercherebbero di cambiare nessuno in base alle proprie idee.

Amici, ho letto con interesse la relazione preparata dal Valdai Club per la riunione di oggi. Vi si legge che tutti si stanno sforzando di capire e immaginare una visione del futuro. Questo è naturale e comprensibile, soprattutto per i circoli intellettuali. In un’epoca di cambiamenti radicali, in cui il mondo a cui siamo abituati si sta sgretolando, è molto importante capire dove siamo diretti e dove vogliamo arrivare. E, naturalmente, il futuro si sta creando ora, non solo davanti ai nostri occhi, ma anche con le nostre stesse mani.

Naturalmente, quando sono in corso processi così massicci ed estremamente complessi, è difficile o addirittura impossibile prevederne il risultato. Indipendentemente da ciò che facciamo, la vita si adeguerà. Ma, in ogni caso, dobbiamo renderci conto di ciò per cui stiamo lottando, di ciò che vogliamo ottenere. In Russia c’è questa consapevolezza.

Primo. Vogliamo vivere in un mondo aperto e interconnesso, dove nessuno cercherà mai di porre barriere artificiali alla comunicazione, alla realizzazione creativa e alla prosperità delle persone. Dobbiamo sforzarci di creare un ambiente privo di ostacoli.

Secondo. Vogliamo che la diversità del mondo sia preservata e serva da base per lo sviluppo universale. Dovrebbe essere vietato imporre a qualsiasi Paese o popolo come deve vivere e come deve sentirsi. Solo una vera diversità culturale e civile garantirà il benessere dei popoli e l’equilibrio degli interessi.

In terzo luogo, la Russia è a favore della massima rappresentanza. Nessuno ha il diritto o la capacità di governare il mondo per gli altri e per conto degli altri. Il mondo del futuro è un mondo di decisioni collettive prese ai livelli in cui sono più efficaci e da coloro che sono veramente in grado di dare un contributo significativo alla risoluzione di un problema specifico. Non è che una persona decida per tutti, e nemmeno tutti decidono tutto, ma coloro che sono direttamente interessati da questo o quel problema devono accordarsi su cosa fare e come farlo.

In quarto luogo, la Russia è a favore della sicurezza universale e di una pace duratura costruita sul rispetto degli interessi di tutti: dai grandi Paesi ai piccoli. La cosa principale è liberare le relazioni internazionali dall’approccio a blocchi e dall’eredità dell’era coloniale e della guerra fredda. Da decenni diciamo che la sicurezza è indivisibile e che è impossibile garantire la sicurezza di alcuni a scapito di quella di altri. In effetti, l’armonia in questo settore può essere raggiunta. Basta mettere da parte la superbia e l’arroganza e smettere di considerare gli altri come partner di seconda classe, emarginati o selvaggi.

Quinto: siamo per la giustizia per tutti. L’era dello sfruttamento, come ho detto due volte, è passata. I Paesi e i popoli sono chiaramente consapevoli dei loro interessi e delle loro capacità e sono pronti a contare su se stessi; e questo aumenta la loro forza. Tutti dovrebbero avere accesso ai benefici del mondo di oggi e i tentativi di limitarli per qualsiasi Paese o popolo dovrebbero essere considerati un atto di aggressione.

In sesto luogo, sosteniamo l’uguaglianza, il diverso potenziale di tutti i Paesi. Questo è un fattore del tutto oggettivo. Ma non meno oggettivo è il fatto che nessuno è più disposto a prendere ordini o a far dipendere i propri interessi e bisogni da qualcuno, soprattutto dai ricchi e dai più potenti.

Questo non è solo lo stato naturale della comunità internazionale, ma la quintessenza di tutta l’esperienza storica dell’umanità.

Questi sono i principi che vorremmo seguire e che invitiamo tutti i nostri amici e colleghi ad aderire.

Colleghi!

La Russia è stata, è e sarà una delle fondamenta di questo nuovo sistema mondiale, pronta a interagire in modo costruttivo con tutti coloro che si battono per la pace e la prosperità, ma pronta a opporsi duramente a coloro che professano i principi della dittatura e della violenza. Crediamo che il pragmatismo e il buon senso prevarranno e che si affermerà un mondo multipolare.

In conclusione, desidero ringraziare gli organizzatori del Forum per la fondamentale e qualificata preparazione, come sempre, e ringraziare tutti i presenti a questo anniversario per la loro attenzione. Vi ringrazio molto.

(Applausi.)

Fyodor Lukyanov, direttore di ricerca del Valdai International Discussion Club, moderatore: Signor Presidente, la ringrazio molto per la presentazione così dettagliata di queste questioni generali, concettuali. In effetti, molti – al Valdai Club e altrove – hanno cercato di comprendere il quadro che sostituirà quello che non funziona più, ma finora non abbiamo avuto molto successo. Sappiamo cosa non c’è più, ma non sappiamo cosa lo sostituirà. Credo che i punti da lei esposti siano il primo tentativo di delineare chiaramente almeno i principi.

Se posso fare eco alla sua affermazione, la parte relativa alle civiltà e all’approccio basato sulle civiltà è certamente stimolante. Una volta lei ha detto – in realtà è stato molto tempo fa – di aver usato un’espressione molto vivace, dicendo che i confini della Russia “non finiscono da nessuna parte”. Se i confini della Russia non finiscono, è chiaro che la civiltà russa è sconfinata per definizione, in modo corretto. Che cosa significa? Dove si trova?

Vladimir Putin: Sa, questa frase è stata pronunciata per la prima volta in una conversazione con uno degli ex Presidenti degli Stati Uniti, quando stava guardando una mappa della Federazione Russa nella mia casa di Ogaryovo; era certamente una battuta.

Lo sappiamo tutti, ma vorrei ripeterlo: la Russia rimane il Paese più grande del mondo per superficie. Su una nota più seria, questo ha senso soprattutto a livello di civiltà. I nostri connazionali vivono [nel mondo] in gran numero; il mondo russo è di natura globale; il russo è una delle lingue ufficiali delle Nazioni Unite. Solo in America Latina – ho incontrato di recente i loro parlamentari – vivono 300.000 russi. Sono ovunque: in Asia, in Africa, in Europa e certamente in Nord America.

Quindi, ancora una volta, parlando seriamente, come civiltà, la Russia non ha confini, così come non hanno confini nemmeno altre civiltà. Prendiamo l’India o la Cina; guardate quanti rappresentanti della Cina o dell’India vivono in altri Paesi. Le varie civiltà si sovrappongono e interagiscono tra loro. E sarebbe bello se questa interazione fosse naturale e amichevole, volta a rafforzare questo equilibrio.

Fyodor Lukyanov: Quindi, per lei, la civiltà non riguarda il territorio, ma le persone?

Vladimir Putin: Sì, certo, in primo luogo si tratta di persone. Probabilmente ora ci saranno molte domande sull’Ucraina. Le nostre azioni nel Donbass, innanzitutto, sono dettate dalla necessità di proteggere le persone. Questo è lo scopo di fondo delle nostre azioni.

Fyodor Lukyanov: In questo caso, può definire l’operazione militare speciale come un conflitto civile? Lei ha detto che non si tratta di un conflitto territoriale.

Vladimir Putin: È principalmente… Non so che tipo di civiltà stiano difendendo coloro che si trovano dall’altra parte del fronte, ma noi stiamo difendendo le nostre tradizioni, la nostra cultura e il nostro popolo.

Fyodor Lukyanov: Ok. Visto che siamo passati a parlare di Ucraina, credo che oggi inizi un importante evento europeo in Spagna, e Vladimir Zelensky e molte altre figure importanti sono presenti. Si sta discutendo di continuare a sostenere l’Ucraina. Come sappiamo, negli Stati Uniti c’è stato un certo ritardo a causa della crisi del Congresso. Sembra quindi che l’Europa ritenga di doversi fare carico di questo sostegno finanziario.

Crede che se la caveranno? E cosa possiamo aspettarci da questo?

Vladimir Putin: Ci aspettiamo di vedere almeno una parvenza di buon senso. Per quanto riguarda la capacità di farcela o meno, sono loro nella posizione migliore per rispondere a questa domanda. Certo, lo affronteranno; non vedo alcun problema nell’espandere la produzione e nell’aumentare la quantità di denaro destinata alla guerra per prolungare questo conflitto. Ma ci sono, ovviamente, questioni che, credo, questo pubblico conosce bene.

Se c’è un ritardo, come lei ha detto, negli Stati Uniti, è più di natura tecnica, o politica e tecnica, per così dire, ed è causato da problemi di bilancio, dal pesante fardello del debito e dalla necessità di bilanciare il bilancio. La domanda è: come bilanciarlo? Fornendo armi all’Ucraina e riducendo la spesa di bilancio, o tagliando la spesa sociale? Nessuno è disposto a tagliare la spesa sociale, perché questa mossa rafforzerebbe il partito di opposizione. Questo è quanto.

Alla fine, probabilmente, troveranno i soldi e ne stamperanno altri. Hanno stampato più di 9.000 miliardi di dollari durante il periodo della pandemia e del dopo-pandemia, quindi non ci penseranno due volte a stamparne di più e a diffonderli in tutto il mondo, aggravando così l’inflazione alimentare. Molto probabilmente lo faranno.

Per quanto riguarda l’Europa, la situazione è più difficile perché, se negli Stati Uniti si registra ancora una crescita del PIL del 2,4% nel periodo precedente, in Europa le cose vanno molto peggio. Nel 2021 la loro crescita economica è stata del 4,9%, mentre quest’anno sarà dello 0,5%. E anche questa crescita è dovuta soprattutto ai Paesi del Sud, Italia e Spagna, che hanno registrato una certa crescita.

Ieri ne abbiamo discusso con i nostri esperti; credo che la crescita in Italia e Spagna sia legata soprattutto all’aumento dei prezzi degli immobili e a una certa ripresa del settore turistico. Le principali economie europee sono attualmente in fase di stagnazione e la maggior parte dei settori manifatturieri sta registrando risultati negativi. Nella Repubblica Federale Tedesca si registra un meno 0,1%, nei Paesi Baltici un meno 2 o addirittura un meno 3% in Estonia, credo; anche nei Paesi Bassi e in Austria si registra un calo. Questo vale in particolare per la produzione industriale, che si trova in condizioni critiche, se non addirittura disastrose, soprattutto per i settori della chimica, del vetro e della metallurgia.

Sappiamo che a causa dei prezzi relativamente bassi dell’energia negli Stati Uniti e di alcune decisioni amministrative e finanziarie prese in quel Paese, molti impianti di produzione europei si stanno semplicemente trasferendo negli Stati Uniti. Chiudono in Europa e si trasferiscono negli Stati Uniti. Questo è un fatto noto, ed è ciò che ho accennato qualche tempo fa, parlando a questo forum. L’onere cresce anche per i cittadini dei Paesi europei, e anche questo è un dato di fatto, come confermano le statistiche europee. La qualità della vita sta peggiorando ed è diminuita dell’1,5% nell’ultimo mese, se non sbaglio.

L’Europa può farcela o no? Può. Ma come? A spese dell’ulteriore peggioramento della sua economia e della vita dei cittadini degli Stati europei.

Fyodor Lukyanov: Ma anche il nostro bilancio non può coprire tutto. Ce la faremo, a differenza loro?

Vladimir Putin: Finora ce la stiamo facendo e ho ragione di credere che ce la faremo anche in futuro. Nel terzo trimestre di quest’anno abbiamo avuto un’eccedenza di bilancio di oltre 660 miliardi di rubli. Questa è la prima cosa.

La seconda. Entro la fine dell’anno, il deficit di bilancio sarà di circa l’1%. Secondo i nostri calcoli, nei prossimi anni (2024 e 2025) il deficit sarà di circa l’1%. Abbiamo anche un tasso di disoccupazione da record, stabilizzato al 3%.

Un’altra cosa importante – questo è un momento chiave e forse ci torneremo ancora, ma credo che sia un fenomeno importante e fondamentale nella nostra economia – è che è iniziata una ristrutturazione naturale dell’economia, perché quello che prima importavamo dall’Europa ci è stato tagliato, e come nel 2014, quando abbiamo introdotto alcune restrizioni all’acquisto di beni occidentali, europei, soprattutto agricoli, siamo stati costretti a investire nello sviluppo della produzione agricola all’interno del Paese. Certo, l’inflazione si è impennata, ma poi abbiamo fatto in modo che i nostri produttori aumentassero la produzione dei beni di cui avevamo bisogno. E oggi, come sapete, copriamo pienamente il nostro fabbisogno di tutti i prodotti agricoli di base e dei generi alimentari di base.

Lo stesso sta avvenendo nell’industria e la crescita principale è quella delle industrie manifatturiere. Le entrate derivanti dal petrolio e dal gas sono diminuite, ma stanno fornendo un ulteriore 3%, e le entrate non derivanti dal petrolio e dal gas, principalmente nelle industrie di trasformazione, sono cresciute del 43%, soprattutto nell’industria siderurgica, ottica ed elettronica. Abbiamo molto da fare nel campo della microelettronica. Siamo ancora all’inizio del nostro percorso, ma stiamo già crescendo. Nel complesso si tratta di un aumento del 43%.

Stiamo ricostruendo la logistica, l’ingegneria meccanica sta crescendo e così via. Nel complesso, abbiamo una situazione stabile. Abbiamo superato tutti i problemi sorti dopo l’imposizione delle sanzioni e abbiamo iniziato la prossima fase di sviluppo: su una nuova base, che è estremamente importante.

È molto importante per noi mantenere questa tendenza e non perderla. Abbiamo alcuni problemi, tra cui la carenza di manodopera, è vero, seguita da altre questioni. Ma il reddito reale disponibile della nostra popolazione sta crescendo. Mentre in Europa è in calo, in Russia è cresciuto di oltre il 12%.

Tra i nostri problemi c’è l’inflazione, che è cresciuta: ora è al 5,7%, ma la Banca Centrale e il Governo stanno adottando misure concertate per neutralizzare queste possibili conseguenze negative.

Fyodor Lukyanov: Lei ha parlato della riorganizzazione strutturale in corso.

Alcuni critici potrebbero sostenere che si tratta in realtà di una militarizzazione dell’economia. Le loro affermazioni sono valide?

Vladimir Putin: Guardi, la nostra spesa per la difesa è effettivamente aumentata, ma non si limita alla difesa e comprende anche la sicurezza. Queste spese sono circa raddoppiate, passando da circa il 3% a circa il 6%, comprendendo sia la difesa che la sicurezza. Tuttavia, vorrei sottolineare, come ho già detto in precedenza e mi sento in dovere di ribadire: abbiamo raggiunto un surplus di bilancio di oltre 660 miliardi di rubli nel terzo trimestre, e prevediamo un deficit di appena l’1% per questo anno fiscale. Si tratta di un bilancio complessivamente sano e di un’economia robusta.

Quindi, affermare che stiamo spendendo troppo per i cannoni trascurando il burro è un’affermazione inesatta. È importante notare che tutti i piani di sviluppo annunciati in precedenza, la realizzazione degli obiettivi strategici e il mantenimento di tutte le responsabilità sociali che il governo si è assunto per il benessere dei cittadini sono in corso di attuazione.

Fyodor Lukyanov: Grazie. È una buona notizia.

Signor Presidente, a parte il conflitto in Ucraina, di cui sicuramente parleremo ancora, negli ultimi giorni e settimane ci sono stati sviluppi significativi nel Caucaso meridionale. Il Presidente del Consiglio europeo Charles Michel ha dichiarato in una recente intervista che la Russia ha tradito il popolo armeno.

Vladimir Putin: Chi ha detto questo?

Fyodor Lukyanov: Charles Michel, il Presidente del Consiglio europeo.

Vladimir Putin: Beh, sa, noi abbiamo un detto: “È bello sentire il proprio cavallo muggire così”.

Fyodor Lukyanov: La tua mucca.

Vladimir Putin: Mucca, cavallo, chi se ne frega. Un animale.

C’è qualcos’altro? Mi scuso per l’interruzione.

Fyodor Lukyanov: Prego, continui pure.

Vladimir Putin: Capisce cosa è successo di recente? In seguito ai noti eventi e alla disgregazione dell’Unione Sovietica, è scoppiato un conflitto che ha portato a scontri etnici tra armeni e azeri. Tutto è iniziato nella città di Sumgait e successivamente si è riversato nel Karabakh. Alla fine, l’Armenia ha ottenuto il controllo effettivo del Karabakh e di sette distretti azeri limitrofi, che costituiscono quasi il 20% del territorio dell’Azerbaigian. Questo è durato per molti decenni.

Dirò – e non sto svelando alcun segreto – che negli ultimi 15 anni abbiamo ripetutamente suggerito ai nostri amici armeni di accettare dei compromessi. Quali compromessi? Restituire all’Azerbaigian cinque distretti intorno al Karabakh e conservarne due, preservando così la connettività territoriale tra Armenia e Karabakh.

Tuttavia, i nostri amici del Karabakh risponderebbero sempre: No, questo ci metterebbe in pericolo. Noi rispondevamo: Ascoltate, l’Azerbaigian sta crescendo, la sua economia sta avanzando, è un Paese produttore di petrolio, la sua popolazione è già superiore ai 10 milioni, confrontiamo il potenziale. Questo compromesso dovrebbe essere raggiunto quando c’è ancora un’opportunità. Da parte nostra, eravamo fiduciosi che le rispettive decisioni sarebbero state prese dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, e che avremmo garantito la sicurezza di questo corridoio di Lachin, che sta emergendo naturalmente, tra l’Armenia e il Karabakh, e la sicurezza degli armeni che vivono lì.

Ma ci è stato detto che non potevano farlo. Allora cosa farete? Combatteremo, hanno detto. Bene, ok, si è arrivati agli scontri armati nel 2020, e poi ho anche suggerito ai nostri amici e colleghi – a proposito, spero che il Presidente Aliyev non si offenda per me, ma a un certo punto è stato raggiunto un accordo per cui le truppe dell’Azerbaigian si sarebbero fermate.

Francamente, pensavo che la questione fosse stata risolta. Ho chiamato Yerevan e all’improvviso ho sentito: No, devono lasciare la piccola area del Karabakh dove sono entrate le truppe azere. Questo è quanto. Ho detto: Ascoltate, cosa avete intenzione di fare? La stessa frase: Combatteremo. Io dico: Ascoltate, entro pochi giorni avanzeranno verso le retrovie delle vostre forze vicino ad Agdam e tutto sarà finito. Lo capite? Si. Cosa farete allora? Combatteremo. Bene, d’accordo. Quindi è andata come è andata.

Alla fine, abbiamo concordato con l’Azerbaigian che dopo l’avanzata verso la linea di Shusha e la città di Shusha stessa, le attività di combattimento sarebbero state interrotte. Nel novembre 2020 è stata firmata una dichiarazione relativa all’interruzione delle attività di combattimento e al dispiegamento delle nostre forze di pace. E questo è un altro punto cruciale: lo status giuridico delle nostre forze di pace si basava esclusivamente su quella dichiarazione del novembre 2020. Lo status di peacekeeping non ha mai comportato nulla. Non parlerò ora dei motivi. L’Azerbaigian riteneva che non ce ne fosse bisogno e la firma senza l’Azerbaigian non aveva senso. Quindi lo status si basava, ripeto, esclusivamente sulla dichiarazione del novembre 2020, e l’unico diritto delle forze di pace era quello di monitorare il cessate il fuoco – e nient’altro. Solo monitorare il cessate il fuoco. Tuttavia, questa situazione precaria è durata per qualche tempo.

Ora lei ha citato il Presidente del Consiglio europeo Michel, che io rispetto. Michel, il presidente francese Macron e il cancelliere tedesco Scholz hanno fatto in modo che i leader di Armenia e Azerbaigian si riunissero a Praga nell’autunno del 2022 e firmassero una dichiarazione in base alla quale l’Armenia riconosceva il Karabakh come parte della Repubblica dell’Azerbaigian.

Inoltre, i capi delle delegazioni e i leader dell’Armenia hanno indicato direttamente il territorio dell’Azerbaigian in chilometri quadrati, che ovviamente comprende il Karabakh, e hanno sottolineato che riconoscono la sovranità dell’Azerbaigian all’interno dei confini della RSS dell’Azerbaigian, che un tempo faceva parte dell’URSS. E, come sapete, anche il Karabakh faceva parte dell’URSS azera. Questo, di fatto, ha risolto la questione principale, che era assolutamente cruciale: lo status del Karabakh. Quando il Karabakh dichiarò la propria indipendenza, nessuno la riconobbe, nemmeno l’Armenia, cosa francamente strana per me, ma comunque la decisione fu presa: non riconobbero l’indipendenza del Karabakh. Tuttavia, a Praga hanno riconosciuto che il Karabakh appartiene all’Azerbaigian. E poi, all’inizio del 2023, lo hanno ripetuto una seconda volta in un incontro simile a Bruxelles.

Sa, tra di noi, anche se probabilmente non possiamo più dirlo, ma comunque, se sono arrivati [a un accordo]… Tra l’altro, nessuno ce ne ha parlato, l’ho appreso personalmente dalla stampa. L’Azerbaigian ha sempre ritenuto che il Karabakh fosse parte del suo territorio, ma definendo lo status del Karabakh come parte dell’Azerbaigian, l’Armenia ha cambiato qualitativamente la sua posizione.

Dopo questo fatto, il presidente Aliyev si è avvicinato a me durante una riunione e mi ha detto: vedi, tutti hanno riconosciuto che il Karabakh è nostro; le vostre forze di pace sono lì sul nostro territorio. Vedete, anche lo status dei nostri peacekeepers ha subito un cambiamento qualitativo dopo che è stato determinato lo status del Karabakh come parte dell’Azerbaigian. Ha detto: i vostri militari sono sul nostro territorio e ora concordiamo il loro status su base bilaterale. E il Primo Ministro Pashinyan ha confermato: sì, ora dovete parlare bilateralmente. Cioè, il Karabakh non c’è più. Si può dire tutto quello che si vuole su questo status, ma questa era la questione chiave: lo status del Karabakh. Tutto è ruotato intorno a questo punto nei decenni precedenti: come e quando, chi e dove determinerà lo status. Ora l’Armenia ha deciso: Il Karabakh è diventato ufficialmente parte dell’Azerbaigian. Questa è la posizione dello Stato armeno oggi.

Cosa avremmo dovuto fare? Tutto quello che è successo nel recente passato, una settimana, due, tre settimane fa – il blocco del corridoio di Lachin e altre cose – tutto questo era inevitabile dopo il riconoscimento della sovranità dell’Azerbaigian sul Karabakh. Era solo una questione di tempo: quando e in che modo l’Azerbaigian avrebbe stabilito l’ordine costituzionale in quel Paese nel quadro della Costituzione dello Stato azero. Cosa potevamo dire? Come potevamo reagire? L’Armenia lo ha riconosciuto, ma noi cosa avremmo dovuto fare? Avremmo dovuto dire: no, non lo riconosciamo? È un’assurdità, non è vero? È una specie di assurdità.

Non parlerò di tutti i dettagli delle nostre discussioni, perché credo che sarebbe inopportuno, ma ciò che è accaduto negli ultimi giorni o settimane è stata una conseguenza inevitabile di ciò che è stato fatto a Praga e a Bruxelles. Pertanto, il signor Michel e i suoi colleghi avrebbero dovuto pensare a quando, a quanto pare – non lo so, dovremmo chiederlo a loro – hanno cercato privatamente, dietro le quinte, di convincere il Primo Ministro Pashinyan a compiere questo passo. Avrebbero dovuto pensare collettivamente al futuro degli armeni in Karabakh e avrebbero dovuto almeno delineare cosa li aspetta in questa situazione. Avrebbero dovuto delineare una qualche forma di integrazione del Karabakh nello Stato azero e una serie di azioni per garantire la loro sicurezza e i loro diritti. Non c’è nulla. C’è solo una dichiarazione che il Karabakh fa parte dell’Azerbaigian; tutto qui. Quindi, cosa dovremmo fare se l’Armenia stessa ha preso questa decisione?

Cosa abbiamo fatto noi? Abbiamo usato tutto ciò che era nei nostri mezzi legali per fornire assistenza umanitaria. Come forse saprete, i nostri peacekeepers sono morti per proteggere gli armeni in Karabakh. Abbiamo fornito aiuti umanitari e assistenza medica e abbiamo garantito loro un passaggio sicuro.

Per quanto riguarda i nostri “colleghi” europei, dovrebbero almeno inviare ora alcuni aiuti umanitari per aiutare quelle persone sfortunate – non ho altro modo per dirlo – che hanno lasciato il Nagorno-Karabakh. Penso che lo faranno. Ma in generale, dobbiamo pensare al loro futuro a lungo termine.

Fyodor Lukyanov: La Russia è disposta a sostenere queste persone?

Vladimir Putin: Ho appena detto che li sosteniamo.

Fyodor Lukyanov: Quelli che se ne sono andati.

Vladimir Putin: Il nostro popolo è morto lì per proteggerli, coprirli e fornire supporto umanitario. Dopo tutto, tutti i rifugiati si sono riuniti intorno ai nostri peacekeeper. Sono andati lì a migliaia, soprattutto donne e bambini.

Naturalmente, siamo disposti ad aiutarli. L’Armenia rimane un nostro alleato. Se ci sono questioni umanitarie, e ci sono, siamo pronti a discuterne e a fornire sostegno a queste persone. Non c’è bisogno di dirlo.

Vi ho appena raccontato brevemente come si sono svolti i fatti, ma ho trattato i punti principali.

Fyodor Lukyanov: Signor Presidente, c’è un altro punto importante a questo proposito. Al momento, la leadership azera sta dando un giro di vite molto duro nei confronti dei leader che hanno prestato servizio in Karabakh, compresi individui molto noti in Russia, come Ruben Vardanyan, ad esempio.

Vladimir Putin: Per quanto ne so, ha rinunciato alla cittadinanza russa.

Fyodor Lukyanov: L’ha fatto, ma era un cittadino russo. C’è un modo per sollecitare la leadership azera a mostrare un po’ di clemenza?

Vladimir Putin: Lo abbiamo sempre fatto e lo stiamo facendo ora. Come sapete, ho parlato al telefono con il presidente Aliyev, come abbiamo sempre fatto in passato, qualunque cosa fosse accaduta, e lui mi ha sempre assicurato che avrebbe garantito la sicurezza e i diritti del popolo armeno nel Nagorno-Karabakh. Ma ora lì non ci sono più armeni. Sa che sono tutti fuggiti dal luogo? Semplicemente non ci sono più armeni. Forse un migliaio di persone, non di più. Non c’è più nessuno.

Per quanto riguarda gli ex leader – non sono sicuro di voler entrare nei dettagli – ma mi risulta che nemmeno loro siano particolarmente graditi a Yerevan. Tuttavia, presumo che ora che l’Azerbaigian ha risolto tutte le questioni territoriali, la leadership azera sarà disposta a considerare gli aspetti umanitari.

Fyodor Lukyanov: Grazie.

Colleghi, vi prego di porre le vostre domande.

Il professor Feng Shaolei è uno dei nostri membri veterani.

Feng Shaolei: Grazie mille.

Feng Shaolei, Università normale della Cina orientale, Shanghai.

Signor Presidente, sono lieto di rivederla.

A ottobre Pechino ospiterà la conferenza internazionale sul decimo anniversario dell’Iniziativa Belt and Road. Allo stesso tempo, l’iniziativa di collegare il Partenariato eurasiatico con la Belt and Road Initiative, promossa da lei e dal Presidente Xi Jinping, è in corso da quasi dieci anni.

La mia domanda è la seguente: nella nuova situazione, quali nuove idee e proposte concrete avete già preparato?

La ringrazio molto.

Vladimir Putin: In effetti, stiamo tornando sull’argomento e alcuni stanno cercando di seminare dubbi, suggerendo che il nostro progetto di sviluppo eurasiatico – il progetto dell’Unione Economica Eurasiatica e la Belt and Road Initiative del Presidente Xi Jinping – potrebbero non condividere gli stessi interessi e iniziare a competere tra loro. Come ho detto più volte, non è così. Al contrario, crediamo che un progetto sia complementare all’altro in modo armonioso.

Vediamo a che punto siamo ora. Sia la Cina che la Russia – la Russia in misura maggiore oggi, ma la Cina molto prima dell’inizio degli eventi in Ucraina – sono state prese di mira con vari tipi di sanzioni da alcuni dei nostri partner; sappiamo esattamente da chi. A un certo punto, queste misure sono degenerate in una sorta di guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti, poiché le sanzioni imposte al vostro Paese includevano restrizioni sulla logistica.

Siamo interessati a stabilire nuove rotte logistiche e anche la Cina è interessata a questo. Il nostro commercio è in crescita. Ora stiamo parlando del corridoio Nord-Sud. La Cina sta sviluppando catene di approvvigionamento attraverso gli Stati dell’Asia centrale. Siamo interessati a sostenere questo progetto e stiamo costruendo strade e ferrovie a tal fine. Questo è all’ordine del giorno dei nostri negoziati. Questo è il primo punto.

In secondo luogo, c’è un segmento chiamato produzione reale che si sta aggiungendo all’equazione. Noi esportiamo beni in Cina e la Cina ci fornisce i beni di cui abbiamo bisogno. Stiamo costruendo catene logistiche e produttive che sono sicuramente in linea con gli obiettivi che il presidente Xi Jinping ha fissato per l’economia cinese e sono in linea con i nostri obiettivi, che includono la crescita economica e le partnership con altri Paesi, soprattutto nel mondo moderno. Questi obiettivi sono chiaramente complementari.

Non elencherò ora progetti specifici, ma ce ne sono molti, compresi quelli tra Cina e Russia. Abbiamo costruito un ponte, come sapete, e abbiamo altri piani logistici. Come ho detto, stiamo espandendo i legami nell’economia reale. Tutto ciò sarà oggetto dei nostri contatti bilaterali e dei negoziati in ambito multilaterale. Si tratta di un lavoro ampio, voluminoso e ad alta intensità di capitale.

Ancora una volta, vorrei sottolineare questo aspetto: non abbiamo mai rivolto nessuno di questi sforzi contro qualcuno. Questo lavoro, fin dall’inizio, è stato di natura creativa ed è finalizzato esclusivamente al raggiungimento di risultati positivi per entrambi – per la Russia e la Cina – e per i nostri partner in tutto il mondo.

Fyodor Lukyanov: Grazie.

Richard Sakwa.

Richard Sakwa: Lei ha parlato di cambiamenti nella politica internazionale; l’emergere di Stati sovrani che si difendono come attori autonomi nella politica mondiale. In effetti, è così. Gli attori si stanno riunendo nell’organizzazione BRICS+, che si è svolta qualche mese fa, e nell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai.

Quindi il mondo sta cambiando, la politica internazionale sta cambiando, gli Stati stessi stanno cambiando: sono ormai maturati come Stati postcoloniali. Molti di loro, in questa conferenza, hanno detto chiaramente che ora vogliono essere membri attivi della comunità internazionale.

Tuttavia, la politica internazionale prende forma nel quadro del sistema internazionale istituito nel 1945: il sistema delle Nazioni Unite. Ora, vede una contraddizione emergente tra i cambiamenti nella politica internazionale e, se vogliamo, la paralisi del sistema delle Nazioni Unite, del diritto internazionale e di tutto il resto? E come può la Russia contribuire a superare e a far funzionare meglio le Nazioni Unite? E a far sì che le contraddizioni della politica internazionale trovino una sorta di percorso più pacifico e di sviluppo verso il futuro? Grazie.

Vladimir Putin: Lei ha assolutamente ragione. C’è una certa discrepanza tra il quadro creato dai Paesi che hanno vinto la Seconda guerra mondiale nel 1945 e la situazione attuale del mondo. La situazione del mondo nel 1945 era completamente diversa da quella attuale. È chiaro che le norme giuridiche devono essere modificate per adattarsi ai cambiamenti del mondo.

Le opinioni possono essere diverse. Alcuni diranno che l’ONU e il diritto internazionale creato sulla base della Carta delle Nazioni Unite sono diventati obsoleti e dovrebbero essere scartati, lasciando il posto a qualcosa di nuovo. Tuttavia, c’è il rischio di distruggere il sistema di regole internazionali, le vere regole e il diritto internazionale basato sulla Carta delle Nazioni Unite senza creare nulla che lo sostituisca, e questo porterà al caos universale. Già se ne intravedono gli elementi, ma se consegniamo la Carta delle Nazioni Unite alla pattumiera della storia senza sostituirla con qualcosa di nuovo, l’inevitabile caos che ne deriverà porterà a conseguenze estremamente gravi.

Pertanto, credo che dovremmo scegliere la strada di cambiare il diritto internazionale in base alle esigenze moderne e ai cambiamenti della situazione globale. In questo senso, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU dovrebbe avere tra i suoi membri Paesi con un peso sempre maggiore negli affari internazionali e con un potenziale che permetta loro di influenzare le decisioni sulle principali questioni internazionali, cosa che stanno già facendo.

Quali sono questi Paesi? Uno è l’India, con una popolazione di oltre 1,5 miliardi di persone e un’economia che cresce di oltre il 7%, o più precisamente del 7,4 o 7,6%. È un gigante globale. È vero che molte persone hanno ancora bisogno di sostegno e assistenza, ma le esportazioni di alta tecnologia dell’India stanno crescendo a passi da gigante. In breve, è un Paese potente che si rafforza di anno in anno sotto la guida del Primo Ministro Modi.

Oppure prendiamo il Brasile, in America Latina, con una popolazione numerosa e un’influenza in rapida crescita. C’è anche il Sudafrica. La loro influenza globale deve essere presa in considerazione e il loro peso nel processo decisionale sulle principali questioni internazionali deve aumentare.

Certamente, dovremmo farlo in modo da ottenere un consenso per questi cambiamenti, in modo da non demolire l’attuale sistema di diritto internazionale. Si tratta di un processo complicato, ma, a mio avviso, dobbiamo muoverci proprio in questa direzione e su questa strada.

Fyodor Lukyanov: Quindi, lei ritiene che l’attuale sistema di diritto internazionale esista ancora? Non è ancora stato demolito?

Vladimir Putin: Certo, non è stato demolito completamente. Conosce il nocciolo della questione? Ricordiamo i primi anni delle Nazioni Unite. Come chiamavano il ministro degli Esteri sovietico Andrei Gromyko? Lo chiamavano Mr Nyet (No) perché c’erano molte contraddizioni e disaccordi, e l’Unione Sovietica esercitava il suo diritto di veto molto spesso. Tuttavia, ciò era appropriato e aveva un significato importante perché questo approccio preveniva i conflitti.

Nella nostra storia contemporanea, abbiamo spesso sentito i leader occidentali affermare che il sistema delle Nazioni Unite è diventato obsoleto e che non soddisfa le esigenze attuali. Queste affermazioni hanno iniziato a essere pronunciate durante la crisi jugoslava, quando gli Stati Uniti e i loro alleati hanno iniziato a bombardare Belgrado senza alcuna sanzione da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Hanno condotto attacchi senza paura o rimorso, colpendo anche l’ambasciata della Repubblica Popolare Cinese a Belgrado.

Dove sta il diritto internazionale? Hanno detto che il diritto internazionale non esiste perché è diventato inutile e obsoleto. Perché? Perché volevano agire senza dover fare attenzione al diritto internazionale. In seguito, sono rimasti costernati e indignati quando la Russia ha iniziato a intraprendere determinate azioni e hanno notato che stava violando il diritto internazionale e la Carta delle Nazioni Unite.

Purtroppo, ci sono sempre stati tentativi di adattare il diritto internazionale alle proprie esigenze. È un bene o un male? È molto negativo. Tuttavia, almeno c’è qualcosa che serve come punto di riferimento.

La mia preoccupazione principale è che, se tutto questo venisse completamente spazzato via, non ci sarebbe nemmeno un punto di riferimento. A mio avviso, dovremmo procedere sulla strada dei cambiamenti permanenti e graduali. Tuttavia, dovremmo farlo in modo incondizionato. Il mondo è cambiato.

Fyodor Lukyanov: Grazie.

Sergei Karaganov.

Sergei Karaganov: Signor Presidente, sono uno dei veterani e fondatori del club. Posso descrivere i miei sentimenti come una felicità quasi perfetta nel giorno del 20° anniversario del club perché… Ad essere onesti, gli anziani dovrebbero dire che la vita era migliore ai loro tempi. No, la vita non era migliore ai nostri tempi; oggi è migliore, più eccitante, più interessante, più luminosa e più colorata. Quindi, grazie anche a voi per aver partecipato. Ecco la mia domanda…

Vladimir Putin: Quando dice “più eccitante”, mi sembra azzardato.

Sergei Karaganov: È più eccitante quando è più interessante.

Vladimir Putin: È più eccitante per lei, non per me. (Risate.)

Sergei Karaganov: Signor Presidente, c’è una semplice domanda che viene attualmente discussa attivamente fuori dalla Russia e al Valdai Club. La formulerò nel modo seguente, e questa è la mia formulazione, ovviamente non parlo a nome di tutti. La nostra dottrina sull’uso delle armi nucleari non è diventata obsoleta? Credo che sia certamente diventata obsoleta e che appaia addirittura frivola. È stata creata in tempi diversi e, forse, in una situazione diversa, e segue anche teorie vecchie. La deterrenza non funziona più. È giunto il momento di modificare la dottrina sull’uso delle armi nucleari, abbassando la soglia nucleare e procedendo in modo costante e sufficientemente rapido lungo la scala dell’escalation, della deterrenza e del riportare a terra i nostri partner?

Sono diventati sfacciati. Dicono che, secondo la nostra dottrina, non useremo mai le armi nucleari. Di conseguenza, inconsapevolmente permettiamo loro di intensificare e condurre un’aggressione assolutamente mostruosa.

Questa è la mia prima domanda, che contiene la seconda. Anche se in qualche modo vinceremo in Ucraina o nei dintorni, in un modo o nell’altro, nei prossimi anni l’Occidente continuerà a incontrare difficoltà: stanno emergendo nuovi centri e sorgeranno nuovi problemi. Dobbiamo ripristinare la sicurezza chiamata deterrenza nucleare, che ha mantenuto la pace per 70 anni. Oggi l’Occidente ha dimenticato la storia e la paura e sta cercando di eliminare questa sicurezza. Non dovremmo cambiare la nostra politica in questo ambito?

Vladimir Putin: Conosco la sua posizione, ho letto alcuni documenti, i suoi articoli e le sue note, e capisco i suoi sentimenti.

Mi permetta di ricordarle che la Dottrina militare russa prevede due ragioni per l’eventuale uso di armi nucleari da parte della Russia. Il primo è l’uso di armi nucleari contro di noi, che comporterebbe un cosiddetto attacco di rappresaglia. Ma cosa significa in pratica? I missili vengono lanciati, il nostro sistema di allerta precoce li rileva e segnala che stanno puntando sul territorio della Federazione Russa – questo avviene in pochi secondi, per far capire a tutti – e una volta che sappiamo che la Russia è stata attaccata, rispondiamo a questa aggressione.

Voglio assicurare a tutti che da oggi questa risposta sarà assolutamente inaccettabile per qualsiasi potenziale aggressore, perché pochi secondi dopo aver rilevato il lancio di missili, da qualsiasi punto dell’oceano o della terraferma, il contrattacco in risposta coinvolgerà centinaia – centinaia di nostri missili in aria, in modo che nessun nemico avrà la possibilità di sopravvivere. E [possiamo rispondere] in più direzioni contemporaneamente.

La seconda ragione per l’uso potenziale di queste armi è una minaccia esistenziale per lo Stato russo – anche se le armi convenzionali sono usate contro la Russia, ma l’esistenza stessa della Russia come Stato è minacciata.

Queste sono le due possibili ragioni per l’uso delle armi che lei ha citato.

Dobbiamo cambiare questa situazione? Perché dovremmo? Tutto può essere cambiato, ma non mi sembra che sia necessario. Non c’è situazione immaginabile oggi in cui qualcosa possa minacciare la statualità russa e l’esistenza dello Stato russo. Non credo che qualcuno sano di mente possa pensare di usare armi nucleari contro la Russia.

Tuttavia, rispettiamo il suo punto di vista e quello di altri esperti, persone con un atteggiamento patriottico che provano empatia per ciò che sta accadendo nel Paese e nei dintorni e sono preoccupati per gli sviluppi lungo la linea di contatto con l’Ucraina. Capisco tutto questo e, credetemi, rispettiamo le vostre prospettive. Detto questo, non vedo la necessità di cambiare i nostri approcci concettuali. Il potenziale avversario sa tutto ed è consapevole di ciò che siamo in grado di fare.

Il fatto che si senta già chiedere, ad esempio, di iniziare o riprendere i test nucleari è una questione completamente diversa. Ecco cosa posso dire a questo proposito. Gli Stati Uniti hanno firmato uno strumento internazionale, un documento – il Trattato per la messa al bando totale degli esperimenti nucleari – e lo stesso ha fatto la Russia. La Russia lo ha firmato e ratificato, mentre gli Stati Uniti hanno firmato il trattato senza ratificarlo.

Il nostro sforzo per sviluppare nuove armi strategiche sta per essere completato. Ne ho già parlato e ne ho annunciato lo sviluppo diversi anni fa.

L’ultimo lancio di prova del Burevestnik è stato un successo. Si tratta di un missile da crociera a propulsione nucleare con una gittata sostanzialmente illimitata. Anche il Sarmat, il missile super pesante, è pronto. Non ci resta che completare tutte le procedure amministrative e burocratiche e le pratiche burocratiche per poter passare alla produzione di massa e schierarlo in modalità di standby per il combattimento. Lo faremo presto.

Gli specialisti tendono a sostenere che si tratta di nuovi tipi di armi e che dobbiamo assicurarci che le loro testate speciali siano prive di guasti, quindi dobbiamo testarle. Non sono in grado di dirvi ora se dobbiamo o non dobbiamo effettuare questi test. Quello che possiamo fare è agire come fanno gli Stati Uniti. Vorrei ripetere ancora una volta che gli Stati Uniti hanno firmato il trattato senza ratificarlo, mentre noi lo abbiamo firmato e ratificato. In linea di principio, possiamo offrire una risposta “tit-for-tat” nelle nostre relazioni con gli Stati Uniti. Ma questo rientra nelle competenze dei deputati della Duma di Stato. In teoria, possiamo ritirare la ratifica, e se lo facessimo, sarebbe sufficiente.

Fyodor Lukyanov: Oggi, alcuni in Occidente dicono apertamente che il loro impegno a sostenere proattivamente l’Ucraina deriva dal fatto che, quando hanno alzato la posta in gioco e intensificato la questione nell’ultimo anno e mezzo, la risposta della Russia non è stata molto convincente.

Vladimir Putin: Non so se sia stata convincente o meno, ma a questo punto e dall’inizio della cosiddetta controffensiva – e questi sono gli ultimi dati che sto condividendo con voi – le unità ucraine hanno perso più di 90.000 persone, compresi i feriti e le vittime, oltre a 557 carri armati e quasi 1.900 veicoli blindati di vario tipo, e tutto questo solo dal 4 giugno. Quanto è convincente?

Noi abbiamo una nostra visione di come si stanno muovendo le cose e sappiamo cosa va fatto e dove, e dove dobbiamo fare qualche sforzo in più. Stiamo avanzando con calma verso il raggiungimento dei nostri obiettivi e sono certo che ci arriveremo rispettando gli obiettivi che ci siamo prefissati.

Fyodor Lukyanov: Grazie.

Radhika Desai.

Radhika Desai: Grazie mille, Presidente Putin, grazie mille per un altro discorso davvero ben informato e, direi, storicamente molto istruttivo e stimolante. Come sempre, è davvero impressionante e un privilegio ascoltarla.

Ho una domanda e anche un appello personale. La mia domanda riguarda il Paese da cui provengo, il Canada. Come sapete, il parlamento canadese si è appena reso lo zimbello del mondo applaudendo in parlamento un nazista ucraino, un nazista veterano. C’erano più di 440 membri del parlamento, nessuno dei quali si è chiesto: è la cosa giusta da fare?

Come sapete, il Primo Ministro Trudeau si è scusato, credo, due volte. Lo speaker del Parlamento si è dimesso. A mio avviso, questo dimostra fino a che punto la posizione occidentale, di cui il Canada è una sorta di punta di diamante, sia diventata così basata su nozioni arroganti, nozioni arroganti ignoranti, che queste persone hanno dimenticato quanto la Russia abbia fatto per la sconfitta del nazismo.

Hanno dimenticato che se non fosse stato per il contributo russo, la Seconda guerra mondiale non sarebbe stata vinta e che la Russia ha contribuito a quella vittoria con 30 milioni di vite perse. È una cifra sconcertante che non si può nemmeno immaginare. Mi chiedo quindi se voglia commentare questo dato.

Cosa ne pensa?

E poi il mio appello personale riguarda una questione che mi sta molto a cuore. Prima di tutto vorrei dire, scusatemi se mi sono espresso male, che si tratta del caso di un mio amico e di molte altre persone qui presenti, mio marito, Demetrius Konstantakopoulos, e cioè il caso di Boris Kagarlitsky. Crediamo che, come forse sapete, sia stato detenuto e siamo molto preoccupati per il suo benessere personale.

Vorrei solo dire un paio di cose sul motivo per cui sto sollevando la questione. Nei Paesi occidentali sono state firmate numerose petizioni su questo caso. Noi non abbiamo firmato nessuna di queste petizioni perché non ne condividiamo il contenuto, che è profondamente anti-russo. Abbiamo quindi una lettera per voi, che ci auguriamo leggerete, e speriamo vivamente che vi rendiate conto che ci siamo rivolti a voi come amici della Russia.

In effetti, anche noi ci siamo trovati un po’ in difficoltà perché non siamo d’accordo con la posizione assunta dal nostro caro amico. Ma ricordiamo anche quanto abbiamo imparato dalla sua formidabile conoscenza della storia della Russia e dal suo formidabile impegno per la Russia. Quindi, ci appelliamo a lei affinché si interessi personalmente di questo caso.

Grazie.

Vladimir Putin: A dire il vero, non so chi sia questo Kagarlitsky, per cui il mio collega qui presente [Fyodor Lukyanov] ha dovuto aggiornarmi anche su questo. Prenderò la lettera che ha firmato per me, la leggerò e le darò una risposta. Lo prometto. D’accordo?

Per quanto riguarda la sua domanda, Dio ci è testimone che non abbiamo organizzato in anticipo la sua domanda, ma a dire il vero mi aspettavo di sentirla. Inoltre, ho anche portato con me alcune informazioni di base su ciò che è accaduto lì. Per noi si tratta di qualcosa di completamente fuori dall’ordinario.

Vorrei ricordare che il comando nazista ha istituito la divisione in cui ha prestato servizio questo nazista ucraino il 28 aprile 1943. È stato durante il processo di Norimberga, non ieri qui tra noi o nella foga di considerazioni momentanee, che il tribunale ha designato la Divisione SS Galizia, dove questo nazista ucraino prestava servizio, come entità criminale responsabile del genocidio di ebrei, polacchi e altri civili. Questo è stato il verdetto del processo internazionale di Norimberga.

Permettetemi di ricordarvi che il verdetto è stato emesso da procuratori e giudici indipendenti, che hanno ovviamente avuto l’ultima parola. Lo hanno fatto sulla base delle informazioni ricevute dai procuratori dei vari Paesi e hanno designato le SS Galizia come organizzazione criminale.

Ho portato con me anche alcuni appunti con le parole esatte, in modo che la mia risposta sia specifica e basata su fatti concreti. Il Presidente del Parlamento canadese ha detto: “Oggi abbiamo qui in aula un veterano ucraino-canadese della Seconda Guerra Mondiale che ha combattuto per l’indipendenza ucraina contro i russi. <…> Sono molto orgoglioso di dire [che] <…> è un eroe ucraino, un eroe canadese e lo ringraziamo per tutti i suoi servizi”.

Innanzitutto, se il presidente del parlamento canadese parla di questo nazista ucraino o canadese ucraino che combatte contro i russi, deve sapere che si è schierato con Hitler invece che con la patria dell’oratore, il Canada, o che è stato un collaboratore dei nazisti. In ogni caso, ha combattuto al fianco delle truppe naziste. Forse non lo sa. Non fraintendetemi, non sto cercando di ferire i sentimenti del popolo canadese o di offenderlo in alcun modo. Noi rispettiamo il Canada, e in particolare il suo popolo, nonostante tutto. Detto questo, se non sa che durante la guerra sono stati Hitler e i suoi complici a combattere contro la Russia, è un idiota. Questo significa che ha semplicemente saltato la scuola e non ha le conoscenze di base. Se invece sa che questa persona ha combattuto dalla parte di Hitler, pur definendola un eroe sia dell’Ucraina che del Canada, allora è un mascalzone. Quindi, ci sono solo queste due opzioni.

Questo è il tipo di persone con cui dobbiamo avere a che fare. Questo è il tipo di avversari che abbiamo in alcuni Paesi occidentali.

Cosa c’è di importante, secondo me? Il Presidente del Parlamento canadese dice: ha combattuto contro i russi e [nel documento] c’è una citazione che dice che continua a sostenere le truppe ucraine che combattono contro i russi. In sostanza, equipara i collaboratori di Hitler, le truppe delle SS, e le unità di combattimento ucraine di oggi – che combattono, come ha detto, contro la Russia. Li ha messi sullo stesso piano. Questo non fa che avvalorare la nostra affermazione che uno dei nostri obiettivi in Ucraina è la denazificazione. A quanto pare, la nazificazione dell’Ucraina esiste e viene riconosciuta. E il nostro obiettivo comune è la denazificazione.

E infine, naturalmente, tutti gli applausi a quel nazista sono stati assolutamente disgustosi, soprattutto il fatto che il Presidente dell’Ucraina, che ha sangue ebraico in sé e che è un ebreo in termini di origine etnica, si sia alzato e abbia applaudito quest’uomo, che non è solo un nazista, non è solo un seguace ideologico, ma qualcuno che ha ucciso personalmente degli ebrei, con le sue stesse mani. Ha ucciso personalmente degli ebrei perché i nazisti tedeschi hanno creato la 1ª Divisione Galizia delle SS principalmente per eliminare i civili, e la sentenza del processo di Norimberga lo dice. La divisione fu accusata di essere responsabile del genocidio di ebrei e polacchi. Furono uccisi quasi 150.000 polacchi, oltre ai russi, naturalmente. Nessuno contò nemmeno quanti Rom furono uccisi, perché non erano nemmeno considerati esseri umani. Un milione e mezzo di ebrei furono uccisi in Ucraina: immaginate questa cifra. O non è successo? O non lo sanno? Tutti lo sanno. L’Olocausto non è forse avvenuto?

Quindi, quando il Presidente dell’Ucraina applaude una persona che personalmente, con le proprie mani, ha ucciso gli ebrei in Ucraina, vuole forse dire che l’Olocausto non è mai avvenuto? Non è disgustoso? Tutto è lecito, purché queste persone abbiano combattuto contro la Russia. Tutti i mezzi sono leciti, purché siano usati per combattere la Russia. Posso immaginare che qualcuno abbia un desiderio irrefrenabile di schiacciare la Russia su un campo di battaglia e di consegnarla alla sconfitta strategica. Ma a questo costo? Credo che non ci sia niente di più disgustoso. Spero davvero che non solo noi qui, in questo piccolo circolo del Valdai Club, solleveremo la questione, ma anche le organizzazioni della società civile e coloro che hanno a cuore il futuro dell’umanità formuleranno la loro posizione su questo tema in modo chiaro, inequivocabile e condanneranno quanto è accaduto.

Fyodor Lukyanov: Grazie.

Ho visto Gabor Stier da qualche parte prima, ma ora l’ho perso.

Gabor Stier: Sono Gabor Stier dall’Ungheria.

Signor Presidente, questa volta non chiederò cosa accadrà a Odessa, anche se molti in Ungheria si chiedono come si chiamerà il Paese vicino.

Vladimir Putin: Intendeva Odessa? Lo ha chiesto l’ultima volta.

Gabor Stier: Sì, ho fatto questa domanda l’altra volta, ma ora ne ho un’altra.

Vladimir Putin: Mi dispiace.

Gabor Stier: Signor Presidente, sappiamo che lei è interessato alla storia, ed è per questo che vorrei affrontare la realtà attuale proprio da questo punto di vista. Parlando di storia, sappiamo che la decisione di Pietro il Grande di aprire una finestra sull’Europa, o di aprire l’aspetto europeo dell’identità russa, ha avuto una grande importanza per lo sviluppo della Russia.

Naturalmente, l’Europa è ora caduta in decadenza e sta facendo di tutto per non piacere alla Russia. Tuttavia, come europeo, a volte mi sento terrorizzato nel sentire dichiarazioni secondo cui alcune città europee dovrebbero essere sottoposte ad attacchi nucleari.

Che cosa significa oggi l’Europa per la Russia? Non si tratta di una domanda sui nostri problemi. Cosa significa l’Europa per la Russia di oggi? La Russia volterà completamente le spalle all’Europa? Non crede che sarebbe un errore chiudere questa finestra?

Se parliamo di storia, vorrei porre un’altra domanda. I nuovi libri di testo di storia russa hanno dato origine a una seria discussione in Ungheria. Mi riferisco ai passaggi in cui si parla degli sviluppi del 1956 come di una “rivoluzione a colori”. Anche lei pensa che quella del 1956 non sia stata una vera rivoluzione? È d’accordo con un altro commento controverso del libro di testo, secondo cui il ritiro delle truppe dall’Europa centrale nel 1990 e nel 1991 è stato un errore?

Ricordo e so che a Vladivostok lei ha detto che il dispiegamento dei carri armati nel 1968 e nel 1956 è stato un errore. Se è stato un errore, perché pensa che anche il ritiro delle truppe sia stato un errore?

Vladimir Putin: Pensa che questa sia una domanda? È più che altro un motivo per scrivere una tesi. Lei ha detto che non parlerà di Odessa, anche se l’ha citata. L’ultima volta mi sono astenuto, ma posso dire che, ovviamente, Odessa è una città russa. È leggermente ebraica, come si dice adesso. Un po’. Tuttavia, non parliamo di questo argomento, se siete propensi a parlarne di un altro.

Innanzitutto, questa “finestra sull’Europa”. Sapete, i nostri colleghi hanno appena detto che il mondo sta cambiando, entrare e uscire da una finestra strappandosi i pantaloni non è la scelta migliore. Perché mai qualcuno dovrebbe voler usare la finestra quando ci sono le porte? Questo è il primo punto.

Il secondo. Non c’è dubbio che il codice civile della Russia sia basato sul cristianesimo, così come quello dell’Europa. Abbiamo certamente questo in comune. Ma non ci imporremo all’Europa se l’Europa non ci vuole. Non li stiamo respingendo, né stiamo sbattendo [questa finestra]. Lei ha chiesto se ce ne pentiamo. Perché dovremmo? Non siamo noi a sbattere la porta alla comunicazione, ma è l’Europa che si sta recintando e sta creando una nuova cortina di ferro. Non siamo noi a crearla, ma sono gli europei a crearla a costo delle loro perdite e a loro danno.

L’ho già detto, ma posso ripeterlo: l’economia statunitense sta crescendo al 2,4%, mentre l’economia europea sta scivolando in recessione; è già in recessione. Alcuni personaggi europei, sicuramente non amichevoli o amichevoli nei confronti del nostro Paese, hanno fornito una diagnosi accurata: La prosperità dell’Europa è stata raggiunta grazie alle risorse energetiche a basso costo provenienti dalla Russia e all’espansione nel mercato cinese. Questi sono i fattori della prosperità europea. Certo, c’era l’alta tecnologia, una classe operaia laboriosa e disciplinata, persone di talento – tutto questo è certamente vero. Ma si trattava di fattori fondamentali che ora l’Europa sta rifiutando.

Nel mio intervento di apertura ho parlato di sovranità. Ecco il punto: la sovranità è un concetto multidimensionale. Perché continuiamo a dire, e io continuo a dire, che la Russia non può esistere come Stato non sovrano? Semplicemente cesserebbe di esistere. Perché la sovranità non riguarda solo questioni militari o di sicurezza, ma anche altre componenti.

Vedete cosa è successo all’Europa? Molti leader europei – spero che non mi accusino di parlare male o di gettare fango – molti europei dicono che l’Europa ha perso la sua sovranità. Per esempio, in Germania, la locomotiva economica dell’Europa, i politici di spicco hanno ripetutamente sottolineato che dal 1945 la Germania non è più uno Stato sovrano nel senso pieno del termine.

Quali implicazioni ha questo fatto, anche in termini economici? Gli Stati Uniti – penso, non ho dubbi che siano stati gli Stati Uniti a provocare la crisi ucraina sostenendo il colpo di Stato in Ucraina nel 2014. Non potevano non capire che questa era una linea rossa, lo abbiamo detto mille volte. Non ci hanno mai ascoltato. Ora abbiamo la situazione di oggi.

E sospetto che questo non sia stato casuale. Avevano bisogno di quel conflitto. Di conseguenza, l’Europa, che aveva perso parte della sua sovranità – non tutta, ma una parte considerevole – ha dovuto formare una coda dietro il proprio sovrano e seguire le sue politiche passando a una politica di sanzioni e restrizioni contro la Russia. L’Europa ha dovuto farlo, sapendo che questo l’avrebbe danneggiata, e ora tutta l’energia, gran parte dell’energia, viene acquistata dagli Stati Uniti a un prezzo superiore del 30%.

Hanno imposto restrizioni sul petrolio russo. Qual è il risultato? Non è così evidente come per il gas, ma il risultato è lo stesso. Hanno ridotto il numero di fornitori e hanno iniziato ad acquistare petrolio più costoso da questo gruppo limitato di fornitori, mentre noi vendiamo il nostro petrolio ad altri Paesi con uno sconto.

Capite cosa ne è derivato? La competitività dell’economia europea è crollata, mentre quella del loro principale rivale in termini di componente economica – gli Stati Uniti – è aumentata, così come la competitività di altri Paesi, compresi quelli asiatici. Così, in seguito alla perdita di parte della loro sovranità, hanno dovuto prendere, di propria volontà, queste decisioni autolesioniste.

Abbiamo bisogno di un partner di questo tipo? Certo, non è assolutamente inutile. Ma voglio che prendiate nota del fatto che stiamo abbandonando il mercato europeo in declino e stiamo potenziando la nostra presenza sui mercati in crescita di altre parti del mondo, compresa l’Asia.

Allo stesso tempo, siamo legati all’Europa da numerosi legami secolari in materia di cultura, istruzione, ecc. Per ribadire: tutto questo si basa sulla cultura cristiana. Ma anche a questo proposito gli europei non ci rendono felici. Stanno distruggendo le loro radici che crescono dalla cultura cristiana, le stanno estirpando senza pietà.

Pertanto, non chiuderemo nulla – né le finestre, né le porte – ma nemmeno forzeremo la nostra strada verso l’Europa, se l’Europa non lo vuole. Se lo vuole, va bene, lavoreremo insieme. Penso che si potrebbe parlare all’infinito, ma credo di aver delineato i punti principali.

Ora, per quanto riguarda il libro di testo e la rivoluzione dei colori, l’anno 1956. Non nascondo di non aver letto quella parte del libro di testo. E per quanto riguarda il ritiro delle truppe, naturalmente anche questi sono fatti storici, e all’epoca, nel 1956, molti Paesi occidentali fomentarono i problemi esistenti, compresi gli errori dell’allora leadership ungherese, e i militanti furono addestrati all’estero e inviati in Ungheria. Ma credo che sia ancora difficile definire questa rivoluzione di colore nella sua forma pura, perché dopo tutto c’era una base interna per una seria protesta all’interno del Paese. Credo che questa sia una cosa ovvia. E poi, non c’è quasi bisogno di trasferire i termini di oggi alla metà del secolo scorso.

Per quanto riguarda il ritiro delle truppe, sono profondamente convinto che non abbia senso usare le truppe per reprimere le tendenze interne di un Paese o della popolazione a raggiungere gli obiettivi che considerano prioritari. Questo vale per i Paesi europei, compresi quelli dell’Europa orientale. Non ha senso mantenere le truppe sul posto se la popolazione di questi Paesi non vuole vederle sul proprio territorio.

Ma il modo e le condizioni in cui ciò è avvenuto sollevano, ovviamente, molti interrogativi. Le nostre truppe si sono ritirate direttamente in campo aperto. Quanti lo sanno? In campo aperto, con le famiglie. È accettabile? Allo stesso tempo, non sono stati formulati obblighi, né conseguenze legali per il ritiro di queste truppe, né dalla leadership sovietica né da quella russa.

I nostri partner occidentali non si sono assunti alcun obbligo. Almeno siamo tornati alla questione dell’espansione o meno della NATO a est. Sì, ci è stato promesso tutto a voce, e i nostri partner americani non lo negano, e poi chiedono: dov’è documentato? Non c’è nessun documento. E questo è tutto, addio. Abbiamo promesso? Sembra di sì, ma non valeva nulla. Sappiamo che per loro anche un documento scritto non vale nulla. Sono pronti a buttare via qualsiasi carta. Ma almeno qualcosa sarebbe stato registrato sulla carta e si sarebbe potuto concordare qualcosa durante il ritiro delle truppe.

Qualcosa come il coordinamento delle questioni relative alla garanzia della sicurezza in Europa o alla realizzazione di una sorta di nuovo disegno in Europa. Dopo tutto, la socialdemocrazia tedesca e l’onorevole Egon Bahr avevano pronte delle proposte, come ho già detto una volta, per creare un nuovo sistema di sicurezza in Europa, che includesse la Russia, gli Stati Uniti e il Canada; ma non la NATO, bensì insieme a tutti gli altri: per l’Europa orientale e centrale. Credo che questo risolverebbe molti dei problemi di oggi.

E allora disse, era un uomo anziano e intelligente, disse: altrimenti, vedrete che tutto questo si ripeterà, solo questa volta più vicino alla Russia. Era un politico tedesco, una persona esperta, competente e intelligente. Nessuno gli dava retta: non la leadership sovietica, tanto meno l’Occidente e gli Stati Uniti. Ora stiamo assistendo a ciò di cui parlava.

Per quanto riguarda il ritiro delle truppe, era inutile resistere. Ma le condizioni per il ritiro, questo era ciò di cui dovevamo parlare, ottenendo la creazione di una situazione che, forse, non avrebbe portato alle tragedie e alla crisi di oggi. Forse è tutto.

Ho risposto alla sua domanda? Se ho dimenticato qualcosa, la prego.

Fyodor Lukyanov: Grazie.

Visto che abbiamo iniziato a parlare di Germania, Stefan Huth, per favore, prenda la parola.

Stefan Huth: Mi chiamo Stefan Huth. Vengo dalla Germania, dal giornale Junge Welt. Vorrei collegarmi a quanto ha appena detto.

L’operazione militare speciale in Ucraina è spesso giustificata con motivazioni antifasciste. Lei ha detto: Dobbiamo liberare il popolo ucraino dai nazisti, dobbiamo cacciarli, dobbiamo liberare il Paese.

In questo contesto, deve sembrare un po’ confuso il fatto che lei, ad alto livello governativo, sia in contatto con partiti di destra come il Rassemblement National [Raduno Nazionale] o l’AfD – Alternativa per la Germania – partiti che sono profondamente radicati in un ambiente razzista. Non hanno alcuna simpatia per il popolo russo, si può presumere. Non hanno alcuna simpatia per la Russia come popolo multietnico, come lei ha appena sottolineato nel suo discorso.

Vorrei sapere che cosa sperate? Cosa spera il suo governo da questi contatti e quali sono i criteri per avere contatti con partiti del genere? Riesce a capire che gli antifascisti dell’Europa occidentale vedono questo come una contraddizione con la sua politica?

Vladimir Putin: Mi scusi, per favore, le chiedo di essere più specifico: cosa intende quando parla di forze fasciste e partiti filofascisti, del loro atteggiamento nei confronti della Russia e così via? La prego di essere diretto e specifico, altrimenti parleremo per sottintesi, ma è meglio parlare direttamente.

Stefan Huth: Il capo dell’AfD Tino Chrupalla ha avuto un contatto, un incontro ufficiale con il ministro degli Esteri Sergei Lavrov nel 2020. Si è trattato di una sorta di incontro ufficiale. Una parte dell’AfD, ad esempio Björn Höcke, è profondamente radicata nel movimento fascista in Germania. Ha partecipato a manifestazioni con i nazisti.

Quindi questo confonde molto gli antifascisti in Germania. È una contraddizione con la vostra politica. Lo riconosciamo, almeno in parte.

Vladimir Putin: Cosa vede e cosa può fornire a conferma di ciò che ha detto, ovvero che le loro attività si basano su una sorta di idee nazionalsocialiste fasciste e filofasciste? Può dirmi nello specifico di cosa si tratta?

Stefan Huth: Björn Höcke, per esempio, è legato ai fascisti. Manifesta regolarmente a Dresda durante l’anniversario del bombardamento alleato, insieme ai fascisti, ed è legato a loro. Questo è uno dei motivi per cui i servizi segreti interni tedeschi osservano questo partito, dicendo che è di destra.

Vladimir Putin: Capisco. Senta, lei ha iniziato con l’Ucraina e mi ha chiesto se è giusto che dichiariamo pubblicamente che stiamo lottando per la denazificazione del sistema politico ucraino. Ma abbiamo appena discusso la situazione nel parlamento canadese, quando il Presidente dell’Ucraina si è alzato e ha applaudito un nazista che ha ucciso ebrei, russi e polacchi.

Questo non dimostra forse che l’attuale sistema ucraino è giustamente definito filonazista? Il leader dello Stato si alza e applaude un nazista, non solo un seguace ideologico del nazismo, ma un vero nazista, un ex soldato delle SS. Non è questo un segno della nazificazione dell’Ucraina? Non ci dà forse il diritto di parlare di denazificazione?

Ma voi potreste rispondere: sì, questo è il capo di Stato, ma non è l’intero Paese. E io le rispondo: lei ha parlato di coloro che vanno ai raduni insieme ai filofascisti. È l’intero partito che viene a questi raduni? Probabilmente no.

Certamente condanniamo tutto ciò che è filofascista, filonazista. Appoggiamo tutto ciò che non ha questi segni, ma che al contrario mira a stabilire contatti.

Per quanto ne so, recentemente, durante la campagna elettorale, è stato compiuto un attentato contro uno dei leader di Alternativa per la Germania. Cosa indica questo? Che i rappresentanti di questo partito usano metodi nazisti o che questi metodi nazisti vengono usati contro di loro? Questa è una domanda per un ricercatore scrupoloso, anche nella sua persona e nella persona dell’opinione pubblica della Repubblica Federale stessa.

Per quanto riguarda le forze antifasciste, siamo sempre stati con loro, conosciamo il loro atteggiamento nei confronti della Russia. Siamo grati a loro per questo atteggiamento e certamente lo sosteniamo.

Penso che tutto ciò che è volto a ravvivare, a mantenere le relazioni tra noi, debba essere sostenuto, e questo può essere la luce alla fine del tunnel delle nostre attuali relazioni.

Fyodor Lukyanov: Grazie.

Alexei Grivach.

Alexei Grivach: Grazie per l’opportunità di porre una domanda. Anche la mia domanda è legata alla ricerca. Stiamo lavorando su questioni legate agli ultimi sviluppi dell’industria del gas.

Poco più di un anno fa, siamo stati tutti testimoni di un atto di terrorismo internazionale incredibile e senza precedenti contro le infrastrutture critiche transfrontaliere dell’Europa. Mi riferisco alle esplosioni di Nord Stream.

Avete commentato più volte questo incidente, compresa la negligenza sfacciata degli investigatori e delle personalità politiche europee nelle loro valutazioni. Abbiamo assistito a un’evidente mancanza di una risposta chiara – la condanna dell’incidente da parte di leader come il Cancelliere Scholz e il Presidente Macron. Anche se le aziende di questi Paesi sono state direttamente colpite da questo atto, in quanto erano e continuano a essere azionisti e comproprietari degli asset coinvolti, nonché co-investitori dei progetti.

Allo stesso tempo, di recente sono trapelate numerose notizie che, direttamente o indirettamente, tentano di attribuire la colpa: gli investigatori sarebbero giunti alla conclusione che dietro l’incidente ci sono gli ucraini. Ho quindi due domande per voi.

La prima: questi leader politici, le vostre controparti europee, hanno offerto una qualche reazione in contatti diretti al di là delle dichiarazioni ufficiali che, credo, non sono state rilasciate? C’è stata una reazione attraverso i canali diplomatici?

La mia seconda domanda è: quali conseguenze sono possibili se la cosiddetta indagine europea, gli organi investigativi dei Paesi europei alla fine incrimineranno l’Ucraina per questo incidente in qualsiasi forma?

Vladimir Putin: Prima di tutto, vorrei sottolineare che, molto prima di questi attentati, il Presidente degli Stati Uniti ha dichiarato pubblicamente che gli Stati Uniti avrebbero fatto tutto il possibile per assicurarsi che le esportazioni di fonti energetiche russe verso l’Europa attraverso questi gasdotti cessassero. Con un sorriso significativo, ha detto: Non dirò come si potrebbe ottenere questo risultato, ma lo faremo. Questo è il mio primo punto.

In secondo luogo, la distruzione di queste infrastrutture è senza dubbio un atto di terrorismo internazionale.

In terzo luogo, non siamo stati inclusi nelle indagini, nonostante le nostre proposte e i molteplici appelli per consentirci di essere coinvolti.

Inoltre, non è stato e, ovviamente, non sarà annunciato alcun risultato.

Infine, quando si cercano risposte su chi sia la colpa, bisogna sempre chiedersi: chi ne beneficia? In questo caso, le aziende energetiche statunitensi che esportano prodotti sul mercato europeo sarebbero certamente interessate. Gli americani lo volevano da tempo e ora l’hanno ottenuto, anche se facendo in modo che qualcun altro lo facesse per loro.

C’è un altro aspetto di questa vicenda. Se i criminali verranno mai trovati, dovranno essere chiamati a rispondere delle loro azioni. Si è trattato di un atto di terrorismo internazionale. Allo stesso tempo, una linea del Nord Stream 2 è sopravvissuta. Non è danneggiata e può essere utilizzata per fornire 27,5 miliardi di metri cubi di gas all’Europa. La decisione spetta esclusivamente al governo della Repubblica Federale di Germania. Non c’è bisogno di nient’altro. Prendono una decisione oggi – domani apriamo la valvola e il gioco è fatto; il gas è in arrivo. Ma non lo faranno, a scapito dei loro interessi, perché, come diciamo noi, “i loro capi a Washington” non glielo permetteranno.

Continuiamo a fornire gas all’Europa attraverso i gasdotti TurkStream e, a giudicare da tutto, i gruppi terroristici ucraini stanno tramando per fare danni anche lì. Le nostre navi sorvegliano i gasdotti che corrono lungo il fondo del Mar Nero, ma vengono costantemente attaccate da veicoli senza pilota, con specialisti e consiglieri di lingua inglese chiaramente coinvolti, tra l’altro, nella pianificazione di questi attacchi. Li abbiamo intercettati via radio: sentiamo sempre parlare inglese ovunque si preparino queste imbarcazioni semisommergibili senza equipaggio. Questo per noi è un fatto ovvio – ma traete le vostre conclusioni.

Ma noi continuiamo a fornire gas, anche attraverso il territorio dell’Ucraina. Spediamo il gas ai clienti attraverso l’Ucraina e paghiamo il Paese per questo transito. Ne ho già parlato. Si sente sempre dire che siamo l’aggressore, che siamo gli sporcaccioni, che siamo i cattivi. Ma a quanto pare i soldi non puzzano. Vengono pagati per questo transito. Sono felici di incassare la moneta: basta, e il gioco è fatto.

Stiamo agendo in modo aperto e trasparente e siamo pronti a collaborare. Se non vogliono, va bene. Aumenteremo la produzione e le vendite di GNL. Invieremo il nostro gas ad altri mercati. Costruiremo nuovi sistemi di gasdotti verso i luoghi in cui vogliono il nostro prodotto, in modo che rimanga competitivo e aiuti le economie dei consumatori a diventare più competitive, come ho già detto.

Per quanto riguarda l’indagine, vedremo. Alla fine non si può nascondere un punteruolo in un sacco, come diciamo noi: alla fine sarà chiaro chi è stato. La verità verrà fuori.

Fyodor Lukyanov: Signor Presidente, lei ha parlato di spedizioni di gas attraverso l’Ucraina. Una parte della nostra opinione pubblica è perplessa: perché lo facciamo? Perché paghiamo loro questi soldi?

Vladimir Putin: Li paghiamo perché si tratta di un Paese di transito e dobbiamo spedire il nostro gas attraverso l’Ucraina in base ai nostri obblighi contrattuali con le nostre controparti in Europa.

Fyodor Lukyanov: Ma questo rafforza anche la capacità di difesa del nostro nemico.

Vladimir Putin: Ma rafforza anche le nostre finanze: veniamo pagati per il prodotto.

Fyodor Lukyanov: Capito. Grazie.

Mohammed Ihsan ha alzato la mano per un po’ di tempo.

Mohammed Ihsan: Grazie mille.

Sono davvero onorato. È una grande opportunità per noi ascoltare direttamente lei, signor Putin.

Invece dell’Ucraina, della giustizia internazionale e del sistema internazionale, mi soffermerò un po’ sul Medio Oriente. Vengo dall’Iraq e tra poco il Primo Ministro iracheno verrà in visita a Mosca. Vi ringrazio ancora per averlo incontrato personalmente.

Sapete che ci sono molti problemi tra Erbil e il Governo regionale del Kurdistan (KRG). Allo stesso tempo, ci sono Rosneft e Gazprom, che hanno investito enormi quantità di denaro in Iraq in generale e in Kurdistan.

Pensa che ci sia la possibilità di aiutare la nostra parte a negoziare in modo più pacifico per risolvere la disputa tra le parti e aiutare di più? Perché le altre parti dell’area vogliono versare altro petrolio sul conflitto per renderlo più complicato, credo.

Un’altra questione che vorrei sottolineare è che ci stiamo avvicinando alla fine del 2023. Pensa che sia il momento giusto per aiutare personalmente tutte le parti in Siria, compresi il governo, i curdi e tutte le potenze regionali, a porre fine al conflitto?

Perché migliaia di siriani sono stati allontanati e umiliati in altre parti del mondo e non c’è una soluzione pacifica né una visione. Penso che non ci sia nessuno tranne voi, perché la maggior parte delle parti in conflitto rispetta la Russia e il Presidente Putin e voi avete un ottimo rapporto con loro. Penso che sia il momento giusto non per intervenire, ma per mediare tra tutti loro.

Grazie ancora.

Vladimir Putin: Lei ha detto che anche le parti in conflitto in alcuni Paesi del Medio Oriente, tra cui la Siria, ci tengono in grande considerazione e ci rispettano. Questo perché noi, a nostra volta, trattiamo tutti con rispetto.

Per quanto riguarda la Siria, siamo a favore di un processo pacifico, che prevede il sostegno delle Nazioni Unite. Tuttavia, non possiamo sostituirci alle parti negoziali. Possiamo creare condizioni favorevoli e, in una certa misura, se tutti lo ritengono accettabile, possiamo fungere da garanti degli accordi con il coinvolgimento dei nostri partner immediati in questo processo, ossia Iran e Turchia, nell’ambito del processo di Astana.

Siamo riusciti a contribuire a questi sforzi. In particolare, è stato raggiunto un cessate il fuoco, che ha aperto la strada al processo di pace. Tutto questo è stato fatto da noi e dai nostri partner con la collaborazione della leadership siriana. Tuttavia, resta ancora molto da fare.

Credo che le interferenze esterne e i tentativi di creare entità quasi statali all’interno della Siria non abbiano prodotto alcun risultato positivo. Scacciare le tribù arabe che storicamente hanno abitato determinate regioni con l’obiettivo di creare queste entità quasi statali è una questione complessa che potrebbe prolungare il conflitto.

Tuttavia, siamo pienamente impegnati a promuovere la fiducia, anche tra le autorità centrali siriane e i curdi che risiedono nella Siria orientale. Si tratta di un processo impegnativo e procederei con grande cautela, perché ogni parola è importante. Questo è il mio primo punto.

In secondo luogo, per quanto riguarda l’Iraq, abbiamo una forte relazione con questo Paese e accogliamo con favore la visita del Primo Ministro iracheno in Russia. Ci sono numerose questioni di interesse reciproco, soprattutto nel settore energetico. C’è anche una questione economica cruciale: la logistica. Non entrerò nei dettagli, ma ci sono diverse linee d’azione che possiamo intraprendere se vogliamo sviluppare le vie di trasporto logistiche in Iraq. In generale, sembrano tutte valide e dobbiamo solo scegliere le alternative migliori. Siamo pronti a partecipare agli sforzi per realizzarle.

Durante la visita del Primo Ministro, discuteremo di questi temi, tra cui la sicurezza regionale e la sicurezza interna dell’Iraq. Abbiamo mantenuto relazioni strette e fiduciose con l’Iraq per molti decenni. Abbiamo molti amici e siamo impegnati a promuovere la stabilità in questo Paese e a favorire la crescita economica e sociale sulla base di tale stabilità.

Attendiamo con ansia la visita del Primo Ministro e sono certo che sarà molto produttiva e ben programmata.

Continua.

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La nuova politica energetica italiana: Interessi nazionali e transizione verde, di Svetlana Gavrilova

La nuova politica energetica italiana: Interessi nazionali e transizione verde
21.08.2023
Svetlana Gavrilova
© Reuters
Nel 2022-2023 la Repubblica italiana, come molti altri Paesi europei, ha affrontato il problema della diversificazione delle forniture energetiche. L’inverno 2022-2023 è stato estremamente mite in Europa, il che ha contribuito a evitare un aggravamento della crisi energetica, ma la situazione continua a essere piuttosto grave. In Italia, durante la premiership di Mario Draghi, è stato avviato un piano di diversificazione delle forniture energetiche con l’obiettivo di eliminare gradualmente il gas russo, sostituito principalmente da GNL, gas algerino, azero e del Nord Europa. Il governo di Giorgia Meloni continua a seguire questo piano, con l’obiettivo dichiarato di eliminare completamente la dipendenza dal gas russo entro l’inverno 2024-2025.

Nel 2022, la domanda di energia primaria in Italia è diminuita del 4,5%, raggiungendo 149.175 mila tonnellate equivalenti di petrolio, rispetto alle 156.179 mila tonnellate dell’anno precedente. Il consumo finale di energia nel Paese è diminuito complessivamente del 3,7% rispetto all’anno precedente; è stato fornito principalmente da petrolio e prodotti petroliferi (36,8%), gas naturale (27,2%) ed elettricità (22,7%). La quota delle importazioni nette rispetto all’offerta lorda di energia è aumentata dal 73,5% del 2021 al 79,7% del 2022, confermando la dipendenza dell’Italia dalle fonti di approvvigionamento estere. Sono quindi aumentate le importazioni di petrolio e prodotti petroliferi. Nell’ambito della produzione nazionale, si è registrata una diminuzione dell’energia idroelettrica e della produzione di petrolio e prodotti petroliferi. Le fonti energetiche rinnovabili hanno trovato ampia applicazione in tutti i settori (elettricità, calore, trasporti). La quota del consumo energetico totale coperta dalle rinnovabili è stimata intorno al 19%.

Il consumo energetico delle famiglie italiane nel 2022 è diminuito del 2,7%, ma i costi sono aumentati del 49,9%. Questa enorme crescita è stata mitigata da cambiamenti normativi, tra cui misure di emergenza: sono stati aboliti gli oneri di sistema per il settore dell’elettricità e del gas, sono state ridotte le imposte (in particolare, le aliquote IVA sul gas naturale e le accise sui carburanti) e sono state aumentate le prestazioni sociali. È da notare che per analizzare il fenomeno della povertà energetica nazionale e sviluppare una politica adeguata, è stata creata una struttura speciale presso il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica italiano – l’Osservatorio Nazionale della Povertà Energetica.

NORME E VALORI
L’inverno sta arrivando: Aspettative sociali dal primo inverno militare in Europa
Jacques Sapir
Le sanzioni adottate contro la Russia dai Paesi dell’UE stanno generando un importante “effetto boomerang”, che potrebbe portare a una crisi energetica globale. Lo shock sarà probabilmente avvertito dall’economia dell’UE quest’inverno e in seguito. È quindi in questo momento che sorgeranno questioni politiche cruciali sull’opportunità della politica dei Paesi dell’UE nei confronti della Russia, scrive l’esperto del Valdai Club Jacques Sapir.
OPINIONI

La componente chiave della politica energetica italiana rimane ovviamente il settore del gas. Gli impianti di stoccaggio del gas in Italia sono in grado di accumulare fino a 16,5 miliardi di metri cubi di gas, di cui 4,5 miliardi sono una riserva strategica, sufficiente a coprire il 25% del fabbisogno nazionale. La produzione di gas in Italia copre solo il 4% del fabbisogno nazionale. Rispetto al 2022, la produzione nazionale nel 2023 è diminuita del 6,5%.

I prezzi del gas in Italia sono diminuiti nel 2023, ma sono ancora ben al di sopra dei livelli precedenti al 2022. Il consumo di energia nel Paese nel suo complesso è diminuito in modo significativo, ma fattori oggettivi, come ad esempio il caldo senza precedenti dell’estate 2023, sono intervenuti nel mantenere il regime di austerità.

Nel 2023, il gas viene fornito all’Italia attraverso una rete di checkpoint e le unità di rigassificazione vengono utilizzate per trasformare il GNL in stato gassoso:

– Tarvisio (Friuli Venezia Giulia): Gas russo e del Nord Europa, gasdotto Trans Austria Gas con una capacità fino a 45 miliardi di metri cubi all’anno;
– Passo Gris (Piemonte): gas proveniente dai giacimenti del Mare del Nord, gasdotto Transitgas, capacità massima – 35 miliardi di metri cubi di gas all’anno;
– Mazara del Vallo (Sicilia): gas dall’Algeria attraverso il gasdotto Transmed, con una capacità di oltre 30 miliardi di metri cubi all’anno;
– Gela (Sicilia): gas dalla Libia attraverso il gasdotto Greenstream, con una capacità di 8 miliardi di metri cubi all’anno;
– Melendugno (Puglia): gas dall’Azerbaigian per l’Italia e il Nord Europa, attraverso il gasdotto Trans Adriatic Pipeline, con una capacità di 10 miliardi di metri cubi all’anno, di cui è previsto l’aumento;
– Panigalla (Liguria): il terminale è il primo impianto di rigassificazione in Italia, con una capacità di 3,5 miliardi di metri cubi all’anno;
– Livorno: terminale galleggiante di rigassificazione Olt, capacità 3,7 miliardi di metri cubi all’anno;
– Porto Viro (Veneto): un terminale di rigassificazione galleggiante che fornisce forniture da Qatar, Egitto, Trinidad e Tobago, Guinea Equatoriale e Norvegia, con una capacità di 4 miliardi di metri cubi all’anno.

Nel 2022-2023 le importazioni di gas italiano sono cambiate in modo significativo: La Russia ha smesso di essere il leader del mercato del Paese. L’Algeria gioca ora un ruolo chiave: gli accordi bilaterali sono stati conclusi prima da Mario Draghi e poi da Giorgia Meloni.

È da notare che la prima visita di Stato di Giorgia Meloni nel 2023 è stata effettuata in Algeria. Allo stesso tempo, nel 2022 l’Algeria ha sostituito la Russia come principale fornitore di gas all’Italia. Nel 2023, la sua quota è salita al 36%, mentre la quota delle forniture russe è scesa dal 38,2% del 2021 al 15%. Il Paese sta lavorando per aumentare le importazioni di gas da Angola, Cipro, Congo, Egitto, Indonesia, Libia, Mozambico, Nigeria, Qatar e Repubblica del Congo.

Il Congo gioca un ruolo importante nel mercato italiano del gas: dal 2023, grazie allo sviluppo del progetto GNL, si prevede di acquistare oltre 4,5 miliardi di metri cubi all’anno. L’Italia prevede di ricevere 3 miliardi di metri cubi all’anno dall’Egitto. Sono in corso trattative con il Qatar per aumentare la sua quota di forniture di GNL. La quota della Libia nel mercato energetico italiano è in calo quasi annuale dal 2015. Contemporaneamente, durante la visita di Giorgia Meloni nel Paese, è stato concluso un nuovo accordo tra Eni e la Libyan National Oil Corporation per investire nello sviluppo di due giacimenti al largo delle coste libiche che, secondo le previsioni, copriranno il fabbisogno della domanda interna libica, oltre a garantire l’esportazione verso l’Italia e altri Paesi europei. L’Azerbaigian è diventato un altro importante fornitore di gas per l’Italia: le importazioni da questo Paese hanno raggiunto il 14% e si prevede di aumentare la capacità del gasdotto transadriatico. L’Azerbaigian è il terzo Paese, dopo l’Algeria e la Libia, su cui l’Italia punta per aumentare le sue forniture di gas e sostituire quelle provenienti dalla Russia.

Il GNL sta ovviamente giocando un ruolo sempre più importante nelle forniture italiane, per le quali si prevede l’apertura di ulteriori impianti di rigassificazione. Le forniture di GNL all’Italia sono di fatto raddoppiate negli ultimi due anni: nel 2022, la sua quota era del 20,7%; all’inizio del 2023 era di circa il 23% e continua a crescere.

Gli accordi con l’Algeria e la Libia, così come una maggiore cooperazione con altri Paesi fornitori, sono componenti del “Piano Mattei” del governo di destra. Un ruolo fondamentale nella sua attuazione è assegnato alla società Eni, che è sempre stata presente nel continente africano da oltre mezzo secolo. Con l’aumento della capacità del gasdotto transadriatico, anche l’Azerbaigian diventerà una componente importante del Piano Mattei. La completa riduzione della dipendenza dalle forniture russe è uno dei punti chiave del Piano; tuttavia, aumentare l’importanza dell’Italia nel contesto della garanzia della sicurezza energetica dell’Europa è ovviamente il suo compito principale. La Repubblica italiana cerca di aumentare la propria influenza nel Mediterraneo attraverso l’energia: il Paese persegue costantemente una politica di rafforzamento del proprio ruolo nell’arena internazionale e la regione è tradizionalmente di particolare interesse per l’Italia in questo contesto.

Allo stesso tempo, nel giugno 2023 il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica italiano ha inviato a Bruxelles una proposta di aggiornamento del Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (PNIEC). Il PNIEC, si legge sul sito del Ministero, “è uno strumento fondamentale che segna l’inizio di importanti cambiamenti nella politica energetica e ambientale del nostro Paese verso la de-carbonizzazione. L’obiettivo è quello di attuare una nuova politica energetica che garantisca la piena sostenibilità ambientale, sociale ed economica del territorio nazionale”.

Il PNIEC ha fissato gli obiettivi nazionali fino al 2030 per l’efficienza energetica, le fonti rinnovabili e la riduzione delle emissioni di CO2, nonché gli obiettivi per il rafforzamento della sicurezza energetica, il mercato unico dell’energia e la ricerca, l’innovazione e la competitività, la mobilità sostenibile, definendo per ogni area le misure che saranno attuate per garantirne il raggiungimento. Il piano prevede una riduzione significativa del consumo di gas entro il 2030. Il PNIEC è stato creato per consentire all’Italia, entro il 2030, di raggiungere quasi tutti gli obiettivi ambientali e climatici dell’UE, in alcuni casi “superando” gli obiettivi precedenti.

L’Italia, secondo il PNIEC, sta prestando grande attenzione alle fonti di energia rinnovabili. Si presume che la crescita del settore delle energie rinnovabili, accompagnata da un uso più efficiente dell’energia, contribuirà alla riduzione delle importazioni (dalla Russia e da altri Paesi), al fine di aumentare l’indipendenza energetica del Paese. Tuttavia, gli investimenti in nuovi terminali GNL, rigassificatori e gasdotti continueranno a crescere. È evidente la contraddizione tra il Piano Mattei e il PNIEC, che non fa guadagnare punti politici al governo di destra al potere nel Paese. Nel breve termine, nonostante gli investimenti nelle energie rinnovabili, il gas naturale e il GNL continueranno a essere risorse importanti per soddisfare il fabbisogno energetico nazionale. Va notato che ciò è accompagnato da investimenti aggiuntivi, che avrebbero potuto essere evitati se i volumi delle forniture di gas russo fossero stati mantenuti.
Questi costi, a loro volta, non contribuiscono alla crescita degli investimenti nel settore delle energie rinnovabili: infatti, il rifiuto dell’Italia alle forniture russe sta rinviando la “transizione verde” nel Paese.
È evidente che l’Italia intende diventare un hub energetico chiave per il Mediterraneo nel contesto delle forniture di gas ai Paesi europei, e tutti i passi compiuti dal Paese nel campo della “nuova politica energetica” sono finalizzati principalmente al raggiungimento di questo obiettivo politico.

La “transizione verde” sta chiaramente passando in secondo piano, nonostante gli obiettivi dichiarati nel PNIEC, poiché la componente economica non consente al governo di privilegiarla. Combinando questi due binari, che quasi si escludono a vicenda, la Repubblica italiana cerca di affermarsi in due dei ruoli più importanti che si è scelta: attore attivo e indipendente nelle relazioni internazionali e membro importante della casa paneuropea, sostenendo con coerenza i valori fondamentali dell’UE. Il tempo ci dirà quanto successo potrà avere una simile politica delle “due sedie”, ma sembra più probabile uno scenario in cui gli interessi nazionali giocheranno ancora un ruolo di primo piano.

Il destino dell'”Agenda verde”: Il multilateralismo ha un futuro?
26.04.2022
Nilanjan Ghosh
© Reuters
L'”Agenda verde” ha connotazioni diverse in varie parti del mondo. Questo porta a un’enorme divergenza nella definizione di ciò che costituisce una “ripresa verde” dalla pandemia. Il multilateralismo può essere utile quando si tratta di delineare in modo globale e uniforme l'”Agenda verde”, riconoscendo le esigenze di sviluppo e le sfumature delle dinamiche di conservazione-sviluppo-sussistenza delle varie parti del mondo in via di sviluppo e sottosviluppato. In caso contrario, il multilateralismo risponderà solo alle esigenze dei ricchi e sarà in contrasto con la giustizia distributiva su scala globale.

La priorità principale del mondo in via di sviluppo dopo la pandemia è la promozione della crescita economica. Il feticismo della crescita domina in gran parte dei Paesi in via di sviluppo, nonostante l’impegno di molti di essi a raggiungere le emissioni “nette zero” entro le scadenze stabilite. Qui sorge un conflitto, poiché è universalmente riconosciuto che il riscaldamento globale e il cambiamento climatico sono il risultato della sfrenata propensione dell’umanità alla crescita economica senza tenere conto dei “costi della crescita”. Ancora una volta, la maggior parte degli impegni climatici dei Paesi in via di sviluppo si basa su una transizione energetica dalle fonti di combustibili fossili alle fonti di energia rinnovabili! Gran parte del Sud globale, guidato dai Paesi BRICS, ritiene ancora che una semplice transizione energetica possa risolvere i problemi del cambiamento climatico. Pertanto, continuano a modificare in modo sfrenato l’uso del suolo, distruggendo l’ecosistema per soddisfare le esigenze infrastrutturali. In mezzo a questa sfrenata propensione alla crescita economica e all’urbanizzazione, quasi non si riconosce che gli ecosistemi forestali e costieri sono pozzi di carbonio, il cui ruolo di stoccaggio del carbonio e di sequestro annuale del carbonio non può essere sostituito da una semplice transizione energetica. Piuttosto, questi cambiamenti sfrenati nell’uso del suolo per progetti infrastrutturali contrastano gli impatti positivi che altrimenti si otterrebbero con una transizione energetica.

Per questo motivo, l'”Agenda verde” ha connotazioni diverse in varie parti del mondo. Questo porta a un’enorme divergenza nella delimitazione della “ripresa verde” dalla pandemia. Qui sta il problema: in tutto il mondo è stata data un’interpretazione uniforme della “ripresa verde”. Ora, l’agenda dell’OCSE per la ripresa verde si basa su tre priorità:

inibire la diffusione e sradicare il virus;

creare condizioni favorevoli per una ripresa su larga scala; e

creare opportunità per rilanciare la crescita economica, perseguendo contemporaneamente le priorità del “decennio d’azione” per raggiungere gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs) dell’Agenda 2030.

L’OCSE e molti altri hanno sostenuto che l’azione per il clima crea opportunità di crescita economica, redditi e posti di lavoro. È in questo contesto che l’OCSE esprime “… Le sfide che ci attendono sono troppo significative perché un solo Paese possa affrontarle da solo. Solo attraverso un’azione collettiva saremo in grado di affrontarle e di ‘ricostruire meglio’ verso economie e società più resilienti, più inclusive e più verdi”. Nel processo, l’OCSE sostiene che il multilateralismo è la risposta a queste sfide. Questa tesi è stata rafforzata da Inger Andersen, direttore esecutivo dell’UNEP, in un discorso all’Earth Institute della Columbia University nel 2020.

La tesi di cui sopra sostiene quindi che la “crescita verde”, pur essendo la soluzione per prevenire il degrado dell’ecosistema naturale e per conciliare le ambizioni di sviluppo con gli obiettivi di conservazione, è realizzabile solo attraverso il multilateralismo. In questo caso, la preoccupazione maggiore riguarda la definizione stessa di “crescita verde”. Se la “crescita verde” si delinea solo attraverso una mera transizione energetica, mentre la distruzione dell’ecosistema va avanti senza freni in nome dell’urbanizzazione e della crescita economica, allora sicuramente la “crescita verde” è un ossimoro!

Questa affermazione diventa evidente quando si nota il disaccoppiamento tra l’uso delle risorse naturali e la crescita economica. È praticamente possibile una tale separazione? Non è solo praticamente impossibile, ma addirittura assiomaticamente inattuabile, poiché la vita e i mezzi di sussistenza dell’uomo e il progresso della civiltà sono inestricabilmente legati alla forma più fondamentale di capitale: il capitale naturale, che nell’economia classica è presentato come terra! In un articolo del 2016 pubblicato su PLOS ONE dal titolo “Is Decoupling GDP Growth from Environmental Impact Possible?”, Ward et al. elaborano un macro-modello analitico per dedurre che “… la crescita del PIL in ultima analisi non può essere plausibilmente disaccoppiata dalla crescita dell’uso di materiali ed energia, dimostrando categoricamente che la crescita del PIL non può essere sostenuta all’infinito”. È quindi fuorviante sviluppare una politica orientata alla crescita sulla base dell’aspettativa che il disaccoppiamento sia possibile. … I costi crescenti della “crescita antieconomica” suggeriscono che il perseguimento del disaccoppiamento – se fosse possibile – per sostenere la crescita del PIL sarebbe uno sforzo sbagliato”.

L’argomentazione di cui sopra diventa ancora più evidente nel caso della terra o del capitale naturale, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo. L’articolo di Pawan Sukhdev “Costing the Nature”, pubblicato su Nature nel 2009, ha affrontato l’importanza del capitale naturale nel fornire servizi ecosistemici (servizi forniti dall’ecosistema naturale attraverso il suo funzionamento organico, senza costi) che sono stati interpretati come il “PIL dei poveri”. Questo fenomeno è diffuso soprattutto nel Sud del mondo, in quanto un’ampia componente del reddito dei poveri deriva dai servizi ecosistemici. Il documento ha rivelato che il 57% del reddito dei poveri in India proviene dalla natura. Alcune recenti valutazioni nell’Asia meridionale hanno anche rivelato che la dipendenza dai servizi ecosistemici dei poveri è significativamente più alta della media dei redditi pro capite delle famiglie. Pertanto, il cambiamento estensivo dell’uso del suolo causa perdite al benessere dei poveri.

Purtroppo, gli impatti degli interventi umani attraverso il cambiamento d’uso del suolo e i cambiamenti climatici sui servizi ecosistemici non vengono presi in considerazione in nessuna forma di negoziazione globale. I negoziati sul clima rimangono in gran parte “centrati sulla temperatura” senza prendere in considerazione questo elemento critico che avrebbe dovuto essere la principale preoccupazione del Sud del mondo. In qualche modo, le grandi nazioni in via di sviluppo (soprattutto i BRICS) mostrano un inquietante silenzio stoico su questo tema. Inoltre, nel contesto dei finanziamenti per il clima, c’è stato un pregiudizio intrinseco contro l’adattamento e a favore della mitigazione, con oltre l’80% dei finanziamenti destinati alle attività di mitigazione dei cambiamenti climatici. Questi pregiudizi nei confronti del finanziamento di progetti di adattamento sono in contrasto con le esigenze dei Paesi meno sviluppati (LDC) e dei piccoli Stati insulari in via di sviluppo (SID).

La decrescita non è una panacea per i Paesi in via di sviluppo

D’altro canto, la scuola della decrescita propugna la decelerazione piuttosto che la crescita per sostenere le basi stesse della vita sul pianeta, proponendola quindi come soluzione per il mondo. In opposizione alla crescita verde, la scuola della decrescita è convinta che la crescita non possa essere accettata quando si promettono obiettivi di conservazione. Pertanto, l'”Agenda verde” della scuola della decrescita sostiene la rinuncia agli attuali modi di vivere nel Nord globale attraverso la contrazione delle attività economiche che esistono in uno scenario di business-as-usual.

Alla luce di questa concezione occidentale della decrescita, che trova sostenitori anche in alcuni “attivisti elitari” del Sud globale, può una nazione in via di sviluppo permettersi di adottare tali ideali? La risposta è decisamente negativa! L’economia dello Sri Lanka sta attraversando una crisi alimentare (oltre ad altre forme di turbolenza economica e politica) proprio a causa dell’improvviso passaggio all’agricoltura biologica, che ha dimezzato la produzione alimentare. Inoltre, la diminuzione delle riserve di valuta estera ha impedito le importazioni di cibo. È necessario comprendere che, affinché la decrescita possa essere adottata, è necessario che siano soddisfatte alcune condizioni iniziali. L’idea non proviene solo da spazi già cresciuti, ma da un mondo più equo del Sud globale, dove sono già presenti una forte sicurezza sociale e una giustizia distributiva. Tutto ciò manca nella maggior parte dei Paesi in via di sviluppo.

Il multilateralismo e l’Agenda verde

Il multilateralismo è stato messo in discussione a livello globale già prima della pandemia, con l’emergere di leader forti che propagandavano il fervore nazionalistico. Questo ha portato anche alla tendenza all’isolamento di alcune delle principali economie mondiali che un tempo erano state annunciate come sostenitrici della causa del libero mercato e della globalizzazione. Esempi di tali tendenze deglobalizzanti e isolanti sono il ritiro degli Stati Uniti dal TPP, il prolungamento della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, il disinteresse dell’ex presidente americano Trump per la crisi del cambiamento climatico e la Brexit. D’altra parte, la Belt and Road Initiative (BRI) della Cina, “imperialista del mercato”, ha cercato di essere contrastata da alcune coalizioni come il “Quad” nell’Indo-Pacifico – un potenziale accordo di sicurezza tra le quattro grandi democrazie, Australia, India, Giappone e Stati Uniti.

Mentre si temeva che la pandemia avrebbe portato a un ulteriore isolamento delle economie, il mondo sta assistendo alla creazione di blocchi per scopi commerciali, geoeconomici o geostrategici. In queste circostanze, quale ruolo può svolgere il multilateralismo nella promozione dell'”Agenda verde”? È ben noto che esistono preoccupazioni globali, soprattutto per quanto riguarda i “beni comuni globali”, ossia il cambiamento climatico. Come già detto, problemi globali con un obiettivo comune globale richiedono sforzi concertati: il multilateralismo è sicuramente la risposta a questo problema. Allo stesso tempo, è necessario comprendere che la delineazione dell'”Agenda verde” non può essere identica in tutto il mondo, dati i diversi livelli di sviluppo delle nazioni e la criticità delle pratiche e delle istituzioni che regolano i loro obiettivi di sviluppo e conservazione, come sostenuto in precedenza. Le piattaforme negoziali globali come la COP hanno portato a una forma di riduzionismo nel discorso dei negoziati sul clima, riducendo tutto a un paradigma “centrato sulla temperatura” sulla base di un calendario. Le nazioni in via di sviluppo e sottosviluppate hanno ovviamente parlato di storia e di “giusta transizione” in questo processo, ma non hanno ancora introdotto le preoccupazioni relative ai servizi ecosistemici in questa discussione. Il multilateralismo può essere utile quando, con una delineazione globale e uniforme dell'”Agenda verde”, si riconoscono le esigenze di sviluppo e le sfumature delle dinamiche di conservazione-sviluppo-vitalità delle varie parti dei Paesi in via di sviluppo e sottosviluppati. In caso contrario, il multilateralismo risponderà solo alle esigenze dei ricchi e sarà in contrasto con la giustizia distributiva su scala globale.

https://valdaiclub.com/a/highlights/the-fate-of-the-green-agenda-does-multilateralism/

https://valdaiclub.com/a/highlights/italy-s-new-energy-policy-national-interests/?utm_source=newsletter&utm_campaign=378&utm_medium=email

ll sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate: postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704 oppure iban IT30D3608105138261529861559 oppure 

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Global India, di Alexei Kupriyanov

Per vincere la guerra delle economie, dove il nemico ha tutte le carte vincenti – da una solida quota del commercio mondiale alla stampa della valuta di riserva mondiale – abbiamo bisogno, come ci insegna la teoria militare, di una strategia asimmetrica. È inutile cercare di sfondare il muro delle sanzioni: bisogna imparare ad aggirarlo interagendo con le strutture dell’economia sommersa, scrive Alexei Kupriyanov.

Poco più di 75 anni fa, Jawaharlal Nehru, appena uscito di prigione, ha presentato per la pubblicazione La scoperta dell’India, la sua quarta grande opera scritta in carcere. Questa opera segnava la fine di quello che si potrebbe definire il suo “ciclo carcerario”, che comprendeva Lettere di un padre a sua figlia, Sguardi sulla storia del mondo e Autobiografia. In questi libri, il futuro Primo Ministro indiano delineò un concetto coerente che sarebbe servito come base di tutta la futura politica estera indiana. Egli sosteneva che, prima della conquista coloniale, l’India era una delle superpotenze mondiali, ma che poi, a causa di disaccordi interni e della mancata comprensione da parte dei suoi governanti dell’importanza dell’unità nella lotta contro una minaccia esterna, era caduta vittima dei conquistatori britannici. Dopo aver ottenuto l’indipendenza, l’obiettivo principale dell’India sarebbe stato quello di riconquistare lo status perduto di grande potenza e di porsi alla pari con gli altri grandi attori.

Oggi, nel 2023, l’India è più vicina che mai a raggiungere questo status. L’anno scorso ha superato la sua ex metropoli, la Gran Bretagna, in termini di PIL, diventando la quinta economia mondiale; quest’anno ha superato la Cina in termini di popolazione. Tutti gli altri segni dello status globale sono presenti (ad eccezione dell’esplorazione spaziale con equipaggio e di un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite): un programma artico e antartico, il possesso di armi nucleari, un programma spaziale di successo e interessi in tutto il mondo. Per molti versi, l’India deve questo successo all’intuizione strategica delle sue élite e alla loro capacità di negoziare tra loro: chiunque sia al timone, continua a seguire la rotta tracciata da Nehru, correggendola solo leggermente a seconda dell’evoluzione della situazione mondiale. Grazie a questo approccio, l’India è riuscita a manovrare in tempo all’inizio degli anni ’90, quando il suo principale partner strategico, l’URSS, è scomparso dalla mappa del mondo.

Invece di entrare in crisi dopo la caduta dell’Unione Sovietica o di subire tutta la serie di umiliazioni che di solito seguono la sconfitta in una guerra, Nuova Delhi, grazie a una serie di abili manovre, è riuscita a inserirsi nel nuovo ordine mondiale e a trovare una nicchia per la sua economia. Il crescente bisogno di specialisti IT di vari profili ha permesso agli indiani di avviare un’espansione su larga scala nel mercato globale dei servizi, di trarre vantaggio dalla globalizzazione e di garantire tassi di crescita dell’economia fino al 9,6% all’anno. Ora il tasso è leggermente diminuito, ma tale crescita rimane una frontiera irraggiungibile per molti Paesi, tra cui la Russia.

India globale: due dimensioni

Le ambizioni globali dell’India hanno due dimensioni: quella politica e quella economica, che si differenziano sia per i meccanismi di attuazione della presenza indiana sia per le sue dimensioni.

Le élite politiche indiane pensano al mondo in termini di cerchi concentrici: il vicinato immediato, il vicinato allargato e il resto del mondo. Il primo comprende i Paesi dell’Asia meridionale (Nepal, Bhutan, Bangladesh, Myanmar, Sri Lanka, Maldive) e la regione dell’Oceano Indiano (Seychelles, Mauritius), la cui situazione e le cui relazioni sono critiche per la sicurezza dell’India. Nuova Delhi cerca di includerli nella sua orbita politica e militare e, in caso di conflitto, in un modo o nell’altro cerca di ripristinare lo status quo che le conviene. Così, nel 1988, le forze speciali indiane hanno liquidato un colpo di Stato nelle Maldive, un anno prima l’India è intervenuta in un conflitto nello Sri Lanka e alla fine degli anni ’90 ha sostenuto i separatisti in Myanmar. Il secondo cerchio comprende i Paesi dell’Africa orientale, del Medio Oriente e dell’Asia centrale e sudorientale, dove le grandi e medie imprese indiane sono più attive. Lì l’India protegge principalmente i propri interessi economici. Infine, nella terza area, Nuova Delhi cerca di plasmare l’immagine dell’India come una grande potenza responsabile che pretende di essere all’altezza dei pesi massimi del mondo nel decidere il destino del pianeta.

Questo schema concentrico poggia su un substrato storico che è stato accuratamente preparato da storici ed esperti indiani. Come qualsiasi altra politica del Vecchio Mondo con una storia di oltre trecento anni, gli indiani si sentono a loro agio quando una base storica culturale e filosofica affidabile viene posta sotto i loro costrutti geopolitici. Ecco perché la percezione indiana della regione indo-pacifica è così locale e limitata alle acque dell’Oceano Indiano e del Pacifico occidentale, e perché i progetti regionali indiani sono così poco combinati con quelli cinesi: se Pechino, nelle sue iniziative per ripristinare la Via della Seta, si concentra sulla rotta commerciale storicamente esistente tra la Cina e l’Europa, dove le polarità dell’Hindustan fungevano al massimo da punti di transito, l’India guarda al suo ruolo storico di centro di una vasta rete commerciale che copriva l’intero Oceano Indiano, il Mediterraneo orientale e il Pacifico occidentale.
Da un lato, ciò predetermina l’indisponibilità dell’India a rinunciare a questioni di status, soprattutto nel confronto con la Cina; dall’altro, consente la cooperazione con tutte le potenze pronte a riconoscere il ruolo di primo piano dell’India nella regione.
Nella dimensione economica, tutto è diverso. L’imprenditoria indiana non ha bisogno di una base storica e filosofica per diffondere operazioni commerciali in tutto il mondo. Ovunque ci siano rappresentanti della diaspora indiana (e sono presenti in quasi tutti i Paesi e le regioni del mondo, comprese Russia e America Latina), prima o poi appaiono nodi del sistema finanziario ed economico indiano, nonostante siano in gran parte informali. Lo Stato ha poco controllo su questo processo: le strutture che formano il sistema informale hanno meccanismi finanziari propri (hawala /hundi) che permettono di effettuare transazioni senza la partecipazione delle banche. Questa India globale esplora volentieri nuovi mercati, inventa nuovi modi per evitare le sanzioni e si assume rischi laddove le autorità non sono pronte a farlo.
ASIA ED EURASIA
L’India tra Russia, Stati Uniti e Cina
Alexei Kupriyanov
Esattamente dieci anni fa, nel 2012, il noto giornalista americano Robert Kaplan scriveva nel suo libro che, mentre le grandi potenze, Stati Uniti e Cina, si oppongono l’una all’altra, la situazione geopolitica dell’Eurasia nel XXI secolo sarà in gran parte determinata da quale direzione prenderà l’India.
OPINIONI

Modalità di interazione

I formati e i modi di interazione con queste due Indie sono diversi, ma richiedono tutti una flessibilità molto maggiore di quella dimostrata finora da Mosca. Nelle nuove condizioni geopolitiche, la sopravvivenza dell’economia russa dipende dal funzionamento ininterrotto delle rotte marittime e terrestri, dall’erosione del regime sanzionatorio con tutti i mezzi possibili e dal massimo sostegno ai Paesi che negli ultimi mesi sono stati definiti il “non-occidente collettivo” o la “maggioranza mondiale”, cioè coloro che occupano una posizione periferica nel sistema politico ed economico esistente e sono insoddisfatti del loro posto nel mondo.

Gli interessi di Russia e India nella dimensione politica coincidono, ma solo parzialmente. La strategia di sviluppo indiana è a lungo termine; nel suo ambito, Nuova Delhi risolve diversi compiti. I compiti principali sono garantire uno sviluppo economico stabile, raggiungere il terzo posto in termini di PIL globale e garantire l’accettazione dell’India nel circolo informale delle grandi potenze che risolvono le principali questioni mondiali. La soluzione del primo compito implica la costruzione di legami economici con gli Stati Uniti, l’Europa, l’Australia e il Giappone e l’attrazione di investimenti e tecnologie. Allo stesso tempo, per non diventare dipendente dall’Occidente, l’India cerca di espandere i legami con attori non occidentali, tra cui la Russia. La soluzione alla seconda implica regole del gioco chiare e una trasformazione graduale di un ordine mondiale generalmente stabile basato su queste regole, invece di una sua rottura decisiva.

Le azioni della Russia sulla scena mondiale rendono difficile la soluzione di questi problemi, costringendo la leadership indiana a compiere un miracoloso gioco di equilibri verbali. Da un lato, rimproverare i Paesi occidentali per la disattenzione nei confronti dei conflitti in altre regioni, dall’altro chiedere una rapida fine della crisi ucraina, poiché “non è il momento di fare guerre”.

Agli indiani non piace che Russia e Cina cerchino un riavvicinamento al Pakistan o che flirtino con Islamabad, ma soprattutto non piace l’incertezza. Nuova Delhi sarebbe felice se Mosca, dopo la fine del conflitto, spostasse la sua attenzione verso est, diventando un attore importante nella regione indiana e del Pacifico.
Tenendo conto dell’avversità idiosincratica che gli organismi di politica estera russi nutrono nei confronti dell’idea stessa di regione indo-pacifica, che tanto turba i partner indiani di Mosca, l’opzione migliore sarebbe quella di creare un nostro concetto, che enfatizzi l’interazione delle componenti terrestri, fluviali e marittime e che sia combinato con le disposizioni concettuali indiane.
Il desiderio di garantire la sicurezza delle rotte commerciali, il rifiuto di misure restrittive, il riconoscimento reciproco degli interessi nelle regioni dell’immediato vicinato e la disponibilità a una cooperazione reciprocamente vantaggiosa sull’intero spettro di questioni sono la base dell’interazione politica russo-indiana.

Per quanto riguarda la componente economica, tutto è più complicato e allo stesso tempo più facile. Per vincere la guerra delle economie, dove il nemico ha tutte le carte vincenti – da una solida quota del commercio mondiale alla stampa della valuta di riserva mondiale – abbiamo bisogno, come ci insegna la teoria militare, di una strategia asimmetrica. È inutile cercare di sfondare il muro delle sanzioni: bisogna imparare ad aggirarlo interagendo con le strutture dell’economia sommersa. Non sarà facile farlo, perché la macchina amministrativa dello Stato moderno semplicemente non è adatta a queste forme di interazione. Ma non c’è scelta: per sopravvivere nelle nuove condizioni, ha senso che la Russia cambi radicalmente la sua politica economica estera, perfezionando il meccanismo della ZES ed estendendolo a intere regioni e creando un sistema di “scatole nere” – strutture chiuse di quasi-mercato situate in parte in Russia e in parte all’estero, opache all’occhio vigile dei finanzieri e delle agenzie di intelligence occidentali e che permettono di pompare tecnologia e investimenti in Russia aggirando le sanzioni esistenti.

Naturalmente, per un Paese con un livello di centralizzazione storicamente così elevato, queste azioni non saranno indolori, ma il gioco vale la candela.

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Multipolarità regionale e multilateralismo regionale: La rinascita del mondo arabo 2.0, di Ruslan Mamedov

Multipolarità regionale e multilateralismo regionale: La rinascita del mondo arabo 2.0
18.08.2023
Ruslan Mamedov
© Reuters
La ripresa diplomatica del 2023 e il multipolarismo regionale senza un adeguato consolidamento economico (i progetti già esistono) e istituzionale degli accordi di normalizzazione rischiano di tornare al confronto armato. L’impegno per uno sviluppo regionale inclusivo e per l’uguaglianza, piuttosto che per singoli grandi attori, potrebbe essere la base di un nuovo ordine regionale, scrive Ruslan Mamedov, Senior Research Fellow, Center for the Arab and Islamic Studies, Institute of Oriental Studies of the Russian Academy of Sciences.

Le nuove condizioni globali stanno influenzando l’ordine regionale dell’Asia occidentale e del Nord Africa (WANA). L’autore di questo articolo ha già notato che, nel contesto delle trasformazioni globali, ci si aspettava il ritorno della “voce araba”. A questo proposito, le riflessioni su un mondo multipolare sollevano l’importante questione se i rappresentanti di questo nuovo mondo agiscano o meno alla pari. Sta emergendo una situazione in cui il mondo del multipolarismo è ancora il mondo dei grandi attori regionali e delle loro politiche. Multipolarità significa avere agende multiple promosse da diversi attori. L’uguaglianza, invece, potrebbe essere garantita dal multilateralismo, quando c’è un equilibrio di interessi, tradizioni, culture e diritti tra attori grandi, medi e piccoli. Ma questo stato di cose è adatto ai grandi attori? In che misura gli Stati che promuovono la retorica multilaterale sono in grado e pronti a tenere conto dei diritti dei loro vicini più piccoli? Queste questioni hanno caratteristiche proprie nella WANA.

Uno dei cambiamenti chiave nell’ordine regionale riguarda l’influenza degli attori esterni. Il declino dell’influenza statunitense si è verificato contemporaneamente al rafforzamento del ruolo degli Stati della regione. Le dinamiche regionali hanno iniziato a cambiare in relazione alle attività di una nuova generazione di leader degli Stati del Golfo, al ruolo crescente di Russia e Cina e alla trasformazione dell’ordine mondiale nel suo complesso.

Una volta l’ex presidente egiziano Anwar Sadat (1970-1981) dichiarò che “le chiavi della regione sono a Washington”. Inoltre, espulse dall’Egitto gli specialisti e i militari dell’Unione Sovietica, che avevano avviato progetti grandiosi già ai tempi del suo predecessore Gamal Abdel Nasser. È improbabile che Sadat, un leader egiziano estremamente pragmatico che ha raggiunto una pace con Israele impopolare tra il popolo egiziano, lo dica oggi. I leader regionali dettano essi stessi l’agenda. Tra questi ci sono tre attori non arabi – Iran, Turchia e Israele – con una storia di conflitti e accordi con i loro vicini arabi. Ciò che è tipico del 2023 è il miglioramento delle relazioni regionali. Israele continua a perseguire il suo processo di normalizzazione in alcune aree con il mondo arabo e la Turchia è passata dal confronto con Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti al ripristino delle relazioni.

Uno degli eventi chiave della prima metà del 2023 è stato il riavvicinamento tra Arabia Saudita e Iran. I Paesi sono finalmente giunti alla conclusione che gli scontri aperti in varie parti del WANA e l’uso di forze per procura non sono strumenti di politica estera necessari o utili. Per l’Arabia Saudita è chiaro che i suoi grandiosi piani di sviluppo futuri non potranno essere realizzati finché il suo immediato vicinato sarà colpito da un conflitto. Stiamo parlando della zona di crisi siro-irachena a nord, della zona di crisi yemenita a sud, nonché dell’esistenza di una serie di partner instabili come l’Egitto. Allo stesso tempo, è chiaro all’Iran che l’ulteriore dispendio di risorse aggiuntive per la lotta regionale non sembra più avere un valore intrinseco. Ciò è dovuto al fatto che le risorse iraniane non sono illimitate di fronte alla pressione delle sanzioni e alla concorrenza regionale. L’agenda politica interna si basa sempre più sulla necessità di trovare risorse per lo sviluppo interno e di soddisfare le aspettative della popolazione. Riyadh e Teheran possono continuare la competizione, ma trasferendola dal piano militare a quello più responsabile – politico, diplomatico ed economico. Le relazioni con i vicini regionali restano una priorità per entrambi i Paesi.
Il ritorno della “voce araba” attraverso un portale dal mondo sotterraneo
Ruslan Mamedov
In molte regioni del mondo esistono strutture regionali il cui obiettivo è l’integrazione e l’interazione. Nel mondo arabo, tutti i progetti proposti a partire dal XX secolo sono andati in fumo prima di essere realizzati, scrive Ruslan Mamedov, responsabile dei progetti per il Medio Oriente e il Nord Africa presso il Consiglio russo per gli affari internazionali.

Per l’Arabia Saudita, questa è un’occasione per “attivare” il mondo arabo e per l’Iran – per “inserirsi” nella regione, usando la sua leva diplomatica. Naturalmente Teheran e i suoi alleati sono interessati alla ricostruzione postbellica degli Stati in crisi, ma la ricostruzione richiede finanziamenti (Teheran, Mosca e persino l’Europa non dispongono di tali fondi). In questo contesto, va notato con quale velocità sta tornando l’agenda degli Stati del Golfo e della Lega Araba. Questa organizzazione era in uno stato disperato. Negli anni 2010 è diventato evidente che la Lega Araba non aveva le risorse necessarie, o che era divisa e inutile per risolvere i principali problemi regionali. Nel 2023, nell’ambito della Lega Araba sono state prese alcune decisioni chiave, tra cui il ritorno della Siria nell’organizzazione. Per molti versi, tutta questa normalizzazione è legata alla vigorosa attività dell’Arabia Saudita, nucleo e fonte finanziaria delle strutture della Lega Araba.

La regione del Golfo

Sembra logico che le mete e gli obiettivi per lo sviluppo delle società arabe si formino in Paesi con una visione, e che l’impulso provenga da quei Paesi che dispongono delle necessarie risorse finanziarie ed economiche. In primo luogo, stiamo parlando degli Stati arabi del Golfo. A questo proposito, la qualità dei nuovi leader arabi è di fondamentale importanza. Il pragmatismo di cui sono dotati non cede il passo ad azioni esclusivamente reazionarie e tattiche. I leader arabi mantengono il pragmatismo e lo spazio per la reazione, ma ora sottolineano la combinazione del pragmatismo con la necessità di formare una visione condivisa. Ad esempio, il leader dell’Arabia Saudita, Mohamed bin Salman, vede nel Medio Oriente, secondo le sue parole, “la sua guerra” per la “Nuova Europa”.

Mashriq

Oltre ai leader degli Stati del Golfo, anche i capi dei singoli Stati del Mashriq sono impegnati nella ricerca di forme di integrazione. Esistono varie iniziative tra Egitto (che si trova all’incrocio tra Mashriq e Maghreb), Giordania, Iraq e Siria (tuttavia, le sanzioni statunitensi contro la Siria e il conflitto stesso ostacolano la sua partecipazione alle iniziative regionali). L’Iraq (in particolare Baghdad) sta vivendo un boom edilizio, il rafforzamento della statualità, nonostante il permanere di rischi legati soprattutto alle dinamiche del confronto USA-Iran e alla spaccatura delle élite intra-sciite. L’Iraq offre progetti strategici, come la famosa “strada dello sviluppo” dal Golfo alla Turchia (compresa la costruzione della ferrovia). Esiste un progetto che collegherà l’Iraq al sistema elettrico degli Stati del Golfo. Progetti simili esistono tra Egitto, Giordania e Siria. Il mondo arabo sta prestando sempre più attenzione all’energia nucleare, come dimostrano i lavori delle centrali nucleari negli Emirati Arabi Uniti, il progetto di costruzione di una centrale nucleare in Egitto, i piani dell’Arabia Saudita in questo settore (i giganti del nucleare si stanno attualmente contendendo un appalto saudita).

Maghreb

Queste tendenze potrebbero essere rilevanti per la regione del Maghreb arabo. Tuttavia, questi Stati sono in gran parte divisi: i loro legami con gli attori esterni (non sempre gli stessi) sono più forti dei legami reciproci. Oggi è chiaro che la Tunisia – nonostante abbia smesso di essere considerata una democrazia e si stia spostando sempre più verso l’autoritarismo – conta sul sostegno finanziario dell’Occidente. Ha ricevuto i prestiti necessari dalle istituzioni finanziarie occidentali, compresa l’Unione Europea. Anche il Marocco continua a muoversi sulla scia della politica estera americana, per non parlare delle tensioni tra il paese e l’Algeria su una serie di questioni, tra cui il prolungato conflitto nel Sahara occidentale. A sua volta, l’Algeria sta sviluppando attivamente una politica anti-occidentale, corteggiando Mosca e Pechino. La Libia è tornata all’ordine del giorno, ma si limita alle questioni delle esportazioni di petrolio e al ruolo di piattaforma per l’interazione (prima c’era il confronto aperto) delle forze regionali. In altre parole, le sue iniziative regionali, anche come partecipante influente, dovrebbero essere dimenticate per un po’. Una situazione simile, ma in senso negativo, caratterizza il Sudan, che è sprofondato in un conflitto. I conflitti in Sudan e in Niger potrebbero influenzare negativamente altre aree dell’Africa. L’Egitto, invece, cerca di assumere una posizione equidistante rispetto agli attori regionali e globali, riuscendovi grazie alla sua importante rilevanza logistica e regionale.

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Oggi c’è una seria richiesta di integrazione economica degli Stati arabi del Golfo, del Mashriq e del Maghreb. Ma la domanda principale lungo il percorso è: fino a che punto i leader globali e regionali sono impegnati nel multilateralismo e non nel multipolarismo? Ovviamente, se i leader globali e regionali seguono la strada del multipolarismo, questo può essere raggiunto livellando gli interessi degli Stati di piccole e medie dimensioni. Inoltre, la ripresa diplomatica del 2023 e il multipolarismo regionale senza un adeguato consolidamento economico (i progetti già esistono) e istituzionale degli accordi di normalizzazione hanno il rischio di un ritorno al confronto armato. Un impegno per uno sviluppo regionale inclusivo e per l’uguaglianza, piuttosto che per singoli grandi attori, potrebbe essere la base di un nuovo ordine regionale.

Questo è esattamente ciò che Mosca e Pechino propongono nella loro retorica sulla regione, mentre un concetto un po’ diverso – blocco, alleanza indo-araba (India, Emirati Arabi Uniti, Israele con il sostegno degli Stati Uniti, oltre ad Arabia Saudita ed Egitto, che non sono ancora inclusi nell’alleanza) è promosso da Washington. Ma l’ultima parola spetta agli attori regionali e alla sincronizzazione della loro visione del futuro con i loro vicini più piccoli.

Il Medio Oriente e il futuro del mondo policentrico
Vitaly Naumkin, Vasily Kuznetsov
Il terzo decennio del XXI secolo è iniziato con eventi estremamente drammatici. La pandemia COVID-19, il conflitto armato in Ucraina, l’inasprimento del confronto Russia-Occidente, il rapido rafforzamento del ruolo globale dei Paesi a maggioranza globale (Paesi al di fuori dell’alleanza occidentale), la crisi alimentare globale e l’aggravarsi delle minacce ambientali hanno dato impulso al lungo processo di collasso del sistema politico internazionale, lasciando in sospeso ciò che potrebbe sostituirlo.

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