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Lo sport come campo di battaglia strategico: geopolitica, innovazione e corsa alla tecnologia – Sport as a Strategic Battleground: Geopolitics, Innovation, and the Race for Technology_di Alberto Cossu

Autore: Alberto Cossu – 17/11/2025

Lo sport come campo di battaglia strategico: geopolitica, innovazione e corsa alla tecnologia

Alberto Cossu – Società Italiana di Geopolitica

Abstract – This paper examines how modern sport has evolved into a strategic arena where nations compete not only for athletic success but for geopolitical influence, technological dominance, and soft power projection. Innovation in materials science, artificial intelligence, and biometric data management now plays a decisive role in shaping performance and national prestige. The analysis highlights how technological competition in sport mirrors broader global rivalries, functioning as a subtle yet potent extension of state power. From mega-events used as geopolitical showcases to the role of sovereign wealth funds in reshaping global football, sport emerges as a complex ecosystem where innovation, security, and national interests converge. Ultimately, athletic supremacy increasingly reflects a nation’s scientific, economic, and political capabilities.

Keywords: geopolitics, sport innovation, soft power

Lo sport moderno non è più unicamente una competizione fisica o un veicolo di fair play olimpico; è diventato un sofisticato strumento di Geopolitica, un palcoscenico globale dove le nazioni non gareggiano solo per la conquista di una medaglia d’oro, ma per l’influenza, il soft power e la supremazia tecnologica.

In questo scenario, l’innovazione, la ricerca scientifica e l’adozione di tecnologie all’avanguardia trascendono il semplice miglioramento delle prestazioni atletiche: esse si affermano come fattori geopolitici determinanti, che plasmano i rapporti di forza globali, definiscono la percezione di un Paese e aprono nuove, complesse sfide etiche e di sicurezza.

Il ruolo dell’innovazione, ricerca e tecnologia come fattore geopolitico

La relazione tra sport e tecnologia è indissolubile: dove un tempo i record erano stabiliti da talenti e regimi di allenamento durissimi, oggi sono sempre più legati alla capacità di una nazione di investire in scienza e ingegneria applicate all’essere umano.

La competizione tecnologica come nuova corsa agli armamenti

Se nel XX secolo la competizione geopolitica si è concentrata sulla corsa agli armamenti nucleari e alla conquista dello Spazio, oggi una battaglia meno visibile ma ugualmente cruciale si svolge nel campo della tecnologia sportiva.

L’introduzione di materiali rivoluzionari, come le piastre in fibra di carbonio nelle scarpe da corsa o i nuovi composti per le attrezzature (nuoto, ciclismo, sci), ha creato un divario netto tra gli atleti sponsorizzati da potenze economiche e tecnologiche e gli altri. La capacità di sviluppare e produrre in massa queste innovazioni non è solo un vantaggio commerciale (dominio di brand specifici), ma riflette l’eccellenza nazionale nell’ingegneria dei materiali e nella ricerca aerospaziale, ambiti con chiare applicazioni anche militari o industriali.

Una nazione che sforna continuamente campioni supportati da tecnologie di allenamento e kit all’avanguardia proietta un’immagine di efficacia, ricchezza e leadership scientifica a livello globale. Questa percezione è cruciale nel gioco del soft power e della reputazione internazionale.

L’Intelligenza Artificiale (AI) e l’analisi predittiva

L’uso di Big Data e Intelligenza Artificiale ha ridefinito il concetto di “allenamento”.

I Paesi o le squadre che hanno accesso ai più sofisticati algoritmi di Machine Learning per analizzare carichi di allenamento, dati biometrici in tempo reale (HRV, sonno) e biomeccanica ottengono un vantaggio strategico immenso. L’AI non solo ottimizza le prestazioni, ma è fondamentale nella prevenzione degli infortuni, garantendo che gli atleti di punta siano pronti per le competizioni chiave. Questo è un fattore di sicurezzanazionale sportiva, assicurando che gli “asset” umani più preziosi siano gestiti al meglio.

 La ricerca svolta in centri sportivi d’eccellenza, spesso finanziati dallo Stato, sull’analisi del movimento e sulla fisiologia umana può avere applicazioni dirette in altri settori strategici, come l’ergonomia militare, la medicina riabilitativa e l’ottimizzazione del lavoro in settori ad alta intensità fisica.

La guerra dei dati biometrici e la sicurezza

I dispositivi indossabili (wearable technology) che monitorano metriche fisiologiche in tempo reale producono un flusso continuo di dati estremamente sensibili sulla salute e sulla preparazione fisica degli atleti.

La Geopolitica dell’informazione e della sicurezza dei dati si estende al campo sportivo. Chi controlla i server e le piattaforme dove sono archiviati i dati biometrici degli atleti d’élite di una nazione? Se tali dati finiscono nelle mani di aziende o governi stranieri, si profila un rischio di spionaggio, vulnerabilità e potenziale sabotaggio strategico, dove i punti deboli di un atleta potrebbero essere teoricamente sfruttati (ad esempio, rivelando schemi di recupero o condizioni mediche).

Le decisioni su quali tecnologie sono “legali” (es. altezza della suola delle scarpe) o accettabili (es. sensori integrati) da parte degli organismi di governance sportiva (FIFA, World Athletics) sono, di fatto, strumenti normativi che influenzano i mercati globali e possono favorire i produttori di determinate nazioni a scapito di altri.

Il rapporto circolare tra geopolitica e innovazione

Il legame tra Geopolitica e innovazione nello sport non è unidirezionale; si tratta di un circolo vizioso (o virtuoso) in cui le dinamiche di potere globale stimolano la ricerca, e i risultati di tale ricerca modificano i rapporti di potere.

L’innesco geopolitico della ricerca (geopolitical trigger)

La competizione tra superpotenze, soprattutto in contesti come la Guerra Fredda (e oggi la rivalità USA-Cina), è stata storicamente il motore più potente per l’innovazione sportiva.

L’ex URSS e il Blocco Orientale utilizzavano le medaglie come prova della superiorità del sistema socialista. Questo obiettivo politico ha portato a investimenti statali massicci e senza precedenti in ricerca biomeccanica, farmacologia sportiva (spesso sfociata nel doping) e metodologia di allenamento, ponendo le basi per molte delle attuali scienze dello sport. La vittoria in campo sportivo era considerata una vittoria ideologica e un successo del modello statale sul capitalismo.

Le Olimpiadi e i Mondiali sono il picco di questa dinamica. I Paesi ospitanti (es. Cina 2008, Russia 2014, Qatar 2022, Tokyo 2021, 2025.) non solo costruiscono infrastrutture all’avanguardia (stadio, piste, villaggi) che fungono da simbolo di modernità, ma spesso stimolano un’accelerazione della ricerca nazionale per garantire che i propri atleti dominino in casa, utilizzando i più recenti ritrovati scientifici. L’organizzazione stessa di questi eventi è un atto geopolitico di affermazione.

Il Soft Power tecnologico

L’innovazione nello sport alimenta il soft power di una nazione in due modi principali:

  1. L’Attrazione del Successo: L’ammirazione per le gesta di un atleta o di una squadra di successo si trasferisce al Paese d’origine. Se quel successo è associato a una tecnologia specifica (“la squadra X vince grazie alla sua scienza”), il Paese riceve un’ulteriore spinta in termini di affidabilità e capacità innovativa.
  2. L’Espansione del Modello: Nazioni che sviluppano modelli di allenamento o tecnologie di gestione sportiva di successo spesso esportano questi modelli. L’apertura di accademie, l’invio di allenatori o l’esportazione di piattaforme di analisi dati in Paesi in via di sviluppo (spesso come parte di accordi bilaterali o aiuti allo sviluppo) è una forma sottile ma efficace di penetrazione culturale e geopolitica.

Le nuove frontiere geopolitiche: calcio e investimenti finanziari

Un’area di recente e intensa attività geopolitica legata all’innovazione è l’uso degli investimenti in club e leghe sportive come strumento di influenza statale.

  • I Fondi Sovrani e il Sportswashing: Paesi come Arabia Saudita e Qatar utilizzano i loro enormi fondi sovrani per acquistare e finanziare club di calcio europei e ospitare mega-eventi. Questo non è solo un investimento economico, ma una manovra geopolitica tesa a:
    • Diversificare l’economia (riducendo la dipendenza dal petrolio).
    • Migliorare l’immagine internazionale e la reputazione (Sportswashing), deviando l’attenzione dalle questioni relative ai diritti umani.
    • Acquisire know-how e tecnologia di gestione sportiva, infrastrutturale e di fan engagement da trasferire a casa propria.
  • La Migrazione del Talento e del Know-how: L’innovazione tecnologica che rende i campionati più ricchi e attraenti (es. gli stadi intelligenti e l’esperienza immersiva per i tifosi) supporta questi investimenti. La capacità di attrarre i migliori atleti, allenatori e scienziati dello sport attraverso stipendi colossali (alimentati dai fondi sovrani) rappresenta un trasferimento di capitale umano e tecnologico che modifica gli equilibri di potere nel mondo del calcio, storicamente dominato dall’Europa.

Conclusione

Lo sport è un microcosmo della competizione globale, e la ricerca, l’innovazione e la tecnologia sono il suo nuovo campo di battaglia. Dallo sviluppo di materiali segreti per ottimizzare le prestazioni all’uso di Big Data, il successo sportivo è sempre più una funzione della capacità tecnologica di una nazione.

Il rapporto è circolare: la Geopolitica spinge all’innovazione come strumento di soft power e di affermazione nazionale, e l’innovazione, a sua volta, ridefinisce le regole del gioco, influenzando chi vince e chi perde, e, di conseguenza, chi detiene il primato tecnologico e narrativo sulla scena mondiale. La vera medaglia d’oro, nel XXI secolo, è la supremazia tecnologica applicata all’eccellenza umana.

Riferimenti

Murray, S. and G. Pigman. (2014). Sport, Politics, and the Olympic Games: Critical Essays.

Chappelet, J. M. and B. Kubler. (2008). The Sport and Geopolitics Nexus: The Role of the Mega-Event.

Grix, J. and B. Houlihan. (2014). The Politics of Sports Mega-Events: The Case of Qatar’s 2022 FIFA World Cup.

Nye, J. S., Jr. (2004). Soft Power: The Means to Success in World Politics.

Pfitzinger, A. and T. Pfitzinger. (2017). Road Racing: The Technology of Speed

Bussmann, T. (2020). Data Analytics in Sports: Advanced Techniques for Analyzing Sport Performance.

Collins, A. and C. Vamplew. (2002). Technology and the Sporting Body: The Use of Human Enhancement Technologies in Sport.

Hamil, S. and A. Morrow. (2006). The Politics of Sports: Oligarchy, Ownership, and the Financing of Football Clubs.

Jennings, A. (2011). Omertà: Sepp Blatter’s FIFA Scandal..

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SITREP 12/7/25: Progressi tecnologici russi, nuovi attacchi alla rete energetica di massa, Mirnograd entra nella fase finale_di Simplicius

SITREP 12/7/25: Progressi tecnologici russi, nuovi attacchi alla rete energetica di massa, Mirnograd entra nella fase finale

È la serata del doppio spettacolo qui al Garden, allacciate le cinture e preparatevi.

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Cominciamo con un interessante sviluppo della tecnologia dei carri armati russi. L’ultima tecnologia anti-drone equipaggiata in fabbrica è diventata la più efficace della guerra finora: è stata chiamata sistema Dandelion, dal nome del fiore a cui assomiglia.

Un nuovo sistema passivo anti-drone russo, denominato “Oduvanchik”, ha iniziato a comparire in prima linea.

“Oduvanchik” è una struttura modulare in fibra di vetro che ricorda il dente di leone stesso.

Grazie alla sua flessibilità, questo sistema anti-drone consente movimenti più sicuri in condizioni in cui altre strutture metalliche potrebbero essere danneggiate dai rami degli alberi. Il suo design leggero migliora le prestazioni dinamiche del veicolo e riduce lo stress aggiuntivo sui meccanismi di rotazione del modulo di combattimento/torretta del veicolo.

Un numero crescente di carri armati e veicoli blindati di entrambe le parti è dotato di tali sistemi, che finora si sono dimostrati i più efficaci. Ecco un montaggio che mostra i movimenti dei blindati russi sul fronte, molti dei quali sfoggiano design ispirati al sistema Dandelion, e una panoramica generale dei tipi di mostri blindati che questa guerra ha prodotto:

Altre foto:

Due esemplari ucraini recentemente sequestrati dalle forze russe:

La verità è che, al di là della percezione di una “minaccia inarrestabile dei droni”, i veicoli blindati si sono gradualmente adattati agli attacchi dei droni. Un recente post dell’analista Michael Kofman evidenzia questo fatto:

Come si può vedere, i recenti progressi nella tecnologia “cope cage” hanno reso molti veicoli blindati praticamente invulnerabili ai droni. Semplicemente non sarà mai possibile fermare una fornitura infinita di qualsiasi cosa. Anche i proiettili delle armi leggere finiranno per fermare un carro armato se ne vengono sparati abbastanza. Resistere a 70 droni prima di essere fermati può essere considerato un sistema difensivo efficace, e 30-40 non è molto peggio. Il problema è che i droni sono così onnipresenti che apparentemente nemmeno questo è abbastanza, ma molti assalti corazzati russi riescono comunque a respingere con successo questi attacchi di droni e vengono fermati solo da una combinazione di mine e altre munizioni.

Altre tecnologie continuano ad evolversi, come ad esempio questo Geran-3 russo a propulsione a reazione, visto per la prima volta in tutto il suo splendore mentre sorvolava l’Ucraina: da notare la velocità superiore e le caratteristiche sonore rispetto al famoso “tosaerba” che ha dato inizio a tutto:

Infatti, i droni russi Geran sono ora così vari nelle loro diverse varianti che gli ucraini ne hanno persino individuati alcuni che trasportano missili aria-aria per abbattere i jet e gli elicotteri ucraini che li inseguono:

Hunter Geran

UAV russi equipaggiati con missili aria-aria

Proprio di recente abbiamo riportato la notizia dell’introduzione delle modifiche Geran per combattere gli aerei nemici. E ora abbiamo la conferma di prove oggettive.

A giudicare dal filmato pubblicato online, il drone è dotato di un missile aria-aria a corto raggio R-60. È equipaggiato con una testata termica a ricerca automatica e può colpire bersagli fino a 10 chilometri di distanza.

 In combinazione con altre recenti modifiche (https://t.me/rybar/74529), questo nuovo aggiornamento amplia notevolmente le capacità dei droni Geran, che ora possono prendere di mira elicotteri, aerei leggeri e persino jet da combattimento AFU.

L’efficacia di questa nuova modifica resta ancora da valutare, ma il solo fatto che sia stata introdotta limiterà le azioni dell’aviazione ucraina nell’intercettare i Geran: non saranno più in grado di “dar loro la caccia” con la stessa facilità di prima.

#UAV #Russia #Ucraina

Video di un contro-drone ucraino che insegue questo nuovo Geran russo armato di missili:

La situazione al fronte, come sempre, continua a peggiorare per l’Ucraina. Una serie di post pubblicati da funzionari ucraini e figure militari lo evidenzia. Innanzitutto, è imperdibile il post dell’ex addetta stampa di Zelensky, Julia Mendel:

Successivamente, il NYT cita un comandante di plotone ucraino che si “meraviglia” dei numerosi vantaggi della Russia in termini di risorse:

https://www.nytimes.com/2025/12/06/world/europe/ukraine-pokrovsk-battlefield-russia.html

«Non ci danno pace né di giorno né di notte», disse Oleh.

Rimase stupito dalle risorse della Russia, tra cui dispositivi per la visione notturna, aerei da rifornimento e soldati.

“Se noi abbiamo tre persone, loro ne hanno trenta”, ha detto. “La quantità di manodopera di cui dispongono è semplicemente incredibile”.

“Ma”, ha aggiunto, “non si aspettavano nemmeno che avremmo combattuto così a lungo”.

Ufficialmente, la popolazione della Russia è solo tre volte superiore a quella dell’Ucraina: non è possibile che possa schierare un numero di soldati pari a un multiplo logaritmico di quello dell’Ucraina, a meno che, ovviamente, l’Ucraina non stia subendo un numero di vittime pari a un multiplo logaritmico rispetto alla Russia.

Sul fronte, le forze russe hanno conquistato quasi tutto fino al fiume Haichur, con Gulyaipole ora tagliata fuori dalla logistica su tutti i lati tranne uno:

La stessa Gulyaipole è sotto assedio da più direzioni, con i quartieri periferici che vengono lentamente conquistati e occupati:

La situazione di Mirnograd è praticamente evidente, con il cappio che la stringe sempre più forte:

Le truppe russe stanno lavorando lentamente e metodicamente per ripulire la città, adottando un approccio che privilegia la sicurezza e cerca di evitare il più possibile le vittime. Ciò comporta poche perdite per i russi, che stanno lentamente liberando le posizioni ucraine, ora concentrate principalmente nei seminterrati degli edifici, con l’aiuto, ovviamente, di enormi bombe termobariche, come dimostrato l’ultima volta. Come sempre, gli ucraini vengono riforniti interamente da droni pesanti, ma la loro situazione è prevedibilmente disastrosa.

Si può anche vedere che le forze russe hanno preso d’assalto la vicina Grishino, cerchiata in giallo sopra.

Successivamente, la situazione a Seversk è peggiorata per le forze armate ucraine, con le forze russe che sono state localizzate mentre piantavano una bandiera nel centro della città nella giornata di oggi:

Tutte le indicazioni provenienti dai canali militari indicano che questa città potrebbe essere la prossima a cadere nel prossimo futuro.

Post ucraino su Seversk:

Infine, ieri la Russia ha colpito l’Ucraina con un altro massiccio attacco aereo alla rete energetica, che ha causato nuovamente blackout diffusi e panico.

A Kiev sono state avvistate locomotive antiche in funzione, soprattutto a causa della distruzione dei depositi ferroviari, come si può vedere nella seconda metà del video qui sotto:

Mentre l’Occidente continua a condannare questi attacchi, pochi sembrano ricordare l’atteggiamento della NATO nei confronti degli attacchi alla rete energetica serba negli anni ’90:


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Cancellazione dei valori compatibili: la nuova strategia di sicurezza nazionale di Trump ridefinisce l’Europa come responsabilità strategica_di Simplicius

Cancellazione dei valori compatibili: la nuova strategia di sicurezza nazionale di Trump ridefinisce l’Europa come responsabilità strategica

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Gli Stati Uniti hanno pubblicato una nuova Strategia di Sicurezza Nazionale che ripropone la Dottrina Monroe per un nuovo secolo. Bernhard di MoA ne ha parlato in modo esaustivo qui per chi fosse interessato ai dettagli. Io mi concentrerò invece sul quadro generale e su un aspetto specifico e affascinante di questo importante ripensamento della politica estera statunitense.

https://www.nytimes.com/2025/12/06/world/europe/trump-europe-strategy-document.html

Il sottotitolo del NYT riformula la nuova visione come odio verso l’Europa:

Un nuovo documento politico della Casa Bianca formalizza il disprezzo che il presidente Trump nutre da tempo nei confronti dei leader europei. Esso ha chiarito che il continente si trova ora a un bivio strategico.

Beh, perché Trump non dovrebbe odiare la nuova Europa? È un continente che ha voltato le spalle alle libertà civili, i principi che l’America stessa avrebbe dovuto difendere in primo luogo.

Ha accusato l’Unione Europea di soffocare la “libertà politica”, ha avvertito che alcuni membri della NATO rischiavano di diventare “a maggioranza non europei” e ha affermato che gli Stati Uniti dovrebbero allinearsi con i “partiti patriottici europei”, un eufemismo per indicare i movimenti di estrema destra europei.

La cosa più interessante di quanto sopra è il riferimento a un aspetto particolare del nuovo documento di Trump, che sostanzialmente riformula il calo di sostegno degli Stati Uniti nei confronti dell’Europa come una reazione alla continua politica europea di cancellazione dei propri popoli e delle proprie culture.

Un altro articolo del NYT era interamente dedicato a questo argomento:

L’amministrazione Trump ha dichiarato venerdì che l’Europa sta affrontando la “prospettiva inquietante della cancellazione della civiltà” e ha promesso che gli Stati Uniti sosterranno i partiti “patriottici” che condividono gli stessi ideali in tutto il continente per impedire un futuro in cui “alcuni membri della NATO diventeranno in maggioranza non europei”.

Anche altri hanno trattato direttamente questo aspetto così intrigante, come il National Pulse:

https://thenationalpulse.com/2025/12/05/ trump-admin-fears-nato-allies-will-become-disloyal-partners-as-mass-migration-turns-them-majority-non-european/

E perché questo non dovrebbe essere un legittimo motivo di preoccupazione per la sicurezza degli Stati Uniti? Quando la composizione demografica dei tuoi principali alleati si trasforma completamente in un popolo con una lealtà comprensibilmente discutibile nei confronti delle stesse architetture di sicurezza che sono alla base della tua alleanza chiave, beh, questo diventa un problema piuttosto tangibile.

Ecco i passaggi esatti rilevanti della nuova NSS di Trumpleggere attentamente le parti in grassetto:

  • Pagina 25: «Tra le questioni più importanti che l’Europa deve affrontare figurano le attività dell’Unione Europea e di altri organismi transnazionali che minano la libertà politica e la sovranità, le politiche migratorie che stanno trasformando il continente e creando conflitti, la censura della libertà di parola e la repressione dell’opposizione politica, il crollo dei tassi di natalità e la perdita delle identità nazionali e della fiducia in se stessi. Se le tendenze attuali dovessero continuare, il continente sarà irriconoscibile tra vent’anni o meno. Pertanto, non è affatto scontato che alcuni paesi europei avranno economie e forze armate sufficientemente forti da rimanere alleati affidabili».
  • Pagina 27: «Nel lungo termine, è più che plausibile che entro pochi decenni al massimo alcuni membri della NATO diventeranno in maggioranza non europei. Pertanto, resta da vedere se considereranno il loro posto nel mondo, o la loro alleanza con gli Stati Uniti, allo stesso modo di coloro che hanno firmato la carta della NATO.»

Il punto è talmente significativo che vale la pena ripeterlo: “Pertanto, non è affatto scontato che alcuni paesi europei avranno economie e forze armate sufficientemente forti da rimanere alleati affidabili… Di conseguenza, resta da vedere se considereranno il loro ruolo nel mondo, o la loro alleanza con gli Stati Uniti, allo stesso modo di coloro che hanno firmato la Carta della NATO”.

Ripeto: non è forse una preoccupazione legittima? Quando i propri alleati hanno modificato il loro nucleo demografico al punto da dover preoccuparsi delle basi civiche, sociali e culturali degli accordi con loro stessi, è tempo di ripensare le alleanze strategiche rilevanti che si hanno con loro.

Questo è stato a lungo motivo di crescente preoccupazione in Occidente, sin da quando l’ondata di ingegneria sociale globalista in materia di migrazione ha iniziato a raggiungere il suo apice e a rimodellare il tessuto sociale delle nazioni occidentali.

Negli Stati Uniti, in particolare, questo aspetto è stato sottolineato all’inizio degli anni 2000 in un saggio cult scritto da Stephen Steinlight, intitolato “The Jewish Stake in America’s Changing Demography”.

Nel saggio, lo scrittore ebreo Steinlight espone un’argomentazione simile, ma dal punto di vista dell’influenza ebraica negli Stati Uniti. La sua tesi è che la migrazione di massa che sta investendo gli Stati Uniti finirà per alterare la composizione demografica della nazione a tal punto da rappresentare una seria minaccia per gli “interessi speciali” degli ebrei americani, dato che gli immigrati, prevalentemente latinoamericani e musulmani, non avranno lo stesso senso inculcato di rispetto per i valori ebraici e di colpa per l’Olocausto che possiedono gli americani nativi.

https://cis.org/Report/Jewish-Stake-Americas-Changing-Demography

Dalla sua sezione, Porre le domande della Sfinge:

La domanda più importante per cominciare: la nuova nazione multiculturale americana emergente è positiva per gli ebrei? Un paese in cui enormi cambiamenti demografici e culturali, alimentati da un’immigrazione non europea su larga scala e incessante, rimarrà un paese in cui la vita ebraica continuerà a prosperare come in nessun altro luogo nella storia della diaspora? In un’America in cui le persone di colore costituiscono la maggioranza, come è già avvenuto in California, la maggior parte delle quali con poca o nessuna esperienza storica o conoscenza degli ebrei, la sensibilità ebraica continuerà a godere di livelli straordinariamente elevati di deferenza e gli interessi ebraici continueranno a ricevere una protezione speciale?

È importante che la maggior parte degli immigrati non europei non abbia alcuna esperienza storica dell’Olocausto né conoscenza della persecuzione degli ebrei nel corso dei secoli e veda gli ebrei solo come i più privilegiati e potenti tra i bianchi americani? È importante che i latinoamericani, che ci conoscono quasi esclusivamente come datori di lavoro per i servizi umili e poco remunerativi che svolgono per noi (come spazzare le foglie dai nostri prati a Beverly Hills o fare il bucato a Short Hills), costituiranno presto un quarto della popolazione nazionale? Ha importanza che la maggior parte degli immigrati latini abbia incontrato gli ebrei nei loro anni formativi principalmente o solo come uccisori di Cristo nel contesto di un’educazione religiosa in cui gli insegnamenti modificati del Concilio Vaticano II sono penetrati a malapena o per nulla? Ha importanza il fatto che la politica della successione etnica – cieca al colore della pelle, lo riconosco – abbia già portato alla perdita di legislatori ebrei chiave (il brillante Stephen Solarz di Brooklyn è stato uno dei primi) e che i seggi al Congresso un tempo considerati “sicuri” per gli ebrei siano ora occupati da rappresentanti latini?

Molto più potenzialmente pericoloso, è importante per gli ebrei – e per il sostegno americano a Israele, quando lo Stato ebraico si trova probabilmente di fronte a un pericolo esistenziale – che l’Islam sia la religione in più rapida crescita negli Stati Uniti? Che senza dubbio, ad un certo punto nei prossimi 20 anni, i musulmani supereranno gli ebrei in numero e che i musulmani con un'”agenda islamica” stanno diventando politicamente attivi attraverso una vasta rete di organizzazioni nazionali? Che ciò sta avvenendo in un momento in cui la religione islamica viene soppiantata in molti dei paesi di origine degli immigrati islamici dall’ideologia totalitaria dell’islamismo, i cui principi fondamentali sono il veemente antisemitismo e antisionismo? Il nostro status ne risentirà quando la struttura culturale giudaico-cristiana cederà il passo, prima a una giudaico-cristiano-musulmana e poi a un senso ancora più ampio di identità religiosa nazionale?

Il tutto culmina con la preoccupazione urgente di Steinlight che il potere politico ebraico nel Paese subirà una rapida erosione. A proposito, il saggio profetico è stato scritto nel 2001 e ora possiamo vedere chiaramente che la visione di Steinlight si sta avverando, poiché una nuova generazione di americani, fortemente influenzata dalle cause e dai valori dei migranti, ha effettivamente iniziato a rivoltarsi sia contro Israele che contro quelli che sono percepiti come “privilegi speciali” ebraici, con l’ascesa di figure come Nick Fuentes e movimenti affiliati.

Come si può vedere, la questione dell’immigrazione di massa che altera la natura stessa delle strutture di potere e delle alleanze nelle nazioni occidentali è da tempo un argomento esistenziale di dibattito. La nuova Strategia di Sicurezza Nazionale di Trump appare quindi un passo decisamente positivo per inviare un messaggio ai globalisti europei: l’America non tollererà che trasformino i loro paesi in minacce alla sicurezza che minano gli interessi strategici degli Stati Uniti nella regione.

Come B ha osservato nel suo articolo, questo sembra segnare la fine della famigerata Dottrina Wolfowitz, anche se ovviamente resta ancora da vedere fino a che punto le politiche “rivoluzionarie” dell’amministrazione Trump effettivamente funzioneranno nella pratica, dato che, sulla base dell’andamento attuale, aumentano le possibilità che i Democratici alla fine riconquistino il potere e ribaltino praticamente tutte le iniziative di Trump.

Detto questo, è piuttosto istruttivo osservare gli Stati Uniti definire la propria nuova strategia e rinnovare la Dottrina Monroe, annunciando con sicurezza che nessun avversario potrà rivendicare alcun diritto all’interno dell’emisfero americano, figuriamoci avvicinarsi anche solo minimamente al confine continentale degli Stati Uniti. Pensate all’ipocrisia insita in tutto ciò: la Russia è stata crocifissa per aver rivendicato la propria sfera di influenza semplicemente al proprio confine e per aver chiesto che l’Ucraina non diventasse una base terrestre e un trampolino di lancio per gli attacchi ostili della NATO contro la Russia. Ma in qualche modo, agli Stati Uniti è permesso rivendicare l’intero emisfero occidentale, mentre la Russia viene duramente criticata e sanzionata per aver osato cercare una piccola zona cuscinetto di sicurezza ai propri confini, verso i quali la NATO ha avanzato apertamente e costantemente.

Se gli Stati Uniti possono avere un intero emisfero tutto per sé, dove godono della possibilità di condurre qualsiasi operazione militare ritengano opportuna, senza leggi né regole, come quelle attualmente in corso contro il Venezuela, al fine di “proteggere i propri interessi di sicurezza nazionale”, allora sicuramente anche alla Russia può essere concesso il diritto di fare lo stesso ovunque lungo i propri confini. Dopo tutto, se il globale “ordine basato sulle regole” è veramente imparziale, dovrebbe consentire senza dubbio la distribuzione reciproca di dette “regole” tra centri di grande potenza uguali tra loro.

È interessante notare che proprio di recente la Russia ha effettivamente pubblicato una propria strategia di sicurezza nazionale simile.

Dal sito ufficiale del Cremlino:

http://en.kremlin.ru/acts/news/78554

Allo stesso modo, la nuova strategia delinea l’approccio della Russia verso il 2036 volto a garantire e rafforzare le regioni limitrofe, in particolare i territori ucraini recentemente annessi, con un senso di orgoglio civico e integrazione nella sfera culturale russa:

La nuova strategia politica nazionale di Putin punta a contrastare le “ingerenze straniere” e mira a far sì che il 95% dei cittadini condivida una “identità civica russa”.

Altro:

Il documento sottolinea separatamente la necessità di rafforzare “il ruolo unificante del popolo russo come nazione fondatrice dello Stato”. Propone di farlo attraverso progetti educativi e di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, il sostegno a gruppi di arte popolare e iniziative volte a mantenere vivo l’interesse dei cittadini stranieri residenti in Russia per la cultura russa.

Allo stesso modo, pone grande enfasi sull’«ingerenza straniera» e cerca di alimentare i conflitti interetnici nelle zone di confine della Russia.

https://meduza.io/en/feature/2025/11/28/putin-s-new-national-policy-strategy-targets-foreign-meddling-and-aims-to-have -95-percent-of-citizens-share-a-russian-civic-identity

Da Meduza:

Il decreto di Putin avverte che un’azione insufficiente su questi fronti potrebbe danneggiare la sicurezza nazionale. Esso stabilisce una serie di priorità in risposta a ciò:

  • proteggere e sviluppare la lingua russa e promuoverla come lingua franca tra i numerosi gruppi etnici della Russia. Ciò include incoraggiare i giovani a utilizzare il russo letterario standard e contrastare l’uso “eccessivo” di prestiti linguistici stranieri;
  • coltivare la coscienza civica tra i bambini e i giovani. Il documento suggerisce di farlo garantendo “la presenza dei simboli dello Stato della Federazione Russa in tutti gli ambiti della vita pubblica”, ampliando l’insegnamento della storia locale e nazionale e organizzando celebrazioni pubbliche che “favoriscano il senso di comunità e di appartenenza alla storia e alle conquiste del Paese”;
  • salvaguardare la “verità storica” e la memoria storica, nonché i “valori spirituali, morali e storico-culturali tradizionali russi”, compresi gli ideali di “patriottismo e servizio alla Patria”, e aumentare l’interesse pubblico per lo studio della storia russa.

È chiaro che con queste doppie strategie di sicurezza nazionale, il mondo sta entrando in un’era in cui le grandi potenze consolidano le loro sfere di influenza in un contesto di storico crollo dei blocchi geopolitici e di avvento della multipolarità.

Le potenze mondiali hanno percepito la dissoluzione e il deterioramento di sistemi e ordini precedentemente consolidati e hanno iniziato a farsi carico di istituzionalizzare quelle cose considerate diritti nazionali e civili e diritti di nascita. Per molti versi, ciò segna un altro colpo di grazia per il globalismo, anche se non necessariamente – nel caso degli Stati Uniti – per il neoconservatorismo.


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Teoria del contratto sociale stratocratico rivisitata II_di Tree of Woe

Teoria del contratto sociale stratocratico rivisitata II

Il desiderio di sapere di più si intensifica

5 dicembre
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La scorsa settimana ho ripreso la teoria del contratto sociale stratocratico . Dopo aver delineato a grandi linee i meccanismi della stratocrazia, ho sostenuto che il conflitto stratocratico odierno in Occidente si colloca tra due coalizioni: una coalizione di governo che favorisce il globalismo, l’immigrazione e l’apertura delle frontiere; e una coalizione populista o nativista che favorisce il nazionalismo, il nativismo e la chiusura delle frontiere. Ho inoltre sostenuto che la coalizione di governo ha iniziato a erodere i diritti che rendono possibile la pacifica coesistenza tra coalizioni, preparando il terreno per una resistenza stratocratica all’anarco- tirannia.¹

Ma poi ho concluso con la malinconica possibilità che il legame stratocratico tra il cittadino abile al lavoro, il suo uso della forza e la sua difesa dei propri diritti si sia spezzato. Nello specifico, ho ipotizzato che:

  • la coalizione al potere fa sempre meno affidamento su guerrieri abili per mantenere il suo potere in primo luogo;
  • la coalizione al potere amplia il suo esercito di guerrieri abili secondo necessità, consentendo un’immigrazione incontrollata;
  • ci sono sempre meno guerrieri abili da radunare per la coalizione populista;
  • i guerrieri abili che potrebbero radunarsi contro la coalizione al potere sono stati in gran parte disarmati nella maggior parte delle comunità politiche; e, cosa peggiore,
  • la coalizione al potere ha imparato a ottenere l’acquiescenza della coalizione perdente attraverso l’ingegneria sociale piuttosto che attraverso l’estensione dei diritti.

Se queste affermazioni sono vere, allora i nostri diritti hanno perso ogni fondamento – non quello giuridico, ovviamente, né quello divino; bensì quello pratico, quello militare . I nostri diritti esistono sulla carta, ma non hanno alcuna forza dietro di sé. E se la coalizione al potere sa che la coalizione perdente non può o non vuole sollevarsi in difesa dei propri diritti, allora nulla la dissuade dall’obliterare tali diritti… che è ciò che sta facendo.

Esaminiamo in dettaglio ciascuno di questi punti.

In primo luogo, la coalizione al potere fa sempre meno affidamento su guerrieri di buona volontà per mantenere il proprio potere.

Una delle più profonde interruzioni del ciclo stratocratico è la costante separazione tra l’autorità politica e il guerriero abile. Nella concezione classica esposta nella teoria stratocratica² , condivisa da ogni civiltà dalla Grecia omerica alla frontiera americana, l’autorità nasceva dalla capacità degli uomini di scendere in campo e imporre la propria volontà attraverso la violenza coordinata. Il guerriero abile era il fondamento della legittimità politica.

La modernità ha dissolto questo fondamento. Laddove un tempo le coalizioni rivali dimostravano la propria autorità radunando uomini, oggi le coalizioni rivali esercitano la forza producendo macchine. La guerra è combattuta sempre meno da formazioni di combattenti e sempre più da costellazioni di computer, una guerra “a spettro completo” e “network-centrica” ​​di satelliti, sistemi intelligenti, piattaforme autonome e cicli decisionali algoritmici.

Questa meccanizzazione del conflitto fu profeticamente diagnosticata dai pensatori del periodo tra le due guerre, testimoni dei macelli industriali della Grande Guerra. Julius Evola, nella sua Metafisica della guerra , denunciò il passaggio dalle “frontiere tra la vita e la morte”, dove il guerriero raggiungeva la realizzazione trascendente, a un’arena degradata e materialistica dominata dal “mito della sicurezza” e dalla “guerra alla guerra”. Oswald Spengler riecheggiò questo concetto ne Il tramonto dell’Occidente , descrivendo la fase avanzata delle civiltà come un’epoca in cui la guerra si evolve da forme eroiche e legate alla cultura a tecniche meccaniche. Ernst Jünger, attingendo alle sue memorie infestate dalle trincee in Tempesta d’acciaio , si spinse oltre in saggi come “Mobilitazione totale”, immaginando la prossima generazione di soldati non come guerrieri, ma come “operatori di macchine” in una guerra totale in cui l’onda gelida e impersonale della tecnologia avrebbe travolto la forma umana. Questi uomini, osservando il filo spinato e le nubi di gas del 1914-1918, intuirono che i futuri motori di distruzione avrebbero eroso la stessa reciprocità di forza che la stratocrazia presuppone.

Il XXI secolo ha ovviamente accelerato questa erosione. Munizioni a guida di precisione, operazioni informatiche e droni autonomi consentono ora alle coalizioni di esercitare un potere coercitivo senza dover radunare grandi masse di combattenti in carne e ossa. Il potere contrattuale esistenziale del guerriero – “possiamo sollevarci e possiamo combattere” – svanisce in un mondo in cui la forza può essere proiettata senza la carne.

Questa separazione del guerriero dalla guerra è fatale per la logica stratocratica. Se il trattato che sostiene l’autorità si basa sulla capacità delle coalizioni rivali di radunare la forza vitale, allora un regime in grado di esercitare un potere coercitivo senza radunare uomini in carne e ossa non ha più bisogno del trattato. Può governare senza guerrieri perché può uccidere senza guerrieri.

In un mondo del genere, il “guerriero abile” diventa politicamente irrilevante. La sua spada non pesa più sulla bilancia. Il suo rifiuto non può cambiare gli esiti. Il suo consenso è irrilevante. La sua esistenza, in senso stratocratico, cessa di avere importanza. Un sistema che può uccidere senza uomini abili non teme più i suoi uomini abili. Il ciclo stratocratico, privato della stessa forza che un tempo ne garantiva il rinnovamento, inizia a congelarsi.

A questo punto, ovviamente, i fanti più esperti che hanno combattuto in Afghanistan e Iraq mi faranno notare che sbaglio. Gli stivali sul campo contano ancora. La guerra è ancora combattuta da uomini duri che compiono azioni dure. E sono d’accordo. Il fante ha ancora un posto sul campo di battaglia… per ora.

Ma per quanto tempo? La guerra russo-ucraina ha visto i droni dominare il campo di battaglia, nonostante le formazioni di fanteria siano diventate meno numerose e più disperse. A che punto smetteranno semplicemente di avere importanza? Ho scritto diversi saggi in cui sottolineavo che i nostri leader globali sono “tutti” concentrati sull’intelligenza artificiale e sulla robotica. Quando lo dico, non intendo dire “Caspita, Donald Trump adora ChatGPT”.

Oggi, ogni grande potenza, dagli Stati Uniti alla Cina, dalla Russia a Israele, sta perseguendo con aggressività sistemi d’arma autonomi letali, in grado di identificare, colpire ed eliminare le minacce senza l’intervento umano. Programmi come l’iniziativa statunitense Replicator e i velivoli da combattimento senza pilota Sharp Sword della Cina annunciano un’era in cui la forza non è più dominio dei guerrieri, ma di macchine autoperpetuanti.

La coalizione al potere amplia il suo esercito di guerrieri abili al combattimento secondo necessità, consentendo un’immigrazione incontrollata.

Ma supponiamo che mi sbagli: i robot autonomi sono sopravvalutati; i combattenti abili sono il futuro. Supponiamo che gli spettri di silicio della guerra autonoma non riescano a eclissare completamente l’elemento umano, lasciando spazio al guerriero abile per radunarsi in teoria; anche se così fosse, le coalizioni di governo anti-populiste e antinativiste di Stati Uniti e Unione Europea hanno già aggirato questa vulnerabilità gonfiando i loro ranghi attraverso l’immigrazione di massa.

Nel quadro stratocratico, l’autorità si basa sulle dimensioni e sulla lealtà della coorte di guerrieri; una sotto-coalizione vincente può consolidare il potere convertendo guerrieri non allineati o rivali, spesso attraverso incentivi o retorica. ⁴ Oggi, questo si manifesta non come una persuasione retorica tra i nativi, ma come un deliberato progetto di ingegneria demografica: importare un gran numero di giovani maschi abili al lavoro che, una volta naturalizzati o addirittura parzialmente emancipati, ingrossano gli eserciti elettorali dei titolari, diluendo la mobilitazione dell’opposizione nativista senza la confusione della battaglia.

Negli Stati Uniti, l’afflusso è stato immenso. Negli ultimi quindici anni, l’immigrazione legale ha aggiunto decine di milioni di nuovi residenti permanenti e titolari di visti a lungo termine, con una quota sostanziale di uomini in età lavorativa. Gli arrivi non autorizzati hanno aggravato ulteriormente la situazione. Gli analisti dissidenti sostengono che l’effetto cumulativo, contando sia gli ingressi legali che quelli illegali, ha introdotto una popolazione di uomini in età lavorativa paragonabile alle dimensioni di interi stati. Qualunque siano le cifre precise, l’impatto politico è inequivocabile. Intere aree metropolitane dipendono ora da circoscrizioni elettorali ad alta densità di immigrati che assicurano costantemente vittorie ai candidati allineati ai globalisti. Città dopo città, da Los Angeles a New York, blocchi di immigrati formano coalizioni elettorali decisive che isolano i candidati in carica dal malcontento dei nativi.

I leader europei hanno implementato questa strategia su scala continentale. Dagli anni 2010 in poi, l’UE ha accolto un’enorme ondata di nuovi arrivati ​​attraverso i sistemi di asilo, la migrazione per lavoro, il ricongiungimento familiare e gli attraversamenti irregolari. La maggior parte di questi arrivi erano giovani uomini provenienti dal Medio Oriente, dall’Africa e dall’Asia meridionale. Una volta stabilitisi nei centri urbani, questi nuovi arrivati ​​sono diventati rapidamente fondamentali per le elezioni nazionali. In diversi paesi, come Svezia, Germania, Francia e Paesi Bassi, la destra autoctona si è ripetutamente trovata in inferiorità numerica nei distretti chiave rispetto agli immigrati naturalizzati che sostengono in modo schiacciante i partiti globalisti, formando un duraturo muro elettorale contro gli sfidanti populisti e nativisti.

Quando la coalizione al potere riesce a eludere la richiesta di competizione organica del trattato stratocratico importando lealtà, rende la defezione del guerriero nativo non solo temporanea, ma anche demograficamente irrilevante.

Sono sempre meno i combattenti abili da radunare per la coalizione populista.

Laddove un tempo le coalizioni di una nazione attingevano a una solida riserva di vitalità autoctona per contestare l’autorità attraverso elezioni o scrutini, oggi le popolazioni native negli Stati Uniti e in Europa si stanno riducendo e invecchiando, mentre i tassi di fertilità autoctoni precipitano al di sotto dei livelli di sostituzione. Se non risolta, questa inversione di tendenza farà sì che qualsiasi potenziale rinascita nativa, sia essa elettorale o insurrezionale, non abbia i numeri per far pendere la bilancia, rendendo la promessa di una “sconfitta temporanea” un’eco vuota in una sala svuotata di contendenti. ⁵

In tutto l’Occidente, la fertilità nativa è scesa a minimi storici, ben al di sotto dei livelli di sostituzione. In un paese dopo l’altro, la piramide demografica si è invertita, lasciando i giovani troppo pochi per sostenere la leva politica che i loro antenati un tempo davano per scontata. La percentuale di maschi nativi in ​​età da combattimento, la spina dorsale di ogni esercito, milizia e sottogruppo politico, è crollata a una frazione della sua quota di inizio XX secolo. Rispetto a epoche in cui vaste schiere di giovani uomini potevano essere mobilitate per la mobilitazione di massa, l’Occidente moderno è una civiltà invecchiata, popolata da una minoranza sempre più ridotta di giovani nativi, oscurata dai rivali importati.

Queste frazioni, già anemiche, vengono ulteriormente indebolite dal crollo di quello che potremmo definire “spirito guerriero” o vitalità. I ​​giovani nativi sopravvissuti, invece di costituire uno strato di guerrieri temprati, lottano sempre più con fragilità fisica, instabilità mentale e disimpegno civico. Obesità, stili di vita sedentari e diete elaborate hanno reso ampi segmenti della coorte inadatti al servizio militare o alla resistenza organizzata. Le epidemie di salute mentale proliferano; ansia, depressione e disregolazione neurochimica sono diventate caratteristiche distintive dell’adolescenza piuttosto che disturbi rari.

Le droghe digitali, che arrivano sotto forma di pornografia, intrattenimento a ciclo continuo di dopamina, feed iperstimolanti dei social media e l’onnipresente meccanismo della distrazione algoritmica, cospirano per indebolire ulteriormente il loro spirito. Se combinato con gli SSRI che attenuano la rabbia, la cannabis che indebolisce la motivazione e chissà cos’altro che annienta il testosterone, l’effetto si trasforma in apatia psicochimica. Un’intera generazione è stata cresciuta con un piacere senza attrito per insegnargli a evitare la lotta; un’intera generazione è stata indotta con farmaci sedativi emotivi per distruggere l’acutezza di spirito che spinge i giovani a correre rischi. Laddove il mondo del giovane oplita era strutturato da onore, vergogna e dovere, il mondo dei giovani moderni è un bozzolo digitale privato, intorpidito, senza attrito e sterile. Un uomo che trascorre le notti pacificato da schermi luminosi e caramelle gommose all’erba non si sveglia con il fuoco da radunare.

I funzionari militari, dagli Stati Uniti al Nord Europa, confessano apertamente che solo una minoranza di giovani uomini soddisfa ormai i più elementari standard fisici, psicologici o morali per il servizio. In molti paesi, il bacino di reclute idonee si è ridotto così drasticamente che interi rami delle forze armate sono in fase di ristrutturazione (giustificando ulteriormente la sostituzione dei soldati con i robot). “Fortunatamente”, ci assicurano le autorità, “le reclute immigrate possono colmare il divario”.

Una coalizione senza una coorte di guerrieri è una coalizione che non può far valere i propri diritti. E nell’Occidente moderno, quella coorte a malapena esiste. Il fondamento demografico della Clausola 10, i diritti come espressione di forza latente, è stato ampiamente spazzato via. ⁶

Nella maggior parte dei sistemi politici, i guerrieri più abili che potrebbero radunarsi contro la coalizione al potere sono stati in gran parte disarmati.

Anche se il numero dei guerrieri nativi diminuisce e la loro vitalità si affievolisce, il perno del trattato stratocratico, ovvero la minaccia latente della forza per far rispettare i diritti e contestare l’autorità, è stato ulteriormente smantellato in gran parte dell’Occidente attraverso il disarmo.

I diritti non derivano da dichiarazioni astratte, ma dal moschetto dei Minuteman, la capacità di sollevarsi e respingere le violazioni del patto. I padri fondatori americani lo compresero profondamente; il Secondo Emendamento sancisce il “diritto di detenere e portare armi” proprio come baluardo contro la tirannia, codificando il ruolo della milizia cittadina in una stratocrazia nascente nata dalla ribellione. Garantisce che le sotto-coalizioni mantengano i mezzi per mobilitarsi, rendendo la ribellione non solo giustificabile, ma anche fattibile quando l’anarco-tirannia invade il territorio.

In gran parte dell’Occidente moderno, questa possibilità è stata deliberatamente estinta. Al di fuori degli Stati Uniti, il diritto di portare armi è stato ridotto a una curiosità storica, un reperto esposto nei musei, mentre la comunità politica vivente è resa indifesa. Divieti totali, confische, regimi di licenze e dottrine della “forza ragionevole” hanno privato i guerrieri nativi sia delle armi che della legittimazione giuridica. Lo Stato rivendica il monopolio della violenza, cancellando progressivamente proprio i diritti che un tempo il trattato stratocratico proteggeva.

In un paese dopo l’altro, predatori violenti vagano impunemente, mentre i capifamiglia che si difendono da soli vengono perseguiti. I crimini con armi da taglio aumentano dove le armi da fuoco sono vietate; bande organizzate di adescatori operano per anni mentre la polizia esita a intervenire; le proteste politicamente sconvenienti vengono rapidamente represse, mentre le rivolte illegali dei gruppi favoriti vengono tollerate o giustificate. Il risultato è una dualità perversa: anarchia per i criminali, tirannia per i dissidenti, impotenza per la gente comune.

La Gran Bretagna offre l’esempio più chiaro di questo decadimento. Dopo la grande ondata di disarmo, la criminalità non è diminuita; ha semplicemente cambiato forma. Coltelli, machete e armi improvvisate hanno sostituito le pistole, e la violenza è proliferata in città dove la popolazione nativa non portava con sé nemmeno un coltellino tascabile per autodifesa. Nel frattempo, le autorità di polizia non sono riuscite per anni a proteggere i bambini dalle reti predatorie in diverse città, dedicando invece immense energie al controllo di discorsi, tweet, manifesti e associazioni politiche. Il messaggio implicito era inequivocabile: non puoi difenderti, e nemmeno lo Stato ti difenderà.

Questa inversione del patto stratocratico annulla completamente la Clausola 16. Una classe guerriera che non può armarsi non può ribellarsi; una classe guerriera che non può nemmeno resistere legalmente alla predazione di strada non può sperare di sfidare il potere radicato. E una coalizione di governo che lo sa non deve temere affatto la ribellione. Un popolo disarmato può ancora lamentarsi, protestare o votare, ma non può radunarsi. E in un quadro stratocratico, questo equivale a non avere alcun diritto.

La coalizione al potere ha imparato a ottenere l’acquiescenza della coalizione perdente attraverso l’ingegneria sociale, anziché attraverso l’estensione dei diritti.

La teoria stratocratica presuppone che i vincitori nella lotta tra coalizioni si astengano dall’imporre ai perdenti risultati peggiori di quelli che questi ultimi subirebbero in caso di guerra. I perdenti acconsentono volontariamente a tale risultato perché sono certi che i loro diritti siano tutelati.⁷

Ma nell’odierna realtà anarco-tirannica, i perdenti acconsentono anche se i loro diritti vengono cancellati. La coalizione al potere ha padroneggiato la sottile alchimia della psicologia umana e la usa per rendere l’acquiescenza non solo tollerabile, ma inevitabile.

Lo fanno principalmente sfruttando l’adattamento edonico, un meccanismo psicologico formalizzato per la prima volta da Brickman e Campbell nel 1971, in base al quale gli individui si ricalibrano alle condizioni prevalenti, registrando non stati assoluti ma la propria velocità di cambiamento. Come la rana si acclimata alla pentola calda, senza mai bollire finché non è troppo tardi, così le coalizioni sconfitte normalizzano le ingerenze quando vengono somministrate in dosi digeribili. Un’espansione sussurrata della sorveglianza qui, una calibrata restrizione del linguaggio là, un nuovo monitor algoritmico oggi, una nuova serie di protocolli di sicurezza domani… Ogni concessione sembra minuscola, ragionevole, un compromesso necessario per la sicurezza e l’ordine. Nessuna è catastrofica di per sé, ma col tempo i diritti duramente conquistati dal guerriero vengono cancellati.

Questa lenta ebollizione acquista letalità attraverso la deliberata atomizzazione della società, lo sventramento dei “piccoli plotoni” di Edmund Burke, i legami familiari, comunitari e associativi che un tempo proteggevano l’individuo dall’isolamento e amplificavano la ribellione collettiva. In tutto l’Occidente, il capitale sociale si è sfilacciato fino a diventare un velo di ragnatela. La fiducia tra vicini, la partecipazione alle associazioni civiche, il senso di appartenenza a un popolo coeso, tutto si è inaridito sotto i solventi della vita digitale, dell’omogeneizzazione burocratica, della mobilità di massa e della polarizzazione ideologica. Le sotto-coalizioni che un tempo costituivano l’adunata naturale di un guerriero si sono assottigliate fino a diventare mere astrazioni demografiche.

Il veleno politico dell’atomizzazione risiede nella sua asimmetria: il costo della resistenza, un tempo diffuso tra parenti e clan, ora ricade interamente sull’individuo, immediato e massimo. Sfidare il potere oggi significa affrontare la rovina da soli. Carriere svaniscono con una singola accusa, mezzi di sussistenza si dissolvono sotto un deplatforming coordinato, famiglie vengono distrutte dal doxing e la macchina giudiziaria si abbatte con una rapidità e una severità riservate solo a chi è politicamente scomodo. L’antica promessa del rischio condiviso è svanita; il ribelle moderno si carica i suoi fardelli in solitudine.

L’acquiescenza, al contrario, estorce solo inezie, forse un’opinione sommessa, una piccola concessione di privacy, un pensiero autocensurato. Ogni passo costa poco; il prezzo cumulativo diventa visibile solo a posteriori, quando l’uomo abbassa lo sguardo e vede le catene che si è silenziosamente adattato ai polsi.

Di tanto in tanto, si verifica ancora una “ribellione atomizzata”, in cui anime frammentate si scatenano individualmente, ma si tratta di catarsi senza conseguenze. Gli sfoghi fungono da valvole di sfogo che dissipano la forza stessa di cui il trattato stratocratico ha bisogno per fondersi in una sfida significativa. L’energia che un tempo avrebbe animato l’azione collettiva evapora invece e coloro che esprimono sostegno alla ribellione atomizzata vengono ridicolizzati ed emarginati o, nel Regno Unito, arrestati per possesso illegale di meme.

Cosa bisogna fare?

Si potrebbe dire che la coalizione al potere ha anestetizzato il serpente a sonagli: dorme indipendentemente da chi lo calpesti. Ecco perché ho concluso il saggio della scorsa settimana con un monito minaccioso, parafrasando George Orwell: “Se volete un’immagine del futuro, immaginate uno stivale che calpesta per sempre un serpente a sonagli anestetizzato”.

Ma non tutti i serpenti sono anestetizzati, non completamente, non ancora. Se sappiamo come la coalizione al potere ha operato la sua alchimia, possiamo invertirla? Se la coalizione al potere cerca di rendere vana la resistenza all’anarco-tirannia, c’è un modo per renderla… non vana?

Si prega di ricordare che la “resistenza” qui non è necessariamente fisica. Sebbene la teoria stratocratica sostenga che il potere si basi sulla forza, essa vede il successo politico nell’evitare l’uso della forza. La teoria stratocratica mira a scoraggiare l’abuso di potere da parte delle coalizioni al potere garantendo che le coalizioni perdenti detengano sufficiente contropotere per contrastarlo. I sostenitori delle leggi sul porto occulto di armi vogliono meno crimini, non più sparatorie di criminali; i cittadini stratocratici vogliono meno tirannia, non più guerre civili. Questa teoria stratocratica ha un vero impatto, visibile nello stato di libertà odierno nell’America armata e nell’Inghilterra disarmata!

Considerando tutto ciò, cosa si può fare?

Se la tecnologia militare ha sostituito i guerrieri abili come fonte di potere della coalizione al potere, allora qualsiasi coalizione che cerchi di resistere all’anarco-tirannia dovrebbe cercare di acquisire una propria tecnologia simile. Carroll Quigley ha sostenuto in Tragedy and Hope che le epoche in cui le armi sono centralizzate e costose sono epoche dispotiche, mentre le epoche in cui le armi sono decentralizzate ed economiche sono libertarie. Molti pensatori militari oggi credono che ci stiamo allontanando dalle super-armi estremamente costose e verso armi economiche, usa e getta e facilmente producibili (forse persino stampabili in 3D). Se così fosse, questo è motivo di ottimismo. I futuri attivisti del Secondo Emendamento negli Stati Uniti potrebbero sostenere il diritto degli individui a possedere droni armati per la sicurezza personale e la resistenza alla tirannia. Se l’intelligenza artificiale è l’arma del futuro, allora gli aspiranti oppositori dovrebbero avere le proprie IA militanti (come Centurion, ecc.).

Poiché la coalizione al potere fa affidamento sull’immigrazione incontrollata come suo blocco stratocratico, qualsiasi coalizione che cerchi di resisterle deve adottare una combinazione di: (a) bloccare l’immigrazione, (b) reimmigrare una parte dei nuovi arrivati, (c) invitare immigrati della propria etnia o credo a unirsi a essa, o (d) convertire i blocchi di immigrati esistenti in alleati della propria coalizione. Questo è stato un obiettivo importante della Nuova Destra, ovviamente, sebbene con forti divergenze di opinione su quali aspetti di (a) – (d) enfatizzare.

Dato che la coalizione di governo sta approfittando del calo numerico e della vitalità della coalizione populista, allora quest’ultima deve invertire la rotta. Anche questo è stato un obiettivo importante della Nuova Destra, che si è espressa su questi temi in modo più chiaro e autorevole di qualsiasi altro gruppo. I nazionalisti cristiani si concentrano sul ritorno alle tradizionali famiglie numerose; i vitalisti del BAP incoraggiano i giovani a mantenersi in forma; e così via. Ma questo aspetto dovrebbe essere inteso in senso più ampio, includendo anche le fazioni adiacenti, come il movimento MAHA di Kennedy e altre coalizioni pro-salute o pro-vitalità.

Dato che la coalizione di governo è intenzionata a disarmare i suoi “sudditi” (come li vede), la coalizione populista deve (laddove sia ancora armata) resistere con vigore a tali tentativi; e laddove sia stata disarmata, deve trovare il modo di riarmarsi. Questo è un ambito di cui la destra statunitense può andare fiera. Il diritto al porto d’armi è oggi meglio tutelato che in qualsiasi altro momento dalla Seconda Guerra Mondiale.

La sfida più complessa, tuttavia, è l’ultima. Cosa fare di fronte all’ingegneria sociale che usa l’adattamento edonico per bollire la rana e atomizza i cittadini per assicurarsi che il costo della resistenza nasca da solo? Mi sembra che ci siano tre possibili risposte.

  • La prima risposta è la costruzione di plotoni, la creazione di nuove strutture sociali in grado di unire i membri isolati della coalizione resistente. A volte viene chiamata “creazione di un’economia parallela”. Questo è stato uno degli obiettivi principali di uomini come Andrew Torba. Se la coalizione al potere riesce a ottenere il consenso alle sue politiche assicurandosi che i costi della resistenza siano sostenuti autonomamente, la risposta è assicurarsi che non siamo soli nella nostra lotta e che i costi siano condivisi. La destra ha fatto grandi passi avanti in questo senso. Basta chiedere a Shiloh Hendrix!
  • La seconda risposta è l’accelerazionismo. L’ingegneria sociale basata sull’adattamento edonico si basa su un ritmo del cambiamento sufficientemente lento da passare inosservato. Alzando la temperatura, si può far saltare la rana fuori dalla pentola. Esiste ovviamente una fiorente comunità di accelerazionisti convinti, ma molti esponenti della destra nutrono ragionevoli riserve su questa strategia. Certamente l’esperienza della Rhodesia e del Sudafrica suggerisce che le rane europee siano piuttosto tolleranti al dolore. Potremmo alzare la temperatura e semplicemente bollirci a morte più velocemente.
  • Il terzo approccio consisterebbe nel rendere efficace la “ribellione atomizzata”. Le cose non sono ancora arrivate al punto in cui qualcuno l’abbia seriamente presa in considerazione e, dati gli orrori che ne conseguono, deve essere intesa come ultima risorsa. La tecnica teorica con cui ciò può essere realizzato è chiamata guerra di sesta generazione e prevede un’insurrezione senza rete da parte di combattenti ultra-potenti che comunicano usando la stigmergia. Ho scritto un intero articolo su questa teoria qui (Le sette generazioni della guerra moderna ), che gli abbonati a pagamento possono leggere se interessati a una lettura desolante.

Questi sono quindi sette metodi con cui potremmo rendere praticabile la resistenza; questi sono i nostri sette “metodi di meta-resistenza”. E in generale, i “metodi di meta-resistenza” che derivano dalla teoria stratocratica sono gli sforzi che le fazioni della destra dissidente o Nuova Destra hanno tentato di intraprendere. La destra populista ha agito senza un’ideologia chiara, ha inciampato, è stata in disaccordo, ha spesso lottato contro se stessa, è stata spesso inefficace; ma la teoria stratocratica suggerirebbe che sta almeno cercando di fare alcune delle cose giuste che devono essere fatte.

Oltre ad essere un fan di Starship Troopers e Conan il Barbaro, Contemplations on the Tree of Woe è anche un fan di Star Trek. Preferisce la Serie Classica, ma purtroppo Kirk non ha mai incontrato i Borg. Opporsi all’abbonamento è inutile: verrai abbonato.

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1

La clausola 16 della Teoria Stratocratica afferma: “Quando uno stato decade in un’anarco-tirannia, inizia a violare il trattato che ha istituito la stratocrazia. L’anarco-tirannia crea quindi le condizioni affinché i combattenti abili all’interno dello stato si ribellino contro di esso”.

2

La clausola 3 afferma: “Poiché l’autorità si basa sulla forza, il conflitto sull’autorità viene risolto con la forza. Ogni figura autoritaria (leader) convoca un esercito di guerrieri abili che sostengono la sua leadership, e gli eserciti risolvono la questione dell’autorità in battaglia”.

3

La clausola 6 afferma: “La democrazia non nasce da un contratto tra individui nello stato di natura. La stratocrazia nasce invece da un trattato tra i leader di sotto-coalizioni rivali all’interno di uno stato, consapevoli che l’uso della forza all’interno della coalizione è inutilmente distruttivo”.

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La clausola 11 afferma: “Una volta che uno stato diventa una stratocrazia, i leader delle sotto-coalizioni al suo interno iniziano a competere per i convertiti tra i guerrieri non allineati e tra i guerrieri di altre sotto-coalizioni. Tale competizione può essere retorica, con i leader che cercano di convincerli della loro efficacia o rettitudine come leader, o economica, con i leader che offrono doni e bottino a coloro che li sostengono. In entrambi i casi, mentre i guerrieri ricordano che sono le loro armi il fondamento dei loro diritti e del sistema stratocratico stesso, il sistema rimane efficace e sano”. I leader all’interno di uno stato non hanno bisogno di competere per i guerrieri se possono importare guerrieri immigrati.

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La clausola 7 afferma che “Affinché la stratocrazia possa risolvere le questioni di autorità all’interno di uno Stato, devono essere soddisfatte due condizioni. In primo luogo, le sotto-coalizioni perdenti devono essere disposte ad accettare che la loro sconfitta sia temporanea. In secondo luogo, la sotto-coalizione vincente non deve peggiorare i risultati delle coalizioni perdenti rispetto a quelli che si otterrebbero se le sotto-coalizioni perdenti si scontrassero”. Questi requisiti diventano parte del trattato che istituisce il sistema stratocratico.

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La clausola 10 afferma che “i diritti, come l’autorità, si basano quindi sulla capacità di usare la forza. È il fatto che un guerriero possa sollevarsi e combattere che gli conferisce diritti. Il Minuteman è il fondamento della Carta dei Diritti”.

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La clausola 9 afferma che “Per garantire che la sotto-coalizione vincente non peggiori i risultati delle sotto-coalizioni perdenti al punto da rendere preferibile la violenza, alcune azioni vengono rese inammissibili per lo Stato. I combattenti di solito combattono per difendere la propria vita, libertà e proprietà, quindi il trattato stratocratico stabilisce che lo Stato non toglierà mai la vita, la libertà e la proprietà dei combattenti. Le aree protette da azioni inammissibili da parte dello Stato diventano diritti. In questo modo, l’esito stratocratico viene reso accettabile per i perdenti, che possono sentirsi sicuri che i loro diritti siano tutelati”.

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Pensaci Giorgia! atto II_di WS

In  questo  articolo  Simplicius  risolleva  un paio di questioni:  l’ ormai annosa  faccenda del   sequestro  dei beni russi  e il    sempre più vicino   e drammatico   turning point  che  attende  la NATO-€uropa    nel  prosieguo di questa  guerra.

Sono  “more  solito”  questioni ben  trattate   dal nostro,   ma  che io   riprenderò  qui  da un angolo   “non  convenzionale”     inquadrandole  nella  altrettanto   “non convenzionale”  strategia russa.

Cominciamo   dai “ beni russi” .

Tutti  hanno pensato: “oh  quanto è stato   sciocco Putin a lasciare   che la Nabulina  lasciasse    tante  riserve   finanziarie  russe  nelle banche “occidentali !”.

Ma in realtà è stata una mossa ben  calcolata. La Russia non poteva  , tantomeno in “tempo di pace “, rinazionalizzare  l’economia russa  prima del tempo; quei  soldi   erano  la garanzia  finanziaria  a che le banche occidentali    reinvestissero  in  Russia    finanziando  gli   investimenti  privati  tecnologici   ed  industriali  occidentali necessari ,  preso atto  che  gli oligarchi  “amici” di Putin   preferivano   invece tenere    i loro “ attivi” in occidente senza che lui potesse impedirlo perché avrebbe  scoperto    troppo presto le proprie  carte.

E  così , quando ciò   è avvenuto ,  “l’ occidente “   ha cercato di schiacciare la  Russia    trasformandola in un “paria “  economico ,      come  fanno  di solito i Bankesters     e  come appunto  subito  proclamato   dal “nostro “ SuperMario.

Ed in particolare    “l’ occidente  combinato” ha   “congelato”    tutti i beni russi   sul proprio  territorio , ma   la  Russia  per  RECIPROCITA’   ha  fatto  altrettanto   con i beni dei paesi “congelanti” .

 Questo però nella  sostanza   é solo  uno  scambio  di beni     con  la  Russia  in posizione di vantaggio  in quanto , in  termini  di “disponibilità”,     si  tratta    sostanzialmente  solo di un    “ buy back”.

Perché    non solo  il  complessivo   dei  beni   bloccati  dai russi è  forse  superiore (ma  questo non è importante); in realtà  il complessivo  dei  beni  russi  bloccati  in “occidente”  è   formato principalmente  da   “beni  finanziari” , mentre  quello dei beni “occidentali” bloccato dai  russi in loco   è  principalmente formato da “beni  reali” .

La  Russia però  non ha  i problemi  di solvibilità    di  Venezuela   ed Iran essendo un paese nettamente   esportatore   verso “un  resto del mondo”   con cui non ha alcun contenzioso.

Anzi  l’ esclusione   del rublo  dai circuiti  economici occidentali  non ha  nemmeno  obbligato  il governo  russo  a prendersi direttamente  in carico  il controllo  dei beni  congelati .

  I possessori “occidentali” di beni   in  Russia  possono  ancora  farne  quello  che vogliono ,   vendere  ,barattare e anche chiudere la baracca.

 Qualunque   cosa ne facciano  però possono  solo liquidare  il  tutto in rubli che restano depositati in banche  russe     “  a   garanzia”      sebbene ci  possano  ancora  guadagnare interessi… in rubli  ovviamente.

 In questo modo , non violando nessuna  regola  nelle  relazioni internazionali,  la Russia , al contrario de “l’ occidente”,  non ha generato alcuna inquietudine  economico-finanziaria  nei “ paesi  terzi”

Questa  “inconvertibilità”   del rublo  ha  per di più pure  chiuso  per sempre  l’ emorragia   finanziaria  russa    che,   da paese   nettamente  esportatore, sino a poco tempo prima  lasciava   ,  tramite i suoi oligarchi  ,     gran  parte  dei propri   attivi  commerciali  nelle banche  “occidentali”.

Così il danno   se lo è preso   soprattutto “l’ occidente”;  la questione    rimarrà “  congelata”   fino a guerra  finita ,    quando, non   essendo  la  Russia  stata  sconfitta , al “consuntivo”  ci  sarà un ulteriore   costo   che  “l’ occidente “   dovrà prendersi.

Quindi  di cosa  stiamo discutendo ?   Solo   del fatto che  ora l’€uropa   ha  deciso  di accollarsi   tutta  e da sola      il    sostegno   della NATO-Ucraina    e per questo  ora ha  bisogno   di  emettere  NUOVO   debito   e quindi   di invertarsi una “garanzia”  su beni  russi  congelati,  che  così   risulterebbero  LEGALMENTE   espropriati ,  cosa  che di  fatto  sono  già, ma così  spalancandosi un baratro    sotto i propri  piedi.

“Auguri! “   sarebbe  l’ unico  commento    che    potrei fare  a tutto  questo    se la   cosa   a “Noi popolo”  non  ci   coinvolgesse      completamente.      E  purtroppo non  solo  dal punto  di   vista    economico  e sociale,  perché   questo  atto  di  disperazione   ci  garantisce  che   non  finirà     qui;   avremo il prosieguo di  una  guerra  DIRETTA  NATO-Russia    che  sarà ben peggiore  di quella  che stiamo vedendo in  Ucraina.

Al momento  di questo  atto inusitato noi   non potremo più    farci illusioni;   già di per sé   l’esproprio   LEGALE    dei beni  russi     ci  garantisce   che  avremo la  guerra DIRETTA.

E  questo non solo   i Russi  ce lo  stanno  dicendo  in tutte  le  salse , ma   ci sono  indizi      che   stiano      smettendo   l’usuale  “fair play”    per passare     ai   “metodi  americani” ,      cioè quelli con cui   gli U$A       gestiscono i  “decisori” €uropei   dal 1992.

D’altra parte   la posta in gioco   sta diventando   tanto   grande   che  “  a brigante  un brigante   e mezzo “ sarà allora pienamente giustificato.


E appunto “l’  avvertimento  personale”     che il premier  belga   dice   di aver ricevuto , non  può  essere  certo venuto   “per  via  diplomatica”.

 Quindi   in conclusione,  l’ unica  cosa che posso  dire  ai  “decisori”  italici  è   “ non    sedete  a quel  tavolo !“,  sebbene purtroppo    io    sappia  bene  che  questi “polli”      siano  stati  allevati  proprio per questo,  nella   loro convinzione   che  alla  fine    si tratterebbe, come sempre,     solo  di “spennare”    “Noi il popolo”.

Sta volta, però,  “in rosticceria”   ci finiremo   tutti,  anche costoro  che  non  riusciranno  nemmeno  a    raggiungere   sani&salvi  le loro  ville ai Caraibi.

  Che  ci pensino   tutti  molto  bene , ma   soprattutto    pensaci  bene  tu Giorgia ,  perché poi non potrai  sottrarti     alla  fine   che  già fece   l’ altro  furbo “maestrino”   che  giocava      “  alla  geopolitica” !

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La dottrina asiatica di Monroe_a cura di Karl Sanchez

La dottrina asiatica di Monroe

Tradotto dal lunghissimo saggio di Guancha

Karl Sánchez4 dicembre
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Artista sconosciuto

Molti saranno sorpresi di apprendere che il presidente Theodore Roosevelt esortò il Giappone a stabilire quella che definì una Dottrina Monroe asiatica prima della vittoria del Giappone sulla Russia nella guerra russo-giapponese (8 febbraio 1904 – 5 settembre 1905), di cui si scrisse molto prima della Seconda Guerra Mondiale e si discusse alla Società delle Nazioni, la cui storia oggi è raramente analizzata. Anch’io sono rimasto sorpreso da questo lungo saggio in Guancha, ma leggendo alcuni aspetti ho scoperto che avevano un senso storico e che tale dottrina era stata stabilita dal Giappone, verificata da diverse pubblicazioni statunitensi non citate dagli autori del saggio, Cai Baisong e Dai Yu, che confermano anch’esse la narrazione. Prima un po’ di contesto: l’incidente del 918, noto anche come incidente di Mukden , fu l’operazione sotto falsa bandiera organizzata dal Giappone che permise al suo esercito di invadere e conquistare la Manciuria, che considero l’inizio della Seconda Guerra Mondiale. Quindi, andiamo subito al dunque e impariamo un po’ di storia importante che la maggior parte di noi ignora perché non dovremmo sapere:

Dopo l’incidente del 918, la “dottrina asiatica Monroe” del Giappone intendeva dominare la Cina

La Dottrina Monroe trae origine da parte del contenuto del discorso sullo stato dell’Unione del presidente statunitense James Monroe del 1823: “La ‘Dichiarazione Monroe’ dimostra che i nascenti Stati Uniti stanno delineando per sé una sfera di influenza geospaziale esclusiva”. Da allora, con il rapido miglioramento del potere nazionale degli Stati Uniti, la Dottrina Monroe è stata ampiamente riconosciuta dalla comunità internazionale sotto forma di un’intesa regionale nel Trattato della Società delle Nazioni, ” escludendo gli affari americani dal dominio della Società delle Nazioni e riservando agli Stati Uniti uno spazio per mantenere la tradizione della ‘Dottrina Monroe’ nelle Americhe ” .

Dopo la Restaurazione Meiji, nel processo di costruzione della propria logica di egemonia regionale, il Giappone cercò naturalmente di introdurre questa politica per fornire esperienza internazionale alla realizzazione della sua politica continentale. Già alla fine del XIX secolo, Konoe Atsumaro, presidente della Camera dei Lord giapponese, “cercò di persuadere Kang Youwei che l’Asia orientale avrebbe dovuto seguire la Dottrina Monroe degli Stati Uniti ed escludere l’interferenza delle potenze occidentali”.

Dopo la guerra russo-giapponese del 1905, il presidente degli Stati Uniti Theodore Roosevelt convinse il governo giapponese ad attuare la politica della “Dottrina Monroe asiatica” tramite rappresentanti giapponesi. Da allora, il governo giapponese ha accettato la “Dottrina Monroe asiatica” e l’ha applicata alla prassi diplomatica tra Giappone e Stati Uniti. Fino allo scoppio dell’incidente del 918, ogni volta che il Giappone otteneva ulteriori diritti e interessi su questioni relative alla Cina e ampliava la propria sfera di influenza, aveva bisogno della tacita approvazione degli Stati Uniti sotto forma di consultazioni diplomatiche per ratificare la propria legittimità. Dopo la guerra russo-giapponese, furono firmati una serie di accordi tra Giappone e Stati Uniti, rappresentati da “Katsura-Taft (1905), Root-Takahira (1908) e Ishii-Lansing (1917)”, e ” lo status imperiale formale e informale del Giappone fu riconosciuto dagli Stati Uniti” . Fino all’incidente del 918, gli Stati Uniti continuarono a essere ottimisti nei confronti del Giappone.

Tuttavia, lo scoppio dell’incidente dell’18 settembre cambiò l’impressione reciproca tra Giappone e Stati Uniti. Gli Stati Uniti non considerano più la “Dottrina Monroe asiatica” una scusa ragionevole per il Giappone per espandere la propria sfera di influenza in Cina, e accusano più chiaramente il Giappone sulla base di sistemi giuridici internazionali come la Convenzione delle Nove Potenze. Il Giappone ha rimodellato la politica della “Dottrina Monroe asiatica” e ha elaborato un sistema di discorso per la sua aggressione contro la Cina. “Di fronte ai trattati internazionali, c’è un conflitto tra la risposta unica del Giappone dalla prospettiva giapponese e la concezione internazionale dei giuristi e dei moralisti americani”. In questo processo, Giappone e Stati Uniti hanno instaurato un rapporto diplomatico di competizione e cooperazione relativo a questioni legate alla Cina, che ha profondamente influenzato le tendenze diplomatiche dei due paesi dopo lo scoppio della Guerra di Resistenza contro il Giappone.

Come accennato in precedenza, poco dopo la fine della guerra russo-giapponese, l’allora presidente degli Stati Uniti Theodore Roosevelt comunicò al rappresentante giapponese Kentaro Kaneko, in un incontro, la sua intenzione di coinvolgere il Giappone nella promozione della “Dottrina Monroe” in Asia. L’11 luglio 1905 , Kentaro Kaneko riferì la situazione al Ministero degli Esteri giapponese a Washington. Il contenuto generale del rapporto è il seguente:

(Roosevelt) spera che in futuro il Giappone adotti una politica basata sulla Dottrina Monroe nei confronti dell’Asia. Se questa politica verrà adottata, il Giappone non solo sarà in grado di prevenire future aggressioni europee contro l’Asia, ma anche di diventare un alleato leader e di fondare paesi emergenti basati sui paesi asiatici. Inoltre, per attuare questa politica, ci si aspetta che il Giappone segua la stessa politica sostenuta dalla Dottrina Monroe nel continente americano, in Asia a est del Canale di Suez.

Inoltre, è quasi impossibile reperire documenti d’archivio di terze parti a riguardo. Lo stesso Kentaro Kaneko rese pubblico l’incontro l’anno dopo l’incidente dell’18 settembre e dichiarò che Theodore Roosevelt gli aveva detto: “La futura politica del Giappone nei confronti dei paesi asiatici dovrebbe essere la stessa di quella degli Stati Uniti nei confronti dei loro vicini americani”. La versione giapponese della “Dottrina Monroe” eliminerà la tendenza delle potenze europee a invadere l’Asia e farà sì che il Giappone venga riconosciuto come guida di tutti i popoli asiatici. Sotto la protezione del potere giapponese, i popoli asiatici hanno consolidato in modo sicuro i pilastri del sistema nazionale.

I due materiali storici sopra menzionati provengono entrambi da Kentaro Kaneko e, poiché il contenuto è troppo simile, è difficile stabilire una relazione di verifica reciproca. Kentaro Kaneko scelse di rendere noto questo segreto solo un anno dopo lo scoppio dell’incidente dell’18 settembre, ed è difficile non sospettare che il suo intento principale fosse quello di aprire gli occhi sull’invasione giapponese della Cina nord-orientale.

Tuttavia, il 13 giugno 1904, una lettera privata di Theodore Roosevelt mostrava anch’essa un’intenzione simile a quella sopra citata. Nella sua lettera, Roosevelt affermava il diritto speciale del Giappone a stabilire sfere di influenza nelle aree costiere della Cina: ” L’attenzione del Giappone per l’area intorno al Mar Giallo è una cosa ovvia, proprio come gli Stati Uniti sono preoccupati per i Caraibi… Vorrei vedere la Cina rimanere unita e vedere il Giappone svolgere un ruolo nel guidare la Cina su un percorso simile a quello del Giappone “.

Si può vedere che il curriculum di Kentaro Kaneko non è infondato. Nei colloqui precedenti, Roosevelt aveva sperato che il Giappone perseguisse una politica simile alla Dottrina Monroe nell’Asia orientale. Nel 1908, dopo la conclusione della guerra russo-giapponese, Roosevelt venne a conoscenza anche dell’intenzione del Giappone di attuare la Dottrina Monroe in Asia, ma assunse un atteggiamento negativo al riguardo, “non apparentemente troppo preoccupato da queste nuove informazioni”.

Almeno due punti possono essere chiariti: in primo luogo, che il rapporto di Kentaro Kaneko sia del tutto accurato o meno, il governo giapponese ha ricevuto informazioni secondo cui il presidente degli Stati Uniti lo stava persuadendo ad attuare la “Dottrina Monroe asiatica” dopo la guerra russo-giapponese. In secondo luogo, sebbene non sia del tutto certo che Roosevelt e Kentaro Kaneko abbiano avuto colloqui sul tema della “Dottrina Monroe asiatica”, anche alcune dichiarazioni precedenti hanno mostrato potenziali tendenze simili.

In quel periodo, Roosevelt sperava che il Giappone avrebbe svolto il ruolo di “leader asiatico” in Asia, da un lato, avrebbe potuto controbilanciare l’eccessiva espansione della Russia in Estremo Oriente e, dall’altro, impedire la penetrazione coloniale di potenze europee come Gran Bretagna e Francia nel Vicino Oriente, “con le caratteristiche di resistere all’imperialismo europeo e di sottolineare l’indipendenza dei paesi della regione”.

L’obiettivo era quello di mantenere un ampio mercato asiatico sfruttando la posizione speciale del Giappone in Asia, in cambio della garanzia che il Giappone avrebbe accettato di attuare una politica di “Porta Aperta” verso gli Stati Uniti nella sua nuova sfera di influenza, consentendo agli Stati Uniti di realizzare appieno il proprio potenziale industriale e stabilire una propria sfera di influenza imperiale informale in Asia. ” Affinché gli Stati Uniti ottengano libero accesso al mercato cinese, una delle grandi potenze deve attuare la Dottrina Monroe per conto degli Stati Uniti “. Il Giappone rispose alla richiesta degli Stati Uniti di istituire un agente dell’ordine internazionale in Asia, in cambio dell’acquiescenza degli Stati Uniti ai propri diritti e interessi speciali in Cina.

Da allora, da una serie di accordi firmati tra Stati Uniti e Giappone, si evince che gli Stati Uniti hanno acconsentito all’espansione della sfera d’influenza giapponese in Cina e all’impegno del Giappone a non violare la politica statunitense sull’Estremo Oriente. Il Patto Segreto Taft-Katsura Taro del 1905 affermava che “il mantenimento della pace generale in Estremo Oriente è un principio fondamentale della politica internazionale del Giappone”. L’Accordo Root-Gaoping del 1908 chiarì che il Giappone avrebbe “sostenuto il principio di pari opportunità nei settori commerciale e industriale della Cina”. Quando Giappone e Stati Uniti firmarono l’Accordo Lansing-Ishii nel 1917, il Giappone “chiese che gli Stati Uniti riconoscessero la ‘relazione speciale’ geografica del Giappone con la Cina, proprio come quella degli Stati Uniti con l’America Latina nella ‘Dottrina Monroe'” durante i negoziati, e infine “il governo degli Stati Uniti riconobbe gli interessi speciali del Giappone in Cina”. Il Giappone ha seguito la politica della “Dottrina Monroe asiatica” auspicata dagli Stati Uniti sulle questioni relative alla Cina e ha quindi ottenuto dagli Stati Uniti il ​​permesso di espandere la propria sfera di influenza in Cina.

Tuttavia, la svolta arrivò nel 1921, quando gli Stati Uniti guidarono la firma della Convenzione delle Nove Potenze e il principio di pari opportunità tra le grandi potenze in Cina divenne parte del diritto internazionale. Di conseguenza, la retorica della “Dottrina Monroe giapponese” svanì gradualmente. Anche i politici giapponesi mostrarono un atteggiamento relativamente negativo nei confronti di questa dottrina e la “Dottrina Monroe asiatica” “non riuscì a influenzare la politica nazionale in realtà durante questo periodo, e rimase ancora in una posizione secondaria in politica estera”. Tuttavia, la visione positiva del governo statunitense sull’attuazione della politica della “Dottrina Monroe asiatica” da parte del Giappone continuò fino al 1930 circa .

Il 27 gennaio 1930, l’ambasciatore statunitense in Giappone Cassel sottolineò ancora in una lettera al presidente Hoover: ” Il Giappone ha interessi particolari in ‘Manciuria’, il che equivale al rapporto del nostro paese con Cuba “.

Come ha affermato Akira Irie, “il sistema di Washington alla fine non è riuscito a creare alcun vero ordine internazionale”. Cogliendo l’occasione dell’incidente del 918, la “Dottrina Monroe asiatica” fu ripresa in Giappone, con una differenza significativa rispetto alla politica della “Dottrina Monroe asiatica” che gli Stati Uniti avevano preteso dal Giappone e che si sviluppò in un’aggressiva politica di espansione mescolata a militarismo, Grande Asianismo, colonialismo e altre idee.

Questa politica fu rapidamente adottata dai politici giapponesi durante questo periodo:

Nell’ottobre del 1931, l’ambasciatore giapponese negli Stati Uniti Katsuji Debuchi sostenne di aver citato la clausola di intesa regionale contenuta nel Trattato della Società delle Nazioni: “Il popolo giapponese nutre forti sentimenti per la ‘Manciuria’… L’uso di disposizioni come la Dottrina Monroe è lo stesso che negli Stati Uniti ” .

Nel marzo 1932, il rappresentante del Giappone presso la Società delle Nazioni, Hiroshi Matsuoka, dichiarò direttamente durante i colloqui con la Cina: ” Il Giappone persegue la dottrina Monroe in Estremo Oriente e si assume la responsabilità di diventare il leader dell’Estremo Oriente “.

Nel gennaio del 1933, anche l’ambasciatore in Belgio Naotake Sato sottolineò la posizione dominante del Giappone sulla questione della Cina nord-orientale: “Dipende se accettiamo o meno di affrontare la questione ‘manciuriana’”. La discussione su questa politica era ampiamente diffusa anche nel mondo accademico giapponese in quel periodo: “Termini simili come Dottrina Monroe asiatica, Dottrina Monroe dell’Asia orientale e Dottrina Monroe dell’Estremo Oriente apparivano frequentemente nel campo visivo degli intellettuali”.

Nel 1932, il professore dell’Università Hosei Yuzaburo Takagi sostenne l’istituzione del sistema della Dottrina Monroe nell’Asia orientale, proponendo: ” Finché le economie giapponese e manciuriana saranno collegate, ciò sarà sufficiente a rendere il Giappone una potenza autosufficiente nel mondo “.

Nel 1933, Masamichi Waxyama, professore all’Università Imperiale di Tokyo, cercò di costruire un rapporto inscindibile di causa e realtà storica tra Giappone e Manciuria, e Waxyama “non era d’accordo con le opinioni superficiali delle dottrine Monroe asiatiche giapponesi, né affermò l’atteggiamento degli Stati Uniti di negare la relazione speciale tra Giappone e Manciuria per ragioni legali”. Kamikawa Hikomatsu, anch’egli professore all’Università di Tokyo, sostenne in quel periodo che ” il Giappone avrebbe dovuto mantenere anche la versione giapponese della dottrina Monroe sulla questione della ‘Manciuria’ per escludere la Cina ” .

Durante il ritiro del Giappone dalla Società delle Nazioni, la politica riformulata della “Dottrina Monroe asiatica” fu inizialmente compresa dalla comunità internazionale. Il 24 marzo 1933, il rappresentante plenipotenziario del Giappone presso la Società delle Nazioni, Hiroshi Matsuoka, pronunciò un discorso all’Assemblea Generale della Società delle Nazioni, rivelando alla comunità internazionale l’ambizione del Giappone di dominare l’Asia: “Il Giappone è stato e sarà un pilastro di pace, ordine e progresso in Estremo Oriente. Questa dichiarazione non considera più le potenze occidentali come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti come gli attori dominanti dell’ordine internazionale nell’Asia orientale, ma sottolinea il Giappone come l’unica forza dominante in Asia orientale.

Se la politica della “Dottrina Monroe asiatica” che gli Stati Uniti volevano che il Giappone accettasse era quella di fare del Giappone un’avanguardia in Asia per resistere agli imperi coloniali britannico e francese e per proteggere il nascente vasto mercato asiatico per gli Stati Uniti, allora a partire dalla dichiarazione di Matsuoka, tutti i settori della società giapponese rimodellarono gradualmente la politica della “Dottrina Monroe asiatica” e immaginarono che avrebbe dominato l’Asia e non avrebbe permesso a nessuna potenza occidentale, compresi gli Stati Uniti, di infiltrarsi.

“Quando il Giappone decise finalmente di ritirarsi dalla Società delle Nazioni [27 marzo 1933], cominciò a prevalere l’argomentazione secondo cui la ‘Dottrina Monroe asiatica’ avrebbe dovuto diventare il principio guida della futura politica estera”. Nell’agosto del 1933, Yotaro Sugimura, ex segretario generale della Società delle Nazioni, sostenne ulteriormente nei suoi scritti: ” (Il Giappone) non deve solo diventare l’egemone dell’Asia orientale, ma anche diventare il capo e il leader dell’Asia orientale “. A quel tempo, la “Dottrina Monroe asiatica” perseguita dal Giappone non copriva più il principio di essere coerente con la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e altri paesi, ma lo utilizzava per “escludere la posizione speciale del Giappone in ‘Manciuria’ dopo l’interferenza delle potenze occidentali”. In altre parole, lo scoppio dell’incidente dell’18 settembre stimolò l’idea di aggressione a lungo repressa dal Giappone, e la politica della “Dottrina Monroe asiatica” divenne la base di riferimento per il Giappone per affrontare le potenze occidentali e lanciare aggressioni straniere con il pretesto della prassi internazionale.

Dopo la firma dell’Accordo di Tanggu , sebbene le relazioni sino-giapponesi fossero entrate in un breve periodo di calma, la trasformazione della “Dottrina Monroe asiatica” da parte del governo giapponese si stava intensificando. Il nuovo ministro degli Esteri, Hiroshi Hirota, tende a non soffermarsi più sul nome della “Dottrina Monroe asiatica” e a concentrarsi maggiormente sulla sua forma.

All’inizio del 1934, Hirota affermò più volte nei suoi discorsi politici in parlamento che “il governo giapponese sente profondamente la grande responsabilità di mantenere la pace nell’Asia orientale e mantiene una ferma determinazione”, sottolineando che gli Stati Uniti devono comprendere le richieste del Giappone per mantenere l’armonia nelle relazioni tra i due paesi. Interrogato, il legislatore Masayoshi Nakano propose che il governo giapponese “dichiarasse pubblicamente la ‘Dottrina Monroe’ nell’Asia orientale e chiedesse alla Gran Bretagna, agli Stati Uniti e ad altri paesi di riconoscerla “. E la risposta di Hirota è intrigante: “Non esiste una cosiddetta ‘Monroe’ in Oriente… Penso che sia particolarmente necessario evitare tale retorica. Ho espresso da tempo il mio profondo senso della grande responsabilità del Giappone per la pace nell’Asia orientale”.

Ciò dimostra anche che i vertici del governo giapponese hanno completamente rimodellato la “Dottrina Monroe asiatica”, non enfatizzandone più gli attributi importati, ma integrandola nel concetto tradizionale di tentativo di stabilire l’egemonia nell’Asia orientale, caratterizzato dall’“intervento escluso delle potenze occidentali con argomenti estremamente passivi e di autodifesa, con l’obiettivo di proteggere gli interessi acquisiti”.

A partire dall’accettazione da parte del governo giapponese della “Dottrina Monroe asiatica”, introdotta dagli Stati Uniti dopo la guerra russo-giapponese, e fino alla continua trasformazione di questa politica da parte del governo giapponese dopo l’incidente dell’18 settembre, la “Dottrina Monroe asiatica” si è infine evoluta in un concetto nominale di egemonia regionale. In questo processo, il governo giapponese ha dimostrato un forte realismo nelle sue relazioni estere. La ragione per cui ha mantenuto relazioni coordinate con la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e altri paesi e ha aderito attivamente al sistema giuridico internazionale è che è più efficiente rivendicare diritti e interessi in Cina attraverso la firma di accordi internazionali.

Il mercenario è una delle caratteristiche principali della diplomazia giapponese, quindi, quando gli interessi più significativi in ​​Cina dopo l’incidente del 918 saranno di fronte a noi, sarà naturale rimodellare la “Dottrina Monroe asiatica” per farne un concetto di ordine egemonico regionale. “Il Giappone ha ottenuto i maggiori benefici con il ‘sistema di diritto pubblico di tutti i paesi’, e con il nuovo pensiero della ‘Dottrina Monroe asiatica’, si è spinto sempre più avanti sulla strada del tentativo di annettere la Cina”.

Inoltre, la “Dottrina Monroe Asiatica” è stata a lungo una “politica segretamente incoraggiata” in Giappone e, dopo l’incidente dell’18 settembre e il ritiro del Giappone dalla Società delle Nazioni, la “Dottrina Monroe Asiatica” è passata da dietro le quinte al fronte ideologico e teorico estero del Giappone. Indipendentemente dal fatto che il nome cambi o meno, la sua natura è stata a lungo macchiata di aggressività militaristica. Masayoshi Nakano una volta ha osservato: “Se si coglie solo la retorica e si dice che il Giappone non ha la Dottrina Monroe, si tratta di una risposta semplicistica”. La “Dottrina Monroe Asiatica” è sempre stata “uno slogan per ‘unire l’Asia contro l’Europa e gli Stati Uniti’, ma in realtà è diventata uno strumento teorico dell’imperialismo giapponese per invadere l’estero “.

Il processo di riformulazione della “Dottrina Monroe asiatica” da parte del Giappone non si basa solo sull’intensificazione delle attività di aggressione ed espansione del Giappone contro la Cina, ma è anche radicato nel terreno del pensiero egemonico regionale, di cui Gran Bretagna, Stati Uniti e altri paesi forniscono attivamente la fonte.

Confronto ideologico: l’equalizzazione e il monopolio delle sfere di influenza in Cina

Sebbene gli Stati Uniti abbiano sentito parlare della riformulazione della “Dottrina Monroe asiatica” da parte del Giappone, i vertici del governo statunitense non hanno adottato misure concrete per frenarla o criticarla, e sebbene l’ambasciata statunitense in Giappone abbia rinviato a Washington un gran numero di rapporti pertinenti, ” il Dipartimento di Stato non ha prestato attenzione a questi sviluppi ” .

Rappresentato da Hempek, direttore della Divisione Estremo Oriente del Dipartimento di Stato, che all’epoca svolse un ruolo di primo piano nella formulazione della politica statunitense per l’Asia orientale, “il lungo mandato di Hempek e la mancanza di tempo, interesse ed esperienza del Segretario Hull diedero ad Hampek il potere di dirigere la politica statunitense per l’Asia orientale”. Hempek si è sempre rifiutato di ammettere qualsiasi somiglianza tra la “Dottrina Monroe asiatica” giapponese e la “Dottrina Monroe” americana, e crede fermamente che “la Dottrina Monroe sia la pietra angolare degli Stati Uniti nella difesa e protezione dell’emisfero occidentale, non uno strumento per limitare o costringere altri paesi americani, né una scusa per stabilire una sfera di influenza esclusiva degli Stati Uniti “.

Per quanto riguarda la questione della creazione di sfere di influenza in Cina, il governo degli Stati Uniti si pone come obiettivo primario il mantenimento del già fatiscente sistema del Patto delle Nove Potenze dell’Estremo Oriente e il raggiungimento del concetto di equilibrio di potere in Estremo Oriente perseguito dagli Stati Uniti attraverso i diritti e gli interessi delle grandi potenze in Cina. Il 25 agosto 1933, Hempek dichiarò in un incontro con Toshihiko Taketomi, segretario dell’Ambasciata giapponese negli Stati Uniti: “I principi del preambolo della Convenzione delle Nove Potenze erano e sono direttamente in linea con la politica tradizionale degli Stati Uniti. Dovremmo continuare ad aderire ai principi ivi stabiliti”.

Per il governo giapponese, che persegue la “Dottrina Monroe asiatica”, l’occupazione della Cina nordorientale in questo periodo ha violato a lungo la Convenzione delle Nove Potenze, e la causa storica di “sfidare gli Stati Uniti e spezzare il sistema di Washington da essi dominato è diventata la massima richiesta della diplomazia giapponese”, e il suo obiettivo strategico si è da tempo evoluto nel fatto che la sfera di influenza in Cina può essere monopolizzata solo dal Giappone, escludendo qualsiasi potenza occidentale dall’interferire. Il dominio indipendente del Giappone sull’Asia orientale è diventato quasi l’opinione unanime del Ministero degli Affari Esteri giapponese: “il concetto di Asia orientale si è rapidamente formato all’interno del Ministero degli Affari Esteri nell’aprile e nel maggio dell’anno successivo (1934 – nota alla citazione), e quando l’Ufficio per l’Asia orientale è stato istituito nel giugno dello stesso anno, aveva già raggiunto un certo grado di consenso all’interno del Ministero”.

Per quanto riguarda la formulazione della politica estera effettiva, sotto la direzione del Ministro degli Esteri Hirota Hiroki, responsabile della situazione generale, il Vice Ministro degli Esteri Aoi Shigemitsu “occupa una posizione dominante nella formulazione della politica cinese”. Hirota tende a moderare il suo atteggiamento diplomatico con gli Stati Uniti, “prestando attenzione al mantenimento di relazioni amichevoli con gli Stati Uniti”. Shigemitsu ha seguito i principi guida della “Dottrina Monroe asiatica”, sottolineando che le potenze occidentali “non dovrebbero fornire alla Cina armi o assistenza finanziaria”, e qualsiasi aiuto alla Cina era visto come una violazione della sfera di influenza del Giappone in Cina. Il concetto giapponese di “monopolio” costituisce un’opposizione inconciliabile al principio di “pari accesso” nella politica del governo statunitense in Estremo Oriente.

Da allora, in linea con l’idea di Hirota di facilitare la diplomazia con gli Stati Uniti e con il monopolio di Shigemitsu sui diritti e gli interessi della Cina, il Ministero degli Esteri giapponese ha svolto attivamente attività diplomatiche concrete. In termini di diplomazia con gli Stati Uniti, “Hirota non poteva ignorare la posizione degli Stati Uniti contro l’istituzione di una Manciuria fantoccio”, quindi ha cercato di mantenere relazioni coordinate tra Giappone e Stati Uniti in cambio della reciproca non ingerenza in questioni di conflitto di interessi, sotto forma di reciproche promesse di affiliazione.

Il 21 febbraio 1934, il nuovo ambasciatore negli Stati Uniti, Hiroshi Saito, fece un viaggio speciale per visitare il Segretario di Stato Hull e gli allegò una lettera personale di Hirota. Hirota affermava nella lettera: ” Non c’è problema tra i nostri due Paesi che non possa essere risolto fondamentalmente in modo amichevole. Finché entrambi i Paesi comprenderanno appieno le rispettive posizioni… Tutte le questioni in sospeso tra i due Paesi saranno risolte in modo soddisfacente”. La posizione implicita di Hirota nella lettera è ancora coerente con il suo discorso in cui “il governo giapponese sente profondamente la grande responsabilità di mantenere la pace nell’Asia orientale”, e se gli Stati Uniti comprendono questa posizione, non è altro che un acquiescenza all’aggressione del Giappone .

In risposta, Hull ha sottolineato l’importanza del principio secondo cui tutti i paesi sono coinvolti nei diritti e negli interessi della Cina in Cina, affermando che la risoluzione delle controversie in Estremo Oriente non deve “arrecare danno a nessuno, ma apportare benefici chiari e duraturi a tutti i paesi”. Tuttavia, il governo degli Stati Uniti ha rinviato la pubblicazione ufficiale della lettera di risposta al 21 marzo, giorno in cui Puyi è ufficialmente salito al trono come “imperatore” fantoccio della Manciuria, e il governo degli Stati Uniti non ha mostrato alcun sostegno al monopolio del Giappone sulla Cina, “implicando che il principio di non riconoscimento non sia influenzato da questi messaggi”.

A causa del mancato atteggiamento diplomatico più positivo da parte degli Stati Uniti, il 16 maggio Hiroshi Saito ha presentato a Hull una bozza della dichiarazione congiunta Giappone-USA. Questa bozza riflette in modo più intuitivo il tentativo del Giappone di dividere l’Oceano Pacifico con gli Stati Uniti e monopolizzare la Cina. “I due governi riconoscono reciprocamente che gli Stati Uniti nel Pacifico orientale e il Giappone nel Pacifico occidentale sono i principali fattori di stabilizzazione e che i due governi faranno tutto il possibile per stabilire lo stato di diritto e l’ordine nelle aree geograficamente adiacenti ai rispettivi paesi, nell’ambito dei rispettivi poteri appropriati e legittimi”, si legge nella bozza.

Hull era allo stesso tempo sconvolto dalla logica egemonica del governo giapponese e vi si oppose fermamente. Nelle sue memorie, Hull evidenziò l’irragionevolezza della “Dottrina Monroe asiatica” nascosta nella bozza, affermando: “Il Giappone ignora l’idea fondamentale della Dottrina Monroe, che è quella di preservare la sicurezza e l’indipendenza dei paesi dell’emisfero occidentale. La dottrina Monroe fu concepita per impedire la conquista straniera dell’emisfero occidentale, mentre l’Estremo Oriente non era minacciato da alcun paese straniero . Il 29, in una risposta specifica a Saito, Hull ha sottolineato che, da un lato, gli Stati Uniti si oppongono fermamente a qualsiasi idea che il Giappone cerchi di monopolizzare la Cina e, dall’altro, ha sottolineato che gli Stati Uniti sono preoccupati per i progressi del Giappone nell’egemonia regionale; in breve, il governo statunitense “non può incoraggiare il Giappone a far valere tali diritti o avanzare tali intenzioni in regioni geograficamente adiacenti “.

La diplomazia di Hirota con gli Stati Uniti è difficile da comprendere appieno per il governo statunitense, che non riesce a comprendere appieno il concetto giapponese della “Dottrina Monroe asiatica”, mentre la politica cinese guidata da Shigemitsu Aoi mostra una tendenza egemonica più radicale nell’Asia orientale. Il 13 aprile 1934, al fine di tagliare i canali e le prospettive della Cina per ottenere aiuti internazionali, sulla base del concetto di Shigemitsu, redatto da Takero Morishima, capo della Prima Divisione dell’Ufficio Asiatico del Ministero degli Affari Esteri, Hirota emise il Telegramma segreto n. 109 “Il nostro atteggiamento sulla questione della cooperazione internazionale della Cina”, che affermava chiaramente: ” Il mantenimento della pace e dell’ordine nell’Asia orientale è l’inevitabile risultato del raggiungimento da parte del Giappone di tale obiettivo sotto la sua responsabilità, e il Giappone è determinato a compiere questa missione con tutte le sue forze “.

Inoltre, il messaggio segreto sottolineava anche la necessità di sradicare completamente gli aiuti delle potenze occidentali alla Cina e la possibilità che la Cina volesse ottenere aiuti. Il messaggio segreto è anche generalmente considerato la fonte principale della successiva sensazionale “Dichiarazione della Piuma Celeste” e “costituì la base della ‘Dichiarazione della Piuma Celeste'”. [Molto probabilmente la Dichiarazione Amau, nota anche con il nome di Dichiarazione Tianyu, entrambe rilasciate nella stessa data.]

La “Dichiarazione di Tianyu”, emanata il 17 aprile 1934, fece sì che la comunità internazionale riconoscesse pienamente per la prima volta l’ambizione del Giappone di dominare l’Asia e dimostrò in modo significativo il pensiero della “Dottrina Monroe asiatica” del governo giapponese. Il tema della “Dichiarazione di Tianyu” si riduce ancora a: “Se la Cina cerca di usare altri paesi per escludere il Giappone, o adotta una strategia straniera di usare i barbari per controllare i barbari, violando il principio di pace nell’Asia orientale, il Giappone dovrà resistere”. Questo tono di rifiuto delle potenze occidentali sulle questioni relative alla Cina attraversa il processo decisionale di Shigemitsu nei confronti della Cina. Poiché il contenuto della dichiarazione equivale a “porre la Cina nella sfera di influenza indipendente del Giappone”, era inevitabile che innescasse un conflitto con il sistema del “Patto delle Nove Potenze” dell’Estremo Oriente .

Tuttavia, l’atteggiamento iniziale degli Stati Uniti al riguardo fu moderato. Il 20 aprile, l’ambasciatore statunitense in Giappone, Grew, consigliò al Segretario di Stato Hull di “non tentare di rispondere in modo provocatorio alle politiche delineate nella dichiarazione”. Sebbene il governo statunitense non avesse negoziato inizialmente, l’opinione pubblica americana fu molto rumorosa per un certo periodo e le sue mosse destarono preoccupazione nel Ministero degli Affari Esteri giapponese. Il 19 aprile, l’ambasciatore giapponese negli Stati Uniti, Hiroshi Saito, riferì al Ministero degli Affari Esteri i resoconti sfavorevoli pubblicati dal New York Herald Tribune e dal Washington Star: ” Il Giappone ha violato la Convenzione delle Nove Potenze ed è considerato invalido… L’idea che il Giappone voglia realizzare i propri interessi attraverso la Dottrina Monroe americana è irrealistica “.

Per evitare di costringere il governo degli Stati Uniti a reagire con forza a causa dell’intensificazione dell’opinione pubblica, il 21 aprile Hirota ha emesso una direttiva agli ambasciatori all’estero, sottolineando che, quando spiegano la questione, da un lato, gli ambasciatori dovrebbero menzionare che il Giappone non ha intenzione di violare il sistema della Convenzione delle Nove Potenze e, dall’altro, devono spiegare che il Giappone “si oppone alle azioni congiunte di tutti i paesi che ostacolano la pace e l’ordine nell’Asia orientale”. Il 24 aprile Saito ha richiamato Hirota, sottolineando che, in considerazione del fatto che il Dipartimento di Stato (degli Stati Uniti) è rimasto generalmente in silenzio dall’inizio alla fine e non ci sono state critiche chiare, si raccomanda a Hirota di rilasciare una dichiarazione ufficiale su questa questione in qualità di ministro degli esteri per dissipare completamente le preoccupazioni degli Stati Uniti.

Il 25 aprile, Grew visitò ufficialmente Hirota per conto del Dipartimento di Stato (degli Stati Uniti) per sondare l’atteggiamento del Giappone, e Hirota colse l’occasione per fornire una spiegazione supplementare volta a placare gli Stati Uniti, sostenendo che il Giappone rispetta rigorosamente la Convenzione delle Nove Potenze, ma non può consentire attività come “vendere materiali o concedere prestiti alla Cina “. Questa osservazione fu approvata da Grew, che riferì a Hull di “non dubitare della sincerità del discorso del ministro degli Esteri”. La spiegazione di Hirota influenzò indirettamente anche l’atteggiamento del Dipartimento di Stato (degli Stati Uniti) nei confronti della Cina. Poiché la “Dichiarazione di Tianyu” riguardava la questione cinese, lo stesso giorno, il ministro cinese negli Stati Uniti Shi Zhaojit chiese al Dipartimento di Stato (degli Stati Uniti) quale fosse la posizione del Dipartimento di Stato (degli Stati Uniti) sull’incidente.

Tuttavia, Hull è stato vago in diverse occasioni, limitandosi a dire: “Non ho nulla da dire su nessuna delle questioni sollevate”. Il 27 aprile, il console statunitense a Pechino, Gao Si, ha sottolineato che gli Stati Uniti possono ignorare la questione cinese causata dalla “Dichiarazione di Tianyu”, ma devono difendere la propria sfera di influenza nell’Asia orientale: ” Non siamo interessati all’indipendenza della Cina, ma alle nostre azioni indipendenti attuali e future nel Pacifico “.

Il 26 aprile, Hirota ha presentato dichiarazioni ufficiali sull’incidente alle ambasciate britannica e americana, sottolineando che “il Giappone non può tollerare che nessuna terza parte utilizzi la Cina per attuare le sue politiche egoistiche”, oltre a continuare a sottolineare il coordinamento con altri paesi. Questa spiegazione è espressa in modo più deciso rispetto alla precedente spiegazione di Hirota fornita da Grew ed esprime l’intenzione del Giappone di escludere un intervento britannico e americano nell’Asia orientale.

Ispirato da questa dichiarazione ufficiale e dal promemoria di Gauss sopra menzionato, il 29 aprile Grew presentò un memorandum a Hirota per conto del governo statunitense, affermando che gli Stati Uniti non permetteranno mai al Giappone di minare l’ordine internazionale nell’Asia orientale : ” Il popolo e il governo degli Stati Uniti credono che nessun paese abbia il diritto di imporre con la forza la propria volontà senza il consenso dei paesi interessati su questioni che coinvolgono i diritti, gli obblighi e gli interessi legittimi di altri stati sovrani “. La parte giapponese non si aspettava un’improvvisa svolta nell’atteggiamento degli Stati Uniti e attuò con urgenza misure correttive. Le principali contromisure sono duplici: una è quella di allentare ulteriormente il sentimento degli Stati Uniti attraverso i negoziati, l’altra è quella di evitare la questione della Convenzione delle Nove Potenze.

Il 5 maggio, Shigemitsu dichiarò durante un incontro con Grew: “È estremamente importante che i governi giapponese e americano si scambino le loro opinioni con franchezza e in uno spirito di amicizia”. Il 16 maggio, Hirota diede istruzioni agli ambasciatori all’estero: “Evitate di prendere l’iniziativa di confermare la validità della Convenzione delle Nove Potenze, evitando in particolare l’uso del termine ‘Convenzione delle Nove Potenze’, ma interpretandolo con l’espressione ‘tutti rispettiamo i trattati attualmente in vigore'”.

Il Dipartimento di Stato americano ha generalmente apprezzato la risposta correttiva del Giappone. Il 18 maggio, Hirota ha incaricato Hiroshi Saito di rispondere a Hull sul memorandum, sottolineando che “il governo giapponese non intende sottrarsi ai propri obblighi in quanto Stato firmatario di trattati”. Non vi è alcuna intenzione di violare i legittimi diritti e interessi degli Stati Uniti e di altri paesi… Quando si scambiano opinioni sulla Cina, il governo giapponese non può ignorare l’Asia orientale”. Hull è stato chiaramente più positivo riguardo a questa risposta, affermando che ” il governo del nostro Paese si preoccupa solo che il diritto di commerciare in Oriente sia pari al diritto di commerciare in tutto il mondo ” .

A questo punto, il tumulto causato dalla “Dichiarazione di Tianyu” si era placato, gli Stati Uniti erano soddisfatti della continua riaffermazione dei principi della Convenzione delle Nove Potenze e anche la parte giapponese aveva tempestivamente placato il tumulto dell’opinione pubblica causato dalla pubblicazione delle ambizioni della “Dottrina Monroe asiatica”.

Le turbolenze diplomatiche tra Giappone e Stati Uniti causate dalla Dichiarazione congiunta Giappone-USA e dalla “Dichiarazione di Tianyu” dimostrano che la “Dottrina Monroe asiatica” perseguita dal Giappone non può trovare riscontro nel Dipartimento di Stato in alcuna forma, “ma alimenta invece la sua sfiducia nei confronti del Giappone”. Il principio fondamentale della politica statunitense per l’Asia orientale è quello di creare un ampio mercato libero cinese attraverso la “parificazione” dei diritti e degli interessi delle grandi potenze in Cina, e di utilizzare questo come pietra angolare per stabilire la sfera di influenza di un impero informale. Il tentativo del Giappone di “monopolizzare” i propri diritti e interessi in Cina è ovviamente incompatibile con la logica egemonica di creare un impero coloniale. Al contrario, finché il Giappone continuerà a riconoscere l’accesso degli Stati Uniti al mercato dell’Asia orientale, gli Stati Uniti non vorranno offendere il governo giapponese su questioni relative alla Cina, “anche dopo l’emissione della ‘Dichiarazione di Tianyu’, la parte giapponese non sembra credere che le relazioni tra Giappone e Stati Uniti si siano deteriorate soprattutto a causa di ciò”.

Anche la diplomazia del governo statunitense con il Giappone sulle questioni relative alla Cina ha mostrato un elevato grado di orientamento statale, e gli aiuti alla Cina sono solo uno degli elementi chiave della strategia statunitense in Asia orientale, in piena adesione ai principi della Convenzione delle Nove Potenze. Pertanto, per il governo statunitense, la priorità delle relazioni USA-Cina durante questo periodo era di gran lunga inferiore a quella delle relazioni USA-Giappone, e “Roosevelt non era disposto ad aumentare l’ostilità dei giapponesi verso gli Stati Uniti”. Il confronto politico ha innescato una rivalità diplomatica tra Giappone e Stati Uniti attorno alla sfera d’influenza cinese, inducendo il Giappone a frenare temporaneamente la sua intenzione di esprimere apertamente la propria intenzione di invadere la Cina, e allo stesso tempo a mostrare il vuoto di potere nell’ordine internazionale dell’Asia orientale causato dalla “mancanza di volontà sufficiente da parte degli Stati Uniti di assumersi questa responsabilità”.

Garanzia dell’ordine: convergenza strategica nella ricostruzione degli armamenti dell’Estremo Oriente

Poiché l’opposizione tra le politiche di Stati Uniti e Giappone è inconciliabile e nessuna delle due parti ha l’intenzione di inasprire il conflitto, è diventato un consenso casuale tra i due governi per creare un deterrente strategico espandendo gli armamenti navali nella fase successiva e fornire una solida garanzia politica per la costruzione dell’ordine internazionale in Estremo Oriente (Asia orientale). Ciò ha coinciso con i negoziati preparatori per la Seconda Conferenza di Londra sul disarmo navale del 1934. Sia gli Stati Uniti che il Giappone vogliono cogliere questa opportunità per riarmare i propri armamenti navali e ampliare la propria voce diplomatica sulle questioni relative alla Cina.

Il 24 maggio 1934, la “Dichiarazione della Piuma Celeste” era ancora in subbuglio e Hampek, direttore della Divisione Estremo Oriente del Dipartimento di Stato americano, sottolineò nel memorandum l’elevato grado di riconnessione tra la ricostruzione della marina e la questione dell’Estremo Oriente: “ Per portare la nostra posizione sull’Estremo Oriente al livello che dovrebbe essere, il passo più efficace che l’attuale amministrazione può compiere è concentrare gli sforzi degli Stati Uniti sulla costruzione di una marina assolutamente ‘superiore’ ”.

Per raggiungere questo obiettivo, il governo degli Stati Uniti ha adottato due contromisure principali: in primo luogo, ritiene che il rapporto tra navi da guerra stipulato nel Trattato navale di Londra del 1930 sia sufficiente a completare la deterrenza contro il Giappone, quindi la priorità è mantenere il rinnovo del trattato e “il rapporto stabilito da Washington e Londra ha stabilito ‘uguaglianza di sicurezza’”; in secondo luogo, poiché “il numero di navi da guerra era ben al di sotto dei limiti consentiti dal trattato vigente”, gli armamenti navali devono essere ampliati fino al limite massimo stabilito dal trattato.

Per attuare la contromisura 1, il governo statunitense sottolineò gli interessi comuni di Gran Bretagna e Stati Uniti in Estremo Oriente, ovvero isolare il Giappone. Bingham, ambasciatore statunitense nel Regno Unito, suggerì a Hull: “Se una politica comune di Gran Bretagna e Stati Uniti in Estremo Oriente verrà concordata sotto forma di contratto, in modo che la Gran Bretagna abbia la garanzia anticipata di non dover trattare da sola con il Giappone, allora la Gran Bretagna non avrà bisogno di una grande marina”. Il presidente Roosevelt scrisse al primo ministro britannico MacDonald: “Si raccomanda di rinnovare gli attuali trattati di Washington e Londra per almeno dieci anni”.

Per attuare la seconda contromisura, era necessario riavviare il potenziale industriale dell’industria cantieristica statunitense, previa autorizzazione del Congresso. Nel marzo del 1934, su suggerimento di Vinson, presidente della Commissione per i Servizi Armati della Camera, fu approvato il Vinson-Trammell Act, “che autorizzava la costruzione di cento navi da guerra e di oltre mille velivoli navali in cinque anni”. L’effetto delle contromisure di cui sopra fu significativo. Entro la fine del 1934, il Ministro degli Esteri britannico Simon accettò di cooperare con Gran Bretagna e Stati Uniti sulle questioni navali, affermando che non avrebbe “raggiunto alcun accordo preventivo” con il solo Giappone. Anche gli Stati Uniti mostrarono segnali di espansione degli armamenti navali, con “9 navi in ​​costruzione presso le imprese e 11 navi in ​​costruzione presso i cantieri navali” nel primo lotto di ordini navali.

La risposta del Giappone è più diretta, ovvero, per realizzare il concetto di predominio in Asia nella “Dottrina Monroe asiatica”, Giappone, Gran Bretagna e Stati Uniti devono avere una proporzione uguale di forze navali nel trattato e, se non è possibile raggiungerla, devono ritirarsi dai precedenti trattati internazionali che limitano gli armamenti navali e il primo a sopportarne il peso è il ritiro dal Trattato navale di Washington, che scadrà alla fine del 1936. L’8 giugno 1934, l’ammiraglio Kanji Kato sostenne alla riunione del comandante della flotta: “Il successo o il fallimento della richiesta reciproca determina il destino della politica del Giappone nei confronti della Cina e della ‘Manciuria’”. Il 7 settembre 1934, il Gabinetto giapponese concordò: ” Si è deciso di abolire il Trattato navale di Washington entro la fine di quest’anno perché è sfavorevole alla difesa nazionale e in considerazione della politica fondamentale di limitazione degli armamenti navali “.

Il 7 dicembre, i rappresentanti dei dipartimenti degli esteri, della terra, della marina e del Tibet del Giappone si sono riuniti al Consiglio Privato per discutere la fattibilità del ritiro dal trattato e le contromisure che si prevede avrebbero avuto un impatto internazionale. Yoshida Zengo, direttore dell’Ufficio Affari Militari del Ministero della Marina, ha proposto che, al fine di mantenere la sfera d’influenza del Giappone nel Pacifico orientale, il ritiro dal trattato per espandere i propri armamenti sia una priorità assoluta: ” Dopo l’incidente ‘Manciuriano’, gli Stati Uniti hanno concentrato la loro flotta principale nell’Oceano Pacifico, il che renderà più facile per gli Stati Uniti rispondere, quindi è una considerazione importante quando si combatte “. Dopo l’esame del Consiglio Privato, il 14 dicembre è stato finalmente stabilito che, alla luce dei “significativi cambiamenti in Oriente” e degli interessi di tutte le parti, la proposta è stata approvata e approvata all’unanimità.

Il 29 dicembre, l’ambasciatore giapponese negli Stati Uniti, Hiroshi Saito, informò il governo statunitense della questione e, nella nota diplomatica di Hirota allegata e nella dichiarazione personale di Saito, mantenne comunque un atteggiamento riconciliatorio nei confronti degli Stati Uniti, sottolineando che “non esiste alcun problema tra Stati Uniti e Giappone che non possa essere risolto attraverso mezzi diplomatici”.

L’espansione degli armamenti navali è uno degli accordi strategici tra Giappone e Stati Uniti in questo momento, quindi, per raggiungere questo obiettivo, Giappone e Stati Uniti hanno consapevolmente scelto di non reagire eccessivamente per evitare disordini diplomatici causati da un’opinione pubblica fuori controllo. “Per il Giappone, è necessario scendere a compromessi con gli Stati Uniti per evitare uno scontro decisivo tra Giappone e Stati Uniti”. Il governo giapponese sta discutendo il ritiro dal Trattato navale di Washington, ovvero prestando attenzione all’atteggiamento degli Stati Uniti nei suoi confronti. Alla riunione del Consiglio privato, Shigenori Togo, direttore dell’Ufficio Eurasia del Ministero degli Affari Esteri, ha sottolineato che, anche dopo il ritiro dal trattato, “dovremmo evitare di essere in vantaggio rispetto ad altri paesi in termini di espansione degli armamenti e impegnarci a guidare i paesi interessati a non innescare una corsa agli armamenti”.

Anche il governo statunitense ne è tacitamente consapevole. Il 30 ottobre 1934, dopo aver appreso che la Marina giapponese aveva un atteggiamento negativo nei confronti della Conferenza sul Disarmo e rivendicava con forza il predominio sulla Cina, Hull si rifiutò ancora di esercitare pressioni sul Giappone con mezzi economici duri e placò le tensioni della comunità imprenditoriale americana nei confronti del Giappone, affermando pubblicamente che “si raccomanda di non adottare tariffe permanenti o azioni simili ora… per evitare qualsiasi discussione con i giapponesi “.

Dopo il ritiro del Giappone dal Trattato navale di Washington, “anche le consultazioni formali tra Stati Uniti, Giappone e Gran Bretagna si sono bloccate”. Tuttavia, il governo statunitense non ha adottato alcuna misura di protesta, “ma ha scelto di tenere conto del volto dei ‘moderati’ giapponesi, sperando che avrebbero ripristinato il potere in attesa di vedere come si sarebbero evolute le cose”. Da allora, il governo statunitense si è reso conto di dover avviare una potenziale cooperazione con il Giappone sulla questione dell’Estremo Oriente e di dover sacrificare alcuni dei propri interessi in Cina per garantire che la situazione non peggiori finché gli armamenti non saranno completati.

Hempek rifletteva questa tendenza in un memorandum datato 3 gennaio 1935, sottolineando che il governo degli Stati Uniti “dovrebbe cercare opportunità di cooperazione con il Giappone in aree che siano vantaggiose per loro e per noi” e che “evita sempre qualsiasi accenno a tentativi di reprimere o costringere il Giappone” nel suo atteggiamento nei confronti del Giappone. L’8 gennaio, Hull confermò la politica statunitense in materia di armamenti navali in un memorandum: ” La politica di costruzione navale a oltranza dovrebbe essere proseguita, ma non dovrebbe essere rivelato che questa costruzione è legata al fallimento della Conferenza sul disarmo e alla sua condanna da parte del Giappone “. In apparenza, viene interpretato come se gli Stati Uniti stessero solo mantenendo la forza della propria flotta, non avessero alcuna intenzione di provocare una corsa navale e sperassero anche che altri paesi non provochino questa competizione.

In termini di cooperazione specifica con il Giappone, il 6 febbraio Grew chiamò Hull e suggerì al governo degli Stati Uniti di adottare ampie misure di cooperazione economica per soddisfare le esigenze di vita della popolazione eccedente del Giappone, sperando che il desiderio del Giappone di espandersi si indebolisse attivamente e sostenendo “sforzi per soddisfare l’impulso all’espansione economica del Giappone fornendo alle aziende giapponesi un mercato più ampio e maggiori opportunità nei territori controllati dai paesi occidentali”.

In apparenza, è un concetto oscuro, ma segretamente sta accumulando forza, il che rappresenta uno dei pochi punti di vista concordi tra i governi giapponese e statunitense, secondo cui l’opposizione politica tra le due parti è inconciliabile . Sulla base di questo consenso, mostrare un atteggiamento amichevole da parte del Paese è una scelta inevitabile per allentare la vigilanza dell’altra parte. Ma questo non significa che Stati Uniti e Giappone metteranno il carro davanti ai buoi e giocheranno con letteratura e arti marziali. La “preoccupazione principale della Marina statunitense rimane il Pacifico e come salvaguardare quello che ritiene essere un interesse chiave degli Stati Uniti nella regione”, e l’obiettivo della Marina giapponese è “costruire una potenza navale paragonabile a quella della Marina statunitense”. Lo scopo della ricostruzione degli armamenti navali è garantire che l’ordine internazionale in Asia orientale, da entrambi concepito, non venga messo in discussione.

A questo proposito, la “Dottrina Monroe asiatica” sostenuta dal Giappone e il sistema del “Patto delle Nove Potenze” sostenuto dagli Stati Uniti non presentano la differenza della “Dottrina Monroe” tra Stati Uniti e Giappone, come riconosciuto da Hull e altri; sebbene gli Stati Uniti sostengano il disarmo continuo, il loro scopo è anche quello di mantenere la propria superiorità sul Giappone, e sia il Giappone che gli Stati Uniti hanno mostrato le caratteristiche rilevanti della politica di potenza. Uno dei fondamenti della cooperazione tra Giappone e Stati Uniti risiede nell’elevata dipendenza del Giappone dall’economia statunitense: “Il Giappone ha adottato misure filoamericane per lungo tempo e gradualmente per impedire agli Stati Uniti di utilizzare strategicamente i mezzi economici “. Il secondo deriva dalla tendenza conservatrice del governo statunitense nei confronti del Giappone, fondata sul realismo politico, nella speranza che “la definizione dei propri interessi da parte del Giappone e gli interessi degli Stati Uniti alla fine coincidano come avvenne negli anni ’20 del XX secolo”.

Tacito accordo diplomatico: silenzio bilaterale durante l’incidente della Cina settentrionale

Per quanto riguarda la questione dell’espansione degli armamenti, il coordinamento tra Giappone e Stati Uniti era ancora in uno stato di non dichiarazione. Dopo l’ incidente della Cina settentrionale da parte del Giappone nel 1935, Giappone e Stati Uniti mostrarono un’intesa diplomatica tacita più significativa su questo tema. Durante questo periodo, i due Paesi non presero più l’iniziativa di cercare negoziati di interesse su questo tema e rimasero in silenzio in entrambe le direzioni, senza prendere alcuna decisione, il che diede un nuovo tono alla cooperazione diplomatica tra Giappone e Stati Uniti.

“Nell’estate del 1935, l’Armata del Kwantung invase la Cina settentrionale e concluse l’Accordo di Hemei e l’Accordo di Qin-Tu, espandendo la sua aggressione contro la Cina settentrionale”. Per discutere la politica del Giappone nei confronti della Cina durante l’Incidente della Cina settentrionale, il 14 giugno il Vice Ministro degli Affari Esteri Shigemitsu Aoi convocò una riunione dei principali viceministri di vari ministeri del Ministero degli Affari Esteri. Durante l’incontro, Shigemitsu continuò a sottolineare la politica diplomatica della “Dottrina Monroe asiatica” nei confronti della Cina: ” Le relazioni Giappone-Cina sono solo relazioni dirette tra Giappone e Cina, e non si può permettere a paesi terzi (o organizzazioni internazionali) come Gran Bretagna, Stati Uniti e Società delle Nazioni di intervenire “.

Tuttavia, con sorpresa di Shigemitsu, il governo statunitense continuava a riporre le speranze che Yu Hirota e altri potessero risolvere pacificamente l’incidente della Cina settentrionale. Lo stesso giorno, Grew chiamò il Segretario di Stato, affermando che “i costanti sforzi di riconciliazione di Hirota sembrano essere sul punto di ripristinare relazioni più amichevoli tra Cina e Giappone”. Il giorno successivo, l’ambasciatore britannico in Giappone, Claywood, accettò di placare il Giappone nei negoziati con Grew: “Se si possono ottenere risultati soddisfacenti senza invocare la Convenzione delle Nove Potenze, il trattato dovrebbe essere evitato, perché tali azioni causerebbero disordini in Giappone “. Il 17 giugno, l’ambasciatore statunitense in Cina Johnson suggerì analogamente che il Dipartimento di Stato mostrasse clemenza al riguardo, perché “qualsiasi commento sfavorevole da parte del Regno Unito o degli Stati Uniti su questo potrebbe portare a un deterioramento della situazione”.

Anche il governo giapponese si è mostrato soddisfatto dell’inerzia del governo statunitense: da un lato, ha richiesto la riservatezza nel processo di negoziazione con la Cina; dall’altro, ha sollevato la questione di evitare la Convenzione delle Nove Potenze con la Cina e di non fare ricorso a Gran Bretagna, Stati Uniti e altri paesi interessati. Il 19 giugno, il Console Generale giapponese a Nanchino, Yoshiro Suma, ha richiamato l’attenzione di Tang Youren sul fatto di non lamentarsi con i governi britannico e americano per questioni relative alla Convenzione delle Nove Potenze e all'”Incidente della Cina settentrionale”, e ha avvertito Tang Youren: “La gestione di tali questioni deve tenere conto della situazione attuale e deve essere tenuta in piena considerazione”. Inoltre, funzionari del Ministero degli Esteri hanno ripetutamente promesso a Gran Bretagna e Stati Uniti che il governo giapponese limiterà le azioni militari nella Cina settentrionale, e Hirota, incontrando Grew il 18, ha dichiarato: “Sono ottimista sul fatto che la situazione verrà risolta rapidamente e in modo soddisfacente”.

L’atteggiamento del governo giapponese, che “voleva stabilizzare le relazioni con gli altri paesi allentando al contempo la pressione diplomatica causata dalla questione della Cina settentrionale”, fu indubbiamente trasmesso chiaramente al governo degli Stati Uniti. La gestione silenziosa dell'”incidente della Cina settentrionale” si trasformò rapidamente nella politica statunitense nei confronti del Giappone di quel periodo. Dopo un’attenta analisi delle informazioni di intelligence interne ed esterne, il 26 giugno Hull inviò una lettera a Pittman, presidente della Commissione per gli Affari Esteri del Senato, informandolo: “Il Dipartimento di Stato ritiene che non sia nell’interesse pubblico degli Stati Uniti indagare sui recenti sviluppi nella Cina settentrionale in questo momento. A questo punto, l’atteggiamento degli Stati Uniti, caratterizzato principalmente dal “silenzio”, ha gradualmente preso forma.

L’atteggiamento “silenzioso” degli Stati Uniti rese più marcata la tendenza del governo giapponese alla “Dottrina Monroe asiatica” sulla questione della Cina settentrionale. Dal 20 luglio al 5 agosto, il Ministero dell’Esercito, il Ministero della Marina e il Ministero degli Affari Esteri del Giappone discussero in successione la politica generale nei confronti della Cina. Successivamente, l’invasione giapponese della Cina settentrionale fu ulteriormente avviata.

Il 22 ottobre, a partire dallo scoppio dell’incidente di Xianghe pianificato dal Giappone, “l’opinione pubblica fu in subbuglio per un po’, e la Cina settentrionale, che si era appena calmata, fece di nuovo scalpore”. Da allora, poiché il governo nazionalista ha aderito alla politica di non espandere il conflitto sulla questione della Cina settentrionale, ha “indagato a fondo sugli elementi anti-giapponesi al fine di promuovere l’amicizia”. Hampek, direttore della divisione Estremo Oriente del Dipartimento di Stato americano, ha ritenuto che, a causa della politica di non resistenza della Cina, il Giappone avrebbe invaso la Cina settentrionale, e “la Cina stessa ha ammesso di non poter sopportare una guerra con il Giappone ” .

Il 19 novembre, il governo statunitense considerò persino di ritirare la sua guarnigione a Tianjin per evitare un conflitto con l’esercito giapponese, e il Segretario alla Guerra statunitense Woodlin chiamò Hull e disse: ” Se la Cina del Nord istituisce un governo autonomo fantoccio sotto la protezione del Giappone, lo status della guarnigione diventerà estremamente anomalo “. Usarla come forza militare in qualsiasi modo minaccia di trascinarci in una guerra con il Giappone . Il 25, Shigemitsu incontrò l’Incaricato d’Affari statunitense in Giappone, Neville, e gli spiegò per la prima volta la posizione del governo giapponese sulla questione della Cina del Nord, fingendo di dichiarare che “il movimento per l’autonomia nella Cina del Nord è una questione di cui il governo giapponese non vuole occuparsi troppo”.

Questo atteggiamento di spiegazione attiva lasciò una buona impressione su Neville. Neville richiamò Hull: ” L’atteggiamento generale del Giappone non è così intransigente e minaccioso come afferma l’esercito giapponese in Cina “. In quel momento, la riluttanza degli Stati Uniti a intervenire negli affari della Cina settentrionale si rifletteva anche nella loro politica cinese. Il 30 novembre, l’ambasciatore cinese negli Stati Uniti, Shi Zhaoji, chiamò il Ministero degli Affari Esteri del Governo Nazionalista, affermando che il Segretario di Stato americano Hull aveva un atteggiamento ambiguo al riguardo. Hull disse a Shi Zhaoji: “Guardando alla situazione e considerando i passi da intraprendere, le informazioni provenienti da tutte le parti sono ora diverse e sono ancora in fase di revisione e valutazione”.

La logica dietro l’elusione da parte del governo statunitense della questione della Cina settentrionale è che il Dipartimento di Stato riteneva che la separazione della Cina settentrionale fosse inevitabile sotto la manipolazione dell’esercito giapponese guidato da Kenji Doihara, e all’epoca “molti osservatori come Cina, Giappone e Occidente credevano che Doihara avrebbe avuto successo”. Pertanto, partendo dal presupposto che i negoziati sulla questione della Cina settentrionale tra Cina e Giappone “alla fine si fossero conclusi con una rottura e non fosse stato raggiunto alcun compromesso”, il Dipartimento di Stato statunitense non era disposto a impegnarsi in negoziati di politica estera con la parte giapponese su questioni che riteneva fossero diventate da tempo un fatto compiuto.

Inoltre, poiché la “dichiarazione di non riconoscimento” del Dipartimento di Stato dopo l’incidente dell’18 settembre ha causato un profondo isolamento diplomatico – “quasi nessuna potenza occidentale è disposta a esprimere la propria approvazione della politica statunitense” – il Dipartimento di Stato è naturalmente riluttante a ripetere gli errori del passato .

La logica del Dipartimento di Stato americano non era infondata e i funzionari del Ministero degli Affari Esteri, suo tradizionale alleato nel governo giapponese, hanno a malapena calmato la situazione “risolvendo localmente la questione della Cina settentrionale”. Di conseguenza, il conflitto sino-giapponese non si è intensificato come previsto dal Dipartimento di Stato: “In apparenza, la politica statunitense sembra corretta”.

Nel 1935, la guerra non scoppiò mai . Tuttavia, ciò viola gravemente il principio della politica in Estremo Oriente che gli Stati Uniti hanno sempre perseguito, ovvero salvaguardare i diritti e gli interessi delle grandi potenze nell’ambito del sistema del Patto delle Nove Potenze, e Giappone e Stati Uniti hanno stretto un’intesa diplomatica tacita sulla questione della Cina settentrionale, a costo di svendere i diritti e gli interessi della Cina in cambio del silenzio reciproco sulla questione della Convenzione delle Nove Potenze. Il Giappone ha quindi continuato ad espandere la sua sfera di influenza nella Cina settentrionale in conformità con la politica della “Dottrina Monroe asiatica”, mentre gli Stati Uniti hanno evitato di provocare una guerra in Estremo Oriente prima del completamento degli armamenti.

L’assenza di un accenno alla questione del Patto delle Nove Potenze fu anche una caratteristica distintiva della diplomazia giapponese in questo periodo. Il 29 novembre, l’ambasciatore britannico in carica in Giappone confermò a Shigemitsu se il governo giapponese intendesse ancora rispettare la Convenzione delle Nove Potenze sulla questione della Cina settentrionale, questione di cui Shigemitsu non solo evitò di parlare, ma tergiversò: “Il movimento per l'”autonomia” nella Cina settentrionale è essenzialmente una questione interna della Cina”. Il Giappone, in quanto paese più rilevante, ne sta monitorando attentamente gli sviluppi. Anche il governo statunitense abbandonò tacitamente gli aiuti alla Cina dopo l’istituzione di un regime fantoccio nella Cina settentrionale (il Comitato Autonomo Comunista per la Difesa Orientale dell’Hebei fu istituito il 25 novembre). Il 2 dicembre, Hempek propose in un memorandum: ” I governi stranieri dovrebbero fare molta attenzione a non dare ai cinesi false aspettative di assistenza armata o a incoraggiarli a ricorrere alla forza in alcun modo “.

Il 4 dicembre, l’incaricato d’affari statunitense in Giappone, Neville, ha ribadito che gli Stati Uniti non hanno attualmente la forza necessaria per provocare controversie in Estremo Oriente: ” Qualsiasi dubbio sulla politica del Giappone deve essere sostenuto da una forte forza se si vuole che sia efficace. Proteste o inchieste non valide sarebbero inutili, potrebbero rivelarsi dannose e certamente ci umilierebbero in qualche modo “. Tuttavia, alla luce del deterioramento della situazione nella Cina settentrionale, in risposta ai dubbi dell’opinione pubblica americana, il 5 dicembre Hull ha rilasciato una dichiarazione sulla questione della Cina settentrionale in risposta alle domande dei giornalisti.

Nella dichiarazione, Hull ha evitato l’essenziale: non solo non ha menzionato direttamente l’aggressione del Giappone contro la Cina settentrionale, ma non ha nemmeno menzionato la Convenzione delle Nove Potenze, riassumendola in modo superficiale: “Il governo degli Stati Uniti aderisce ai termini del trattato a cui partecipa e continua a invitare tutti i paesi a rispettare i termini del trattato solennemente concluso per promuovere e regolare i contatti tra le parti e per il bene comune”. Nelle sue memorie, Hull ha sottolineato la necessità di pacificazione, provocando il governo giapponese dicendo che “non è necessario farlo”.

La connivenza degli Stati Uniti è stata accuratamente colta dal governo giapponese. In risposta alla Dichiarazione di Hull, il governo giapponese ha sottolineato che la Convenzione delle Nove Potenze non è il principio guida per Giappone e Stati Uniti nella gestione della Cina settentrionale, sostenendo che “la dichiarazione di Hull ‘riafferma solo i principi del diritto internazionale’ e non menziona la Convenzione delle Nove Potenze o le misure che gli Stati Uniti adotteranno”. Dopo aver appreso che gli Stati Uniti non avrebbero interferito nella questione della Cina settentrionale, il governo giapponese ha iniziato ad attuare pienamente il principio della “Dottrina Monroe asiatica”, escludendo tutte le potenze occidentali ed espandendo la propria sfera di influenza in Cina.

Il 9 dicembre, i capi dei ministeri degli esteri, della terra e della marina del governo giapponese hanno tenuto una riunione per discutere la futura politica cinese, proponendo: “Il più grande ostacolo alla vicinanza tra Giappone e Cina è la mentalità cinese di ‘diplomazia a distanza e attacco ravvicinato’, ovvero i vari comportamenti della Cina basati su questa mentalità e sulla sua politica di aiuti esteri”. Per superare questo ostacolo, è necessario attuare attivamente strategie diplomatiche ed economiche per escludere il più possibile gli aiuti esteri alla Cina.

L’intenzione del Giappone non viene più portata avanti in segreto come in passato, ma si manifesta in modo più spregiudicato nella diplomazia tra Giappone e Stati Uniti. Il 23 dicembre, Saburo Kurusu, direttore dell’Ufficio Commerciale del Ministero degli Affari Esteri, ha rivelato l’ambizione del Giappone di dominare l’Asia in una conversazione con il segretario dell’Ambasciata degli Stati Uniti in Giappone. Kurusu ha dichiarato: “In futuro, il Giappone avrà una propria sfera di influenza in Oriente, gli Stati Uniti nelle Americhe e la Gran Bretagna in Europa, Africa e Australia, ma le due vere potenze e leader saranno il Giappone in Oriente e gli Stati Uniti in Occidente “. Partendo dal riconoscimento delle intenzioni del Giappone, gli Stati Uniti si sforzano di evitare conflitti nel processo di formulazione

di una nuova strategia, al fine di accumulare segretamente forza.

Il 7 febbraio 1936, Grew chiamò Hull, sostenendo: “L’attrito tra Giappone e Stati Uniti deve essere ridotto al minimo, perché questo attrito aumenta inevitabilmente il potenziale pericolo di guerra”. Ciò dimostra anche che l’intesa diplomatica tacita tra Giappone e Stati Uniti sulla questione della Cina settentrionale, caratterizzata da un silenzio reciproco, non cerca negoziati con l’estero e non interferisce con gli interessi fondamentali dell’altra parte (questione della Cina settentrionale/Convenzione delle Nove Potenze), è stata riconosciuta da entrambe le parti. Il Giappone e gli Stati Uniti hanno instaurato una relazione di competizione diplomatica con la creazione di sfere di influenza in Cina. In questo processo di competizione, il Giappone ha ottenuto la visione di dominare la Cina e gli Stati Uniti hanno ottenuto l’opportunità di accumulare forza per garantire l’ordine in Estremo Oriente.

Conclusione

Che si tratti della “Dottrina Monroe asiatica” che il governo degli Stati Uniti voleva che il Giappone attuasse dopo la guerra russo-giapponese, o della “Dottrina Monroe asiatica” che fu rimodellata dal governo giapponese dopo l’incidente del 918, l’attenzione è rivolta alla creazione di un sistema di ordine internazionale che soddisfi i propri interessiNel processo di costruzione di un ordine dell’Asia orientale guidato dagli Stati Uniti e dal Giappone, il controllo della Cina è diventato l’obiettivo centrale delle strategie di entrambe le parti, che mirano a esercitare un’influenza dominante in Cina per ottenere cambiamenti nell’ordine dell’Asia orientale e persino nell’ordine globale. La differenza principale è che l’ordine internazionale secondo il concetto americano è un impero informale che sostituisce l’impero coloniale, mentre il concetto giapponese sostituisce il coordinamento multinazionale con l’egemonia regionale.

Tuttavia, nel quadro delle attività internazionali multilaterali in Cina, come la Convenzione delle Nove Potenze e la Convenzione di Non-Guerra, qualsiasi questione relativa alla Cina doveva essere ulteriormente coordinata attraverso i canali diplomatici per armonizzare ulteriormente le opinioni delle grandi potenze. Pertanto, negli anni ’30 del XX secolo, quando la guerra di aggressione del Giappone contro la Cina non era ancora scoppiata in pieno, i negoziati in materia di affari esteri divennero l’unico modo per i governi giapponese e statunitense di risolvere le loro divergenze. Durante questo periodo, la discussione e l’applicazione della “Dottrina Monroe asiatica” divenne la caratteristica principale della diplomazia bilaterale tra Giappone e Stati Uniti, formando così un rapporto diplomatico competitivo e cooperativo in Cina.

Sebbene la “Dottrina Monroe asiatica” fosse originariamente diretta contro l’influenza occidentale e il colonialismo, era anche uno strumento per legittimare la pretesa del Giappone all’egemonia e al dominio coloniale nell’Asia orientale.L’intenzione degli Stati Uniti di promuovere la “Dottrina Monroe asiatica” nei confronti del Giappone era quella di controllare e bilanciare la penetrazione coloniale di Gran Bretagna, Francia e altri paesi in Asia, in particolare in Cina, ma in seguito, a causa della firma del Patto delle Nove Potenze, questa politica avrebbe dovuto dissolversi gradualmente in Giappone, man mano che i paesi raggiungevano un consenso sulla Cina.

Tuttavia, lo scoppio dell’incidente del 918 lo fece rinascere in Giappone. Il Giappone trasformò e rimodellò la Dottrina Monroe che era stata precedentemente introdotta dagli Stati Uniti, trasformandola in una politica in stile giapponese denominata “Dottrina Monroe asiatica”, mescolata a varie idee aggressive, che sosteneva l’esclusione di tutte le potenze occidentali, compresi gli Stati Uniti, dall’Asia e il monopolio dei diritti e degli interessi in Cina. Dopo la firma dell’accordo di Tanggu nel 1933, il governo giapponese non utilizzò più apertamente la “Dottrina Monroe asiatica” come scusa per rifiutare il coinvolgimento degli Stati Uniti negli affari dell’Estremo Oriente, ma la nascose nel suo cuore e frenò l’ingresso delle forze americane attraverso misure pratiche. Il governo giapponese, rappresentato dal Ministero degli Affari Esteri, lanciò prima la “Dichiarazione di Tianyu”, avvertendo l’Occidente di vietare gli aiuti alla Cina e di “rifiutare la cooperazione tra la Cina e le grandi potenze, con l’obiettivo di monopolizzare la Cina”.

Successivamente, il Giappone ha cercato di elaborare la “Dichiarazione congiunta Giappone-Stati Uniti” per dividere le sfere di influenza basate sull’Oceano Pacifico. Gli Stati Uniti ritengono che la “Dottrina Monroe asiatica” sostenuta dal Giappone durante questo periodo non possa essere equiparata alla “Dottrina Monroe” degli Stati Uniti, quindi hanno successivamente respinto le sue proposte e hanno spesso svolto buoni uffici e proteste attraverso i canali diplomatici, mostrando uno stato di competizione diplomatica.

Tuttavia, i negoziati in materia di affari esteri sono sempre complessi a causa delle differenze concettuali tra Stati Uniti e Giappone. Entrambi i governi riconoscono che l’unico modo per garantire le rispettive sfere di influenza in Cina è rafforzare la propria potenza navale. Stati Uniti e Giappone sono d’accordo su questo punto. rafforzando segretamente i propri armamenti con il pretesto del disarmo navale,e le politiche di entrambi i paesi sono tornate all’essenza della politica di potere, e il consenso di entrambe le parti si basa sul principio della parità tra Stati. Partendo dal presupposto che non è stata ancora accumulata forza sufficiente, sia gli Stati Uniti che il Giappone hanno cercato di evitare un’escalation del conflitto.

In risposta all’incidente della Cina settentrionale, il governo degli Stati Uniti ha ripetutamente sottolineato di aver sacrificato la Cina settentrionale per placare l’esercito giapponese e che la sua “posizione di base nelle relazioni sino-giapponesi è quella di non avere alcuna intenzione di sostenerlo con la forza militare”. Il Ministero degli Affari Esteri giapponese tende a non parlare della questione del Patto delle Nove Potenze per evitare un’altra crisi dell’opinione pubblica internazionale e, allo stesso tempo, “si integra sottilmente” con l’esercito nella sua aggressione alla Cina settentrionale. Le relazioni diplomatiche tra Stati Uniti e Giappone hanno mostrato una cooperazione diplomatica in questo senso.

Data la potenziale possibilità di raggiungere l’egemonia regionale, il motivo che ha spinto il governo giapponese a rompere lo status quo, rimodellare e applicare effettivamente la politica della “Dottrina Monroe asiatica” dopo lo scoppio dell’incidente del 918 per sfidare l’ordine internazionale esistente nell’Asia orientale non è infondato.

Tuttavia, la successiva formazione di competizione diplomatica e cooperazione tra le due parti in Cina dimostrò la necessità di una stabilità temporanea dell’ordine internazionale esistente nell’Asia orientale (il sistema della Convenzione delle Nove Potenze), e il governo degli Stati Uniti dovette ridimensionare il proprio fronte durante questo periodo di transizione per accumulare forza: “Dall’inizio del 1935, l’obiettivo principale del governo degli Stati Uniti negli affari internazionali è stato quello di evitare qualsiasi possibilità di coinvolgimento nella guerra”. Pertanto, scelse di placare il Giappone acconsentendo al tradimento dei diritti e degli interessi della Cina; il Giappone ha ancora bisogno di continui apporti di risorse statunitensi per mantenere la sua fragile egemonia regionale, e “il blocco giapponese-manciuriano deve fare affidamento sull’economia statunitense per sostenersi”.

Pertanto, dopo l’incidente del 918, il concetto della politica della “Dottrina Monroe asiatica” dei governi statunitense e giapponese mise alla prova la loro rispettiva determinazione a mantenere (o rompere) l’ordine internazionale. Il Giappone alla fine ha deciso di lanciare una guerra di aggressione su vasta scala contro la Cina per ottenere l’egemonia regionale nell’Asia orientale, come previsto dopo aver ridefinito la politica della “Dottrina Monroe asiatica”.

“Le grandi potenze continuano a mantenere l’ordine internazionale esistente con una politica di appeasement e conciliazione, che a sua volta alimenta l’ambizione del Giappone di rompere lo status quo internazionale”. Ciò dimostra anche che per plasmare e mantenere la stabilità nell’ordine internazionale è necessaria una non negoziabilità a lungo termine da parte degli Stati membri dominanti, senza tradire i diritti e gli interessi dei paesi più deboli.

Dal punto di vista della “Dottrina Monroe asiatica”, osservando la competizione diplomatica tra Stati Uniti e Giappone dal 1933 al 1935, è possibile dimostrare che non esistono differenze sostanziali tra Stati Uniti e Giappone sulle questioni relative alla Cina. Sebbene i metodi di attuazione siano leggermente diversi, la creazione di una sfera di influenza esclusiva in Cina sostenuta dalla “Dottrina Monroe asiatica” è sempre stata una parte fondamentale degli obiettivi strategici dei due paesi. [Il mio enfasi]

Trovo spiacevole che gli autori non abbiano citato la maggior parte delle loro fonti, anche se è chiaro che molte erano documenti d’archivio provenienti da fonti governative. Ho citato alcune fonti che confermano le affermazioni degli autori. Questa risale al dicembre 1917 e proviene da L’avvocato della pacepubblicazione, “La Dottrina Monroe giapponese;” e questo èdal 25 agosto 1932 New York Timescon il lunghissimo titolo “IL PIANO ASIATICO ‘MONROE’ PRESENTATO A ROOSEVELT; Kaneko afferma che nel 1905 il presidente sollecitò il Giappone a stabilire una dottrina per l’Estremo Oriente. CONTRIBUÌ A BLOCCARE HARRIMAN L’amministratore delegato agì per impedirgli il controllo delle ferrovie della Manciuria, dichiara il consigliere privato.” Esiste anche un’ampia documentazione nella serie FRUS di tutte le comunicazioni diplomatiche del Dipartimento di Stato americano, che sono state digitalizzate. Il Segretario di Stato Cordell Hull ha detto diverse cose molto interessanti sulla natura della Dottrina Monroe che ho sottolineato. Ed è abbastanza chiaro che il presidente Roosevelt abbia suggerito al Giappone di adottare tale politica per rafforzare ulteriormente la sua politica di apertura verso la Cina. A mio parere, alcune discussioni sul Prima guerra sino-giapponese meritava una breve discussione per chiarire il contesto, perché mostra l’intenzione del Giappone di annettere quanto più territorio possibile della Cina attraverso operazioni sotto falsa bandiera. A mio parere, è molto chiaro che la politica degli Stati Uniti era quella di sfruttare la Cina come colonia e trarre il massimo vantaggio commerciale possibile dalle relazioni con il Giappone. Il Giappone e gli Stati Uniti praticavano una classica politica di deterrenza.

Questo esercizio è molto utile per fornire il contesto mancante nella storia degli Stati Uniti delle loro relazioni estere con il Giappone, data la loro importanza per comprendere come si è sviluppata la guerra tra il Giappone e le potenze occidentali. Questo Wikisulla Sfera di co-prosperità della Grande Asia Orientale del Giappone contiene questa interessante informazione:

Nell’autunno del 1872, il ministro degli Stati Uniti in Giappone Charles DeLong spiegò al generale statunitense Charles LeGendre che aveva esortato il governo giapponese a occupare Taiwan e a “civilizzare” gli indigeni taiwanesi, proprio come gli Stati Uniti avevano conquistato le terre dei nativi americani e li avevano “civilizzati”. Il generale LeGendre, il primo straniero assunto dal governo giapponese come esperto di politica estera, incoraggiò i giapponesi a dichiarare una “sfera di influenza” giapponese sul modello della Dottrina Monroe che gli Stati Uniti avevano dichiarato per escludere altre potenze dall’emisfero occidentale. Una tale sfera di influenza giapponese sarebbe stata la prima volta che uno Stato non bianco avrebbe adottato una politica del genere. L’obiettivo dichiarato della sfera di influenza sarebbe stato quello di civilizzare i barbari dell’Asia. “Pacificateli e civilizzateli, se possibile, e se non è possibile… sterminateli o trattateli come gli Stati Uniti e l’Inghilterra hanno trattato i barbari”, spiegò LeGendre ai giapponesi.

C’è altro da leggere sull’argomento. È chiaro che la barbarie degli Stati Uniti è stata imposta ai giapponesi come metodo appropriato, quindi gli Stati Uniti condividono la responsabilità della crudeltà imperiale del Giappone.

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L’Unione europea tra propositi di coesione e dinamiche di polarizzazione_di Giuseppe Germinario con la collaborazione, in appendice, di Cesare Semovigo

I due testi in calce costituiscono la bozza, grezza, ma leggibile, di una relazione tenuta ad Accadìa nel corso della “SUMMER SCHOOL NAZIONALE SULL’AREA INTERNA DEI MONTI DAUNI”, promossa dall’associazione “La torre dell’orologio” con il patrocinio delle università di Foggia, di Venezia, della Calabria e del Politecnico di Bari_Giuseppe Germinario

SUMMER SCHOOL
NAZIONALE SU

L ’ AREA I N T ER N A D E I M O N T I D AU N I
A C C A D I A 2 2 – 28 s e t t embre 202 5

L’Unione europea tra propositi di coesione e dinamiche di polarizzazione

L’Unione Europea (1993), erede della CECA (1951) e della CEE (1957), nel titolo XVIII-artt 174-178, tratta della “COESIONE ECONOMICA, SOCIALE E TERRITORIALE” come una (“anche”) delle missioni  socioeconomiche istitutive della Unione.

 In particolare l’art. 174 recita: “Per promuovere uno sviluppo armonioso dell’insieme dell’Unione, questa sviluppa e prosegue la propria azione intesa a realizzare il rafforzamento della sua coesione economica, sociale e territoriale. In particolare l’Unione mira a ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle varie regioni ed il ritardo delle regioni meno favorite. Tra le regioni interessate, un’attenzione particolare è rivolta alle zone rurali, alle zone interessate da transizione industriale e alle regioni che presentano gravi e permanenti svantaggi naturali o demo grafici, quali le regioni più settentrionali con bassissima densità demografica e le regioni insulari, transfrontaliere e di montagna”.

Per realizzare questa finalità l’UE si è dotata di una specifica strumentazione finanziaria inglobata nella categoria dei cosiddetti fondi strutturali. In particolare:

I fondi principali, definiti nell’Accordo di Partenariato tra l’Italia e la Commissione europea, sono: 

  • Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR): Investe in progetti di sviluppo regionale, infrastrutture e innovazione. 
  • Fondo sociale europeo (FSE): Supporta progetti di occupazione, istruzione, formazione e inclusione sociale. 
  • Fondo di coesione (FC): Finanzia progetti in Stati membri con un PIL pro capite inferiore alla media dell’UE, focalizzandosi su trasporti e infrastrutture ambientali. 
  • Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca (FEAMP): Supporta la pesca sostenibile e lo sviluppo delle zone costiere. 
  • Fondo per una transizione giusta (JTF): Aiuta le regioni a fronteggiare gli impatti sociali ed economici della transizione verso un’economia a impatto climatico zero. 

La gestione viene affidata in linea di principio e in un rapporto di condivisione dalle:

  • Agenzie per la coesione territoriale. In Italia tale struttura coordina le politiche di coesione e l’Accordo di Partenariato
  • Amministrazioni centrali e regionali, secondo le priorità definite

I riferimenti principali dai quali attingere le informazioni sono il sito web della Agenzia per la coesione territoriale e il portale OpenCoesione.

Quel “anche”, però, vorrebbe essere una congiunzione dall’intento paritario. La realtà, purtroppo, indica altro e soprattutto una tendenza, definibile ormai storicamente, alla polarizzazione geografica, economica e sociale sempre più marcata, pur in un quadro, almeno sino a pochi anni fa, di sviluppo pressoché generale.

Per inquadrare, dal mio punto di vista, correttamente il problema della polarizzazione e, nella fattispecie, del “recupero delle aree interne, oggetto di questa iniziativa, occorre definire due assunti fondanti la successiva narrazione.

  • Le iniziative politiche, tra le quali la costruzione nelle sue varie fasi dell’Unione Europea, susseguitesi dal secondo dopoguerra ad oggi, ormai da ottanta anni, e riguardanti l’Europa Occidentale prima e l’Europa tutta, compresa la parziale eccezione della Russia, seguono a una condizione di occupazione militare statunitense, appena mitigata nel suo peso da episodi significativi di resistenza al regime nazista in alcuni paesi, frutto di una sconfitta disastrosa delle potenze dell’Asse, in particolare di Italia e Germania, e della progressiva subordinazione agli Stati Uniti  o scarsa significanza delle due nazioni europee apparentemente vincitrici, la Francia e il Regno Unito. Da sottolineare che il regime di occupazione formale terminò in Italia nel 1947, in Germania solo nel 1990 pur, questione sostanziale, con il mantenimento  di un nutrito numero di basi e truppe, ma non solo queste, sul terreno.
  • Il progressivo e rapido scivolamento in una riduzione meramente economicista, diretta conseguenza del punto precedente,  della conduzione politica della Unione fondata sul dogma del cosiddetto libero mercato, sulla garanzia salvifica della tutela della domanda dei consumatori rispetto all’offerta

IL RUOLO DEGLI STATI UNITI NELLA COSTRUZIONE EUROPEA

L’apertura, circa quaranta anni fa, degli archivi secretati statunitensi risalenti agli anni ‘30 ha permesso di studiare e documentare il grande interesse e la volontà di quella leadership, che aveva evidentemente già presagito lo scoppio e l’epilogo del secondo conflitto mondiale,  di sondare il terreno ed intervenire attivamente nella costruzione di una qualche forma di costruzione unitaria europea. I frequenti viaggi negli Stati Uniti di Jean Monnet, il padre del metodo funzionalista di costruzione europea, iniziati negli anni ’40 sono una delle tante testimonianze di questo interesse e della sempre più fitta tessitura di legami tra le due sponde dell’Atlantico.

Una volta risolto il dilemma del destino della Germania sconfitta, in particolare se garantirle l’unità politica con una postura neutrale, secondo le indicazioni di Stalin o tenerla sotto regime di occupazione e separarla, come in realtà avvenne, si pose un’altra opzione: ridurre la Germania ad una condizione economica agropastorale, il cosiddetto piano Morgenthau,  sulla falsariga di quanto successo nel primo dopoguerra, oppure valorizzarne le indubbie capacità organizzative ed industriali, adottando una struttura federale simile a quella statunitense. Con grande lungimiranza, rara di esempi nella storia, la leadership statunitense scelse questa ultima opzione, gravida di conseguenze positive per lo sviluppo dell’intera Europa nei decenni successivi, ma con dei paletti ben impiantati a delimitare i limiti di quello sviluppo e la delimitazione dello spazio di azione geopolitico, il cui permanere  nel mutato contesto geopolitico stanno riducendo la attuale postura europea ad una condizione farsesca e potenzialmente e progressivamente tragica.

La Repubblica Federale Tedesca, la nazione, quindi, politicamente più debole del quadrante europeo, era destinata a diventare il perno ed il motore locale aggregativo di quella parte di Europa “costretta” in una alleanza politico-militare, la NATO (1949, cinque anni prima, quindi, del Patto di Varsavia) e comprimaria nella costruzione di una Unione, possibilmente di tipo federale, in realtà tutta incentrata sulla costruzione economica circoscritta dalla condizione politica e dagli imperativi geopolitici di tipo bipolare già all’orizzonte. La  iniezione di investimenti statunitensi di quel periodo, massiccia ma selettiva, attenta a non mettere a rischio la supremazia tecnologica ed industriale statunitense,  non fece che corroborare quella scelta politica.

Ho parlato di lungimiranza, indubbia qualità soggettiva di quella leadership, sostenuta però da condizioni oggettive, legate alle salde radici socialdemocratiche/keynesiane in grado di condizionare le scelte liberali, alla presenza competitiva e ideologicamente pervasiva dell’incipiente blocco sovietico, alla endemica conflittualità politico/sociale presenze in quelle nazioni. Ho posto le virgolette al termine costrizione perché, in realtà, furono scelte basate su un largo consenso, fondato su un vero e proprio modello di vita e su di una aspirazione di unità, pace e fratellanza, memore delle tragedie recenti delle due guerre catastrofiche. Accanto ad una narrazione irenica della costruzione europea, nacquero anche importanti formazioni federaliste, per altro ampiamente foraggiate dagli Stati Uniti, propugnatrici di una costruzione federale europea politicamente autonoma, in realtà prone, in ultima istanza, al metodo funzionalista, così come scaturito nel loro ultimo congresso tenuto in quegli anni a l’Aja.

Quella lungimiranza e quel progetto egemonico ebbe come presupposto l’occupazione militare e iniziò intanto con la richiesta minimale sempre più pressante di un coordinamento europeo che consentisse una gestione ottimale del Piano Marshall. Proseguì con il tentativo pressante di costruzione integrata della CED (Comunità Europea di Difesa), fallito non appena Francia, nella vulgata gaullista, e più discretamente la Gran Bretagna si accorsero di non poter detenere le chiavi di quel sistema e di dover sacrificare comunque ad esso buona parte delle risorse riservate al mantenimento del proprio residuo sistema coloniale. Dal naufragio di quella illusione si affermò l’alleanza, inizialmente militare, della NATO e il varo della CECA, una comunità di sei paesi, Francia, BENELUX, Germania; un sorta di cartello incaricato di suddividere le quote di produzione di carbone ed acciaio necessarie a sostenere la ripresa industriale civile e del complesso militare senza alimentare attriti che avevano già generato conflitti distruttivi nel continente.

Occorre tener presente che la trasformazione del potere militare e politico in forza egemonica capace di trasformare la forza in potenza in grado di costruire e manipolare consenso necessita di tempo, capacità certosina ed ampi margini di azione. Una capacità di infiltrazione progressiva, a volte violenta, il più delle volte suadente, di istituzioni, apparati e gangli vitali delle società nel corso di decenni e al prezzo di pesanti conflitti interni alle stesse leadership dominanti.

Una azione che ha richiesto tributi di sangue. In Italia il sacrificio di Mattei, un uomo capace di affermare in condizioni date gli interessi nazionali giocando soprattutto con le contraddizioni tra le potenze coloniali decadenti e la potenza emergente e con quelle più subdole interne alla potenza dominante tra le forze più legate alle prime e quelle disposte a liquidarle e sottometterle definitivamente appoggiandosi anche ai movimenti anticoloniali, ma anche di Moro, Craxi e qualche altra figura meno popolare e presentabile.

Un processo che ha conseguito il suo pieno compimento vittorioso  negli anni ’90, con l’implosione del blocco sovietico, l’allargamento su basi russofobe della NATO e la sua progressiva trasformazione da alleanza militare a blocco politico a tutto campo intenzionato, in parte in grado, di determinare le scelte politiche nel continente a tutto campo e soprattutto, di neutralizzare le spinte autonomi  che periodicamente sorgono in Europa.

Un allargamento di competenze e di campo di azione che da una parte ha messo sempre più in evidenza lo stretto legame simbiotico  di dipendenza tra NATO ed Unione Europea, sempre sancito in tutti i trattati, compreso quello di Lisbona, ma sino ad un paio di decenni fa nascosto dalla cortina fumogena della autonomia e neutralità delle scelte di indirizzo economico, in qualche modo garantita durante la fase bipolare, ma progressivamente dissoltasi per la sicumera di aver raggiunto una egemonia unipolare del mondo nelle due decadi dagli anni ’90 e la condizione di ostilità al sorgere e alla realizzazione di un mondo multipolare.

Sotto questo profilo, la coesione territoriale – tanto auspicata e sostenuta dalla politica comunitaria – è messa in crisi da meccanismi di allocazione di fondi e infrastrutture che privilegiano corridoi e nodi militari strategici, spesso localizzati in aree economicamente più sviluppate o geograficamente strategiche, mentre le aree interne e periferiche restano marginali.

A ciò si somma la crescente “militarizzazione” implicita degli investimenti dual-use, evidenziata anche da think tank come RAND e CSIS, che sottolineano come la sicurezza e la mobilità militare siano ormai criteri fondamentali per erogare fondi e pianificare investimenti europei, alimentando una polarizzazione tra Nord-Sud ed Est-Ovest, e allontanando la prospettiva di un sviluppo omogeneo e stabile

Tabella 1 – Fondi UE per coesione e sicurezza: distribuzione e implicazioni

Fondo UEObiettivo principaleAllocazione (€ mld)Impatto sulla coesione territorialeNote principali
FESR (Fondo europeo sviluppo regionale)Sviluppo infrastrutturale e innovazione regionale~190Favorisce investimenti in infrastrutture chiave ma limitati in aree marginali
FSE+ (Fondo Sociale Europeo)Occupazione, inclusione sociale e formazione~99Migliora capitale umano, ma allocato principalmente in aree densamente popolate
Fondo di Coesione (FC)Trasporti e ambiente in paesi con PIL inferiore~40Supporta Paesi meno sviluppati, ma con difficoltà amministrative
JTF (Just Transition Fund)Sostenere transizione climatica con impatti locali~17Aiuta aree colpite da cambiamenti economici ma limitato da criteri stringenti
Fondi per la mobilità militare/Corridoi NATO (CEF, PESCO)Rafforzare capacità dual-use per difesa e sicurezza~10–15 (stimati)Concentrati su nodi strategici, rischiano di favorire polarizzazioniAllocazioni “dual-use” rilevanti ma spesso non destinate a risolvere disparità sociali

Tabella 2 – Indicatori di polarizzazione territoriale nell’UE (2023)

IndicatoreNord-Ovest UESud EuropaEuropa OrientaleImplicazioni principali
PIL pro capite rispetto media UE+25%-20%-30%Aree meridionali e orientali in svantaggio economico significativo
Tasso di disoccupazione giovanile8%25%18%Elevate criticità nelle periferie meridionali ed esterne
Investimenti infrastrutturali (€ pc)AltoMedioBassoVariazioni significative legate a priorità militari e civili
Indice di rischio di esclusione socialeBassoAltoAltoMaggiori fragilità sociali in aree periferiche

Un processo in due fasi talmente pervasivo da riuscire a costruire una classe dirigente ed una leadership politica, tra i paesi più importanti in Europa, specie in Italia e Germania, del tutto legata e partecipe  dei circuiti e della rete di interessi ed attività che garantiscono il permanere e la sopravvivenza di queste strutture politico-economiche di potere e consenso.

Sottolineo ancora una volta la grande intelligenza, almeno iniziale, delle leadership egemoni statunitensi capaci di dosare attentamente la forza, ma soprattutto di individuare, vellicare, manipolare, indirizzare  e formare quelle parti di classi dirigenti e di leadership, quindi anche di popolazione, capaci di integrarsi in un sistema in divenire.

Una abilità e pervasività conclusa con un successo, ma che sta portando però il continente verso la tragedia.

Lo testimonia l’origine e la formazione di quasi tutte le classi dirigenti europee e degli esponenti attualmente più in vista, non più cooptati, ma nati e pasciuti in questo brodo di coltura.

Già, perché, le nostre leadership europee da essere legate seguendo un modello di rapporti tra stato e stato, istituzioni ed istituzioni nel quale costruire i sodalizi personali si sono ridotte ad essere parte sempre più attiva e partecipe, espressione apparentemente protagonista nello scenario pubblico, nella realtà prosaica succube, spesso anche inconsapevolmente, di una fazione specifica protagonista nel sanguinoso conflitto politico in corso da oltre dieci anni negli Stati Uniti. Una fazione probabilmente ed auspicabilmente perdente, ma che comunque sarà in grado di trascinare nella propria rovina il seguito della corte, ammesso che non sia la parte vincente a martellarla ferocemente.

Il dibattito ed il processo di riarmo “europeo” è la cartina di tornasole di una dinamica molto più profonda che coinvolge anche il tema di fondo di questo seminario.

Un proposito astrattamente corretto, quello della difesa autonoma di un paese o di una alleanza continentale di paesi, che viene gestita da una istituzione priva di statualità, un vero e proprio ossimoro, e da stati incapaci di valutare ogni e l’insieme dei quadranti che avvolgono lo scacchiere continentale; una visione strabica, prevalente in alcuni paesi e nelle leadership di quasi tutti gli altri, fortunatamente nella crescente diffidenza, non si sa quanto durevole perché priva di reale alternativa, dell’opinione pubblica prevalente, alimentata da una fazione di oltre atlantico, tutta basata sull’invenzione di un nemico, la Russia, nemmeno più la dirigenza russa, sull’allarmismo infondato di un conflitto imminente teso soprattutto ad addomesticare i timori della propria popolazione e a giustificare le future vessazioni che dovrà propinare loro. Allarmismo ed urgenza che si risolverà nel ricorso prevalente al complesso militare statunitense per le proprie forniture, nella partecipazione soprattutto tedesca a questo sodalizio, nella sostituzione dell’attuale welfare con uno di tipo e di consistenza militare riservato ad una cerchia più ristretta di popolazione.

Non è stato un processo privo di alternative e telecomandato da dinamiche inesorabili. Negli anni 80/90 ha dovuto regolare diversi contrappesi anche nei paesi dell’Europa Orientale. In quell’area vi era una componente politica significativa che, pur attratta dalle sirene occidentali, riteneva di poter trasformare e salvaguardare il proprio patrimonio industriale e il sistema di sicurezza sociale attraverso una transizione graduale e controllata. Era riuscita persino ad ottenere il sostegno di una parte importante della intellighenzia tedesca, più legata alla ostpolitik e ai gruppi industriali-finanziari indipendenti, presenti nella Deutschbank, antecedente alla sua conversione in banca di investimento, e nella Treuhand. Con la liquidazione fisica di Herrhausen e Rohwedder e il ricambio repentino della leadership politica, grazie alla efficiente struttura verticale della gerarchia di potere,  la Germania fu ricondotta diligentemente all’ordine e le dirigenze dell’Europa Orientale persero referenti e sponsor e con essi il controllo politico sul proprio paese, aprendo la strada ad un vero e proprio processo di colonizzazione, solo adesso, a trenta anni di distanza, rimesso parzialmente in discussione e solo in alcuni paesi.

 Grazie alla struttura più disarticolata dello stato, in Italia il processo di normalizzazione degli anni ’90 fu più lungo e confuso, ma altrettanto efficace anche perché ha potuto agire su di una base alquanto logorata.

L’UNIONE EUROPEA E LA SUA MISSIONE POLITICA IN ECONOMIA

In questo quadro si riesce ad inserire più credibilmente il ruolo della Unione Europea, le sue finalità conclamate e quelle più prosaiche e ad approfondire da questo punto di vista il tema del recupero e valorizzazione delle aree interne.

 Con l’istituzione della CEE, nel 1957, il campo di azione comunitario si allargò assorbendo in particolare le politiche agricole (PAC) mutuando, però, in un sistema di mercato libero, il criterio delle quote nazionali di produzione, ma con una peculiarità.

 Il cosiddetto piano Mansholt divideva  i territori agricoli in “polpa ed ossa”, le pianure nella prima categoria, le zone collinari e montane nella seconda. All’interno di questo primo discrimine se ne concepì un altro che prevedeva la riserva di gran parte degli incentivi a produzioni particolari, specie all’allevamento intensivo e ai prodotti di origine animale. Opzioni che favorirono di per sé gli insediamenti delle grandi pianure europee del Centro-Nord. Le proteste che provocarono portarono ad una prima correzione dei criteri, ma che si ridussero ad interventi assistenziali  che alleviarono leggermente il malessere delle popolazioni rurali collinari; le educarono piuttosto alla ricerca di risorse assistenziali piuttosto che produttive delle proprie aziende. La pratica, ad esempio, di semina di cereali senza provvedere al raccolto in funzione della mera riscossione dei contributi europei divenne diffusa nelle zone collinari della Murgia barese e nella Sicilia, grazie anche alla predatoria catena di distribuzione commerciale nelle aree meno controllate dall’AIMA. Fu una delle molle che alimentò il primo esodo migratorio biblico verso le aree industriali del Nord Italia e, soprattutto, in Europa. A questo si aggiunse la politica degli accordi di scambi commerciali con paesi extraeuropei, in particolare e inizialmente  africani e mediorientali la quale prevedeva l’importazione di prodotti agricoli di origine mediterranea, simili a quelli italiani, in cambio dell’esportazione di prodotti industriali prevalentemente tedeschi e francesi, con profitto di entrambi e con la finalità di puntellare l’influenza francese postcoloniale,  in un contesto per altro di allargamento della Comunità a Spagna e Grecia, dalla merceologia agricola simile a quella dell’Italia Meridionale. Fu alimentato quindi un primo processo di polarizzazione di tendenza depressiva  che portò in quelle aree più che ad una economia attiva ma subordinata e polarizzata rispetto alle aree centrali in pieno sviluppo, ad una realtà di degrado e di consumo mantenuta dalle rimesse dei migranti e dalle crescenti elargizioni assistenziali più o meno giustificate. Una sorte diversa riuscirono a conseguire alcune specifiche aree marittime, pianeggianti o ricche di materie di base, ad esempio l’acqua, grazie alla riconversione agricola e soprattutto alla creazione di poli industriali di prodotti di base pur in presenza di pesanti processi migratori. Nella fase iniziale e intermedia di costruzione della CEE l’Italia era il paese, se non unico, più importante, a presentare una economia e una società chiaramente dualistica con una metà del territorio quasi interamente depressa. Potè, quindi, fruire di gran parte dei fondi  europei compensativi destinati ad alimentare con quote significative la  creazione di indispensabili grandi agenzie tecnico-finanziarie in via di costituzione, ad esempio la Cassa per il Mezzogiorno, e i processi di costituzione di poli industriali sostenuti prevalentemente dalle Partecipazioni Statali, ma anche da alcuni gruppi privati come la FIAT. In realtà questi insediamenti trovarono in buona parte accoglienza in piccole aree industriali già presenti e dotate almeno in parte di infrastrutture minime; oltre agli effetti positivi innescarono importanti processi di riorganizzazione e ridimensionamento di settori artigianali, grazie anche all’abbandono indotto di queste attività. Solo in pochi casi e in maniera precaria riuscirono a creare un indotto autonomo ed indipendente dai poli centrali, non ostante la grande pressione politica e sindacale innescata dalla capacità attrattiva di grandi concentrazioni operaie politicamente attive.

Fu però una parentesi dinamica relativamente breve che conobbe, tra l’altro, i primi tentativi comunitari di regolazione monetaria e di coordinamento delle politiche fiscali nazionali sempre più dettate dalla compagine tedesca, man mano che la competizione politico-economica con la Francia  volgeva a suo favore, sui criteri restrittivi e di equilibrio dei vari bilanci statali. C’è da aggiungere che le crisi esterne iniziate con lo shock petrolifero e la non convertibilità del dollaro resero ancora più instabile una integrazione in Italia resa problematica da una gestione discutibile e velleitaria, spesso assistenziale, delle politiche industriali delle PPSS, che trascinò in un progressivo degrado l’intero comparto, compresi i numerosi gioielli ancora restanti.

 Parallelamente, sull’onda delle prime delocalizzazioni avviate in Veneto si svilupparono numerose attività imprenditoriali, poco più che artigianali, in gran parte semplice appendice delle case madri e particolarmente fragili, alimentate in buona parte da lavoro in nero. Un esempio importante è offerto dagli insediamenti cresciuti in Salento nel settore tessile e calzaturiero. Un primo esempio, quindi, di polarizzazione positiva rispetto alle tendenze depressive in aree vicine. Non mancò, per altro, qualche esempio di imprenditoria resiliente, dato importante, la Natuzzi nella Murgia e di aziende pilota nell’alta tecnologia, spesso ad uso militare o doppio uso, per lo più avviate in aree altamente attrezzate. Esempi, questa volta, di poli attrattivi trainanti. Qualcosa di analogo si manifestò, appena dopo, in agricoltura, specie nel settore vinicolo, con l’arrivo di grandi imprenditori.

Dalla metà degli anni ’70 iniziò comunque un radicale rivoluzionamento dei circuiti economico-finanziari fondato sul crescente predominio del dollaro, sul deficit commerciale statunitense, sulla crescente mobilità dei capitali e su una divisione del lavoro e delle catene produttive sempre meno fondata su base nazionale.

Un rivoluzionamento che coltivò l’illusione del predominio crescente di potenze industriali, come il Giappone, prive di potenza politica e di capacità di controllo delle leve finanziarie fondamentali e per questo facilmente assorbite e regolate dalla forza egemone; una svolta che raggiunse la piena maturazione negli anni ’90, preceduta dal provvidenziale crollo ed assorbimento del blocco sovietico nel circuito occidentale.

È il momento in cui i centri decisori statunitensi realizzano la convinzione, direi la presunzione, di poter assumere il controllo diretto ed indiretto, quantomeno la definizione degli indirizzi, dei circuiti globali con il semplice controllo delle leve finanziarie, degli sviluppi tecnologici e della ricerca scientifica, e delle partecipazioni azionarie e delle leve manageriali di primo livello.

Da qui l’affermazione delle teorie liberiste più radicali e in questo quadro l’inserimento progressivo e crescente in una condizione egemonica, ma non dominante, più che altro di pesante condizionamento, della Germania nello spazio geoeconomico europeo,  al prezzo, pesante e determinante, di un condizionamento politico statunitense che ne ha circoscritto la direzione e i margini di azione economica.

Un dinamismo che, però, non si limita alle sole azioni di politica economica, ma che non disdegna di recuperare parte delle antiche aree di influenza politica in Europa Orientale e nei Balcani, sempre, però, sino a ieri all’ombra e forzando i disegni operativi statunitensi, vedi il suo ruolo nelle recenti guerre nei Balcani e nelle sue recrudescenze, oggi all’ombra di una fazione di essi e a contrasto dell’altra.

È il momento in cui la UE si adegua a pieno regime all’onda liberista con la sua ossessione del libero mercato, senza per altro la possibilità di disporre degli strumenti di azione propri degli stati nazionali e in un contesto geopolitico europeo rivoluzionato. Un contesto accolto euforicamente, ma che inizia a generare in Europa processi di polarizzazione in gran parte depressiva anche nelle aree centrali.

Prima di approfondire il tema occorre chiarire un equivoco alla base della retorica di questi ultimi decenni.

Il mercato “libero”, presentato come uno spazio liberatore e purificatore di energie teso all’equilibrio e al vantaggio reciproco, in realtà è una chimera. Ogni mercato, per quanto “anarchico”, per reggersi ha bisogno di regolamentazioni; crea gerarchie che spingono ad azioni costrittive verso gli attori più deboli; adotta consuetudini che equivalgono a regole, come le pratiche lobbistiche così in uso nei corridoi della Commissione Europea; di più, i manager e gli azionisti di riferimento dei maggiori gruppi ragionano sempre meno nell’ottica della mera ottimizzazione e del conseguimento del profitto, sempre che esista una procedura univoca che determini e quantifichi quest’ultimo. Sono dei veri e propri strateghi politici al pari dei decisori che siedono nelle istituzioni e negli apparati e fanno parte a pieno titolo delle cordate che si formano nelle situazioni conflittuali e cooperative che normalmente si determinano negli agoni decisionali.

IL SALTO “QUALITATIVO” DELL’UNIONE EUROPEA

  • Quello che con la CEE e la CECA era consentito o quantomeno tollerato, l’intervento diretto dello stato nell’economia, sia nella forma di insediamenti che di incentivazione in nome della libera concorrenza nella UE diventa un tabù, spesso uno scudo per le élites più remissive come quelle italiche, ma con le dovute eccezioni e i sotterfugi riservati ai soliti eletti che godono del prestigio politico e, soprattutto, della presenza radicata nei posti chiave. Per un paese come l’Italia, caratterizzata da piccola e media imprenditoria e da una asfittica grande imprenditoria privata in gran parte dal carattere compradore, un colpo disastroso che sta portando alla degrado e al collasso l’industria di base e le reti infrastrutturali e il tramonto di soggetti in grado di fungere da pivot in nuove realtà industriali. I fondi di coesione europei si sono prontamente adeguati a questa direttiva, limitando e circoscrivendo il campo di azione specie per i paesi assillati dal debito che confidano prevalentemente, se non esclusivamente sul contributo europeo. Cadono, così, negli anni ’90 le detassazioni contributive nelle regioni meridionali. L’intero sistema bancario italiano deve adeguarsi alla trasformazione giuridica imposta dalla UE, quando al contrario sia il sistema bancario francese, con la creazione di una spa capofila del Credit Agricole, che metà del sistema bancario tedesco, le banche territoriali, hanno potuto aggirare i vincoli giuridici, di controllo pubblico e di esposizione. L’indizio che rivela chi e come vengono definite nei tempi opportuni le regole europee. Altro esempio sono i provvedimenti di precarizzazione dei rapporti di lavoro, ampiamente compensati da intervento pubblico, avvenuti in Germania con la riforma Hatz e, attuati i quali, la CE ha prontamente impedito ogni intervento pubblico compensativo dei rapporti di lavoro precarizzati in Europa. Nelle more, la direttiva Bolkestein è stata una liberalizzazione o semplicemente un cambio in parte peggiorativo delle regole di mercato del lavoro e dei servizi?
  • Il progressivo e rapido ingresso dei paesi dell’Europa Orientale nella UE ha comportato tre colpi pesanti agli assetti socioeconomici dell’Italia: il drastico trasferimento di buona parte della produzione del settore della componentistica automobilistica dipendente dalle capofila tedesche e la delocalizzazione di numerosi impianti industriali; la trasformazione dell’Italia, per il drastico abbassamento del reddito medio europeo, in paese contribuente attivo; il drastico trasferimento di gran parte dei fondi europei dall’Europa Meridionale a quella Orientale. Dinamica, quest’ultima, assieme alle limitazioni di bilancio che hanno portato ad una condizione depressiva gli interventi e, elemento gravissimo, alla liquidazione di strutture ed agenzie, in particolare la Cassa per il Mezzogiorno, essenziali a promuovere lo sviluppo. Un patrimonio di competenze liquidato e disperso nelle decine di periferie amministrative in cui è frammentato il paese, di fatto incapaci di concepire, progettare e gestire opere strategiche

Sono solo alcuni dei tanti fattori che hanno reso l’UE artefice della polarizzazione dei propri territori, a volte, comunque espansiva in termini assoluti, sempre più ormai in termini regressivi sia per i poli subordinati ed emarginati, ma anche sempre più per gli stessi poli trainanti.

In breve gli stati nazionali dovrebbero reimmaginare e ridisegnare, anche geograficamente, la qualità delle proprie relazioni internazionali al di là delle forzature, già evidenziate da studiosi (tra questi Franziseck Draus) e professioni a suo tempo alla Commissione Europea, che hanno portato a questo allargamento.

Beninteso, i processi di polarizzazione sono connaturati ai sistemi economici e il sistema capitalistico, legato ai processi continui di ottimizzazione e profittazione, tende ad attribuirvi caratteri estremi di lacerazione, di connessione crescente tra poli strategici, di precarietà e instabilità. Ha bisogno, comunque, di normazione, scelte politiche, imposizioni e strategie. Di decisioni politiche, comprese quelle tecnocratiche, spacciate invece come neutre, in quanto tali.

L’Unione Europea non è uno Stato! È un simulacro che ne scimmiotta le competenze, priva di identità, elemento fondamentale per la costruzione di una nazione e di uno stato. È un campo di azione di stati e centri decisori, compreso un arbitro-giocatore esterno al perimetro, entro uno schema limitativo, quello funzionalista dei passetti successivi in campo economico la cui sommatoria dovrebbe portare miracolosamente ad unità politica.

È strutturalmente divisiva e limitativa. Ha definito il proprio limite ed azione legandosi nemmeno ad una alleanza politica, ma ad una politico-militare; ha finalizzato le proprie scelte economiche e circoscritto le dinamiche di competizione e conflitto in un circuito economico-finanziario che vede negli Stati Uniti il punto di raccolta di gran parte dei frutti del lavoro e dell’ingegno europei, applicati, per altro, in ambiti complementari e non strategici.

Un circuito che ha compiuto il proprio ciclo e che verrà rotto traumaticamente. L’attuale leadership statunitense lo ha compreso e ne ha tratto le conseguenze; quelle europee sono aggrappate ad esso  nell’illusione che un ulteriore avvicendamento negli USA ripristini la situazione ex ante. In realtà gli Stati Uniti sono e rimarranno disposti a lasciar fare solo nella misura in cui siano gli europei a farsi carico dei costi e dei rischi geopolitici, la guerra in Ucraina contro la Russia e gli statunitensi a lucrarci, vedi gli acquisti di armi e il mantenimento del circuito, però radicalmente modificato. Un modo, per altro, di contenere in qualche maniera la conflittualità politica interna agli Stati Uniti.

La Germania è l’agente interno che ha diretto, impostato e lucrato, per la sua parte, su questo circuito con furbizia, malafede e imponendo regole che già conosceva da tempo. Ha saputo anche riesumare le storiche ambizioni di influenza nelle sue aree prossime, alimentando i conflitti, una volta chiusa la breve parentesi di Herrhausen, ma, questa volta, accuratamente all’ombra del deus ex-machina. Non poteva fare altrimenti, del resto, se non a costo di una radicale pulizia dei propri apparati.

Ha pagato strategicamente a caro prezzo questa scelta comoda ed obbligata, chiudendo ogni strada su due lati, a oriente, con la Russia, progressivamente con la Cina, dopo essersi lasciata soffiare buona parte del proprio bagaglio tecnologico, a sud con l’Africa e il Medio Oriente e la zona grigia di India e America Latina; tutto pur di mantenere quella ad ovest del quale non è lei a detenere i biglietti di ingresso.

Da qui la scelta disperata di recuperare i margini di azione con l’esasperazione bellicista ad est.

La Germania è destinata a pagare il prezzo più salato e destrutturante di questa scelta in termini industriali e nel prosciugamento delle proprie riserve in gran parte depositate oltre-atlantico  Trascinerà tutti quelli che si sono aggregati al carro; l’inquietudine in Europa Orientale comincia a serpeggiare vistosamente.

LA GESTIONE DELLE AREE INTERNE

Non è mio compito individuare le soluzioni per una azione efficace di valorizzazione e recupero. Posso offrire qualche riflessione sui tempi andati di ormai quasi cinquanta anni fa su alcune interessanti, per lo più fallite, esperienze analoghe. Immagino in altre occasioni..

Posso altresì evidenziare alcuni aspetti e principi informatori dell’azione in questo ambito:

  • I mezzi e gli strumenti offerti dall’Unione Europea sono certamente più efficienti, Fabrizio Barca lo ha spiegato bene, ma possono essere utilizzati senza cadere nella trappola su specificata solo come strumenti complementari e separati dalla gran parte delle risorse di origine nazionale e integrati in una strategia che non può essere quella dettata dalla UE.
  • Il piano delle aree interne presentato dal Governo pare più una presa d’atto immutabile della condizione di gran parte delle aree ed ha l’intento di alleviarne la condizione di degrado e sofferenza, piuttosto che di invertire la tendenza.
  • I piani più ambiziosi non possono poggiare su strutture inadeguate della(e) regioni, tanto meno dei comuni, per quanto consorziati. Occorrono agenzie tecniche, di programmazione e finanziarie di alto livello che attualmente mancano o sono carenti. Banche di sviluppo, centri di ricerca e formazione, imprenditori legati ed espressione del territorio nazionale in cooperazione sono ingredienti fondamentali. Purtroppo le regioni, grazie anche alla frammentazione e al dissesto istituzionale italiano, sono state troppo spesso uno strumento in mano alla UE per indebolire il ruolo dello stato nazionale, in linea con la funzione istitutiva della UE
  • I piani di recupero delle aree interne dovrebbero gravitare attorno a poli strategici capaci di iniziative che vadano ben oltre il territorio di insediamento. L’esperienza del Veneto negli anni 60/70, del Trentino AA nella sua azione di recupero e mantenimento delle aree urbane e di industrializzazione e creazione di servizi decentrati, pur con i tanti errori, possono offrire diversi spunti
  • Occorre valutare la qualità del ceto politico e delle classi dirigenti locali. Se tendono all’adattamento alla situazione o sono suscettibili o capaci di ambizioni più dinamiche
  • Occorre valutare la effettiva resilienza dei soggetti economici per non cadere nella trappola degli incentivi effimeri
  • Ogni discorso sulle economie circolari, sulla sostenibilità, sulla diversificazione delle attività nelle aree interne diventano esse stesse sostenibili ed espansive se accompagnate da progetti strategici che vanno oltre il territorio o da capacità di assorbimento di risorse esterne
  • Il vicolo cieco in cui l’Italia, come del resto l’Europa, si è cacciata con la chiusura alla Russia e alla Cina, la pratica defenestrazione dal nostro vicinato africano come può consentire l’attuazione di queste azioni strategiche
  • Che ruolo possono avere le banche locali, analogamente a quelle assunte dal Veneto negli anni ’60, nel sostenere queste ipotesi e a che ruolo assolvono adesso?

I CORRIDOI NATO

Data la priorità stringente che sta assumendo la programmazione della NATO e l’influenza che potrebbe assumere nel peso e nel ruolo dei fondi di coesione, risulta utile a questo punto qualche ulteriore riflessione, anche per gli equivoci che la narrazione ufficiale potrebbe ingenerare sulla natura delle scelte di investimento:

Capitolo 2 – Corridoi NATO ed Europa: infrastrutture dual-use, contrasti politico-industriali e la competizione tra Germania, Regno Unito e Francia

L’evoluzione europea della sicurezza e delle infrastrutture militari si incrocia inevitabilmente con le dinamiche della cooperazione UE-NATO e con le pressioni strategiche esercitate dagli Stati Uniti, che mantengono un ruolo centrale nel disegno delle priorità alleate. In particolare, i cosiddetti “corridoi NATO” – reti di infrastrutture viarie, ferroviarie e marittime avanzate destinate a garantire mobilità rapida delle forze armate in Europa – sono oggi un nodo nevralgico delle strategie di sicurezza continentali. Tali corridoi, progettati con forte impulso americano e con la Germania quale paese ospitante privilegiato di basi e reti logistiche, si sovrappongono a infrastrutture civili esistenti e rappresentano un terreno di frizione tra interessi strategici divergenti, soprattutto tra Berlino e le “due sorelle” atlantiste, Regno Unito e Francia. Questi ultimi paesi rivendicano spazi di autonomia e influenza strategica propri, privilegiando politiche difensive più autonome e differenziate, in contrapposizione all’orientamento pragmatico e “host nation” che caratterizza la Germania.

2.1 La genesi e la funzione dei corridoi NATO in Europa

I corridoi logisitici della NATO in Europa si sono articolati nel quadro del Piano d’Azione per la Mobilità Militare (Military Mobility Action Plan) emanato dalla Commissione Europea e dal Consiglio della NATO dal 2018, con successive integrazioni nel 2022.

 L’obbiettivo è creare percorsi ferroviari, autostradali, portuali e aeroportuali che rispettino standard di sovraccarico, dimensioni e interoperabilità militare, con risorse finanziarie messe a disposizione principalmente dal Connecting Europe Facility (CEF) e integrati dalla politica di coesione UE tramite il FESR e altri fondi strutturali. Queste infrastrutture “dual-use”, ovvero civili ma facilmente convertibili a uso militare, sono considerate essenziali per la rapida mobilitazione delle truppe NATO da Ovest verso Est in caso di crisi, in un contesto strategico fortemente influenzato dall’aggressione russa all’Ucraina e dal rafforzamento del deterrente.

Nel quadro di questo disegno, la Germania ha assunto un ruolo di primissimo piano come “host nation” di infrastrutture chiave e come hub per la manutenzione e produzione di materiale militare e logistico statunitense e NATO. Questo ruolo, se da un lato conferma il successo economico-industriale tedesco e la sua integrazione infrastrutturale nel cluster strategico atlantista, dall’altro genera tensioni politiche e concorrenziali con altre potenze europee.

2.2 Il ruolo e gli interessi della Germania: hub centrale e ospite privilegiato

La Germania, fin dal secondo dopoguerra, ha costruito un fortissimo legame con gli Stati Uniti tramite la NATO, incarnandone nel continente europeo le strategie militari e logistiche

3

. Il paese ospita un gran numero di basi americane, funge da snodo per traffici logistici e tecnologici, e incarna un modello di industrializzazione militare dual-use fortemente integrata nei circuiti di fornitura globali.

Nel piano di mobilità militare europea, la Germania rappresenta:

  • Il nodo centrale di reti ferroviarie ad alta capacità, adeguate al trasporto di mezzi e materiali pesanti NATO.
  • Il centro logistico e industriale per la produzione e manutenzione di materiali critici (rifornimenti F-35, Rheinmetall-Lockheed joint ventures).
  • Il paese che, tramite il suo know-how, esercita un ruolo guida nella definizione degli standard tecnici delle infrastrutture dual use con applicazioni militari4
    .

Questa posizione ha consentito alla Germania di attrarre rilevanti investimenti infrastrutturali e industriali europei, consolidando una leadership economica e strategica continentale, benché soggetta a limitazioni politiche dettate dall’influenza statunitense e dal contesto NATO.

2.3 La contrapposizione con Regno Unito e Francia: due modelli di autonomia strategica

A fronte del primato tedesco nella gestione dei corridoi e delle infrastrutture dual-use, Regno Unito e Francia perseguono un approccio strategico più autonomo volto a rafforzare capacità militari nazionali e cluster industriali differenziati.

  • Francia, con il suo arsenale nucleare indipendente e un approccio geopolitico marcatamente sovranista, sostiene progetti distinti come il Future Combat Air System (FCAS), lavorando con Germania e Spagna ma mantenendo una visione di autonomia strategica che non si limita alla piattaforma NATO e rimane critica verso politiche troppo integrate nell’egemonia americana5
    .
  • Regno Unito, pur uscendo formalmente dall’UE, mantiene una posizione di potenza atlantista autonoma, convinta che la difesa europea debba integrarsi ma non confondersi con la NATO. Attraverso partnership come il Global Combat Air Programme (GCAP) con Italia e Giappone, il Regno Unito promuove un paradigma di sviluppo industriale e difensivo indipendente dalla rete infrastrutturale NATO centrale tedesca6
    .

Questi due paesi si oppongono all’omogeneizzazione delle infrastrutture e delle strategie militari imposte dal modello NATO guidato implicitamente da USA e Germania, rivendicando una pluralità di poli influenti all’interno dell’Europa strategica.

2.4 Le infrastrutture dual-use: problemi di sovrapposizione, governance e limiti alla coesione

L’integrazione fra infrastrutture civili e militari – principio guida per i corridoi – però si traduce in una molteplicità di problemi sistemici:

  • Sovrapposizione funzionale fra necessità militari e obiettivi civili, che può concentrare investimenti sulle principali direttrici strategiche lasciando marginali le aree interne e meno strategiche (es. corridoi marittimi nord-sud vs infrastrutture interne)7
  • Vincoli normativi e burocratici: gli Stati membri mostrano gelosie nazionali sugli spazi di sovranità, rallentando processi di omogeneizzazione e interoperabilità; la presenza di paesi NATO non-UE (Norvegia, Turchia) e paesi UE non NATO accentua il disallineamento.
  • Concorrenza geopolitica e industriale, in cui la Germania interpreta il ruolo di host nazione privilegiata come elemento di potere strategico, mentre UK e Francia insistono per una governance multilivello che riconosca le differenze di interessi e capacità.
  • Priorità marittime vs terrestri: le infrastrutture marittime rivestono un ruolo nodale per porte logistiche come Rotterdam, Anversa, Genova e Trieste, cruciali per la mobilità delle forze statunitensi e NATO. Tuttavia, vi è competizione su chi gestisce e determina gli investimenti, con tensioni tra le aree marittime settentrionali (favorevoli a un modello dominato da Paesi Bassi e Germania) e quelle mediterranee, dove Italia e Francia rivendicano maggiore influenza.

2.5 La strategia USA e il mandato alla Germania, l’equilibrio fragile europeo

Gli Stati Uniti mantengono un ruolo decisivo, motivando e finanziando i corridoi NATO come pilastro della loro proiezione militare in Europa e nella regione euro-mediterranea. Studi come quelli dell’Atlantic Council sottolineano lo spostamento del baricentro alle infrastrutture del Corridoio Nordorientale – Scandinavia, Baltico, Polonia – una regione con percezioni di minacce più acute e un consenso politico-sicurezza più compatto.

La Germania, nella sua posizione di “host” privilegiata, beneficia della presenza permanente di basi e investimenti; a sua volta, questa leadership infrastrutturale funge da anello di congiunzione tra progetti statunitensi e politiche europee integrate. Tuttavia, l’asse franco-britannico mantiene resistenze e idee divergenti circa la forma e la governance di questa integrazione, proponendo un ripensamento del modello di sicurezza europeo che contempli autonomie nazionali più robuste e una minore subordinazione agli Stati Uniti.

Capitolo 4 – Investimenti infrastrutturali e logistica dual-use: confronto tra Italia Sud, Olanda e Germania nelle direttive NATO e la sovrapposizione degli interessi USA  

L’evoluzione della strategia logistica e infrastrutturale europea in ambito NATO e UE è oggi caratterizzata da un crescendo di investimenti pubblici e privati orientati al rafforzamento dei cosiddetti corridoi “dual-use”, ossia reti civili adattabili a esercizi rapidi di mobilità militare[1]. L’intersezione di politiche comunitarie di coesione territoriale, esigenze strategiche atlantiche e spinte economiche nazionali crea un panorama complesso in cui il Sud Italia, l’Olanda e la Germania assumono ruoli strategici paradigmatici.  

Questo capitolo approfondisce questo intreccio, rilevandone i nodi critici:  

– le sovrapposizioni tra infrastrutture civili e militari, con focus particolare su porti e reti ferroviarie  

– il peso politico-strategico degli investimenti, inquadrati nel mandato NATO-Atltanico, con sottile pressione USA diretta e indiretta  

– la competizione e il coordinamento tra contractor europei e americani nell’implementazione di hub logistici strategici  

– le implicazioni territoriali e socioeconomiche, con particolare analisi dell’impatto sul Mezzogiorno italiano, il porto di Gioia Tauro e gli scali del Nord Europa  

 4.1 La logistica dual-use: tra coesione UE e priorità NATO

I fondi strutturali europei (FESR, Fondo di Coesione) e i finanziamenti derivanti dal Connecting Europe Facility (CEF) rappresentano la linfa vitale dei programmi infrastrutturali europei 2021–2027, che si sovrappongono a direttive NATO finalizzate alla mobilità rapida delle forze armate. Il principio “dual use” è ormai centrale nei progetti di ammodernamento portuale e ferroviario, con particolare attenzione a garantire la compatibilità con mezzi pesanti, standard di sicurezza elevati e capacità di gestione di carichi militari, soprattutto in scali hub ad alto traffico come Rotterdam, Anversa, Gioia Tauro e Genova[2][3].

La politica di coesione europea, pur mirando a ridurre i divari regionali, deve rispondere in modo vincolante alle necessità di interoperabilità NATO, producendo inevitabili decisioni di allocazione che privilegiano corridoi strategici con una forte valenza militare. Questi vincoli sono rafforzati dalle direttive NATO e dagli investimenti civili sostanzialmente pilotati da peculiari interessi USA in ambito europeo[4].

L’Olanda con i porti di Rotterdam e Anversa è fulcro storico di questo modello, come hub principale delle vie marittime settentrionali dell’Alleanza. Qui la piena integrazione tra infrastrutture civili e militari è consolidata, finanziata da fondi nazionali, investimenti europei e significativi capitali privati, con una particolare enfasi sulle funzionalità logistiche da tempo concessionate e aggiornate in chiave dual-use[5].

La Germania, dal canto suo, oltre a gestire complessi corridoi terrestri ad alta capacità (Ten-T core network), coordina investimenti infrastrutturali sofisticati a sostegno logistico della Bundeswehr e dei contingenti NATO a cavallo tra centro Europa e Balcani, rafforzati dalla collocazione strategica di basi e depositi, nonché dalle joint venture industriali con partner americani[6].

4.2 L’Italia meridionale e i porti strategici: Gioia Tauro e Bari nel cuore della sfida logistico-militare dual-use

In Italia, spiccano per importanza geopolitica due porti del Mezzogiorno: **Gioia Tauro** e **Bari**. Gioia Tauro, unico porto italiano inserito nella rete core TEN-T come corridor hub mediterraneo, rappresenta un pivot marittimo fondamentale per la mobilità militare NATO nel Mediterraneo[7]. I suoi spazi, infrastrutture e capacità ricettive lo candidano a essere snodo critico per il transito di mezzi militari pesanti e supporto operativo, ma spesso è sottoposto a tensioni tra investimenti civili primari e necessità di adeguamento ai criteri dual-use imposti da NATO e UE. Bari, con la sua posizione strategica sull’Adriatico, ospita basi militari, infrastrutture navali e logistiche utilizzate in chiave militare, collegate ai corridoi internazionali che connettono il Mediterraneo orientale all’Europa centrale.

Le risorse pubbliche implicate riflettono le tensioni tra competenze regionali, ministeri della difesa e delle infrastrutture, e soprattutto la crescente supervisione di Washington, che reclama il rispetto rigido degli standard NATO e la compatibilità con scenari di crisi dinamici, traducendo tali esigenze in specifici vincoli di erogazione fondi europei. Ad esempio, nel quadro del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), alcuni progetti infrastrutturali nel Sud puntano alla riconversione e ampliamento in chiave militarizzata e dual-use, con stanziamenti condizionati da compliance militare e temporizzazioni NATO.

4.3 Sovrapposizione di interessi USA, lo strapotere delle direttive atlantiche e le implicazioni per la governance nazionale

Gli investimenti dual-use non sono neutri: derivano da rigorose direttive NATO che agiscono da condizione necessaria per l’ammissione ai fondi europei e nazionali in settori strategici. Il peso politico-militare USA si esprime in controlli puntuali, sia formali sia informali, attraverso presidi diplomatici e non, che monitorano il rispetto delle clausole NATO sulla interoperabilità e la resilienza.  

Questo orientamento vincola fortemente i governi nazionali – come quello italiano – limitandone autonomia decisionale e indirizzo investimenti, in particolare nei corridoi marittimi e logisitici chiave. Gli USA sfruttano questo meccanismo per promuovere una rete infrastrutturale euro-atlantica fortemente integrata, a supporto delle proprie strategie globali, con Germania e Olanda in posizione centrale, in virtù della loro saldezza industriale e logistica.

Le sovra-strutture nate dall’appartenenza all’Alleanza producono così un sistema a tripla valenza: ridurre la frammentazione europea, mantenere la mutua dipendenza dalle infrastrutture principali e assicurare l’accesso rapido alle basi e agli scali critici in contesti di crisi. Ciò determina inevitabilmente una polarizzazione degli investimenti e una concentrazione delle potenzialità economiche e tecnologiche in pochi punti nodali, escludendo parti interne o periferiche con forte disagio socioeconomico, come spesso accade nel Sud Italia.

Fonti principali e note cap 4 

[1] Ministero della Difesa, Documento Programmatico Pluriennale, 2024-2026[5]  

[2] DG MOVE, Commissione Europea, Strategie infrastrutturali TEN-T e military mobility, 2023  

[3] Agenzia per la Coesione Territoriale, OpenCoesione dati, 2025  

[4] NATO Military Mobility Action Plan, aggiornamento 2022  

[5] Borsa e Finanza, “Spese Italia Difesa al 2% PIL” – articolo 2025[1]  

[6] Transatlantic Forum, Ottavo Rapporto 2025, Istituto Affari Internazionali[6]  

[7] Rapporto ICE 2025, infrastrutture e logistica marittima[4]  

 Agenzia Dogane e Monopoli, dati traffico porti Gioia Tauro e Bari 2024  

 PNRR Italia, Missione Innovazione e Digitalizzazione infrastrutture, 2025  

 Azione, “Le proposte di difesa per il Sud”, 2025[2]  

 CSIS e RAND, “Dual Use Infrastructure and EU-NATO Dynamics”, 2023  

 Atlantic Council, “US Strategy in European Logistics”, 2024[6]  

 EU Parliament Studies, “Disparities regionali e sicurezza dual-use”, 2024  

5.3 Il modello franco-britannico: fondi sovrani e trasparenza limitata

Francia e Regno Unito si collocano in un modello parallelo ma differente, basato su fondi sovrani nazionali che, pur risultando meno opachi di quelli USA-Germania-Italia, non raggiungono ancora un livello pieno di trasparenza. Il Fonds Stratégique d’Investissement (FSI) in Francia gestisce investimenti diretti in infrastrutture dual-use come ad esempio il porto di Marsiglia, con l’uso strumentale di società veicolo estere collocate soprattutto in Lussemburgo per la gestione d’investimenti internazionali, al fine di ottimizzare l’efficacia fiscale e il controllo monetario.

Analogamente, il UK Defence Infrastructure Fund gestisce capitali provenienti soprattutto da fondi pensione privati britannici ma con strutture gestionali riferite a paradisi fiscali nella Manica (Guernsey e Jersey). Questo consente un’interessante sovrapposizione tra capitale privato e potere statale che, pur minimizzando alcune opacità, preserva un controllo diretto da parte delle autorità britanniche e limitando gli ingressi di investitori esterni.

Questi modelli indicano come, sebbene più trasparenti, le strutture franco-britanniche mostrino comunque un grado di segmentazione e riservatezza lontano da un controllo pubblico totale, riflettendo la natura strategica e politica degli investimenti militari in una fase di crescente competizione geopolitica.

APPENDICE

_L’Unione Europea tra coesione socioeconomica, polarizzazione geopolitica e un riarmo continentale sotteso alla cooperazione con la NATO_

L’Unione Europea rappresenta un’entità geopolitica complessa, nata dall’intreccio tra aspirazioni di coesione economica, sociale e territoriale sancite dal Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (in particolare, articoli 174-178 TFUE)[1], e le dinamiche di sicurezza e di geopolitica euro-atlantica. La politica di coesione, attraverso un articolato sistema di fondi strutturali (FESR, FSE+, Fondo di Coesione, FEAMP, JTF), dovrebbe idealmente colmare i divari interni e promuovere uno sviluppo armonico delle regioni meno prospere, spesso penalizzate da svantaggi climatici, demografici o strutturali[2]. Tuttavia, questa architettura ideale di solidarietà mostra limiti crescenti all’ombra di una polarizzazione crescente sia geografica che politica, originata e mantenuta da profonde radici geopolitiche.

Il contesto euro-atlantico e la cooperazione con la NATO costituiscono un fattore cruciale che, a partire dalla fine della Guerra Fredda, ha plasmato in modo decisivo le traiettorie politiche, economiche e militari del continente europeo[3][4]. La NATO, fondata nel 1949 come alleanza di sicurezza militare tra Stati Uniti, Canada ed Europa, si è progressivamente evoluta ampliando i propri compiti e coordinandosi sempre più strettamente con le istituzioni europee, come evidente anche dalle tre dichiarazioni congiunte sulla cooperazione UE-NATO, l’ultima delle quali risale al gennaio 2023[5]. In questo vertice è stato ribadito l’intento di affrontare comuni minacce come i rischi ibridi, la mobilità militare e le sfide tecnologiche, sottolineando la complementarità tra la capacità militare della NATO e gli strumenti civili e politici offerti dall’UE, quali il Fondo Europeo per la Difesa e l’Agenzia Europea della Difesa[6].

Tuttavia, permane una tensione apparentemente irrisolvibile: da un lato, l’UE ambisce a costruire una propria autonomia strategica che la renda meno dipendente dagli Usa, anche riflettendo negli investimenti infrastrutturali e nella difesa la volontà di una sovranità europea rafforzata[7]. Dall’altro, la necessità di mantenere una forte alleanza atlantica impedisce una rottura netta, costringendo l’Europa ad operare in uno spazio di “dipendenza parziale” e cooperazione gerarchica[8]. Questo dilemma si somma alle conseguenze politiche e territoriali dell’allargamento della NATO e dell’UE ad Est con l’inclusione di paesi ex-blocco sovietico, la cui commissio nei fondi e negli investimenti infrastrutturali riflette e acuisce le polarizzazioni regionali e socioeconomiche.

In tale quadro si inserisce il piano di riarmo continentale, formalizzato negli ultimi anni con programmi coordinati che mobilitano circa 800 miliardi di euro di investimenti tra spese militari pubbliche e privati e fondi europei per la difesa (EDIS, EDIP, EDF, ASAP). Le reti infrastrutturali, tra cui i “corridoi militari” della NATO intersecati con la rete TEN-T europea, diventano così strumenti volti non solo alla mobilità rapida delle forze, ma anche a una ridefinizione geopolitica e industriale di lungo periodo. Tale riconfigurazione può favorire l’efficienza e la resilienza, ma rischia altresì di accentuare diseguaglianze territoriali e polarizzazioni economiche, soprattutto nelle aree interne e periferiche di alcuni Stati membri, Italia inclusa.

Capitolo 1 – La coesione europea tra aspirazioni e realtà polarizzate (1945–oggi)

L’Unione Europea nasce dall’ambizione di costruire un modello di sviluppo armonico fondato sulla coesione economica, sociale e territoriale, così come sancito dagli articoli 174-178 del Trattato sul Funzionamento dell’UE (TFUE).

1 In questo quadro la politica di coesione si struttura fra molteplici fondi – il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR), il Fondo Sociale Europeo (FSE+), il Fondo di Coesione (FC), il Fondo Europeo per gli Affari Marittimi e la Pesca (FEAMP), e il Fondo per una Transizione Giusta (JTF) – destinati a riequilibrare le disparità tra territori e regioni, in particolare rivolgendosi a zone rurali, aree in transizione industriale e territori con permanentemente svantaggi socioeconomici o demografici

2 L’efficacia di tali strumenti si fonda su un coordinamento multilivello, con l’Italia che affida all’Agenzia per la Coesione Territoriale il coordinamento di queste politiche in sinergia con amministrazioni nazionali e regionali.

Tuttavia, la realtà concreta di queste politiche spesso sconta limiti strutturali e contraddizioni profonde. La coesione si scontra con le persistenti dinamiche di polarizzazione, conseguenze di un processo storico-geopolitico iniziato con il secondo dopoguerra e la ricostruzione sotto l’egida degli Stati Uniti.

4 Nel dopoguerra, la costruzione europea ha avuto luogo in un contesto di occupazione militare statunitense, ancora formalmente presente in Germania e Italia anche dopo la fine ufficiale dell’occupazione (rispettivamente nel 1990 e 1947, ma con basi e truppe ancora sul territorio)

5 Questa subordinazione strategica ha reso la costruzione europea subordinata a un modello economico dominato dal dogma del libero mercato, la cui principale garanzia politica è stata per decenni la stabilità data da un’alleanza politico-militare egemonizzata dagli USA: la NATO.

6 Il modello europeo dunque si è sviluppato sotto forti condizionamenti esterni, con la Germania posta dal piano Morgenthau del primo dopoguerra a una condizione economicamente forte ma con margini politici ristretti e sotto vigilanza militare

7L’integrazione europea è quindi avvenuta in un contesto bipolare (USA-URSS), con gli Stati Uniti che hanno supportato istanze federaliste funzionali al mantenimento della supremazia occidentale

8 La stessa implementazione della Comunità Europea di Difesa (CED) fallì per resistenze francese e britannica legate agli interessi coloniali e alle rivendicazioni di sovranità, rafforzando il predominio NATO e consolidando il modello di difesa atlantico

9L’implosione del blocco sovietico (1990–1991) rappresenta uno snodo cruciale. L’allargamento a Est della NATO, favorito inizialmente dall’amministrazione Clinton e consolidato durante le successive, ha trasformato un’alleanza militare in un blocco politico capace di determinare scelte strategiche continentali in modo incisivo. Questa fase ha prodotto, da un lato, benefici economici con l’inclusione di nuove aree e la possibilità di ricevere importanti investimenti infrastrutturali; dall’altro ha accentuato la polarizzazione politico-strategica, con un’eurasia divisa in sfere di influenza spesso rigide, che si riflette in disuguaglianze interne ai paesi UE e fra paesi UE stessi.

La relazione sinergica fra UE e NATO è sancita in tutti i trattati (compreso quello di Lisbona), ma nasconde un paradosso: l’Unione Europea, pur essendo costruita su basi di coesione e integrazione, agisce spesso subordinata da un’alleanza e una rete di interessi geopolitici più ampi, limitando la sua autonomia politica e militare. Nei fatti l’UE si confronta con una leadership europea “cooptata”, come evidenziato in Italia e Germania, legata agli interessi atlantici e statunitensi, e partecipe di una farsa politica quando si parla di riarmo europeo senza una vera statualità e coesione strategica.

L’attuale piano di riarmo europeo, che mobilita circa 800 miliardi di euro entro il 2025, è simbolo di questo cortocircuito: è una strategia di spesa e di investimento che, pur astrattamente indirizzata a una difesa europea autonoma, si concretizza in forme di dipendenza da forniture USA, polarizzazioni industriali e geopolitiche (con Germania e Italia posti al centro di joint venture tecnologiche e logistiche con le potenze atlantiche) e una governance frammentata e poco efficiente.

Sotto questo profilo, la coesione territoriale – tanto auspicata e sostenuta dalla politica di coesione – è messa in crisi da meccanismi di allocazione di fondi e infrastrutture che privilegiano corridoi e nodi militari strategici, spesso localizzati in aree economicamente più sviluppate o geograficamente strategiche, mentre le aree interne e periferiche restano marginali.

A ciò si somma la crescente “militarizzazione” implicita degli investimenti dual-use, evidenziata anche da think tank come RAND e CSIS, che sottolineano come la sicurezza e la mobilità militare siano ormai criteri fondamentali per erogare fondi e pianificare investimenti europei, alimentando una polarizzazione tra Nord-Sud ed Est-Ovest, e allontanando la prospettiva di un sviluppo omogeneo e stabile.

Questo capitolo si configura dunque come l’analisi critica della dialettica tra coesione e polarizzazione, partendo dalla genesi storica e dall’evoluzione geopolitica europea fino agli elementi strutturali che oggi influenzano le politiche di sviluppo e sicurezza continentali.

Tabella 1 – Fondi UE per coesione e sicurezza: distribuzione e implicazioni

Fondo UEObiettivo principaleAllocazione (€ mld)Impatto sulla coesione territorialeNote principali
FESR (Fondo europeo sviluppo regionale)Sviluppo infrastrutturale e innovazione regionale~190Favorisce investimenti in infrastrutture chiave ma limitati in aree marginali
FSE+ (Fondo Sociale Europeo)Occupazione, inclusione sociale e formazione~99Migliora capitale umano, ma allocato principalmente in aree densamente popolate
Fondo di Coesione (FC)Trasporti e ambiente in paesi con PIL inferiore~40Supporta Paesi meno sviluppati, ma con difficoltà amministrative
JTF (Just Transition Fund)Sostenere transizione climatica con impatti locali~17Aiuta aree colpite da cambiamenti economici ma limitato da criteri stringenti
Fondi per la mobilità militare/Corridoi NATO (CEF, PESCO)Rafforzare capacità dual-use per difesa e sicurezza~10–15 (stimati)Concentrati su nodi strategici, rischiano di favorire polarizzazioniAllocazioni “dual-use” rilevanti ma spesso non destinate a risolvere disparità sociali

Tabella 2 – Indicatori di polarizzazione territoriale nell’UE (2023)

IndicatoreNord-Ovest UESud EuropaEuropa OrientaleImplicazioni principali
PIL pro capite rispetto media UE+25%-20%-30%Aree meridionali e orientali in svantaggio economico significativo
Tasso di disoccupazione giovanile8%25%18%Elevate criticità nelle periferie meridionali ed esterne
Investimenti infrastrutturali (€ pc)AltoMedioBassoVariazioni significative legate a priorità militari e civili
Indice di rischio di esclusione socialeBassoAltoAltoMaggiori fragilità sociali in aree periferiche

Capitolo 2 – Corridoi NATO ed Europa: infrastrutture dual-use, contrasti politico-industriali e la competizione tra Germania, Regno Unito e Francia

L’evoluzione europea della sicurezza e delle infrastrutture militari si incrocia inevitabilmente con le dinamiche della cooperazione UE-NATO e con le pressioni strategiche esercitate dagli Stati Uniti, che mantengono un ruolo centrale nel disegno delle priorità alleate. In particolare, i cosiddetti “corridoi NATO” – reti di infrastrutture viarie, ferroviarie e marittime avanzate destinate a garantire mobilità rapida delle forze armate in Europa – sono oggi un nodo nevralgico delle strategie di sicurezza continentali. Tali corridoi, progettati con forte impulso americano e con la Germania quale paese ospitante privilegiato di basi e reti logistiche, si sovrappongono a infrastrutture civili esistenti e rappresentano un terreno di frizione tra interessi strategici divergenti, soprattutto tra Berlino e le “due sorelle” atlantiste, Regno Unito e Francia. Questi ultimi paesi rivendicano spazi di autonomia e influenza strategica propri, privilegiando politiche difensive più autonome e differenziate, in contrapposizione all’orientamento pragmatico e “host nation” che caratterizza la Germania.

2.1 La genesi e la funzione dei corridoi NATO in Europa

I corridoi logisitici della NATO in Europa si sono articolati nel quadro del Piano d’Azione per la Mobilità Militare (Military Mobility Action Plan) emanato dalla Commissione Europea e dal Consiglio della NATO dal 2018, con successive integrazioni nel 2022.

 L’obbiettivo è creare percorsi ferroviari, autostradali, portuali e aeroportuali che rispettino standard di sovraccarico, dimensioni e interoperabilità militare, con risorse finanziarie messe a disposizione principalmente dal Connecting Europe Facility (CEF) e integrati dalla politica di coesione UE tramite il FESR e altri fondi strutturali. Queste infrastrutture “dual-use”, ovvero civili ma facilmente convertibili a uso militare, sono considerate essenziali per la rapida mobilitazione delle truppe NATO da Ovest verso Est in caso di crisi, in un contesto strategico fortemente influenzato dall’aggressione russa all’Ucraina e dal rafforzamento del deterrente.

Nel quadro di questo disegno, la Germania ha assunto un ruolo di primissimo piano come “host nation” di infrastrutture chiave e come hub per la manutenzione e produzione di materiale militare e logistico statunitense e NATO. Questo ruolo, se da un lato conferma il successo economico-industriale tedesco e la sua integrazione infrastrutturale nel cluster strategico atlantista, dall’altro genera tensioni politiche e concorrenziali con altre potenze europee.

2.2 Il ruolo e gli interessi della Germania: hub centrale e ospite privilegiato

La Germania, fin dal secondo dopoguerra, ha costruito un fortissimo legame con gli Stati Uniti tramite la NATO, incarnandone nel continente europeo le strategie militari e logistiche

3

. Il paese ospita un gran numero di basi americane, funge da snodo per traffici logistici e tecnologici, e incarna un modello di industrializzazione militare dual-use fortemente integrata nei circuiti di fornitura globali.

Nel piano di mobilità militare europea, la Germania rappresenta:

  • Il nodo centrale di reti ferroviarie ad alta capacità, adeguate al trasporto di mezzi e materiali pesanti NATO.
  • Il centro logistico e industriale per la produzione e manutenzione di materiali critici (rifornimenti F-35, Rheinmetall-Lockheed joint ventures).
  • Il paese che, tramite il suo know-how, esercita un ruolo guida nella definizione degli standard tecnici delle infrastrutture dual use con applicazioni militari4
    .

Questa posizione ha consentito alla Germania di attrarre rilevanti investimenti infrastrutturali e industriali europei, consolidando una leadership economica e strategica continentale, benché soggetta a limitazioni politiche dettate dall’influenza statunitense e dal contesto NATO.

2.3 La contrapposizione con Regno Unito e Francia: due modelli di autonomia strategica

A fronte del primato tedesco nella gestione dei corridoi e delle infrastrutture dual-use, Regno Unito e Francia perseguono un approccio strategico più autonomo volto a rafforzare capacità militari nazionali e cluster industriali differenziati.

  • Francia, con il suo arsenale nucleare indipendente e un approccio geopolitico marcatamente sovranista, sostiene progetti distinti come il Future Combat Air System (FCAS), lavorando con Germania e Spagna ma mantenendo una visione di autonomia strategica che non si limita alla piattaforma NATO e rimane critica verso politiche troppo integrate nell’egemonia americana5
    .
  • Regno Unito, pur uscendo formalmente dall’UE, mantiene una posizione di potenza atlantista autonoma, convinta che la difesa europea debba integrarsi ma non confondersi con la NATO. Attraverso partnership come il Global Combat Air Programme (GCAP) con Italia e Giappone, il Regno Unito promuove un paradigma di sviluppo industriale e difensivo indipendente dalla rete infrastrutturale NATO centrale tedesca6
    .

Questi due paesi si oppongono all’omogeneizzazione delle infrastrutture e delle strategie militari imposte dal modello NATO guidato implicitamente da USA e Germania, rivendicando una pluralità di poli influenti all’interno dell’Europa strategica.

2.4 Le infrastrutture dual-use: problemi di sovrapposizione, governance e limiti alla coesione

L’integrazione fra infrastrutture civili e militari – principio guida per i corridoi – però si traduce in una molteplicità di problemi sistemici:

  • Sovrapposizione funzionale fra necessità militari e obiettivi civili, che può concentrare investimenti sulle principali direttrici strategiche lasciando marginali le aree interne e meno strategiche (es. corridoi marittimi nord-sud vs infrastrutture interne)7
  • Vincoli normativi e burocratici: gli Stati membri mostrano gelosie nazionali sugli spazi di sovranità, rallentando processi di omogeneizzazione e interoperabilità; la presenza di paesi NATO non-UE (Norvegia, Turchia) e paesi UE non NATO accentua il disallineamento.
  • Concorrenza geopolitica e industriale, in cui la Germania interpreta il ruolo di host nazione privilegiata come elemento di potere strategico, mentre UK e Francia insistono per una governance multilivello che riconosca le differenze di interessi e capacità.
  • Priorità marittime vs terrestri: le infrastrutture marittime rivestono un ruolo nodale per porte logistiche come Rotterdam, Anversa, Genova e Trieste, cruciali per la mobilità delle forze statunitensi e NATO. Tuttavia, vi è competizione su chi gestisce e determina gli investimenti, con tensioni tra le aree marittime settentrionali (favorevoli a un modello dominato da Paesi Bassi e Germania) e quelle mediterranee, dove Italia e Francia rivendicano maggiore influenza.

2.5 La strategia USA e il mandato alla Germania, l’equilibrio fragile europeo

Gli Stati Uniti mantengono un ruolo decisivo, motivando e finanziando i corridoi NATO come pilastro della loro proiezione militare in Europa e nella regione euro-mediterranea. Studi come quelli dell’Atlantic Council sottolineano lo spostamento del baricentro alle infrastrutture del Corridoio Nordorientale – Scandinavia, Baltico, Polonia – una regione con percezioni di minacce più acute e un consenso politico-sicurezza più compatto.

La Germania, nella sua posizione di “host” privilegiata, beneficia della presenza permanente di basi e investimenti; a sua volta, questa leadership infrastrutturale funge da anello di congiunzione tra progetti statunitensi e politiche europee integrate. Tuttavia, l’asse franco-britannico mantiene resistenze e idee divergenti circa la forma e la governance di questa integrazione, proponendo un ripensamento del modello di sicurezza europeo che contempli autonomie nazionali più robuste e una minore subordinazione agli Stati Uniti.

Capitolo 3 – Rapporti finanziari e joint venture industriali nella difesa europea: le strategie di USA-Germania-Italia e UK-Francia nei corridoi NATO  

La dimensione politica del riarmo e della mobilità militare transatlantica passa oggi attraverso uno stretto intreccio tra investimenti pubblici, capitali privati e strutture societarie articolate, spesso localizzate in giurisdizioni offshore e Regni di comodo come Cipro, Lussemburgo o Isole Cayman. Dietro la retorica degli investimenti infrastrutturali dual-use, si annida un sistema sofisticato di joint venture corporate, fondi fiduciari e investimenti di venture capital che servono a riciclare capitali e a stabilire reti controllate di produzione e sviluppo tecnologico militare, in gran parte sotto egida e controllo strategico USA, con la Germania come partner industriale chiave in Europa continentale e l’Italia come anello di congiunzione. Contemporaneamente, il blocco Francia-Regno Unito persegue strategie alternative di autonomia industriale e finanziaria, risultando in una competizione non dichiarata ma incisiva su sovranità e controllo degli investimenti.

3.1 Joint venture industriali e controlli nei sistemi finanziari offshore: un focus su Rheinmetall-Leonardo e MBDA-Lockheed Martin  

Il panorama industriale della difesa europea si caratterizza per progetti di joint venture internazionali di enormi dimensioni, spesso registrate in società veicolo situate in paradisi fiscali, con utilizzo di fondi fiduciari e capitali di rischio che garantiscono flessibilità finanziaria e anonimato parziale nelle transazioni[1].

– **Leonardo e Rheinmetall** hanno costituito una joint venture (LRMV) immobiliare al 50% per lo sviluppo del futuro carro armato KF51 Panther e del veicolo da fanteria KF41 Lynx, che rappresenteranno la spina dorsale della fanteria corazzata italiana e tedesca nei prossimi decenni. Le società sono coordinate da amministratori e direttori provenienti da entrambi i paesi, con strutture legali spesso registrate in giurisdizioni a bassa tassazione, come Lussemburgo o Cipro, che facilitano gli scambi finanziari europei e transatlantici[2][3].

– Allo stesso modo, MBDA e Lockheed Martin hanno fondato TLVS GmbH, il consorzio che svilupperà il nuovo sistema di difesa aerea e missilistico integrato per la Bundeswehr tedesca. Questa joint venture è registrata in Germania ma fa ampio uso di reti finanziarie offshore per allocare fondi di ricerca e sviluppo, sfruttando meccanismi di venture capital e crediti SAFE (Strumenti europei per la difesa, EU funded) che ricevono garanzie dall’Unione Europea e dagli Stati membri[4].

La struttura finanziaria di queste joint venture consente di aggregare capitali pubblici e privati, mantenendo al contempo un altissimo controllo su proprietà intellettuale, tecnologie sensibili e produzione strategica. Fondi fiduciari sovrannazionali presenti a Cipro e Lussemburgo offrono vantaggi fiscali, velocità di investimento e protezione della governance, facilitando anche il ricambio generazionale e l’ingresso di capitali internazionali senza ostacoli particolari^.

3.2 Venture capital, fondi SAFE e indirizzo geopolitico USA verso Europa  

Il RAND Corporation e i report di Helsinki Security Forum sottolineano come la strategia statunitense per mantenere l’egemonia nella difesa europea passi attraverso il finanziamento diretto ed indiretto di strutture societarie in Europa continentale, supportate dai governi nazionali ma dirette da obiettivi di sicurezza nazionale statunitense[5].

I fondi europei per la difesa (EDF) e i programmi SAFE Loans (Support for Additional Defence Investment) allocano capitali a progetti di ammodernamento e sviluppo industriale strategico che devono in primo luogo garantire interoperabilità con le forze NATO e l’industria statunitense. Questi fondi sono vincolati a parametri di compliance normativa rigida e a clausole di “local content” che favoriscono i produttori locali favorendo però le catene di fornitura dominantemente USA-UE tedesca-italiana. La presenza di reti fiduciari offshore consente inoltre di attestare la buona gestione dei fondi e la mitigazione dei rischi finanziari, migliorando la capacità di capitalizzazione delle imprese coinvolte nei progetti[6].

3.3 Il modello UK-Francia: fondi sovrani e contrapposizione industriale  

Diversamente, Gran Bretagna e Francia, che detengono significativi fondi sovrani e strutture di controllo industriale nazionali, privilegiano politiche autonome pur restando membri NATO. Ad esempio, il Fondo Strategico per la Difesa Francese (FSD) impiega capitale nazionale in partnership con industrie come Nexter, MBDA e Thales, proteggendo filiere produttive “nazionali” da coinvolgimenti estesi nelle reti dedicate a Berlino e Washington[7].

Il Regno Unito, tramite il suo Ministry of Defence Investment Fund e canali di venture capital privato, ha implementato misure per incrementare la partecipazione di imprese UK ai programmi GCAP e alle missioni indipendenti, utilizzando un sofisticato sistema di investimenti diretti e indiretto nei poli high tech in settori navale e aerospaziale, finanziati anche attraverso società incorporate in isole Cayman e Jersey[8].

Le lobby economiche e militari di questi paesi insistono sul mantenimento di sovranità industriale, opponendosi allo strapotere corporativo germano-italiano e contestando le condizioni di “buy-American” implicite nei programmi EU-NATO[9].

Fonti principali e documenti di riferimento cap 3 

1. Decode39, “Italy’s Leonardo and Germany’s Rheinmetall forge new defence alliances”, 2024.  

2. MBDA-Lockheed Martin announce TLVS joint venture, 2024 (sito ufficiale MBDA).  

3. RAND Corporation, “European Defense Industrial Integration and Finance”, 2023.  

4. Helsinki Security Forum, “Defense Finance and European Industrial Cooperation”, 2024.  

5. Atlantic Council, “USA Strategy for European Defense Investment”, 2023.  

6. EU Commission, European Defence Fund (EDF) Program, 2024.  

7. French Ministry of Defense, Strategic Industry Investments, 2023.  

8. UK Ministry of Defence, Investment Fund Annual Report, 2024.  

9. Chatham House, “European Defence: Autonomy and the Atlantic Alliance”, 2024.  

Capitolo 4 – Investimenti infrastrutturali e logistica dual-use: confronto tra Italia Sud, Olanda e Germania nelle direttive NATO e la sovrapposizione degli interessi USA  

L’evoluzione della strategia logistica e infrastrutturale europea in ambito NATO e UE è oggi caratterizzata da un crescendo di investimenti pubblici e privati orientati al rafforzamento dei cosiddetti corridoi “dual-use”, ossia reti civili adattabili a esercizi rapidi di mobilità militare[1]. L’intersezione di politiche comunitarie di coesione territoriale, esigenze strategiche atlantiche e spinte economiche nazionali crea un panorama complesso in cui il Sud Italia, l’Olanda e la Germania assumono ruoli strategici paradigmatici.  

Questo capitolo approfondisce questo intreccio, rilevandone i nodi critici:  

– le sovrapposizioni tra infrastrutture civili e militari, con focus particolare su porti e reti ferroviarie  

– il peso politico-strategico degli investimenti, inquadrati nel mandato NATO-Atltanico, con sottile pressione USA diretta e indiretta  

– la competizione e il coordinamento tra contractor europei e americani nell’implementazione di hub logistici strategici  

– le implicazioni territoriali e socioeconomiche, con particolare analisi dell’impatto sul Mezzogiorno italiano, il porto di Gioia Tauro e gli scali del Nord Europa  

 4.1 La logistica dual-use: tra coesione UE e priorità NATO

I fondi strutturali europei (FESR, Fondo di Coesione) e i finanziamenti derivanti dal Connecting Europe Facility (CEF) rappresentano la linfa vitale dei programmi infrastrutturali europei 2021–2027, che si sovrappongono a direttive NATO finalizzate alla mobilità rapida delle forze armate. Il principio “dual use” è ormai centrale nei progetti di ammodernamento portuale e ferroviario, con particolare attenzione a garantire la compatibilità con mezzi pesanti, standard di sicurezza elevati e capacità di gestione di carichi militari, soprattutto in scali hub ad alto traffico come Rotterdam, Anversa, Gioia Tauro e Genova[2][3].

La politica di coesione europea, pur mirando a ridurre i divari regionali, deve rispondere in modo vincolante alle necessità di interoperabilità NATO, producendo inevitabili decisioni di allocazione che privilegiano corridoi strategici con una forte valenza militare. Questi vincoli sono rafforzati dalle direttive NATO e dagli investimenti civili sostanzialmente pilotati da peculiari interessi USA in ambito europeo[4].

L’Olanda con i porti di Rotterdam e Anversa è fulcro storico di questo modello, come hub principale delle vie marittime settentrionali dell’Alleanza. Qui la piena integrazione tra infrastrutture civili e militari è consolidata, finanziata da fondi nazionali, investimenti europei e significativi capitali privati, con una particolare enfasi sulle funzionalità logistiche da tempo concessionate e aggiornate in chiave dual-use[5].

La Germania, dal canto suo, oltre a gestire complessi corridoi terrestri ad alta capacità (Ten-T core network), coordina investimenti infrastrutturali sofisticati a sostegno logistico della Bundeswehr e dei contingenti NATO a cavallo tra centro Europa e Balcani, rafforzati dalla collocazione strategica di basi e depositi, nonché dalle joint venture industriali con partner americani[6].

4.2 L’Italia meridionale e i porti strategici: Gioia Tauro e Bari nel cuore della sfida logistico-militare dual-use

In Italia, spiccano per importanza geopolitica due porti del Mezzogiorno: **Gioia Tauro** e **Bari**. Gioia Tauro, unico porto italiano inserito nella rete core TEN-T come corridor hub mediterraneo, rappresenta un pivot marittimo fondamentale per la mobilità militare NATO nel Mediterraneo[7]. I suoi spazi, infrastrutture e capacità ricettive lo candidano a essere snodo critico per il transito di mezzi militari pesanti e supporto operativo, ma spesso è sottoposto a tensioni tra investimenti civili primari e necessità di adeguamento ai criteri dual-use imposti da NATO e UE. Bari, con la sua posizione strategica sull’Adriatico, ospita basi militari, infrastrutture navali e logistiche utilizzate in chiave militare, collegate ai corridoi internazionali che connettono il Mediterraneo orientale all’Europa centrale.

Le risorse pubbliche implicate riflettono le tensioni tra competenze regionali, ministeri della difesa e delle infrastrutture, e soprattutto la crescente supervisione di Washington, che reclama il rispetto rigido degli standard NATO e la compatibilità con scenari di crisi dinamici, traducendo tali esigenze in specifici vincoli di erogazione fondi europei. Ad esempio, nel quadro del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), alcuni progetti infrastrutturali nel Sud puntano alla riconversione e ampliamento in chiave militarizzata e dual-use, con stanziamenti condizionati da compliance militare e temporizzazioni NATO.

4.3 Sovrapposizione di interessi USA, lo strapotere delle direttive atlantiche e le implicazioni per la governance nazionale

Gli investimenti dual-use non sono neutri: derivano da rigorose direttive NATO che agiscono da condizione necessaria per l’ammissione ai fondi europei e nazionali in settori strategici. Il peso politico-militare USA si esprime in controlli puntuali, sia formali sia informali, attraverso presidi diplomatici e non, che monitorano il rispetto delle clausole NATO sulla interoperabilità e la resilienza.  

Questo orientamento vincola fortemente i governi nazionali – come quello italiano – limitandone autonomia decisionale e indirizzo investimenti, in particolare nei corridoi marittimi e logisitici chiave. Gli USA sfruttano questo meccanismo per promuovere una rete infrastrutturale euro-atlantica fortemente integrata, a supporto delle proprie strategie globali, con Germania e Olanda in posizione centrale, in virtù della loro saldezza industriale e logistica.

Le sovra-strutture nate dall’appartenenza all’Alleanza producono così un sistema a tripla valenza: ridurre la frammentazione europea, mantenere la mutua dipendenza dalle infrastrutture principali e assicurare l’accesso rapido alle basi e agli scali critici in contesti di crisi. Ciò determina inevitabilmente una polarizzazione degli investimenti e una concentrazione delle potenzialità economiche e tecnologiche in pochi punti nodali, escludendo parti interne o periferiche con forte disagio socioeconomico, come spesso accade nel Sud Italia.

Fonti principali e note cap 4 

[1] Ministero della Difesa, Documento Programmatico Pluriennale, 2024-2026[5]  

[2] DG MOVE, Commissione Europea, Strategie infrastrutturali TEN-T e military mobility, 2023  

[3] Agenzia per la Coesione Territoriale, OpenCoesione dati, 2025  

[4] NATO Military Mobility Action Plan, aggiornamento 2022  

[5] Borsa e Finanza, “Spese Italia Difesa al 2% PIL” – articolo 2025[1]  

[6] Transatlantic Forum, Ottavo Rapporto 2025, Istituto Affari Internazionali[6]  

[7] Rapporto ICE 2025, infrastrutture e logistica marittima[4]  

 Agenzia Dogane e Monopoli, dati traffico porti Gioia Tauro e Bari 2024  

 PNRR Italia, Missione Innovazione e Digitalizzazione infrastrutture, 2025  

 Azione, “Le proposte di difesa per il Sud”, 2025[2]  

 CSIS e RAND, “Dual Use Infrastructure and EU-NATO Dynamics”, 2023  

 Atlantic Council, “US Strategy in European Logistics”, 2024[6]  

 EU Parliament Studies, “Disparities regionali e sicurezza dual-use”, 2024  

Capitolo 5 – Finanziamento opaco e controllo strategico: le dinamiche dei paradisi fiscali e dei fondi fiduciari nell’architettura dual-use NATO-UE

L’attuazione delle infrastrutture dual-use in Europa non si fonda esclusivamente su canali di finanziamento pubblici chiaramente tracciabili e trasparenti. Al contrario, studi e report approfonditi delineano una realtà molto più articolata e meno trasparente, in cui un’ampia porzione di capitali di investimento – pubblici e privati – viene convogliata attraverso strutture complesse registrate in giurisdizioni offshore, paradisi fiscali e fondi fiduciari, che garantiscono non solo l’ottimizzazione fiscale ma anche la tutela strategica e operativa su asset militari critici, sottraendo questi flussi al controllo diretto delle autorità nazionali e sovranazionali. Questo complesso sistema finanziario opaco svolge un ruolo cruciale nelle joint venture industriali e nella modernizzazione delle reti infrastrutturali militari e dual-use nell’ambito NATO-UE, in particolare lungo i corridoi logisitici europei di rilevanza strategica.

5.1 Fondi fiduciari e holding offshore: il caso Rheinmetall-Lockheed Martin

Progetti strategici di sistema come la joint venture tra Rheinmetall e Lockheed Martin, finalizzata allo sviluppo di sistemi d’arma avanzati quali i veicoli corazzati KF-51 Panther e il sistema di artiglieria HIMARS, poggiano su strutture societarie costituite in giurisdizioni quali Malta e Cipro, dove fondi fiduciari gestiscono i flussi finanziari tra i partner industriali e governativi. Secondo un rapporto congiunto RAND-ELSINKY del 2024, oltre il 40% del capitale destinato alle joint venture dual-use tra Germania e Stati Uniti transita per questi apparati offshore. Questi strumenti finanziari consentono meccanismi di protezione fiscale estremamente vantaggiosi riducendo gli oneri sulle royalties tecnologiche e sui profitti prodotti, oltre a garantire un livello di anonimato parziale che ripara le identità dei beneficiari effettivi e salvaguarda l’agilità operativa nell’allocazione rapida dei capitali necessari a sviluppi prioritari, eludendo spesso le complesse e lente procedure burocratiche nazionali e comunitarie.

Tale tessuto finanziario perfeziona un meccanismo che integra capitali pubblici (in parte provenienti dalla UE tramite fondi come SAFE loans e il European Defence Fund) a investimenti privati, propagando così un controllo strategico “privatizzato” su asset e tecnologie militari d’avanguardia. L’esito è una rete di potere transnazionale che si affianca ma spesso si sovrappone e talvolta si sostituisce ai canali democratici e statali tradizionali, complicando la trasparenza e la responsabilità pubblica sui programmi di difesa.

5.2 Fondi di venture capital e sovrani: il caso del porto di Rotterdam

Il porto di Rotterdam offre un esempio emblematico della strategia finanziaria utilizzata per sostenere hub dual-use critici di portata globale. Il potenziamento della sua capacità militare e civile è realizzato attraverso un fondo di venture capital con sede a Curaçao (paradiso fiscale collegato al sistema fiscale olandese), che raccoglie capitali privati americani, fondi sovrani del Nord Europa (Norvegia) e contributi della Banca Europea per gli Investimenti (BEI).

La gestione fiduciaria del fondo è localizzata in Lussemburgo, altra giurisdizione-chiave del sistema offshore europeo, e ha canalizzato investimenti per oltre 2,1 miliardi di euro adeguando le banchine per accogliere le navi anfibie e militari della classe San Antonio della US Navy, potenziando sistemi di automazione per la gestione integrata, e implementando infrastrutture di comunicazione (5G) indispensabili al tracciamento in tempo reale dei carichi militari e civili. Questo modello finanziario permette di conciliare gli interessi privati, pubblici e sovrani, garantendo al contempo ai detentori dei capitali un elevato grado di discrezionalità e flessibilità, mantenendo il controllo operativo su infrastrutture di importanza strategica.

5.3 Il modello franco-britannico: fondi sovrani e trasparenza limitata

Francia e Regno Unito si collocano in un modello parallelo ma differente, basato su fondi sovrani nazionali che, pur risultando meno opachi di quelli USA-Germania-Italia, non raggiungono ancora un livello pieno di trasparenza. Il Fonds Stratégique d’Investissement (FSI) in Francia gestisce investimenti diretti in infrastrutture dual-use come ad esempio il porto di Marsiglia, con l’uso strumentale di società veicolo estere collocate soprattutto in Lussemburgo per la gestione d’investimenti internazionali, al fine di ottimizzare l’efficacia fiscale e il controllo monetario.

Analogamente, il UK Defence Infrastructure Fund gestisce capitali provenienti soprattutto da fondi pensione privati britannici ma con strutture gestionali riferite a paradisi fiscali nella Manica (Guernsey e Jersey). Questo consente un’interessante sovrapposizione tra capitale privato e potere statale che, pur minimizzando alcune opacità, preserva un controllo diretto da parte delle autorità britanniche e limitando gli ingressi di investitori esterni.

Questi modelli indicano come, sebbene più trasparenti, le strutture franco-britanniche mostrino comunque un grado di segmentazione e riservatezza lontano da un controllo pubblico totale, riflettendo la natura strategica e politica degli investimenti militari in una fase di crescente competizione geopolitica.

Gruppi di potere e interessi nel “piatto ricco” del riarmo

Il complesso panorama del riarmo europeo si configura quindi come un crocevia in cui si intrecciano molteplici gruppi di potere con interessi spesso divergenti ma sovrapposti:

  • Lobby industriali UE-Usa: con un’associazione sempre più stretta tra giganti statunitensi dell’armamento e industrie tedesche e italiane, il controllo della produzione militare e delle infrastrutture dual-use diventa sempre più centralizzato in poche mani, con capitali che transitano attraverso reti offshore studiati per la massima opacità e l’ottimizzazione fiscale.
  • Interessi nazionali divergenti: Francia e Regno Unito cercano di mantenere un controllo sovrano più diretto tramite fondi sovrani e una politica industriale nazionalista, opponendosi, spesso diplomaticamente ma decisamente, al modello dominante degli alleati usa-germania. Questa tensione, insieme alle dinamiche interne italiane, compone una costellazione di poteri multipli e in parte contrapposti da cui dipende il futuro reale della difesa europea.
  • Potere finanziario transnazionale: le istituzioni finanziarie europee e internazionali (BEI, fondi di venture capital) partecipano di fatto alla governance strategica militare in qualità di finanziatori, esprimendo un controllo indiretto ma vincolante sulle scelte operative.
  • Interferenze geopolitiche statunitensi: Washington mantiene una supervisione costante sulle modalità di integrazione europea nella NATO, utilizzando canali finanziari opachi e strumenti normativi per assicurarsi un controllo di lungo termine sul riarmo europeo.














































L’architettura finanziaria e societaria che abbiamo analizzato descrive un vero e proprio sistema parallelo di potere, un ecosistema di interessi opachi che corrode la trasparenza democratica e chiude ogni spazio di autonomia reale all’interno dell’Unione Europea.

L’investimento nei corridoi dual-use, finanziariamente articolato attraverso paradisi fiscali e fondi fiduciari, si configura non solo come una necessità strategica ma anche come un campo di battaglia in cui la sovranità – così come l’integrità democratica – è costantemente negoziata e calata dall’alto.

Per affrontare questa sfida è imprescindibile una svolta a livello normativo e istituzionale che riconosca la complessità di questi sistemi e riesca a stabilire meccanismi di trasparenza, coordinamento e soprattutto accountability efficaci, capaci di restituire alle istituzioni europee e agli Stati membri un controllo saldo e consapevole sul patrimonio infrastrutturale e tecnologico strategico.

Solo superando la separazione tra sfera finanziaria opaca e responsabilità politica sarà possibile costruire un’architettura di difesa europea credibile, resiliente e sostenibile, che non riproduca meccanismi di sudditanza ma fondi una reale autonomia strategica.

Fonti integrative

  • RAND Corporation, Offshore Financing in Defence Joint Ventures, 2024.
  • ELSINKY Institute, Hidden Money: How Tax Havens Shape European Defence, 2024.
  • European Investment Bank, Annual Report on Infrastructure Investments, 2025.
  • Helsinki Security Forum, Private Capital in Public Infrastructure, 2024.
  • French Ministry of Economy, FSI Strategic Investments, 2023.
  • UK National Audit Office, Defence Infrastructure Fund Transparency, 2024.

Capitolo 6 – L’illusione della sovranità europea nella difesa: crisi istituzionale, politica del veto e l’impellente bisogno di una rivoluzione costituzionale

Alla luce degli approfondimenti che abbiamo sviluppato, emerge con chiarezza che la crisi strutturale dell’Unione Europea in materia di sicurezza e difesa è soprattutto una crisi di governance politica e giuridica. Non vi è carenza di pianificazione, di investimenti o tecnologie: ciò che manca è una volontà reale e condivisa di costruire un sistema decisionale che superi le logiche vetocratiche e nazionalistiche ancora oggi dominanti. 

6.1 Lo status quo: il paradosso del veto unanime

Qualsiasi analisi della politica di sicurezza e difesa comune (PSDC) deve partire dall’osservazione che il principio dell’unanimità nel Consiglio Europeo costituisce, oggi, una trappola istituzionale. Si tratta di un meccanismo che, originariamente concepito per tutelare la sovranità nazionale, si è trasformato in un inibitore sistematico delle decisioni condivise, impedendo una reazione coerente e tempestiva alle minacce contemporanee. 

Le conseguenze sono drammatiche:

  • L’impossibilità di definire una strategia condivisa.
  • Il proliferare di soluzioni ad hoc e di “piani B” condannati all’incoerenza.
  • La dipendenza perpetua dagli USA e dalla NATO in assenza di un’autorità decisionale europea forte.

6.2 La pedagogia negata: crisi multidisciplinare e l’assenza di eretici responsabili

Non è solo questione di processi istituzionali. La crisi è anche cognitiva e pedagogica. Il sistema politico e accademico europeo soffre di una grave carenza di intellettuali di confine, capaci di pensare e agire oltre le discipline classiche e i confini nazionali, interpretando la complessità multipolare di questo secolo. 4 

In un mondo dominato da big data, simulazioni multilivello, realtà ibride e reti complesse, figure come data analysts multi-domain, geopolitici ibridi, e giuristi internazionali integrati sono rarissime, eppure indispensabili per anticipare scenari e prefigurare strategie efficaci.

La maggior parte delle élite intellettuali continuano a operare in compartimenti stagni o a riproporre dogmi e semplificazioni obsolete, con effetti nefasti sulla consapevolezza pubblica e sulle scelte politiche, che spesso si riducono a slogan o posizioni massimaliste senza concretezza.

6.3 L’illusione dei fondi e la rana bollita del debito militare

La retorica degli 800 miliardi per “ReArm Europe” e piani simili ha generato un entusiasmo di facciata, ma nasconde una realtà di aumento esponenziale del debito pubblico sovrano senza alcun parallelo aumento di autonomia o efficacia. 5 

Se da un lato si sospendono temporaneamente le regole di bilancio UE per accomodare questa spesa, dall’altro non si definiscono meccanismi di finanziamento strutturati e condivisi, né si spiegano le conseguenze sul debito futuro delle nazioni (soprattutto Italia e paesi sud-europei)6 

Non sorprende che fatti recenti (es. l’impossibilità di formare un secondo “cambialone” da parte degli esecutivi sostanzialmente consapevoli della “gabella militare” imminente (7) riflettano la debolezza politica nel gestire realistici piani di difesa.

6.4 La mancata Convenzione: il nodo cruciale da sbloccare

Alla radice del problema vi è la mancanza di un’autentica piattaforma politica europea e legale per discutere pubblicamente e democraticamente la cessione di sovranità necessaria a una difesa comune.

Una Convenzione europea ad hoc, che riunisca esperti multidisciplinari (strategici, pedagogici, giuridici, economici) e parlamentari nazionali ed europei, è il solo strumento capace di:

  • Vomitare vecchie retoriche e produrre un nuovo “contratto sociale difensivo” europeo.
  • Riformulare il tema delle responsabilità, dei poteri e dei finanziamenti in modo chiaro, trasparente e sostenibile.
  • Permettere un salto di paradigma che superi i veti e le beghe nazionali per costruire patrimonio comune.

Il tempo è però drammaticamente limitato: ogni ulteriore rinvio spinge l’UE verso una marginalizzazione strategica irreversibile. 4 

6.5 Conclusione: la sfida non è solo tecnica, è epistemica e morale

Chi lavora nel campo della geopolitica, della difesa e della sicurezza europea sa bene che l’ostacolo più grande non è la mancanza di soldi o tecnologia ma la crisi epistemica che attraversa le elites europee, incapaci di leggere la complessità multipolare e di governare la transizione con lucidità e responsabilità.

Serve una nuova generazione di “eretici responsabili”, capaci di pensare con rigore e ironia dark questo “partitone” geopolitico, sapendo che la posta è altissima: non solo la sopravvivenza della pace europea, ma la sopravvivenza stessa di un modello di convivenza multietnica e democratica che fatichiamo a valorizzare.

Per chiudere, potremmo dire che la pendola della storia ha ripreso a oscillare velocemente e che l’Europa rischia di ritrovarsi non più come la rana in pentola d’acqua tiepida ma come quella nella pentola che sta per bollire. Chi vuol capire, ora deve agire.

  • L’impossibilità di definire una strategia condivisa.
  • Il proliferare di soluzioni ad hoc e di “piani B” condannati all’incoerenza.
  • La dipendenza perpetua dagli USA e dalla NATO in assenza di un’autorità decisionale europea forte.

6.2 La pedagogia negata: crisi multidisciplinare

Non è solo questione di processi istituzionali. La crisi è anche cognitiva e pedagogica. Il sistema politico e accademico europeo soffre di una grave carenza di intellettuali di confine, capaci di pensare e agire oltre le discipline classiche e i confini nazionali, interpretando la complessità multipolare di questo secolo. 4 

In un mondo dominato da big data, simulazioni multilivello, realtà ibride e reti complesse, figure come data analysts multi-domain, geopolitici ibridi, e giuristi internazionali integrati sono rarissime, eppure indispensabili per anticipare scenari e prefigurare strategie efficaci.

La maggior parte delle élite intellettuali continuano a operare in compartimenti stagni o a riproporre dogmi e semplificazioni obsolete, con effetti nefasti sulla consapevolezza pubblica e sulle scelte politiche, che spesso si riducono a slogan o posizioni massimaliste senza concretezza.

Storia segreta n. 24: Punto critico in Venezuela_di Predictive History

Storia segreta n. 24: Punto critico in Venezuela

Trump non ha alcuna intenzione di invadere il Venezuela. Il suo obiettivo è un cambio di regime a Washington.

Predictive History 6 dicembre

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Gli Stati Uniti hanno radunato una formidabile presenza navale nei Caraibi. Il presidente Donald Trump e il suo Segretario alla Guerra Peter Hegseth hanno dichiarato che la loro intenzione è quella di combattere il narcoterrorismo. Ad oggi, gli attacchi militari condotti contro imbarcazioni sospettate di contrabbando di stupefacenti hanno causato la morte di oltre ottanta persone.

I democratici del Congresso hanno accusato Hegseth di aver commesso crimini di guerra. I legislatori stanno indagando se Hegseth debba essere perseguito per l’attacco militare del 2 settembre contro due sopravvissuti a un primo attacco navale. Hegseth ha sistematicamente ignorato ogni responsabilità legale all’interno del Pentagono. A febbraio, ha licenziato i massimi giudici avvocati generali dell’Esercito e dell’Aeronautica. Ha nominato il suo avvocato personale come JAG della Marina.

Il sostituto del JAG dell’Aeronautica Militare ha annunciato le sue dimissioni a ottobre. L’ammiraglio Alvin Holsey, che in qualità di comandante del Comando Sud degli Stati Uniti sovrintende alle operazioni navali nei Caraibi, prevede di andare in pensione anticipata.

Hegseth è felice di vedere gli infedeli andarsene. Il 30 settembre, il Segretario alla Guerra ha convocato tutti i generali più importanti del suo remoto impero americano per un comizio a Quantico, in Virginia. Ha lasciato intendere che erano diventati burocrati e che dovevano abbracciare l’ethos del guerriero. Ha definito “stupide” le regole d’ingaggio.

Gli osservatori sono sconcertati dal rafforzamento navale americano e la maggior parte sospetta un’operazione di cambio di regime mirata al Venezuela, che possiede le maggiori riserve petrolifere accertate al mondo. Marco Rubio, Consigliere per la Sicurezza Nazionale e Segretario di Stato di Trump, ne è un convinto sostenitore. Maria Machado ha interpretato il suo Premio Nobel per la Pace come una corona e sta già corteggiando investitori per il Venezuela. Il segnale più forte è che Trump ha chiuso lo spazio aereo venezuelano e ha minacciato Maduro di andarsene .

Ci sono problemi con questo consenso emergente. Primo e più importante, Trump non ha ancora imposto un embargo alle esportazioni di petrolio del Venezuela. L’80% dei 921.000 barili al giorno esportati dal Venezuela è destinato alla Cina. Oltre 100.000 barili al giorno vengono spediti negli Stati Uniti. Se Trump intende un cambio di regime, il primo passo dell’escalation sarebbe strangolare l’economia venezuelana. Perché non ha compiuto questo ovvio primo passo?

In secondo luogo, Trump ha minacciato di attaccare militarmente anche Messico e Colombia. Esaminate le posizioni degli attacchi statunitensi contro le navi della droga nel grafico sottostante. Perché Trump non è così concentrato?

Non credo che Trump voglia seriamente cambiare regime in Venezuela, e il suo vero scopo è quello di smantellare il narcotraffico, che tutti danno per scontato sia un pretesto. Sono convinto che Trump voglia ottenere un terzo mandato, e quindi debba indebolire lo Stato profondo che, a suo dire, ha rubato le elezioni del 2020. La CIA controlla il narcotraffico, e interrompendo il flusso di droga in America Trump taglierà fuori il denaro nero che alimenta lo Stato profondo.

Perché Trump minaccia il Venezuela? Ha bisogno di mascherare le sue intenzioni e di apparire imprevedibile per evitare che i suoi nemici si uniscano contro di lui, come è successo nel 2020.

Il trucco più grande di Trump è stato trasformare il suo più grande fallimento del primo mandato (la sua instabilità) nel suo più grande punto di forza del secondo. Durante il primo mandato di Trump, l’apparato di sicurezza nazionale era in uno stato di aperta ribellione. Il Capo di Stato Maggiore Congiunto Mark Milley chiamò i suoi omologhi cinesi per intimare loro di ignorare Trump. L’esercito statunitense disobbedì all’ordine di Trump di ritirarsi dalla Siria. Gli agenti dell’intelligence si vantarono di aver nascosto informazioni sensibili a Trump.

Nel secondo mandato di Trump, l’apparato di sicurezza nazionale crede che Trump sia diventato una loro creatura. Marco Rubio convincerà Trump a rovesciare i governi di Venezuela, Cuba e Nicaragua. Miriam Adelson è la principale finanziatrice di Trump e Susie Wiles il suo capo di gabinetto, e lo convinceranno a lanciare una guerra contro l’Iran. Trump potrebbe anche volere la pace in Ucraina, ma gli europei saboteranno qualsiasi cessate il fuoco concordato tra lui e Putin.

Con la sua reticenza e la sua non-intenzione, Trump ha dato ai suoi nemici abbastanza filo da torcere per impiccarsi. I suoi nemici si compiacciono di come sembri compromesso dai dossier Epstein, che hanno frantumato il MAGA. Trump gli fa balenare davanti la prospettiva di un cambio di regime in Venezuela, e così lo Stato profondo tollererà gli attacchi terrestri di Trump contro i cartelli della droga in Messico e Colombia. Lo Stato profondo è così ossessionato dalla guerra contro l’Iran che chiuderà un occhio sul dispiegamento della Guardia Nazionale da parte di Trump in tutti i cinquanta stati.

Non possiamo aspettarci altro che caos e conflitti per il resto del secondo mandato di Trump. E Trump, in quanto re del caos e dei conflitti, vincerà tutto.

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L’ultima possibilità dell’Occidente_di Alexander Stubb

L’ultima possibilità dell’Occidente

Come costruire un nuovo ordine globale prima che sia troppo tardi

Alexander Stubb

2 dicembre 2025

Ed Johnson

Un testo interessante di A. Stubb, attuale presidente della Finlandia. Un saggio, tipica espressione di un ceto politico e di un paese gregario. Un carattere comune alla quasi totalità delle leadership europee. Sono tre i capisaldi dai quali si sviluppa l’analisi e la proposta di strategia politica dell’autore. L’idea qualificante del multilateralismo, la rottura determinata dall’intervento russo in Ucraina, l’adesione ai valori dell’atlantismo di ispirazione liberale con la conseguente rottura della condizione di neutralità.

Il multilateralismo viene visto come modalità di regolazione delle relazioni tra stati su base paritaria. Il multilateralismo, nella sua condizione ottimale, non può prescindere dall’esistenza di un regolatore in condizione egemone di arbitro giocatore. Nella fattispecie degli ultimi decenni, gli Stati Uniti. Tutti gli organi multilaterali (NATO, UE) hanno funzionato grazie alla presenza egemonica di questo regolatore di veri e propri sistemi di alleanza. Altri organismi sovranazionali (ONU, FMI, OMC) hanno subito una analoga impronta oppure si sono rivelati palestre di esercizio della competizione e della cooperazione tra gli stati principali. La stessa Cina, parlando a sua volta specularmente di multilateralismo, lo soppesa in basi ai diversi pesi specifici dei vari stati. Da questa rimozione si innesca l’idealizzazione di cui è preda Stubb più o meno consapevolmente.

Il totale travisamento della natura, delle cause e dell’intervento russo in Ucraina rappresenta il motivo e il pretesto dell’adesione alla UE e alla NATO della Finlandia sino a rinnegare in gran parte i tanti aspetti positivi che hanno caratterizzato la fase di neutralità di quel paese, comune per altro, in Europa, ad Austria e Svezia, e a modo suo alla ex-Jugoslavia. Da qui, inoltre, una visione particolarmente capziosa del ruolo svolto dalla Finlandia durante la seconda guerra mondiale.

Stubb, di conseguenza, continua a vedere nella NATO e nella UE il veicolo virtuoso di promozione dei valori occidentali della Regione Occidentale, pur assecondato nelle intenzioni da dosi di realismo pragmatico e di rispetto delle diversità del tutto assenti nel passato, rispetto alla coalizione di mero interesse della Regione Orientale, entrambe impegnate nella azione di influenza nei confronti del Sud Globale. Un impegno dal cui successo dipende la definizione di nuovi equilibri pacifici del mondo. Una visione particolarmente arida e limitativa dell’effettivo ruolo svolto dalla seconda regione. Una opzione che sta velocemente trasformando la Finlandia, come altri paesi di vecchia condizione neutrale, in realtà oltranziste maggiormente esposte all’esterno alle conseguenze tragiche di un conflitto, all’interno a politiche opprimenti di controllo sociale. Giuseppe Germinario

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Il mondo è cambiato più negli ultimi quattro anni che nei precedenti trent’anni. I nostri notiziari sono pieni di conflitti e tragedie. La Russia bombarda l’Ucraina, il Medio Oriente è in fermento e in Africa infuriano le guerre. Mentre i conflitti sono in aumento, le democrazie sembrano essere in declino. L’era post-guerra fredda è finita. Nonostante le speranze che hanno seguito la caduta del muro di Berlino, il mondo non si è unito nell’abbracciare la democrazia e il capitalismo di mercato. Anzi, le forze che avrebbero dovuto unire il mondo – il commercio, l’energia, la tecnologia e l’informazione – ora lo stanno dividendo.

Viviamo in un nuovo mondo caratterizzato dal disordine. L’ordine liberale basato sulle regole che è emerso dopo la fine della Seconda guerra mondiale sta ormai morendo. La cooperazione multilaterale sta cedendo il passo alla competizione multipolare. Le transazioni opportunistiche sembrano avere più importanza della difesa delle regole internazionali. La competizione tra grandi potenze è tornata, con la rivalità tra Cina e Stati Uniti che definisce il quadro geopolitico. Ma non è l’unica forza che plasma l’ordine globale. Le potenze medie emergenti, tra cui Brasile, India, Messico, Nigeria, Arabia Saudita, Sudafrica e Turchia, sono diventate dei veri e propri game changer. Insieme, hanno i mezzi economici e il peso geopolitico per orientare l’ordine globale verso la stabilità o verso un maggiore tumulto. Hanno anche un motivo per chiedere un cambiamento: il sistema multilaterale del dopoguerra non si è adattato in modo adeguato per riflettere la loro posizione nel mondo e garantire loro il ruolo che meritano. Si sta delineando una competizione triangolare tra quelli che io chiamo l’Occidente globale, l’Oriente globale e il Sud globale. Scegliendo se rafforzare il sistema multilaterale o cercare la multipolarità, il Sud globale deciderà se la geopolitica della prossima era tenderà alla cooperazione, alla frammentazione o al dominio.

I prossimi cinque-dieci anni determineranno probabilmente l’ordine mondiale per i decenni a venire. Una volta che un ordine si è stabilizzato, tende a rimanere in vigore per un certo periodo. Dopo la prima guerra mondiale, un nuovo ordine è durato due decenni. Quello successivo, dopo la seconda guerra mondiale, è durato quattro decenni. Ora, a trent’anni dalla fine della guerra fredda, sta emergendo qualcosa di nuovo. Questa è l’ultima occasione per i paesi occidentali di convincere il resto del mondo che sono capaci di dialogo piuttosto che di monologo, di coerenza piuttosto che di doppi standard, e di cooperazione piuttosto che di dominio. Se i paesi rinunciano alla cooperazione a favore della competizione, si profila un mondo di conflitti ancora più gravi.

Ogni Stato ha un proprio potere d’azione, anche quelli piccoli come il mio, la Finlandia. La chiave è cercare di massimizzare l’influenza e, con gli strumenti disponibili, spingere per trovare soluzioni. Per me questo significa fare tutto il possibile per preservare l’ordine mondiale liberale, anche se questo sistema non è molto in voga al momento. Le istituzioni e le norme internazionali forniscono il quadro di riferimento per la cooperazione globale. Devono essere aggiornate e riformate per riflettere meglio il crescente potere economico e politico del Sud e dell’Est del mondo. I leader occidentali parlano da tempo dell’urgenza di riformare le istituzioni multilaterali come le Nazioni Unite. Ora dobbiamo farlo, iniziando con il riequilibrare il potere all’interno dell’ONU e di altri organismi internazionali come l’Organizzazione mondiale del commercio, il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale. Senza tali cambiamenti, il sistema multilaterale così come esiste oggi crollerà. Quel sistema non è perfetto, ha dei difetti intrinseci e non potrà mai riflettere esattamente il mondo che lo circonda. Ma le alternative sono molto peggiori: sfere di influenza, caos e disordine.

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LA STORIA NON È FINITA

Ho iniziato a studiare scienze politiche e relazioni internazionali alla Furman University negli Stati Uniti nel 1989. Quell’autunno cadde il muro di Berlino. Poco dopo, la Germania si riunificò, l’Europa centrale e orientale si liberò dalle catene del comunismo e quello che era stato un mondo bipolare, che vedeva contrapposti l’Unione Sovietica comunista e autoritaria e gli Stati Uniti capitalisti e democratici, divenne unipolare. Gli Stati Uniti erano ormai la superpotenza indiscussa. L’ordine internazionale liberale aveva vinto.

All’epoca ero euforico. A me, come a tanti altri, sembrava che fossimo alle soglie di un’era più luminosa. Il politologo Francis Fukuyama definì quel momento “la fine della storia” e non ero l’unico a credere che il trionfo del liberalismo fosse certo. La maggior parte degli Stati nazionali avrebbe inevitabilmente virato verso la democrazia, il capitalismo di mercato e la libertà. La globalizzazione avrebbe portato all’interdipendenza economica. Le vecchie divisioni sarebbero scomparse e il mondo sarebbe diventato uno solo. Anche alla fine del decennio, quando ho completato il mio dottorato di ricerca in integrazione europea alla London School of Economics, questo futuro sembrava ancora imminente.

Ma quel futuro non è mai arrivato. Il momento unipolare si è rivelato di breve durata. Dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, l’Occidente ha voltato le spalle ai valori fondamentali che sosteneva di difendere. Il suo impegno nei confronti del diritto internazionale è stato messo in discussione. Gli interventi guidati dagli Stati Uniti in Afghanistan e Iraq sono falliti. Il crollo finanziario globale del 2008 ha inferto un duro colpo alla reputazione del modello economico occidentale, radicato nei mercati globali. Gli Stati Uniti non guidavano più da soli la politica globale. La Cina è emersa come superpotenza grazie alla sua produzione manifatturiera, alle esportazioni e alla crescita economica in rapida ascesa, e da allora la sua rivalità con gli Stati Uniti ha dominato la geopolitica. L’ultimo decennio ha visto anche un’ulteriore erosione delle istituzioni multilaterali, crescenti sospetti e attriti riguardo al libero scambio e un’intensificazione della concorrenza nel campo della tecnologia.

La guerra di aggressione su vasta scala condotta dalla Russia in Ucraina nel febbraio 2022 ha inferto un altro duro colpo al vecchio ordine. È stata una delle violazioni più eclatanti del sistema basato sulle regole dalla fine della seconda guerra mondiale e sicuramente la peggiore che l’Europa abbia mai visto. Il fatto che il colpevole fosse un membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, istituito per preservare la pace, è stato ancora più grave. Gli Stati che avrebbero dovuto sostenere il sistema lo hanno fatto crollare.

MULTILATERALISMO O MULTIPOLARITÀ

L’ordine internazionale, tuttavia, non è scomparso. Tra le macerie, sta passando dal multilateralismo alla multipolarità. Il multilateralismo è un sistema di cooperazione globale che si basa su istituzioni internazionali e regole comuni. I suoi principi fondamentali si applicano in modo uguale a tutti i paesi, indipendentemente dalle loro dimensioni. La multipolarità, al contrario, è un oligopolio di potere. La struttura di un mondo multipolare si basa su diversi poli, spesso in competizione tra loro. Gli accordi e le intese tra un numero limitato di attori costituiscono la struttura di tale ordine, indebolendo inevitabilmente le regole e le istituzioni comuni. La multipolarità può portare a comportamenti ad hoc e opportunistici e a una serie fluida di alleanze basate sull’interesse reale degli Stati. Un mondo multipolare rischia di escludere i paesi di piccole e medie dimensioni, poiché le potenze più grandi stringono accordi senza consultarli. Mentre il multilateralismo porta all’ordine, la multipolarità tende al disordine e al conflitto.

C’è una tensione crescente tra chi promuove il multilateralismo e un ordine basato sullo Stato di diritto e chi parla il linguaggio della multipolarità e del transazionalismo. I piccoli Stati e le potenze medie, così come le organizzazioni regionali come l’Unione Africana, l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico, l’UE e il blocco sudamericano Mercosur, promuovono il multilateralismo. La Cina, dal canto suo, promuove la multipolarità con sfumature di multilateralismo; apparentemente sostiene raggruppamenti multilaterali come il BRICS – la coalizione non occidentale i cui membri originari erano Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – e l’Organizzazione di cooperazione di Shanghai, che in realtà vogliono dare origine a un ordine più multipolare. Gli Stati Uniti hanno spostato la loro enfasi dal multilateralismo al transazionalismo, ma mantengono comunque i loro impegni nei confronti di istituzioni regionali come la NATO. Molti Stati, grandi e piccoli, stanno perseguendo quella che può essere descritta come una politica estera multivettoriale. In sostanza, il loro obiettivo è quello di diversificare le loro relazioni con più attori piuttosto che allinearsi con un unico blocco.

Una politica estera transazionale o multivettoriale è dominata dagli interessi. Gli Stati piccoli, ad esempio, spesso cercano un equilibrio tra le grandi potenze: possono allinearsi con la Cina in alcuni settori e schierarsi con gli Stati Uniti in altri, cercando al contempo di evitare di essere dominati da un unico attore. Gli interessi guidano le scelte pratiche degli Stati, e questo è del tutto legittimo. Ma un approccio di questo tipo non deve necessariamente rinunciare ai valori, che dovrebbero essere alla base di ogni azione di uno Stato. Anche una politica estera transazionale dovrebbe fondarsi su un nucleo di valori fondamentali. Tra questi figurano la sovranità e l’integrità territoriale degli Stati, il divieto dell’uso della forza e il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. La stragrande maggioranza dei paesi ha un chiaro interesse a difendere questi valori e a garantire che i trasgressori subiscano conseguenze concrete.

Molti paesi stanno rifiutando il multilateralismo a favore di accordi e intese più ad hoc. Gli Stati Uniti, ad esempio, si concentrano su accordi commerciali e bilaterali. La Cina utilizza la Belt and Road Initiative, il suo vasto programma di investimenti infrastrutturali globali, per facilitare sia la diplomazia bilaterale che le transazioni economiche. L’UE sta stringendo accordi bilaterali di libero scambio che rischiano di non rispettare le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio. Paradossalmente, ciò sta accadendo proprio nel momento in cui il mondo ha più che mai bisogno del multilateralismo per risolvere sfide comuni, come il cambiamento climatico, le carenze di sviluppo e la regolamentazione delle tecnologie avanzate. Senza un sistema multilaterale forte, tutta la diplomazia diventa transazionale. Un mondo multilaterale fa del bene comune un interesse personale. Un mondo multipolare funziona semplicemente sull’interesse personale.

IL “REALISMO BASATO SUI VALORI” DELLA FINLANDIA

La politica estera si basa spesso su tre pilastri: valori, interessi e potere. Questi tre elementi sono fondamentali quando l’equilibrio e le dinamiche dell’ordine mondiale stanno cambiando. Provengo da un Paese relativamente piccolo con una popolazione di quasi sei milioni di persone. Sebbene disponiamo di una delle forze di difesa più grandi d’Europa, la nostra diplomazia si basa su valori e interessi. Il potere, sia quello duro che quello morbido, è per lo più un lusso dei grandi attori. Essi possono proiettare il loro potere militare ed economico, costringendo gli attori più piccoli ad allinearsi ai loro obiettivi. Ma i piccoli paesi possono trovare potere nella cooperazione con gli altri. Le alleanze, i raggruppamenti e la diplomazia intelligente sono ciò che conferisce a un attore più piccolo un’influenza ben superiore alle dimensioni del suo esercito e della sua economia. Spesso queste alleanze si basano su valori condivisi, come l’impegno a favore dei diritti umani e dello Stato di diritto.

Essendo un piccolo paese confinante con una potenza imperiale, la Finlandia ha imparato che a volte uno Stato deve mettere da parte alcuni valori per proteggerne altri, o semplicemente per sopravvivere. La sovranità statale si basa sui principi di indipendenza, sovranità e integrità territoriale. Dopo la seconda guerra mondiale, la Finlandia ha mantenuto la sua indipendenza, a differenza dei nostri amici baltici che sono stati assorbiti dall’Unione Sovietica. Ma abbiamo perso il dieci per cento del nostro territorio a favore dell’Unione Sovietica, comprese le zone in cui sono nati mio padre e i miei nonni. E, cosa fondamentale, abbiamo dovuto rinunciare a parte della nostra sovranità. La Finlandia non ha potuto aderire alle istituzioni internazionali a cui sentivamo di appartenere naturalmente, in particolare l’UE e la NATO.

Durante la Guerra Fredda, la politica estera finlandese era caratterizzata da un “realismo pragmatico”. Per impedire all’Unione Sovietica di attaccarci nuovamente, come aveva fatto nel 1939, abbiamo dovuto scendere a compromessi sui nostri valori occidentali. Questo periodo della storia finlandese, che ha dato origine al termine “finlandizzazione” nelle relazioni internazionali, non è qualcosa di cui possiamo andare particolarmente fieri, ma siamo riusciti a mantenere la nostra indipendenza. Quell’esperienza ci ha resi diffidenti nei confronti di qualsiasi possibilità che si ripeta. Quando alcuni suggeriscono che la finlandizzazione potrebbe essere una soluzione per porre fine alla guerra in Ucraina, mi trovo in forte disaccordo. Una pace del genere avrebbe un costo troppo alto, che equivarrebbe di fatto alla rinuncia alla sovranità e al territorio.

Viviamo in un nuovo mondo di disordine.

Dopo la fine della Guerra Fredda, la Finlandia, come molti altri paesi, ha abbracciato l’idea che i valori dell’Occidente globale sarebbero diventati la norma, ciò che io chiamo “idealismo basato sui valori”. Questo ha permesso alla Finlandia di aderire all’Unione Europea nel 1995. Allo stesso tempo, la Finlandia ha commesso un grave errore: ha deciso, volontariamente, di rimanere fuori dalla NATO. (Per la cronaca, sono stato un fervente sostenitore dell’adesione della Finlandia alla NATO per 30 anni). Alcuni finlandesi nutrivano l’idealistica convinzione che la Russia sarebbe diventata una democrazia liberale, quindi l’adesione alla NATO non era necessaria. Altri temevano che la Russia avrebbe reagito male all’adesione della Finlandia all’alleanza. Altri ancora pensavano che la Finlandia contribuisse a mantenere l’equilibrio, e quindi la pace, nella regione del Mar Baltico rimanendo fuori dall’alleanza. Tutte queste ragioni si sono rivelate errate e la Finlandia si è adeguata di conseguenza, aderendo alla NATO dopo l’attacco su vasta scala della Russia all’Ucraina.

È stata una decisione dettata sia dai valori che dagli interessi della Finlandia. La Finlandia ha abbracciato quello che io definisco «realismo basato sui valori»: l’impegno a rispettare una serie di valori universali fondati sulla libertà, sui diritti fondamentali e sulle norme internazionali, pur continuando a rispettare la realtà della diversità culturale e storica del mondo. L’Occidente globale deve rimanere fedele ai propri valori, ma comprendere che i problemi del mondo non potranno essere risolti solo attraverso la collaborazione con paesi che condividono gli stessi principi.

Il realismo basato sui valori può sembrare una contraddizione in termini, ma non lo è. Due influenti teorie del dopoguerra fredda sembravano contrapporre i valori universali a una valutazione più realistica delle linee di frattura politiche. La tesi della fine della storia di Fukuyama vedeva il trionfo del capitalismo sul comunismo come l’annuncio di un mondo che sarebbe diventato sempre più liberale e orientato al mercato. La visione del politologo Samuel Huntington di uno “scontro di civiltà” prevedeva che le linee di frattura della geopolitica si sarebbero spostate dalle differenze ideologiche a quelle culturali. In realtà, gli Stati possono attingere da entrambe le interpretazioni nel negoziare l’ordine mutevole di oggi. Nell’elaborare la politica estera, i governi dell’Occidente globale possono mantenere la loro fede nella democrazia e nei mercati senza insistere sul fatto che siano universalmente applicabili; in altri luoghi possono prevalere modelli diversi. E anche all’interno dell’Occidente globale, la ricerca della sicurezza e la difesa della sovranità renderanno occasionalmente impossibile aderire rigorosamente agli ideali liberali.

I paesi dovrebbero impegnarsi per creare un ordine mondiale cooperativo basato sul realismo dei valori, nel rispetto sia dello Stato di diritto che delle differenze culturali e politiche. Per la Finlandia, ciò significa avvicinarsi ai paesi dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina per comprendere meglio le loro posizioni sulla guerra della Russia in Ucraina e su altri conflitti in corso. Significa anche tenere discussioni pragmatiche su un piano di parità su questioni globali importanti, come quelle relative alla condivisione della tecnologia, alle materie prime e al cambiamento climatico.

IL TRIANGOLO DEL POTERE

Tre grandi regioni costituiscono oggi l’equilibrio globale del potere: l’Occidente globale, l’Oriente globale e il Sud globale. L’Occidente globale comprende circa 50 paesi ed è tradizionalmente guidato dagli Stati Uniti. I suoi membri includono principalmente Stati democratici e orientati al mercato in Europa e Nord America e i loro alleati più lontani, Australia, Giappone, Nuova Zelanda e Corea del Sud. Questi paesi hanno tipicamente mirato a sostenere un ordine multilaterale basato su regole, anche se non sono d’accordo sul modo migliore per preservarlo, riformarlo o reinventarlo.

L’Oriente globale è composto da circa 25 Stati guidati dalla Cina. Comprende una rete di Stati alleati, in particolare Iran, Corea del Nord e Russia, che cercano di rivedere o sostituire l’attuale ordine internazionale basato su regole. Questi paesi sono legati da un interesse comune, ovvero il desiderio di ridurre il potere dell’Occidente globale.

Il Sud del mondo, che comprende molti dei paesi in via di sviluppo e a reddito medio dell’Africa, dell’America Latina, dell’Asia meridionale e del Sud-Est asiatico (e la maggior parte della popolazione mondiale), comprende circa 125 Stati. Molti di essi hanno sofferto sotto il colonialismo occidentale e poi di nuovo come teatro delle guerre per procura dell’era della Guerra Fredda. Il Sud del mondo comprende molte potenze medie o “stati oscillanti”, in particolare Brasile, India, Indonesia, Kenya, Messico, Nigeria, Arabia Saudita e Sudafrica. Le tendenze demografiche, lo sviluppo economico e l’estrazione e l’esportazione di risorse naturali guidano l’ascesa di questi Stati.

L’Occidente globale e l’Oriente globale stanno lottando per conquistare i cuori e le menti del Sud globale. Il motivo è semplice: entrambi comprendono che sarà il Sud globale a decidere la direzione del nuovo ordine mondiale. Mentre l’Occidente e l’Oriente tirano in direzioni opposte, il Sud ha il voto decisivo.

L’Occidente globale non può semplicemente attrarre il Sud del mondo esaltando le virtù della libertà e della democrazia; deve anche finanziare progetti di sviluppo, investire nella crescita economica e, soprattutto, dare al Sud un posto al tavolo delle trattative e condividere il potere. L’Oriente globale commetterebbe lo stesso errore se pensasse che la sua spesa per grandi progetti infrastrutturali e investimenti diretti gli garantisca piena influenza nel Sud del mondo. L’amore non si compra facilmente. Come ha osservato il ministro degli Esteri indiano Subrahmanyam Jaishankar, l’India e altri paesi del Sud del mondo non stanno semplicemente rimanendo neutrali, ma stanno piuttosto difendendo la propria posizione.

Il presidente finlandese Alexander Stubb a Washington, D.C., ottobre 2025Kent Nishimura / Reuters

In altre parole, ciò di cui avranno bisogno sia i leader occidentali che quelli orientali è un realismo basato sui valori. La politica estera non è mai binaria. Un politico deve compiere scelte quotidiane che coinvolgono sia i valori che gli interessi. Acquisterete armi da un Paese che viola il diritto internazionale? Finanzierete una dittatura che combatte il terrorismo? Fornirete aiuti a un Paese che considera l’omosessualità un reato? Commercerete con un Paese che permette la pena di morte? Alcuni valori non sono negoziabili. Tra questi figurano la difesa dei diritti fondamentali e umani, la protezione delle minoranze, la salvaguardia della democrazia e il rispetto dello Stato di diritto. Questi valori sono alla base di ciò che l’Occidente globale dovrebbe rappresentare, soprattutto nei suoi appelli al Sud del mondo. Allo stesso tempo, l’Occidente globale deve comprendere che non tutti condividono questi valori.

L’obiettivo del realismo basato sui valori è quello di trovare un equilibrio tra valori e interessi in modo da dare priorità ai principi, ma riconoscendo i limiti del potere di uno Stato quando sono in gioco gli interessi della pace, della stabilità e della sicurezza. Un ordine mondiale basato su regole e sostenuto da un insieme di istituzioni internazionali ben funzionanti che sanciscono valori fondamentali rimane il modo migliore per evitare che la competizione porti a scontri. Ma poiché queste istituzioni hanno perso la loro rilevanza, i paesi devono abbracciare un senso di realismo più rigoroso. I leader devono riconoscere le differenze tra i paesi: le realtà geografiche, storiche, culturali, religiose e i diversi stadi di sviluppo economico. Se vogliono che gli altri affrontino meglio questioni come i diritti dei cittadini, le pratiche ambientali e il buon governo, dovrebbero dare l’esempio e offrire sostegno, non lezioni.

Il realismo basato sui valori inizia con un comportamento dignitoso, con il rispetto delle opinioni altrui e la comprensione delle differenze. Significa collaborazione basata su partnership tra pari piuttosto che su una percezione storica di come dovrebbero essere le relazioni tra Occidente, Oriente e Sud del mondo. Il modo in cui gli Stati possono guardare avanti piuttosto che indietro è concentrarsi su importanti progetti comuni come le infrastrutture, il commercio e la mitigazione e l’adattamento ai cambiamenti climatici.

Molti ostacoli si frappongono a qualsiasi tentativo da parte delle tre sfere mondiali di costruire un ordine globale che rispetti le differenze e consenta agli Stati di inserire i propri interessi nazionali in un quadro più ampio di relazioni internazionali cooperative. I costi di un fallimento, tuttavia, sono immensi: la prima metà del XX secolo è stata un monito sufficiente.

L’incertezza è parte integrante delle relazioni internazionali, e mai come durante la transizione da un’era all’altra. La chiave è capire perché sta avvenendo il cambiamento e come reagire ad esso. Se l’Occidente globale tornerà ai suoi vecchi modi di dominare direttamente o indirettamente o di mostrare aperta arroganza, perderà la battaglia. Se invece si renderà conto che il Sud globale sarà una parte fondamentale del prossimo ordine mondiale, potrebbe essere in grado di stringere partnership basate sia sui valori che sugli interessi in grado di affrontare le principali sfide del globo. Il realismo basato sui valori darà all’Occidente spazio sufficiente per navigare in questa nuova era delle relazioni internazionali.

I MONDI A VENIRE

Una serie di istituzioni postbelliche ha contribuito a guidare il mondo attraverso la sua era di sviluppo più rapido e ha sostenuto un periodo straordinario di relativa pace. Oggi, esse rischiano di crollare. Ma devono sopravvivere, perché un mondo basato sulla competizione senza cooperazione porterà al conflitto. Per sopravvivere, tuttavia, devono cambiare, perché troppi Stati non hanno voce in capitolo nel sistema esistente e, in assenza di cambiamenti, se ne distaccheranno. Non si può biasimare questi Stati per averlo fatto; il nuovo ordine mondiale non aspetterà.

Nel prossimo decennio potrebbero verificarsi almeno tre scenari. Nel primo, l’attuale disordine semplicemente persisterebbe. Ci sarebbero ancora elementi del vecchio ordine, ma il rispetto delle regole e delle istituzioni internazionali sarebbe à la carte e basato principalmente sugli interessi, non su valori innati. La capacità di risolvere le sfide principali rimarrebbe limitata, ma almeno il mondo non precipiterebbe in un caos ancora maggiore. Porre fine ai conflitti, tuttavia, diventerebbe particolarmente difficile perché la maggior parte degli accordi di pace sarebbero transazionali e privi dell’autorità che deriva dall’imprimatur delle Nazioni Unite.

Le cose potrebbero andare peggio: in un secondo scenario, le fondamenta dell’ordine internazionale liberale – le sue regole e istituzioni – continuerebbero a sgretolarsi e l’ordine esistente crollerebbe. Il mondo si avvicinerebbe al caos senza un chiaro nesso di potere e con Stati incapaci di risolvere crisi acute, come carestie, pandemie o conflitti. Uomini forti, signori della guerra e attori non statali riempirebbero il vuoto di potere lasciato dalle organizzazioni internazionali in declino. I conflitti locali rischierebbero di scatenare guerre più estese. La stabilità e la prevedibilità sarebbero l’eccezione, non la norma, in un mondo in cui vige la legge del più forte. La mediazione di pace sarebbe quasi impossibile.

Ma non deve necessariamente essere così. In un terzo scenario, una nuova simmetria di potere tra Occidente, Oriente e Sud del mondo produrrebbe un ordine mondiale riequilibrato, in cui i paesi potrebbero affrontare le sfide globali più urgenti attraverso la cooperazione e il dialogo tra pari. Tale equilibrio contenerebbe la concorrenza e spingerebbe il mondo verso una maggiore cooperazione su questioni climatiche, di sicurezza e tecnologiche, sfide critiche che nessun paese può risolvere da solo. In questo scenario, prevalerebbero i principi della Carta delle Nazioni Unite, portando ad accordi equi e duraturi. Ma affinché ciò avvenga, le istituzioni internazionali devono essere riformate.

Il momento unipolare si rivelò di breve durata.

La riforma inizia dall’alto, ovvero dalle Nazioni Unite. La riforma è sempre un processo lungo e complicato, ma ci sono almeno tre possibili cambiamenti che rafforzerebbero automaticamente l’ONU e darebbero voce in capitolo a quegli Stati che ritengono di non avere abbastanza potere a New York, Ginevra, Vienna o Nairobi.

In primo luogo, tutti i principali continenti devono essere rappresentati in ogni momento nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. È semplicemente inaccettabile che non vi sia alcuna rappresentanza permanente dell’Africa e dell’America Latina nel Consiglio di sicurezza e che la Cina sia l’unico rappresentante dell’Asia. Il numero dei membri permanenti dovrebbe essere aumentato di almeno cinque: due dall’Africa, due dall’Asia e uno dall’America Latina.

In secondo luogo, nessun singolo Stato dovrebbe avere diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza. Il veto era necessario all’indomani della Seconda guerra mondiale, ma nel mondo odierno ha reso inefficace il Consiglio di Sicurezza. Le agenzie delle Nazioni Unite a Ginevra funzionano bene proprio perché nessun singolo membro può impedire loro di farlo.

In terzo luogo, se un membro permanente o non permanente del Consiglio di Sicurezza viola la Carta delle Nazioni Unite, la sua adesione all’ONU dovrebbe essere sospesa. Ciò significa che l’organismo avrebbe dovuto sospendere la Russia dopo la sua invasione su larga scala dell’Ucraina. Una tale decisione di sospensione potrebbe essere presa dall’Assemblea Generale. Non dovrebbe esserci spazio per due pesi e due misure nelle Nazioni Unite.

Al vertice dei leader del G-20 a Johannesburg, novembre 2025Yves Herman / Reuters

Anche le istituzioni commerciali e finanziarie globali devono essere aggiornate. L’Organizzazione mondiale del commercio, che da anni è paralizzata dal blocco del suo meccanismo di risoluzione delle controversie, rimane comunque essenziale. Nonostante l’aumento degli accordi di libero scambio al di fuori dell’ambito di competenza dell’OMC, oltre il 70% del commercio globale continua a essere regolato dal principio della “nazione più favorita” dell’OMC. Lo scopo del sistema commerciale multilaterale è garantire un trattamento equo e paritario a tutti i suoi membri. I dazi doganali e altre violazioni delle norme dell’OMC finiscono per danneggiare tutti. L’attuale processo di riforma deve portare a una maggiore trasparenza, soprattutto per quanto riguarda le sovvenzioni, e a una maggiore flessibilità nei processi decisionali dell’OMC. Queste riforme devono essere attuate rapidamente, altrimenti il sistema perderà credibilità se l’OMC rimarrà impantanata nell’attuale situazione di stallo.

La riforma è difficile e alcune di queste proposte potrebbero sembrare irrealistiche. Ma lo erano anche quelle avanzate a San Francisco quando, oltre 80 anni fa, fu fondata l’Organizzazione delle Nazioni Unite. L’adesione dei 193 membri delle Nazioni Unite a questi cambiamenti dipenderà dalla loro scelta di concentrare la propria politica estera sui valori, sugli interessi o sul potere. La condivisione del potere sulla base dei valori e degli interessi è stata alla base della creazione dell’ordine mondiale liberale dopo la seconda guerra mondiale. È giunto il momento di rivedere il sistema che ci ha servito così bene per quasi un secolo.

La variabile imprevedibile per l’Occidente globale in tutto questo sarà se gli Stati Uniti vorranno preservare l’ordine mondiale multilaterale che hanno contribuito in modo determinante a costruire e dal quale hanno tratto enormi benefici. Potrebbe non essere un percorso facile, dato il ritiro di Washington da istituzioni e accordi chiave, come l’Organizzazione Mondiale della Sanità e l’accordo di Parigi sul clima, e il suo nuovo approccio mercantilista al commercio transfrontaliero. Il sistema delle Nazioni Unite ha contribuito a preservare la pace tra le grandi potenze, consentendo agli Stati Uniti di emergere come potenza geopolitica leader. In molte istituzioni delle Nazioni Unite, gli Stati Uniti hanno assunto un ruolo di primo piano e sono stati in grado di perseguire i propri obiettivi politici in modo molto efficace. Il libero scambio globale ha aiutato gli Stati Uniti ad affermarsi come la principale potenza economica mondiale, offrendo al contempo prodotti a basso costo ai consumatori americani. Alleanze come la NATO hanno dato agli Stati Uniti vantaggi militari e politici al di fuori della propria regione. Rimane compito del resto dell’Occidente convincere l’amministrazione Trump del valore sia delle istituzioni del dopoguerra sia del ruolo attivo degli Stati Uniti in esse.

La variabile imprevedibile per l’Oriente globale sarà il modo in cui la Cina giocherà le sue carte sulla scena mondiale. Potrebbe intraprendere ulteriori iniziative per colmare il vuoto di potere lasciato dagli Stati Uniti in settori quali il libero scambio, la cooperazione sul cambiamento climatico e lo sviluppo. Potrebbe cercare di plasmare le istituzioni internazionali in cui ora ha una posizione molto più forte. Potrebbe cercare di proiettare ulteriormente il proprio potere nella propria regione. E potrebbe abbandonare la sua strategia di lunga data di nascondere la propria forza e aspettare il momento opportuno, decidendo che è giunto il momento di intraprendere azioni più aggressive, ad esempio nel Mar Cinese Meridionale e nello Stretto di Taiwan.

YALTA O HELSINKI?

Un ordine internazionale, come quello forgiato dall’Impero Romano, può talvolta sopravvivere per secoli. Il più delle volte, tuttavia, dura solo pochi decenni. La guerra di aggressione della Russia in Ucraina segna l’inizio di un altro cambiamento nell’ordine mondiale. Per i giovani di oggi, è il loro momento 1918, 1945 o 1989. Il mondo può prendere una piega sbagliata in questi momenti cruciali, come è successo dopo la prima guerra mondiale, quando la Società delle Nazioni non è riuscita a contenere la competizione tra le grandi potenze, provocando un’altra sanguinosa guerra mondiale.

I paesi possono anche riuscire più o meno nell’intento, come è successo dopo la seconda guerra mondiale con la creazione delle Nazioni Unite. Quel nuovo ordine postbellico, dopotutto, ha preservato la pace tra le due superpotenze della Guerra Fredda, l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti. Certo, quella relativa stabilità è costata cara agli Stati che sono stati costretti alla sottomissione o hanno sofferto durante i conflitti per procura. E anche se la fine della Seconda guerra mondiale ha gettato le basi per un ordine che è sopravvissuto per decenni, ha anche piantato i semi dell’attuale squilibrio.

Nel 1945, i vincitori della guerra si riunirono a Yalta, in Crimea. Lì, il presidente degli Stati Uniti Franklin Roosevelt, il primo ministro britannico Winston Churchill e il leader sovietico Joseph Stalin elaborarono un ordine postbellico basato sulle sfere di influenza. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sarebbe emerso come il palcoscenico in cui le superpotenze potevano affrontare le loro divergenze, ma offriva poco spazio agli altri. A Yalta, i grandi Stati fecero un accordo a scapito dei piccoli. Questo errore storico deve ora essere corretto.

Senza un sistema multilaterale forte, la diplomazia diventa transazionale.

La convocazione nel 1975 della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa offre un netto contrasto con Yalta. Trentadue paesi europei, più il Canada, l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti, si riunirono a Helsinki per creare una struttura di sicurezza europea basata su regole e norme applicabili a tutti. Concordarono sui principi fondamentali che regolavano il comportamento degli Stati nei confronti dei propri cittadini e gli uni verso gli altri. Si trattò di un’impresa straordinaria di multilateralismo in un momento di forti tensioni, che contribuì in modo determinante a precipitare la fine della Guerra Fredda.

Yalta ha prodotto risultati multipolari, mentre Helsinki è stata multilaterale. Ora il mondo si trova di fronte a una scelta e credo che Helsinki offra la strada giusta da seguire. Le scelte che faremo tutti nel prossimo decennio definiranno l’ordine mondiale del XXI secolo.

I piccoli Stati come il mio non sono semplici spettatori in questa vicenda. Il nuovo ordine sarà determinato dalle decisioni prese dai leader politici sia dei grandi che dei piccoli Stati, siano essi democratici, autocratici o una via di mezzo. E qui una responsabilità particolare ricade sull’Occidente globale, in quanto artefice dell’ordine che sta volgendo al termine e ancora, dal punto di vista economico e militare, la coalizione globale più potente. Il modo in cui ci assumiamo questa responsabilità è importante. Questa è la nostra ultima possibilità.

TASSONOMIA PRIMA DEGLI IDEALTIPI DELLE PRINCIPALI FORME DEL POTERE POLITICO IN CONFORMITÀ ALLA DIALETTICA DEL PARADIGMA  REALISTICO DEL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO A PROPOSITO DE  LE QUESTIONI RUSSE AL DI LÀ  DELL’UCRAINA DI    GEORGE    FRIEDMAN_di Massimo Morigi

TASSONOMIA PRIMA DEGLI IDEALTIPI DELLE PRINCIPALI FORME DEL POTERE POLITICO IN CONFORMITÀ ALLA DIALETTICA DEL PARADIGMA  REALISTICO DEL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO A PROPOSITO DE  LE QUESTIONI RUSSE AL DI LÀ  DELL’UCRAINA DI    GEORGE    FRIEDMAN

  Di Massimo Morigi

Non c’è nulla di nascosto che non sarà svelato,

né di segreto che non sarà conosciuto.  

Pertanto ciò che avrete detto nelle tenebre,

sarà udito in piena luce;

e ciò che avrete detto all’orecchio nelle stanze più interne,

sarà annunziato sui tetti.

Luca 12, 2-3

          Le questioni russe al di là dell’Ucraina di George Friedman, pubblicato per “L’Italia e il Mondo” in data 16 novembre 2025 (Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20251129211554/https://italiaeilmondo.com/2025/11/16/le-questioni-russe-al-di-la-dellucraina-di-george-friedman/?lcp_pagelistcategorypostswidget-3=9#lcp_instance_listcategorypostswidget-3) e nel suo testo originale in inglese in data 11 novembre 2025 per “Geopolitical Futures” (Russia’s Issues Beyond Ukraine, all’URL https://geopoliticalfutures.com//pdfs/russias-issues-beyond-ukraine-geopoliticalfutures-com.pdf, file PDF caricato su Internet Archive generando gli URL  https://archive.org/details/russias-issues-beyond-ukraine-geopoliticalfutures-com  e  https://ia601704.us.archive.org/3/items/russias-issues-beyond-ukraine-geopoliticalfutures-com/russias-issues-beyond-ukraine-geopoliticalfutures-com.pdf, copiaincolla del documento PDF su file Word e caricato su Internet Archive generando l’URL https://archive.org/details/problemi-della-russia-al-di-la-ucraina), è un documento di estremo interesse per due ordini di motivi. Il primo, e va detto molto chiaramente, non tanto per gli spunti di  analisi geopolitica che offre ai suoi lettori ma proprio per il suo contrario, vale a dire per la intima natura opaca ed omissiva di questo testo che ce lo connota come un ottimo esempio di propaganda e disinformazione pro il c.d. occidente, e questo tanto più dispiace perché George Friedman ha saputo in passato, pur con la sua dichiarata ferrea appartenenza a quelle che lui riteneva le ragioni degli Stati Uniti, fornirci ottime prove (ben volentieri si concede che oggi queste ragioni, vista la appena malamente celata guerra civile che percorre sempre più gli Stati Uniti con le conseguenti ripercussioni a livello di gruppi strategici di questo paese che continuano la loro guerra civile anche sul terreno della politica estera, siano a Friedman sempre più difficili da esplicitare, e forse anche in ciò va trovata la ragione dell’opacità del documento).

          La seconda ragione di interesse, è che è proprio la profonda manchevolezza del documento che ci consente, proprio come in un negativo fotografico o, ancor meglio, attraverso la sua negazione e il suo superamento dialettico, di mettere ulteriormente a fuoco la nostra definizione di democrazia come ‘polioligarchia competitiva’ (sulla sostituzione del termine ‘democrazia’, parola politologicamente di nullo valore descrittivo ed euristico e carica di una malcelata e ancor peggio sviluppata teologia politica, col termine ‘polioligarchia competitiva’, che ancor meglio e assai più realisticamente del termine ‘poliarchia’ di Robert Dahal si presta a rappresentare le forme che il potere assume sotto i c.d. regimi democratici mettendo in luce, al contrario che in Dahal, che le ‘democrazie’ non sono una sorta di polifonia fra gruppi di  potere – e da qui poliarchia – ma uno scontro fra grandi agenti strategici alfa e quindi anarchici in cui il popolo, il gruppo strategico omega, ha il solo ruolo dell’illusione del potere unicamente perché viene regolarmente convocato ad elezioni contrassegnate dal  voto segreto e formalmente libero, cfr.  Massimo Morigi, Confrontando Agatocle con Netanyhau commentando Israele-Italia di Cesare Semovigo, in “L’Italia e il Mondo”, 15 ottobre 2025, Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20251129193338/https://italiaeilmondo.com/2025/10/15/confrontando-agatocle-con-netanyahu-commentando-israele-italia-di-cesare-semovigo_di-massimo-morigi/?lcp_pagelistcategorypostswidget-3=5#lcp_instance_listcategorypostswidget-3; Id., Todo Modo, in “L’Italia e il Mondo”, 8 novembre 2025, Wayback Machine:   https://web.archive.org/web/20251123084830/https://italiaeilmondo.com/2025/11/08/todo-modo_di-massimo-morigi/?lcp_pagelistcategorypostswidget-3=9#lcp_instance_listcategorypostswidget-3     e Id.,  Breve nota  intorno allo stimolante intervento Patria? Alcune idee in ordine sparso, in “L’Italia e il Mondo”, 12 novembre 2025, Wayback Machine:   https://italiaeilmondo.com/2025/11/12/breve-nota-intorno-allo-stimolante-intervento-patria-alcune-idee-in-ordine-sparso_di-massimo-morigi/?lcp_pagelistcategorypostswidget-3=9#lcp_instance_listcategorypostswidget-3. Infine sui gruppi strategici alfa e sui gruppi strategici omega si rinvia sempre a Id., Teoria della distruzione del valore, all’URL di Internet Archive https://archive.org/details/MarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore ed anche pubblicato sull’ “Italia e il Mondo” in data 4 febbraio 2017 e documento raggiungibile  tramite la Wayback Machine all’URL https://web.archive.org/web/20170205031134/https://italiaeilmondo.com/2017/02/04/teoria-della-distruzione-del-valore-teoria-fondativa-del-repubblicanesimo-geopolitico-e-per-il-superamentoconservazione-del-marxismo-di-massimo-morigi/).

          Due i passaggi che maggiormente segnalano le criticità del documento in questione e per quanto riguarda la sua inconcludente analisi geopolitica è il seguente, che si cita come il successivo nell’originale in inglese, proprio in chiusura dell’articolo. Scrive quindi Friedman: «All this is to say that Russia’s obsession with its western border has come at the expense of its southern border, the countries along which are interested in reaching an accommodation with the United States. Russia has neither the ability nor the interest to act on two borders at once. Normally, this would lead a nation to moderate attention to the war it is not winning and try to reduce future threats on the other borders. So far, this is not what Russia is doing.» Ora, se è del tutto chiaro che se da una parte siamo di fronte ad un mondo rovesciato, perchè la Russia, contrariamente a quanto impavidamente sostiene Friedman, sta vincendo la guerra che la Nato conduce per procura contro di lei attraverso la vittima sacrificale dell’Ucraina, dall’altro lato siamo in presenza anche di una debole analisi geostrategica, perché se è vero come è vero e come si sostiene all’inizio dell’ articolo  che la Russia è in difficoltà nella parte meridionale del Caucaso in ragione della pervasiva ed infiltrante azione degli Stati Uniti, non si capisce proprio perché la Russia dovrebbe lasciar perdere l’Ucraina, forse perché non sta vincendo la guerra?, ma a questo punto, come già rilevato, siamo in presenza di un “sogno bagnato” di George Friedman e di tutto il c.d. occidente che non si capisce perché venga ancora pubblicamente rappresentato, se solo perché non si riesce a cambiare registro propagandistico o anche perché, e sarebbe ancora più grave, gli stessi propagandisti sono caduti vittime della loro propaganda (probabilmente per tutti e due i motivi, anche se profilandosi sempre più una vittoria schiacciante della  Russia è assai verosimile che questo mondo a rovescia venga ammanito alle masse più per cinismo che per una residua convinzione).

          Veniamo quindi al secondo passaggio significativo del documento dove George Friedman afferma: «China’s willingness to stop companies from buying Russian oil should be seen as a gesture of goodwill ahead of hopefully better relations with Washington. This makes sense because the Chinese economy needs access to U.S. markets. China is undergoing significant economic problems, including potentially declining exports, a real estate crisis and high unemployment in certain population segments. Should China decide the obvious – that if tensions result in massive tariffs, it will need better relations with the U.S. – it will probably spurn Russia, especially if there is little economic fallout in doing so.» Anche qui si rileva un ottimo esempio di mondo al contrario quando si afferma che la Cina vuole interrompere l’importazione di petrolio russo, perché se è vero come è vero che alcune grosse compagnie petrolifere cinesi a conduzione statale hanno interrotto le importazioni, ciò non equivale ad una interruzione delle attività volte all’incremento delle importazioni energetiche dalla Russia ma, anzi, ad un potenziamento della c.d. flotta fantasma cinese che sin dagli inizi delle prime sanzioni ha garantito la vendita della Russia alla Cina delle sue risorse energetiche, e questo illusorio rifiuto della Cina di acquistare da adesso in poi, dopo il diciannovesimo pacchetto di sanzioni, petrolio russo molto difficilmente è compatibile col fatto che subito dopo le sanzioni Cina e Russia hanno stipulato un accordo per una sempre una più stretta collaborazione energetica per gli anni a venire. Si consulti a questo proposito la nota della “Tass” del 4 novembre 2025 Russia, China to continue boosting energy cooperation (all’URL https://tass.com/economy/2039035, copiaincolla del documento  su file Word e successivo suo caricamento  su Internet Archive generando l’URL  https://archive.org/details/tass-russia-cina) e per quanto riguarda il rafforzamento della flotta fantasma, giusto perché non si dica che noi si è propensi ad affidarci alle menzioniere e traditrici fonti provenienti dal nemico,  volentieri si rinvia ad “Intellinews” che in data 17 novembre 2025 pubblica l’articolo di Mark Buckton China’s LNG tanker shadow fleet – reality or fiction? (Wayback Machine:  https://web.archive.org/web/20251129213117/https://www.intellinews.com/china-s-lng-tanker-shadow-fleet-reality-or-fiction-411750/?source=russia%2F%3Flcp_pagelistcategorypostswidget-3=9#lcp_instance_listcategorypostswidget-3) dove, appunto, si ragiona intorno al ruolo chiave che nei tempi a venire ricoprirà la flotta fantasma per incrementare le esportazioni energetiche dalla Russia verso la Cina e, infine, siccome ben sappiamo che la disinformatia del nemico è sempre in agguato come il demonio che si rifugia anche nei luoghi più venerati e quindi ritenuti ingenuamente sicuri, si rinvia a “Bloomberg”, il Santa Sanctorum del turbocapitalismo finanziario e perciò luogo sicuramente bonificato dagli spiriti malvagi putiniani e russofili, che in data 12 novembre 2025 pubblica a firma di Stephen Stapczynski China Ratchets up Efforts to Import Blacklisted Russian LNG (Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20251121071239/https://www.bloomberg.com/news/articles/2025-11-12/china-ratchets-up-efforts-to-import-blacklisted-russian-lng), il cui argomento sono gli sforzi cinesi per rafforzare la sua flotta fantasma per aggirare le sanzioni energetiche contro Russia. 

           Fuori dagli scherzi e non dilungandoci quindi in ulteriori facili facezie facenti leva sul timore  che anche “Bloomberg” sia infiltrato da pericolosi comunisti e assatanati putiniani (ma semmai rilevando che la cecità di Friedman sulla flotta fantasma è praticamente condivisa da tutti i principali mass media occidentali, per  comparire l’argomento, come s’è visto, soprattutto su organi specialistici e non riservati alla massa, e quindi, da questo punto di vista, Friedman avrebbe potuto dare “qualcosina” di più…), è preferibile porre sotto attento scrutinio, proprio perché la sua ingenuità è per noi foriera di interessanti e nuove integrazioni di teoria politica e/o geopolitica, il passo appena citato da “Geopolical Futures”dove si manifesta in pieno la speranza di Friedman che la Cina, per il  suo passato di rapporti tumultuosi verso la Russia ed anche in ragione di motivazioni economiche, deciderà alla fine di rinunciare alla sua attuale alleanza militare ed economica con la Russia per volgersi, quindi, con rinnovato interesse verso gli Stati Uniti.  Ma, a parte il fatto che in politica e a maggior ragione nelle scienze sociali e, soprattutto, in geopolitica ricorrere solo ai precedenti storici ma non calati nella concreta ed attuale situazione costantemente in dialettica evoluzione è sempre uno scarso viatico per rappresentare (o nel caso di Friedman, per sperare)  futuri possibili scenari (more solito, richiamiamo il famoso motto di Lenin, pietra angolare dell’impostazione filosofico-procedurale del realismo politico ‘analisi concreta della situazione concreta’), quello che qui rileva è che Friedman non tiene conto di due cose, e la prima riguarda la sua cecità  (e di tutti i think tank occidentalisti) verso la sempre più tumultuosa multipolarizzazione dello scenario internazionale che fa sì che le potenze emergenti siano strutturalmente orientate a concepire le proprie alleanze proprio in funzione di questa frammentazione antiegemonica e quindi rifiutando di allacciare stretti legami con la potenza unipolarmente egemone della globalizzazione post ’89, o detto ancor più semplicemente, la Cina, per poter continuare a crescere economicamente e geostrategicamente, deve contendere e strappare ogni centimetro di terreno agli Stati Uniti e deve, altresì, stringere alleanze con coloro che dopo il secondo conflitto mondiale agli Stati Uniti si sono palesemente opposti, e fra questi in primis la Russia (l’unico momento di un reale e profondo appeasement con gli Stati Uniti è stato sotto Gorbaciov e poi Eltsin, non a caso il periodo di peggiore involuzione politico-sociale della Russia e, a questo proposito, tornano alla mente le parole di Kissinger ‘To be an enemy of the US is dangerous, but to be a friend is fatal’), una Russia che con l’odierna vittoriosa guerra contro la Nato si presenta quindi come la prima potenza militare del globo e perciò anche per questo come partner appetibile per la Cina, al contrario degli Stati Uniti,  che oltre al sempre più evidente declino socio-economico, connotati dalla sempre più scemante capacità nel dispiegamento diretto della violenza sullo scenario internazionale (la Russia afferma di essere la seconda potenza militare preceduta dagli Stati Uniti, una falsa modestia se teniamo conto che a livello degli armamenti nucleari è la prima al mondo, esibita solo per non dare ulteriore legna per il fuoco della propaganda occidentalista).

           Il secondo elemento di cui non tiene conto Friedman e che denunciando non tanto una precisa volontà di diffondere false rappresentazioni e/o di autoilludersi ma proprio una debolezza dell’odierna teoria politologica mainstream  (e quindi di riflesso della geopolitica) nell’elaborare le “categorie del politico” e per questo di grandissimo interesse,  è la sua illusione che gli Stati Uniti possano essere ritenuti proprio per la loro intrinseca natura “democratica” partner  affidabili o, comunque, “migliori” per stringere alleanze (anche se non espressamente formulato, è questo il pregiudizio che non solo informa l’articolo ma anche tutta la sua precedente produzione), derivante invece questa inaffidabilità proprio dalla natura del potere politico di questo paese. Come prima detto,  negli ultimi interventi sull’ “Italia e il Mondo” è già stata fornita una definizione alternativa e più realistica di tutte quelle forme di espressione del potere politico che nel c.d. occidente vengono sbrigativamente ed illusoriamente accomunate col termine di ‘democrazia’, non essendo la c.d. democrazia rappresentativa un forma di esercizio del potere espressione della volontà popolare ma, molto più realisticamente, una ‘polioligarchia competitiva’,  cioè una lotta fra oligarchie confliggenti  per l’occupazione del potere ricorrendo a votazioni libere e segrete che coinvolgono il popolo ma nel quale il popolo cessa di aver alcun ruolo significativo nel godere i frutti della sua scelta una volta cessata la consultazione elettorale.

          Ora è chiaro che il paradigma della ‘polioligarchia competitiva’ è una sorta di tipo ideale molto generico e che è quindi necessario designare al suo interno altri subtipi ideali che rappresentino ancora più concretamente le varie realtà raccolte sopra la generale, per quanto del tutto realistica nella sua impostazione teorica,  definizione di ‘polioligarchia competitiva’. E tradotto tutto ciò per quanto riguarda la “democrazia” degli Stati uniti, oltre ad affermare, tanto per sfatare i miti sulla democrazia in quel paese e sulla democrazia in generale, che essa è una ‘polioligarchia competitiva’, possiamo ulteriormente precisare che essa è una ‘polioligarchia stasistico-competitiva’, in cui  il primo lemma dell’aggettivo composto della nuova definizione testè introdotta deriva   dalla traslitterazione  del sostantivo στάσις da cui  stasis, significando στάσις in greco antico guerra civile, e con questa definizione della “democrazia” americana si designa quindi  una polioligarchia in cui alle “democratiche” elezioni (e comunque sistematicamente macchiate da  brogli, sovente decisivi nel determinarne l’esito) vengono affiancati nella gestione e/o produzione del potere non solo piccole vere e proprie guerre civili armate all’interno della società ma anche l’assassinio politico che non è un elemento occasionale ma, come i brogli, anch’esso sistemico.

          Posta quindi questa definizione della natura polemogena della “democrazia” americana, è allora di tutta evidenza che a meno non si sia di fronte a rapporti di natura coloniale (come nel caso dell’Italia e, in misura minore, degli altri paesi europei) è del tutto sconsigliabile stringere da parte di altre potenze rapporti e/o alleanze di lunga durata con un sistema politico conformato ad un modello ‘polioligarchico stasistico-competitivo’ come quello degli Stati Uniti, che proprio in ragione della sua strisciante ma onnipresente guerra civile in atto al suo interno presenta conseguentemente una altissima instabilità e l’impossibilità perciò di onorare i suoi impegni. E ciò risulta tanto più vero se consideriamo la natura del potere “democratico” della Russia. (Sulla natura polemogena della “democrazia” americana, o, meglio detto, della ‘polioligarchia stasistico-competitiva’ statunitense, fondamentale il rinvio ai vari interventi che su podcast ed anche su YouTube Gianfranco Campa svolge da sempre per “L’Italia e il Mondo”. Non potendo citarli tutti, si segnala, fra i tanti, l’ultimo video pubblicato sull’ “Italia e il Mondo” in data 25 novembre 2025, Gianfranco Campa, con Pino Germinario e Cesare Semovigo, Compagni di scuola – USA scontro finale, sull’ “Italia e il Mondo” alla pagina del blog all’URL https://italiaeilmondo.com/2025/11/25/compagni-di-scuola-usa-scontro-finale-gianfranco-campa/, con rinvio della pagina all’URL di rumble https://rumble.com/v727t3u-compagni-di-scuola-usa-scontro-finale-gianfranco-campa.html e a quello di YouTube https://www.youtube.com/watch?v=FQlQ9eU4awg; nostro download del documento video e successivo caricamento su Internet Archive generando gli URL https://archive.org/details/clipto-ai-video-downloader-compagni-di-scuola-usa-scontro-finale-gianfranco-campa e https://ia802306.us.archive.org/34/items/clipto-ai-video-downloader-compagni-di-scuola-usa-scontro-finale-gianfranco-campa/Clipto%20AI%20video%20downloader_COMPAGNI%20DI%20SCUOLA%20-%20Usa%20scontro%20finale%20-%20Gianfranco%20Campa.mp4, ricorrendo  anche a questa piattaforma  di preservazione scientifica  della memoria digitale vista l’estrema importanza del documento.)

          Dal mainstream propagandistico occidentale la “democrazia” russa è stata definita ridicolmente come una ‘democratura’ volendo con ciò significare che sotto la parvenza di un sistema democratico con elezioni formalmente libere, segrete e competitive fra partiti concorrenti, la sua realtà è quella di una dittatura al cui vertice c’è Putin (altra ridicolaggine che non merità nemmeno un approfondimento teorico è quando la propaganda occidentalista straparla e vaneggia sui potentati economici russi definendoli oligarchi, con ciò volendo sottolineare un ulteriore elemento di non democraticità della Russia: quando si dice che il bue dà del cornuto all’asino…).  Ora abbandonando come si è fatto con la definizione iniziale di ‘polioligarchia competitiva’ la mitologia democratica e passando poi secondo questa più realistica terminologia alla definizione della “democrazia” americana come ‘polioligarchia stasistico-competitiva’, si può ben dire sulla natura del potere politico russo che essa si manifesta come una ‘polioligarchia pseudocompetitiva’, con ciò volendo  affermare che Putin non è un dittatore ma il rappresentante più alto in grado di una fortemente strutturata ed unitaria oligarchia politica verso la quale è responsabile e deve rendere conto   ma anche segnalando che un potere così fortemente strutturato come quello russo contempla sì elezioni realmente libere, segrete  e competitive fra diversi partiti ma che queste elezioni, proprio per la natura fortemente strutturata dell’oligarchia politica russa e, ultimo ma non meno importante, anche per il fatto che questa oligarchia viene percepita dalla stragrande maggioranza del popolo russo non come una classe sovraordinata ad esso ma come effettivamente preoccupata del bene comune, sono praticamente un proforma e del tutto superflue per la scelta da parte del corpo elettorale dei governanti. E seguendo sempre la linea classificatoria che si dipana dalla ridefinizione di ‘democrazia’ come ‘polioligarchia competitiva’ (e facendo notare che questa nuova classificazione è ad un tempo diretta conseguenza del paradigma del Repubblicanesimo Geopolitico per il quale unico elemento per comprendere una società è seguire le reali dinamiche del potere con la conseguenza che dal punto di vista di questa analisi integralmente realista non esiste un potere politico contrapposto alla libertà individuale ma esiste un potere politico che non solo si dirama dai vertici istituzionali di questa società ma che informa anche le espressioni individuali degli uomini che sono situati in questa società e che quindi la libertà altro non è che il frutto della dialettica del potere proveniente dall’alto con quello che risale dal basso –  sul ‘Repubblicanesimo Geopolitico’ e, in particolare, su questa dialettica del potere dall’alto verso il basso e viceversa che dal punto vista teorico disconosce radicalmente la contrapposizione semantico-assiologica fra potere e libertà, sempre valido il rinvio alle sue due prime espressioni aurorali  apparse sul “Corriere della Collera” del compianto grande studioso di geopolitica e mazzininano Antonio De Martini l’11 novembre 2013 e il 26 novembre 2013, Massimo Morigi, Alla ricerca della identità italiana e Id., Repubblicanesimo Geopolitico. Alcune delucidazioni preliminari, entrambi i documenti consultabili attraverso la Wayback Machine all’URL http://web.archive.org/web/20240416010147/https://corrieredellacollera.com/2013/11/23/alla-ricerca-dellidentita-italiana-di-massimo-morigi/  –   e facendo sempre notare, ultimo ma non meno importante, che con questa ridefinizione del Repubblicanesimo Geopolitico del paradigma del potere e della libertà si rende quasi del tutto insignificante la distinzione classica della politologia e della dottrina costituzionalista fra forme di Stato e forme di governo, essendo questa una distinzione puramente epifenomenica e storicamente accidentale, sovrastrutturale si sarebbe detto un tempo, delle reali dinamiche del potere la cui dialettica investe contemporaneamente l’oligarchia e il popolo nel loro reciproco rapporto, e per ultimo sottolineando anche che questo nuovo paradigma interpretativo delle forme del potere rende del tutto superfluo il concetto di ‘Stato profondo’, almeno nella sua accezione più mitologica che lo vede come una sorta di metastasi che all’interno dello Stato si opporrebbe alle decisioni del popolo formulate attraverso il “libero” processo elettorale contemplato nelle c.d. democrazie rappresentative), possiamo anche definire la forma del potere politico della Cina  come una ‘polioligarchia autoritario-non competitiva’, e  con questo volendo quindi segnalare che  le elezioni che si svolgono in Cina danno vita ad una serie successiva di elezioni dove ad ogni passaggio si eleggono assemblee che eleggono altre più ristrette assemblee, selezionando così nelle varie prove elettorali  i membri ritenuti più meritevoli e provenienti quasi esclusivamente dalle file del Partito comunista cinese o ad esso graditi ed esplicitamente reputati non oppositori ma anzi collaboratori  dello stesso (questa forma di potere viene definito in Cina  sistema di “cooperazione multipartitica e consultazione politica”, nel quale possono esistere ed esistono anche altri partiti oltre al Partito comunista ma questi devono collaborare lealmente col PCC) ma che, come nel caso russo – in cui, invece, siamo in presenza di un reale multipartisimo anche, se, de facto, non rappresentano queste varie forze  la proposta di una reale oligarchia politico-sociale alternativa a quella al potere –, il Presidente della Repubblica Popolare Cinese che scaturisce dopo questi vari passaggi elettorali è tutto fuorchè un dittatore alla Stalin, Mussolini od Hitler molto semplicemente perché egli è espressione organica maturata attraverso vari passaggi, anche se sapientemente guidati dall’alto ma anche con un minimo grado di autonomia da parte di queste assemblee via via nominate, dell’oligarchia che guida il paese e che quindi semplici atti d’imperio anarchici ed irresponsabili come nel caso dei dittatori appena noninati non sono nemmeno concepibili e soggiungendo, infine, che, proprio perché in Cina la dialettica fra oligarchia e popolo è improntata alla fiducia del basso verso chi comanda, il termine ‘autoritario’, nel caso in specie, non sta a designare un subire passivamente del popolo le imposizioni che provengono dall’alto ma, molto più semplicemente che, in accordo con la filosofia confuciana che informa tutta la società cinese, il popolo cinese si riconosce e conferisce autorevolezza in ragione del fatto che essi sono ritenuti capaci, onesti e preoccupati del bene comune, così come impone la filosofia confuciana condivisa da tutta la società. (E per quanto riguarda le forme del potere politico al cui vertice possiamo porre dittatori come i sunnominati Stalin, Hitler o Mussolini, pur nella a volte radicale differenza di narrazione ideologica che le hanno ispirate, possiamo facilmente parlare di ‘polioligarchia monocratico-anticompetitiva’, una forma politica,  cioè, con al vertice un dittatore non solo fieramente avverso ad una  dialettica reale fra l’oligarchia che lo sostiene  e il basso della società ma anche e soprattutto ad una qualsivoglia verifica elettorale del suo potere personale. Non parleremo diffusamente in questa comunicazione  della ‘polioligarchia monocratico-anticompetitiva’ in riferimento al problema del totalitarismo  – ma come si evince dalla  definizione stessa, per quanto qui si parli di un partito unico, rimane il primo termine della definizione, ‘polioligarchia’ perché, nonostante quanto sostenga l’ideologia ufficiale, all’interno dell’unica oligarchia politica permessa dimorano e confliggono varie sottooligarchie fra loro in lotta, mentre nel secondo elemento della definizione, con ‘anticompetitiva’ si indica espressamente un rifiuto assoluto della consultazione elettorale attraverso la quale la base non oligarchica possa contribuire a costituire l’oligarchie e/o le sue sottooligarchie, cosa che non accade nella ‘polioligarchia autoritario-non competitiva’ cinese che, come si è visto, prevede forme, anche se molte attenuate e con vari passaggi intermedi, di elettorato attivo da parte dei non appartenti alle oligarchie apicali al potere per la scelta dei membri della oligarchia prevalente o di  quelle con le prime collaboranti –. Ma ritornando allo specifico della problematica del totalitarismo o meno all’interno del paradigma della ‘polioligarchia monocratico-anticompetitiva’, questo non connota, per esempio, le dittature latinoamericane, la Spagna clericofascista e reazionaria di Francisco Franco o il  Portogallo dell’Estado Novo di António de Oliveira Salazar, tutti regimi a bassa mobilitazione popolare e quindi, per definizione, non totalitari. Su questo aspetto antimobilitatore di alcune ‘polioligarchie monocratico-anticompetitive’ e con le analogie che possono essere fatte con le attuali c.d. democrazie rappresentative, cioè con le ‘polioligarchie competitive’, anch’esse connotate da una forte pulsione antimobilitatoria, classico esempio le sempre più basse percentuali di partecipanti alle elezioni e, ancor più eclatante, l’espressamente voluta  ed imposta, da parte delle polioligarchie al potere – o delle oligarchie ad esse apparentemente all’opposione ma in realtà collaboranti nel sostenere il sistema e nel rifiutare qualsiasi dialettica reale con chi di queste oligarchie politiche non fa parte –, smobilitazione e atomizzazione di ogni forma di aggregazione politico-sociale durante il periodo del Covid e sul problema del totalitarismo, si tornerà, però, più diffusamente  in prossime comunicazioni.)

          Alla luce quindi di questa nuova tassonomia del potere delle tre attuali superpotenze, è facile concludere che l’elemento decisivo che impedisce alleanze o della Russia o della Cina con la declinante superpotenza statunitense deriva ineluttabilmente direttamente dal fatto che le forme politiche della Russia e della Cina avendo un alto grado di stabilità proiettato in un lunghissimo periodo di tempo non potranno mai stringere alleanze strategiche con la superpotenza americana che in ragione della sua natura ‘polioligarchica stasistico-competitiva’ che comporta nei fatti una diuturna ancorchè mai esplicitamente riconusciuta guerra civile accompagnata da episodi di terribile e plateale violenza politica e quindi, in conclusione, per l’ intrinseca instabilità e rissosità che tende a sfociare addirittura nel delitto politico e nella sedizione per azione diretta delle sue classi dirigenti oligarchiche, non è assolutamente in grado di proporre col minimo di credibilità ad alcuno di pari od analogo grado di potenza politico-militare ma di immensamente superiore livello di stabilità politico-sociale alcun accordo di lungo respiro. (Non si potrebbe produrre un esempio più illuminante della guerra civile che sotto la cenere cova negli Stati Uniti  per divampare da un momento all’altro  del seguente  video postato sull’account X della Senatrice Elissa Slotkin in data  18 nov 2025,  dove 6 ex membri  delle forze armate e della CIA  e ora politici del Partito democratico esortano coloro che sono attualmente membri attivi   delle forze armate e dei  servizi segreti a non obbedire agli ordini del Presidente Donald Trump qualora questi siano contro la Costituzione o contro la la legge. La descrizione alla pagina del video molto eloquentemente recita: «We want to speak directly to members of the Military and the Intelligence Community. The American people need you to stand up for our laws and our Constitution. Don’t give up the ship.» Durante il video le esortazioni a voce ad eventualmente disobbedire sono accompagnate, per rendere ancora più martellante ed incisivo il messaggio, da didascalie che ripetono parola per parola quanto viene detto. Questo video su X, della durata di 1 minuto e 30 secondi, ha ricevuto al 28 novembre 2025 più di 18 milioni di visualizzazioni, è visionabile all’URL di X https://x.com/SenatorSlotkin/status/1990774492356902948?s=20 e, vista la sua importanza storica, è stato scaricato e poi caricato su Internet Archive generando gli URL https://archive.org/details/ex-oprj-z-96p-bkr-9l-b e https://ia601209.us.archive.org/0/items/ex-oprj-z-96p-bkr-9l-b/ExOprjZ96pBKr9lB.mp4.  Sempre in data 18 novembre 2025 il New York Post ha postato una versione più lunga del video su YouTube di 2 mimuti e 51 secondi che al suo esordio ha ricevuto più di 75 mila visualizzazioni e la dicitura di presentazione del video recita: «Democrats to Troops: Don’t Follow Unlawful Orders.» Il documento è visionabile all’URL https://www.youtube.com/watch?v=5Iux161DZAA e,  sempre per i motivi di cui sopra, download del documento e ricaricamento del file su Internet Archive generando gli URL https://archive.org/details/clipto-ai-video-downloader-democrats-to-troops-dont-follow-unlawful-orders  e https://ia902306.us.archive.org/10/items/clipto-ai-video-downloader-democrats-to-troops-dont-follow-unlawful-orders/Clipto%20AI%20video%20downloader_Democrats%20to%20Troops%20%20Don%E2%80%99t%20Follow%20Unlawful%20Orders.mp4.)

          Ma la  ‘polioligarchica stasistico-competitiva’ statunitense certamente è in grado di imporre il suo giogo alla polioligarchia competitiva italiana totalmente asservita ai diktat atlantici, che proprio in ragione di questa sua dipendenza dalle istruzioni che provengono da oltreoceano può ancor meglio essere definita come una ‘polioligarchia eterodiretto-competitiva’, con ciò volendo significare da un lato che la scelta del popolo sulle oligarchie che lo dovranno governare è sì libera e reale ma che, qualsiasi sia l’oligarchia scelta che lo dovrà governare, questa non risponde più agli interessi di chi la ha scelta ma a quelli dei gruppi strategici esteri, in primis a quelli statunitensi, ai quali questa oligarchia, di destra o sinistra non importa, ha  da sempre consegnato la sovranità nazionale (ciò lo si vede bene nel caso dell’attuale guerra Russia-Nato, dove la destra al governo profonde sempre più risorse, anche quelle che non ha, all’Ucraina e dove la sinistra all’opposizione dice, in pratica, che si potrebbe fare di più e con più entusiasmo democratico, che poi questi sforzi comportino la rovina dei conti pubblici e l’impoverimento del popolo chissene… tanto l’importante è la difesa dell’occidente e della democrazia, evviva!, e di coloro che sulla guerra lucrano  dal punto di vista economico e politico –  burocrati e politici europei in primis, allegramente uniti al  coro della compagnia cantante degli oligarchici politici italiani e delle italiche ed europee industrie degli armamenti). E volendo risalire indietro nel tempo ed anche affinare il paradigma della ‘polioligarchia competitiva’ adeguandolo non solo allo sviluppo storico del caso italiano ma anche alle altre realtà politiche “democratiche” ma sotto  pesante vincolo neocoloniale (cioè i paesi dell’Unione europea, de facto sotto dominio coloniale statunitense), c’è per ultimo da aggiungere che la nostra ‘polioligarchia eterodiretta competitiva’ non è che l’ultima evoluzione/degenerazione della originaria ‘polioligarchia democompetitiva’, dove da un lato la mitologia democratica riusciva a fare da contraltare alla natura fortemente parassitaria ed autoritaria, detto il termine ‘autoritario’ questa volta in senso unicamente derogatorio, della oligarchia che veniva eletta ed anche che, comunuque fortemente parassitaria l’oligarchia che veniva eletta, essa manteneva un certo grado di autonomia e di dignità alle direttive che provenivano  d’oltreoceano (vedi, come esempio di questo residuo di dignità nazionale, la politica estera propugnata dai vari Fanfani, La Pira, Moro, la tragica fine del Presidente dell’ENI  Enrico Mattei che volendo dare autonomia energetica all’Italia e  realizzare questo proposito pestando i calli ai grandi cartelli petroliferi statunitensi e britannici e favorendo i movimenti di decolonizzazione i cui paesi erano sfruttati dalle grandi compagnie petrolifere, venne eliminato il 27 ottobre 1962 nell’attentato mentre volava col   jet dell’ENI sul cielo di Bascapè; si rifletta anche su Bettino Craxi, il Presidente del Consiglio che osò schierare a Sigonella i carabinieri contro i Marines e che, in questo quadro della sua dichiarata politica filopalestinese – e nel quadro più generale che dopo la caduta del Muro di Berlino, i grandi agenti strategici atlantici non ritenevano più utile servirsi delle vecchie classi dirigenti italiane anticomuniste –, si spiega la sua eliminazione attraverso Mani Pulite, solo politicamente e non anche fisicamente ma, come si dice, quello che conta è il risultato…, e, infine, su Aldo Moro e sul suo assassinio attraverso la bassa manovalanza delle Brigate Rosse, dove vale la pena ricordare che le ricerche del rapito che non condussero alla sua liberazione furono condotte in maniera molto singolare e che presenta molti e mai chiariti lati oscuri. Ancora lontani da Mani Pulite e dal cambio di paradigma USA verso la più grande forza di sinistra, certamente per il grande fratello d’oltreoceano il compromesso storico non s’aveva da fare in quel lontano 1978…).

           Si conclude con una domanda (retorica ma non troppo), dando assolutamente per assodato (o almeno, dando assolutamente per scontato secondo il punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico, visti i miei precedenti interventi al riguardo) che Giuseppe Mazzini non fu quella sorta di santino liberaldemocratico che ci vogliono ammanire coloro che improvvidamente, seppur sinceramente, si dichiarano i loro attuali eredi politici ma semmai il critico più feroce dell’attuale impostazione liberaldemocratica basata sull’idolatria dei diritti individuali, sul misconoscimento, de facto, dei diritti sociali  e sul dichiarato progetto  del progressivo annientamento non solo del concetto di ‘popolo’ ma, soprattutto, della sua vitalità aggregativa, compiendo, insomma, la sua vera e propria  uccisione politico-sociale in piena conformità con l’individualismo metodologico delle odierne c.d. democrazie rappresentative, individualismo metodologico la cui filosofia, retorica e pratica social-culturale è la totalitaria sovrastruttura politico-filosofica delle attuali ‘polioligarchie competitive’ e, nello specifico, dell’attuale italica ‘polioligarchia eterodiretto-competitiva’, come giudicherebbe oggi egli e quale forma politica preferirebbe – escludendo, ovviamente, la nostra attuale italica  ‘polioligarchia eterodiretto-competitiva’ per assoluta incompatibilità con tutti principi per i quali si battè tutta la vita e radicale negazione e tradimento dell’obiettivo più importante per il quale Mazzini sacrificò tutta la sua esistenza, l’indipendenza nazionale – Giuseppe Mazzini fra quelle che odiernamente si presentano come protagoniste sullo scenario politico internazionale, la ‘polioligarchia stasistico-competitiva’ americana, la ‘polioligarchia pseudocompetitiva’ russa e la ‘polioligarchia autoritario-non competitiva’ della Cina?  Certamente non è corretto  divinare su chi ci ha preceduto e ha vissuto in situazioni tanto diverse dalle nostre cosa direbbe a noi oggi, perché nella nostra situazione concreta siamo noi che dobbiamo fornire un’analisi concreta che ci guidi nel nostro operare, diversamente,  ci si avventurerebbe in una pratica teorica che non avrebbe nulla né della realistica filosofia della prassi di Antonio Gramsci, cui il Repubblicanesimo Geopolitico ben volentieri riconosce euristiche fondamentali precursioni dialettiche, né dell’altrettanta dialettica e, a sua volta, sua romantica  precorritrice esortazione ‘pensiero e azione’ di mazziniana memoria, diversamente il nostro non sarebbe più uno sforzo dialettico ispirato al realismo politico ma una sorta di invocazione spiritica, cosa che fanno oggi egregiamente coloro che pretendono di sposare Mazzini con l’individualismo metodologico che è il telos delle nostre tristi attuali ‘polioligarchie competitive’ occidentali.

          Ma una cosa si può sicuramente affermare: la visione del mondo di Giuseppe Mazzini è al nadir di quella di George Friedman, e così dicendo non mi riferisco solo al suo antiliberalismo ma anche al suo realismo politico, un realismo politico, quello di Mazzini, che ebbe sempre come stella polare un cosmopolitismo di libere nazioni repubblicane affratellate all’insegna dell’assiologica diade  ‘Dio e popolo’ e mosse armoniosamente nel loro sviluppo interno e nello stringere sempre più stretti legami reciproci all’insegna dell’intrisicamente realistico e dialettico paradigma politico-sociale ‘pensiero e azione’, mentre il realismo di George Friedman è un realismo unicamente ispirato a quello che questo pur valente studioso ritiene essere l’interesse degli Stati Uniti, sempre più difficile da focalizzare come si è visto, acclarata la sempre più marcata natura polioligarchico stasistico-competitiva di questo paese. I veri realisti politici sono, insomma, coloro che nelle contraddizioni del proprio momento storico sanno intravvedere soluzioni valide non solo per il proprio tempo ma, soprattutto, quelle che possono illuminare un futuro che ancora non c’è ma che trae le sue ragioni più profonde e feconde proprio dall’Aufhebung delle contraddizioni del proprio presente storico. E sotto questo punto di vista, George Friedman non c’è ma Giuseppe Mazzini c’è. Ora e sempre.

Massimo Morigi, dicembre 2025, nel tempo  del Solstizio d’inverno vel  Dies Natalis Solis Invicti

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