pacche, patacche e ripicche_ Un italiano a Parigi, di Giuseppe Germinario

A proposito della scorribanda priva di invito ufficiale di Di Maio in Francia, alcuni punti fermi:

  • Di Maio, Vicepresidente del Consiglio, assieme a Di Battista, è andato in Francia per incontrare alcuni esponenti del movimento dei jilet gialli, tra di essi l’esponente più radicale e probabilmente più legato a forze istituzionali ostili a Macron. Il motivo contingente riguarda l’appuntamento elettorale delle elezioni europee verso il quale il M5S viaggia ancora apparentemente in perfetta solitudine. Anche Macron, Presidente della Repubblica, è in piena campagna elettorale; si è imposto ed è stato addirittura scelto di fatto come leader europeo da buona parte delle forze progressiste europee, in particolare dal Partito Democratico Italiano. A testimonianza dei legami “affettivi” particolarmente solidi, il numero abnorme di suoi leader conferiti del titolo della Legion d’Onore. Un riconoscimento ormai rilasciato a piene mani e per questo inevitabilmente ormai svalutato. In certi ambienti sono sufficienti le “patacche” a gratificare
  • Il contenzioso verbale tra il duo Salvini/Di Maio e Macron con alti e bassi è ormai di lunga data; risale agli albori del Governo Conte; ha rasentato spesso e volentieri il volgo da osteria più dalla parte del duo per la verità. Anche “Jupiter” non ha disdegnato un linguaggio colorito; ha dato il là allo sproloquio, alternato però a comportamenti ostentatamente regali. Si è espresso, soprattutto, più saggiamente attraverso propri ventriloqui. È evidente però che il personaggio sta fremendo
  • Il contenzioso fattuale è ben più sostanzioso dello sproloquio verbale; è soprattutto ormai atavico. Riguarda lo spodestamento di Gheddafi in Libia nel 2011, con Francia e Gran Bretagna in prima fila e gli Stati Uniti di Obama a supporto indispensabile; prosegue con il contenzioso territoriale delle acque del mar Tirreno culminato con un trattato capestro firmato dai governi di centrosinistra e contestato dal Parlamento a maggioranza gialloverde. Nelle more sono proseguite sino a pochi istanti fa le acquisizioni da parte francese di importanti marchi del lusso ed alimentari, di quote importanti della rete commerciale, di banche strategiche (UNICREDIT) e società finanziarie, della principale società di telecomunicazioni (TELECOM). Alcune di queste scelte almeno imprenditorialmente fruttuose, altre dal carattere meramente predatorio. Il tutto nel generale giubilo e tripudio di una classe dirigente evidentemente soddisfatta di patacche, incarichi onorifici, pacche sulle spalle e rendite in grado di garantire lo status di famiglie blasonate per alcune generazioni. Una classe dirigente ben assortita, composta da ceto politico, imprenditoriale, istituzionale e burocratico
  • La forma nelle relazioni, soprattutto in diplomazia, è anche sostanza. Un po’ meno nel presente rispetto ad appena un secolo fa. Gli sgarbi comunque vengono restituiti possibilmente seguendo il criterio della memoria lunga, piuttosto che della reazione istintiva; sempre che la situazione non sfugga di mano. A Macron, al prezzo di evidenti manipolazioni e sofferenze psicologiche, devono averlo insegnato sin dall’adolescenza; Salvini e Di Maio non è detto che facciano in tempo ad apprenderlo. La ricorrente confusione e commistione tra ruolo istituzionale e funzione tribunizia offre continui pretesti ed argomenti agli avversari; alimenta un imbarbarimento del confronto politico per altro ricercato da tutte le fazioni politiche, comprese le più perbeniste e politicamente corrette, fuori e dentro il nostro paese con l’eccezione serafica, anzi luciferina, di Angela Merkel tra i pochi.

Il ceto politico al momento spodestato, per indole e volontà, in tutto questo contenzioso ha scelto di non utilizzare le leve delle quali disponeva, comprese le diplomatiche, per risolvere con dignità le dispute; ha smantellato in sovrappiù i propri apparati tecnico-politici e manageriali; si è ben guardato da coltivare un ceto manageriale ed imprenditoriale capace di sostenere il confronto ai livelli più alti e strategici. Quello che è subentrato non dispone di appoggi significativi negli apparati. Non gli manca la furbizia; ad oggi sembra deficitaria della consapevolezza e dell’esperienza necessarie a rigenerarli e nelle more a cercare di fidelizzare almeno una parte di essi. L’uscita di Paolo Savona dalla compagine governativa può essere l’indizio di una resa, come pure la sua nomina alla Consob può rappresentare il segnale che lo scontro si sta spostando all’interno degli apparati e della gestione del potere. Si vedrà se si tratta di una mesta ritirata, cosa più probabile o di un riposizionamento

  • La Francia di Macron rappresenta l’anello debole e più esposto della triade che comprende il vecchio establishment statunitense e la classe dirigente tedesca, impegnata nell’annichilimento politico-economico del nostro paese. Esposto in quanto Macron è l’unico Capo di Governo e di Stato ancora stabilmente in carica espressione di queste élite ancora dominanti in Occidente. Fragile in quanto si è inserito nei settori più facilmente riappropriabili da parte di eventuali centri di potere nazionali nostrani in via di formazione o di ripensamento. La messa in minoranza di Vivendi nella Telecom è probabilmente il segnale più importante. Rimane da osservare i movimenti nel settore commerciale, fondamentale per garantire sbocchi al settore agroalimentare e in quello finanziario, al momento in stallo. La Germania, al contrario, ha praticato soprattutto la strada del condizionamento e dell’integrazione indiretta di interi settori produttivi e finanziari e del condizionamento politico attraverso i meccanismi comunitari. Gli Stati Uniti meritano un discorso a parte e ben più articolato
  • In politica estera il Governo Conte ha subito uno smacco pesante, anche se ben mascherato, sulle politiche di bilancio nell’UE (Unione Europea), si appresta a compromessi inquietanti su garanzie del debito e unione bancaria confidando in una svolta politica in Europa tutta però da verificare. Ha realizzato alcuni importanti successi (presenza militare in Niger a dispetto dei franco-tedeschi, conferenza sulla Libia) sotto l’ombrello protettivo statunitense ed anglosassone

Il nervosismo di Macron è del tutto comprensibile; la sua protervia è il segnale della sua fragilità, piuttosto che della sua solidità. Dispone di una forza significativa, ma fragile; comunque sempre meno autorevole. Rischia di perdere il contrappeso della Gran Bretagna all’ingombrante fratello tedesco.

Il movimento dei gilet gialli, lo abbiamo segnalato sin dai suoi albori, a dispetto del suo carattere composito e politicamente, forse volutamente, poco caratterizzato, rivela una solidità, una costanza ed una capacità organizzativa che lascia intuire la possibilità di forti legami, reali e potenziali, con centri di potere importanti di quel paese e di sostegni politici insospettabili nel fronte formalmente amico.

Il trattato di Aquisgrana del gennaio scorso ha sancito il sodalizio fraterno tra Francia e Germania. Stranamente non ha ricevuto gli onori e il clamore dovuti e attesi, nemmeno gli stessi artefici hanno concesso alla firma l’aura di solennità paragonabile a quella del ‘63. La stessa opposizione ad esso d’altro canto è apparsa più che altro un atto dovuto, un rituale spento. Più che rassegnazione e inerzia, un atteggiamento corrispondente all’immagine di una coltre di cenere che nasconde il fuoco pronto a divampare.

Quell’accordo è stato prevalentemente rappresentato come un tentativo da parte dei due paesi di tentare la strada di piena autonomia politica e di affrancamento dal dominio americano. Data la condizione politica, strategica e ormai anche economica dei due paesi, compresa quella del più sopravvalutato dei due, la Germania, rappresenta piuttosto lo strumento con il quale il più furbo e perfido dei due, quello teutonico, cerca di asservire ed offrire le risorse amiche come obolo per la propria sussistenza e funzione di potenza regionale subordinata. Un obbiettivo riuscito con l’Italia e riproposto con la Francia già nelle recenti vicende dell’AIRBUS. Una possibilità di successo che richiede quantomeno due condizioni: la totale sconfitta di Trump negli Stati Uniti e la sopravvivenza di Macron in Francia da qui a due anni, ma che rischia in realtà di far implodere definitivamente l’intero continente europeo.

Il Vicepresidente del Consiglio Di Maio, con il suo raid improvvido e in incognito a Parigi, rischia di dare una mano alla sopravvivenza e all’investitura da leader di Macron, consentendogli in qualche modo di proseguire nella sua commistione fasulla e artefatta di grandeur francese ed europeismo servile da una parte e nella sua opera di delegittimazione nazionale del movimento a lui avverso.

È solo un segnale, ma importante di un ceto politico in via di formazione che per inerzia o per scelta più che emancipare una nazione rischia di garantirle nuove forme di asservimento più o meno consapevolmente.