Italia e il mondo

“Invasione dall’interno”: Il piano di Trump per l’uso dell’esercito nelle città statunitensi_di Veronika Kyrylenko e Karl Sànchez_Un manifesto per l’Italia

Due articoli che sottolineano due finalità ed aspetti opposti del piano di riforma dell’esercito e delle nuove priorità strategiche del ridenominato Ministero della Guerra. Opposti ma, a ben guardare, non in contraddizione tra loro. Li accomuna, però, un allarmismo legalitario sulla natura del “regime trumpiano” che spinge a distorcere la natura dello scontro politico in essere negli Stati Uniti e a travisare sia gli obbiettivi politici degli schieramenti sul campo, sia chi dovrebbe essere l’avversario principale nell’ottica dell’affermazione della difesa degli interessi nazionali statunitensi, nell’ottica dell’accettazione di un ridimensionamento del proprio peso geopolitico, e soprattutto degli interessi nazionali, intesi come ricomposizione del blocco sociale dominante, dell’Italia. Quello che è effettivamente un rischio, nei due articoli è rappresentato come una realtà consolidata, a cominciare dalla natura “fascista di quel regime”. Un giudizio che, come in altre occasioni, accomuna le componenti politiche restauratrici e radicalmente protestatarie presenti nel panorama composito europeo e statunitense.

Non si vuol comprendere, più o meno coscientemente, che gli Stati Uniti stanno scivolando sempre più verso una condizione di “stato di eccezione” che:

  • Sta disaggregando al proprio interno gli apparati di ordine ed amministrativi dello stato federale e degli stati federati secondo logiche di appartenenza alle fazioni in lotta già presenti da tempo soprattutto ad opera dell’area demo-neoconservatrice. Fazioni che non possono essere poste allo stesso livello. Quello messo in discussione è un blocco storico di potere, consolidato ed incrostato, capace sino ad ora di liquidare gli ostacoli, tra di essi i presidenti scomodi, lungo il loro cammino; aggrappato ad una visione imperiale incapace di riconoscere contendenti. Una condizione conflittuale che, ormai, si sta insinuando all’interno stesso dell’attuale amministrazione presidenziale, proprio per la crisi di rappresentanza che sta subendo il partito democratico.
  • Uno stato di eccezione che fa largo uso di assassinii, stragi di apparente natura psicotica, manifestazioni di piazza, più o meno promiscue, di mera espressione strumentale di malcontento. Cose già viste anche durante la prima presidenza di Trump.
  • Una condizione che sta spingendo sempre più la presidenza a privilegiare in assoluto le esigenze di politica interna in uno scambio, non si sa quanto consapevole, ma comunque pernicioso e alla fine velleitario,   tra una maggiore agibilità in politica interna e un progressivo lasciapassare alle mene interventiste neoconservatrici in politica estera. Un lasciapassare, specie in Europa, concesso nella speranza che la fazione avversa si cacci in un vicolo cieco disastroso in assenza di una propria capacità politica a determinarne l’esito.
  • Velleitario soprattutto in quanto Trump, per conseguire risultati sul piano della reindustrializzazione del proprio paese, ha bisogno di almeno un paio di decenni di relazioni internazionali meno turbolente in particolare con Russia e Cina. L’esatto contrario di quanto stanno determinando le attuali dinamiche geopolitiche e di quanto da lui stesso assicurato alla componente maggioritaria di MAGA, il movimento dalla cui esistenza Trump non può prescindere.

Le conseguenze di questa direzione impressa sono ormai sempre più evidenti:

  • La componente demo-neocon, in parte disarticolata all’interno degli Stati Uniti, ha confermato salde radici  e il pieno controllo delle leve all’estero, in particolare in Europa e con qualche increspatura in Medio Oriente. Ha mostrato notevoli capacità, pur con esito incerto, di fomentare disordini  e colpi di mano, specie nel circondario russo e, nel prossimo futuro, negli stessi Stati Uniti. Da qui il sardonico “laissez faire” di Trump in Europa e la sua crescente complicità in Medio Oriente, pur nel reiterato, spesso goffo  tentativo di ridurre Netanyahu a comprimario dello scacchiere medio-orientale
  • Le leadership e la quasi totalità delle classi dirigenti europee non sono solo umili ed insignificanti serventi, ma parti attive, determinanti  delle politiche russofobe ostili e interventiste contro la Russia sino a sacrificare pesantemente, per la propria disperata sopravvivenza, gli interessi, anche vitali, della grande maggioranza della propria popolazione. Ceti dominanti che vivono e sopravvivono degli intrecci di interessi di questo sistema di potere. E in caso di alternative, disposte ad accettare cappi ancora più stringenti, vedi gli accordi sui dazi e la suicida politica di riarmo, piuttosto che sfruttare le opportunità offerte da uno scontro politico in atto. Sono GLI AVVERSARI E I NEMICI da combattere e spodestare qui in Europa!

Ricondurre ad “unicum” autoritario, se non addirittura “fascista”, le diverse fazioni in lotta tra di loro negli Stati Uniti porta a travisare e a ritenere concluso un virale conflitto politico dall’esito ancora incerto e a mettere in ombra l’avversario principale sul quale concentrare le attenzioni.

Cantonate clamorose, purtroppo non nuove.

Cantonate dal sapore più che altro coreografico, ma aggiunto al peso determinante delle politiche delle leadership europee, le quali  stanno ricacciando sempre più Trump, non presumibilmente la componente maggioritaria di MAGA, nella commistione con i neocon, piuttosto che separarlo sempre più nettamente da essi, come richiederebbero il perseguimento degli interessi strategici dei principali paesi europei. Da qui il suo lasciar fare agli europei e alla loro crescente esposizione nella responsabilità del conflitto in Ucraina ed oltre con la Russia, a vantaggio dei profitti del complesso  militar-industriale statunitense e di una più articolata divisione di compiti nell’agone internazionale.

Quasi tutte le dirigenze politiche europee, comprese quelle italiane, sono direttamente responsabili di queste scelte.

È il momento di recuperare la parola d’ordine costitutiva, dieci anni fa, del manifesto del sito l’Italia e il mondo:.

La postura di NEUTRALITÀ VIGILE dell’ITALIA

Di conseguenza:

L’ITALIA NON  È IN GUERRA CON LA RUSSIA

Per tanto:

RITIRO IMMEDIATO DI OGNI FORZA MILITARE ITALIANA DAI CONFINI DELLA RUSSIA, visto anche il carattere non vincolante dell’articolo 5 del trattato istitutivo della NATO

Da qui deve discendere ogni discorso e programma sulla condizione economica, sociale e politica dell’Italia nel nuovo contesto multipolare_Giuseppe Germinario

“Invasione dall’interno”: Il piano di Trump per l’uso dell’esercito nelle città statunitensi

 di Veronika Kyrylenko 1 ottobre 2025    

“Invasion From Within”: Trump’s Plan to Use the Military in U.S. Cities
Immagini AP

Articolo audio sponsorizzato da The John Birch Society

Martedì il Presidente Trump ha tenuto un discorso ai capi di Stato Maggiore, al suo segretario alla Guerra e agli alti comandanti (la trascrizione è disponibile qui) presso la base dei Marine Corps Quantico in Virginia. La sessione è stata convocata per esaminare la prontezza militare, le priorità di bilancio e le prossime iniziative. L’ordine del giorno comprendeva i nuovi programmi di armamento, l’espansione della struttura delle forze e il cambiamento di dottrina dell’amministrazione sotto il nuovo nome di “Dipartimento della guerra“. Si è trattato sia di un briefing politico che di una direttiva, che ha delineato le missioni che Trump si aspetta che le forze armate intraprendano nel prossimo anno.

Tuttavia, l’elemento più sorprendente del discorso non sono state le cifre del bilancio o gli annunci di hardware, ma il linguaggio usato da Trump per descrivere la situazione interna della nazione. Ha avvertito che l’America è sotto attacco, non dall’estero ma dall’interno:

Siamo sotto un’invasione dall’interno, non diversa da quella di un nemico straniero, ma più difficile sotto molti aspetti…

L’esercito, ha sottolineato, dovrebbe difendere non solo i confini della nazione ma anche le sue strade, trattando i disordini interni come un teatro di guerra.

D.C. come caso di studio

Trump ha preso in considerazione Washington D.C. come prova di concetto per la sua visione di intervento militare nelle città americane. L’11 agosto ha firmato l’Ordine esecutivo 14333 che pone il Metropolitan Police Department (MPD) sotto il controllo federale. L’ordine mobilitava anche la Guardia Nazionale di Washington sotto il comando federale e richiamava unità della Guardia da altri Stati per “aumentare la missione“. Trump ha giustificato la presa di potere citando una “emergenza criminalità”, anche se sia i dati indipendenti che quelli ufficiali (vedi qui e qui) mostravano che la criminalità violenta nella capitale era già ai minimi da 30 anni o quasi.

Davanti ai generali, ha inquadrato l’operazione come un successo schiacciante:

Washington D.C. era la città più insicura e pericolosa degli Stati Uniti d’America…. E ora… dopo 12 giorni di forte intensità, abbiamo eliminato 1.700 criminali di carriera…. L’ho attraversata in macchina due giorni fa, era bellissima…. Washington D.C. è ora una città sicura.

Ma questa affermazione porta con sé una contraddizione. Se Washington è ora “quasi la nostra città più sicura”, perché mantenere la polizia federalizzata e una Guardia militare nelle strade? Trump presenta la repressione come un successo finito e allo stesso tempo come una necessità continua. A suo dire, 1.700 criminali sono spariti, ma l’emergenza rimane, per ora estesa fino a dicembre. La capitale diventa non solo la prova dell'”ordine ristabilito”, ma anche una motivazione permanente per esportare il modello altrove.

Le “zone di guerra” democratiche

Dall’esempio di Washington, Trump è passato a una cornice urbana più ampia. Ha criticato la governance democratica:

I democratici gestiscono la maggior parte delle città che sono in cattive condizioni…. Ma sembra che quelle gestite dai Democratici della sinistra radicale, quello che hanno fatto a San Francisco, Chicago, New York, Los Angeles, siano luoghi molto insicuri e noi le raddrizzeremo una per una.

Ha reso esplicita la sua visione militarizzata:

E questa sarà una parte importante per alcune delle persone presenti in questa stanza. Anche questa è una guerra. È una guerra dall’interno.

Da quel momento, il discorso si è trasformato in una ripetizione e in un’improvvisazione. Trump ha mescolato gli avvertimenti sulla criminalità urbana con la narrazione dell’immigrazione:

Abbiamo avuto milioni di persone che sono entrate, che si sono riversate. 25 milioni in tutto…. Molti di loro non dovrebbero mai essere nel nostro Paese. Prendevano le loro persone peggiori…. le mettevano in una carovana e le facevano salire a piedi.

Poi è arrivata la proposta sorprendente:

Ho detto al [Segretario alla Guerra] Pete [Hegseth] che dovremmo usare alcune di queste città pericolose come campi di addestramento per la nostra Guardia Nazionale militare, ma militare, perché andremo a Chicago molto presto.

Chicago

Chicago è stato l’esempio principale di Trump. Ha ridicolizzato la leadership dello Stato in termini crudi:

È una grande città, con un governatore incompetente, un governatore stupido…. La scorsa settimana hanno avuto 11 persone assassinate, 44 persone uccise…. Ogni fine settimana ne perdono cinque, sei. Se ne perdono cinque, la considerano una grande settimana. Non dovrebbero perderne nessuno.

Il linguaggio è stato concepito per dipingere l’immagine di una città al collasso totale, un campo di battaglia che invoca le truppe federali. Ma i fatti raccontano una storia più complicata. Nella prima metà del 2025, le sparatorie e gli omicidi a Chicago sono diminuiti di oltre il 30% rispetto all’anno precedente. I funzionari della città hanno celebrato l’estate come la più sicura dal 1965.

Tutto ciò non significa che Chicago sia priva di tragedie. La città è ancora teatro di brutali fine settimana: durante il Labor Day, 58 persone sono state colpite, otto in modo mortale. A luglio, una sparatoria di massa a una festa per l’uscita di un album ha causato quattro morti e 14 feriti. La violenza di quartiere, concentrata in poche aree, rimane ostinata e devastante.

Ma questo non significa che la città sia “fuori controllo”. Eppure Trump propone di dispiegare l’esercito in una città in cui la criminalità violenta è, a detta di tutti, gestibile – perché dice che un governatore è “stupido”. Trattare una delle più grandi città americane come una “zona di guerra”, utile soprattutto per dimostrare chi, secondo le sue parole, è “il capo”.

Portland

Trump ha poi preso di mira Portland:

Portland, Oregon, dove sembra una zona di guerra…. A meno che non stiano riproducendo dei nastri falsi, questa sembrava la Seconda Guerra Mondiale. La tua casa sta bruciando…. Questo posto è un incubo.

Trump l’ha collegata direttamente all’opposizione all’applicazione della legge sull’immigrazione:

Se la prendono con il nostro personale dell’ICE, che è un grande patriota.

Le proteste si sono concentrate davanti alla struttura ICE di Macadam Avenue, a partire dall’inizio di giugno. I dimostranti hanno inscenato sit-in e marce, accusando l’agenzia di pratiche di detenzione abusive e chiedendo la chiusura della struttura. Il 12 giugno la polizia ha arrestato 10 manifestanti. Allo stesso tempo, gli agenti federali sono stati riportati a sparare palle di pepe e altre munizioni dal tetto dell’edificio contro i manifestanti che bloccavano il vialetto. La città ha registrato molteplici casi di utilizzo di munizioni chimiche nei quartieri vicini, sollevando preoccupazioni per la salute pubblica, la sicurezza e la costituzione.

Dal punto di vista legale, la linea è chiara: interrompere o ostacolare il lavoro delle forze dell’ordine federali è un reato federale. Alcuni manifestanti di Portland sono stati arrestati proprio per questi motivi. Ma gran parte dell’attività è rimasta un dissenso legittimo ai sensi del Primo Emendamento.

Trump ha cancellato questa distinzione. Un movimento di protesta – disordinato, controverso e che a volte sconfina nell’illegalità – è diventato, secondo lui, un campo di battaglia degno di un’occupazione militare.

“Loro sputano, noi colpiamo”

Trump ha trasformato il controllo della folla in una dottrina di combattimento. Ha descritto i manifestanti che sputavano in faccia ai soldati e ha annunciato una nuova regola: “Se sputano, colpiamo”.

Ha poi descritto sassi e mattoni che hanno distrutto i veicoli federali e ha dichiarato:

Esci da quell’auto e puoi fare quello che vuoi.

Certo, sputare a un agente è spregevole e talvolta criminale, ma non è una licenza per “colpire”. Allo stesso modo, comandi vaghi come “fate quello che diavolo volete” in situazioni percepite come pericolose per la vita invitano all’eccesso, alla responsabilità civile e all’abuso politico. Il pericolo non è solo quello che i civili potrebbero fare in strada, ma anche quello che i soldati potrebbero credere di essere liberi di fare a loro volta.

Matematica elastica

È opportuno notare con quanta disinvoltura Trump pieghi i numeri per giustificare il coinvolgimento militare nella vita domestica, soprattutto in materia di immigrazione. In campagna elettorale, il suo team ha messo in guardia gli anziani dai “10 milioni di clandestini” che avrebbero avuto diritto alla sicurezza sociale. Questo numero deriva dagli incontri alla frontiera, una misura che include gli attraversamenti ripetuti e le espulsioni.

Anche alleati come il rappresentante Chip Roy (R-Texas) hanno usato numeri più piccoli. Il suo rapporto sul 2020 parlava di 8,5 milioni di attraversamenti, con 5,6 milioni di rilasci e due milioni di “fughe”.

Tornato in carica, Trump ora dichiara “25 milioni in tutto”. La cifra cresce ad ogni replica.

Non c’è dubbio che l’immigrazione clandestina imponga dei costi, dai bilanci locali alla droga e al traffico. Ma la distorsione di Trump non riguarda la precisione. È fatta per trasformare un problema legittimo in un pretesto per trattare le città statunitensi come campi di battaglia militari.

Una nuova unità domestica

Trump ha ricordato al suo pubblico che la macchina è già in moto:

Il mese scorso ho firmato un ordine esecutivo per la formazione di una forza di reazione rapida che possa aiutare a sedare i disordini civili.

L’ordine ordina al segretario alla Guerra di creare un nuovo braccio di polizia all’interno della Guardia Nazionale di Washington, “dedicato a garantire la sicurezza e l’ordine pubblico nella capitale della Nazione”, in “altre città” e persino “a livello nazionale”. I membri possono essere incaricati dal procuratore generale, dal segretario agli Interni o dal segretario alla Sicurezza interna di far rispettare le leggi federali – una commistione di ruoli che cancella il confine tra soldati e polizia.

Trump ha citato i presidenti del passato che hanno utilizzato le truppe per l’ordine interno. Invocando il giuramento contro “tutti i nemici, stranieri e interni”, ha chiarito che il “domestico” fa ora parte della missione militare.

Campi di addestramento

I commentatori spesso ignorano la retorica di Trump come una spacconata. Ma quando il comandante in capo dice ai generali che le città americane dovrebbero servire come “campi di addestramento”, non può essere ignorato.

Nella pratica militare, i campi di addestramento sono spazi controllati con regole di sicurezza e supervisione legale. Trump li ha trasformati in vere e proprie città, trattando le comunità come campi di battaglia piuttosto che come luoghi in cui vivono milioni di persone.

Questo cambiamento non è simbolico. Pronunciato dalla massima autorità militare della nazione, non è tanto una metafora quanto una direttiva. Il divario tra retorica e politica è pericolosamente sottile quando chi parla può impartire ordini. Quello che Trump inquadra come prontezza è, in effetti, un invito a militarizzare la vita civile.

Legge e Costituzione

La base legale per l’approccio di Trump è traballante. La legge Posse Comitatus impedisce alle truppe federali di svolgere attività di polizia civile. L’Insurrection Act consente eccezioni, ma solo in caso di emergenze specifiche come l’insurrezione o il collasso dell’autorità statale. L’uso delle città come “campo di addestramento” farebbe allungare a dismisura lo statuto.

La Guardia Nazionale è il cardine. Sotto l’autorità statale, i membri della Guardia possono far rispettare la legge. Una volta federalizzati, non possono. Una “forza di reazione rapida” controllata dal governo federale per le proteste della polizia offusca questo confine e invita all’abuso.

La gravità delle mosse di Trump è difficile da sopravvalutare. Rischiano di trasformare le forze armate da scudo contro gli attacchi stranieri a strumento di controllo interno, erodendo gli stessi limiti destinati a preservare una repubblica libera e creando un precedente che i futuri presidenti potrebbero sfruttare.

Categoria Criminalità Caratteristiche Stati Uniti



Veronika Kyrylenko

Veronika Kyrylenko

Veronika è una scrittrice con la passione di chiedere conto ai potenti, indipendentemente dalla loro appartenenza politica. Con un dottorato di ricerca in Scienze politiche conseguito presso l’Università nazionale di Odessa (Ucraina), porta un occhio analitico acuto alla politica interna ed estera, alle relazioni internazionali, all’economia e alla sanità.

Il lavoro di Veronika è guidato dalla convinzione che valga la pena difendere la libertà e si dedica a tenere informato il pubblico in un’epoca in cui il potere opera spesso senza controllo.

Una nota molto breve e importante

Karl Sánchez1 ottobre
 LEGGI NELL’APP 

Ho appena finito di pubblicare il seguente commento su Moon of Alabama e ora lo faccio qui perché le informazioni contenute nelle tre chat linkate sono di troppo grave importanza per non diffondersi ovunque. I video mostrati durante quelle chat sono altrettanto importanti, poiché forniscono il contesto per il commento che segue. So che si sono svolte altre chat che probabilmente conterranno informazioni vitali. Chiedo ai lettori di linkare ciò che hanno guardato nelle ultime 48 ore nei commenti, insieme a una breve sinossi del perché dovrebbero essere guardati, in modo che altri possano fare lo stesso. L’ultimo “Accordo di Gaza” è una stronzata al 100% e mira a placare la folla antisionista globale, che ora è la netta maggioranza, e gli aerei da guerra imperiali sono in viaggio verso le basi in Asia occidentale in un’escalation simile a quella che abbiamo visto a giugno prima della Guerra dei 12 Giorni. Ora il mio commento:

Ho guardato tre chat: Max Blumenthal e il Colonnello Wilkerson con Nima e il Colonnello con il Giudice Nap . Di solito non mi turbano troppo le informazioni rivelate durante queste chat, ma oggi è stato diverso: alcune parti di tutte e tre erano inquietanti, non solo lo spettro della guerra all’orizzonte, ma la profondità del fascismo qui all’interno dell’Impero Fuorilegge degli Stati Uniti. E non vedo il Colonnello Wilkerson avere TDS. Pensate a cosa ha insinuato Trump quando ha detto che le città americane saranno usate come campi di addestramento per le aree urbane che presto invaderemo. O Hegseth che dice che non ci sono più leggi di guerra, né regole di ingaggio. L’Impero Fuorilegge degli Stati Uniti è diventato completamente sionista ai massimi livelli di leadership . Ciò che Hegseth ha detto non è più applicabile sono i trattati che fanno parte della Costituzione e che tutti quegli ufficiali di bandiera hanno giurato di difendere. Le tre chat durano circa due ore e quaranta minuti. Anche se non siete americani, guardatele perché tutta questa roba che sta succedendo influenzerà anche voi.

Sì, il fascismo all’interno dell’Impero Fuorilegge degli Stati Uniti è ai livelli della Guerra Fredda degli anni ’50. Le chat descrivono questo e molto altro.

Prometti il ​​tuo sostegno

Il Geopolitical Gymnasium di karlof1 è gratuito oggi. Ma se ti è piaciuto questo post, puoi far sapere al Geopolitical Gymnasium di karlof1 che i loro articoli sono preziosi impegnandoti a sottoscrivere un abbonamento futuro. Non ti verrà addebitato alcun costo a meno che non vengano attivati ​​i pagamenti.

Prometti il ​​tuo sostegno

DIARIO DI CELLA 2: IL CARCERE È UN’INTENSA ESPERIENZA COMUNITARIA. ECCO PERCHÉ È STUPIDO SPRECARLA. Di Gianni Alemanno

DIARIO DI CELLA 2: IL CARCERE È UN’INTENSA ESPERIENZA COMUNITARIA. ECCO PERCHÉ È STUPIDO SPRECARLA.

Riceviamo da Gianni Alemanno e pubblichiamo nel rispetto delle norme dell’Ordinamento.

Rebibbia, 31 marzo 2025 – 90° giorno di carcere. Chi ha vissuto un periodo della sua vita “dietro le sbarre” è testimone di un’esperienza difficilmente comunicabile a chi invece il carcere non l’ha mai conosciuto. Nelle celle si vive un’intensa esperienza comunitaria, con i forti connotati romantici ed emozionali propri di tutte le vicende comunitarie. Tra i compagni di cella si condivide tutto, dalle derrate alimentari ai lavori quotidiani, dalle emozioni ai ricordi. Ai più anziani (di permanenza in carcere) viene riconosciuta piena autorità sulle regole comuni, a prescindere dai titoli di studio e dalle origini sociali, regole totalmente autogestite ma ferree per pulire gli ambienti, preparare i pranzi, lavare i piatti. C’è un continuo lavoro artigianale di ogni detenuto per migliorare le condizioni di vita, a fronte di celle fatiscenti, ognuna con 6 brande a castello, di un cesso che sta nella stessa stanza dove si cucina e di un lavandino senza acqua calda, della mancanza di apparati di condizionamento quando fa caldo. Sicuramente condizioni di vita che meriterebbero quel 10% di sconto di pena previsto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo “per condizioni di detenzioni inumane” (ma di questo ne parleremo un’altra volta). Ogni pezzo di legno, ogni lattina, ogni elastico, viene utilizzato in modo geniale per risolvere qualche problema pratico di una vita a metà strada tra il campeggio e la caverna. Altro che “cultura del riuso” da ambientalisti chic, qui si fa sul serio… In ogni cella c’è almeno un detenuto che, in base ad esperienze pregresse (in genere altro carcere), si improvvisa come cuoco, cucinando su fornelli camping gas quello che può essere riciclato dal vitto quotidiano o quello che viene acquistato come “sopravvitto”. I risultati, soprattutto nelle celle dove vivono persone di origine calabrese, sono assolutamente al di sopra della media delle nostre case, dove ormai domina la cattiva abitudine dei cibi d’asporto. Sono poche le persone detenute, anche quelle che all’entrata si presentano con un carattere individualista e aggressivo, che riescono a sottrarsi a queste regole. Le varie celle compongono altri cerchi comunitari, che sono i reparti, i bracci e i singoli istituti penitenziari. lo, ad esempio, sono al Reparto 2B (ovvero in uno dei due corridoi del secondo piano) del Braccio G8 del Carcere di Rebibbia Nuovo Complesso (nuovo nel senso che risale agli anni ’60 e non all’800 come Regina Coeli). Il G8 è sicuramente il braccio più vivibile di tutti i carceri romani, dove sono fiorite molte attività, tutte gestite in ogni aspetto da persone detenute, volontari o lavoranti interni (per poche centinaia di euro al mese). Vige la consuetudine di salutarsi tutti ogni volta che ci si incontra nei corridoi, all’aria, nella doccia, nelle sale comuni, quando ci si affaccia in un’altra cella. Ci deve essere assoluta cortesia reciproca, pena reazioni collettive anche pesanti. Ogni attivita del carcere è molto frequentata dalle persone detenute, certamente in cerca di modi per passare la giornata, ma anche molto attente a tutto quanto li può far sperare di avere una vita migliore durante e dopo la carcerazione. C’è voglia di partecipare, non di tutti, perché c’è anche chi si lascia andare e diventa un morto vivente. Ma questa voglia c’è e certe volte è sinceramente commovente. Ne sono testimoni tutti i volontari, i docenti e gli operatori esterni che cercano di organizzare le diverse attività. Insomma, la natura comunitaria dell’esperienza carceraria permette di alimentare la speranza di quella “rieducazione” di cui parla l’Art. 27 della Costituzione. Proprio per questo è un peccato, e anche una vergogna, quando le istituzioni preposte non riescono a valorizzare queste potenzialità, non dando coerenza e continuità ai percorsi che dovrebbero portare dalla rieducazione all’accesso alle pene alternative. Non parliamo del personale che lavora nelle carceri (dirigenza e polizia penitenziaria) che sono vittime dei malfunzionamenti e delle carenze di organico quasi quanto le persone detenute. Parliamo di chi fa le leggi e di chi le deve applicare, che può e deve fare di più.

Gianni Alemanno

LIBIA, CUORE DELLA NUOVA STRATEGIA RUSSA IN AFRICA, di Bernard Lugan

LIBIA, CUORE DELLA NUOVA STRATEGIA RUSSA IN AFRICA

La risoluzione, il 21 gennaio 2025, dell’accordo tra Mosca e Damasco, che prevedeva un contratto di locazione di 49 anni concesso da Bashar al-Assad alla Russia per lo sfruttamento del porto di Tartous, ha fatto perdere a Mosca il suo principale punto d’appoggio nel Mediterraneo e la sua unica base navale nella regione. Ecco perché, con urgenza, la Russia ha spostato il suo dispositivo militare in Libia.

Oltre a essere un punto di appoggio indispensabile in prossimità delle basi russe nel Mar Nero, il porto di Tartus costituiva un anello essenziale nella catena logistica di rifornimento della base che Mosca intende stabilire nel Mar Rosso. Dopo la caduta di Assad, la Russia ha quindi proceduto a un massiccio trasferimento delle sue attrezzature militari dalla Siria alla Libia. I porti di Tobruk e Ras Lanuf hanno così sostituito le basi russe in Siria, compresa quella di Tartus, le cui attrezzature sono state trasportate da una vera e propria “ponte navale”. Senza questi due punti di appoggio, la flotta russa dovrebbe lasciare il Mediterraneo. Per quanto riguarda i cargo russi, hanno effettuato rotazioni tra la base di Hmeimim, in Siria, e la base aerea di Al-Khadim, nella Libia orientale. Quest’ultima sarebbe in fase di ammodernamento, così come le basi navali di Tobruk e Bengasi. Attualmente, l’organizzazione paramilitare Africa Corps, che è succeduta a Wagner dopo la morte di Evgenij Prigojine, controllerebbe quattro basi in Libia: Al-Jufrah, Al-Khadim, Brak al-Shati e AlQardabiya e una nuova base sarebbe in costruzione nel sud-est del paese, a Mateen al-Sarrah, vicino a Uweinat (Mondafrique, 11 febbraio 2025). Questa nuova base nel sud della Libia, insieme al rafforzamento delle infrastrutture esistenti, consentirà a Mosca di mantenere un corridoio strategico tra il Mediterraneo e il Sahel, un vero e proprio corridoio che le permetterà di sostenere le sue aree di influenza in Mali, Niger, Burkina Faso e Repubblica Centrafricana, e di rafforzare così la sua presenza a livello subregionale. Un grande problema che si pone ora alla Russia è se il maresciallo Haftar sia più affidabile dell’ex presidente Assad. La questione è essenziale, perché se quest’ultimo perdesse il potere, la flotta russa sarebbe cacciata dal Mediterraneo… Il riorientamento della politica russa in Africa è quindi totalmente incentrato sul rafforzamento delle sue relazioni con la Cirenaica, la parte orientale della Libia controllata dal maresciallo Khalifa Haftar, comandante dell’Esercito nazionale libico (ALN) con base a Bengasi e rivale del Governo di Unione Nazionale (GUN) di Tripoli sostenuto dalla Turchia e dall’Occidente. Qual è dunque la forza dell’ALN, questo conglomerato di forze tribali sostenuto da Russia, Egitto e Emirati Arabi Uniti? Il maresciallo Haftar controlla la maggior parte dei campi petroliferi libici e i quattro terminali di esportazione del greggio. I proventi che ne ricava gli consentono di modernizzare l’ALN. Alcune delle unità di Haftar sono ora equipaggiate con materiale recente fornito dagli Emirati Arabi Uniti. La forza militare su cui può contare il maresciallo Haftar sarebbe di circa 15.000 uomini. Nel sud della Libia, il maresciallo Haftar si è alleato con gli arabi del potente tribù degli Ouled Sulayman che occupano l’asse delle oasi che si estende fino al centro del Ciad e che controlla la città di Sebha in un clima di conflitto permanente con i Toubou e i Tuareg. Di fronte, la Tripolitania è riuscita a resistere alle offensive lanciate dal maresciallo Haftar grazie all’intervento diretto dell’esercito turco. Ankara ha addestrato diverse migliaia di soldati, tra cui la brigata 444 che sarebbe composta da Fratelli musulmani. Ankara gestisce la marina di Tripoli e possiede diverse basi militari in Tripolitania, tra cui la base aerea di al-Watiya e la base navale di Misurata.

Il sito Italia e il Mondo non riceve finanziamenti pubblici o pubblicitari. Se vuoi aiutarci a coprire le spese di gestione (circa 4.000€/anno), ecco come contribuire: ✔ Postepay Evolution: Giuseppe Germinario – 5333171135855704 ✔ IBAN: IT30D3608105138261529861559 ✔ PayPal: PayPal.Me/italiaeilmondo ✔ Tipeee: https://it.tipeee.com/italiaeilmondo Puoi impostare un contributo mensile a partire da soli 2€! (PayPal trattiene 0,52€ di commissione per transazione)

contatti: italiaeilmondo@gmail.com – x.com: @italiaeilmondo – telegram: https://t.me/italiaeilmondo2  / italiaeilmondo   – linkedin:   / giuseppe-germinario-2b804373  

A FARI SPENTI. ANCORA SULLE SORPRENDENTI PAROLE DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA_Di Massimo Morigi

A FARI SPENTI. ANCORA SULLE SORPRENDENTI PAROLE DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA (MA ANCHE  SULLA NUOVA EPOCA DELL’ ‘IMPÉRIALISME EN FORME’ INAUGURATO DALLA SECONDA PRESIDENZA      TRUMP    E      SUL       GROSSRAUM      DI    CARL SCHMITT)

Di Massimo Morigi

 

          Ad integrazione dell’illuminante articolo di Giuseppe Germinario Giù la maschera? Dedicato al Presidente (“L’Italia e il Mondo”, 19 febbraio 2025, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20250219134123/https://italiaeilmondo.com/2025/02/19/giu-la-maschera-dedicato-al-presidente_di-giuseppe-germinario/) sulle sorprenderti analogie riscontrate  dal Presidente della Repubblica nel discorso di Marsiglia del 5 febbraio fra l’azione del Terzo Reich nell’arena internazionale  e quella messa in atto dalla Federazione russa  riguardo alla guerra Nato-Russia (ipse dixit: «La crisi economica mondiale del 1929 scosse le basi dell’economia globale e alimentò una spirale di protezionismo, di misure unilaterali, con il progressivo erodersi delle alleanze. La libertà dei commerci è sempre stata un elemento di intesa e incontro. Molti Stati non colsero la necessità di affrontare quella crisi in maniera coesa, adagiandosi, invece, su visioni ottocentesche, concentrandosi sulla dimensione domestica, al più contando sulle risorse di popoli asserviti d’oltremare. Fenomeni di carattere autoritario presero il sopravvento in alcuni Paesi, attratti dalla favola che regimi dispotici e illiberali fossero più efficaci nella tutela degli interessi nazionali. Il risultato fu l’accentuarsi di un clima di conflitto – anziché di cooperazione – pur nella consapevolezza di dover affrontare e risolvere i problemi a una scala più ampia. Ma, anziché cooperazione, a prevalere fu il criterio della dominazione. E furono guerre di conquista. Fu questo il progetto del Terzo Reich in Europa. L’odierna aggressione russa all’Ucraina è di questa natura.». Brevissima chiosa all’ipse dixit: “trascurabile” errore storico dove si paragona la guerra dei nazisti nell’est Europa e in Russia che contemplava lo sterminio fisico delle popolazioni slave e successivo ripopolamento con popolazioni tedesche con l’attuale guerra Nato-Russia che, al di là di cosa se ne pensi, non implica certo lo sterminio degli ucraini ma semmai la sicurezza in termini geopolitici e geostrategici della Russia, e certamente questo “trascurabile”errore storico, ha facilitato l’azione Russa,  su tacito mandato dell’amministrazione Trump tramite Marija Vladimirovna Zacharova,  portavoce del Presidente della Federazione russa Vladimir Vladimirovič Putin, di attaccare il nostro Presidente della Repubblica definendo le sue parole «blasfeme» e su questa azione russa su procura statunitense si veda  il mio Sulla nuova epoca dell’ “impérialisme en forme” della seconda presidenza Trump: stress test n°2 (ma per procura), “L’Italia e il Mondo” 16 febbraio 2025, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20250216095900/https://italiaeilmondo.com/2025/02/16/sulla-nuova-epoca-dell-imperiaslisme-en-forme-della-seconda-presidenza-trump-stress-test-n2-ma-per-procura_di-massimo-morigi/), ed anche dei numerosi commenti che ne sono seguiti, anche questi del tutto condivisibili, in maniera del tutto schematica e per punti intendo qui rappresentare lo scenario che ha reso possibile questa vicenda e, volendo dare una sorta di sistemazione more geometrico di quanto sinora è stato detto in proposito, per questa volta non farò uso né di (tentativi di ) ardite metafore né di (malriuscite) ironie  cui  (troppo) spesso  ricorro. E quindi:

         Primo) Il Presidente della Repubblica ha detto quello che ha detto perché lui e lo staff che lo consiglia e gli scrive i discorsi hanno agito come una sorta di pilota automatico tarato sulla precedente amministrazione statunitense. Come tutti sanno, il pilota automatico è ottimo per gestire i voli degli aeromobili in presenza di una navigazione senza turbolenza ma in presenza di problemi, come nel nostro caso il turbolento e violento passaggio dallo scenario della globalizzazione a guida statunitense al multipolarismo e la conseguente sostituzione da parte statunitense dello strumento arrugginito dell’universalismo dei diritti  con il rozzo  e spudoratamente violento ‘impérialisme en forme’, questo pilota automatico risulta pateticamente non solo inadeguato ma anche terribilmente pericoloso  per chi voglia continuare ad impiegarlo.

          Secondo) Il Presidente della Repubblica ha detto quello che ha detto perché lui e il suo staff sono abituati a confrontarsi prevalentemente con la pubblica opinione all’interno dell’Italia, un confronto che nei discorsi dei Presidenti della Repubblica che lo hanno preceduto  si è (quasi) sempre manifestato attraverso la formulazione di luoghi comuni e di concetti (apparentemente) non divisivi. Fin qui nulla di male (o molto di male, se si vuole, ma anche  questo “lisciare il pelo” dei cittadini fa parte del ruolo e di come è strutturata la funzione di potere del Presidente della Repubblica), solo che, ahimè, nel caso di quest’ultimo Presidente della Repubblica questo “lisciare il pelo” è sceso ad un livello così impolitico che le esternazioni indirizzate alla pubblica opinione dei suoi predecessori, al confronto, sembrano Il Principe di Machiavelli. Si è arrivato al punto che ora il Presidente della Repubblica esterna su tutti gli aspetti della vita dei cittadini e della società e fornendo su ciò le sue sentite ma soprattutto retoriche esortazioni: dal bullismo nelle scuole, che deve essere contrastato con decisione, al femminicidio che non è ammissibile in un paese civile come il nostro, ai morti sul lavoro, che sono assolutamente inaccettabili in una Repubblica fondata sul lavoro e via discorrendo con argomenti (e sviluppo delle tematiche in questione) cui nessuno in cuor suo può dire qualcosa in contrario, peccato solo che queste esternazioni hanno perso qualsiasi natura di concreto indirizzo politico e costituiscono sempre e solamente una sorta di libro cuore buono solo a fare dire al popolo italiano quanto è buono e sensibile il Presidente della Repubblica e quanto pensa a noi. Insomma, il Presidente della Repubblica una sorta di Papa laico  molto finemente tarato all’ottenimento di un vasto (ma impolitico,  o, meglio, politico ad usum dell’oligarchia dirigente il nostro paese) plauso in Italia ma che, quando questa retorica esce dai confini nazionali, incontra problemi. O, almeno, i problemi vengono quando saltano i vecchi paradigmi e quello che in passato all’estero non veniva nemmeno considerato ora viene molto attentamente analizzato e così si è sempre ad un passo dal disastro diplomatico. Come nel caso delle reazione della Russia (reazione, fra l’altro, dovuta in gran parte alla volontà russa di andare incontro ai desiderata di Trump, che non mai avuto in alcuna simpatia, anche durante la sua prima presidenza, questo Presidente della Repubblica, e su questa antipatia di lunga data di Trump verso il Presidente della Repubblica  –   e sul conseguente gioco di sponda fra la seconda presidenza Trump e Putin contro il Presidente della Repubblica –   cfr. sempre Sulla nuova epoca dell’ “Impérialisme en forme”…, cit.) alle sorprendenti dichiarazioni del Presidente della Repubblica, per la quale, comunque, in questa nuova fase aperta dalla seconda presidenza Trump, ogni piccola cosa conta e non viene permesso più ad alcuno, al contrario che nel passato, di parlare dove ti porta il cuore e lo stile deamicisiano del Presidente della Repubblica, seppur molto efficace dentro all’Italia, ora non è più accettabile visto il mutato paradigma internazionale che, per sovraccarico, si inserisce nel quadro di una guerra di natura esistenziale per la Russia. E così per reazione da parte della Russia a queste parole del Presidente della Repubblica, ne sono seguiti attacchi hacker sulle pubbliche infrastrutture italiane e, finalmente, da parte del Presidente della Repubblica, è seguita, dopo il pregresso molto parlare, la saggissima decisione  di non replicare. Alla fine il brillante risultato di tutto questo comportamento del Presidente della Repubblica pubblicamente loquace nell’arena internazionale, è che la Russia ha di fatto messo letteralmente a tacere Presidente della Repubblica, con evidenti danni sulla (molto residua se non inesistente) credibilità dell’Italia all’estero.

          Terzo) Ultimo punto, riassuntivo dei due precedenti, è che il Presidente della Repubblica ha detto quello che ha detto, perché evidentemente è in corso la   bidenizzazione sua personale e del suo staff che comporta il loro procedere a fari spenti in un mondo multipolare dove sono saltati definitivamente i vecchi paradigmi della globalizzazione marcata USA per essere sostituiti dall’ ‘impérialisme en forme’ inaugurato dalla seconda presidenza Trump. (E approfondendo  questo  concetto di ‘impérialisme en forme’,   approfitto   anche per rispondere al commento del sempre gentile ed acuto  ws al mio Sulla nuova epoca dell’ “Impérialisme en forme”: l’ ‘impérialisme en forme’ non implica un atteggiamento rinunciatario perché si lasciano perdere le ambizioni globaliste del precedente imperialismo fuori forma, anzi è un imperialismo ancora più ambizioso dove alle mire globali ma del tutto fantasmatiche del precedente imperialismo fuori forma si sostituiscono concreti e razionali obiettivi imperiali, soprattutto rivolti contro il quadrante del c.d. occidente formalmente alleato degli USA ma da ridurre violentemente e senza infingimenti  a colonia tout court. Si veda Panama e, soprattutto, Groenlandia dove i novelli  imperialisti in forma statunitensi pensano addirittura di farlo divenire il 51° Stato USA strappandola, con le buone o con le cattive, alla Danimarca, in una sorta di realizzazione del concetto di ‘grande spazio’ già caldeggiato  nel 1941 da Carl Schmitt che nel Großraum vedeva l’antidoto alle potenze marittime che attraverso la loro potenza oceanica non riconoscevano al loro agire alcun limite spaziale e tendevano al dominio globale sul mondo: «Il termine «grande spazio» esprime, dal nostro punto di vista, il mutamento delle dimensioni e delle rappresentazioni dello spazio terrestre che domina l’attuale sviluppo della politica mondiale. Mentre infatti la parola «spazio», accanto ai suoi vari significati specifici, mantiene un senso fisico-matematico generale e neutrale, l’espressione «grande spazio» costituisce per noi un concetto concreto, storico-politico, che guarda al presente.»: Carl Schmitt, L’ordinamento dei grandi spazi nel diritto internazionale con divieto di intervento per potenze estranee (1941), in Id., Stato, grande spazio, nomos, Adelphi, 2015, p. 107. Il 1941 è l’anno dell’operazione Barbarossa, il pratico strumento operativo per la realizzazione del concetto schmittiano di Großraum. Sappiamo come andò a finire mentre sul destino degli attuali imperialisti in forma, in mancanza da parte dell’Italia di una realistica presa d’atto del nuovo mondo multipolare e con il rifiuto, quindi, di una pur piccola prospettiva di ‘Epifania Strategica’, non rimane che il tremebondo interrogare i fondi di caffè…) E sul tristissimo quadro  socio-politico dominato oltre ogni ragionevole istinto vitale di coesione interna della società, dalla legge ferra dell’oligarchia di Robert Michels e conseguentemente dalla totale mancanza di ricambio e profondissima senescenza dell’attuale classe dirigente sia a livello sociologico di corpo collettivo dei gruppi di potere che per l’inarrestabile e, incurante di ogni merito acquisito e riconosciuto, crudele discendente parabola biologica  dei suoi singoli componenti dovuta agli  ovvi ed inevitabili limiti derivati dall’appartenere alle troppo stagionate   generazioni che molto diedero ma che ormai hanno già definitivamente dato, mi fermo se non per richiamare ancora una volta il ‘compiuto peccato’ che da tempo affligge il c.d. occidente e dentro il quale l’Italia primeggia per il culmine da nessuno raggiunto in gravità dello stesso.

Massimo Morigi, febbraio 2025

  • Sostieni il nostro lavoro!Il sito Italia e il Mondo non riceve finanziamenti pubblici o pubblicitari. Se vuoi aiutarci a coprire le spese di gestione (circa 4.000€/anno), ecco come contribuire:✔ Postepay Evolution: Giuseppe Germinario – 5333171135855704
    ✔ IBAN: IT30D3608105138261529861559
    ✔ PayPal: PayPal.Me/italiaeilmondo
    ✔ Tipeee: https://it.tipeee.com/italiaeilmondo

    Puoi impostare un contributo mensile a partire da soli 2€! (PayPal trattiene 0,52€ di commissione per transazione)

 

 

La lotta contro il Diritto _ Con Buffagni, Klitsche de la Grange, Sinagra, Germinario, Semovigo

Il Diritto. Da principio regolatore della civiltà, il diritto si trasforma in una macchina di potere, chi è dentro e chi è fuori. Un capovolgimento radicale che ricorda la critica di Carl Schmitt alla neutralità liberale: il diritto non è più neutrale, ma espressione della volontà del più forte.

Dike, CPI e la crisi della sovranità
Il diritto penale internazionale diventa un’arma geopolitica che rimane intoccabile. È il modello della guerra giuridica (lawfare)

Hegel, Stato e diritto: il tradimento delle istituzioni
Hegel vedeva lo Stato come l’incarnazione dello Spirito, il luogo in cui il diritto trova la sua realizzazione. Ma cosa accade quando lo Stato abdica al proprio ruolo e diventa un mero esecutore di decisioni prese altrove ?

L’UE come spazio di controllo giuridico
L’Unione Europea ha creato un sistema di diritto che vincola gli Stati membri e impone un modello giuridico o è un apparato burocratico autoreferenziale ?

Dike e il tradimento della giustizia – Dalla Grecia classica a oggi, il diritto è sempre stato fondamento della civiltà. Ma cosa accade quando diventa un’arma di guerra?

Lawfare: il nuovo volto del totalitarismo – Dalla CPI ai tribunali europei, il diritto penale internazionale portatore di neutralità ?

L’Unione Europea e il soft power giuridico – Trattati, corti e regolamenti indipendenti ?

Ospiti e relatori

⚖️Teodoro Klitsche de la Grange – autore di : La Lotta contro il Diritto
Roberto Buffagni – saggista e analista politico
⚖️ Augusto Sinagra – giurista e magistrato
Giuseppe Germinario – Analista Geopolitico e direttore di Italia e il Mondo
Cesare Semovigo – regista e documentarista

  • Sostieni il nostro lavoro!Il sito Italia e il Mondo non riceve finanziamenti pubblici o pubblicitari. Se vuoi aiutarci a coprire le spese di gestione (circa 4.000€/anno), ecco come contribuire:✔ Postepay Evolution: Giuseppe Germinario – 5333171135855704
    ✔ IBAN: IT30D3608105138261529861559
    ✔ PayPal: PayPal.Me/italiaeilmondo
    ✔ Tipeee: https://it.tipeee.com/italiaeilmondo

    Puoi impostare un contributo mensile a partire da soli 2€! (PayPal trattiene 0,52€ di commissione per transazione)

https://rumble.com/v6puoi8-la-lotta-contro-il-diritto-lo-strumento-di-potere-buffagni-de-la-grange-sin.html

Giù la maschera? Dedicato al Presidente_di Giuseppe Germinario

Giù la maschera?

Le recenti sortite di Sergio Mattarella, nostro Presidente della Repubblica, non mi hanno sconvolto, ma un po’ sorpreso sì.

Ai più avveduti è risaputo che il requisito  determinante  che consente la nomina e/o la riconferma del Presidente della Repubblica italiana non è l’adesione alla narrazione irenica e struggente della Unione Europea e nemmeno quello del generale consenso nazionale alla nomina di una figura emblematica dell’unità del paese, come solitamente si preferisce proferire, piuttosto che della Nazione. È imprescindibile, piuttosto,  il suo gradimento in particolare agli Stati Uniti e alla sua leadership, qualsiasi essa sia, meglio sia stata.

Gli apparenti momenti di discontinuità emersi nel recente passato, in primis la nomina di Giorgio Napolitano, non furono casuali. Il nostro, recentemente defunto, fu il primo e più importante esponente del PCI a cedere negli ormai lontani anni ’70 alle attenzioni, alla ospitalità e alle profferte amorose statunitensi, così come rivelate anni dopo, tra i tanti, dal “grande statista” Henry Kissinger.

Il recente conseguimento della laurea “honoris causa” conferita al nostro Presidente in carica dall’università di Marsiglia potrebbe rappresentare solo  un mero cedimento un po’ superficiale  al narcisismo e alla vanagloria della figura politica più emblematica di una nazione; cedimento  che ha purtroppo colpito già un numero impressionante, nell’ordine delle centinaia, di personaggi in vista e del sottobosco politico italiani adornati di onorificenze, in particolare della Legion d’Onore, del tutto a costo zero da parte di un paese, la Francia, il quale, assieme alla più discreta ma non meno velenosa Germania, nell’ultimo trentennio ha ripetutamente stilettato e pugnalato il proprio “cugino” subalpino, dalla schiena volutamente scoperta.

La guerra contro la Serbia, il massacro indegno di Gheddafi in Libia, la fortunatamente fallita in extremis pretesa territoriale nei mari Ligure e Tirreno, grazie ad un ripensamento dell’ultimo minuto del solo Parlamento Italiano,  sono stati gli episodi più evidenti di un saccheggio perpetrato ai nostri danni sotto la direzione e la mano anglo-statunitense.

Le esternazioni che hanno accompagnato e seguito quel conferimento, per la verità abbastanza in linea con altre precedenti, certamente più animose,  soprattutto inopportune e fuori luogo nel nuovo contesto geopolitico che si va determinando, rappresentano, però, un salto di qualità verso un mondo iperuranico di un personale politico storicamente e stoicamente predisposto a darsi la zappa, se non su organi più sensibili, sui piedi propri, e sin qui si rientrerebbe nelle scelte masochistiche, ma personali, e purtroppo del paese e della nazione che si rappresenta. Per così dire “cornuti e mazziati”.

In cosa potrebbe consistere questo salto? Esattamente nel passaggio surrettizio, probabilmente involontario, sto adottando il principio di precauzione,  della profferta di fedeltà da  uno stato “amico” straniero ad una fazione politica di esso, la peggiore.

Un salto che in verità potrebbe essere un disvelamento di una predisposizione atavica celata dalla coincidenza ed adesione simbiotica, sino al 20 gennaio scorso, tra quella leadership ormai decadente e quello Stato americano, così come svelato dal DOGE del tanto vituperato Elon Musk.

Nella mia modestia, vorrei aiutare il nostro Presidente a riconsiderare le sue perentorie affermazioni per evitare che si possa trasformare irrimediabilmente da capo-nazione a capo-fazione.

Non penso possa arrivare ad assumere il ruolo di capo-bastone; non sembra possederne l’indole e le “phisique du role”, mi si scusi il francesismo.

Vado quindi al punto, anche se non del tutto esaustivo, consapevole di colpire la suscettibilità un po’ permalosa del nostro:

  • Il nostro Signor Presidente è a conoscenza degli impegni sulla garanzia di neutralità dell’Ucraina sancita dagli accordi russo-statunitensi negli anni ’90?
  • Il nostro Signor Presidente è a conoscenza del contenuto degli accordi di Minsk e del ruolo di garanti assunto solennemente ed eluso da Francia e Germania?
  • Il nostro Signor Presidente è a conoscenza del trattato di mutuo sostegno, anche militare, sottoscritto da Ucraina e Stati Uniti e antecedente alle proposte ultimative dei russi nell’ottobre 2021?
  • Il nostro Signor Presidente, così sensibile ai temi dei diritti umani e dell’antinazi-fascismo, è a conoscenza delle reali dinamiche del colpo di stato e di mano a piazza Maidan nel 2013/2014, in Ucraina, delle persecuzioni e degli eccidi delle popolazioni russe e russofone presenti massivamente in Ucraina, come per altro in diversi paesi confinanti, appartenenti alla ex-URSS, della messa fuori legge della maggior parte dei partiti di quel “democratico” disgraziato paese, delle intenzioni dichiaratamente aggressive manifestate verso la Russia?
  • Il nostro signor Presidente è a conoscenza degli antecedenti storici del patto Molotov-Ribbentrop e dell’incongruenza della analogia offerta dal legame adombrato tra la guerra nazifascista e il conflitto ucraino?
  • Il nostro Presidente, da uomo politico, ritengo consumato, è consapevole dell’opportunità delle sue particolari esternazioni e forzature in un contesto e in una prospettiva di ripresa delle relazioni tra Stati Uniti e Russia?

La sua risposta documentata, ragionata ed esauriente a queste domande, pur nella modestia del ruolo dello scrivente, potrebbe offrire la spinta ad assumere il ruolo di mallevadore di una svolta positiva possibile nelle relazioni internazionali, innescato dal nuovo corso inaugurato dall’insediamento della presidenza statunitense. Basterebbe poco per imprimere una svolta decisiva sfruttando almeno per una volta in positivo l’atavica propensione trasformista del nostro ceto politico e della nostra classe dirigente.

La conferma, al contrario, ostinata del vecchio corso lo relegherebbe al ruolo cieco di una mosca cocchiera, fuori tempo massimo, di una causa persa, di una classe dirigente e di un ceto politico in evidente stato di smarrimento e putrefazione.

La scelta è inderogabile; quella di un uomo destinato a conquistarsi un posticino, sia pure di second’ordine, nella storia che conta  oppure in quello tapino e grottesco nei cantucci più reconditi riservati ai paladini tardivi delle cause perse e meno nobili.

Dalla sua, la sfortuna e la commiserazione di risiedere e presiedere in un continente, quello europeo, destinato  ad assumere un ruolo centrale nello scontro politico ferale, tutto interno agli Stati Uniti, rimanendone, per altro, più ostaggio e strumento che protagonista.

  • CONTRIBUITE!! AL MOMENTO I VERSAMENTI COPRONO UNA PARTE DELLE SPESE VIVE DI CIRCA € 4.000,00. NE VA DELLA SOPRAVVIVENZA DEL SITO “ITALIA E IL MONDO”. A GIORNI PRESENTEREMO IL BILANCIO AGGIORNATO _GIUSEPPE GERMINARIOll sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate:postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704
    oppure iban IT30D3608105138261529861559
    oppure PayPal.Me/italiaeilmondo
    oppure https://it.tipeee.com/italiaeilmondo/Su PayPal, Tipee, ma anche con il bonifico su PostePay, è possibile disporre eventualmente un pagamento a cadenza periodica, anche di minima entità, a partire da 2 (due) euro (pay pal prende una commissione di 0,52 centesimi)

CASO AL-MASRI! MESSAGGIO PER GIORGIA MELONI?AUGUSTO SINAGRA GIUSEPPE GERMINARIO CESARE SEMOVIGO

Giorgia Meloni e il suo governo si trovano in una posizione particolarmente scomoda. Aver messo lo stesso piede in troppe scarpe comporterà il pagamento di un prezzo più pesante in vista di un ipotetico riallineamento ed espone la leader a ritorsioni e condizionamenti contrapposti difficilmente sostenibili. Una condizione che rischia di esporre ulteriormente il paese piuttosto che condurlo ad una posizione e postura più autonoma. Ci sarà sicuramente il tentativo strumentale dell’opposizione demoprogressista di cavalcare il malcontento per una situazione della quale essa stessa è la principale responsabile. Sarà questo il terreno di confronto e di provocazione sul quale misurarsi senza ignorare i problemi sul tappeto e la condizione del paese. Ogni crisi è la condizione ed il pretesto di un profondo riassetto della condizione sociale. L’Italia non ne sarà esente. La pubblicazione avviene, purtroppo, a due settimane dalla registrazione per i problemi ricorrenti di disturbo dell’attività del sito. Mantiene comunque la sua attualità_Giuseppe Germinario

  • CONTRIBUITE!! AL MOMENTO I VERSAMENTI COPRONO UNA PARTE DELLE SPESE VIVE DI CIRCA € 4.000,00. NE VA DELLA SOPRAVVIVENZA DEL SITO “ITALIA E IL MONDO”. A GIORNI PRESENTEREMO IL BILANCIO AGGIORNATO _GIUSEPPE GERMINARIOll sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate:postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704
    oppure iban IT30D3608105138261529861559
    oppure PayPal.Me/italiaeilmondo
    oppure https://it.tipeee.com/italiaeilmondo/Su PayPal, Tipee, ma anche con il bonifico su PostePay, è possibile disporre eventualmente un pagamento a cadenza periodica, anche di minima entità, a partire da 2 (due) euro (pay pal prende una commissione di 0,52 centesimi)

AVANTI IL PROSSIMO_di Teodoro Klitsche de la Grange

AVANTI IL PROSSIMO

Ha ottenuto una risonanza planetaria il discorso da Monaco di J. D. Vance in cui ha rampognato le classi dirigenti europee. Le reazioni di quella italiana (di centrosinistra) e della stampa mainstream sono state le solite. Chi, riferendosi all’incontro di Vance con i leaders di AFD l’ha ricondotta alla consueta reductio ad hitlerum; i più a una interferenza (ovviamente inammissibile perché non sollecitata da loro); altri al tentativo di far dimenticare analoghi errori della politica USA, e qua siamo al focherello, perché prassi simili sono state poste in essere dalle amministrazioni di Biden ed Obama (salvo altri).

A me preme di notare che in quanto affermato da Vance siano enunciate idee che da millenni, o da secoli fanno parte del pensiero politico realista, quello parafrasando Machiavelli, che prende in considerazione la realtà dei fatti e non l’immaginazione degli stessi.

Due in particolare.

La prima è che l’Europa è in crisi, e che questa è per così dire endogena.

Dice Vance: “L’Europa deve affrontare molte sfide, ma la crisi che questo continente sta affrontando in questo momento, la crisi che credo stiamo affrontando tutti insieme, è una crisi che abbiamo creato noi stessi” Questa è dovuta a “come molti di voi in questa sala sapranno, la Guerra Fredda ha schierato i difensori della democrazia contro forze molto più tiranniche in questo continente. E considerate la parte in quella lotta che censurava i dissidenti, che chiudeva le chiese, che annullava le elezioni. Erano i buoni? Certamente no. E grazie a Dio hanno perso la Guerra Fredda. Hanno perso perché non hanno valorizzato né rispettato tutte le straordinarie benedizioni della libertà. La libertà di sorprendere, di sbagliare, di inventare, di costruire, poiché a quanto pare non si può imporre l’innovazione o la creatività, così come non si può costringere le persone a pensare, a sentire o a credere a qualcosa, e noi crediamo che queste cose siano certamente collegate. E purtroppo, quando guardo all’Europa di oggi, a volte non è così chiaro cosa sia successo ad alcuni dei vincitori della Guerra Fredda”. In altre parole l’Europa decade perché non crede essa stessa nei propri valori. A chiosare quanto affermato dal vice presidente USA, perché ha oscurato le radici giudaico-cristiane, cioè il fondamento della democrazia liberale, in particolare nella “variante” della dottrina del diritto divino provvidenziale. Nei due capisaldi fondamentali: il rispetto per le decisioni e convinzioni della comunità e la tutela dei diritti di ciascuno, comunque quello di manifestazione della libertà del pensiero. Per cui, sempre a leggere Vance, alla luce di Machiavelli, farebbero molto bene i governi europei a “ritornar al principio”, cioè ai fondamenti dell’ordine politico democratico-liberale e non all’(ipocrita) camuffamento del medesimo.

La seconda. Vance ha poi posto un problema di potenza politica. Infatti dice: “Se avete paura dei vostri stessi elettori, non c’è niente che l’America possa fare per voi, né, del resto, c’è niente che voi possiate fare per il popolo americano che ha eletto me e ha eletto il presidente Trump. Avete bisogno di mandati democratici per realizzare qualcosa di valore nei prossimi anni. Non abbiamo imparato nulla dal fatto che mandati deboli producono risultati instabili, ma c’è così tanto valore che può essere realizzato con il tipo di mandato democratico che penso verrà dall’essere più reattivi alle voci dei vostri cittadini.

 

Se volete godere di economie competitive, se volete godere di energia a prezzi accessibili e catene di approvvigionamento sicure, allora avete bisogno di mandati per governare perché dovete fare scelte difficili per godere di tutte queste cose e, ovviamente, lo sappiamo molto bene in America”.

E qua Vance ha posto un tema fondamentale del pensiero politico ossia, a sintetizzarlo al massimo, quello dell’obbedienza (del consenso, della legittimità) e del rapporto con la potenza dell’istituzione politica (o nelle “varianti” dei governanti, delle comunità). È intuitivo che un comando che non ottiene obbedienza non è comando reale; quello che la ottiene, ma soltanto con la coazione, dura poco (è instabile). Quindi l’ideale è che il comando sia sempre corrisposto da un certo grado di obbedienza (anche se non perinde ac cadaver). Meno intuitivo è che un governo, poco confortato dal consenso degli elettori (pour richiamandosi alla democrazia) è un governo debole.

Scriveva Spinoza: “Il diritto dello Stato, infatti, è determinato dalla potenza della massa, che si conduce come se avesse una sola mente. Ma questa unione degli animi non sarebbe in alcun modo concepibile, se lo Stato non avesse appunto soprattutto di mira ciò che la sana ragione insegna essere utile a tutti gli uomini”[1] e che “non è il modo di obbedire, ma l’obbedienza stessa, che fa per il suddito”; ciò, malgrado non ammettesse un dovere d’obbedienza assoluta, Anche se un monarca come Federico II di Prussia enunciava come fattori di potenza e di sicurezza di uno Stato: esercito, tesoro, fortezze, alleanze” (omettendo così il consenso/obbedienza) è sicuro che senza questa, il potere del governante è ridotto ai minimi termini. L’ordine e la coesione sociale e politica che ne consegue – al contrario – facilitano sia l’esecuzione delle obbligazioni, anche internazionali come, del pari, rendono vane – o limitano – la possibilità di speculare dall’esterno sulle rivalità e conflitti tra i governati e soprattutto sui gruppi in cui si dividono. E pluribus unum non è solo il motto degli USA: è il compito e lo scopo di ogni unità politica vitale.

Ma se, al contrario, tale unità degli animi non si realizza, anzi si sviluppano nuove contrapposizioni, a farne le spese è, in primo luogo, la potenza (in senso weberiano) dell’istituzione statale, che vede nullificata o radicalmente ridotta la possibilità che la propria volontà possa essere fatta valere. Il parametro sul quale giudicare la potenza dello Stato è esistenziale e non normativo. La scelta virtuosa, dice Vance, è abbracciare “ciò che il vostro popolo vi dice, anche quando è sorprendente, anche quando non siete d’accordo. E se lo fate, potete affrontare il futuro con certezza e fiducia, sapendo che la nazione è al fianco di ognuno di voi, e questa per me è la grande magia della democrazia… Credere nella democrazia significa capire che ogni cittadino ha la propria saggezza e la propria voce, e se ci rifiutiamo di ascoltare quella voce, anche le nostre battaglie più riuscite otterranno ben poco…. Non dovremmo avere paura del nostro popolo, anche quando esprime opinioni in disaccordo con la propria leadership”. Mentre nelle istituzioni europee a molti “non piace l’idea che qualcuno con un punto di vista alternativo possa esprimere un’opinione diversa o, Dio non voglia, votare in modo diverso o, peggio ancora, vincere un’elezione”.

E in ciò Vance non ha fatto altro che seguire non solo il pensiero politico realistico, ma anche la prassi del diritto internazionale (sia classico che post-vestfaliano) per cui soggetto di diritto internazionale, o comunque interlocutore è chi ha il potere, in una comunità; chi lo aveva, anche se titolare legale, ma non ce l’ha più, lo perde. Chi è in “lista di sbarco” come gran parte della classe dirigente europea, è un interlocutore debole e quindi inutile. Dato che, negli ultimi anni, la gran parte dei paesi dell’U.E. ha visto cambi di governo a favore di sovranisti (lato sensu) e, laddove non è successo, gli stessi sono cresciuti, di guisa che perfino la stabilissima quinta repubblica francese è diventata bastabile, è chiaro che i suddetti governanti non sono ritenuti interlocutori reali. A meno che – quanto meno improbabile – non recuperino il favore popolare. Ma se ciò non avviene non resta che aspettare le elezioni: avanti il prossimo.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Trattato politico, III, Torino 1958.

  • CONTRIBUITE!! AL MOMENTO I VERSAMENTI COPRONO UNA PARTE DELLE SPESE VIVE DI CIRCA € 4.000,00. NE VA DELLA SOPRAVVIVENZA DEL SITO “ITALIA E IL MONDO”. A GIORNI PRESENTEREMO IL BILANCIO AGGIORNATO _GIUSEPPE GERMINARIOll sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate:postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704
    oppure iban IT30D3608105138261529861559
    oppure PayPal.Me/italiaeilmondo
    oppure https://it.tipeee.com/italiaeilmondo/Su PayPal, Tipee, ma anche con il bonifico su PostePay, è possibile disporre eventualmente un pagamento a cadenza periodica, anche di minima entità, a partire da 2 (due) euro (pay pal prende una commissione di 0,52 centesimi)

LA CROCIERA DEL “BRITANNIA”  _di Michele Rallo

Michele Rallo

LA CROCIERA

DEL “BRITANNIA”

 

I RETROSCENA DELLE PRIVATIZZAZIONI ITALIANE

RICOSTRUITI ATTRAVERSO

QUATTRO INTERROGAZIONI PARLAMENTARI

 

Centro Studi “Dino Grammatico”

Custonaci

 

SOMMARIO

 

 

  • CONTRIBUITE!! AL MOMENTO I VERSAMENTI COPRONO UNA PARTE DELLE SPESE VIVE DI CIRCA € 4.000,00. NE VA DELLA SOPRAVVIVENZA DEL SITO “ITALIA E IL MONDO”. A GIORNI PRESENTEREMO IL BILANCIO AGGIORNATO _GIUSEPPE GERMINARIOll sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate:postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704
    oppure iban IT30D3608105138261529861559
    oppure PayPal.Me/italiaeilmondo
    oppure https://it.tipeee.com/italiaeilmondo/Su PayPal, Tipee, ma anche con il bonifico su PostePay, è possibile disporre eventualmente un pagamento a cadenza periodica, anche di minima entità, a partire da 2 (due) euro (pay pal prende una commissione di 0,52 centesimi)

Presentazione:

L’affare del “Britannia”,

una vicenda oscura

di Fabrizio Fonte                                                                    05

 

Premessa:

Il caso “Britannia”, le privatizzazioni e

quattro interrogazioni controcorrente

di Aldo Messina                                                                      07

 

Una matricola in Parlamento

e le disavventure de “L’Italia settimanale”                           11

 

Una strana coincidenza:

il ciclone Mani Pulite                                                    13

 

Arrivano i British Invisibles                                                   15

 

Notizie da Pechino:

la privatizzazione della Società Autostrade                          17

 

Privatizzazioni con lo sconto del 30%                        19

 

Beniamino Andreatta,

il maestro di Romano Prodi                                                   21

 

Gli “Invisibili” e le banche americane                         23

 

Interrogazioni (e interrogativi) senza risposta                      26

 

Un altro nome illustre: Guido Carli                                      28

 

L’audizione di Mario Draghi

alla Commissione Bilancio                                           30

 

La folgorante carriera di Sir Drake                                        33

 

Una lettera dell’Ambasciatore inglese                         36

 

Fini, a Londra, sostiene le privatizzazioni                            38

 

I miei attriti con Alleanza Nazionale                                     40

 

 

Appendice: un articolo sulla privatizzazione

dell’industria alimentare italiana                                 45

 

Appendice: una interrogazione

sulla privatizzazione del Banco di Sicilia                             50

 

 

Notizie sull’autore                                                                  53

 

PRESENTAZIONE:

L’AFFARE DEL “BRITANNIA”,

UNA VICENDA OSCURA

 

Il Centro Studi “Dino Grammatico” con la presente pubblicazione intende divulgare le vicende di uno dei periodi più travagliati, quanto poco conosciuti, della storia recente della nostra Patria. Il caso del “Britannia”, raccontato con dovizia di particolari in queste pagine da Michele Rallo, ci da l’esatta idea delle perverse logiche con cui ha preso il via il declino della nostra sovranità nazionale, che oggi purtroppo sembrerebbe aver raggiunto il punto più basso della sua triste parabola.

Dopo aver letto questo lavoro verrà difficile per chiunque pensare che le privatizzazioni di alcuni strategici asset italiani non siano state pilotate dall’alta finanza europea, con la connivenza ovviamente di parte del mondo politico nazionale. Il tutto avvenne a cavallo tra la prima e la seconda Repubblica, ovvero in un periodo storico abbastanza delicato, per il semplice fatto che si registrava la caduta dei partiti tradizionali, che avevano governato l’Italia fin dalla conclusione della seconda guerra mondiale, sotto i colpi delle inchieste della magistratura. È singolare, tuttavia, che molti dei nomi dei protagonisti di quella vicenda siano stati in seguito, o siano ancora oggi, ai vertici delle Istituzioni nazionali ed europee. Tanto per dare l’idea, molto gattopardesca, di quanto sia cambiato tutto per non  essere in realtà cambiato nulla.

Purtroppo l’Italia, dai tempi dell’approdo del “Britannia”, conta sempre meno negli scenari della geo-politica internazionale. Oggi possiamo constatare, infatti, che le logiche europee hanno ormai stabilmente prevalso sugli interessi nazionali. E, come se non bastasse, le attuali politiche economiche di estremo rigore messe in campo dalla Troika stanno condizionando la vita di circa cinquecento milioni di cittadini dell’UE.  Questa Europa, infatti, individua nelle banche e nella finanza le risorse primarie del vecchio continente; quando, invece, la vera costruzione europea non doveva prescindere dalla valorizzazione delle ricchezze di ogni singola Nazione. Del resto non era forse l’Europa dei campanili, dei comuni, delle cento culture e delle mille diversità che nella nostra fervida immaginazione speravamo sorgesse agli inizi degli anni novanta? Purtroppo non si erano fatti i conti con i poteri forti dell’establishment europeo che nel frattempo, mentre il “Britannia” ormeggiava tranquillamente al porto di Civitavecchia, decideva i destini delle privatizzazioni della Nazione italiana.

Il Centro Studi “Dino Grammatico” è pertanto felice di poter essere strumento di conoscenza di uno dei tanti misteri dell’Italia contemporanea. Non possiamo, di conseguenza, non esprimere il nostro più sentito ringraziamento a Michele Rallo per questo suo omaggio al nostro istituto.

 

                                         Fabrizio Fonte

Presidente del Centro Studi Dino Grammatico

 

PREMESSA:

IL CASO “BRITANNIA”, LE PRIVATIZZAZIONI

E QUATTRO INTERROGAZIONI

CONTROCORRENTE

 

 

Quando l’amico e illustre collaboratore Michele Rallo mi ha fatto prendere visione di certe sue interrogazioni parlamentari rimaste senza risposta da parte del Governo, sono stato fortemente incuriosito e lo ho invitato a ricapitolarne la vicenda per i lettori de “La Risacca”. Troppi silenzi hanno fatto seguito a quelle interrogazioni, tanto da richiamare alla mente un vecchio adagio, per cui «chi tace acconsente». È nata così la serie di cinque articoli pubblicati fra il marzo e il settembre scorsi sulla rivista da me diretta e, adesso, la loro riproposizione in forma di opuscolo.

Michele Rallo (già deputato al parlamento nazionale nella XII e nella XIII legislatura) ricostruisce la vicenda sul filo dei ricordi e, in particolare, rivisitando il testo delle quattro interrogazioni da lui presentate nel 1994.

Il tutto ruota attorno ad un convegno che nel giugno 1992 – pochi mesi dopo la nascita dell’Unione Europea – si era svolto a bordo del “Britannia”, lo yacht della Regina d’Inghilterra; convegno che riguardava una auspicata (da chi?) politica di privatizzazione dell’industria pubblica italiana, politica che sarebbe stata poi effettivamente attuata. Al convegno partecipavano esponenti del mondo degli affari britannico e manager pubblici italiani.

Fra tutti, spiccava il nome del dottor Mario Draghi (allora Direttore generale del Tesoro, poi Governatore della Banca d’Italia ed oggi Governatore della BCE), il quale svolgeva una prolusione introduttiva. Null’altro voglio dire sul convegno, rimandando alla diffusa trattazione che si potrà leggere nelle pagine seguenti.

Voglio invece spendere qualche parola sulla contestualizzazione che Michele Rallo opera, collocando l’evento in un quadro assai più ampio, che prende le mosse dalla formazione di una cordata italiana pro-privatizzazioni negli anni ’80 e continua poi attraverso i primi anni ’90, sovrapponendosi ad avvenimenti nazionali e internazionali: la caduta del Muro di Berlino, la stagione di Mani Pulite in Italia, l’elezione di Scalfaro alla Presidenza della Repubblica (in vece di Andreotti) e di Amato alla Presidenza del Consiglio (in vece di Craxi), e tanti altri.

Direi – anzi – che l’aspetto più interessante di questa pubblicazione è una sorta di “ipotesi investigativa” che ne viene fuori: l’ipotesi, cioè, di un progetto politico di vecchia data, tendente alla spoliazione della nostra economia nazionale, i cui effetti perversi si palesano oggi con una epocale crisi politica, economica e sociale.

È una chiave di lettura particolarissima ed intrigante, non priva di un certo alone da “giallo internazionale”. Non è detto che sia esatta al cento per cento, ma è certamente credibile; ed ancor più credibile appare nel contesto della ricostruzione storico-politica che ne traccia l’ex-deputato trapanese, oggi apprezzato commentatore politico.

Un ultimo aspetto vorrei sottolineare. Quello della personale vicenda politica del nostro collaboratore, quale traspare soprattutto nelle pagine iniziali ed in quelle conclusive di questa ricostruzione. È la vicenda di un “uomo politico” (non di un “politicante”) che ha svolto il suo mandato con linearità, anche a costo di entrare in contrasto con il vertice del suo partito e di pagare in prima persona per le sue scelte. Oggi, a distanza di vent’anni, il triste tramonto di certi personaggi – sedotti e poi abbandonati dai poteri forti – dà forse ragione e rende giustizia all’onorevole Michele Rallo.

 

                                                Aldo Messina

Direttore della rivista “La Risacca”



UNA MATRICOLA IN PARLAMENTO

E LE DISAVVENTURE

DE “L’ITALIA SETTIMANALE”

Non ho mai amato la materia economico-finanziaria. I miei interessi culturali hanno sempre privilegiato la storia e la politica. E “politica” – aggiungo – intesa come l’arte di interpretare la storia in atto, la storia del momento presente. Eppure, da quando nel 1994 venni eletto per la prima volta alla Camera dei Deputati, sono stato per certi versi costretto – per adempiere al mio dovere di rappresentanza degli interessi nazionali – a dedicare una attenzione crescente al settore economico-finanziario. Perché – intuivo allora confusamente – nel mondo stava avvenendo qualcosa di strano, quasi una guerra non guerreggiata dell’alta finanza contro le nazioni e i popoli. Soprattutto contro le nazioni e i popoli di quella Unione Europea che era stata creata appena due anni prima – nel 1992 – e che già allora sembrava essere divenuta il bersaglio privilegiato degli assalti della speculazione finanziaria internazionale.

Fui quasi costretto ad occuparmi di tale materia – dicevo – e lo feci con due soli ausìli:  “L’Italia Settimanale”, la rivista di Marcello Veneziani che ogni settimana era una miniera di informazioni preziose; e don Antonio Parlato, un deputato-gentiluomo di grande esperienza e capacità, che in quegli anni tentava di costituire una specie di club di parlamentari di destra che si facessero alfieri degli interessi del Meridione. A quei tempi Internet non era ancora fruibile, e l’unica fonte d’informazione erano i giornali. Da qui, il ruolo fondamentale di pubblicazioni come “L’Italia Settimanale”.

Apro una parentesi: la rivista andava a gonfie vele, ma – per motivi che mi sfuggono – il suo direttore Marcello Veneziani venne defenestrato nel 1995, e poco dopo il pacchetto azionario venne ceduto ad un editore uruguaiano (avete letto bene: uruguaiano) il quale poi fallirà nel giro di pochi mesi. Alcuni (e, fra le righe, lo stesso Veneziani) ritengono che i fatti che andrò a narrare fossero stati all’origine della decisione (di chi?) di far tacere una voce assai scomoda.

Peraltro, anche il sottoscritto – che delle rivelazioni de “L’Italia Settimanale” si fece megafono in Parlamento – ebbe qualche riverbero negativo sulla propria carriera politica. Ma di questo parlerò più avanti.

 

 

 

 

UNA STRANA COINCIDENZA:

IL CICLONE “MANI PULITE”

Dunque, nel febbraio 1993 (durante il primo governo Amato ed a metà circa della breve XI Legislatura) “L’Italia Settimanale” aveva rivelato che alcuni mesi prima – per l’esattezza il 2 giugno 1992, nel pieno del ciclone di Tangentopoli – si era svolto uno strano convegno a bordo del “Britannia”, lo yacht della Regina Elisabetta d’Inghilterra che, per l’occasione, si trovava ancorato nel porto romano di Civitavecchia, dunque in acque territoriali italiane.

Attenzione alle date: la stagione di “Mani pulite” era iniziata nel febbraio precedente, con l’arresto di Mario Chiesa. Le elezioni dell’aprile successivo avevano visto un arretramento dei partiti tradizionali (a beneficio di Rete e Lega Nord) ma, tutto sommato, una pur affannosa tenuta del quadro politico. Eppure – complice anche la coincidenza (?) dell’attentato mortale al giudice Falcone – gli effetti del ciclone giudiziario determinavano la mancata elezione dei due maggiori uomini politici italiani alle cariche apicali dello Stato e del Governo: in maggio Giulio Andreotti doveva rinunziare alla Presidenza della Repubblica in favore di Oscar Luigi Scalfaro; ed un mese più tardi Bettino Craxi dovrà farsi da parte nella corsa alla Presidenza del Consiglio, lasciando campo libero al socialista più amato dai “mercati”, Giuliano Amato. Venivano così eliminati dalla scena politica i due elementi di maggior spessore, due politici di razza che avevano le capacità per comprendere la vastità del sommovimento in atto sulla scena internazionale, dopo la recentissima fine dell’Unione Sovietica e l’inizio della politica americana di egemonizzazione dell’intero globo terraqueo.

Certo, la Magistratura italiana non si era inventata niente: le inchieste sulla classe dirigente della “prima repubblica” erano in buona parte più che fondate. Ma non v’è dubbio che la stagione di Tangentopoli abbia cancellato dalla scena politica del nostro Paese l’unico Presidente del Consiglio che avesse avuto il coraggio (ai tempi della crisi di Sigonella) di contrastare a muso duro il Presidente degli Stati Uniti. E non v’è dubbio, del pari, che Tangentopoli abbia indotto un personaggio del calibro di Giulio Andreotti a ritirarsi sotto la tenda e ad attendere serenamente la conclusione della propria avventura terrena.

 

 

 

 

ARRIVANO I BRITISH INVISIBLES

Chiedo scusa al lettore per la lunga digressione, necessaria – tuttavia – per inquadrare temporalmente il convegno del Britannia. Il 2 giugno 1992, dunque: una settimana dopo l’elezione di Scalfaro alla Presidenza della Repubblica (25 maggio) e tre settimane prima dell’elezione di Giuliano Amato alla Presidenza del Consiglio (28 giugno). E ancòra – se vogliamo inquadrare l’avvenimento in un più vasto contesto internazionale – pochi mesi dopo la fine dell’Unione Sovietica (dicembre 1991) e la firma di quel trattato di Maastricht che aveva segnato la nascita dell’Unione Europea (febbraio 1992). All’epoca – si tenga presente – l’attacco all’economia italiana era già stato sferrato, ma nulla lasciava prevedere i suoi esiti disastrosi. Il governo del tempo (il VII gabinetto Andreotti, ancòra in carica per l’ordinaria amministrazione) aveva posto le premesse per una politica di dismissioni, senza tuttavia imboccare ancòra quella strada, invocata a gran voce dalla speculazione che già pregustava i golosi bocconi made in Italy. Si era, in sostanza, a metà del guado. Nulla era stato ancòra deciso, il vecchio quadro politico sembrava reggere in qualche modo, ed i maggiori partiti italiani (DC, PCI, PSI e MSI) non avevano ancòra accettato il diktat dei “mercati”: globalizzazione economica, fine dello Stato sociale e, appunto, privatizzazioni.

Era a quel punto che dalla speculazione finanziaria giungeva una evidente forzatura. Venivano mandati avanti the British Invisibles, “gli Invisibili Inglesi”, che non erano – contrariamente a quel che potrebbe far pensare il loro nome – una setta più o meno segreta, ma i membri di un rispettabile (si presume) comitato di “banchieri d’affari” e di finanzieri; dei potentissimi businessmen che, ufficialmente ed alla luce del sole, promuovevano nel mondo l’industria dei “servizi finanziari” del Regno Unito. Peraltro, in una singolare commistione di pubblico e privato, gli Invisibili avevano (ed hanno) un rapporto strettissimo con la Casa Regnante inglese. Una delle manifestazioni di questa vicinanza era la gentile concessione (non saprei dire se a titolo gratuito o meno) dello yacht reale “Britannia” per i convegni organizzati dagli uomini della City nei quattro angoli del globo, ovunque ci fosse da far soldi. Da Tokio a Hong-Kong, da Stoccolma a Roma. E appunto a Roma – anzi nella sua sede portuale di Civitavecchia – iniziava, quel 2 giugno 1992, la breve ma intensa crociera che avrebbe visto affaristi anglosassoni e boiardi italiani discutere familiarmente della liquidazione della nostra industria di Stato.

 

 

NOTIZIE DA PECHINO:

LA PRIVATIZZAZIONE

DELLA SOCIETÀ AUTOSTRADE

Quando – in un domani non so quanto lontano – gli storici scriveranno la storia della svendita alla finanza anglosassone della nostra economia nazionale, citeranno certamente tre eventi che sono all’origine di questa drammatica pagina: la legge-delega Amato-Carli che avviava la privatizzazione della Banca d’Italia (30 luglio 1990), il trattato di Maastricht e la nascita dell’Unione Europea (7 febbraio 1992) e, appunto, il convegno del “Britannia” (2 giugno 1992).

Di quest’ultimo evento ho già delineato il contesto politico e diplomatico (oltre che giudiziario) che gli fece da cornice. Adesso scenderò nel dettaglio, dando conto delle partecipazioni più significative, sia da parte inglese che da parte italiana. Per evitare di incorrere in qualche errore od omissione (sono ormai trascorsi vent’anni) sorreggerò la mia memoria con i dati riportati in quattro interrogazioni parlamentari di cui sono stato co-firmatario insieme ai colleghi Parlato (la prima) e Landolfi (le altre tre). Si tratta, per l’esattezza, della n. 4/00234 del 29 aprile 1994 – due settimane dopo l’inizio della XII Legislatura – e delle nn. 4/00778, 4/00779, 4/00780 del 20 maggio del medesimo anno. Tutte rimaste senza risposta da parte del governo del tempo.

La prima interrogazione era per certi versi anomala, perché quasi interamente dedicata ai prodromi di privatizzazione della Società Autostrade. In premessa si affermava che i dirigenti della predetta Società erano stati fra i partecipanti al convegno del “Britannia”, nel corso del quale «fu deciso, oltre al resto, la dismissione delle aziende italiane a partecipazione statale». Si proseguiva con la notizia – rimbalzata addirittura da Pechino – che «le procedure di vendita sono a buon punto per Maccarese e Italstrade, e c’è la conferma della volontà di quotare in borsa, scendendo sotto il 51 per cento, anche le azioni ordinarie della Società Autostrade».

 

 

 

PRIVATIZZAZIONI

CON LO SCONTO DEL 30%

Le altre interrogazioni seguivano a distanza di un mese, ed erano sostanzialmente un unicum suddiviso in tre puntate. È da notare che gli atti ispettivi riguardavano fatti avvenuti durante gestioni governative precedenti (il 7° governo Andreotti, il 1° governo Amato ed il governo Ciampi), ma che comunque il nuovo gabinetto (il 1° governo Berlusconi) non riterrà di fornire risposta alcuna: come se – al di là delle divisioni partitiche – i governi di ogni colore politico fossero tenuti a non ostacolare il disegno di spoliazione dell’economia italiana.

La seconda interrogazione (la prima della terna principale) esordiva citando le rivelazioni contenute nell’articolo de “L’Italia settimanale” del 3 febbraio 1993. Riporto testualmente il brano: «2 giugno 1992: muore il giudice Falcone. Mentre l’Italia si indigna e scende in piazza, qualcun altro dà il via alla svendita dello Stato. Prime vittime “annunciate”, i patrimoni industriali e bancari più prestigiosi. Il nome dell’operazione è “privatizzazione”. Formula magica presentata alla collettività come unica cura per risanare la nostra economia e che, invece, nasconde un business dalle proporzioni incalcolabili, patti di sangue tra le famiglie più influenti del capitalismo, dinastie imprenditoriali, banche e signori della moneta. Accordi e strategie politiche ben precise con un minimo comun denominatore: scippare agli Stati, considerati un inutile retaggio del passato e un odioso freno alla globalizzazione del mercato, la sovranità monetaria.

L’Italia un’espressione geografica delle lobby, dell’impero multinazionale anglo-americano? E quanto viene deciso, anzi, ufficialmente sancito il 2 giugno 1992, a bordo del regio yacht “Britannia” (che si trova “per caso” nelle nostre acque territoriali) dai rappresentanti della BZW (la ditta di brocheraggio della Barclay’s), della Baring & Co, della S.G. Warburg e dai nostri dirigenti dell’ENI, dell’AGIP, da Mario Draghi del ministero del Tesoro, da Riccardo Gallo dell’IRI, Giovanni Bazoli dell’Ambroveneto, Antonio Pedone della Crediop e da alti funzionari della Comit, delle Generali e della Società Autostrade. Lo rivela un documento dell’Executive Intelligence Review.

Poche ore di discussione e l’affare prende corpo. Al Governo il compito di giustificare la filosofia dell’operazione (con una adeguata campagna-stampa di drammatizzazione dei dati del deficit pubblico) …

Anche la svalutazione della lira [avvenuta tre mesi dopo] è stata soltanto un comodo affare per le finanziarie di Wall Street. Calcolato in dollari, l’acquisto delle nostre imprese da privatizzare, è diventato infatti, per gli acquirenti americani, meno costoso del 30 per cento. La stessa lira si va assestando, ormai, sul valore politico di circa 1.000 lire a marco, esattamente come da richiesta (imposizione) internazionale. Ma non bisogna stupirsi. Il disegno di espansione delle grandi finanziarie anglo-americane è noto, e viene da lontano.»

 

 

 

BENIAMINO ANDREATTA,

IL MAESTRO DI ROMANO PRODI

Venivano dunque fatti i primi nomi: su tutti, spiccava quello di Mario Draghi, allora Direttore Generale del Tesoro: l’uomo che avrebbe poi gestito le privatizzazioni italiane. Ma su Draghi avrò modo di tornare: sul suo ruolo, sui suoi collegamenti, sui suoi rapporti con la banca d’affari Goldman & Sachs, sul conflitto con Cossiga (che in diretta tv lo attaccherà con incredibile veemenza), sulla sua sfolgorante carriera fino al seggio più alto della Banca Centrale Europea.

E, tuttavia, un altro nome “pesante” veniva fuori da questa prima interrogazione, che così proseguiva: «se sia noto [al Presidente del Consiglio] quanto ha inoltre pubblicato l’EIR “Executive Intelligence Review” a pagina 30 del numero del 18 marzo scorso, e cioè che tra i partecipanti alla riunione sul panfilo della regina Elisabetta d’Inghilterra vi sarebbe stato anche il senatore Andreatta, poi divenuto ministro del Bilancio [nel 1° governo Amato].»

Un nome – quello del senatore Beniamino Andreatta – di importanza rilevantissima, ed assai significativo. Oltre ad aver ricoperto incarichi ministeriali in una mezza dozzina di esecutivi della “prima repubblica”, si era illustrato, in particolare, per essere stato il ministro del Tesoro che aveva posto le premesse – già nel lontano 1981 – per la privatizzazione della Banca d’Italia; ed aveva anche svolto un ruolo di apripista per la politica di dismissioni generalizzate che sarà messa in atto un decennio dopo.

Ad Andreatta faceva pieno riferimento il “giovane” cinquantenne Romano Prodi, suo allievo prediletto e suo assistente alla cattedra di economia politica dell’Università di Bologna. Nel 1992 l’ex giovane Prodi era già abbastanza cresciuto politicamente, al punto da aver ricoperto un primo lungo mandato alla presidenza dell’IRI (dall’82 all’89). Ma sarà dal 1993 – chiamato una seconda volta all’IRI dal Presidente del consiglio Ciampi – che il beniamino di Beniamino darà il meglio di sé, imponendosi come il protagonista assoluto della stagione di privatizzazioni in Italia.

 

 

GLI “INVISIBILI”

E LE BANCHE AMERICANE

La terza interrogazione (la n. 4/00779 del 20 maggio 1994) alzava il tiro.

Si prendevano le mosse sempre dall’articolo de “L’Italia settimanale” – che a sua volta aveva rilanciato informazioni provenienti dalla “Executive Intelligence Review” – per affrontare il tema delle privatizzazioni nel suo insieme ed in una duplice ottica: quella dell’interesse delle multinazionali e della finanza speculativa, ansiose di mettere le mani sulla corteggiatissima industria pubblica italiana; e quella – contrapposta – della nostra economia nazionale, che da una politica di dismissioni generalizzate sarebbe certamente uscita (come la realtà di oggi inoppugnabilmente dimostra) notevolmente indebolita. Si riteneva, in sostanza, che gli “invisibili” che avevano organizzato e gestito il convegno del “Britannia”, avessero agito anche in nome e per conto dei banchieri di Wall Street, chiamati in causa direttamente dall’articolo del settimanale di Veneziani in uno con i loro colleghi della City londinese:

«La società Mont Pelerin, che per 12 anni ha dominato l’economia inglese, sir Leon Brittan, ex-commissario della CEE e vecchio esponente del governo della Thatcher, il club segreto dei Bilderberg (frequentato dal nostro Agnelli, da Kissinger, da Rothschild), i loro associati newyorkesi della Goldman Sachs, della Merrill Lynch, della Salomon Brothers, i loro sostenitori nel Fondo Monetario Internazionale, nell’OCSE, eccetera. Personaggi, sigle e organizzazioni, che non spuntano a caso, fanno parte della storia. Sono la storia. Ricorrono in tutti gli importanti processi di trasformazione dell’economia mondiale.

Tre di queste finanziarie, ad esempio, sono direttamente “interessate” alle nostre privatizzazioni. Collaborano, infatti, con il governo. Vediamo qualche dettaglio che le riguarda: la Goldman Sachs (la prima di Wall Street, adesso anche con sede “operativa” a Milano) è uno dei più influenti manipolatori del prezzo del petrolio e del valore della moneta. Il suo leader supremo, Robert Ruin, sarà il capo del consiglio di sicurezza nazionale del neo-presidente Clinton.

La Salomon Brothers gestisce il greggio mondiale ed opera prevalentemente nel settore delle materie prime. Il suo nuovo presidente, Warren Buffett, è il principale azionista del “Washigton Post”, della rete televisiva ABC e ha forti interessi nella Wels Fargo Bank e nell’American Express.

La Merrill Lynch, infine, incaricata dall’IRI, il 9 ottobre scorso, di preparare la privatizzazione del Credito Italiano, ha occupato spesso le cronache per alcune operazioni di riciclaggio del denaro sporco tra l’Italia, la costa orientale degli Stati Uniti e Lugano (la famosa “pizza connection”, il processo alla famiglia mafiosa newyorkese dei Bonanno)…»

Attenzione ad alcuni nomi, ad alcune sigle, ad alcune ragioni sociali che in questi anni abbiamo imparato a conoscere, ma che all’epoca – esattamente vent’anni fa – erano quasi del tutto ignoti al pubblico italiano. Veniva chiamato in causa per la prima volta il Bilderberg, allora semisconosciuto club di ricconi ed oggi ritenuto il sancta sanctorum del “governo mondiale”, responsabile delle scelte che decidono il destino di intere nazioni. Si facevano, poi, i nomi di certe grandi “banche d’affari”, alcune delle quali appartenenti al gotha dell’alta finanza ebraica negli Stati Uniti.

Di una di queste, in particolare, la Goldman & Sachs, avremo modo di parlare più avanti, sia per il suo ruolo di advisor nelle privatizzazioni italiane, sia per il rapporto diretto, per il vero e proprio cordone ombelicale che, segnatamente per un certo lasso di tempo, la ha collegata a Mario Draghi, il dominus delle dismissioni made in Italy.

Ritornando all’interrogazione, comunque, questa si chiudeva con l’invito al governo ad attivarsi in tutte le sedi per tutelare gli interessi nazionali, e con una nota polemica anche nei confronti della magistratura romana (competente se non altro per territorio) che non aveva ritenuto di esperire indagini sull’accaduto: «se possa rispondere in tutto od in parte al vero quanto precede, che all’interrogante sembra di inaudita gravità e gravemente lesivo degli interessi economici e produttivi, oltre che sociali ed occupazionali dei cittadini italiani nonché della stessa indipendenza italiana; in presenza di simile squallida “strategia” di colonizzazione dell’Italia da parte delle multinazionali, quali provvedimenti il Governo intenderebbe immediatamente assumere, ove quanto sopra risultasse vero, nei confronti di esponenti e dirigenti ministeriali e di aziende a partecipazione pubblica, perché le loro gravissime responsabilità fossero colpite; se consti che su tali “notizie di reato”, che tali l’interrogante ritiene ben possano definirsi, pubblicate da “L’Italia settimanale”, la magistratura romana abbia aperto indagini.»

 

 

 

INTERROGAZIONI (E INTERROGATIVI)

SENZA RISPOSTA

Naturalmente, neanche questa interrogazione – come tutte le altre della serie – ebbe il bene di una risposta da parte del Presidente del Consiglio, che al tempo era il neo-eletto Silvio Berlusconi.

Esattamente come le medesime interrogazioni – presentate nella legislatura precedente dall’onorevole Antonio Parlato – non avevano ottenuto risposta dai Presidenti del Consiglio di allora, Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi.

Esattamente come – aggiungo ancòra – non ha successivamente avuto risposta una mia interrogazione del 1999 sul ruolo del dottor Mario Draghi – sempre lui! – nella privatizzazione di Medio Credito Centrale e Banco di Sicilia;[1]  l’interrogazione era rivolta al Ministro del Tesoro, che all’epoca (governo D’Alema) era Giuliano Amato.

Guarda caso, tutte le interrogazioni relative alle privatizzazioni – almeno quelle di cui sono stato firmatario o co-firmatario – non hanno avuto la fortuna di ricevere una risposta da parte dei governi in carica, fossero questi di destra o di sinistra, indifferentemente.

Eppure il Governo è tenuto a rispondere agli “atti di sindacato ispettivo” (così tecnicamente si definiscono le interrogazioni parlamentari). Può, in verità, avvalersi della facoltà di non rispondere. Ma, in questo caso, deve obbligatoriamente comunicare le motivazioni della mancata risposta. Cosa che – neanche questa – è stata fatta.

Evidentemente, quelli delle privatizzazioni sono argomenti-tabù. Il buon parlamentare della prima o della seconda repubblica – anche qui non fa differenza – deve limitarsi a prendere lo stipendio e a non fare domande. Come nelle gangster story cinematografiche.

 

UN ALTRO NOME ILLUSTRE:

GUIDO CARLI

La quarta e ultima interrogazione della serie “Britannia” era interamente dedicata a colui che – ad onta della sua posizione defilata – era forse il personaggio centrale della vicenda: quel Mario Draghi che, benché allora poco noto al grande pubblico, poteva a buon diritto essere considerato un’autentica eminenza grigia dell’economia italiana nell’ultimo scorcio della “prima repubblica”. Manager dalle indubbie capacità, Draghi era cresciuto professionalmente in àmbito anglosassone, ricoprendo per un lungo periodo – dal 1984 al 1990 – la carica di Direttore esecutivo della World Bank, la Banca Mondiale.

Per avere un’idea dell’ambiente frequentato da Draghi nel periodo forse più importante per la sua formazione culturale e professionale, basti pensare che, negli anni della sua direzione, presidenti della WB erano stati un dirigente della Bank of America e, in un secondo tempo, un senatore dello Stato di New York. Fra i loro successori – tanto per rendere l’idea del “clima” – vi saranno, fra gli altri, un dirigente della J.P.Morgan ed un top manager della Goldman & Sachs. Al riguardo, i lettori ricorderanno quanto ho già avuto modo di dire nella scorsa puntata su queste banche “d’affari”; sulla G&S, in particolare: la prima ad avere – previdentemente – aperto una sede “operativa” in Italia, e l’unica che successivamente potrà vantarsi di aver avuto sui suoi libri paga il futuro Governatore della Banca Centrale Europea.

Tornando a Draghi, questi – nonostante gli inizi più che promettenti di una luminosa carriera in quel di Wall Street – nel 1990 lasciava l’America e rientrava in Italia, dove però – provvidenzialmente – l’anno seguente era chiamato a ricoprire la carica di Direttore Generale del Ministero del Tesoro. Ministro del tempo era Guido Carli, ex governatore della Banca d’Italia e co-autore con Giuliano Amato – lo ricordavo prima – della legge-delega che ne aveva avviato la privatizzazione. Carli era uno dei pionieri e degli alfieri della politica di privatizzazioni in Italia, ed apparteneva alla medesima cordata del senatore Beniamino Andreatta, l’unico uomo di governo – credo – ad essere stato invitato alla crociera del “Britannia”.

Guido Carli darà anche il via libera a Draghi per partecipare al medesimo incontro, stando almeno a quanto lo stesso Draghi dichiarerà in una successiva audizione alla Commissione Bilancio della Camera dei Deputati («chiesi l’autorizzazione al ministro dell’epoca, che non sollevò alcuna obiezione ed anzi mi invitò a parteciparvi»).

 

 

 

L’AUDIZIONE DI MARIO DRAGHI

ALLA COMMISSIONE BILANCIO

E continuiamo con l’audizione di Draghi, ampiamente citata nell’interrogazione; audizione che – al tempo – era stata contrassegnata dalle puntuali osservazioni dell’ on. Antonio Parlato. Parlato – come detto – era stato il presentatore di quelle stesse interrogazioni nell’XI Legislatura (1992-1994), “passandole” poi a me ed al collega Landolfi nella XII.

Orbene, in quella audizione (svoltasi nel marzo 1993) Mario Draghi aveva cercato di banalizzare la vicenda, dichiarando che si era trattato di uno dei tanti convegni dedicati alle privatizzazioni, e che lui aveva svolto solamente l’introduzione alla conferenza, dopo di che si era allontanato prima che si affrontassero temi specifici.

No, non ci trovava nulla di male, perché «una di queste conferenze – sono parole sue – era prevista sulla nave della regina Elisabetta e quindi del governo inglese, come si sarebbe potuta tenere nella sala di un albergo o in una sala per congressi».

Naturalmente, non lo sfiorava neanche l’idea che, in materia di privatizzazioni, l’Inghilterra potesse avere interessi opposti a quelli dell’Italia: questo non lo diceva, ma una cosa del genere non era neanche presa in considerazione.

Quanto all’ipotesi – riecheggiata da Parlato – che la recente svalutazione della lira (settembre 1992) potesse essere stata provocata per consentire alle multinazionali angloamericane di acquistare le nostre aziende pubbliche con uno sconto del 30%, ciò non appariva credibile al serafico manager.

Così come non gli appariva credibile che alcuni soggetti stranieri avessero potuto condizionare l’andamento della nostra valuta: «Mi riesce altresì difficile comprendere come il tasso di cambio di quella che è la quinta o la sesta potenza industriale del mondo, possa essere influenzato da operatori, tutto sommato individuali, o da tre, quattro, cinque o anche dieci banche d’investimento, su un arco temporale ormai molto lungo.»

Certo, si stenta a credere che il Direttore Generale del Tesoro ignorasse che la ricordata svalutazione del 30% della lira italiana (che peraltro ci aveva causato una perdita valutaria di 48 miliardi di dollari) fosse stata in larghissima misura determinata – a monte – da un singolo speculatore finanziario, l’ebreo-ungherese naturalizzato americano George Soros; il quale nell’occasione avrebbe realizzato un guadagno astronomico, probabilmente pari a 400 miliardi di lire (ma in rete circolano cifre ben maggiori).

D’altro canto, Soros è stato considerato tutt’altro che un nemico dal “partito delle privatizzazioni” italiano. Tanto da essere, incredibilmente, insignito di una laurea honoris causa dall’Università di Bologna; laurea – si dice – conferitagli su input del privatizzatore numero uno della Repubblica Italiana, Romano Prodi, docente di quell’Ateneo.

Ma torniamo all’interrogazione parlamentare: «Considerato che da quanto precede – concludevamo l’onorevole Landolfi ed io – le responsabilità della Gran Bretagna, attraverso sia la disponibilità dello yacht di Sua Maestà la Regina d’Inghilterra, che gli inquietanti incontri che vi furono organizzati e per quanto altro lo stesso Direttore Generale del Tesoro ha dichiarato, appaiono atti chiaramente ostili nei confronti della Nazione italiana, se voglia chiedere le opportune, immediate, esaurienti spiegazioni all’ambasciatore del Regno Unito presso la Repubblica Italiana, giudicando gli interroganti gravissimo l’accaduto ed ancor più preoccupante il seguito che ne è derivato, avuto riguardo alle speculazioni sulla lira ed allo stesso percorso delle “privatizzazioni”.»

Fin qui l’interrogazione.

 

LA FOLGORANTE CARRIERA

DI SIR DRAKE

Mi sembra opportuno, tuttavia, aggiungere alcune righe per ricordare le ulteriori tappe della brillante carriera di Sir Drake (come lo chiama Veneziani). Il nostro manteneva la poltrona di Direttore Generale del Tesoro fino al 2001, attraversando indenne 10 anni di intemperie politiche e 10 diversi governi, di destra e di sinistra.

Dall’anno successivo alla crociera del “Britannia” – e anche qui fino al 2001 – andava ad occupare un’altra ambita ed assai strategica poltrona, quella di Presidente del Comitato Privatizzazioni. In tale veste – apprendo da Wikipedia – «è stato artefice delle più importanti privatizzazioni delle aziende statali italiane». Non da solo, in verità. Durante la sua permanenza alla presidenza del Comitato Privatizzazioni (1993-2001) si avvicendavano diversi Presidenti del Consiglio, diversi Ministri del Tesoro, diversi Ministri dell’Industria, diversi Presidenti dell’IRI. Fra gli altri, Romano Prodi: Presidente dell’IRI (per la seconda volta) dal 1993 al 1994, Presidente del Consiglio dal 1996 al 1998, prima di diventare – nel 1999 – Presidente della Commissione Europea.

Ma torniamo a Draghi. Nel 2001 lasciava la Direzione del Tesoro e il Comitato Privatizzazioni, e nel 2002 approdava leggiadramente in Goldman & Sachs. Non da semplice manager, ma addirittura da Vicepresidente con competenza sull’area europea, oltre che da membro del suo Management Committee Worldwide. Scelta forse poco elegante, considerato che la G&S era stata fra i protagonisti delle dismissioni del patrimonio pubblico italiano: non soltanto era stata advisor (cioè consulente e valutatore) per la privatizzazione di Credito Italiano, Fintecna e probabilmente anche di altre aziende, ma aveva acquistato in prima persona consistenti pezzi del nostro patrimonio nazionale: in particolare, l’intera proprietà immobiliare dell’ENI, che si era aggiunta ad altre importanti acquisizioni immobiliari (provenienti da Fondazione Cariplo, RAS, Toro, eccetera).

Draghi, comunque, restava in Goldman Sachs fino all’ultimo giorno del 2005. Nel 2006, con un altro dei suoi folgoranti rientri in patria, era nominato Governatore della Banca d’Italia. A designarlo era il Presidente del Consiglio del tempo, Silvio Berlusconi, sembra – a giudicare dalla telefonata di cui parlerò – su pressioni di Francesco Cossiga; il quale poi – per motivi che ignoro – si sarebbe pentito amaramente di quel passo.

Ricordo (e ne conservo la registrazione) l’invettiva del vecchio leone in diretta tv, rispondendo ad un trasecolato Luca Giurato che gli aveva chiesto un pare sull’ipotesi di Draghi a Palazzo Chigi: «Un vile, un vile affarista… Non si può nominare Presidente del Consiglio dei Ministri chi è stato socio della Goldman Sachs, grande banca d’affari americana… e male, molto male io feci ad appoggiarne, quasi ad imporne la candidatura [per la Banca d’Italia?] a Silvio Berlusconi… È il liquidatore, dopo la famosa crociera sul “Britannia”, dell’industria pubblica… la svendita dell’industria pubblica italiana quand’era Direttore Generale del Tesoro…»

Chiusa la parentesi Cossiga. Draghi rimaneva alla Banca d’Italia fino al 2011, quando spiccava il grande balzo: Governatore della Banca Centrale Europea.

Carriera folgorante, come si vede. Come parimenti folgoranti sono state le carriere di altri due “Goldman boys”: Mario Monti e Romano Prodi, entrambi consulenti della G&S per diversi anni. Prodi – vorrei sbagliare – ce lo ritroveremo prima o poi alla Presidenza della Repubblica. A meno che, naturalmente, il “Colle più alto” non venga destinato (chissà da chi?) proprio a Mario Draghi.

In ogni caso – sono pronto a scommettere – il successore di Re Giorgio sarà targato Goldman Sachs.

 

UNA LETTERA

DELL’AMBASCIATORE INGLESE

Pochi giorni dopo la presentazione delle ultime interrogazioni, il 31 maggio di quel 1994, l’ambasciatore di Sua Maestà Britannica, Patrick Fairweather, prendeva carta e penna e indirizzava una lunga missiva al senatore Valentino Martelli. Attenzione: Valentino e non Claudio, il noto cardiochirurgo e non il “piumino di cipria” della prima repubblica. Martelli era stato eletto nelle liste di Alleanza Nazionale – secondo quanto si sussurrava nei corridoi di Palazzo Madama – “in quota Cossiga”; anzi – secondo le medesime voci – era “l’uomo di Cossiga in AN”. È possibile, quindi, che i suoi ottimi rapporti con l’ambasciatore Fairweather avessero una matrice cossighiana; ma è anche possibile che fossero dovuti al fatto che lo stesso Martelli avesse a lungo soggiornato ed operato a Londra. Sia come sia, questo era il testo della lettera dell’ambasciatore:

«Caro senatore Martelli, fin dal nostro interessante colloquio del mese scorso, mi sono reso conto che all’interno di Alleanza Nazionale continuano le preoccupazioni circa un seminario sulle privatizzazioni che si è svolto nel giugno 1992 a bordo dello Yacht Reale “Britannia”. Sono consapevole che due interrogazioni parlamentari presentate da due suoi colleghi di partito alla Camera, Landolfi e Rallo, richiedono un chiarimento da parte mia. La partecipazione a questo seminario sulle privatizzazioni era intesa (…) come un’occasione per banchieri ed altri esperti inglesi di spiegare le diverse tecniche che potrebbero essere usate quando e se fosse stata presa la decisione di privatizzare l’industria pubblica italiana. Il seminario era stato organizzato dai “British Invisibles” (Invisibili Inglesi), un’associazione di banchieri e specialisti finanziari londinesi, e dal personale di questa Ambasciata. (…) Hanno partecipato circa 90 fra dirigenti e manager dell’industria italiana, principalmente ma non esclusivamente dall’area delle partecipazioni statali. Il seminario è stato presentato dal professor Mario Draghi, Direttore Generale del Tesoro, che tenne a precisare che a quella data nessuna decisione era stata presa sulla concessione di contratti di consulenza a soggetti inglesi o ad altre banche o istituti finanziari. A far tempo da quella data, alcune ma non tutte le banche i cui rappresentanti parteciparono a quel seminario, hanno avuto qui dei contratti di consulenza o di altro tipo di valutazione. Continua l’intenso interesse italiano per l’esperienza britannica in questo settore, ed io e il mio personale facciamo del nostro meglio per soddisfarlo. Ma il suggerire che la partecipazione ad un seminario su un tema d’attualità in una prestigiosa locazione possa aver avuto un motivo più sinistro che il desiderio di promuovere – del tutto legittimamente – la competenza britannica in questo settore, è completamente infondato. Naturalmente, sarò lieto per qualunque azione Lei possa fare per evitare che queste storie sensazionali e senza basi sul seminario del Britannia possano guadagnare credito fra i Suoi colleghi. Spero che, a tal fine, vorrà far circolare copie di questa lettera.»

Fin qui la lettera, che chiaramente mirava a minimizzare quanto avvenuto. Peraltro, era certamente inconsueto che alcune interrogazioni parlamentari – evidentemente “scomode” al punto da non ricevere le dovute risposte del Governo – avessero invece un riscontro da parte dell’ambasciatore di uno Stato straniero.

 

 

 

FINI, A LONDRA,

SOSTIENE LE PRIVATIZZAZIONI

Qualche tempo appresso, comunque, il senatore Martelli si rifaceva vivo con una telefonata. Mi comunicava che Gianfranco Fini avrebbe prossimamente compiuto una non meglio specificata “visita” a Londra, aggiungendo che, in tale occasione, le famose interrogazioni avrebbero potuto “disturbare”. Non ricordo – a distanza di vent’anni – se aggiungesse altro. Ricordo soltanto di aver risposto che restavo in attesa di conoscere la risposta del Governo per decidere se dichiararmi soddisfatto o meno. Il Governo – come già detto – non rispose mai. Ancora oggi, se in internet si digita “camera dei deputati michele rallo” seguito dal numero di una di quelle interrogazioni, si può apprendere che l’iter dell’atto ispettivo è “in corso”.

Della trasferta londinese di Fini, intanto, si parlava già sulla stampa. Il “Corriere della Sera” del 21 gennaio 1995 titolava: «Fini a Londra: polemica sul Times, colazione alla Rotschild». Nel contesto si riferiva di una “colazione di lavoro” che la Banca Rotschild avrebbe organizzato «per sentire cosa propone Fini», riportando anche una premonitrice voce di corridoio: «arriverà fascista e partirà conservatore».

Ma il leader di AN non aspettava di ripartire da Londra per vestire i panni del conservatore e, appena messo piede sul suolo britannico, così rispondeva a chi gli chiedeva un giudizio sul Duce: «Mussolini è già stato condannato dalla Storia. Non ho bisogno di condannarlo io». Lo riferiva il “Corriere della Sera” del 16 febbraio. Non era ancòra l’invettiva contro «il male assoluto» pronunciata qualche anno dopo in Israele, ma era un buon inizio.

La trasferta londinese, tuttavia, non era incentrata su disquisizioni di carattere storico, ma su argomenti assai più concreti. Gli interlocutori di Fini – tra i quali primeggiavano banchieri ed operatori di borsa – sembravano preoccuparsi soprattutto delle posizioni che la Destra italiana aveva sui temi di natura economica: AN era un partito liberista o statalista? Era a favore o contro lo Stato sociale? Era a favore o contro la moneta unica europea? «E più e più volte: – cito sempre dal Corrierone – siete a favore delle privatizzazioni?» Gianfranco Fini – riferiva l’inviata Lucia Annunziata – «ha fatto di tutto per rispondere», spesso cedendo la parola al professor Pietro Armani, suo “consigliere economico” nuovo di zecca e con alle spalle una lunga permanenza alla Vicepresidenza dell’IRI (anche durante la gestione Prodi). Il messaggio, comunque, era chiaro: «Il presidente di AN parla a favore delle privatizzazioni… – riferiva “Repubblica” del 15 febbraio – che la City e Banca Rotschild ascoltino…»

Certo che, in quel contesto, le irriverenti interrogazioni sull’affare del “Britannia” dovessero «disturbare».

 

 

 

I MIEI ATTRITI

CON ALLEANZA NAZIONALE

Il sottoscritto, intanto, cercava di apprendere i primi rudimenti della politica praticata ad alti livelli. Venivo da una solida esperienza maturata negli organismi di partito e nelle aule del Consiglio Comunale trapanese, ma i misteri dei palazzi romani erano ben altra cosa. Alcuni particolari mi sfuggivano, non ricollegavo perfettamente fatti ed antefatti, non mi riusciva di posizionare correttamente tutte le tessere del mosaico, dei mosaici che confusamente andavano componendosi.

Anche la mia personale vicenda politica era tutta un rebus. L’unica cosa certa era che il mio fin’allora amichevole rapporto con Fini era precipitato. Non credo per quelle interrogazioni. O forse si?

Fatto sta che, quando l’on. Antonio Parlato, durante il Congresso di Fiuggi (gennaio 1995) sottoponeva a Gianfranco Fini l’elenco dei deputati del “gruppo Sud” da inserire nel Comitato Centrale della nascente Alleanza Nazionale, il mio nominativo veniva cassato personalmente dal Presidente. «Non mi spiego perché…», mi disse allora don Antonio. Non me lo spiegavo neanch’io.

E non finiva lì. Perché, da allora in poi, mi trovavo a subire una serie continua di iniziative non proprio amichevoli da parte del vertice del mio partito: il veto opposto al nominativo che avevo proposto come mio successore alla Segreteria provinciale di AN (si trattava di Nicola Tardia); il successivo commissariamento della Federazione di Trapani, e ciò malgrado i positivi risultati elettorali ed il trend in costante crescita; e, da ultimo, il tentativo di non ricandidarmi alle elezioni nazionali del 1996: tentativo andato a vuoto solamente per la solidarietà di Forza Italia e, personalmente, del senatore Antonio D’Alì. Allora – ricordo – io e i miei amici imputammo quei fatti all’antagonismo che, tradizionalmente, caratterizzava i rapporti “interni” tra la Federazione di Trapani ed il Coordinamento regionale di Palermo. Ma, probabilmente, le cause erano altre.

In ogni caso – voglio precisare – non ho elementi tangibili per asserire che, all’origine degli attriti fra me e il vertice dell’ex mio partito, vi fossero le interrogazioni sul “Britannia”. Ma non ho certamente elementi per asserire il contrario.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

APPENDICI

 

 

LA PRIVATIZZAZIONE

DELL’INDUSTRIA ALIMENTARE

ITALIANA

 

 

”PRODI E DE BENEDETTI:  ATTENTI A QUEI DUE”

UN ARTICOLO DI MICHELE RALLO

PUBBLICATO SU “LA RISACCA” DEL GIUGNO 2012

 

C’era una volta l’IRI, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale voluto nel 1933 da Benito Mussolini, poi conservato ed anzi rilanciato e ampliato dai partiti antifascisti nel dopoguerra. Si trattava di un ente pubblico che riuniva varie aziende statali o “partecipate” dallo Stato (un migliaio nel periodo di massima espansione), molte delle quali ai primi posti nelle graduatorie mondiali dei rispettivi segmenti economici: Credito Italiano, Banca Commerciale Italiana, Banco di Roma, Finsider,  Finmeccanica, Fincantieri, RAI, Iritecna, Telecom, Alitalia, Tirrenia, Società Autostrade, Alfa Romeo, Montedison, e così via. All’IRI faceva capo anche la SME, che controllava in tutto o in parte le maggiori società italiane operanti nel comparto alimentare: Star, Cirio, Pavesi, Bertolli, De Rica, Motta, Alemagna, Italgel, Surgela, Supermercati GS, Autogrill, eccetera.

Naturalmente, saltiamo a piè pari la tematica delle privatizzazioni: il discorso ci porterebbe troppo lontano, ma vorremmo tornare a parlarne in una delle prossime occasioni. E tuttavia, pur tralasciamo la tematica complessiva delle privatizzazioni, non possiamo non prendere le mosse dall’avvenimento che rappresenta un vero e proprio spartiacque nelle recente storia dell’IRI in generale e della SME in particolare: ci riferiamo alla nomina – nel 1982 – di Romano Prodi alla presidenza dell’IRI. Prodi era un noto economista democristiano (ma “aperto a sinistra”), docente universitario come quasi tutti i suoi familiari (la moglie e cinque dei suoi sei fratelli), massimo esponente della Nomisma, la società di consulenza che sarà agli onori delle cronache per avere acquisito varie commesse da parte del Governo italiano e della Commissione europea. Lo spazio tiranno ci impone di tralasciare anche qui tanti fatti importanti e di saltare direttamente al 1985, quando il governo italiano decideva di cedere gli asset dell’industria alimentare (erroneamente giudicati “non strategici”) e il presidente Prodi impostava la trattativa con l’industriale Carlo De Benedetti, editore del quotidiano “Repubblica” e nume tutelare dell’intesa fra PCI e sinistra DC, diventato da pochi mesi un industriale alimentare grazie all’acquisto della Buitoni. Prodi e De Benedetti chiudevano subito un accordo preliminare che prevedeva il passaggio di mano del 64,36% del capitale della SME dietro un corrispettivo di 437 miliardi di lire (497, considerati gli interessi per la diluizione in 4 rate). Inoltre, al prezzo simbolico di 1 lira, la Buitoni avrebbe acquisito anche la consociata SIDALM (Motta e Alemagna), avente un valore d’avviamento negativo. Il prezzo convenuto equivaleva ad una valutazione di 1.107 lire per ciascuna azione SME, nel momento in cui la loro quotazione in borsa era di 1.275 lire. Quindi, prescindendo da ogni valutazione sull’enorme potenziale dell’industria alimentare italiana, uno sconto in partenza di 168 lire ad azione, più o meno il 13%.

A quel punto, il Presidente del Consiglio del tempo, Bettino Craxi, si rendeva conto che l’Italia stava per svendere un bene prezioso per pochi spiccioli, e si rivolgeva al suo amico Silvio Berlusconi (all’epoca non ancora impegnato in politica) perché mettesse su una “cordata” imprenditoriale in grado di presentare una offerta concorrenziale rispetto a quella del gruppo De Benedetti.

Ma, mentre Berlusconi incominciava a cercare compagni di strada, al consiglio d’amministrazione dell’IRI giungeva già una prima offerta in aumento: 550 miliardi, offerti da uno studio legale milanese a nome di un gruppo rimasto anonimo. Seguiva l’offerta del sodalizio Berlusconi-Barilla-Ferrero, quantificata in 600 miliardi, ed altra offerta di pari importo da parte della Lega delle Cooperative. Ultima offerta, infine, da parte della Cofima per 620 miliardi.

A quel punto, però, il governo riconsiderava l’intera vicenda e decideva di non vendere più, né a De Benedetti né ad altri, né per 437 miliardi né per 620. Bettino Craxi aveva ottenuto il suo scopo – evitare che la SME venisse svenduta al peggiore offerente – e rilanciava sul tavolo della grande politica: conservare la SME al patrimonio nazionale, ed anzi rafforzarla con adeguati investimenti per farne un grande polo agro-alimentare che fungesse da volano per l’agricoltura italiana.

Ancora un volo pindarico, e giungiamo al 1992, quando Craxi veniva travolto dal ciclone “mani pulite” e costretto a farsi da parte. Il progetto di creare un grande polo agro-alimentare aveva fatto, nel frattempo, discreti passi in avanti, ma si scontrava adesso con le nuove parole d’ordine che seguivano alla crisi del comunismo internazionale e, in Italia, alla acquisizione dei postcomunisti alla politica liberista. Queste nuove parole d’ordine erano: globalizzazione dell’economia, fiducia dei mercati, riforme “strutturali” e, naturalmente, privatizzazioni. Fra le prime ad essere destinate alla privatizzazione, ovviamente, erano le industrie alimentari, con conseguenze che – a modesto parere dello scrivente – si sono poi dimostrate catastrofiche per gli interessi nazionali.

C’erano stati, frattanto, alcuni passaggi che avranno una forte incidenza anche sulle privatizzazioni del settore agro-alimentare: nel giugno 1992 l’agenda delle nostre privatizzazioni era stata discussa in un summit fra banchieri inglesi e manager pubblici italiani che si era svolto a bordo dello yacht reale “Britannia” ancorato al porto di Civitavecchia; nel settembre 1992 la lira era stata svalutata del 30%, la qualcosa avrebbe determinato uno sconto di eguale valore su tutti i pacchetti azionari che saranno ceduti negli anni seguenti; nel 1993, infine, Romano Prodi era ritornato alla presidenza dell’IRI, dove rimarrà fino all’anno successivo.

In conclusione, fra il 1993 e il 1996, le aziende del gruppo SME venivano inesorabilmente privatizzate, depauperando l’economia reale della nazione italiana di un patrimonio vastissimo e, soprattutto, ricco di potenzialità enormi. Nonostante ciò, e nonostante i prezzi pagati fossero calcolati in lire che la svalutazione aveva privato di quasi un terzo del loro valore, la vendita di quelle aziende fruttava all’IRI (e quindi allo Stato italiano) qualcosa come 2.044 miliardi di lire. Altro che i 437 miliardi del patron di “Repubblica”!

A conclusione dell’intricata vicenda, comunque, ad essere rinviato a giudizio era il solito Berlusconi, accusato di avere corrotto alcuni magistrati per impedire che De Benedetti realizzasse un buon affare.

Infine, secondo il nostro costume, segnaliamo le fonti da cui abbiamo desunto le notizie che abbiamo citato. Si tratta, al 90%, di fonti assolutamente neutre, come l’esauriente voce di Wikipedia: http://it.wikipedia.org/wiki/ Vicenda_SME. Per chi voglia aggiungere un pizzico di sale all’approfondimento, poi, è sufficiente digitare prodi AND de benedetti su un qualunque motore di ricerca, e se ne leggeranno delle belle…

 

LA PRIVATIZZAZIONE

DEL BANCO DI SICILIA

 

 

 

XIII LEGISLATURA

DELLA REPUBBLICA ITALIANA

INTERROGAZIONE A RISPOSTA SCRITTA 4/26229 presentata da RALLO MICHELE

(ALLEANZA NAZIONALE)

in data 19/10/1999

Al Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica.

Per sapere – premesso che:

– sono state avviate le procedure per la privatizzazione del Mediocredito Centrale SpA, banca che detiene il controllo del 61 per cento del Banco di Sicilia;

– il relativo bando precisa che “l’alienazione verrà effettuata mediante trattativa diretta e/o offerta pubblica di vendita”;

– il medesimo bando di gara precisa inoltre che la privatizzazione del Mediocredito Centrale-Banco di Sicilia dovrebbe contribuire “al rafforzamento patrimoniale ed allo sviluppo imprenditoriale di Mediocredito Centrale”;

– in esito al citato bando, sono pervenute tre offerte: le prime due, da parte del Banco di Roma e di Unicredito per il totale di Mediocredito centrale; la terza, da parte di un gruppo di banche popolari (Popolare di Vicenza, Popolare di Bergamo, Popolare di Bergamo, Popolare di Emilia-Romagna, Cardif) per il 30 per cento di Mediocredito centrale, ponendo sul mercato il restante 70 per cento attraverso una offerta di pubblica vendita aperta all’azionariato degli imprenditori, in particolare siciliani, e degli stessi dipendenti;

– a quattro giorni dalla scadenza per i rilanci sulle offerte, peraltro provocando il rinvio di una settimana del processo di privatizzazione, il ministero del tesoro ha comunicato alle banche interessate, per il tramite degli advisor J.P. Morgan e C.S. First Boston, che “nella cessione del Mediocredito Centrale verranno preferite le soluzioni che offrono maggiori garanzie in termini di stabilità, e pertanto verranno privilegiate le offerte definitive che permettano la dismissione totale del Tesoro nel Mediocredito”;

– tale intervento da parte del Ministero interrogato sembrerebbe prefigurare una pesantissima ingerenza nel processo di privatizzazione, inteso a favorire l’offerta del Banco di Roma ed a mettere fuori gioco quella del raggruppamento delle Popolari, e ciò – prescindendo dall’aspetto etico della vicenda – contravvenendo a quanto previsto dal bando di gara, che indica esplicitamente l’offerta di pubblica vendita tra i sistemi validi per la partecipazione alla gara, ed identifica fra gli scopi della privatizzazione l’obiettivo di pervenire “al rafforzamento patrimoniale ed allo sviluppo imprenditoriale di Mediocredito”;

– non vanno peraltro sottaciute le gravissime implicazioni economiche e sociali che la presa di posizione di codesto Ministero provocherebbe, considerato che il prevalere dell’offerta del Banco di Roma avrebbe come immediata conseguenza la chiusura, in Sicilia e nel Lazio, di decine e decine di sportelli e l’emergere di almeno di 3.000 unità lavorative in esubero;

– altro pesantissimo effetto di una tale scelta sarebbe quello della perdita di una identità autonoma del Mediocredito Centrale, per tacere della totale cancellazione del Banco di Sicilia da una realtà economica quale quella siciliana, peraltro drammatica sotto diversi punti di vista;

– in tutta la complessa vicenda, sembra che un ruolo di primo piano sia stato svolto dal direttore generale del ministero del Tesoro dottor Mario Draghi, responsabile – secondo alcuni – della scelta di non ricorrere a regolari gare per l’individuazione degli advisors chiamati a gestire fasi delicatissime nei processi di privatizzazione, giustificando tale scelta con l’attribuzione a tali figure di un ruolo di semplici collocatori, cosa giudicata da molti non vera.

Se non ritenga che la ricordata scelta in ordine ai criteri di individuazione degli advisors possa essere scaturita nell’incontro che il 2 giugno 1992, in acque territoriali italiane, avvenne a bordo del “Britannia”, yacht di proprietà della regina d’Inghilterra, tra rappresentanti di alcune banche inglesi ed esponenti del mondo finanziario italiano, incontro cui partecipò il dottor Mario Draghi – anche all’epoca direttore generale del ministero del tesoro – come riportato nel corso di una audizione presso la Commissione Bilancio della Camera dei Deputati il 3 marzo 1993;

se non ritenga opportuno, altresì, porre in essere tutte le misure atte a garantire la massima trasparenza nei processi di privatizzazione in genere e, per quanto in particolare attiene a quello in argomento, ad assicurare il rispetto dei termini del relativo bando di gara;

se non intenda operare al fine di evitare che la privatizzazione del Mediocredito centrale Banco di Sicilia possa produrre effetti devastanti sul sistema creditizio nazionale, e siciliano in particolare.

 

 

NOTIZIE SULL’AUTORE

 

 

Michele Rallo è nato a Trapani nel 1946. È entrato giovanissimo in politica, iscrivendosi nel 1963 alla Giovane Italia, l’organizzazione studentesca del MSI. Il suo primo incarico elettivo è del 1967, quando nelle liste del FUAN viene eletto “deputatino” all’Organismo Rappresentativo Universitario.

Da allora ha svolto una intensa attività politica e amministrativa, confortato da un ampio sostegno popolare che si è sostanziato in un crescente consenso elettorale. È stato Consigliere al Comune di Trapani per tre mandati (dal 1980 al 1994) e Deputato al Parlamento Nazionale per due legislature (dal 1994 al 2001).

Ha svolto intensa attività giornalistica sulla stampa locale fin dal 1966, quando comparvero i suoi primi articoli su “Libeccio” e “Tribuna Trapanese”, proseguendo poi fino ad oggi, con l’assidua collaborazione al settimanale “Social” ed al mensile “La Risacca”.

Sulla stampa nazionale, è stato per dieci anni (dal 1968 al 1978) notista di politica estera per il quotidiano missino “Il Secolo d’Italia”, e collaboratore di prestigiose riviste culturali e di approfondimento storico: ultime – in ordine di tempo – il mensile “Storia in Rete” ed il trimestrale spagnolo “Revista de Historia del Fascismo”.

Ha pubblicato numerosi libri di soggetto storico presso l’editrice romana Settimo Sigillo. Dopo l’uscita del suo ultimo volume – “L’Ukraina e il suo fascismo” – in atto lavora ad una ampia ricostruzione della storia diplomatica del 1939.

 

 

 

 

 

 

[1] Il testo di questa interrogazione – benché non strettamente attinente all’argomento – è riportato in appendice.

GIANNI ALEMANNO E LA GIUSTIZIA IMPAZZITA, di Augusto Sinagra

Gianni Alemanno è in carcere dalla sera del 31 dicembre 2024 pur essendosi volontariamente presentato al Comando dei CC di zona. Era in affidamento in prova per la cui fine mancavano solo 4 mesi. Sembra che abbia diverse volte disatteso gli obblighi dell’affidamento in prova (soprattutto gli orari e gli spostamenti fuori dal Comune di Roma che dovevano essere previamente autorizzati).
Questo è vero ma è altrettanto vero che è inaccettabile, ingiusto e forse anche violativo della legge, il fatto che il Tribunale di Sorveglianza di Roma abbia ritenuto di vanificare il lungo periodo di affidamento in prova già maturato da Gianni Alemanno e abbia disposto la sua permanenza in carcere per ben un anno e mezzo per scontare la pena del fumosissimo e mai chiarito reato di “traffico di influenze” (e cioè banali raccomandazioni).
La vicenda disumana che vede vittima Gianni Alemanno stride in modo eclatante con tutta una serie di provvedimenti giudiziari riscontrabili nella quotidianità.
Alemanno è in carcere per le ragioni dette, mentre rapinatori, accoltellatori e autori di reati gravissimi e nefandi vengono rimessi inopinatamente in libertà quando addirittura neppure viene confermato dalla magistratura il fermo di Polizia Giudiziaria operato per la flagranza del reato.
la Corte di cassazione, come si sa, è venuta meno alla sua funzione nomofilattica tanto che la sua giurisprudenza ricorda la “Rinascente”: ci si trova tutto e il contrario di tutto.
La giurisprudenza dei giudici di merito è quella ora descritta.
Parlare di Stato di diritto o di fiducia in una giustizia uguale per tutti (rapportata ovviamente alla diversità dei reati e alle differenti fattispecie concrete), è cosa ormai del tutto impossibile.
Stato di diritto e “giustizia giusta” sono ormai argomenti da talk show. Argomenti da “bau bau” come direbbe e farebbe la nota Augusta Montaruli.
Sul piano propriamente politico si registra l’assordante silenzio in quel di “Fratelli d’Italia” nei confronti di un vecchio compagno (pardon, camerata) di lunghi anni di comune militanza e di condivisione di idealità e di iniziative.
È peggio di un tradimento. E’ volgare opportunismo che non ha nulla a che fare con le idealità e con la politica intesa in senso alto.
E tutto ciò, a parte la disumanità di tale rumorosissimo silenzio.
Solo l'”Unità”, già organo del PCI, ha pubblicato in prima pagina una schietta denuncia della ingiustizia patita da Gianni Alemanno.
Meditate, gente, meditate.
Augusto Sinagra
  • CONTRIBUITE!! AL MOMENTO I VERSAMENTI COPRONO UNA PARTE DELLE SPESE VIVE DI CIRCA € 4.000,00. NE VA DELLA SOPRAVVIVENZA DEL SITO “ITALIA E IL MONDO”. A GIORNI PRESENTEREMO IL BILANCIO AGGIORNATO _GIUSEPPE GERMINARIOll sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate:postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704
    oppure iban IT30D3608105138261529861559
    oppure PayPal.Me/italiaeilmondo
    oppure https://it.tipeee.com/italiaeilmondo/Su PayPal, Tipee, ma anche con il bonifico su PostePay, è possibile disporre eventualmente un pagamento a cadenza periodica, anche di minima entità, a partire da 2 (due) euro (pay pal prende una commissione di 0,52 centesimi)
1 2 3 40