La lotta contro il Diritto _ Con Buffagni, Klitsche de la Grange, Sinagra, Germinario, Semovigo

Il Diritto. Da principio regolatore della civiltà, il diritto si trasforma in una macchina di potere, chi è dentro e chi è fuori. Un capovolgimento radicale che ricorda la critica di Carl Schmitt alla neutralità liberale: il diritto non è più neutrale, ma espressione della volontà del più forte.

Dike, CPI e la crisi della sovranità
Il diritto penale internazionale diventa un’arma geopolitica che rimane intoccabile. È il modello della guerra giuridica (lawfare)

Hegel, Stato e diritto: il tradimento delle istituzioni
Hegel vedeva lo Stato come l’incarnazione dello Spirito, il luogo in cui il diritto trova la sua realizzazione. Ma cosa accade quando lo Stato abdica al proprio ruolo e diventa un mero esecutore di decisioni prese altrove ?

L’UE come spazio di controllo giuridico
L’Unione Europea ha creato un sistema di diritto che vincola gli Stati membri e impone un modello giuridico o è un apparato burocratico autoreferenziale ?

Dike e il tradimento della giustizia – Dalla Grecia classica a oggi, il diritto è sempre stato fondamento della civiltà. Ma cosa accade quando diventa un’arma di guerra?

Lawfare: il nuovo volto del totalitarismo – Dalla CPI ai tribunali europei, il diritto penale internazionale portatore di neutralità ?

L’Unione Europea e il soft power giuridico – Trattati, corti e regolamenti indipendenti ?

Ospiti e relatori

⚖️Teodoro Klitsche de la Grange – autore di : La Lotta contro il Diritto
Roberto Buffagni – saggista e analista politico
⚖️ Augusto Sinagra – giurista e magistrato
Giuseppe Germinario – Analista Geopolitico e direttore di Italia e il Mondo
Cesare Semovigo – regista e documentarista

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Giù la maschera? Dedicato al Presidente_di Giuseppe Germinario

Giù la maschera?

Le recenti sortite di Sergio Mattarella, nostro Presidente della Repubblica, non mi hanno sconvolto, ma un po’ sorpreso sì.

Ai più avveduti è risaputo che il requisito  determinante  che consente la nomina e/o la riconferma del Presidente della Repubblica italiana non è l’adesione alla narrazione irenica e struggente della Unione Europea e nemmeno quello del generale consenso nazionale alla nomina di una figura emblematica dell’unità del paese, come solitamente si preferisce proferire, piuttosto che della Nazione. È imprescindibile, piuttosto,  il suo gradimento in particolare agli Stati Uniti e alla sua leadership, qualsiasi essa sia, meglio sia stata.

Gli apparenti momenti di discontinuità emersi nel recente passato, in primis la nomina di Giorgio Napolitano, non furono casuali. Il nostro, recentemente defunto, fu il primo e più importante esponente del PCI a cedere negli ormai lontani anni ’70 alle attenzioni, alla ospitalità e alle profferte amorose statunitensi, così come rivelate anni dopo, tra i tanti, dal “grande statista” Henry Kissinger.

Il recente conseguimento della laurea “honoris causa” conferita al nostro Presidente in carica dall’università di Marsiglia potrebbe rappresentare solo  un mero cedimento un po’ superficiale  al narcisismo e alla vanagloria della figura politica più emblematica di una nazione; cedimento  che ha purtroppo colpito già un numero impressionante, nell’ordine delle centinaia, di personaggi in vista e del sottobosco politico italiani adornati di onorificenze, in particolare della Legion d’Onore, del tutto a costo zero da parte di un paese, la Francia, il quale, assieme alla più discreta ma non meno velenosa Germania, nell’ultimo trentennio ha ripetutamente stilettato e pugnalato il proprio “cugino” subalpino, dalla schiena volutamente scoperta.

La guerra contro la Serbia, il massacro indegno di Gheddafi in Libia, la fortunatamente fallita in extremis pretesa territoriale nei mari Ligure e Tirreno, grazie ad un ripensamento dell’ultimo minuto del solo Parlamento Italiano,  sono stati gli episodi più evidenti di un saccheggio perpetrato ai nostri danni sotto la direzione e la mano anglo-statunitense.

Le esternazioni che hanno accompagnato e seguito quel conferimento, per la verità abbastanza in linea con altre precedenti, certamente più animose,  soprattutto inopportune e fuori luogo nel nuovo contesto geopolitico che si va determinando, rappresentano, però, un salto di qualità verso un mondo iperuranico di un personale politico storicamente e stoicamente predisposto a darsi la zappa, se non su organi più sensibili, sui piedi propri, e sin qui si rientrerebbe nelle scelte masochistiche, ma personali, e purtroppo del paese e della nazione che si rappresenta. Per così dire “cornuti e mazziati”.

In cosa potrebbe consistere questo salto? Esattamente nel passaggio surrettizio, probabilmente involontario, sto adottando il principio di precauzione,  della profferta di fedeltà da  uno stato “amico” straniero ad una fazione politica di esso, la peggiore.

Un salto che in verità potrebbe essere un disvelamento di una predisposizione atavica celata dalla coincidenza ed adesione simbiotica, sino al 20 gennaio scorso, tra quella leadership ormai decadente e quello Stato americano, così come svelato dal DOGE del tanto vituperato Elon Musk.

Nella mia modestia, vorrei aiutare il nostro Presidente a riconsiderare le sue perentorie affermazioni per evitare che si possa trasformare irrimediabilmente da capo-nazione a capo-fazione.

Non penso possa arrivare ad assumere il ruolo di capo-bastone; non sembra possederne l’indole e le “phisique du role”, mi si scusi il francesismo.

Vado quindi al punto, anche se non del tutto esaustivo, consapevole di colpire la suscettibilità un po’ permalosa del nostro:

  • Il nostro Signor Presidente è a conoscenza degli impegni sulla garanzia di neutralità dell’Ucraina sancita dagli accordi russo-statunitensi negli anni ’90?
  • Il nostro Signor Presidente è a conoscenza del contenuto degli accordi di Minsk e del ruolo di garanti assunto solennemente ed eluso da Francia e Germania?
  • Il nostro Signor Presidente è a conoscenza del trattato di mutuo sostegno, anche militare, sottoscritto da Ucraina e Stati Uniti e antecedente alle proposte ultimative dei russi nell’ottobre 2021?
  • Il nostro Signor Presidente, così sensibile ai temi dei diritti umani e dell’antinazi-fascismo, è a conoscenza delle reali dinamiche del colpo di stato e di mano a piazza Maidan nel 2013/2014, in Ucraina, delle persecuzioni e degli eccidi delle popolazioni russe e russofone presenti massivamente in Ucraina, come per altro in diversi paesi confinanti, appartenenti alla ex-URSS, della messa fuori legge della maggior parte dei partiti di quel “democratico” disgraziato paese, delle intenzioni dichiaratamente aggressive manifestate verso la Russia?
  • Il nostro signor Presidente è a conoscenza degli antecedenti storici del patto Molotov-Ribbentrop e dell’incongruenza della analogia offerta dal legame adombrato tra la guerra nazifascista e il conflitto ucraino?
  • Il nostro Presidente, da uomo politico, ritengo consumato, è consapevole dell’opportunità delle sue particolari esternazioni e forzature in un contesto e in una prospettiva di ripresa delle relazioni tra Stati Uniti e Russia?

La sua risposta documentata, ragionata ed esauriente a queste domande, pur nella modestia del ruolo dello scrivente, potrebbe offrire la spinta ad assumere il ruolo di mallevadore di una svolta positiva possibile nelle relazioni internazionali, innescato dal nuovo corso inaugurato dall’insediamento della presidenza statunitense. Basterebbe poco per imprimere una svolta decisiva sfruttando almeno per una volta in positivo l’atavica propensione trasformista del nostro ceto politico e della nostra classe dirigente.

La conferma, al contrario, ostinata del vecchio corso lo relegherebbe al ruolo cieco di una mosca cocchiera, fuori tempo massimo, di una causa persa, di una classe dirigente e di un ceto politico in evidente stato di smarrimento e putrefazione.

La scelta è inderogabile; quella di un uomo destinato a conquistarsi un posticino, sia pure di second’ordine, nella storia che conta  oppure in quello tapino e grottesco nei cantucci più reconditi riservati ai paladini tardivi delle cause perse e meno nobili.

Dalla sua, la sfortuna e la commiserazione di risiedere e presiedere in un continente, quello europeo, destinato  ad assumere un ruolo centrale nello scontro politico ferale, tutto interno agli Stati Uniti, rimanendone, per altro, più ostaggio e strumento che protagonista.

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CASO AL-MASRI! MESSAGGIO PER GIORGIA MELONI?AUGUSTO SINAGRA GIUSEPPE GERMINARIO CESARE SEMOVIGO

Giorgia Meloni e il suo governo si trovano in una posizione particolarmente scomoda. Aver messo lo stesso piede in troppe scarpe comporterà il pagamento di un prezzo più pesante in vista di un ipotetico riallineamento ed espone la leader a ritorsioni e condizionamenti contrapposti difficilmente sostenibili. Una condizione che rischia di esporre ulteriormente il paese piuttosto che condurlo ad una posizione e postura più autonoma. Ci sarà sicuramente il tentativo strumentale dell’opposizione demoprogressista di cavalcare il malcontento per una situazione della quale essa stessa è la principale responsabile. Sarà questo il terreno di confronto e di provocazione sul quale misurarsi senza ignorare i problemi sul tappeto e la condizione del paese. Ogni crisi è la condizione ed il pretesto di un profondo riassetto della condizione sociale. L’Italia non ne sarà esente. La pubblicazione avviene, purtroppo, a due settimane dalla registrazione per i problemi ricorrenti di disturbo dell’attività del sito. Mantiene comunque la sua attualità_Giuseppe Germinario

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AVANTI IL PROSSIMO_di Teodoro Klitsche de la Grange

AVANTI IL PROSSIMO

Ha ottenuto una risonanza planetaria il discorso da Monaco di J. D. Vance in cui ha rampognato le classi dirigenti europee. Le reazioni di quella italiana (di centrosinistra) e della stampa mainstream sono state le solite. Chi, riferendosi all’incontro di Vance con i leaders di AFD l’ha ricondotta alla consueta reductio ad hitlerum; i più a una interferenza (ovviamente inammissibile perché non sollecitata da loro); altri al tentativo di far dimenticare analoghi errori della politica USA, e qua siamo al focherello, perché prassi simili sono state poste in essere dalle amministrazioni di Biden ed Obama (salvo altri).

A me preme di notare che in quanto affermato da Vance siano enunciate idee che da millenni, o da secoli fanno parte del pensiero politico realista, quello parafrasando Machiavelli, che prende in considerazione la realtà dei fatti e non l’immaginazione degli stessi.

Due in particolare.

La prima è che l’Europa è in crisi, e che questa è per così dire endogena.

Dice Vance: “L’Europa deve affrontare molte sfide, ma la crisi che questo continente sta affrontando in questo momento, la crisi che credo stiamo affrontando tutti insieme, è una crisi che abbiamo creato noi stessi” Questa è dovuta a “come molti di voi in questa sala sapranno, la Guerra Fredda ha schierato i difensori della democrazia contro forze molto più tiranniche in questo continente. E considerate la parte in quella lotta che censurava i dissidenti, che chiudeva le chiese, che annullava le elezioni. Erano i buoni? Certamente no. E grazie a Dio hanno perso la Guerra Fredda. Hanno perso perché non hanno valorizzato né rispettato tutte le straordinarie benedizioni della libertà. La libertà di sorprendere, di sbagliare, di inventare, di costruire, poiché a quanto pare non si può imporre l’innovazione o la creatività, così come non si può costringere le persone a pensare, a sentire o a credere a qualcosa, e noi crediamo che queste cose siano certamente collegate. E purtroppo, quando guardo all’Europa di oggi, a volte non è così chiaro cosa sia successo ad alcuni dei vincitori della Guerra Fredda”. In altre parole l’Europa decade perché non crede essa stessa nei propri valori. A chiosare quanto affermato dal vice presidente USA, perché ha oscurato le radici giudaico-cristiane, cioè il fondamento della democrazia liberale, in particolare nella “variante” della dottrina del diritto divino provvidenziale. Nei due capisaldi fondamentali: il rispetto per le decisioni e convinzioni della comunità e la tutela dei diritti di ciascuno, comunque quello di manifestazione della libertà del pensiero. Per cui, sempre a leggere Vance, alla luce di Machiavelli, farebbero molto bene i governi europei a “ritornar al principio”, cioè ai fondamenti dell’ordine politico democratico-liberale e non all’(ipocrita) camuffamento del medesimo.

La seconda. Vance ha poi posto un problema di potenza politica. Infatti dice: “Se avete paura dei vostri stessi elettori, non c’è niente che l’America possa fare per voi, né, del resto, c’è niente che voi possiate fare per il popolo americano che ha eletto me e ha eletto il presidente Trump. Avete bisogno di mandati democratici per realizzare qualcosa di valore nei prossimi anni. Non abbiamo imparato nulla dal fatto che mandati deboli producono risultati instabili, ma c’è così tanto valore che può essere realizzato con il tipo di mandato democratico che penso verrà dall’essere più reattivi alle voci dei vostri cittadini.

 

Se volete godere di economie competitive, se volete godere di energia a prezzi accessibili e catene di approvvigionamento sicure, allora avete bisogno di mandati per governare perché dovete fare scelte difficili per godere di tutte queste cose e, ovviamente, lo sappiamo molto bene in America”.

E qua Vance ha posto un tema fondamentale del pensiero politico ossia, a sintetizzarlo al massimo, quello dell’obbedienza (del consenso, della legittimità) e del rapporto con la potenza dell’istituzione politica (o nelle “varianti” dei governanti, delle comunità). È intuitivo che un comando che non ottiene obbedienza non è comando reale; quello che la ottiene, ma soltanto con la coazione, dura poco (è instabile). Quindi l’ideale è che il comando sia sempre corrisposto da un certo grado di obbedienza (anche se non perinde ac cadaver). Meno intuitivo è che un governo, poco confortato dal consenso degli elettori (pour richiamandosi alla democrazia) è un governo debole.

Scriveva Spinoza: “Il diritto dello Stato, infatti, è determinato dalla potenza della massa, che si conduce come se avesse una sola mente. Ma questa unione degli animi non sarebbe in alcun modo concepibile, se lo Stato non avesse appunto soprattutto di mira ciò che la sana ragione insegna essere utile a tutti gli uomini”[1] e che “non è il modo di obbedire, ma l’obbedienza stessa, che fa per il suddito”; ciò, malgrado non ammettesse un dovere d’obbedienza assoluta, Anche se un monarca come Federico II di Prussia enunciava come fattori di potenza e di sicurezza di uno Stato: esercito, tesoro, fortezze, alleanze” (omettendo così il consenso/obbedienza) è sicuro che senza questa, il potere del governante è ridotto ai minimi termini. L’ordine e la coesione sociale e politica che ne consegue – al contrario – facilitano sia l’esecuzione delle obbligazioni, anche internazionali come, del pari, rendono vane – o limitano – la possibilità di speculare dall’esterno sulle rivalità e conflitti tra i governati e soprattutto sui gruppi in cui si dividono. E pluribus unum non è solo il motto degli USA: è il compito e lo scopo di ogni unità politica vitale.

Ma se, al contrario, tale unità degli animi non si realizza, anzi si sviluppano nuove contrapposizioni, a farne le spese è, in primo luogo, la potenza (in senso weberiano) dell’istituzione statale, che vede nullificata o radicalmente ridotta la possibilità che la propria volontà possa essere fatta valere. Il parametro sul quale giudicare la potenza dello Stato è esistenziale e non normativo. La scelta virtuosa, dice Vance, è abbracciare “ciò che il vostro popolo vi dice, anche quando è sorprendente, anche quando non siete d’accordo. E se lo fate, potete affrontare il futuro con certezza e fiducia, sapendo che la nazione è al fianco di ognuno di voi, e questa per me è la grande magia della democrazia… Credere nella democrazia significa capire che ogni cittadino ha la propria saggezza e la propria voce, e se ci rifiutiamo di ascoltare quella voce, anche le nostre battaglie più riuscite otterranno ben poco…. Non dovremmo avere paura del nostro popolo, anche quando esprime opinioni in disaccordo con la propria leadership”. Mentre nelle istituzioni europee a molti “non piace l’idea che qualcuno con un punto di vista alternativo possa esprimere un’opinione diversa o, Dio non voglia, votare in modo diverso o, peggio ancora, vincere un’elezione”.

E in ciò Vance non ha fatto altro che seguire non solo il pensiero politico realistico, ma anche la prassi del diritto internazionale (sia classico che post-vestfaliano) per cui soggetto di diritto internazionale, o comunque interlocutore è chi ha il potere, in una comunità; chi lo aveva, anche se titolare legale, ma non ce l’ha più, lo perde. Chi è in “lista di sbarco” come gran parte della classe dirigente europea, è un interlocutore debole e quindi inutile. Dato che, negli ultimi anni, la gran parte dei paesi dell’U.E. ha visto cambi di governo a favore di sovranisti (lato sensu) e, laddove non è successo, gli stessi sono cresciuti, di guisa che perfino la stabilissima quinta repubblica francese è diventata bastabile, è chiaro che i suddetti governanti non sono ritenuti interlocutori reali. A meno che – quanto meno improbabile – non recuperino il favore popolare. Ma se ciò non avviene non resta che aspettare le elezioni: avanti il prossimo.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Trattato politico, III, Torino 1958.

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LA CROCIERA DEL “BRITANNIA”  _di Michele Rallo

Michele Rallo

LA CROCIERA

DEL “BRITANNIA”

 

I RETROSCENA DELLE PRIVATIZZAZIONI ITALIANE

RICOSTRUITI ATTRAVERSO

QUATTRO INTERROGAZIONI PARLAMENTARI

 

Centro Studi “Dino Grammatico”

Custonaci

 

SOMMARIO

 

 

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Presentazione:

L’affare del “Britannia”,

una vicenda oscura

di Fabrizio Fonte                                                                    05

 

Premessa:

Il caso “Britannia”, le privatizzazioni e

quattro interrogazioni controcorrente

di Aldo Messina                                                                      07

 

Una matricola in Parlamento

e le disavventure de “L’Italia settimanale”                           11

 

Una strana coincidenza:

il ciclone Mani Pulite                                                    13

 

Arrivano i British Invisibles                                                   15

 

Notizie da Pechino:

la privatizzazione della Società Autostrade                          17

 

Privatizzazioni con lo sconto del 30%                        19

 

Beniamino Andreatta,

il maestro di Romano Prodi                                                   21

 

Gli “Invisibili” e le banche americane                         23

 

Interrogazioni (e interrogativi) senza risposta                      26

 

Un altro nome illustre: Guido Carli                                      28

 

L’audizione di Mario Draghi

alla Commissione Bilancio                                           30

 

La folgorante carriera di Sir Drake                                        33

 

Una lettera dell’Ambasciatore inglese                         36

 

Fini, a Londra, sostiene le privatizzazioni                            38

 

I miei attriti con Alleanza Nazionale                                     40

 

 

Appendice: un articolo sulla privatizzazione

dell’industria alimentare italiana                                 45

 

Appendice: una interrogazione

sulla privatizzazione del Banco di Sicilia                             50

 

 

Notizie sull’autore                                                                  53

 

PRESENTAZIONE:

L’AFFARE DEL “BRITANNIA”,

UNA VICENDA OSCURA

 

Il Centro Studi “Dino Grammatico” con la presente pubblicazione intende divulgare le vicende di uno dei periodi più travagliati, quanto poco conosciuti, della storia recente della nostra Patria. Il caso del “Britannia”, raccontato con dovizia di particolari in queste pagine da Michele Rallo, ci da l’esatta idea delle perverse logiche con cui ha preso il via il declino della nostra sovranità nazionale, che oggi purtroppo sembrerebbe aver raggiunto il punto più basso della sua triste parabola.

Dopo aver letto questo lavoro verrà difficile per chiunque pensare che le privatizzazioni di alcuni strategici asset italiani non siano state pilotate dall’alta finanza europea, con la connivenza ovviamente di parte del mondo politico nazionale. Il tutto avvenne a cavallo tra la prima e la seconda Repubblica, ovvero in un periodo storico abbastanza delicato, per il semplice fatto che si registrava la caduta dei partiti tradizionali, che avevano governato l’Italia fin dalla conclusione della seconda guerra mondiale, sotto i colpi delle inchieste della magistratura. È singolare, tuttavia, che molti dei nomi dei protagonisti di quella vicenda siano stati in seguito, o siano ancora oggi, ai vertici delle Istituzioni nazionali ed europee. Tanto per dare l’idea, molto gattopardesca, di quanto sia cambiato tutto per non  essere in realtà cambiato nulla.

Purtroppo l’Italia, dai tempi dell’approdo del “Britannia”, conta sempre meno negli scenari della geo-politica internazionale. Oggi possiamo constatare, infatti, che le logiche europee hanno ormai stabilmente prevalso sugli interessi nazionali. E, come se non bastasse, le attuali politiche economiche di estremo rigore messe in campo dalla Troika stanno condizionando la vita di circa cinquecento milioni di cittadini dell’UE.  Questa Europa, infatti, individua nelle banche e nella finanza le risorse primarie del vecchio continente; quando, invece, la vera costruzione europea non doveva prescindere dalla valorizzazione delle ricchezze di ogni singola Nazione. Del resto non era forse l’Europa dei campanili, dei comuni, delle cento culture e delle mille diversità che nella nostra fervida immaginazione speravamo sorgesse agli inizi degli anni novanta? Purtroppo non si erano fatti i conti con i poteri forti dell’establishment europeo che nel frattempo, mentre il “Britannia” ormeggiava tranquillamente al porto di Civitavecchia, decideva i destini delle privatizzazioni della Nazione italiana.

Il Centro Studi “Dino Grammatico” è pertanto felice di poter essere strumento di conoscenza di uno dei tanti misteri dell’Italia contemporanea. Non possiamo, di conseguenza, non esprimere il nostro più sentito ringraziamento a Michele Rallo per questo suo omaggio al nostro istituto.

 

                                         Fabrizio Fonte

Presidente del Centro Studi Dino Grammatico

 

PREMESSA:

IL CASO “BRITANNIA”, LE PRIVATIZZAZIONI

E QUATTRO INTERROGAZIONI

CONTROCORRENTE

 

 

Quando l’amico e illustre collaboratore Michele Rallo mi ha fatto prendere visione di certe sue interrogazioni parlamentari rimaste senza risposta da parte del Governo, sono stato fortemente incuriosito e lo ho invitato a ricapitolarne la vicenda per i lettori de “La Risacca”. Troppi silenzi hanno fatto seguito a quelle interrogazioni, tanto da richiamare alla mente un vecchio adagio, per cui «chi tace acconsente». È nata così la serie di cinque articoli pubblicati fra il marzo e il settembre scorsi sulla rivista da me diretta e, adesso, la loro riproposizione in forma di opuscolo.

Michele Rallo (già deputato al parlamento nazionale nella XII e nella XIII legislatura) ricostruisce la vicenda sul filo dei ricordi e, in particolare, rivisitando il testo delle quattro interrogazioni da lui presentate nel 1994.

Il tutto ruota attorno ad un convegno che nel giugno 1992 – pochi mesi dopo la nascita dell’Unione Europea – si era svolto a bordo del “Britannia”, lo yacht della Regina d’Inghilterra; convegno che riguardava una auspicata (da chi?) politica di privatizzazione dell’industria pubblica italiana, politica che sarebbe stata poi effettivamente attuata. Al convegno partecipavano esponenti del mondo degli affari britannico e manager pubblici italiani.

Fra tutti, spiccava il nome del dottor Mario Draghi (allora Direttore generale del Tesoro, poi Governatore della Banca d’Italia ed oggi Governatore della BCE), il quale svolgeva una prolusione introduttiva. Null’altro voglio dire sul convegno, rimandando alla diffusa trattazione che si potrà leggere nelle pagine seguenti.

Voglio invece spendere qualche parola sulla contestualizzazione che Michele Rallo opera, collocando l’evento in un quadro assai più ampio, che prende le mosse dalla formazione di una cordata italiana pro-privatizzazioni negli anni ’80 e continua poi attraverso i primi anni ’90, sovrapponendosi ad avvenimenti nazionali e internazionali: la caduta del Muro di Berlino, la stagione di Mani Pulite in Italia, l’elezione di Scalfaro alla Presidenza della Repubblica (in vece di Andreotti) e di Amato alla Presidenza del Consiglio (in vece di Craxi), e tanti altri.

Direi – anzi – che l’aspetto più interessante di questa pubblicazione è una sorta di “ipotesi investigativa” che ne viene fuori: l’ipotesi, cioè, di un progetto politico di vecchia data, tendente alla spoliazione della nostra economia nazionale, i cui effetti perversi si palesano oggi con una epocale crisi politica, economica e sociale.

È una chiave di lettura particolarissima ed intrigante, non priva di un certo alone da “giallo internazionale”. Non è detto che sia esatta al cento per cento, ma è certamente credibile; ed ancor più credibile appare nel contesto della ricostruzione storico-politica che ne traccia l’ex-deputato trapanese, oggi apprezzato commentatore politico.

Un ultimo aspetto vorrei sottolineare. Quello della personale vicenda politica del nostro collaboratore, quale traspare soprattutto nelle pagine iniziali ed in quelle conclusive di questa ricostruzione. È la vicenda di un “uomo politico” (non di un “politicante”) che ha svolto il suo mandato con linearità, anche a costo di entrare in contrasto con il vertice del suo partito e di pagare in prima persona per le sue scelte. Oggi, a distanza di vent’anni, il triste tramonto di certi personaggi – sedotti e poi abbandonati dai poteri forti – dà forse ragione e rende giustizia all’onorevole Michele Rallo.

 

                                                Aldo Messina

Direttore della rivista “La Risacca”



UNA MATRICOLA IN PARLAMENTO

E LE DISAVVENTURE

DE “L’ITALIA SETTIMANALE”

Non ho mai amato la materia economico-finanziaria. I miei interessi culturali hanno sempre privilegiato la storia e la politica. E “politica” – aggiungo – intesa come l’arte di interpretare la storia in atto, la storia del momento presente. Eppure, da quando nel 1994 venni eletto per la prima volta alla Camera dei Deputati, sono stato per certi versi costretto – per adempiere al mio dovere di rappresentanza degli interessi nazionali – a dedicare una attenzione crescente al settore economico-finanziario. Perché – intuivo allora confusamente – nel mondo stava avvenendo qualcosa di strano, quasi una guerra non guerreggiata dell’alta finanza contro le nazioni e i popoli. Soprattutto contro le nazioni e i popoli di quella Unione Europea che era stata creata appena due anni prima – nel 1992 – e che già allora sembrava essere divenuta il bersaglio privilegiato degli assalti della speculazione finanziaria internazionale.

Fui quasi costretto ad occuparmi di tale materia – dicevo – e lo feci con due soli ausìli:  “L’Italia Settimanale”, la rivista di Marcello Veneziani che ogni settimana era una miniera di informazioni preziose; e don Antonio Parlato, un deputato-gentiluomo di grande esperienza e capacità, che in quegli anni tentava di costituire una specie di club di parlamentari di destra che si facessero alfieri degli interessi del Meridione. A quei tempi Internet non era ancora fruibile, e l’unica fonte d’informazione erano i giornali. Da qui, il ruolo fondamentale di pubblicazioni come “L’Italia Settimanale”.

Apro una parentesi: la rivista andava a gonfie vele, ma – per motivi che mi sfuggono – il suo direttore Marcello Veneziani venne defenestrato nel 1995, e poco dopo il pacchetto azionario venne ceduto ad un editore uruguaiano (avete letto bene: uruguaiano) il quale poi fallirà nel giro di pochi mesi. Alcuni (e, fra le righe, lo stesso Veneziani) ritengono che i fatti che andrò a narrare fossero stati all’origine della decisione (di chi?) di far tacere una voce assai scomoda.

Peraltro, anche il sottoscritto – che delle rivelazioni de “L’Italia Settimanale” si fece megafono in Parlamento – ebbe qualche riverbero negativo sulla propria carriera politica. Ma di questo parlerò più avanti.

 

 

 

 

UNA STRANA COINCIDENZA:

IL CICLONE “MANI PULITE”

Dunque, nel febbraio 1993 (durante il primo governo Amato ed a metà circa della breve XI Legislatura) “L’Italia Settimanale” aveva rivelato che alcuni mesi prima – per l’esattezza il 2 giugno 1992, nel pieno del ciclone di Tangentopoli – si era svolto uno strano convegno a bordo del “Britannia”, lo yacht della Regina Elisabetta d’Inghilterra che, per l’occasione, si trovava ancorato nel porto romano di Civitavecchia, dunque in acque territoriali italiane.

Attenzione alle date: la stagione di “Mani pulite” era iniziata nel febbraio precedente, con l’arresto di Mario Chiesa. Le elezioni dell’aprile successivo avevano visto un arretramento dei partiti tradizionali (a beneficio di Rete e Lega Nord) ma, tutto sommato, una pur affannosa tenuta del quadro politico. Eppure – complice anche la coincidenza (?) dell’attentato mortale al giudice Falcone – gli effetti del ciclone giudiziario determinavano la mancata elezione dei due maggiori uomini politici italiani alle cariche apicali dello Stato e del Governo: in maggio Giulio Andreotti doveva rinunziare alla Presidenza della Repubblica in favore di Oscar Luigi Scalfaro; ed un mese più tardi Bettino Craxi dovrà farsi da parte nella corsa alla Presidenza del Consiglio, lasciando campo libero al socialista più amato dai “mercati”, Giuliano Amato. Venivano così eliminati dalla scena politica i due elementi di maggior spessore, due politici di razza che avevano le capacità per comprendere la vastità del sommovimento in atto sulla scena internazionale, dopo la recentissima fine dell’Unione Sovietica e l’inizio della politica americana di egemonizzazione dell’intero globo terraqueo.

Certo, la Magistratura italiana non si era inventata niente: le inchieste sulla classe dirigente della “prima repubblica” erano in buona parte più che fondate. Ma non v’è dubbio che la stagione di Tangentopoli abbia cancellato dalla scena politica del nostro Paese l’unico Presidente del Consiglio che avesse avuto il coraggio (ai tempi della crisi di Sigonella) di contrastare a muso duro il Presidente degli Stati Uniti. E non v’è dubbio, del pari, che Tangentopoli abbia indotto un personaggio del calibro di Giulio Andreotti a ritirarsi sotto la tenda e ad attendere serenamente la conclusione della propria avventura terrena.

 

 

 

 

ARRIVANO I BRITISH INVISIBLES

Chiedo scusa al lettore per la lunga digressione, necessaria – tuttavia – per inquadrare temporalmente il convegno del Britannia. Il 2 giugno 1992, dunque: una settimana dopo l’elezione di Scalfaro alla Presidenza della Repubblica (25 maggio) e tre settimane prima dell’elezione di Giuliano Amato alla Presidenza del Consiglio (28 giugno). E ancòra – se vogliamo inquadrare l’avvenimento in un più vasto contesto internazionale – pochi mesi dopo la fine dell’Unione Sovietica (dicembre 1991) e la firma di quel trattato di Maastricht che aveva segnato la nascita dell’Unione Europea (febbraio 1992). All’epoca – si tenga presente – l’attacco all’economia italiana era già stato sferrato, ma nulla lasciava prevedere i suoi esiti disastrosi. Il governo del tempo (il VII gabinetto Andreotti, ancòra in carica per l’ordinaria amministrazione) aveva posto le premesse per una politica di dismissioni, senza tuttavia imboccare ancòra quella strada, invocata a gran voce dalla speculazione che già pregustava i golosi bocconi made in Italy. Si era, in sostanza, a metà del guado. Nulla era stato ancòra deciso, il vecchio quadro politico sembrava reggere in qualche modo, ed i maggiori partiti italiani (DC, PCI, PSI e MSI) non avevano ancòra accettato il diktat dei “mercati”: globalizzazione economica, fine dello Stato sociale e, appunto, privatizzazioni.

Era a quel punto che dalla speculazione finanziaria giungeva una evidente forzatura. Venivano mandati avanti the British Invisibles, “gli Invisibili Inglesi”, che non erano – contrariamente a quel che potrebbe far pensare il loro nome – una setta più o meno segreta, ma i membri di un rispettabile (si presume) comitato di “banchieri d’affari” e di finanzieri; dei potentissimi businessmen che, ufficialmente ed alla luce del sole, promuovevano nel mondo l’industria dei “servizi finanziari” del Regno Unito. Peraltro, in una singolare commistione di pubblico e privato, gli Invisibili avevano (ed hanno) un rapporto strettissimo con la Casa Regnante inglese. Una delle manifestazioni di questa vicinanza era la gentile concessione (non saprei dire se a titolo gratuito o meno) dello yacht reale “Britannia” per i convegni organizzati dagli uomini della City nei quattro angoli del globo, ovunque ci fosse da far soldi. Da Tokio a Hong-Kong, da Stoccolma a Roma. E appunto a Roma – anzi nella sua sede portuale di Civitavecchia – iniziava, quel 2 giugno 1992, la breve ma intensa crociera che avrebbe visto affaristi anglosassoni e boiardi italiani discutere familiarmente della liquidazione della nostra industria di Stato.

 

 

NOTIZIE DA PECHINO:

LA PRIVATIZZAZIONE

DELLA SOCIETÀ AUTOSTRADE

Quando – in un domani non so quanto lontano – gli storici scriveranno la storia della svendita alla finanza anglosassone della nostra economia nazionale, citeranno certamente tre eventi che sono all’origine di questa drammatica pagina: la legge-delega Amato-Carli che avviava la privatizzazione della Banca d’Italia (30 luglio 1990), il trattato di Maastricht e la nascita dell’Unione Europea (7 febbraio 1992) e, appunto, il convegno del “Britannia” (2 giugno 1992).

Di quest’ultimo evento ho già delineato il contesto politico e diplomatico (oltre che giudiziario) che gli fece da cornice. Adesso scenderò nel dettaglio, dando conto delle partecipazioni più significative, sia da parte inglese che da parte italiana. Per evitare di incorrere in qualche errore od omissione (sono ormai trascorsi vent’anni) sorreggerò la mia memoria con i dati riportati in quattro interrogazioni parlamentari di cui sono stato co-firmatario insieme ai colleghi Parlato (la prima) e Landolfi (le altre tre). Si tratta, per l’esattezza, della n. 4/00234 del 29 aprile 1994 – due settimane dopo l’inizio della XII Legislatura – e delle nn. 4/00778, 4/00779, 4/00780 del 20 maggio del medesimo anno. Tutte rimaste senza risposta da parte del governo del tempo.

La prima interrogazione era per certi versi anomala, perché quasi interamente dedicata ai prodromi di privatizzazione della Società Autostrade. In premessa si affermava che i dirigenti della predetta Società erano stati fra i partecipanti al convegno del “Britannia”, nel corso del quale «fu deciso, oltre al resto, la dismissione delle aziende italiane a partecipazione statale». Si proseguiva con la notizia – rimbalzata addirittura da Pechino – che «le procedure di vendita sono a buon punto per Maccarese e Italstrade, e c’è la conferma della volontà di quotare in borsa, scendendo sotto il 51 per cento, anche le azioni ordinarie della Società Autostrade».

 

 

 

PRIVATIZZAZIONI

CON LO SCONTO DEL 30%

Le altre interrogazioni seguivano a distanza di un mese, ed erano sostanzialmente un unicum suddiviso in tre puntate. È da notare che gli atti ispettivi riguardavano fatti avvenuti durante gestioni governative precedenti (il 7° governo Andreotti, il 1° governo Amato ed il governo Ciampi), ma che comunque il nuovo gabinetto (il 1° governo Berlusconi) non riterrà di fornire risposta alcuna: come se – al di là delle divisioni partitiche – i governi di ogni colore politico fossero tenuti a non ostacolare il disegno di spoliazione dell’economia italiana.

La seconda interrogazione (la prima della terna principale) esordiva citando le rivelazioni contenute nell’articolo de “L’Italia settimanale” del 3 febbraio 1993. Riporto testualmente il brano: «2 giugno 1992: muore il giudice Falcone. Mentre l’Italia si indigna e scende in piazza, qualcun altro dà il via alla svendita dello Stato. Prime vittime “annunciate”, i patrimoni industriali e bancari più prestigiosi. Il nome dell’operazione è “privatizzazione”. Formula magica presentata alla collettività come unica cura per risanare la nostra economia e che, invece, nasconde un business dalle proporzioni incalcolabili, patti di sangue tra le famiglie più influenti del capitalismo, dinastie imprenditoriali, banche e signori della moneta. Accordi e strategie politiche ben precise con un minimo comun denominatore: scippare agli Stati, considerati un inutile retaggio del passato e un odioso freno alla globalizzazione del mercato, la sovranità monetaria.

L’Italia un’espressione geografica delle lobby, dell’impero multinazionale anglo-americano? E quanto viene deciso, anzi, ufficialmente sancito il 2 giugno 1992, a bordo del regio yacht “Britannia” (che si trova “per caso” nelle nostre acque territoriali) dai rappresentanti della BZW (la ditta di brocheraggio della Barclay’s), della Baring & Co, della S.G. Warburg e dai nostri dirigenti dell’ENI, dell’AGIP, da Mario Draghi del ministero del Tesoro, da Riccardo Gallo dell’IRI, Giovanni Bazoli dell’Ambroveneto, Antonio Pedone della Crediop e da alti funzionari della Comit, delle Generali e della Società Autostrade. Lo rivela un documento dell’Executive Intelligence Review.

Poche ore di discussione e l’affare prende corpo. Al Governo il compito di giustificare la filosofia dell’operazione (con una adeguata campagna-stampa di drammatizzazione dei dati del deficit pubblico) …

Anche la svalutazione della lira [avvenuta tre mesi dopo] è stata soltanto un comodo affare per le finanziarie di Wall Street. Calcolato in dollari, l’acquisto delle nostre imprese da privatizzare, è diventato infatti, per gli acquirenti americani, meno costoso del 30 per cento. La stessa lira si va assestando, ormai, sul valore politico di circa 1.000 lire a marco, esattamente come da richiesta (imposizione) internazionale. Ma non bisogna stupirsi. Il disegno di espansione delle grandi finanziarie anglo-americane è noto, e viene da lontano.»

 

 

 

BENIAMINO ANDREATTA,

IL MAESTRO DI ROMANO PRODI

Venivano dunque fatti i primi nomi: su tutti, spiccava quello di Mario Draghi, allora Direttore Generale del Tesoro: l’uomo che avrebbe poi gestito le privatizzazioni italiane. Ma su Draghi avrò modo di tornare: sul suo ruolo, sui suoi collegamenti, sui suoi rapporti con la banca d’affari Goldman & Sachs, sul conflitto con Cossiga (che in diretta tv lo attaccherà con incredibile veemenza), sulla sua sfolgorante carriera fino al seggio più alto della Banca Centrale Europea.

E, tuttavia, un altro nome “pesante” veniva fuori da questa prima interrogazione, che così proseguiva: «se sia noto [al Presidente del Consiglio] quanto ha inoltre pubblicato l’EIR “Executive Intelligence Review” a pagina 30 del numero del 18 marzo scorso, e cioè che tra i partecipanti alla riunione sul panfilo della regina Elisabetta d’Inghilterra vi sarebbe stato anche il senatore Andreatta, poi divenuto ministro del Bilancio [nel 1° governo Amato].»

Un nome – quello del senatore Beniamino Andreatta – di importanza rilevantissima, ed assai significativo. Oltre ad aver ricoperto incarichi ministeriali in una mezza dozzina di esecutivi della “prima repubblica”, si era illustrato, in particolare, per essere stato il ministro del Tesoro che aveva posto le premesse – già nel lontano 1981 – per la privatizzazione della Banca d’Italia; ed aveva anche svolto un ruolo di apripista per la politica di dismissioni generalizzate che sarà messa in atto un decennio dopo.

Ad Andreatta faceva pieno riferimento il “giovane” cinquantenne Romano Prodi, suo allievo prediletto e suo assistente alla cattedra di economia politica dell’Università di Bologna. Nel 1992 l’ex giovane Prodi era già abbastanza cresciuto politicamente, al punto da aver ricoperto un primo lungo mandato alla presidenza dell’IRI (dall’82 all’89). Ma sarà dal 1993 – chiamato una seconda volta all’IRI dal Presidente del consiglio Ciampi – che il beniamino di Beniamino darà il meglio di sé, imponendosi come il protagonista assoluto della stagione di privatizzazioni in Italia.

 

 

GLI “INVISIBILI”

E LE BANCHE AMERICANE

La terza interrogazione (la n. 4/00779 del 20 maggio 1994) alzava il tiro.

Si prendevano le mosse sempre dall’articolo de “L’Italia settimanale” – che a sua volta aveva rilanciato informazioni provenienti dalla “Executive Intelligence Review” – per affrontare il tema delle privatizzazioni nel suo insieme ed in una duplice ottica: quella dell’interesse delle multinazionali e della finanza speculativa, ansiose di mettere le mani sulla corteggiatissima industria pubblica italiana; e quella – contrapposta – della nostra economia nazionale, che da una politica di dismissioni generalizzate sarebbe certamente uscita (come la realtà di oggi inoppugnabilmente dimostra) notevolmente indebolita. Si riteneva, in sostanza, che gli “invisibili” che avevano organizzato e gestito il convegno del “Britannia”, avessero agito anche in nome e per conto dei banchieri di Wall Street, chiamati in causa direttamente dall’articolo del settimanale di Veneziani in uno con i loro colleghi della City londinese:

«La società Mont Pelerin, che per 12 anni ha dominato l’economia inglese, sir Leon Brittan, ex-commissario della CEE e vecchio esponente del governo della Thatcher, il club segreto dei Bilderberg (frequentato dal nostro Agnelli, da Kissinger, da Rothschild), i loro associati newyorkesi della Goldman Sachs, della Merrill Lynch, della Salomon Brothers, i loro sostenitori nel Fondo Monetario Internazionale, nell’OCSE, eccetera. Personaggi, sigle e organizzazioni, che non spuntano a caso, fanno parte della storia. Sono la storia. Ricorrono in tutti gli importanti processi di trasformazione dell’economia mondiale.

Tre di queste finanziarie, ad esempio, sono direttamente “interessate” alle nostre privatizzazioni. Collaborano, infatti, con il governo. Vediamo qualche dettaglio che le riguarda: la Goldman Sachs (la prima di Wall Street, adesso anche con sede “operativa” a Milano) è uno dei più influenti manipolatori del prezzo del petrolio e del valore della moneta. Il suo leader supremo, Robert Ruin, sarà il capo del consiglio di sicurezza nazionale del neo-presidente Clinton.

La Salomon Brothers gestisce il greggio mondiale ed opera prevalentemente nel settore delle materie prime. Il suo nuovo presidente, Warren Buffett, è il principale azionista del “Washigton Post”, della rete televisiva ABC e ha forti interessi nella Wels Fargo Bank e nell’American Express.

La Merrill Lynch, infine, incaricata dall’IRI, il 9 ottobre scorso, di preparare la privatizzazione del Credito Italiano, ha occupato spesso le cronache per alcune operazioni di riciclaggio del denaro sporco tra l’Italia, la costa orientale degli Stati Uniti e Lugano (la famosa “pizza connection”, il processo alla famiglia mafiosa newyorkese dei Bonanno)…»

Attenzione ad alcuni nomi, ad alcune sigle, ad alcune ragioni sociali che in questi anni abbiamo imparato a conoscere, ma che all’epoca – esattamente vent’anni fa – erano quasi del tutto ignoti al pubblico italiano. Veniva chiamato in causa per la prima volta il Bilderberg, allora semisconosciuto club di ricconi ed oggi ritenuto il sancta sanctorum del “governo mondiale”, responsabile delle scelte che decidono il destino di intere nazioni. Si facevano, poi, i nomi di certe grandi “banche d’affari”, alcune delle quali appartenenti al gotha dell’alta finanza ebraica negli Stati Uniti.

Di una di queste, in particolare, la Goldman & Sachs, avremo modo di parlare più avanti, sia per il suo ruolo di advisor nelle privatizzazioni italiane, sia per il rapporto diretto, per il vero e proprio cordone ombelicale che, segnatamente per un certo lasso di tempo, la ha collegata a Mario Draghi, il dominus delle dismissioni made in Italy.

Ritornando all’interrogazione, comunque, questa si chiudeva con l’invito al governo ad attivarsi in tutte le sedi per tutelare gli interessi nazionali, e con una nota polemica anche nei confronti della magistratura romana (competente se non altro per territorio) che non aveva ritenuto di esperire indagini sull’accaduto: «se possa rispondere in tutto od in parte al vero quanto precede, che all’interrogante sembra di inaudita gravità e gravemente lesivo degli interessi economici e produttivi, oltre che sociali ed occupazionali dei cittadini italiani nonché della stessa indipendenza italiana; in presenza di simile squallida “strategia” di colonizzazione dell’Italia da parte delle multinazionali, quali provvedimenti il Governo intenderebbe immediatamente assumere, ove quanto sopra risultasse vero, nei confronti di esponenti e dirigenti ministeriali e di aziende a partecipazione pubblica, perché le loro gravissime responsabilità fossero colpite; se consti che su tali “notizie di reato”, che tali l’interrogante ritiene ben possano definirsi, pubblicate da “L’Italia settimanale”, la magistratura romana abbia aperto indagini.»

 

 

 

INTERROGAZIONI (E INTERROGATIVI)

SENZA RISPOSTA

Naturalmente, neanche questa interrogazione – come tutte le altre della serie – ebbe il bene di una risposta da parte del Presidente del Consiglio, che al tempo era il neo-eletto Silvio Berlusconi.

Esattamente come le medesime interrogazioni – presentate nella legislatura precedente dall’onorevole Antonio Parlato – non avevano ottenuto risposta dai Presidenti del Consiglio di allora, Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi.

Esattamente come – aggiungo ancòra – non ha successivamente avuto risposta una mia interrogazione del 1999 sul ruolo del dottor Mario Draghi – sempre lui! – nella privatizzazione di Medio Credito Centrale e Banco di Sicilia;[1]  l’interrogazione era rivolta al Ministro del Tesoro, che all’epoca (governo D’Alema) era Giuliano Amato.

Guarda caso, tutte le interrogazioni relative alle privatizzazioni – almeno quelle di cui sono stato firmatario o co-firmatario – non hanno avuto la fortuna di ricevere una risposta da parte dei governi in carica, fossero questi di destra o di sinistra, indifferentemente.

Eppure il Governo è tenuto a rispondere agli “atti di sindacato ispettivo” (così tecnicamente si definiscono le interrogazioni parlamentari). Può, in verità, avvalersi della facoltà di non rispondere. Ma, in questo caso, deve obbligatoriamente comunicare le motivazioni della mancata risposta. Cosa che – neanche questa – è stata fatta.

Evidentemente, quelli delle privatizzazioni sono argomenti-tabù. Il buon parlamentare della prima o della seconda repubblica – anche qui non fa differenza – deve limitarsi a prendere lo stipendio e a non fare domande. Come nelle gangster story cinematografiche.

 

UN ALTRO NOME ILLUSTRE:

GUIDO CARLI

La quarta e ultima interrogazione della serie “Britannia” era interamente dedicata a colui che – ad onta della sua posizione defilata – era forse il personaggio centrale della vicenda: quel Mario Draghi che, benché allora poco noto al grande pubblico, poteva a buon diritto essere considerato un’autentica eminenza grigia dell’economia italiana nell’ultimo scorcio della “prima repubblica”. Manager dalle indubbie capacità, Draghi era cresciuto professionalmente in àmbito anglosassone, ricoprendo per un lungo periodo – dal 1984 al 1990 – la carica di Direttore esecutivo della World Bank, la Banca Mondiale.

Per avere un’idea dell’ambiente frequentato da Draghi nel periodo forse più importante per la sua formazione culturale e professionale, basti pensare che, negli anni della sua direzione, presidenti della WB erano stati un dirigente della Bank of America e, in un secondo tempo, un senatore dello Stato di New York. Fra i loro successori – tanto per rendere l’idea del “clima” – vi saranno, fra gli altri, un dirigente della J.P.Morgan ed un top manager della Goldman & Sachs. Al riguardo, i lettori ricorderanno quanto ho già avuto modo di dire nella scorsa puntata su queste banche “d’affari”; sulla G&S, in particolare: la prima ad avere – previdentemente – aperto una sede “operativa” in Italia, e l’unica che successivamente potrà vantarsi di aver avuto sui suoi libri paga il futuro Governatore della Banca Centrale Europea.

Tornando a Draghi, questi – nonostante gli inizi più che promettenti di una luminosa carriera in quel di Wall Street – nel 1990 lasciava l’America e rientrava in Italia, dove però – provvidenzialmente – l’anno seguente era chiamato a ricoprire la carica di Direttore Generale del Ministero del Tesoro. Ministro del tempo era Guido Carli, ex governatore della Banca d’Italia e co-autore con Giuliano Amato – lo ricordavo prima – della legge-delega che ne aveva avviato la privatizzazione. Carli era uno dei pionieri e degli alfieri della politica di privatizzazioni in Italia, ed apparteneva alla medesima cordata del senatore Beniamino Andreatta, l’unico uomo di governo – credo – ad essere stato invitato alla crociera del “Britannia”.

Guido Carli darà anche il via libera a Draghi per partecipare al medesimo incontro, stando almeno a quanto lo stesso Draghi dichiarerà in una successiva audizione alla Commissione Bilancio della Camera dei Deputati («chiesi l’autorizzazione al ministro dell’epoca, che non sollevò alcuna obiezione ed anzi mi invitò a parteciparvi»).

 

 

 

L’AUDIZIONE DI MARIO DRAGHI

ALLA COMMISSIONE BILANCIO

E continuiamo con l’audizione di Draghi, ampiamente citata nell’interrogazione; audizione che – al tempo – era stata contrassegnata dalle puntuali osservazioni dell’ on. Antonio Parlato. Parlato – come detto – era stato il presentatore di quelle stesse interrogazioni nell’XI Legislatura (1992-1994), “passandole” poi a me ed al collega Landolfi nella XII.

Orbene, in quella audizione (svoltasi nel marzo 1993) Mario Draghi aveva cercato di banalizzare la vicenda, dichiarando che si era trattato di uno dei tanti convegni dedicati alle privatizzazioni, e che lui aveva svolto solamente l’introduzione alla conferenza, dopo di che si era allontanato prima che si affrontassero temi specifici.

No, non ci trovava nulla di male, perché «una di queste conferenze – sono parole sue – era prevista sulla nave della regina Elisabetta e quindi del governo inglese, come si sarebbe potuta tenere nella sala di un albergo o in una sala per congressi».

Naturalmente, non lo sfiorava neanche l’idea che, in materia di privatizzazioni, l’Inghilterra potesse avere interessi opposti a quelli dell’Italia: questo non lo diceva, ma una cosa del genere non era neanche presa in considerazione.

Quanto all’ipotesi – riecheggiata da Parlato – che la recente svalutazione della lira (settembre 1992) potesse essere stata provocata per consentire alle multinazionali angloamericane di acquistare le nostre aziende pubbliche con uno sconto del 30%, ciò non appariva credibile al serafico manager.

Così come non gli appariva credibile che alcuni soggetti stranieri avessero potuto condizionare l’andamento della nostra valuta: «Mi riesce altresì difficile comprendere come il tasso di cambio di quella che è la quinta o la sesta potenza industriale del mondo, possa essere influenzato da operatori, tutto sommato individuali, o da tre, quattro, cinque o anche dieci banche d’investimento, su un arco temporale ormai molto lungo.»

Certo, si stenta a credere che il Direttore Generale del Tesoro ignorasse che la ricordata svalutazione del 30% della lira italiana (che peraltro ci aveva causato una perdita valutaria di 48 miliardi di dollari) fosse stata in larghissima misura determinata – a monte – da un singolo speculatore finanziario, l’ebreo-ungherese naturalizzato americano George Soros; il quale nell’occasione avrebbe realizzato un guadagno astronomico, probabilmente pari a 400 miliardi di lire (ma in rete circolano cifre ben maggiori).

D’altro canto, Soros è stato considerato tutt’altro che un nemico dal “partito delle privatizzazioni” italiano. Tanto da essere, incredibilmente, insignito di una laurea honoris causa dall’Università di Bologna; laurea – si dice – conferitagli su input del privatizzatore numero uno della Repubblica Italiana, Romano Prodi, docente di quell’Ateneo.

Ma torniamo all’interrogazione parlamentare: «Considerato che da quanto precede – concludevamo l’onorevole Landolfi ed io – le responsabilità della Gran Bretagna, attraverso sia la disponibilità dello yacht di Sua Maestà la Regina d’Inghilterra, che gli inquietanti incontri che vi furono organizzati e per quanto altro lo stesso Direttore Generale del Tesoro ha dichiarato, appaiono atti chiaramente ostili nei confronti della Nazione italiana, se voglia chiedere le opportune, immediate, esaurienti spiegazioni all’ambasciatore del Regno Unito presso la Repubblica Italiana, giudicando gli interroganti gravissimo l’accaduto ed ancor più preoccupante il seguito che ne è derivato, avuto riguardo alle speculazioni sulla lira ed allo stesso percorso delle “privatizzazioni”.»

Fin qui l’interrogazione.

 

LA FOLGORANTE CARRIERA

DI SIR DRAKE

Mi sembra opportuno, tuttavia, aggiungere alcune righe per ricordare le ulteriori tappe della brillante carriera di Sir Drake (come lo chiama Veneziani). Il nostro manteneva la poltrona di Direttore Generale del Tesoro fino al 2001, attraversando indenne 10 anni di intemperie politiche e 10 diversi governi, di destra e di sinistra.

Dall’anno successivo alla crociera del “Britannia” – e anche qui fino al 2001 – andava ad occupare un’altra ambita ed assai strategica poltrona, quella di Presidente del Comitato Privatizzazioni. In tale veste – apprendo da Wikipedia – «è stato artefice delle più importanti privatizzazioni delle aziende statali italiane». Non da solo, in verità. Durante la sua permanenza alla presidenza del Comitato Privatizzazioni (1993-2001) si avvicendavano diversi Presidenti del Consiglio, diversi Ministri del Tesoro, diversi Ministri dell’Industria, diversi Presidenti dell’IRI. Fra gli altri, Romano Prodi: Presidente dell’IRI (per la seconda volta) dal 1993 al 1994, Presidente del Consiglio dal 1996 al 1998, prima di diventare – nel 1999 – Presidente della Commissione Europea.

Ma torniamo a Draghi. Nel 2001 lasciava la Direzione del Tesoro e il Comitato Privatizzazioni, e nel 2002 approdava leggiadramente in Goldman & Sachs. Non da semplice manager, ma addirittura da Vicepresidente con competenza sull’area europea, oltre che da membro del suo Management Committee Worldwide. Scelta forse poco elegante, considerato che la G&S era stata fra i protagonisti delle dismissioni del patrimonio pubblico italiano: non soltanto era stata advisor (cioè consulente e valutatore) per la privatizzazione di Credito Italiano, Fintecna e probabilmente anche di altre aziende, ma aveva acquistato in prima persona consistenti pezzi del nostro patrimonio nazionale: in particolare, l’intera proprietà immobiliare dell’ENI, che si era aggiunta ad altre importanti acquisizioni immobiliari (provenienti da Fondazione Cariplo, RAS, Toro, eccetera).

Draghi, comunque, restava in Goldman Sachs fino all’ultimo giorno del 2005. Nel 2006, con un altro dei suoi folgoranti rientri in patria, era nominato Governatore della Banca d’Italia. A designarlo era il Presidente del Consiglio del tempo, Silvio Berlusconi, sembra – a giudicare dalla telefonata di cui parlerò – su pressioni di Francesco Cossiga; il quale poi – per motivi che ignoro – si sarebbe pentito amaramente di quel passo.

Ricordo (e ne conservo la registrazione) l’invettiva del vecchio leone in diretta tv, rispondendo ad un trasecolato Luca Giurato che gli aveva chiesto un pare sull’ipotesi di Draghi a Palazzo Chigi: «Un vile, un vile affarista… Non si può nominare Presidente del Consiglio dei Ministri chi è stato socio della Goldman Sachs, grande banca d’affari americana… e male, molto male io feci ad appoggiarne, quasi ad imporne la candidatura [per la Banca d’Italia?] a Silvio Berlusconi… È il liquidatore, dopo la famosa crociera sul “Britannia”, dell’industria pubblica… la svendita dell’industria pubblica italiana quand’era Direttore Generale del Tesoro…»

Chiusa la parentesi Cossiga. Draghi rimaneva alla Banca d’Italia fino al 2011, quando spiccava il grande balzo: Governatore della Banca Centrale Europea.

Carriera folgorante, come si vede. Come parimenti folgoranti sono state le carriere di altri due “Goldman boys”: Mario Monti e Romano Prodi, entrambi consulenti della G&S per diversi anni. Prodi – vorrei sbagliare – ce lo ritroveremo prima o poi alla Presidenza della Repubblica. A meno che, naturalmente, il “Colle più alto” non venga destinato (chissà da chi?) proprio a Mario Draghi.

In ogni caso – sono pronto a scommettere – il successore di Re Giorgio sarà targato Goldman Sachs.

 

UNA LETTERA

DELL’AMBASCIATORE INGLESE

Pochi giorni dopo la presentazione delle ultime interrogazioni, il 31 maggio di quel 1994, l’ambasciatore di Sua Maestà Britannica, Patrick Fairweather, prendeva carta e penna e indirizzava una lunga missiva al senatore Valentino Martelli. Attenzione: Valentino e non Claudio, il noto cardiochirurgo e non il “piumino di cipria” della prima repubblica. Martelli era stato eletto nelle liste di Alleanza Nazionale – secondo quanto si sussurrava nei corridoi di Palazzo Madama – “in quota Cossiga”; anzi – secondo le medesime voci – era “l’uomo di Cossiga in AN”. È possibile, quindi, che i suoi ottimi rapporti con l’ambasciatore Fairweather avessero una matrice cossighiana; ma è anche possibile che fossero dovuti al fatto che lo stesso Martelli avesse a lungo soggiornato ed operato a Londra. Sia come sia, questo era il testo della lettera dell’ambasciatore:

«Caro senatore Martelli, fin dal nostro interessante colloquio del mese scorso, mi sono reso conto che all’interno di Alleanza Nazionale continuano le preoccupazioni circa un seminario sulle privatizzazioni che si è svolto nel giugno 1992 a bordo dello Yacht Reale “Britannia”. Sono consapevole che due interrogazioni parlamentari presentate da due suoi colleghi di partito alla Camera, Landolfi e Rallo, richiedono un chiarimento da parte mia. La partecipazione a questo seminario sulle privatizzazioni era intesa (…) come un’occasione per banchieri ed altri esperti inglesi di spiegare le diverse tecniche che potrebbero essere usate quando e se fosse stata presa la decisione di privatizzare l’industria pubblica italiana. Il seminario era stato organizzato dai “British Invisibles” (Invisibili Inglesi), un’associazione di banchieri e specialisti finanziari londinesi, e dal personale di questa Ambasciata. (…) Hanno partecipato circa 90 fra dirigenti e manager dell’industria italiana, principalmente ma non esclusivamente dall’area delle partecipazioni statali. Il seminario è stato presentato dal professor Mario Draghi, Direttore Generale del Tesoro, che tenne a precisare che a quella data nessuna decisione era stata presa sulla concessione di contratti di consulenza a soggetti inglesi o ad altre banche o istituti finanziari. A far tempo da quella data, alcune ma non tutte le banche i cui rappresentanti parteciparono a quel seminario, hanno avuto qui dei contratti di consulenza o di altro tipo di valutazione. Continua l’intenso interesse italiano per l’esperienza britannica in questo settore, ed io e il mio personale facciamo del nostro meglio per soddisfarlo. Ma il suggerire che la partecipazione ad un seminario su un tema d’attualità in una prestigiosa locazione possa aver avuto un motivo più sinistro che il desiderio di promuovere – del tutto legittimamente – la competenza britannica in questo settore, è completamente infondato. Naturalmente, sarò lieto per qualunque azione Lei possa fare per evitare che queste storie sensazionali e senza basi sul seminario del Britannia possano guadagnare credito fra i Suoi colleghi. Spero che, a tal fine, vorrà far circolare copie di questa lettera.»

Fin qui la lettera, che chiaramente mirava a minimizzare quanto avvenuto. Peraltro, era certamente inconsueto che alcune interrogazioni parlamentari – evidentemente “scomode” al punto da non ricevere le dovute risposte del Governo – avessero invece un riscontro da parte dell’ambasciatore di uno Stato straniero.

 

 

 

FINI, A LONDRA,

SOSTIENE LE PRIVATIZZAZIONI

Qualche tempo appresso, comunque, il senatore Martelli si rifaceva vivo con una telefonata. Mi comunicava che Gianfranco Fini avrebbe prossimamente compiuto una non meglio specificata “visita” a Londra, aggiungendo che, in tale occasione, le famose interrogazioni avrebbero potuto “disturbare”. Non ricordo – a distanza di vent’anni – se aggiungesse altro. Ricordo soltanto di aver risposto che restavo in attesa di conoscere la risposta del Governo per decidere se dichiararmi soddisfatto o meno. Il Governo – come già detto – non rispose mai. Ancora oggi, se in internet si digita “camera dei deputati michele rallo” seguito dal numero di una di quelle interrogazioni, si può apprendere che l’iter dell’atto ispettivo è “in corso”.

Della trasferta londinese di Fini, intanto, si parlava già sulla stampa. Il “Corriere della Sera” del 21 gennaio 1995 titolava: «Fini a Londra: polemica sul Times, colazione alla Rotschild». Nel contesto si riferiva di una “colazione di lavoro” che la Banca Rotschild avrebbe organizzato «per sentire cosa propone Fini», riportando anche una premonitrice voce di corridoio: «arriverà fascista e partirà conservatore».

Ma il leader di AN non aspettava di ripartire da Londra per vestire i panni del conservatore e, appena messo piede sul suolo britannico, così rispondeva a chi gli chiedeva un giudizio sul Duce: «Mussolini è già stato condannato dalla Storia. Non ho bisogno di condannarlo io». Lo riferiva il “Corriere della Sera” del 16 febbraio. Non era ancòra l’invettiva contro «il male assoluto» pronunciata qualche anno dopo in Israele, ma era un buon inizio.

La trasferta londinese, tuttavia, non era incentrata su disquisizioni di carattere storico, ma su argomenti assai più concreti. Gli interlocutori di Fini – tra i quali primeggiavano banchieri ed operatori di borsa – sembravano preoccuparsi soprattutto delle posizioni che la Destra italiana aveva sui temi di natura economica: AN era un partito liberista o statalista? Era a favore o contro lo Stato sociale? Era a favore o contro la moneta unica europea? «E più e più volte: – cito sempre dal Corrierone – siete a favore delle privatizzazioni?» Gianfranco Fini – riferiva l’inviata Lucia Annunziata – «ha fatto di tutto per rispondere», spesso cedendo la parola al professor Pietro Armani, suo “consigliere economico” nuovo di zecca e con alle spalle una lunga permanenza alla Vicepresidenza dell’IRI (anche durante la gestione Prodi). Il messaggio, comunque, era chiaro: «Il presidente di AN parla a favore delle privatizzazioni… – riferiva “Repubblica” del 15 febbraio – che la City e Banca Rotschild ascoltino…»

Certo che, in quel contesto, le irriverenti interrogazioni sull’affare del “Britannia” dovessero «disturbare».

 

 

 

I MIEI ATTRITI

CON ALLEANZA NAZIONALE

Il sottoscritto, intanto, cercava di apprendere i primi rudimenti della politica praticata ad alti livelli. Venivo da una solida esperienza maturata negli organismi di partito e nelle aule del Consiglio Comunale trapanese, ma i misteri dei palazzi romani erano ben altra cosa. Alcuni particolari mi sfuggivano, non ricollegavo perfettamente fatti ed antefatti, non mi riusciva di posizionare correttamente tutte le tessere del mosaico, dei mosaici che confusamente andavano componendosi.

Anche la mia personale vicenda politica era tutta un rebus. L’unica cosa certa era che il mio fin’allora amichevole rapporto con Fini era precipitato. Non credo per quelle interrogazioni. O forse si?

Fatto sta che, quando l’on. Antonio Parlato, durante il Congresso di Fiuggi (gennaio 1995) sottoponeva a Gianfranco Fini l’elenco dei deputati del “gruppo Sud” da inserire nel Comitato Centrale della nascente Alleanza Nazionale, il mio nominativo veniva cassato personalmente dal Presidente. «Non mi spiego perché…», mi disse allora don Antonio. Non me lo spiegavo neanch’io.

E non finiva lì. Perché, da allora in poi, mi trovavo a subire una serie continua di iniziative non proprio amichevoli da parte del vertice del mio partito: il veto opposto al nominativo che avevo proposto come mio successore alla Segreteria provinciale di AN (si trattava di Nicola Tardia); il successivo commissariamento della Federazione di Trapani, e ciò malgrado i positivi risultati elettorali ed il trend in costante crescita; e, da ultimo, il tentativo di non ricandidarmi alle elezioni nazionali del 1996: tentativo andato a vuoto solamente per la solidarietà di Forza Italia e, personalmente, del senatore Antonio D’Alì. Allora – ricordo – io e i miei amici imputammo quei fatti all’antagonismo che, tradizionalmente, caratterizzava i rapporti “interni” tra la Federazione di Trapani ed il Coordinamento regionale di Palermo. Ma, probabilmente, le cause erano altre.

In ogni caso – voglio precisare – non ho elementi tangibili per asserire che, all’origine degli attriti fra me e il vertice dell’ex mio partito, vi fossero le interrogazioni sul “Britannia”. Ma non ho certamente elementi per asserire il contrario.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

APPENDICI

 

 

LA PRIVATIZZAZIONE

DELL’INDUSTRIA ALIMENTARE

ITALIANA

 

 

”PRODI E DE BENEDETTI:  ATTENTI A QUEI DUE”

UN ARTICOLO DI MICHELE RALLO

PUBBLICATO SU “LA RISACCA” DEL GIUGNO 2012

 

C’era una volta l’IRI, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale voluto nel 1933 da Benito Mussolini, poi conservato ed anzi rilanciato e ampliato dai partiti antifascisti nel dopoguerra. Si trattava di un ente pubblico che riuniva varie aziende statali o “partecipate” dallo Stato (un migliaio nel periodo di massima espansione), molte delle quali ai primi posti nelle graduatorie mondiali dei rispettivi segmenti economici: Credito Italiano, Banca Commerciale Italiana, Banco di Roma, Finsider,  Finmeccanica, Fincantieri, RAI, Iritecna, Telecom, Alitalia, Tirrenia, Società Autostrade, Alfa Romeo, Montedison, e così via. All’IRI faceva capo anche la SME, che controllava in tutto o in parte le maggiori società italiane operanti nel comparto alimentare: Star, Cirio, Pavesi, Bertolli, De Rica, Motta, Alemagna, Italgel, Surgela, Supermercati GS, Autogrill, eccetera.

Naturalmente, saltiamo a piè pari la tematica delle privatizzazioni: il discorso ci porterebbe troppo lontano, ma vorremmo tornare a parlarne in una delle prossime occasioni. E tuttavia, pur tralasciamo la tematica complessiva delle privatizzazioni, non possiamo non prendere le mosse dall’avvenimento che rappresenta un vero e proprio spartiacque nelle recente storia dell’IRI in generale e della SME in particolare: ci riferiamo alla nomina – nel 1982 – di Romano Prodi alla presidenza dell’IRI. Prodi era un noto economista democristiano (ma “aperto a sinistra”), docente universitario come quasi tutti i suoi familiari (la moglie e cinque dei suoi sei fratelli), massimo esponente della Nomisma, la società di consulenza che sarà agli onori delle cronache per avere acquisito varie commesse da parte del Governo italiano e della Commissione europea. Lo spazio tiranno ci impone di tralasciare anche qui tanti fatti importanti e di saltare direttamente al 1985, quando il governo italiano decideva di cedere gli asset dell’industria alimentare (erroneamente giudicati “non strategici”) e il presidente Prodi impostava la trattativa con l’industriale Carlo De Benedetti, editore del quotidiano “Repubblica” e nume tutelare dell’intesa fra PCI e sinistra DC, diventato da pochi mesi un industriale alimentare grazie all’acquisto della Buitoni. Prodi e De Benedetti chiudevano subito un accordo preliminare che prevedeva il passaggio di mano del 64,36% del capitale della SME dietro un corrispettivo di 437 miliardi di lire (497, considerati gli interessi per la diluizione in 4 rate). Inoltre, al prezzo simbolico di 1 lira, la Buitoni avrebbe acquisito anche la consociata SIDALM (Motta e Alemagna), avente un valore d’avviamento negativo. Il prezzo convenuto equivaleva ad una valutazione di 1.107 lire per ciascuna azione SME, nel momento in cui la loro quotazione in borsa era di 1.275 lire. Quindi, prescindendo da ogni valutazione sull’enorme potenziale dell’industria alimentare italiana, uno sconto in partenza di 168 lire ad azione, più o meno il 13%.

A quel punto, il Presidente del Consiglio del tempo, Bettino Craxi, si rendeva conto che l’Italia stava per svendere un bene prezioso per pochi spiccioli, e si rivolgeva al suo amico Silvio Berlusconi (all’epoca non ancora impegnato in politica) perché mettesse su una “cordata” imprenditoriale in grado di presentare una offerta concorrenziale rispetto a quella del gruppo De Benedetti.

Ma, mentre Berlusconi incominciava a cercare compagni di strada, al consiglio d’amministrazione dell’IRI giungeva già una prima offerta in aumento: 550 miliardi, offerti da uno studio legale milanese a nome di un gruppo rimasto anonimo. Seguiva l’offerta del sodalizio Berlusconi-Barilla-Ferrero, quantificata in 600 miliardi, ed altra offerta di pari importo da parte della Lega delle Cooperative. Ultima offerta, infine, da parte della Cofima per 620 miliardi.

A quel punto, però, il governo riconsiderava l’intera vicenda e decideva di non vendere più, né a De Benedetti né ad altri, né per 437 miliardi né per 620. Bettino Craxi aveva ottenuto il suo scopo – evitare che la SME venisse svenduta al peggiore offerente – e rilanciava sul tavolo della grande politica: conservare la SME al patrimonio nazionale, ed anzi rafforzarla con adeguati investimenti per farne un grande polo agro-alimentare che fungesse da volano per l’agricoltura italiana.

Ancora un volo pindarico, e giungiamo al 1992, quando Craxi veniva travolto dal ciclone “mani pulite” e costretto a farsi da parte. Il progetto di creare un grande polo agro-alimentare aveva fatto, nel frattempo, discreti passi in avanti, ma si scontrava adesso con le nuove parole d’ordine che seguivano alla crisi del comunismo internazionale e, in Italia, alla acquisizione dei postcomunisti alla politica liberista. Queste nuove parole d’ordine erano: globalizzazione dell’economia, fiducia dei mercati, riforme “strutturali” e, naturalmente, privatizzazioni. Fra le prime ad essere destinate alla privatizzazione, ovviamente, erano le industrie alimentari, con conseguenze che – a modesto parere dello scrivente – si sono poi dimostrate catastrofiche per gli interessi nazionali.

C’erano stati, frattanto, alcuni passaggi che avranno una forte incidenza anche sulle privatizzazioni del settore agro-alimentare: nel giugno 1992 l’agenda delle nostre privatizzazioni era stata discussa in un summit fra banchieri inglesi e manager pubblici italiani che si era svolto a bordo dello yacht reale “Britannia” ancorato al porto di Civitavecchia; nel settembre 1992 la lira era stata svalutata del 30%, la qualcosa avrebbe determinato uno sconto di eguale valore su tutti i pacchetti azionari che saranno ceduti negli anni seguenti; nel 1993, infine, Romano Prodi era ritornato alla presidenza dell’IRI, dove rimarrà fino all’anno successivo.

In conclusione, fra il 1993 e il 1996, le aziende del gruppo SME venivano inesorabilmente privatizzate, depauperando l’economia reale della nazione italiana di un patrimonio vastissimo e, soprattutto, ricco di potenzialità enormi. Nonostante ciò, e nonostante i prezzi pagati fossero calcolati in lire che la svalutazione aveva privato di quasi un terzo del loro valore, la vendita di quelle aziende fruttava all’IRI (e quindi allo Stato italiano) qualcosa come 2.044 miliardi di lire. Altro che i 437 miliardi del patron di “Repubblica”!

A conclusione dell’intricata vicenda, comunque, ad essere rinviato a giudizio era il solito Berlusconi, accusato di avere corrotto alcuni magistrati per impedire che De Benedetti realizzasse un buon affare.

Infine, secondo il nostro costume, segnaliamo le fonti da cui abbiamo desunto le notizie che abbiamo citato. Si tratta, al 90%, di fonti assolutamente neutre, come l’esauriente voce di Wikipedia: http://it.wikipedia.org/wiki/ Vicenda_SME. Per chi voglia aggiungere un pizzico di sale all’approfondimento, poi, è sufficiente digitare prodi AND de benedetti su un qualunque motore di ricerca, e se ne leggeranno delle belle…

 

LA PRIVATIZZAZIONE

DEL BANCO DI SICILIA

 

 

 

XIII LEGISLATURA

DELLA REPUBBLICA ITALIANA

INTERROGAZIONE A RISPOSTA SCRITTA 4/26229 presentata da RALLO MICHELE

(ALLEANZA NAZIONALE)

in data 19/10/1999

Al Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica.

Per sapere – premesso che:

– sono state avviate le procedure per la privatizzazione del Mediocredito Centrale SpA, banca che detiene il controllo del 61 per cento del Banco di Sicilia;

– il relativo bando precisa che “l’alienazione verrà effettuata mediante trattativa diretta e/o offerta pubblica di vendita”;

– il medesimo bando di gara precisa inoltre che la privatizzazione del Mediocredito Centrale-Banco di Sicilia dovrebbe contribuire “al rafforzamento patrimoniale ed allo sviluppo imprenditoriale di Mediocredito Centrale”;

– in esito al citato bando, sono pervenute tre offerte: le prime due, da parte del Banco di Roma e di Unicredito per il totale di Mediocredito centrale; la terza, da parte di un gruppo di banche popolari (Popolare di Vicenza, Popolare di Bergamo, Popolare di Bergamo, Popolare di Emilia-Romagna, Cardif) per il 30 per cento di Mediocredito centrale, ponendo sul mercato il restante 70 per cento attraverso una offerta di pubblica vendita aperta all’azionariato degli imprenditori, in particolare siciliani, e degli stessi dipendenti;

– a quattro giorni dalla scadenza per i rilanci sulle offerte, peraltro provocando il rinvio di una settimana del processo di privatizzazione, il ministero del tesoro ha comunicato alle banche interessate, per il tramite degli advisor J.P. Morgan e C.S. First Boston, che “nella cessione del Mediocredito Centrale verranno preferite le soluzioni che offrono maggiori garanzie in termini di stabilità, e pertanto verranno privilegiate le offerte definitive che permettano la dismissione totale del Tesoro nel Mediocredito”;

– tale intervento da parte del Ministero interrogato sembrerebbe prefigurare una pesantissima ingerenza nel processo di privatizzazione, inteso a favorire l’offerta del Banco di Roma ed a mettere fuori gioco quella del raggruppamento delle Popolari, e ciò – prescindendo dall’aspetto etico della vicenda – contravvenendo a quanto previsto dal bando di gara, che indica esplicitamente l’offerta di pubblica vendita tra i sistemi validi per la partecipazione alla gara, ed identifica fra gli scopi della privatizzazione l’obiettivo di pervenire “al rafforzamento patrimoniale ed allo sviluppo imprenditoriale di Mediocredito”;

– non vanno peraltro sottaciute le gravissime implicazioni economiche e sociali che la presa di posizione di codesto Ministero provocherebbe, considerato che il prevalere dell’offerta del Banco di Roma avrebbe come immediata conseguenza la chiusura, in Sicilia e nel Lazio, di decine e decine di sportelli e l’emergere di almeno di 3.000 unità lavorative in esubero;

– altro pesantissimo effetto di una tale scelta sarebbe quello della perdita di una identità autonoma del Mediocredito Centrale, per tacere della totale cancellazione del Banco di Sicilia da una realtà economica quale quella siciliana, peraltro drammatica sotto diversi punti di vista;

– in tutta la complessa vicenda, sembra che un ruolo di primo piano sia stato svolto dal direttore generale del ministero del Tesoro dottor Mario Draghi, responsabile – secondo alcuni – della scelta di non ricorrere a regolari gare per l’individuazione degli advisors chiamati a gestire fasi delicatissime nei processi di privatizzazione, giustificando tale scelta con l’attribuzione a tali figure di un ruolo di semplici collocatori, cosa giudicata da molti non vera.

Se non ritenga che la ricordata scelta in ordine ai criteri di individuazione degli advisors possa essere scaturita nell’incontro che il 2 giugno 1992, in acque territoriali italiane, avvenne a bordo del “Britannia”, yacht di proprietà della regina d’Inghilterra, tra rappresentanti di alcune banche inglesi ed esponenti del mondo finanziario italiano, incontro cui partecipò il dottor Mario Draghi – anche all’epoca direttore generale del ministero del tesoro – come riportato nel corso di una audizione presso la Commissione Bilancio della Camera dei Deputati il 3 marzo 1993;

se non ritenga opportuno, altresì, porre in essere tutte le misure atte a garantire la massima trasparenza nei processi di privatizzazione in genere e, per quanto in particolare attiene a quello in argomento, ad assicurare il rispetto dei termini del relativo bando di gara;

se non intenda operare al fine di evitare che la privatizzazione del Mediocredito centrale Banco di Sicilia possa produrre effetti devastanti sul sistema creditizio nazionale, e siciliano in particolare.

 

 

NOTIZIE SULL’AUTORE

 

 

Michele Rallo è nato a Trapani nel 1946. È entrato giovanissimo in politica, iscrivendosi nel 1963 alla Giovane Italia, l’organizzazione studentesca del MSI. Il suo primo incarico elettivo è del 1967, quando nelle liste del FUAN viene eletto “deputatino” all’Organismo Rappresentativo Universitario.

Da allora ha svolto una intensa attività politica e amministrativa, confortato da un ampio sostegno popolare che si è sostanziato in un crescente consenso elettorale. È stato Consigliere al Comune di Trapani per tre mandati (dal 1980 al 1994) e Deputato al Parlamento Nazionale per due legislature (dal 1994 al 2001).

Ha svolto intensa attività giornalistica sulla stampa locale fin dal 1966, quando comparvero i suoi primi articoli su “Libeccio” e “Tribuna Trapanese”, proseguendo poi fino ad oggi, con l’assidua collaborazione al settimanale “Social” ed al mensile “La Risacca”.

Sulla stampa nazionale, è stato per dieci anni (dal 1968 al 1978) notista di politica estera per il quotidiano missino “Il Secolo d’Italia”, e collaboratore di prestigiose riviste culturali e di approfondimento storico: ultime – in ordine di tempo – il mensile “Storia in Rete” ed il trimestrale spagnolo “Revista de Historia del Fascismo”.

Ha pubblicato numerosi libri di soggetto storico presso l’editrice romana Settimo Sigillo. Dopo l’uscita del suo ultimo volume – “L’Ukraina e il suo fascismo” – in atto lavora ad una ampia ricostruzione della storia diplomatica del 1939.

 

 

 

 

 

 

[1] Il testo di questa interrogazione – benché non strettamente attinente all’argomento – è riportato in appendice.

GIANNI ALEMANNO E LA GIUSTIZIA IMPAZZITA, di Augusto Sinagra

Gianni Alemanno è in carcere dalla sera del 31 dicembre 2024 pur essendosi volontariamente presentato al Comando dei CC di zona. Era in affidamento in prova per la cui fine mancavano solo 4 mesi. Sembra che abbia diverse volte disatteso gli obblighi dell’affidamento in prova (soprattutto gli orari e gli spostamenti fuori dal Comune di Roma che dovevano essere previamente autorizzati).
Questo è vero ma è altrettanto vero che è inaccettabile, ingiusto e forse anche violativo della legge, il fatto che il Tribunale di Sorveglianza di Roma abbia ritenuto di vanificare il lungo periodo di affidamento in prova già maturato da Gianni Alemanno e abbia disposto la sua permanenza in carcere per ben un anno e mezzo per scontare la pena del fumosissimo e mai chiarito reato di “traffico di influenze” (e cioè banali raccomandazioni).
La vicenda disumana che vede vittima Gianni Alemanno stride in modo eclatante con tutta una serie di provvedimenti giudiziari riscontrabili nella quotidianità.
Alemanno è in carcere per le ragioni dette, mentre rapinatori, accoltellatori e autori di reati gravissimi e nefandi vengono rimessi inopinatamente in libertà quando addirittura neppure viene confermato dalla magistratura il fermo di Polizia Giudiziaria operato per la flagranza del reato.
la Corte di cassazione, come si sa, è venuta meno alla sua funzione nomofilattica tanto che la sua giurisprudenza ricorda la “Rinascente”: ci si trova tutto e il contrario di tutto.
La giurisprudenza dei giudici di merito è quella ora descritta.
Parlare di Stato di diritto o di fiducia in una giustizia uguale per tutti (rapportata ovviamente alla diversità dei reati e alle differenti fattispecie concrete), è cosa ormai del tutto impossibile.
Stato di diritto e “giustizia giusta” sono ormai argomenti da talk show. Argomenti da “bau bau” come direbbe e farebbe la nota Augusta Montaruli.
Sul piano propriamente politico si registra l’assordante silenzio in quel di “Fratelli d’Italia” nei confronti di un vecchio compagno (pardon, camerata) di lunghi anni di comune militanza e di condivisione di idealità e di iniziative.
È peggio di un tradimento. E’ volgare opportunismo che non ha nulla a che fare con le idealità e con la politica intesa in senso alto.
E tutto ciò, a parte la disumanità di tale rumorosissimo silenzio.
Solo l'”Unità”, già organo del PCI, ha pubblicato in prima pagina una schietta denuncia della ingiustizia patita da Gianni Alemanno.
Meditate, gente, meditate.
Augusto Sinagra
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GIOVANNI SPADOLINI. UN ITALIANO_di Massimo Morigi

      GIOVANNI SPADOLINI. UN ITALIANO

 

L’ARTEFICE DELL’IMMAGINARIA COSTELLAZIONE DELL’ITALIA LAICA, IL SUO CONTRADDITTORIO REALISMO POLITICO NELLA FINE DELL’UTOPIA DELL’ITALIA DELLA RAGIONE E DEL PRI COME PARTITO DELLA DEMOCRAZIA NELLA NUOVA EPOCA DELL’ “IMPÉRIALISME EN FORME” INAUGURATA   DALLA    SECONDA   PRESIDENZA     TRUMP

 

di Massimo Morigi

 

         

 

Ma io, con il cuore cosciente

 

di chi soltanto nella storia ha vita,

potrò mai più con pura passione operare,

se so che la nostra storia è finita?

 

Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci

 

Giovanni Spadolini. Un Italiano 

         Cattedratico, storico, giornalista e, infine, uomo politico che in questa sua ultima dimensione ottenne i massimi risultati venendo eletto nel 1972 senatore nella lista del PRI, nel 1979, dopo la morte di Ugo La Malfa divenendo, carica che ricoprì ininterrottamente fino al 1987,  segretario del Partito Repubblicano Italiano, poi dal 28 giugno 1981 al 30 novembre 1982 ricoprendo il ruolo, incaricato dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini e primo laico nella storia dell’Italia repubblicana, di presidente del Consiglio, divenendo successivamente, dal 1983 al 1987,  ministro della difesa nei due governi Craxi, riuscendo a far raggiungere al PRI nelle elezioni politiche del 1983 il 5,08%, il massimo storico di quel partito e, infine, venendo il 2 luglio del 1987 nominato presidente del Senato, carica che ricoprì fino al 14 aprile del 1994 quando il Parlamento gli preferì Carlo Scognamiglio con una votazione con pesantissimi  punti interrogativi sulla sua correttezza e Spadolini provò una grandissima sofferenza per questo esito opaco, una sofferenza che lo accompagnò fino alla morte che sarebbe avvenuta da lì a poco il 4 agosto 1994, era nato il 21 giugno 1925 (nel frattempo Spadolini nel 1992 aveva mancato la presidenza della Repubblica perché il Parlamento, in seguito all’attentato a Falcone preso dalla frenesia di eleggere in fretta e furia un presidente della Repubblica, gli preferì Oscar Luigi Scalfaro), Giovanni Spadolini, presso il vasto pubblico dei suoi ammiratori del tempo, non solo i c.d. laici e non solo i repubblicani, risultava non solo come un personaggio estremamente simpatico (la sua stessa barocca corpulenza non gli procurava in nessun modo scherno ma anzi ne accresceva la popolarità, si vedano a questo proposito le amichevoli vignette di Forattini che lo ritraevano quasi sempre come un obeso putto nudo e questo concorse a renderlo ancora più simpatico, quasi un barbapapà prestato alla politica) ed affidabile (nessuno mise mai in dubbio, in quell’epoca come l’odierna squassata dagli scandali politici, la sua integrità personale ed anzi il modo come da presidente del Consiglio riuscì a gestire lo scandalo della loggia massonica P2 consacrò giustamente questa sua immagine) ma anche come una specie di genio che era riuscito ad eccellere sia, appunto, come storico che come giornalista (giovanissimo collaboratore de “Il Mondo” di Mario Pannunzio, direttore del Resto del Carlino dal 1955 al 1968 e poi fino al 1972 direttore del Corriere della Sera!). E se oggi presso le giovani generazioni (giovani si fa per dire, qui ci riferisce soprattutto agli appartenenti alla generazione dei Millenians, per quelle che seguono manco parlarne, e da queste parole si può ben capire la vetustà dello scrivente, un baby boomer, per non scendere in ulteriori imbarazzanti dettagli…) il nome di Spadolini non dice praticamente niente, ma questo è dovuto non tanto alla mancanza di spessore del personaggio ma al fatto che oggi e da molto tempo ormai si vive in un eterno presente, è singolare il fatto che, proprio mancanti pochi anni al trentesimo anniversario della sua scomparsa,  anche presso coloro che furono i suoi più stretti collaboratori e coloro che, molto più giovani, afferiscono a quello che può essere definito il cenacolo spadoliniano, la figura intellettuale e professionale di Spadolini fosse stata un po’, anche se soltanto un po’, ridimensionata. Cosa allora in questo ambiente viene anche detto di Spadolini? In pratica, si dice che Spadolini fu un grande storico ma non un grandissimo storico, cioè si afferma che i suoi lavori per quanto estremamente interessanti e dissodanti  per molti versi territori ancora in larga parte incolti, non costituiscono pietre miliari della scienza storica e si continua dicendo che se anche professionalmente come giornalista raggiunse, come s’e visto, le più altre vette, egli non fu assolutamente né un rinnovatore del linguaggio giornalistico  né un grande organizzatore della carta stampata, come per esempio un Eugenio Scalfari o un Indro Montanelli  che arrivarono  alla fine a fondare nuove  testate giornalistiche fortemente influenti sulla pubblica opinione.

          Ovviamente, in quest’opera di piccolo, piccolissimo, ridimensionamento del personaggio, viene salvata, oltre alla figura del cattedratico di grande successo e prestigio (e non potrebbe essere diversamente: «Già nel 1950 Spadolini è incaricato dell’insegnamento di Storia Moderna II alla Facoltà di Scienze Politiche di Firenze  «Cesare Alfieri », primo titolare di quella che diverrà dieci anni più tardi la prima cattedra in Italia di Storia Contemporanea: secondo della terna Gabriele De Rosa, terzo Aldo Garosci. I suoi studi sono anticipatori di originali, successivi filoni di indagine e di ricerca storiografica: i rapporti fra Stato e Chiesa, le vicende dei partiti e dei movimenti politici, la revisione del Risorgimento, la storia di Firenze e della Toscana nel contesto italiano ed europeo. Molte sue opere sono ancora considerate autentici classici della storiografia italiana. In aspettativa per mandato parlamentare, non avrebbe mai lasciato la titolarità della cattedra del «Cesare Alfieri» »: Cosimo Ceccuti, Giovanni Spadolini. Giornalista, storico e uomo delle istituzioni, introduzione di Carlo Azeglio Ciampi, Firenze, Mauro Pagliai, 2014, p. 58, quindi in Cosimo Ceccuti, il più stretto collaboratore di Spadolini, mancanti però più di dieci anni dal trentesimo anniversario della sua scomparsa, si propone l’immagine di un Giovanni Spadolini grande storico) in toto la figura dell’uomo pubblico, del politico, anzi il politico viene innalzato come nessun altro sugli scudi sottolineando, molto opportunamente, oltre alla grande impresa di essere stato il primo laico ad assumere la carica di presidente del Consiglio, il suo successo nel riavvicinare la gente alla politica, oggi come allora totalmente screditata ma il fatto che questo sia stato un successo effimero – hanno buon gioco di sostenere costoro – non è certo imputabile a Spadolini e io su questo sono parzialmente d’accordo ma anche parzialmente in disaccordo. E mi spiego perché ho usato questa circonlocuzione che sa molto di linguaggio moroteo – o di necessità di una seduta psicoanalitica dello scrivente –  ma penso che non solo  presso il lettore sia  d’aiuto a far affiorare i contrastanti e contraddittori odierni sentimenti di una persona, il sottoscritto,  che visse in pieno e con convinzione i fasti spadoliniani   (ricordo  la grande emozione che provai quando nel 1986 con estrema gentilezza – bontà d’animo e disponibilità che apparentemente contraddittoriamente alla esibita consapevolezza del suo valore che sfiorava l’egocentrismo e, soprattutto,  ai suoi terribili scatti umorali, era un tratto distintivo del suo carattere –  Spadolini siglò il frontespizio della mia prima fatica nel campo della letteratura politica, Gloria alla Repubblica Romana. Compendio de «La Repubblica Romana del 1849 di Giovanni Conti», Ravenna, Edizioni Moderna, 1986  e per chi voglia rendersi direttamente conto di quella  che può essere considerata l’ultima pubblicazione palesemente e senza infingimenti retorica generata dal già morente mondo della religione politica mazziniana, può andare all’ URL di Internet Archive  https://archive.org/details/massimo-morigi-gloria-alla-repubblica-romana-compendio-de-la-repubblica-romana-d/mode/2up dove potrà apprezzare la scansione del documento col frontespizio siglato da Giovanni Spadolini) ma anche perché è proprio il lascito storico-culturale spadoliniano che, in ultima istanza, visto oggi ex post, non poteva che lasciare dietro di sé che un cumulo di macerie anche sul piano più prettamente politico.

          Una caratteristica, anzi l’autentica peculiarità distintiva di Spadolini è che, contrariamente ad altri intellettuali che ad un certo punto della loro vita decidono di dedicarsi alla politica, fu che, in un certo senso, tutta la sua precedente attività come cattedratico, storico e giornalista, può considerarsi una preparazione ai ruoli politici che egli avrebbe ricoperto in seguito. Egli non fu, quindi, il classico intellettuale, ma senza una specifica autoformazione riguardo alla vita pubblica, prestato alla politica e che magari sogna di divenire in finale di carriera una sorta di consigliere del Principe, egli,  al contrario, fu un intellettuale che sin dagli inizi volle farsi Principe e che, come intellettuale, inizia sin da subito a forgiare gli strumenti per ottenere questo risultato. E quali sono questi strumenti? Molto semplicemente, il cercare in maniera indefessa e diuturna di costruire attraverso l’attività di cattedratico, di storico e di giornalista la narrazione che, al di là della cultura marxista  e di quella più umile ma altrettanto pervasiva cattolica, in Italia è sempre esistita una cultura alternativa,  che egli definisce come Italia laica o Italia della ragione (vedi i titoli dei suoi più significativi lavori storici al riguardo: Gli uomini che fecero l’Italia, L’Italia della ragione. Lotta politica e cultura nel Novecento, L’Italia dei Laici. Da Giovanni Amendola a Ugo La Malfa (1925-1980) e, infine, Autunno del Risorgimento, libro pervaso da una vena malinconica e dalla sottesa consapevolezza che il Risorgimento ci ha lasciato profondissime e forse insanabili contraddizioni). Ora, il punto è che è vero che mai politicamente gli italiani si sono riconosciuti in blocco nei due predetti filoni ma non era proprio detto, anzi era una totale distorsione cognitiva spadoliniana, che coloro che non erano né “rossi” né “bianchi” potessero – allora come oggi! – essere considerati e quindi impiegati come una compatta falange politico-culturale prendendo come esempio – come fece Spadolini in queste ed altre sue  pubblicazioni ed in moltissimi suoi interventi sulla stampa – gli illustri personaggi del passato che erano stati fuori dall’orbita marxista o da quella confessionale. Invece, proprio questo Spadolini cercò di fare: dagli Uomini che fecero l’Italia, all’Italia della ragione, all’Italia dei laici ed  anche con Autunno del Risorgimento, tutti gli sforzi di Spadolini furono indirizzati alla costruzione di una narrazione politica (non dico ideologia politica, perché l’ideologia comporta il proporre uno schema di società che vada al di là della esaltazione degli eroi che devono porsi alla guida del processo di trasformazione, che poi l’ideologia rapidamente degradi nell’agiografia questo è un altro discorso ed appartiene comunque alla fase successiva della presa del potere quando necessitano ancor più facili schemi propagandistici per manipolare le masse) dove le virtù morali di coloro che non furono né marxisti né cattolici costituiscono il collante della narrazione spadoliniana  e l’esempio da seguire, secondo Spadolini, per la futura Italia.

          E il fatto veramente singolare di tutta questa costruzione – che potremmo definire una costellazione di medaglioni biografici che costituiscono la struttura delle predette pubblicazioni e costellazione e non galassia perché, come tutti sanno, al contrario di altre nomenclature celesti, le costellazioni sono solo una costruzione mentale e fantastica dell’osservatore che nulla di reale ci dicono sulle reali dinamiche dell’Universo – è che Spadolini, da vero, anche se non grandissimo, storico quale egli era, non sorvola affatto sulle caratteristiche culturali e politiche dei personaggi da lui presi in considerazione, da questo punto di vista egli è onestissimo e, a mio giudizio, è un esempio di deontologia applicata al lavoro dello storico, ma pretende che queste differenze non contino o contino poco o nulla  rispetto alla dimensione caratteriale quiritaria, come lui amava definirla, che idealmente accomuna questi personaggi e che avrebbe dovuto costituire, questa dimensione, il tratto morale base per i partecipanti  alla costruzione del futuro soggetto politico né cattolico né marxista. E così culturalmente egli liberale profondamente crociano, con una sorta di autentica devozione per Gobetti, il Gobetti della Rivoluzione liberale ma soprattutto del Risorgimento senza eroi, si trova costretto, in ragione di questo progetto politico, a dovere inserire nella sua teleologia storico-politica personaggi che non sono rivoluzionari anche se solo nel senso gobettiano della rivoluzione  liberale e che talvolta potrebbero essere definiti semplicemente come conservatori della più bell’acqua o che non sono nemmeno liberali, anzi sono consapevolmente e decisamente antiliberali. Come esempio di personaggio giudicato molto correttamente e perspicuamente da Spadolini come antiliberale, valga per tutti Giuseppe Mazzini e a tal proposito riproduciamo qui per intero il suo primo articolo su Mazzini, sul quale in seguito Spadolini  cercherà di svolgere un’operazione palinodica ma, per sua stessa ammissione, molto parziale: «Esiste il “mito di Mazzini”. È il tipico mito italiano, eclettico e confusionario: riassume tutto, concilia tutto, giustifica tutto. In questo senso, Mazzini si è prestato, si presta e si presterà sempre a esser sfruttato da tutti i regimi: liberali, democratici, trasformisti, fascisti, socialisti, comunisti. Ma pochi conoscono la “realtà”, del pensiero e dell’azione mazziniana, ciò che è morto, oggi, e che è vivo di lui. Cosa c’era di caduco nel mazzinianesimo? Quel riflettere gli atteggiamenti più estremi della “Weltanschauung”, massonica, di quella visione della vita che s’era formata nel Settecento e che era tutta intrisa e compenetrata di umanitarismo, di egualitarismo, dei principi della pace, della giustizia, della fratellanza, dell’armonia e del progresso universale.
E cosa c’era di genuino nel Mazzini? Quel dipingere il popolo come “profeta della rivoluzione”, quell’affermare il nesso fra Dio e popolo, quell’insistere su un’impossibile “iniziativa popolare”, quell’illusione, quella fissazione, quella passione “popolaresca”, che mai egli perse nonostante le delusioni del ’48 e le smentite del ’59.
E cosa c’era di retorico? Quell’inseguire il mito della “Terza Roma”, e anzi assegnare alla terza Roma, quale “mente della terra”, “verbo di Dio fra le razze”, centro della religione dell’umanità, il compito di unificare tutte le genti disperse d’Europa e d’America sotto un sol senso comune (quale poi fosse precisamente, nessuno sapeva). E quanto di derivato dalle dottrine straniere o antiche? A chi guardi il volto complesso e composito del mazzinianesimo, non sfuggiranno i sedimenti del gioachimismo, i ricordi e le eresie medievali, i residui della Riforma, le tracce del giansenismo, le influenze di Saint-Simon, le ripercussioni di Lamennais, i riflessi del Quinet o del Vinet, le risonanze del socialismo utopistico: del suo pensiero, ben poco resterà di originale.
Qual è dunque, la ragione dell’attuale e forse immortale vitalità del pensiero di Mazzini? Mazzini è in primo luogo l’unico grande riformatore religioso che l’Italia abbia avuto dopo Savonarola. In quel moto, a carattere essenzialmente politico-diplomatico che fu il Risorgimento, egli portò un lievito, un fermento, un tormento religioso, che danno alla rinascita italiana un significato che non ebbe nessun altro movimento nazionale europeo. In un paese, che non aveva più sentito una profonda istanza di religiosità civile, laica, umanistica dalla Controriforma in là, il pensiero mazziniano rappresentava, con l’affermazione dell’unità fra politica e morale, del nesso fra Stato e Chiesa, del vincolo fra democrazia e religione, l’affermazione solenne della necessità di un rinnovamento delle coscienze, di un’interiore “metanoia” prima ancora d’una riforma delle strutture sociali e politiche. In secondo luogo, Mazzini è il creatore del “mito” operante dell’unità. L’unità, in Italia, non era una realtà geografica, non era un’eredità storica, non era una vocazione nazionale. L’Italia era il paese delle città e dei Comuni; l’Italia era il popolo delle infinite rivoluzioni federali, e nel ’48 ne aveva vissuto l’ultima e più grandiosa; l’Italia era la terra che aveva sempre ondeggiato fra una realtà municipale e una destinazione universale, fra un presente di provincia e una meta di impero; l’Italia era infine la sede del Papato, cioè dell’organismo più universale della storia, e non solo la sede, quanto il cuore, il centro, il fulcro stesso del Pontificato romano. Mazzini riuscì a dare a questo popolo l’illusione dell’unità; riuscì a infondere nelle sue classi dirigenti il sogno, la speranza, il desiderio dell’unità. Il “mito” unitario non era per Mazzini limitato al fatto nazionale. Egli voleva l’unità fra gli italiani, in quanto, fosse a sua volta principio e premessa dell’unità fra popolo e stato, fra Stato e Chiesa, fra cielo e terra. Unità nazionale d’Italia; unità internazionale d’Europa; unità universale del mondo; unico dogma quello del progresso; unica religione quella dello spirito; unica educazione quella del vero; unico Stato quello ispirato alla democrazia e alla giustizia. L’ “unità”: ecco la grande forza di Mazzini. In un paese tendente alla molteplicità, alla diversità, alla discordia, Mazzini gettava questo seme di unità, e lo consacrava col sangue dei martiri. Se oggi si celebra il ’48 come rivoluzione nazionale, lo si deve a lui, non certo ai Principi e ai Granduchi in onore dei quali si organizzano le varie e inutili mostre commemorative. Essendo unitario, Mazzini non poteva essere, non fu mai liberale. È l’ultimo equivoco che bisogna dissipare. La visione del liberalismo moderno era per Mazzini il prodotto complessivo dell’individualismo, dell’utilitarismo e del materialismo: tutto ciò a cui bisognava opporsi nella fondazione della nuova società. Se il liberalismo rappresentava la concezione dei diritti individuali rispetto ai poteri dello Stato, Mazzini vagheggiava una concezione in cui fossero ben stabiliti i doveri “individuali” rispetto ai diritti dello Stato. Se il liberalismo era laicismo, religione della laicità, Mazzini sognava uno “Stato teocratico”, dove “fossero sacerdoti tutti con uffizi diversi”. Se il liberalismo era immanentismo, Mazzini sognava una trascendenza, sia pur diversa da quella cattolica. Se il liberalismo era umanesimo, Mazzini auspicava una rivelazione divina, che si attuasse attraverso i geni “angeli di Dio sulla terra” e il popoli “profeti di Dio in terra”. Se il liberalismo, insomma, era dialettica, dialettica di forze e di idee, di istituti e di uomini, libertà di iniziative e senso di autonomia, capacità dell’autogoverno e vigore di individuale creazione, Mazzini era, invece, per la riduzione a unità delle forze e delle idee, degli istituti e degli uomini, per il controllo delle iniziative e la subordinazione dell’autonomia personale alla nazione e allo stato, per l’educazione impartita dall’alto e secondo uno schema unitario, infine per l’opera sociale, lo sforzo collettivo, l’azione dei molti, l’associazione. Mazzini non fu mai un liberale, perché in fondo non fu mai un “politico”. Egli fu un anticipatore, un apostolo, un profeta: e io non conosco nella storia un apostolo e un profeta che sia mai stato liberale.»: Giovanni Spadolini, Mazzini oggi, in  “Il Messaggero”, 5 agosto 1948 ma anche in Id.,
Autunno del Risorgimento, Firenze, Le Monnier, 1971, pp. 306-308 e nel blog “Termometro politico” all’URL https://forum.termometropolitico.it/231944-giovanni-spadolini-firenze-1925-roma-1994-a-17.html, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20250201085119/https://forum.termometropolitico.it/231944-giovanni-spadolini-firenze-1925-roma-1994-a-17.html.

          Ora, a parte il fatto che ingenuamente, molto ingenuamente, verrebbe da chiedersi come abbia fatto uno storico che pronuncia questi giudizi su Mazzini diventare segretario del Partito repubblicano che, anche se solo a livello di lip service, riteneva – e ancor meno razionalmente proclama tuttora, viste le sue posizioni politiche – Mazzini come una specie di Dio in terra e l’incisore delle tavole della legge per la fuoruscita dell’Italia dal suo stato di minorità che la accompagna sin dalla fine del Risorgimento, si tratta quello appena mostrato di uno scritto giovanile ma su questo giudizio una vera palinodia non verrà mai fatta, e quindi che un uomo valentissimo ma liberale sin nelle midolla come Spadolini sia potuto diventare segretario del PRI si spiega e con la debolezza politica di questo partito che dopo la morte di La Malfa richiedeva una altrettanto grande e rappresentativa figura da mettere al suo posto e alla sempre più declinante crisi della religione politica che formalmente ispirava (ed ispira del tutto superficialmente tuttora) il Partito repubblicano, cioè il mazzinianesimo (e sulla sempre più declinante religione politica del mazzinianesimo cfr. il mio  Massimo Morigi, Lo Stato delle Cose dell’Ultima Religione Politica Italiana: il Mazzinianesimo. Una Riflessione Transpolitica per il suo Legittimo Erede: il Repubblicanesimo Geopolitico. Presentazione di Trent’anni Dopo alla Dialettica Olistico-Espressiva-Strategica-Conflittuale de Arnaldo Guerrini. Note Biografiche, Documenti e Testimonianze per una Storia dell’Antifascismo Democratico Romagnolo, pubblicato in quattro puntate sul presente sito di geopolitica “L’Italia e il Mondo”, sempre sull’ “Italia e il Mondo” in un’unica puntata in data 8 marzo 2023 all’URL http://italiaeilmondo.com/2023/03/08/lo-stato-delle-cose-dellultima-religione-politica-italiana-il-mazzinianesimo-integrale-di-massimo-morigi/, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20230330090857/http://italiaeilmondo.com/2023/03/08/lo-stato-delle-cose-dellultima-religione-politica-italiana-il-mazzinianesimo-integrale-di-massimo-morigi/ e, infine, caricato su Internet Archive agli URL https://archive.org/details/lo-stato-delle-cose-dell-ultima-religione-politica-il-mazzinianesimo-repubblican/page/n39/mode/2up e https://ia801605.us.archive.org/31/items/repubblicanesimo-repubblicanesimo-geopolitico-neomarxismo-monica-vitti/Repubblicanesimo%2C%20Repubblicanesimo%20Geopolitico%2C%20Neomarxismo%2C%20Monica%20Vitti.pdf), in realtà il punto più interessante per il nostro discorso è  quando Spadolini afferma che «Mazzini è il creatore del “mito” operante dell’unità. L’unità in Italia non era una realtà geografica, non era un’eredità storica, non era una vocazione nazionale. L’Italia era il Paese delle città e dei comuni; l’Italia era il popolo delle infinite rivoluzioni federali, e nel ’48 ne aveva vissuto l’ultima e più grandiosa; l’Italia era la terra che aveva sempre ondeggiato fra una realtà municipale e una destinazione universale, fra un presente di provincia e una meta di impero; l’Italia era infine la sede del Papato, cioè dell’organismo più universale della storia, e non solo la sede, quanto il cuore, il centro, il fulcro stesso del pontificato romano. Mazzini riuscì a dare a questo popolo l’illusione dell’unità; riuscì a infondere nelle sue classi dirigenti il sogno, la speranza, il desiderio dell’unità.», dove emerge ben chiara la vera nota di fondo di  tutta la produzione spadoliniana sul Risorgimento, vale a dire la consapevolezza che l’unificazione italiana era stato un processo debolissimo, con scarsa base sociale ed opera quasi esclusivamente di élite. E questa consapevolezza attraversa come un sordo rintocco tutta la costellazione dei personaggi  della narrazione storico-politica spadoliniana, non si rivela solo trattando di Mazzini ma trova anche sorprendenti manifestazioni che espresse come vengono espresse mettono palesemente in crisi, se ben osservate in controluce,  anche la rappresentazione pubblica del disegno politico spadoliniano. Ecco cosa scrive
Spadolini riguardo a Gramsci: «Dal Cinquecento ad oggi[…], il pensiero cattolico ha sempre combattuto, nel machiavellismo, lo spettro dello Stato laico, dello Stato forte, dello Stato sovrano: la logica della teocrazia, che presuppone la perfetta unione fra la politica e la morale, non potrà mai giustificare una rottura che esalta il primo termine nel suo valore assoluto e totale. Molto meno si comprende la opposizione di certi spiriti liberali al pensiero di Machiavelli. Non sarà male ricordare innanzitutto che, alle origini del nostro Risorgimento, Machiavelli fu considerato un maestro di libertà repubblicana: e come tale lo esaltarono i giansenisti della fine del Settecento, come tale lo vide Niccolini,  come tale lo guardarono i neoghibellini del ’48 impegnati a respingere le suggestioni e i fantasmi del ritorno neoguelfo. Lungi dal giudicarlo come un amico dei tiranni, molti dei patrioti dell’Ottocento glorificarono in lui non solo il profeta dell’unità nazionale, quello della chiusa del Principe, ma ancor più l’anticipatore degli ideali repubblicani e democratici brillati nelle pagine dei Discorsi. Non era difficile ribattere, ai detrattori “moderati” del Segretario fiorentino, come Balbo e Cantù, non era difficile ribattere allo stesso Mazzini, sempre pronto ad accettare la logica della teocrazia sia pure al servizio di un altissimo ideale democratico, che la più violenta polemica contro il “machiavellismo” era venuta proprio da un re come Federico II, pronto a sacrificare ogni ideale di libertà alla grandezza e alla potenza dello Stato. […] Ma se Voltaire aveva ispirato la satira del principe prussiano,  se l’illuminismo e il razionalismo si erano opposti alle dottrine politiche di colui che presupponeva la fede nella storia e quindi la coscienza di una lotta implacabile contro la natura ed il male, il suo difensore più efficace Machiavelli lo trovò nel filosofo, che doveva giustificare idealmente tutte le audacie del liberalismo moderno ed essere quindi scambiato per un conservatore: Giorgio Federico Hegel. Pochi ricordano che nel suo scritto giovanile Libertà e fato, che vide la luce postumo nel 1893, Hegel esaltò la tesi del Principe come la concezione più alta e più vera di un’autentica mente politica animata dai più grandi sentimenti. Profondamente consapevole com’era del problema nazionale tedesco, ansioso di promuovere la liberazione del suo popolo dal giogo straniero, Hegel esaltò in Machiavelli l’italiano, il patriota, il cittadino che per primo aveva sentito la necessità di comporre l’Italia  in unità di Stato, affrancandola dalle discordie interne e dalle dominazioni esterne. […] Il dissidio  fra l’essere e il dover essere, fra l’esigenza etica e quella politica, fra la voce dell’utile e quella della coscienza –  dissidio che Machiavelli aveva aperto col suo libro famoso – non apparve neppure a Hegel giovane, che affermò risolutamente  che “uno stato di cose nel quale il veleno e l’assassinio sono diventati armi abituali, non sopporta rimedi miti. Una vita prossima alla corruzione può essere riorganizzata soltanto per mezzo  del procedimento più forte”. […] L’unico fra i recenti pensatori italiani, che abbia avuto  l’esatta percezione della funzione attuale del Machiavellismo, secondo la logica storicistica e dialettica, è stato Antonio Gramsci. Nelle pagine inedite, apparse nel quadro dell’opera postuma einaudiana, sulla concezione machiavellica della politica e della vita, il teorico del comunismo italiano ha identificato il “moderno principe” col partito della classe operaia e ne ha riassunto la missione nella costruzione dello Stato rivoluzionario che risolve il contrasto  fra la tecnica e la teologia, che annulla il dualismo fra i mezzi e i fini. Di fronte al pensiero di Gramsci, di fronte alla polemica dei comunisti, i liberali e i democratici italiani non saranno capaci di rivendicare l’eredità di Machiavelli? Per il solitario pensatore sardo, coerente a tutte le premesse dell’ “umanesimo marxista”, la funzione creatrice e liberatrice che Machiavelli aveva assegnato allo Stato trapassa naturalmente alla “classe”, secondo la stessa logica inesorabile per cui la guerra internazionale ha ceduto il posto a quella civile o il conflitto di nazioni si è spostato sul piano della lotta sociale. In ogni caso, qualunque sia oggi la posizione dei marxisti o dei liberali, lo Stato moderno non sarebbe mai nato senza l’intuizione di Machiavelli. Ma quell’intuizione non avrebbe dato i suoi frutti, se non fosse passata attraverso il vaglio di Hegel. Machiavelli era ancora soltanto un “laico”; Hegel era già un “credente”. Questa è la differenza. Lo stato moderno, nella sua sostanza ultima, non è altro che la “Chiesa” del liberalismo.»: Ivi, pp. 263-268).

          Ora, a parte la  difesa del machiavellismo, aspetto sul quale torneremo fra breve, quello che sorprende è il ragionamento di Spadolini su Gramsci che ci porta ad una prima considerazione 1) che il moderno Principe di Gramsci, il Partito comunista della classe operaia e della classe contadina  che organizza queste masse, viene in linea di principio giudicato nient’affatto con sospetto,  anzi è quasi un modello da imitare, e ciò pone Spadolini ai margini della tradizione politica liberale cui appartiene, per la quale Gramsci e il suo moderno Principe sono sempre stati visti con estrema avversione, come una premessa, in altre parole, del totalitarismo. E sorprende anche che, però, il moderno Principe à la Spadolini non debba organizzare le masse operaie e contadine ma i democratici e i liberali, insomma già da questo si vede la debolezza della narrazione spadoliniana concepita non in funzione dell’organizzazione di  vaste masse elettorali e quindi di una grande mobilitazione interclassista ceti medi più masse operaie e contadine da contrapporre al moderno Principe à la Gramsci che organizza le masse proletarie contadine ed operaie – e che, per quanto riguarda i ceti medi, guarda quasi esclusivamente agli intellettuali in via di proletarizzazione, o sempre a ceti medi non meglio specificati professionalmente ma solo se e in quanto se, come gli intellettuali, in via di rapidissimo declassamento –, che devono costituire il cervello pensante del moderno Principe-Partito comunista ma unicamente per  compiere un’operazione esclusivamente all’insegna  di una politique d’abord e senza alcuna pretesa di egemonia politico-culturale su tutta la società ma  accatastando caoticamente e disorganicamente  in un solo partito quell’Italia minoritaria di ceti intellettuali medio-alti (e come da noi già sottolineato, tutt’altro che omogenea dal punto di vista ideologico) che non si riconosceva né  nella cultura cattolica né in quella comunista; 2) secondo critico aspetto della narrazione politica spadoliniana,  è che a Spadolini non  è affatto estranea la visione realistico-machiavelliana della politica, solo che, ahimè,  questo realismo deve costantemente fare i conti con il suo progetto politico-culturale di costruzione di una costellazione di personaggi e di racconti biografici  tutti diversi fra loro ma uniti non in virtù di una concezione realista della società e della politica, una concezione machiavelliana in altre parole,  ma in ragione del valore morale di questi personaggi. Un valore morale che Spadolini, ricorrendo ad un lemma richiamante emotivamente la Roma antica (e in questo possiamo udire l’ eco del  mito della Roma repubblicana filtrato attraverso Machiavelli), sovente definisce con l’aggettivo di ‘quiritario’, virtù quiritaria che avrebbe dovuto costituire quell’elemento distintivo di quell’ ‘Italia della ragione’  o di quell’ ‘altra Italia’ – termini entrambi carissimi a Spadolini anche se il secondo non era di conio spadoliniano ma che prima di Spadolini era stato impiegato come titolo per un serie di articoli che Ugo La Malfa aveva pubblicato su “Il Mondo” ma che, a sua volta, Ugo La Malfa aveva preso da Piero Gobetti,  uno degli intellettuali che Spadolini ebbe fra i suoi più amati – che non si riconosceva né nella cultura cattolica né in quella marxista e tratto morale ‘quiritario’ come fomento generatore di quel ‘partito della democrazia’, altro termine molto caro a Spadolini, che avrebbe dovuto sorgere sulle basi del mazziniano PRI ben poco mazziniano già a quei tempi e ancor meno partito con possibilità di espansione. E che il realismo politico fosse una delle più vive contraddizioni del pensiero spadoliniano lo vediamo in questo rapido passaggio dove Spadolini ricorda lo storico Federico Chabod: «Munito di tutte le cautele del più agguerrito storicismo, lo Chabod non indulgeva mai alle pregiudiziali deterministiche e si guardava dalle pregiudiziali classificatorie: la sua sensibilità storiografica ripudiava gli schematismi e le astrazioni, respingeva le suggestioni delle “dottrine pure” e delle “pure strutture”, rifiutava il monopolio delle statistiche e dei diagrammi e, pur nell’indagare il giuoco degli interessi, non piegava alle assurde regole della “geopolitica”, non si muoveva sul piano della esclusiva e particolare storia diplomatica (pronto invece a cogliere la vibrazioni degli uomini, le sfumature delle correnti, le reazioni dell’opinione). »:Ivi, pp. 448-449.

          Singolarissimo passaggio che oltre a restituirci una vivida rappresentazione dello storico valdostano,  proprio per il difficoltosamente rattenuto pathos che lo pervade si presta anche ad essere un (molto poco) involontario ritratto di Spadolini stesso,  in realtà un autoritratto dal quale possiamo estrarre due elementi.

          Primo) Lo Spadolini-Chabod,  da vero storicista crociano rifiuta il determinismo marxista o meglio rifiuta il determinismo marxista di scuola marxista-leninista (semmai verrebbe da chiedersi quanto nell’Italia di inizio anni ’70 fosse egemone in seno alla sinistra il marxismo-leninismo mentre nel partito comunista era sicuramente più seguito il marxismo umanistico di Antonio Gramsci tradotto per le  masse del PCI e come instrumentum regni ideologico per i quadri e i dirigenti nella versione geneticamente modificata di Palmiro Togliatti del partito Nuovo e che del moderno Principe gramsciano, in pratica, non sapeva che farsene perché in questo partito Nuovo era solo il momento politico che avrebbe dovuto organizzare le masse e l’apporto degli intellettuali all’organizzazione e direzione del partito Nuovo non era visto alla luce di una continua prassistica dialettica momento intellettuale/momento politico ma solo come subordinazione degli intellettuali alla dirigenza politica – come infatti sempre fu il PCI di Togliatti e dei suoi successori – e abbandonando il partito Nuovo togliattiano ogni velleità egemonica sulla società, una egemonia che, secondo Gramsci,  avrebbe dovuto essere il prodotto politico della dialettica fra momento intellettuale e momento politico che nel partito comunista-moderno Principe avrebbe trovato la sua più alta entelechia ed efficacia perchè volto al coinvolgimento diretto delle   delle masse proletarie e contadine in questa stessa dialettica, in un processo sì egemonico su tutta la società ma egemonico non per l’esito autoritario in senso politico-istituzionale ma perchè realmente trasformatore di tutti i rapporti di classe e reali rapporti di forza fra queste – e in questo empito totalitario di Gramsci, totalitario cioè nel senso di trasformazione totale della società, come non vedere anche dei riflessi del totalitarismo mazziniano, per il quale repubblica significava trasformazione totale della società imponendone un imperativo di miglioramento etico-sociale: certo Gramsci guardava alla lotta di classe, Mazzini invece alla collaborazione di classe ma in entrambi incombe  la presenza, o si registra la presenza se vogliamo usare un verbo meno urticante,   di uno Stato etico mazziniano o di un  moderno Principe gramsciano, se si preferisce, che progetta di rivoltare come un calzino la società in dispregio a tutte le “conquiste” individualiste del liberalismo; inteso, invece, il partito Nuovo togliattiano esclusivamente come il generatore, seppur autoritario,  di una inclusività puramente addizional-matematica e non organica di tutte le classi sociali all’interno del partito, partito Nuovo di Togliatti,  quindi, autoritario ma non  nel senso del   Partito comunista-moderno Principe di Gramsci per il quale la decisione verticistica ed inappellabile era solo giusticata dalla finalità di far scaturire una libera dialettica sociale annientatrice della sottomissione di classe del regime capitalista, ma profondamente connotato da un autoritarismo che rinunciando ad una reale egemonia sulla società, aveva anche abbandonato ogni pretesa alla trasformazione dialettica della stessa  come invece avrebbe fatto il Partito comunista-moderno Principe,  limitandosi il partito Nuovo a dovere tracciare  una linea mediana di sintesi puramente geometrico-calcolatoria fra le varie e divergenti istanze della società; ma su queste sottigliezze preferiva sorvolare Spadolini tutto teso a compattare un fronte liberaldemocratico che, per quanto più a sinistra del partito liberale non poteva certo transigere sulla contrapposizione al comunismo o, meglio, sulla contrapposizione di quello che oramai solo nel nome e nella ingenua rappresentazione dei suoi detrattori e dei suoi militanti poteva essere definito Partito comunista. Un partito Nuovo togliattiano meramente addizionatore matematico delle spinte e controspinte che provengono dalla società   – insomma, una sorta di Democrazia Cristiana più di sinistra e che ha rinunciato ad ogni riferimento identitario alla religione cattolica, in altre parole, l’attuale PD – e non momento fondamentale della loro sintesi dialettica che conduce all’egemonia culturale e politica del partito sulla società e che perciò  è veramente la pallida e svirilita caricatura del partito comunista-moderno Principe di Antonio Gramsci, come cerca di farcelo accettare con debolissimo ragionamento –  in realtà dimostrando di non crederci nemmeno lui – Cino Tortorella:«Così il partito di cui Gramsci traccia l’idea ha un compito altissimo, politicamente e moralmente. Viene di qui una concezione che tende a fare del «moderno Principe» un soggetto che può porsi come assoluto: «Il “moderno Principe”, sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il “moderno Principe” stesso, e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo» (Q. XIII, l). Questa concezione del partito in Gramsci non può dunque essere ridotta e banalizzata – come è stato fatto – quasi che essa costituisse l’imitazione o l’eco di quel che intanto andava accadendo nell’Urss e del ruolo che vi acquistava il partito. Era una concezione che, tuttavia, andava superata; e così è già in Togliatti con l’idea del «partito nuovo», cui si aderisce su base programmatica. Il laicismo moderno e la laicizzazione integrale che Gramsci considerava come finalità essenziale avrà bisogno di un partito comunista che, senza nulla perdere del proprio impegno ideale e morale, sappia considerarsi come un soggetto tra gli altri: capace di battersi per i propri convincimenti e per i propri programmi senza ignorare le ragioni degli altri.»: Cino Tortorella, Partito come moderno principe, da noi citato all’URL dell’ “Associazione Enrico Berlinguer. Per la conservazione e la valorizzazione del patrimonio culturale della sinistra italiana” https://enricoberlinguer.org/home/glossario-gramsciano/64-partito-come-moderno-principe.html,  Wayback Machine:     http://web.archive.org/web/20221205104904/https://enricoberlinguer.org/home/glossario-gramsciano/64-partito-come-moderno-principe.html, messo in Rete dall’Associazione Enrico Berlinger”  senza data ma sicuramente non dopo il  congelamento Wayback Machine avvenuto in data 15 agosto 2022  e articolo a  sua volta originariamente in Aldo Tortorella, Partito come «moderno Principe», in Carlo Ricchini, Eugenio Manca e Luisa Melograni (a cura di), Gramsci. Le idee nel nostro tempo, Roma, Editrice L’Unità, 1987, pagine del collocamento all’interno del documento ugualmente non disponibili).

         Secondo) Spadolini rifiuta sempre, in nome di una visione antideterminista, anche la geopolitica e su questo punto occorre soffermarsi. Oggi si fa un gran parlare e straparlare di geopolitica, la geopolitica serve per condire qualsiasi immangiabile pietanza ed effettivamente da parte dei suoi più beceri turiferari la geopolitica viene tirata in ballo per giustificare immancabilmente e deterministicamente  tutto e il contrario di tutto. Lo si è  ben visto nel corso dell’attuale guerra Nato-Russia, che dai sopraddetti turiferari viene raccontata come una guerra Russia-Ucraina dove la Russia sarebbe l’aggressore e l’Ucraina l’aggredito, mentre in realtà l’Ucraina non fa altro che agire per procura della Nato la quale sin da prima dello scoppio del conflitto, da Euromaidan del 2013 in poi,   aveva sempre  più aumentato la sua pressione sull’Ucraina per renderla nemica della Russia allo scopo di diminuire la profondità strategica di questa in un processo che nei disegni Nato avrebbe dovuto portare ad uno smembramento della stessa Federazione russa  (geopolitica non racconti di fate per masse incolte e credulone, please!), una geopolitica dove i Russi, per questi esimi autoproclamati esperti in questa disciplina, starebbero immancabilmente collassando in ragione del fatto che sarebbero costretti ad andare all’assalto con le pale per poi scoprire che l’apparato bellico russo è superiore come livello di produzione (e come qualità dei sistemi d’arma prodotti e dispiegati) a  quello di tutti i paesi dell’Unione europea messi assieme, una geopolitica che ci diceva che le sanzioni contro la Russia l’avrebbero schiantata in pochi mesi mentre ora la Russia prospera e quella che si sta economicamente schiantando  a causa  delle sanzioni è l’Europa (discorso diverso per gli Stati Uniti, che ha come non mai lucrato per le sanzioni europee contro la Russia in campo energetico: da questo punto di vista, se la Russia ha praticamente vinto il conflitto armato, l’altro vincitore, almeno dal punto di vista economico, sono gli Stati uniti. Ma su questo i nostri grandi geopolitici da talk show nulla dicono. Aspettiamo fiduciosi…) e  una geopolitica che,  nonostante le sue deliranti affermazioni sulle  immense perdite umane inflitte dagli Ucraini ai Russi, non riesce a dare una spiegazione minimamente razionale sul fatto gli ucraini sono costretti ad una sempre più pervasiva mobilitazione,  progettando di  richiamare alle armi anche i diciottenni (già fatto per i malati oncologici ed anche per chi soffre di gravi malattie mentali e deficit cognitivi, tanto per fare la carne da cannone…), delirando di costringere i paesi europei a farsi  consegnare i più o meno patriottici profughi ucraini per spedirli  immantinente al fronte,  in uno sconsiderato, inefficace e criminale  richiamo alle armi anche di coloro precedentemente risparmiati, dove le squadre dei reclutatori girano per strada compiendo rapimenti nello stile della vecchia marina britannica e che per questo rischiano regolarmente di incappare in schioppettate da parte dei reclutandi  mentre in Russia fanno la fila per essere volontariamente arruolati nell’esercito, invogliati da ciò sia dalle alte paghe che vengono corrisposte ai militari ma anche dall’innegabile dato di realtà che per un militare russo questo mestiere non corrisponde al suicidio mentre il contrario si può dire per un militare ucraino. Caposcuola di questa esimia figliata di geopolitici fai da te è un certo personaggio, una sorta di Fantomas (o se si preferisce, di Lex Luthor o anche di Kurtz-Marlon Brando di Apocalypse Now di Coppola) de Noantri,  certamente loquace nel presentare la sua mercanzia sciorinandoci le sue profonde verità geopolitiche ma al, al contrario, afasico e  poco trasparente nel rappresentarci con dovizia di altrettanto illuminanti particolari i suoi quarti di nobiltà accademici, che di per sé non fanno un geopolitico ma che, come in questo caso, nelle modalità con cui costui ce li rende di pubblico dominio,  gettano un’ombra sulla pubblica affidabilità del suo sentenziare, quarti di nobiltà, comunque,  con i quali o senza i quali  il nostro eroe in questione è un campione del mondo di analisi geopolitiche sballate e regolarmente smentite e ridicolizzate dai fatti successivi ma mai da lui pubblicamente riconosciute come tali e rettificate.

          Ma questo riguarda l’oggi ma agli inizi degli anni ’70, quando Spadolini scrive quelle parole qual è la situazione della conoscenza presso il più vasto pubblico – ed anche presso gli intellettuali – della geopolitica? A questo  si può rispondere che la geopolitica in quegli anni era praticamente sconosciuta, ma anche aggiungere che, nonostante questo, si può dire che Spadolini ne aveva una  buona conoscenza  che in virtù del difetto principale in cui può incorrere la geopolitica – e incisivamente rilevato, come s’è visto, da Spadolini scrivendo su Chabod –, e cioè una visione troppo sovente determinista delle dinamiche politiche, economiche e geostrategiche, gli consentiva di rigettarla nel suo insieme. Ma avanziamo ora un’ipotesi  su questa esibita diffidenza   di Spadolini verso la geopolitica, una idiosincrasia  che, riteniamo, fosse più un atteggiamento pubblicamente rappresentato che profonda convinzione perché a Spadolini non era affatto estranea la dimensione machiavelliana e quindi realistica, e l’ipotesi è – ma ipotesi molto forte perchè totalmente compatibile con tutto il suo profilo intellettuale e politico fin qui tracciato – che questa  contrarietà verso la geopolitica fosse stata pubblicamente ostentata  perché questa scienza tendeva, pur nelle varie sfumature dei suoi autori, a mettere assolutamente in secondo piano, fino a ritenere del tutto ininfluenti, tutti quei fattori sovrastrutturali di tipo  quiritario e morale (meglio: moralistici tout court) che Spadolini aveva tanto cari e per l’edificazione del suo progetto politico in Italia ed anche per il mantenimento della narrazione filoccidentale e filoatlantica cui il Professore tanto teneva non so quanto per convinzione personale ma certamente fondamentale per posizionare il futuro partito della ragione –  al tempo di quel giudizio sulla geopolitica Spadolini non era ancora segretario del PRI, ma certamente più di un pensiero in proposito doveva averlo fatto! e se divenire segretario del Partito repubblicano non era certo obiettivo programmabile in anticipo, non altrettanto si può dire di una carriera politica da notabile all’interno della c.d. area laica, per Spadolini preferibilmente  il Partito repubblicano o quello liberale  –  come il più affidabile guardiano del dogma atlantista (già il PRI,  i liberali e i socialisti di Saragat lo erano  ma Spadolini Segretario del PRI riuscirà ad accentuare ancor di più questa caratteristica del Partito repubblicano). Per farla breve, nel novero dei personaggi pubblici e politici,  egli fu il più accanito filoatlantista  ed anche filoisraeliano che mai fosse apparso e mai più apparirà  in Italia e un posizionamento che a livello pubblico venne sempre giustificato da Spadolini in base a ragionamenti di natura extrastorica ed intrinsecamente antigeopolitica   di matrice unicamente moralista basati sulla necessità di difesa dell’occidente e della democrazia e mai  perché magari si doveva fare così e schierarsi così perché le alternative, geopolitiche o geostrategiche o storiche che dir si voglia, non consentivano di far diversamente.

 

          Ritengo molto opportuno a questo punto, per dare forma compiuta a questo discorso su  Spadolini,  sul suo progetto politico,  sulle sue contraddizioni  e,  soprattutto,  su quanto queste contraddizioni possano farci da segnalatore d’incendio sulle  attuali, intese come costituzione materiale ideologica di un paese  che – destra e sinistra in questa Stimmung ideologica accomunate indifferentemente –  non riesce a darsi una decente narrazione che faccia veramente gli interessi globali dell’ Italia vista come  comunità nazionale dotata di una sua peculiare identità, che è il suo bene più prezioso da tutelare (insomma, per mettere a fuoco quanto questo discorso su  Spadolini  possa essere d’aiuto per un’Italia formata in senso rigorosamente ed autenticamente  mazziniano), ricorrere al Nomos della Terra di Carl Schmitt: «Nell’epoca interstatale del diritto internazionale, databile tra il secolo XVI e la fine del XIX, si conseguì un reale progresso nel campo della civiltà: quello di circoscrivere e definire giuridicamente la guerra in ambito europeo. Come osserva Alfred von Verdross nella sua recensione al Nomos, è di importanza centrale il passaggio, avvenuto attorno ai secoli XVI-XVII, dall’analisi teologico-morale della justa causa belli a quella puramente giuridica dello justus hostis (e quindi del bellum justum interstatale). Questo passaggio è realmente importante e merita di essere evidenziato, anche perché il concetto di “equilibrio interstatale” che esso introduce si sarebbe mantenuto sostanzialmente inalterato fino a tutto il secolo XIX. Cessata l’unitarietà medievale dei punti di riferimento e di orientamento spaziale, è l’uguaglianza tra le nuove figure (o “persone”) statali che determina la limitazione dei mezzi bellici consentiti nel bellum justum. Non più valutazioni contenutistiche tese a giustificare (o ingiustificare) il ricorso alle armi in base a verità ultime ed esclusive, ma solo la precisa definizione giuridico-formale delle parti contendenti come Stati sovrani titolari di un potere effettivo può consentire l’esercizio del bellum justum. La guerra statale si contrappone allora alla guerra di religione che alla guerra civile, assumendo  un’inconfondibile forma giuridica, facendosi cioè guerre en forme. Se gli Stati territoriali, nella veste di personae publicae, si considerano sempre cavallerescamente l’un l’altro come justi hostes, ne consegue che la guerra riesce a diventare qualcosa di analogo a un duello, a un combattimento tra personae morales individuate territorialmente e radicate nell’ambito spaziale europeo. A confronto con la brutalità espressa dalle guerre di religione e di fazione, che sono per la loro stessa natura guerre di distruzione in cui i nemici si discriminano a vicenda come criminali, e a confronto con le guerre coloniali, condotte contro i popoli “selvaggi”, ciò significa una razionalizzazione ed un’umanizzazione di grande valore.  Ad entrambe le parti in lotta spetta lo stesso riconoscimento giuridico-formale, con la conseguenza di poter distinguere, grazie a criteri certi, il nemico dal criminale. Il concetto di  nemico non corrisponde più a “qualcosa da annientare”, ovvero ad un assoluto negativo,  al quale non è dovuto neppure alcun rispetto umano e morale. Ora aliud est hostis, aliud rebellis. Diventa pertanto possibile procedere ad un trattato di pace con i vinti e   – cosa egualmente importante – diventa possibile agli Stati estranei al conflitto mantenersi in uno status giuridico-internazionale di neutralità, quali terzi. Ora, va riconosciuto che con il secolo XX proprio questa funzione, limitativa del diritto internazionale è venuta meno, determinandosi un quadro segnato: a) dalla sempre possibile guerra di annientamento totale (dove il passaggio dall’uso delle armi convenzionali a quello delle armi nucleari non è ‘trattenuto’ se non da occasionalismi storico-politici); b) dalla perdita irreversibile del senso di una normatività naturale (che era stata, per il passato, la condizione di possibilità, quasi l’a priori metafisico, del nomos della terra); c) dalla falsa ipotesi  teorica, che informa assai spesso la prassi dei governi, secondo cui cause di tipo economico-strutturale (ad esempio relative alla distribuzione delle risorse materiali) sono sufficienti a spiegare il  problema dell’equilibrio mondiale e le ragioni profonde del  conflitto (escludendo quindi tra l’altro che le leggi del ‘politico’ abbiano una loro ben chiara autonomia nei confronti di quelle dell’ ‘economico’ o del ‘giuridico’).»: Carl Schmitt, Il Nomos della Terra Nel Diritto Internazionale dello “Jus Publicum Europaeum”, traduzione e postfazione di Emanuele Castrucci, cura editoriale di Franco Volpi, Milano, Adelphi, 20064, pp. 437-439.

          Con una piccola modifica della locuzione ‘guerre en forme’ possiamo dire che con la seconda presidenza Trump siamo passati da un imperialismo che aveva bisogno di  giustificazioni politico-morali per agire (la difesa della  democrazia e/o dell’occidente ed altre autentiche corbellerie come la difesa dei diritti delle minoranze, solo che vallo a far capire a queste assatanate zucche vuote – od autosvuotate, «Attacca ‘o ciuccio addò vo’ ‘o padrone», come si dice dalle parti di Partenope – di imperialisti old style che, ammesso e non concesso che in una data area del globo vi siano queste minoranze conculcate,  fare una guerra in loro nome non ne accresce certo la popolarità presso i loro oppressori. Ma niente paura: empiricamente, nella stragrande maggioranza dei casi, queste minoranze sono pienamente rispettate e tutelate e i problemi arrivano dopo i salvifici interventi occidentali, nel senso che coloro che subentrano agli immaginari conculcatori, si mettono di buzzo buono a fare il contrario di quello di coloro che hanno rovesciato con l’aiuto occidentale, Siria docet, con  l’odierna pietosa condizione, fra le altre minoranze,  dei cristiani dopo il criminale rovesciamento del legittimo presidente Bashar al-Assad ad opera dei jihādisti ed altre variopinte formazioni di tagliagole appoggiate logisticamente  e foraggiate finanziariamente dalla Nato, dalla Turchia e da Israele, ad ognuno di questi signori della guerra il suo tagliagole preferito fino al prossimo definitivo smembramento della Siria e vicendevole macello fra queste salvifiche formazioni di tagliagole con aggiunta dello sterminio delle minoranze che si diceva di volere proteggere) ad un ‘impérialisme en forme’ per il quale per agire sono dannose ed assurde le astratte regole del diritto internazionale ma vale solo l’interesse dell’agente statale imperiale, che per raggiungere i suoi obiettivi può anche ricorrere alla guerra che non si giustifica più in quanto avviene contro un nemico dell’umanità (egli, infatti, da ora  da demone si tramuta in justus hostis: se notiamo, per Trump Putin non è più un pazzo criminale ma un amico, o un quasi nemico, col quale si deve trattare, e che se non ragiona, si tramuterà in justus hostis da colpire con sanzioni verso la Russia ma non certo un pazzo criminale, come espressamente faceva intendere Biden, da cancellare dalla faccia della Terra, solo che, ovviamente, ciò non era tecnicamente possibile ma per Biden, per tutto la sua amministrazione e più in genere, per tutta la genia dei suoi amici imperialisti infrolliti non ‘en forme’, nulla poteva essere escluso – non poteva, cioè, essere esclusa  una bella guerra  nucleare in Europa ma solo in Europa perché si può essere dal punto di vista del realismo politico e della salute mentale ‘fuori forma’ quanto si vuole ma lo spettro di una guerra termonucleare totale e combattuta anche sul territorio  degli Stati uniti contro la Russia che detiene l’indiscusso primato in questo tipo di armamenti è capace di far rinsavire anche le menti più tarde e a gelare anche i più bollenti ed ottusi spiriti …) ma in quanto la guerra (e nel nostro caso, le mire imperialistiche) sono una modalità corretta e naturale dei rapporti internazionali fra Stati. Ci prendiamo il canale di Panama perché è nostro ed è stato un errore cederlo a Panama, ci prendiamo la Groenlandia perché ci conviene e non ha senso che un insignificante regno come la Danimarca voglia negarne il possesso a noi che siamo tanto più forti e capaci di farla fruttare e se così agendo si sovverte l’ordine internazionale basato sull’ipocrita precedenza del diritto sulla forza chissene …, e, infine, ci prendiamo il Canada perché siamo due fratelli e non ha senso che si viva in case separate mentre vivendo assieme potremmo dividere le spese, rectius: così gli Stati uniti possono spalmare meglio  il loro immenso debito pubblico e l’altrettanto pauroso deficit della bilancia commerciale. Sovviene un dubbio: non è che Trump, al contrario di tutti i gallinacci impagliati liberal-liberisti e senescenti imperialisti vecchio stile, sia stato ispirato tramite una seduta spiritica – dubitiamo che sia un accanito lettore della letteratura economica ma non si sa mai! – dall’economista austriaco Kurt W. Rothschild laddove disse, già nel 1947, che per capire  come funziona l’economia piuttosto che compulsare Adam Smith e i neoclassici, era meglio rivolgersi a Carl  von Clausewitz e studiare il suo Vom Kriege? Vista la timida ed introversa natura del nuovo presidente degli Stati uniti nel quale la discrezione sulla sua vita privata e formazione è il tratto dominante della sua personalità  e la natura altamente spirituale, per non dire esoterica, della domanda, forse non lo sapremo mai… ma per chi volesse approfondire la più prosaica  questione dello sconcertante consiglio per le deboli menti degli imperialisti ‘fuori forma di Rothschild, si cita, tanto per iniziare, da p. 135 di  Michael Landesmann, Kurt Rothschild’s ‘Price Theory and Oligopoly’ Revisited, in Altzinger, Wilfried, Guger, Alois, Mooslechner, Peter, Nowotny, Ewald, Economics as a Multi-Paradigmatic Science. In Honour of Kurt W. Rothschild (1914-2010), Oesterreichische Nationalbank, Vienna, 2014, pp. 132-136: «Kurt Rothschild throughout his article prefers the language of Clausewitz (‘Principles of War’) to that of either game theory or to biological or psychological terms to characterise the behaviour of oligopolists (see pp. 305-07). This is also linked to Rothschild’s life-long interest in the role of power in economics; see his well known Penguin volume (Rothschild, 1971) [versione PDF del documento all’URL https://research.wu.ac.at/ws/portalfiles/portal/18977011/FINAL_VERSION_-_October_2014.pdf, Wayback Machine:   https://research.wu.ac.at/ws/portalfiles/portal/18977011/FINAL_VERSION_-_October_2014.pdf ].», da p. 8 di Eckhard Hein and Achim Truger, Interview with G.C. Harcourt. The General Theory is not a book that you should read in bed!:«Doing my undergraduate dissertation I was very much influenced by K.W.Rothschild. He published this extraordinary paper Price theory and oligopoly (1947) about using Clausewitz’s Principles of War to examine oligopolist behaviour, about how secure profits are as important as maximum profits, in price wars and in the intervals between wars. [documento disponibile solo nella versione PDF all’URL https://www.elgaronline.com/view/journals/ejeep/8/1/article-p7.pdf, nostro “congelamento” autonomo su Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20250204213148/https://www.elgaronline.com/downloadpdf/view/journals/ejeep/8/1/article-p7.pdf, nostro caricamento autonomo su Internet Archive: https://archive.org/details/kurt-w.-rothschild-repubblicanesimo-geopolitico-massimo-morigi e https://ia904504.us.archive.org/35/items/kurt-w.-rothschild-repubblicanesimo-geopolitico-massimo-morigi/Kurt%20W.%20Rothschild%2C%20Repubblicanesimo%20Geopolitico%2C%20Massimo%20Morigi.pdf ] » e, infine, citando direttamente dal Price theory and oligopoly di K.W. Rothschild, dove alle pp. 299-320  di “The Economic Journal”, vol. 57, n° 227 (Sep., 1947) viene pubblicato il predetto documento e dove a p. 307 si può apprezzare la famosa sentenza dello stesso Rothschild su Clausewitz e il suo Vom Kriege: «The oligopoly-theorist’s classical literature can neither be Newton and Darwin, nor can it be Freud; he will have to turn to Clausewitz’s Principles of War. There he will not only find numerous striking parallels between military and (oligopolistic) business strategy, but also a method of a general approach which – while far less elegant than traditional price theory –  promises a more realistic treatment of the oligopoly problem. To write a short manual on the Principles of Oligopolistic War would be a very important attempt towards a new approach to this aspect of price theory; and the large amount of descriptive material that has been forthcoming in recent years should provide a sufficient basis for a start. [documento da noi raggiunto all’URL https://www.roterboersenkrach.at/wp-content/uploads/2011/12/rothschild-1947-price-theory-and-oligopoly.pdf, Wayback Machine  https://web.archive.org/web/20210308202431/https://www.roterboersenkrach.at/wp-content/uploads/2011/12/rothschild-1947-price-theory-and-oligopoly.pdf          e nostro caricamento autonomo su Internet Archive agli URL https://archive.org/details/kurt-wilhelm-rothschild-kurt-w.-rothschild-price-theory-and-oligopoly-1947-massi e  https://ia600608.us.archive.org/29/items/kurt-wilhelm-rothschild-kurt-w.-rothschild-price-theory-and-oligopoly-1947-massi/Kurt%20Wilhelm%20Rothschild%2C%20Kurt%20W.%20%20Rothschild%2C%20Price%20Theory%20and%20Oligopoly%2C%201947%2C%20Massimo%20Morigi%2C%20Repubblicanesimo%20Geopolitico.pdf ]». Ma a questo punto della nostra acribia citatoria, siamo fiduciosi di aver reso un buon servizio non solo ai lettori de “L’Italia e il Mondo ma anche al neoeletto presidente Trump che così, sulla scorta di questo documento di cui forse non era a conoscenza, potrà rendere ancora più  teoricamente scaltriti e concretamente operativi ed efficaci i suoi imérialisme en forme e le appena iniziate guerre doganali che ne sono il necesssario corollario e dal quale ci aspettiamo, per questo, un cenno di ringraziamento, anche privatamente, vista la discrezione che è il suo marchio di fabbrica. Attendiamo speranzosi…

Non possiamo sapere come Spadolini avrebbe reagito politicamente e pubblicamente di fronte a questa rozza manifestazione di geopolitica à la Trump, (espressa per ora solo verbalmente ma siamo agli inizi del suo secondo mandato e diamo tempo al tempo), un ‘impérialisme en forme’ che ha letteralmente disintegrato tutti i  velami ideologici della difesa dell’occidente, della democrazia  et similia. Su un piano strettamente interiore, sono sicuro che avrebbe condiviso, come la quasi totalità della pubblica opinione ma anche come la quasi totalità  di coloro che, pur addentro negli arcana imperii,  della politica non hanno una visione informata ad un concetto di realismo di marca predatoria, lo sdegnato orrore che naturalmente e giustamente  ispira questa inedita situazione di ‘impérialisme en forme’.  (Come predatorio non è il  realismo del Repubblicanesimo Geopolitico, machiavellianamente conflittualista  ma  tutt’altro che predatorio perché basato su una filosofia della prassi che implica un rapporto dialettico fra soggetto ed oggetto, che non sfocia  mai nella soppressione di uno di questi due momenti, che rifiuta espressamente, cioè, al contrario che in Carl Schmitt,  l’eliminazione del nemico, ma  è consustanziale e quindi  necessariamente complementare alla continua trasformazione dell’amico e del nemico attraverso il loro incessante confronto dialettico di vicendevole superamento ma non annientamento, lungo una linea di pensiero dialettico  che parte dal realismo del conflittualismo civile e repubblicano di Niccolò Machiavelli, passa  per  l’ Aufhebung delle forme storiche e politico-sociali e della dialettica continuamente evolutiva e trasformatrice del rapporto servo-padrone concepiti da Hegel, comprende in sé  l’impostazione olistica della comunità nazionale di Giuseppe Mazzini,  per il quale repubblica non significa la mera sostituzione di un re con un presidente ma quella forma di Stato che sappia garantire, al contrario della monarchia, il continuo rafforzarsi di questa natura olistica della società contro tutte le spinte disgregatrici ed anomizzanti ingenerate dalla concezione del diritto individuale che dovrebbe sempre prevalere sui doveri sociali così come vorrebbe il liberalismo, mentre, per Mazzini, l’organizzazione politico-sociale deve poggiare su una teoresi e pratica politica dove i doveri dell’uomo verso la società sono sempre gerarchicamente superiori ai diritti che la società concede – per Mazzini:  concede come corrispettivo dei doveri compiuti ma non che deve concedere per una sorta di inesistente diritto naturale, diritto naturale inesistente ma molto presente nella mente dei moderni a causa dell’ideologia liberal-liberista che, in realtà, con questa menzogna vuole rendere gli uomini schiavi e l’un contro l’alto armati  attraverso l’azione anomizzante e disgregatrice del vincolo sociale di questi “diritti naturali” – ai suoi componenti, fino a giungere al marxismo cultural-volontaristico ed antideterministico e  alla filosofia della prassi di Antonio Gramsci, gemmazione diretta quest’ultima, attraverso il suo rifiuto di  un marxismo positivista e sotto la forte influenza di una Weltanschauung profondamente segnata dal volontarismo sorelliano,  dell’idealismo italiano nella versione dell’attualismo di Giovanni Gentile:  idealismo italiano che come fiume carsico attraversa, anche se a monte di fine percorso  dividendosi in corsi gettantisi in mari politici di diverso nome e vocazione, il rivoluzionario Gramsci e il patriota liberale ma anche gobettiano nel senso della Rivoluzione Liberale Giovanni Spadolini!)  

          Ma siccome Spadolini, oltre che l’immaginifico assemblatore di costellazioni di personaggi che,  in fondo, in comune avevano ben poco, era anche, quando lo voleva, un solido realista,  in chiusura di questo ragionamento, mi sia consentito di sintetizzare la Gestalt più profonda di  questo profilo di Giovanni Spadolini, citando le parole conclusive che egli stesso,  negli Uomini che fecero l’ Italia impiegò nel suo medaglione su Salandra, dove il nome del biografato può non solo essere sostituito, mantenendo la moralità del testo,  con quello del compianto Professore ma anche con i nomi di tutti quelli che, lo scrivente compreso, forse non hanno compreso in tempo il ‘compiuto peccato’ di un’Italia che forse perché non poteva fare diversamente ma anche perché non l’ha voluto si è adagiata, dopo il secondo conflitto mondiale, sui comodi ma falsi  concetti, miti e parole dei più potenti pseudoamici d’oltreoceano: «Ora che tante di quelle passioni sono spente, nessuno può valutare esattamente il posto che Salandra occuperà nel quadro della storia italiana. Con le sue stesse contraddizioni, le sue intransigenze ideali ed i suoi compromessi politici, Salandra rappresenta un momento  della vita del paese, riflette passioni che furono anche generose ed alte. Difficile pensare che sopravviva, di lui, una vera e propria concezione politica; altrettanto difficile pensare che basti, a difenderne la popolarità, il giurista, pur così eminente. Più facile supporre che il suo nome, affidandosi alle memorie dell’intervento e della prima guerra mondiale, sarà ricordato con affettuoso rispetto da generazioni di ragazzi e giovani, da tutti coloro che crederanno ancora ai valori della patria e alla sua continuità. E che non si porranno mai quei problemi che interessano solo lo storico di professione.»: Giovanni Spadolini, Gli uomini che fecero l’Italia, vol. II, Il Novecento, Milano, Longanesi, 1972, p. 185.

          Giovanni Spadolini «È sepolto nel cimitero monumentale delle Porte Sante, ai piedi della basilica di San Miniato, nel piccolo prato che sovrasta Firenze, accanto a Vasco Pratolini, Pietro Annigoni, Giorgio Saviane e Mario Cecchi Gori. Davanti alla cappella della famiglia, dove riposano, fra gli altri, i genitori.»: Cosimo Ceccuti, cit., p.63. Per sua disposizione volle che sulla sua lapide – una lapide che nella forma ci vuole suggerire l’immagine di fogli sparsi e libri, quei libri che egli tanto amò – fosse incisa unicamente la scritta ‘Un Italiano’.

  1. S. Non so se queste mie parole possano costituire una risposta alle considerazioni suscitate a ws dai miei precedenti interventi in tema di Risorgimento, mazzinianesimo e Partito repubblicano.  Personalmente, ricostruire il profilo politico-intellettuale di Giovanni Spadolini, non è stato solo un esercizio di conio di un medaglione biografico e ulteriore chiarificazione di teoria politica dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico ma è stato, anche sotto l’aspetto  sentimentale,  una recherche du temps perdu, che mi ha  profondamente toccato. Spero solo che un po’ di questa emozione, non per le limitate capacità espressive dello scrivente, ma per il valore umano e di inattingibile  esempio di pubblica moralità – al di là dell’ attualità delle sue concezioni ideali  e delle sue azioni politiche – di Giovanni  Spadolini  che volle incarnare le speranze o le illusioni per un Italia migliore e lo ha fatto nei momenti in cui c’era ancora una gioventù  e un popolo che, al di là delle appartenenze politiche,  credeva  ancora in questa possibilità, siano state trasmesse ai gentili lettori dell’  “Italia e il Mondo”, anche  se non soprattutto a coloro di diversa origine politica ma che, fondamentale,  sono accomunati nell’amore per l’Italia, un amore che fu l’unica  vera passione che costantemente ispirò l’operato e le speranze di  Giovanni Spadolini.

Massimo Morigi, terzo intervento sul mazzinianesimo pubblicato dal blog di geopolitica “L’Italia e il Mondo” in data  IX Febbraio 2025, 176° anniversario   della proclamazione della Repubblica Romana del 1849

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Teodoro Klitsche de la Grange, La lotta contro il diritto_recensione di Luca di Felice

Teodoro Klitsche de la Grange, La lotta contro il diritto, Oaks Editrice, 2024, pp. 111, € 12,00.

Da parecchi anni, nel dibattito sulla giustizia, la contrapposizione assolutamente prevalente, frutto evidente di una generalizzata naïveté, è tra cd. giustizialisti e cd. garantisti. Questo saggio (sulla giustizia civile ed amministrativa) ha un taglio del tutto diverso (e originale) che include il rapporto giustizia/garanzie. L’autore si ispira, mutuandone e mutandone ai propri fini argomentativi il titolo, ad una celebre opera di Jhering “La lotta per il diritto” nella quale il grande giurista tedesco sostiene che senza la lotta per il diritto soggettivo degli individui lesi, cioè l’esercizio dell’azione da parte di questi (nei sistemi dispositivi), il diritto oggettivo viene meno, ritenendo così essenziale per l’ordine sociale l’apporto dei singoli soggetti che lottando per il proprio diritto rendono effettivo e vivente quello oggettivo.

Scrive Klitsche de la Grange che la legislazione “italiana, nella Seconda Repubblica, ha reso più difficile, lento, costoso e defatigante l’esercizio dell’azione in giudizio e conseguentemente l’attuazione dei provvedimenti giudiziari”. A tal riguardo l’autore afferma che sono proliferate leggi e anche comportamenti volti a rendere più difficile, costosa, lunga la realizzazione della pretesa giudiziale. Il tutto nonostante la riforma (1999) dell’art. 111 della Costituzione volta ad aumentare le garanzie dei cittadini, prima e dopo ripetutamente contraddetta dalle fonti normative sottostanti.

Klitsche de la Grange ritiene che il connotato ricorrente di quella che appare una legislazione dilatoria sia di favorire la parte pubblica aumentando le disparità tra le parti del rapporto (processuale e sostanziale). Ricorda a tal proposito la tesi di Maurice Hauriou secondo la quale ogni Stato ha due diritti (istituzionale e comune) e due giustizie (tra parti uguali e non) che egli chiamava Temi (non paritaria) e Dike (paritaria). La Seconda Repubblica, per l’autore, pare aver fatto crescere il peso di Temi senza che con ciò ne derivasse alcun beneficio per la giustizia in generale, finendo anzi per determinare la scarsa efficienza dell’insieme. Il corollario di quanto precede, se si considerano ad esempio le pretese pecuniarie avanzate dal privato nei confronti dello Stato, è stata la produzione di norme orientate non a salvare i creditori dallo Stato quanto piuttosto lo Stato dai suoi creditori. Klitsche de la Grange riportando un passaggio dell’opera di Jhering così scrive “La lotta per il diritto è un dovere della persona verso se stesso. Affermare la propria esistenza è legge suprema di tutto il creato vivente, perché rispetto al debitore è per me un dovere sostenere il diritto mio, non importa cosa possa costare. E se non lo faccio, non metto solo allo sbaraglio questo diritto, ma il Diritto.

Parole quelle di Jhering che ancora oggi risuonano con immutato vigore. In fondo, secondo il racconto di Eschilo, da Temi nacque il testardo Prometeo che non si sottrasse ai tanti patimenti cui fu sottoposto per via di quella sua smania di far del bene agli umani.

Nel complesso “La lotta contro il diritto”, che ricollega la situazione odierna alle conclusioni della migliore dottrina dello Stato e del diritto, appare una lettura non appannaggio esclusivo dei tecnici o degli esperti rivolgendosi anzi a qualunque uomo che non rinunci ad invocare il Diritto per far valere le proprie pretese.

Luca di Felice

La lotta contro il diritto – copertina

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DA SINDACATO DI LOTTA A CLUB PER PENSIONATI ? Che fine ha fatto il sindacato ?_Giuseppe Germinario, Cesare Semovigo

In collaborazione con Tracce di classe

La rappresentazione, sia pure parziale, di una fase cruciale del conflitto sociale, quella degli anni ’60/’70, offerta da questa conversazione, cerca di superare i limiti di una narrazione il più delle volte centrata sulla contrapposizione tra le virtù e la genuinità della base operaia, espressa dal movimento dei consigli di fabbrica e la reazione conservatrice della vecchia guardia sindacale emersa negli anni ’50. Il conflitto di questa natura era senza dubbio presente, ma esprimeva, comunque, l’esigenza più o meno latente di formazione di una nuova classe dirigente politico-sindacale e, in maniera ancora più latente, di una nuova visione capace di includere la miriade di rivendicazioni che emergevano nella società e nei luoghi di lavoro. Quella esigenza fu raccolta solo in parte e per un breve momento. Evidenziò, piuttosto, che il confronto più acceso e sostanziale avvenne tra una pulsione più spontaneista e rivendicazionista che portò a ridurre progressivamente le differenze e l’articolazione sociale alla visione a all’appiattimento verso un segmento particolare, quello dell’operaio-massa, e una ambizione prospettica, un “nuovo modello di sviluppo” si proclamava allora, che era, in realtà, il tentativo di reintegrazione progressiva nel quadro delle compatibilità sistemiche delle pulsioni più radicali. Un movimento che prometteva di esprimere le esigenze ed una visione di vasti ed inediti strati della società si è alla fine risolto nella creazione di un ceto sindacale tutto rivolto alla legittimazione verso le controparti e le istituzioni pubbliche, aspetto per altro importante ma parziale dell’azione politico-sindacale, contrapposto ad una radicalità residua dal carattere sempre più corporativo e settoriale ben poco unificante. Una tara pesante, il segno evidente di uno dei limiti fondamentali della gestione del conflitto sociale e della specifica aspirazione di emancipazione, in quell’epoca e, ancor più, nell’attuale: quello di non inserirli pienamente in un contesto di piena sovranità dello stato, di indipendenza di un paese e di costruzione di una comunità e di una formazione sociale in grado di sostenere questa ambizione e rappresentare un interesse nazionale. Allora, quanto meno, aleggiavano qua è là proclami sul merito, per quanto fumosi e distorti, oggi del tutto assenti. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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MATTEI E OLIVETTI – IL FUTURO INCERTO DELL’INDUSTRIA ITALIANA – PIERGIORGIO ROSSO-MARCO PUGLIESE

 

L’Italia è stata, in particolare dagli anni ’50 e, non ostante i pesanti colpi ricevuti dagli anni ’90 sino ad oggi, ancora rimane un grande paese industriale. Ha, però, sofferto sin dagli albori, negli anni ’30, di due grossi handicap che ne hanno regolarmente impedito il consolidamento e un salto di qualità definitivo: il limite di attenzione e sostegno ad uno sviluppo della cultura industriale che sappia far coesistere la nostra plurisecolare tradizione umanistica e la creatività scientifica e l’intraprendenza forgiatasi sin “dall’età dei comuni”; l’incapacità di consolidare il ruolo della grande industria complementare e a sostegno della rete di piccola e media attività, caratteristica peculiare del nostro apparato economico. Eppure, la nostra costituzione fonda proprio sul lavoro la propria ragione d’essere. Cosa impedisce alle nostre famiglie imprenditoriali e, soprattutto, alla nostra classe dirigente e al nostro ceto politico di assegnare la giusta priorità a questo ambito? Tenteremo di analizzare ed offrire alcune risposte credibili con il contributo di Marco Pugliese e Piergiorgio Rosso. Il sito Italia e il mondo ha già trattato l’argomento alcuni anni fa. Tra i vari contributi, qui una intervista a Giorgio Panattoni, già dirigente ed amministratore delegato di società del gruppo Olivetti: https://italiaeilmondo.com/?s=giorgio+panattoni Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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