Equilibrismi impossibili, di Bernard Lugan

Un fattore determinante nell’individuare la posizione egemonica e dominante di una potenza imperiale all’interno della propria area di influenza e nelle dinamiche esterne ad essa è la capacità di istigare e determinare l’esito dei conflitti e di imporre una condizione di pace interna (pax imperiale). E’ quanto sono riusciti a fare le leadership degli Stati Uniti in Europa per lunghi decenni. La Francia di Macron ha raggiunto, al contrario, una fase parodistica della gestione delle contraddizioni nella sua area postcoloniale africana sino a diventare pericolosamente vittima e ostaggio dei contenziosi. Segno ineluttabile di un declino irreversibile condito di aspetti al limite del grottesco, ma con espressioni di sovranità, presenti in settori della classe dirigente che lasciano ancora sperare. Giuseppe Germinario

Quando era deputato al Parlamento europeo, Stéphane Sjourné, il nuovo Ministro degli Affari Esteri francese, era apertamente ostile al Marocco e guardava all’Algeria. E non si dica che si tratta di una questione di realpolitik sul gas, perché il futuro delle esportazioni di gas algerino è desolante: dato che la produzione media di gas del Paese è di circa 130 miliardi di m3, di cui il 30-40% viene reiniettato nei pozzi petroliferi per mantenerli attivi, l’Algeria ha solo circa 86 miliardi di m3 di produzione commercializzabile, di cui circa 35-40 miliardi di m3 vengono consumati localmente per produrre elettricità. In conclusione, entro il 2025 le esportazioni dovrebbero raggiungere circa 25 miliardi di m3, la metà del livello del 2018. Le esportazioni sono diminuite costantemente, passando dai 64 miliardi di metri cubi del 2005 ai 51 miliardi di metri cubi del 2018, ai 48 miliardi di metri cubi del 2019 e ai 41 miliardi di metri cubi del 2020. L’Algeria, che vede diminuire le proprie riserve, punta tutto sul progetto di un gasdotto trans-sahariano di 4.128 chilometri, che sarebbe in grado di trasportare il gas naturale nigeriano fino ai porti algerini e poi ai mercati europei. Un progetto spaventosamente realistico, visto che il gasdotto dovrebbe attraversare regioni saheliane in guerra o addirittura in stato di totale anarchia. In queste condizioni, quali investitori sarebbero disposti a rischiare decine di miliardi di dollari per portare a nord il gas prodotto nella regione costiera nigeriana? Ecco perché l’opzione più sicura è quella di esportare questo gas direttamente attraverso un gasdotto marino, da cui il progetto Nigeria-Morocco Gas Pipeline (NMGP). 5. Il progetto, che riunirebbe tutti i gasdotti della Nigeria e del Marocco, è stato concepito come una sorta di “gasdotto”. Questo progetto, che riunirebbe tutti i Paesi produttori di gas dell’Africa occidentale, correrebbe lungo la costa dell’Africa occidentale, danneggiando la produzione di gas dei Paesi costieri. In tutto sono 16 i Paesi coinvolti nel progetto, tra cui tutti i Paesi dell’ECOWAS, che potranno beneficiare delle sue ricadute, in particolare i Paesi senza sbocco sul mare come il Mali, il Burkina Faso e il Niger, che beneficerebbero di rampe terrestri. La prima fase del gasdotto collegherà i giacimenti offshore di Grande Tortue Ahmeyim (GTA), ai lati del confine marittimo tra Mauritania e Senegal, a Tangeri, in Marocco. Anche se la sinistra ha sempre avuto “occhi di Chimène” per l’Algeria, che non smette mai di accusare la Francia, gli interessi di quest’ultima richiedono una riconciliazione con il Marocco, che richiede il riconoscimento della natura marocchina del Sahara occidentale… che l’Algeria vedrà come una provocazione. La politica dell'”insieme” non è certo facile…

Nel numero di agosto 2023 de L’Afrique Réelle, abbiamo analizzato la storia della disputa tra Algeria e Marocco. Questa disputa affonda le sue radici nelle amputazioni territoriali subite dal Marocco a vantaggio dell’allora Algeria francese. Oggi analizzeremo il modo in cui sono state effettuate queste demarcazioni di confine, le proposte di rettifica avanzate dalla Francia e le ragioni del rifiuto del Marocco. POSIZIONI INCONCILIABILIDurante il periodo coloniale, il Marocco è stato amputato territorialmente a est e a sud. Secondo il diritto internazionale, il Marocco era quindi uno “Stato smembrato dalla colonizzazione” che, dopo l’indipendenza, doveva essere ricostituito entro i confini precoloniali. Ciò era però impossibile perché il giovane Stato algerino, creato dalla Francia e territorialmente a spese del Marocco, difendeva lo status quo, cioè il principio dei confini ereditati dalla colonizzazione. Questo è il cuore della disputa tra Algeria e Marocco. Va notato che, tra tutti gli Stati africani colonizzati, il Marocco è stato la vittima più territoriale delle linee di confine imposte dalle potenze coloniali. A est, la Francia ampliò il suo possedimento algerino annettendogli regioni storicamente marocchine: Touat, Saoura, Tidikelt, Gourara e Tindouf (carta a pagina 10); a sud, la Spagna amputò Saquia el-Hamra e Oued ad Dahab, due province marocchine meridionali, trasformandole nella colonia del Sahara occidentale (carta a pagina 17). Nel 1956, il Marocco riacquistò l’indipendenza, ma non la piena sovranità territoriale poiché, il 2 marzo e il 7 aprile 1956, quest’ultima fu ristabilita solo sulle due ex aree dei protettorati francese e spagnolo. Il Marocco si trovò allora di fronte a una situazione paradossale: 1) gli fu chiesto sia di ratificare la perdita delle sue province orientali, ossia Touat, Saoura, Tidikelt, Gourara e la regione di Tindouf, sia di riconoscere il loro legame con l’Algeria, lo Stato nato nel 1962 dalla decolonizzazione francese. L’Algeria, sostenendo di essere l’erede della colonizzazione francese e delle sue frontiere, ha rifiutato ogni trattativa territoriale con il Marocco, violando così i propri impegni e rinnegando la propria firma, come vedremo in seguito2. ) Poi, al momento della decolonizzazione del Sahara spagnolo, è stato chiesto al Marocco di accettare che le sue province sahariane di Saquia el-Hamra e Oued ad Dahab diventassero uno “Stato sahariano”, pseudopodia di un’Algeria che voleva aprirsi all’Oceano Atlantico. Per questo l’Algeria arma e finanzia il Polisario e mantiene relazioni diplomatiche con i Paesi che ancora riconoscono la SADR (Repubblica Araba Saharawi Democratica). Infine, questo è il motivo per cui l’Algeria sta bloccando una soluzione alla questione del Sahara Occidentale: secondo la Risoluzione ONU n. 1514 del 14 ottobre 1960: “I territori coloniali strappati a un Paese sovrano non possono avere alcuna forma di decolonizzazione se non la loro reintegrazione nel Paese d’origine da cui sono stati dissociati”. Articolo VI: “Se uno Stato è stato smembrato dal colonialismo, ha il diritto di recuperare la sua integrità territoriale dopo la sua decolonizzazione”. Prima dello smembramento coloniale, i confini del Marocco erano riconosciuti dai trattati internazionali e il Protettorato non li aveva resi nulli. Così, nel 1956, al momento dell’indipendenza del Marocco, nel 1962, al momento dell’indipendenza dell’Algeria, e nel 1975, al momento della decolonizzazione del Sahara spagnolo, la sovranità del Marocco doveva essere ristabilita sulle province da cui era stata amputata, sia dalla Francia che dalla Spagna. Le posizioni dei due Paesi sono inconciliabili: il Marocco ha sempre sostenuto che le linee di demarcazione tracciate unilateralmente dai colonizzatori francesi e spagnoli non erano opponibili ai suoi diritti storici, anche se questi ultimi erano stati posti sotto amministrazione fiduciaria per diversi decenni. Al contrario, l’Algeria si è attenuta allo stato di fatto coloniale, cioè al mantenimento delle frontiere create dalla colonizzazione, sia che si trattasse di frontiere vere e proprie, sia che si trattasse di semplici linee di demarcazione amministrative, e questo in virtù del principio secondo cui “le frontiere dei nuovi Stati sono stabilite sulla base delle frontiere delle ex province coloniali a cui questi Stati succedono”. Ma l’Algeria si spinge ancora più in là nel suo atteggiamento anti-marocchino. Oltre all’intangibilità delle frontiere ereditate dalla colonizzazione, tracciate a suo grande vantaggio a spese del Marocco, l’Algeria pretende che il diritto dei popoli all’autodeterminazione sia applicato nel caso del Sahara Occidentale, anche se questo territorio non ha nulla a che fare con l’Algeria. È questa insolita ed esorbitante richiesta algerina che ha dato origine alla questione del Sahara Occidentale, ed è questa stessa questione che mantiene un focolaio di tensione tra Rabat e Algeri.

QUANDO LA FRANCIA HA PROPOSTO UNA RETTIFICA FRONTALIERA AL MAROCCO Le autorità francesi hanno sempre ammesso che la costituzione territoriale dell’Algeria è stata in parte ottenuta a spese del Marocco. Negli anni Cinquanta, infatti, volevano riparare, per così dire, alla più grave delle amputazioni subite dal Marocco, prima di concedere l’indipendenza all’Algeria. Tuttavia, per una questione di solidarietà maghrebina, il Marocco rifiutò, scegliendo invece di riporre la propria fiducia nella futura Algeria indipendente. Il minimo che si possa dire è che l’Algeria si dimostrò molto ingrata. Dopo la Dichiarazione congiunta del 2 marzo 1956, che pose fine al protettorato francese sul Marocco e gli restituì l’indipendenza, la Francia si dichiarò pronta ad accettare la restituzione della regione di Tindouf e della Hamada du Draa, amministrativamente annesse all’Algeria francese. Una commissione congiunta franco-marocchina si riunì per discutere l’interpretazione del Trattato di La Marnia del 1845, gli accordi del 1901, 1902 e 1910 e i tracciati delle cosiddette linee Varnier e Trinquet (carta a pagina 14), che avrebbero risolto i problemi di Béchar, Tindouf e del Sahara occidentale a nord del 24° parallelo. Aziz Maarouf ha esposto chiaramente il problema: “Nel 1956, quando il Marocco firmò le convenzioni con Francia e Spagna che sancirono la sua indipendenza, si trovò liberato, ma entro i limiti stabiliti dalla colonizzazione. Non tutto il territorio era stato recuperato e nessuna delle ex potenze coloniali lo contestava. Per quanto riguarda la Francia, dopo gli accordi del 1956 fu persino istituita una commissione congiunta per studiare la controversia. I suoi lavori si trascinarono. I marocchini, che ponevano la guerra d’Algeria al centro delle loro preoccupazioni, rifiutarono di discutere ulteriormente con la Francia e insistettero sul fatto che il problema non era più di competenza di Parigi, ma di Algeri, e che sarebbe stato affrontato non appena il Paese avesse riacquistato l’indipendenza. Questo era il senso dell’accordo concluso tra Hassan II e Ferhat Abbas nel 1961”. (Jeune Afrique, n°151, 30 agosto 1963) A più riprese, la Francia propose al Marocco di negoziare le amputazioni territoriali subite durante il periodo coloniale. Tuttavia, nel 1960, il sultano Mohammed V rispose senza mezzi termini: “Qualsiasi negoziato con il governo francese sulle rivendicazioni e i diritti del Marocco sarà considerato come una pugnalata alle spalle dei nostri amici algerini che stanno combattendo, e preferisco aspettare l’indipendenza dell’Algeria prima di sollevare la disputa sui confini con i miei fratelli algerini”. “Nel suo libro Le Défi (La Sfida), il re Hassan II ha confermato l’esistenza delle proposte francesi e ha spiegato perché il Marocco non vi ha dato seguito: “Al termine della guerra d’Algeria, la Francia si è offerta a più riprese di risolvere con noi la questione dei confini a est e a sud. Abbiamo rifiutato (…) Al momento del cessate il fuoco (marzo 1961), ci siamo nuovamente rifiutati di permettere alla Francia di restituirci i territori marocchini alle frontiere orientali”. (Le Défi, pp. 91-92) La politica marocchina fu allora quella di fidarsi dei leader della futura Algeria indipendente, con i quali sottoscrisse accordi sulla questione dei confini. Questi accordi furono presto dimenticati dall’Algeria indipendente…

L’ALGERIA VIOLA I SUOI IMPEGNI Dopo aver rifiutato di negoziare con la Francia la rettifica dei confini, il 6 luglio 1961 il Marocco firmò un accordo con il GPRA (Governo provvisorio della Repubblica algerina) in cui si stabiliva che le questioni di confine tra i due Paesi sarebbero state risolte per via negoziale non appena l’Algeria avesse ottenuto l’indipendenza. Ma l’Algeria indipendente rinunciò alla firma. Sempre nel suo libro Le Défi, il re Hassan II scrisse: “(…) essendo chiaramente inteso che la nuova Algeria non accetterà in nessun caso che il Marocco sia danneggiato nel Sahara dalle modifiche territoriali imposte dalla Francia (…) Un accordo in tal senso è stato firmato il 6 luglio 1961 a Rabat dal presidente Ferhat Abbas e da me, con l’accordo formale del signor Ben Bella (Le Défi, p. 68). Le richieste marocchine riguardavano la linea di frontiera marocchino-algerina nella regione del Figuig, l’assenza di un accordo che fissasse la frontiera a sud del passo di Teniet es-Sassi e l’annessione all’Algeria delle regioni di Colomb-Béchar, Tindouf e Tabelbala. Con l’accordo del 6 luglio 1961, il GPRA (Governo provvisorio della Repubblica algerina) si impegnò a negoziare la questione della demarcazione dei confini una volta che l’Algeria avesse ottenuto l’indipendenza. Il 13 marzo 1963, ad Algeri, Re Hassan disse al Presidente Ben Bella: “Signor Presidente, c’è ancora Tindouf, e lei non può non riconoscere che Tindouf è certamente la più flagrante ed evidente di tutte le ingiustizie[1]”. La risposta del Presidente Ben Bella è stata la seguente: “Chiedo a Vostra Maestà di concedermi il tempo di creare le istituzioni algerine, di diventare capo dello Stato algerino e di prendere in mano il partito dell’opposizione.
e di prendere in mano il partito di opposizione, e poi, verso settembre-ottobre, avrò la pienezza e la qualità che mi permetteranno di aprire con voi la questione delle frontiere, fermo restando che non si può pensare che gli algerini siano puramente e semplicemente gli eredi della Francia per quanto riguarda le frontiere dell’Algeria. Mi sbagliavo a crederlo, perché fu proprio nell’ottobre 1963 che piccole guarnigioni marocchine furono attaccate e annientate a Hassi Beïda e a Tinjoub (Le Défi, p. 91). In effetti, nell’ottobre 1963, la guerra scoppiò lungo la frontiera algero-marocchina. Da Figuig a nord di Tindouf, la “guerra delle sabbie” contrappose gli eserciti dei due Paesi fino alla firma del cessate il fuoco il 30 ottobre. Per porre fine a queste dispute di confine, i due Paesi firmarono una serie di accordi, tra cui il Trattato di Ifrane nel 1969, volto a risolvere le dispute di confine tra Marocco e Algeria. Poi, il 27 maggio 1970, a Tlemcen, in Algeria, il re Hassan II e il presidente Boumediene si incontrarono: “È stato a Tlemcen, il 27 maggio 1970, che il presidente Boumediene e io abbiamo deciso che una commissione congiunta avrebbe risolto la questione dei confini”. (Le Défi, p.92) Il 15 giugno 1972, un accordo bilaterale ratificò la linea di confine coloniale tra i due Paesi, un’enorme concessione marocchina che si spiegava con la questione del Sahara occidentale, da cui la Spagna stava per ritirarsi. In cambio del riconoscimento dei confini coloniali e delle conseguenti amputazioni territoriali, il Marocco si aspettava un sostegno, o almeno la neutralità, nel suo tentativo di riunificare il Sahara occidentale. Ma, stufo del precedente atteggiamento algerino e sospettando che l’Algeria non avrebbe accettato questa riunificazione, il Marocco ha legato la ratifica della Convenzione del 1972 al riconoscimento da parte dell’Algeria di tutti i confini del Marocco, compresi quelli del Sahara occidentale, al fine di raggiungere una soluzione globale dei confini. Poi, il 16 novembre 1977, di fronte all’atteggiamento ostile dell’Algeria, che sosteneva la creazione di uno “Stato del Sahara” indipendente, uno pseudopodio che le avrebbe dato un’apertura sull’Oceano Atlantico, il re Hassan II annunciò che l’Accordo sulle frontiere e la cooperazione tra Marocco e Algeria del 1972 non sarebbe stato ratificato dal Marocco.

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La fiaccola arde tra Mali e Algeria, di Bernard Lugan

La Francia, comunque, ha perso troppa credibilità per recuperare spazio nella “sua” Africa, tanto meno in Algeria_Giuseppe Germinario

La fiaccola arde tra Mali e Algeria
La tensione tra il Mali e l’Algeria è attualmente alta. Mercoledì 20 dicembre 2023, l’ambasciatore algerino a Bamako è stato convocato dalla giunta militare al potere. A sua volta, il giorno successivo, giovedì 21 dicembre, l’ambasciatore maliano ad Algeri è stato convocato presso il Ministero degli Affari Esteri algerino.

Bamako rimprovera ad Algeri i suoi legami con i “separatisti” tuareg e l’accoglienza riservata martedì 19 dicembre dal presidente Abdelmaajid Tebboune a una delegazione politica e religiosa del Mali guidata dall’imam Mahmoud Dicko. Questo influente leader religioso di etnia Peul è un oppositore della giunta. Ciò potrebbe aver indotto la giunta a pensare che Algeri stia cercando di aprire un nuovo fronte in Mali per dare un po’ di respiro ai suoi alleati tuareg, attualmente in difficoltà militari… Come se non bastasse, il 22 e il 23 dicembre, il ministro degli Esteri maliano, Abdoulaye Diop, si è recato in visita in Marocco, Paese con il quale l’Algeria ha interrotto unilateralmente le relazioni diplomatiche nell’agosto 2021…

Dietro questi recenti avvenimenti, c’è in realtà una disputa di lunga data e profondamente radicata tra Algeri e Bamako. E poiché i due Paesi condividono un confine lungo 1400 chilometri e le loro popolazioni tuareg sono intrecciate, gli eventi fungono da vasi comunicanti.

Il problema è noto:

1) L’Algeria, che considera il nord del Mali come l’estensione meridionale della sua vastità sahariana e, per dirla senza mezzi termini, il suo “protettorato”, è sempre stata coinvolta nella risoluzione delle guerre tuareg in Mali. Poiché teme il contagio tra i propri tuareg, non vuole che questi vengano coinvolti nella polveriera maliana. Algeri è quindi il principale mediatore nella questione maliana dalla firma nel 2015 dell’Accordo di Algeri tra Bamako e i gruppi armati tuareg. Al contrario, la giunta maliana ritiene che questo accordo dia mano libera a coloro che definisce, a ragione, “separatisti”. Per i retroscena di questa vicenda, si rimanda al mio libro Histoire du Sahel des origines à nos jours.

2) L’Algeria ha mantenuto costantemente relazioni con i movimenti tuareg. È noto che il leader storico delle ultime rivolte, Iyad Ag Ghali, ha legami con Algeri. La sua famiglia vive in Algeria e lui stesso vi ha la sua base di appoggio.

3) Algeri si è accontentata di vedere il nord del Mali sottrarsi al potere di Bamako senza però raggiungere una vera indipendenza, che avrebbe potuto dare ai suoi tuareg. Al contrario, i militari maliani hanno un obiettivo prioritario, ovvero la riconquista del nord del Paese. Un obiettivo utopico fino alle ultime settimane. Tuttavia, l’intervento massiccio del gruppo Wagner ha permesso alle FAMA (Forze armate maliane) di prendere Kidal, la “capitale” tuareg svuotata della sua popolazione, che è partita verso il deserto e i confini algerini. In attesa di vendetta…

Gli interessi dell’Algeria sono quindi contrapposti a quelli del suo alleato storico, la Russia, il Paese che le fornisce quasi tutte le armi… Algeri sta quindi tentando un riavvicinamento con Parigi… Una questione da seguire, ma a distanza, ora che i protagonisti hanno chiesto la partenza delle forze francesi…

ALLE ORIGINI DEL “MALE ALGÉRINO” In “Le mal algérien” (Collection Bouquins), pubblicato nel giugno 2023, Jean-Louis Levet e Paul Tolila non si limitano a tracciare un quadro impietoso della predazione praticata dai dirigenti algerini dal 1962. Questo libro finemente documentato, scritto da due economisti che si sono recati in Algeria per diversi anni, mette in luce le radici di quello che definiscono il “male algerino”. È un libro che dovrebbe essere letto e riletto da tutti coloro che in Francia, sovvenzionati o “utili idioti”, continuano ad avere “occhi di Chimène” per l’Algeria e la sua “rivoluzione”. Un libro che dovrebbero leggere anche quei politici francesi che si inginocchiano ogni volta che parlano di Algeria. A cominciare da Emmanuel Macron che, in anticipo, ha giustificato tutte le richieste algerine di “riparazione” quando, in modo del tutto irresponsabile, ad Algeri, ha parlato della colonizzazione come di un “crimine contro l’umanità” perché, come scrivono gli autori: “Da quando le parole “crimine contro l’umanità” sono state pronunciate (da Emmanuel Macron) per descrivere la colonizzazione, le autorità algerine hanno avuto la possibilità di metterci nella posizione di eterni colpevoli, perché questo è l’unico crimine per il quale non c’è prescrizione”. ” (p. 348) – Una situazione ben riassunta in una frase da: “Chiedeteci il perdono… che non vi concederemo mai”. (p. 348) In questo libro, seguiamo la costruzione della falsa storia dell’Algeria, assistendo al naufragio economico e sociale del Paese come risultato dell’immensa corruzione e predazione perpetrata dai profittatori dell’indipendenza. Siamo sbalorditi dalla portata dei regolamenti di conti tra i clan mafiosi che si spartiscono il potere. E infine capiamo perché la “riconciliazione” con la Francia è impossibile. Nel mio libro Algérie l’histoire à l’endroit, cito Mohamed Harbi, che ha scritto: “La storia è l’inferno e il paradiso degli algerini.
Inferno e paradiso per gli algerini”. Paradiso perché, per dimenticare questo inferno, i leader algerini vivono in una storia inventata in cui fingono di credere attraverso un “incantesimo epico permanente” volto a “proteggere il sistema algerino e gli interessi della nationklatura che ne beneficia” (p. 14). Come scrivono ancora gli autori: “L’ago storico dell’Algeria sembra essere bloccato sulla guerra d’indipendenza, che occupa un posto e uno status ufficiali per lo Stato algerino, che rivendica apertamente il monopolio della sua narrazione ufficiale. (p.14) Da qui l’impossibilità di rivederla perché è un unogma. In queste condizioni, è facile capire che il “lavoro comune della memoria” tanto caro alla Francia non è altro che una farsa: la Francia apre i suoi archivi mentre quelli dell’Algeria restano chiusi. Quando Abdelmadjid Chikhi, l’omologo algerino di Benjamin Stora, “si è comportato come un procuratore militante e non come uno storico” (p.350). La storia è quindi al centro del “male algerino”, perché nasconde ciò che è accaduto durante la guerra, in particolare l’assassinio di Abane Ramdane, la trappola tesa ad Amirouche e il colpo di Stato del 1962, quando l’esercito di frontiera, i cui capi non avevano mai sparato un colpo, rovesciò il GPRA e schiacciò la resistenza dei maquisards. Essendo la matrice del “Sistema” che ha fatto e farà di tutto per rimanere al potere, la storia ufficiale non potrà essere messa in discussione finché governerà l’Algeria. Un “Sistema” che non ha avuto paura di usare il grottesco per sopravvivere. Ad esempio, quando il presidente Bouteflika è stato colpito da un ictus e non ha potuto svolgere le sue funzioni, è stato rappresentato nelle cerimonie ufficiali da un suo ritratto… Il libro descrive anche il regolamento di conti all’interno dell’esercito, quello che altrove ho definito “odjak dei giannizzeri”, attraverso denunce che non sono altro che gettoni dati alla strada per garantire che il “Sistema” rimanga al suo posto. Dalla morte del generale Gaïd Salah, sono in corso epurazioni e regolamenti di conti tra le persone vicine a colui che era soprannominato il “Ghiottone” e che era conosciuto come uno degli ufficiali più corrotti dell’esercito. L’epurazione è guidata dal nuovo Capo di Stato Maggiore, il generale Said Chengriha. Egli ha fatto licenziare e processare centocinquanta ufficiali, tra cui diversi generali, e decine di alti funzionari e ministri. Ma, poiché alcuni lo accusano di essere stato più che coinvolto nel traffico di droga e di armi, i giorni saranno difficili per il suo popolo una volta che sarà stato richiamato a Dio… Profittatori e prebendari Coloro che vivono direttamente o indirettamente di corruzione sono i “beneficiari” del Ministero di Moudjahidine e tutti i membri di quella che laggiù è conosciuta come la “famiglia rivoluzionaria”, integrati in particolare nell’ONM (Organizzazione Nazionale di Moudjahidine), nonché i loro discendenti. Eppure, secondo l’ex ministro algerino Abdeslam Ali Rachidi, “tutti sanno che il 90% dei veterani, i moudjahidine, sono falsi” (El Watan, 12 dicembre 2015). Inoltre, come ho spiegato con cifre dettagliate nel mio libro “Algérie l’histoire à l’endroit”, il numero di moudjahidine era inferiore al numero di algerini che combattevano nell’esercito francese… Nel gennaio 1961, quando il processo che portava all’indipendenza era chiaramente in corso, circa 250.000 algerini servivano nell’esercito francese, dagli ufficiali agli harkis. Secondo il 2° Ufficio francese, nel marzo 1962, quando furono firmati gli accordi di Evian, si stimava che ci fossero 15.200 combattenti nazionalisti sul fronte interno, sia regolari che ausiliari, e 22.000 combattenti all’esterno (l’ALN, o esercito di frontiera) in Tunisia e 10.000 in Marocco. La forza di combattimento degli indipendentisti ammontava quindi a 50.000 uomini in armi, contro i quasi 250.000 dell’esercito francese, cioè cinque volte meno.L’ONM è una vera e propria sanguisuga, poiché il Ministero dei Mujahidin, che è il fronte istituzionale, beneficia del terzo budget statale. Nel 2017, con 245 miliardi di dinari (mds/dz) – a seconda del tasso di cambio, circa 2 miliardi di euro – il bilancio di questo ministero era appena dietro a quelli dell’Istruzione e della Difesa. Ho anche spiegato l’originalità algerina che, contrariamente alla legge naturale secondo cui più si va indietro nel tempo, meno persone ci sono che hanno conosciuto Napoleone… In Algeria, al contrario, più passano gli anni, più aumenta il numero di “veterani”… Così, alla fine del 1962-inizio del 1963, l’Algeria aveva 6.000 mujahidin identificati, 70.000 nel 1972 e 200.000 nel 2017. Nel 2010, attraverso un fenomeno di generazioni spontanee, il numero dei mujahidin e dei loro beneficiari ha raggiunto 1,5 milioni. Ciò si spiega con il fatto che in Algeria, a più di mezzo secolo dall’indipendenza, si continua a richiedere la tessera di ex mujahidin… alcuni di loro, che nel 1962 non avevano nemmeno 10 anni, l’hanno addirittura ottenuta… L’emblematico “affare Mellouk”, dal nome del giudice Benyoucef Mellouk, ha illustrato questa commedia perché ha osato denunciare 312 (!!!!!) dei suoi colleghi che erano stati coinvolti nella guerra al terrorismo. L’affannosa ricerca dello status di ex moudjahidine si spiega semplicemente con il fatto che i titolari della preziosa tessera e i loro legittimi aventi diritto ricevono una pensione dallo Stato, godono di prerogative e beneficiano di privilegi. La carta, che funge da ammortizzatore sociale, dà anche diritto a licenze per taxi o bevande, agevolazioni per l’importazione (in particolare per le auto in franchigia), tariffe aeree ridotte, agevolazioni creditizie, posti di lavoro riservati, opportunità di pensionamento, promozioni più rapide, alloggi prioritari, ecc. Non contenti di essersi fatti rubare l’indipendenza dall’ALN, l’esercito di frontiera, nell’estate del 1962, ora devono sopportare di essere equiparati a impostori prebendari che, come loro, portano la carta del mujahidin. Per questo, nel 2003, alcuni veri ex militari di tutta l’Algeria hanno creato un’associazione per denunciare gli impostori. Secondo loro, l’80% dei membri dell’ONM erano falsi maquisard… compreso lo stesso ministro dei mujahidin… (Liberté-Algérie 28/10/2003). Secondo il quotidiano El Watan del 10 febbraio 2007, su una popolazione di 70.000 abitanti, la sola città di Nouakchott contava 1,5 milioni di abitanti. Secondo il quotidiano El Watan del 10 febbraio 2007, su una popolazione di 70.000 abitanti, la sola città di Nouakchott contava 1,5 milioni di abitanti, mentre la città di Aïn Defla (ex Duperré) contava 14.000 falsi moudjahidine, tra cui 1.300 donne… Per quanto riguarda Koléa, nella regione di Mitidja, i 2/3 dei suoi moudjahidine sarebbero impostori (Libération, 27 ottobre 2004). Sempre secondo il colonnello Ahmed Bencherif, questa inflazione di falsi maquisards si spiega con il fatto che, nominati dal “Sistema”, i dirigenti dell’ONM applicano la loro politica di sviluppo di una clientela di obbligati, che permette loro di far credere di godere di un sostegno popolare. Ciò è reso ancora più facile dal fatto che, come ha detto Abid Mustapha, ex colonnello della Wilaya V, agli organi direttivi dell’ONM: “Noi (i veri combattenti) siamo diventati una minoranza! Nel 2008, Nouredine Aït Hamouda, deputato dell’RCD (Rally per la Cultura e la Democrazia), ha fatto scalpore quando, in aula, ha denunciato lo scandalo dei falsi mujahidin. E ne aveva la legittimità, essendo figlio del colonnello Amirouche Aït Hamouda, leader emblematico del maquis cabilo di Willaya III, ucciso in battaglia il 29 marzo 1959[1]. Inoltre, ha fatto esplodere il mito del milione e mezzo di morti causati dalla guerra d’indipendenza, una cifra del tutto fantasiosa ma che permette al “Sistema” di giustificare il numero surreale di persone che hanno diritto ai sussidi, in particolare vedove e orfani. Secondo Nouredine Aït Hamouda, ¾ dei 2 milioni di portatori della tessera di mujahidin e degli aventi diritto sono falsi… Per essere riconosciuti come mujahidin, non c’è bisogno di formalità onerose. È sufficiente che due testimoni attestino le vostre “gesta in guerra” e riceverete l’Attestation communale d’ancienencombattant (certificato comunale di status di veterano). Acquistati dal “Sistema” che li detiene, e a maggior ragione quando sono impostori, i titolari delle carte costituiscono la sua spina dorsale popolare. Il loro notevole peso politico è esercitato in tutto il Paese da diverse associazioni nazionali, come l’ONEC (Organizzazione Nazionale dei Figli della Shuhada (Martiri)), il CNEC (Coordinamento Nazionale dei Figli della Shuhada) e l’ONEM (Organizzazione Nazionale dei Figli dei Mujahidin). Quest’ultima, che conta 1,5 milioni di membri, ha filiali in tutta l’Algeria e anche in Francia. Il numero dei suoi membri si spiega con il fatto che, in un’intervista rilasciata a Libération il 27 ottobre 2004, M’barak Khalfa, allora capo dell’ONEM, ha potuto dichiarare senza il minimo pudore che, poiché: “(…) ci sono stati almeno un milione (!!!) di mujahidin, questo fa sei o sette milioni di bambini e quindi potenziali membri”. Secondo il colonnello Ahmed Bencherif, ex capo della gendarmeria nazionale e presidente dell’Associazione per la lotta contro i falsi mujahidin, ogni mese vengono versati 750 milioni di dinari ai falsi mujahidin.Dipendenza dagli idrocarburiNel 2022, l’industria algerina rappresentava appena il 5% del PIL, rispetto al 7,5% del 2000. Quindi, invece di svilupparsi, l’industria algerina si sta riducendo ulteriormente. Tutto dipende dagli idrocarburi. L’agricoltura è in stato di abbandono, con 1/3 delle terre coltivabili incolte e rese cerealicole di appena 6 quintali per ettaro, contro i 12 della Tunisia e i 15 del Marocco. Contrariamente a quanto affermano i suoi leader, l’Algeria non è in grado di compensare la mancata fornitura di gas all’UE da parte della Russia aumentando le sue esportazioni attraverso il gasdotto Transmed che la collega all’Italia, perché le sue riserve si stanno esaurendo e i tre quarti della sua produzione vengono consumati localmente. Anno dopo anno, l’Europa (l’UE) ha importato poco più del 40% del suo consumo di gas dalla Russia, il 20% dalla Norvegia e tra l’11 e il 12% dall’Algeria.
Entro il 2021, l’Algeria avrà prodotto 130 miliardi di metri cubi (bcm) di gas su una produzione mondiale totale di 3.850 bcm, molto indietro rispetto a Stati Uniti, Russia, Iran e persino Cina. Inoltre, dei 130 miliardi di m3 prodotti dall’Algeria, vanno dedotti:- 48 miliardi di m3 per la produzione di gas di città per il consumo locale;- 20 miliardi di m3 per la produzione di energia elettrica, con l’Algeria che produce il 99% della sua energia elettrica dal gas naturale;- 20 miliardi di m3 per la reiniezione nella rete;- 20 miliardi di m3 per la produzione di energia elettrica dal gas naturale. 20 miliardi di m3 per la reiniezione nei pozzi petroliferi o nelle sacche di gas; – 5 miliardi di m3 per il flaring, cioè la combustione del gas non utilizzato, per un totale di 93 miliardi di m3 su una produzione totale di 130 miliardi di m3. Ciò lascia all’Algeria solo circa 40 miliardi di m3 di gas da esportare. Considerando che l’UE importa circa 520 miliardi di m3 di gas all’anno, è difficile capire come l’Algeria possa fare altro che aumentare aneddoticamente le sue forniture, sostenendo così di essere in grado di compensare una parte significativa delle forniture russe… A maggior ragione, ed è importante non dimenticare che il 28 gennaio 2013, intervistato da Maghreb Emergent, Tewfik Hasni, ex ministro algerino dell’Economia, delle Finanze e dell’Industria, ha dichiarato che l’Algeria non ha alcuna intenzione di esportare gas in Russia. Tewfik Hasni, ex vicepresidente di Sonatrach (Société nationale pour la recherche, la production, le transport, la transformation et la commercialisation des hydrocarbures) ed ex amministratore delegato di NEAL, la filiale congiunta di Sonelgaz (Société nationale de l’électricité et du gaz) e Sonatrach, ha dichiarato: “Tutti gli esperti seri sanno che le nostre riserve garantiscono meno di vent’anni di consumo al ritmo attuale di sfruttamento (…). … Se teniamo conto dello sviluppo del consumo interno al ritmo attuale, per fare un esempio, Sonelgaz avrà bisogno di 85 miliardi di metri cubi di gas nel 2030 solo per la produzione di elettricità”. All’epoca, Tewfik Hasni basava la sua stima sul consumo interno, che aumenta del 7% all’anno, il che significa che l’Algeria avrà meno gas da immettere sul mercato. Il 1° giugno 2014, l’allora primo ministro algerino, Abdelmalek Sellal, ha rilasciato una dichiarazione sensazionale all’Assemblea Nazionale del Popolo (APN), in cui ha cercato di sensibilizzare i parlamentari sull’imminente tragedia: “Entro il 2030, l’Algeria non sarà più in grado di esportare idrocarburi, se non in piccole quantità (…). Entro il 2030, le nostre riserve copriranno solo il nostro fabbisogno interno”. Quanto al gas di scisto, non può essere la soluzione: sebbene l’Algeria disponga di enormi riserve in questo settore, per produrre un miliardo di metri cubi di gas (MBTu o Million British Thermal Unit) occorre un milione di metri cubi di acqua dolce. Eppure, come tutti i Paesi del Maghreb, l’Algeria è crudelmente a corto di acqua… e ne avrà sempre più bisogno a causa dell’aumento della popolazione e dei cambiamenti climatici. Per l’Algeria, non riuscendo a rilanciare la produzione di gas, l’urgenza è di farlo durare il più a lungo possibile, e quindi di razionalizzarne l’uso. Tuttavia, per preservare la pace sociale, il governo mantiene artificialmente basse le tariffe, il che significa che una parte considerevole e crescente delle risorse di gas viene destinata al consumo domestico piuttosto che alle esportazioni che generano valuta estera. Come scrivono Jean-Louis Levet e Paul Tolia, la “malattia algerina” è davvero radicata…

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La questione del Sahel, di Bernard Lugan

La questione del Sahel è visibile nella fragilità dei suoi Stati, nell’azione del jihadismo e nell’onnipresenza della criminalità. Le chiavi di lettura della questione del Sahel possono essere raggruppate intorno a dieci questioni principali:
1) Come area di contatto e di transizione, ma anche come frattura razziale tra l’Africa “bianca” e “nera”, il Sahel riunisce la civiltà meridionale dei granai, o Bilad el-Sudan (la terra dei neri), e la civiltà nomade del nord, Bilad el-Beidan (la terra dei bianchi).
2) Ambiente naturalmente aperto, il Sahel è oggi diviso da confini artificiali, vere e proprie trappole per le persone, il cui tracciato non tiene conto delle grandi zone di transumanza attorno alle quali si è scritta la sua storia.
3) La vastità del Sahel è il dominio del lungo periodo, in cui l’affermazione di una costanza islamica radicale è soprattutto l’alibi per l’espansionismo di alcuni popoli (berberi almoravidi nell’XI secolo, peul nel XVIII e XIX secolo).
4) A partire dal X secolo, e per oltre mezzo millennio, dal fiume Senegal al lago Ciad si sono succeduti regni e imperi (Ghana, Mali e Songhay) che hanno controllato le rotte meridionali del commercio trans-sahariano. Il commercio odierno si basa su queste grandi rotte.
5) A partire dal XVII secolo, le popolazioni sedentarie furono prese nella tenaglia predatoria dei Tuareg a nord e dei Peul a sud.
6) Alla fine del XIX secolo, la conquista coloniale bloccò l’espansione di queste entità nomadi e offrì la pace alle popolazioni sedentarie.
7) La colonizzazione ha certamente liberato i meridionali dalla predazione del nord, ma allo stesso tempo ha riunito razziatori e razziati entro i confini amministrativi dell’AOF (Africa Occidentale Francese).
8) Con l’indipendenza, i confini amministrativi interni dell’AOF divennero confini statali all’interno dei quali, essendo i più numerosi, i meridionali prevalsero sui settentrionali secondo le leggi dell’etnomatematica elettorale.
9) La conseguenza di questa situazione fu che in Mali, Niger e Ciad, a partire dagli anni ’60, i Tuareg e i Toubou che rifiutavano di essere sottomessi dai loro ex affluenti meridionali si sollevarono.10) I trafficanti fiorirono allora in tutto il Sahel.
Poi, a partire dagli anni Duemila, gli islamojihadisti si sono opportunisticamente intromessi nel gioco politico locale, facendo sì che la ferita etnico-razziale, aperta dalla notte dei tempi, si incancrenisse. Una ferita tanto più difficile da rimarginare se si considera che la regione è una terra in palio per le sue materie prime e il suo ruolo di snodo per numerosi traffici, con l’esplosione demografica suicida sullo sfondo.

RIFLESSIONI SULLA QUESTIONE DEL SAHEL

Il conflitto che attualmente sta coinvolgendo Mali, Burkina Faso e Niger è scoppiato nel gennaio 2012 nel nord del Mali, quando i combattenti tuareg hanno messo in fuga le forze armate maliane. All’epoca, stavamo assistendo alla chiara rinascita di un conflitto secolare tra Tuareg e sedentari del Sud, ma i “decisori” francesi commisero un grave errore di analisi. Non hanno capito – o si sono rifiutati di farlo – che l’islamismo non era altro che una copertura per le continue rivendicazioni dei Tuareg fin dall’indipendenza del Paese, e che non era altro che la superinfezione di una piaga etno-razziale millenaria. Accantonata l’operazione Serval, con la partenza dal Mali delle forze francesi e poi di quelle dell’ONU, il vero problema maliano è riapparso alla luce del sole. E non è l’islamismo, ma l’irredentismo tuareg. Lo scorso 12 settembre le forze armate maliane hanno subito un attacco mortale a Bourem, proprio il luogo in cui, nel gennaio 2012, è iniziata la guerra in Mali e che ha mandato in fiamme l’intera regione. Quanto a Timbuctù, all’inizio di ottobre era praticamente circondata, ma da allora si è assistito a un’inversione di tendenza, con una sorta di tregua tra i gruppi dello Stato Islamico e le Forze armate maliane che, sostenute da Wagner, sono riuscite a liberare Timbuctù prima di prendere la città di Kidal, la “capitale” tuareg. Le implicazioni di queste operazioni sono chiare: per lo Stato Islamico, il cui nemico prioritario è l’alleanza Tuareg-Al Qaeda, i suoi leader sembrano aver scelto di lasciare che l’esercito maliano e i Tuareg si affrontino in una battaglia che li esaurirà entrambi… prima di lanciare una grande offensiva in un secondo momento.

I TUAREG SCOMPARIRANNO?

Con la progressiva riduzione del loro territorio, i Tuareg sono minacciati di estinzione dal suicidio demografico sahelo-sahariano, poiché la loro terra d’origine viene gradualmente colonizzata da migranti provenienti da tutto il Sahel. Il risultato è una crisi sociale che non offre prospettive ai giovani inattivi. Senza futuro se non nel traffico di ogni genere, i giovani tuareg vengono lentamente, e per certi versi inesorabilmente, emarginati.

All’inizio del XX secolo, la vastità del Sahel-Sahara era abitata da quasi 2.500.000 persone suddivise in diversi gruppi etnici, alcuni nomadi, altri sedentari, distinti per lingua: a nord vivevano i Berberi (Sanhaja, Touareg, Mozabiti), i Mori (Arabi-Berberi), gli Arabi (Chaamba, Kunta), i Toubou e gli Zaghawa. Nel sud c’erano molti popoli, alcuni nomadi come i Peul, altri prevalentemente sedentari. Oggi i Tuareg costituiscono solo una minoranza tra i gruppi etnici del nord. Stimati in circa un milione e mezzo, si trovano nel sud dell’Algeria, intorno al Tassilin’Ajjer e alle città di In Salah, Djanet e Tamanrasset, nel nord del Mali e in Niger, intorno a Bilma e Agadez. L’esplosione demografica fa sì che entro il 2040 la popolazione del Sahel sarà raddoppiata, raggiungendo i 150 milioni. Le regioni tuareg settentrionali del Mali hanno visto la loro popolazione crescere del 72% dal 1987, con una media annua del 3,6%, e addirittura dell’80% a Kidal e Timbuctù in soli quattro anni, dal 2005 al 2009. In Niger, Paese con il più alto tasso di fertilità al mondo (7,1 figli per donna), il tasso di crescita annuale è stato di circa il 3% negli ultimi dieci anni e la regione sahariana di Agadez (Arlit, Bilma, Tchirozérine) ha accolto non meno di 70.000 nuovi arrivi tra il 2008 e il 2011. In Ciad, Abéché supera oggi i 200.000 abitanti, grazie soprattutto a un tasso di natalità che si avvicina al 45‰ e a una popolazione molto giovane (il 46% ha meno di 15 anni). La crescita demografica e l’urbanizzazione hanno un’influenza diretta sulle popolazioni locali, sempre più emarginate numericamente: nelle regioni di Gao e Timbuctù i touareg, che costituivano un terzo della popolazione all’epoca dell’ultimo censimento coloniale del 1950, sono oggi meno del 20%.
Questo declino, dovuto essenzialmente alla migrazione, può essere spiegato anche da un tasso di natalità inferiore a quello di altri gruppi etnici, da un aumento dei matrimoni esogami e da una significativa migrazione verso il Nord e il Golfo di Guinea. Tuttavia, questo declino è essenzialmente il risultato di nuove popolazioni provenienti dal nord (arabi del Maghreb) e dal sud (bambara, zerma) che si sono insediate nelle terre dei tuareg, sia come migranti che come lavoratori attratti da aziende straniere. La rete urbana è quindi cambiata nell’arco di un decennio. Più grandi e più numerose, le città della regione del Sahel-Sahara sono anche più varie e, accanto alle vecchie città crocevia come Timbuctù, Mourzouk e N’Djamena, stanno emergendo nuove città come Faya-Largeau, Dirkou, Arlit e Taoudéni, oltre a città di medie dimensioni (Djanet, Ghat, Ain Guezzam e Zouar) che fungono da punti di sosta sulle rotte trans-sahariane, ma anche da alternative alle grandi città incapaci di offrire un futuro ai migranti. In Mali, diverse città, come Koro e Tonka, che non esistevano nel 2005, hanno ora più di 50.000 abitanti. Questo fenomeno sta interessando anche il Nord. In Libia, ad esempio, la popolazione del Fezzan è cresciuta a un tasso annuo superiore al 10% dal 1984, mentre quella delle wilaya del sud della Tunisia (Médenine, Tataouine, Kébili e Tozeur) è aumentata dell’80% dal 2004. In Algeria, la popolazione della sola wilaya di Adrar è aumentata del 39% dal 1998.

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In Niger, signor Presidente della Repubblica, non è Trafalgar, ma Fachoda più la Berezina. Ancora una volta, complimenti a chi vi consiglia!_di Bernard Lugan

Devo ammettere un errore. Nel mio comunicato stampa del 15 agosto sul fiasco dell’Eliseo in Niger, ho scritto “oggi Trafalgar, domani Fachoda”. La realtà è diversa: in realtà è “Fachoda più Berezina”.

Fachoda appunto, perché i nostri ottimi alleati e fedeli amici laici, gli Stati Uniti, si sono ancora una volta totalmente dissociati dalla Francia. E, come sempre in questi casi con i nostri affidabili e infallibili partner anglosassoni, questi ultimi hanno “giocato d’anticipo”. Hanno negoziato alle spalle di Parigi con la giunta nigerina per mantenere la loro base ad Agadès! Di conseguenza, noi siamo stati sputati quando ce ne siamo andati, ma loro sono rimasti con i loro dollari!

È una Berezina anche perché l’arroganza, la compiacenza, l’ingenuità e soprattutto l’incompetenza dei ballerini di tip tap che consigliano l’Eliseo hanno messo il contingente francese in Niger in una situazione tale che il ritiro assumerà automaticamente la forma di una ritirata. Ora, essendo il Niger un Paese senza sbocco sul mare, ci sono due possibili opzioni, che di fatto equivalgono a una nuova Bérézina… ma senza il Corpo dei Pontonniers… :

1) Verso il Ciad. Questo comporterebbe lunghi e pesanti convogli che attraversano tutto il Niger sotto l’attacco di civili spinti sui nostri convogli per costringere le nostre forze ad aprire il fuoco, con tutte le conseguenze mediatiche che possiamo immaginare… A meno che, naturalmente, non paghiamo alla giunta un riscatto molto alto… Per non parlare del fatto che il Ciad è un vicolo cieco dove, inoltre, si pongono gli stessi problemi di base del Niger e del Mali… e poi, quando questo Paese esploderà, perché prima o poi esploderà, dove evacueranno le nostre forze? Una mappa è istruttiva a questo proposito…

2) Verso il Benin e il mare. Fortunatamente il Benin ha un confine di 266 chilometri con il Niger, una distanza relativamente breve dalle nostre basi nella regione di Niamey. Ma Cotonou dovrebbe comunque acconsentire al transito, cosa che probabilmente avverrà, ancora una volta in cambio di “denaro contante” e vari altri vantaggi…

In ogni caso, il prestigio della Francia non esiste più, quindi bisognerà pensare a ridefinire una politica africana, tema che sarà al centro del numero di ottobre de L’Afrique Réelle, che gli abbonati riceveranno il 1° ottobre.

Ma per il momento la realtà impone che i nostri futuri orientamenti strategici in Africa prevedano un ritiro dal Sahel, dove ci sono solo assi nella manica – e dove la Francia non ha interessi, come dimostra lo stesso numero di ottobre de L’Afrique Réelle – e un ritorno alla tradizione marittima del XVIII secolo, cioè facendo delle coste le nostre basi d’azione.
E, soprattutto, facendo scoprire a chi non ha ancora “bruciato le ali” le sottigliezze politiche, economiche, etniche e demografiche dell’interno di un continente che Stanley ha definito “misterioso”…

Mali, si torna al punto di partenza…, di Bernard Lugan

Il punto di partenza dell’attuale guerra in Mali, Burkina Faso e Niger non è l’islamismo, ma l’irredentismo tuareg. Il conflitto è scoppiato nel gennaio 2012 nel nord del Mali, quando i combattenti tuareg hanno messo in fuga le forze armate maliane. Gli insorti hanno dichiarato di essere membri del MNLA (Mouvement national de libération de l’Azawad), fondato nell’ottobre 2011, due anni dopo la fine della quarta guerra tuareg. L’MNLA riuniva diversi movimenti tuareg e la sua spina dorsale era costituita da membri della tribù Ifora che avevano servito nell’esercito del colonnello Gheddafi.

Con l’MNLA, oltre al riemergere di un conflitto secolare tra Tuareg e sedentari del Sud, si stava formulando una nuova forma di rivendicazione. Durante le quattro guerre precedenti, i Tuareg avevano lottato per ottenere maggiore giustizia dallo Stato maliano guidato dal Sud. Nel gennaio 2012, chiedevano qualcosa di molto diverso, ovvero la divisione del Mali e la creazione di uno Stato tuareg, l’Azawad.

Tuttavia, per le classiche e più che consuete ragioni di rivalità tra sottoclan tuareg, Iyad Ag Ghali, anch’egli Ifora e leader delle precedenti rivolte, era stato tenuto fuori dalla fondazione dell’MNLA. Non potendo accettare questa situazione, ha dato vita a un movimento rivale i cui obiettivi etno-nazionali erano gli stessi dell’MNLA. Ma, per poter esistere, lo ha dichiarato islamista. All’inizio di gennaio 2013, Iyad Ag Ghali ha superato l’MNLA lanciando un’offensiva a sud, verso Mopti e poi Bamako. L’8 gennaio 2013 è stata presa la città di Konna e l’11 gennaio 2013 diverse colonne dirette a sud sono state “trattate” dagli elicotteri francesi. Il regime del sud a Bamako è stato quindi salvato da una sconfitta prevista, cosa che i membri dell’attuale giunta hanno ben dimenticato…

Da quel momento in poi, l’analisi francese era sbagliata. I “decisori” francesi non hanno visto – o si sono rifiutati di vedere – che l’islamismo non era altro che una copertura per le rivendicazioni dei tuareg, che in un certo senso non era altro che la superinfezione di una ferita etno-razziale millenaria. Questo significava che per l’Eliseo Iyad Ag Ghali era il nemico, mentre in realtà era la soluzione del problema e bisognava parlare con lui… Negli anni successivi, la Francia si è rifiutata di comprendere questa realtà, con il presidente Macron che ha persino ordinato l’eliminazione di Iyad ag Ghali, cosa che quest’ultimo non ha dimenticato…

Ora, con la partenza delle forze francesi e dell’ONU dal Mali, il vero problema, il cuore della questione, è riapparso alla luce del sole: non si tratta di islamismo, ma di irredentismo tuareg. Vorrei chiarire questo punto a coloro che si compiacciono di distorcere le mie parole: sto parlando solo del nord del Mali, non della regione transfrontaliera, dove la situazione è diversa perché l’islamismo e il problema dei Fulani sono sovrapposti o intrecciati.

Come scrivo da anni, e come ben sanno gli abbonati a L’Afrique Réelle, Iyad Ag Ghali, il leader storico dei combattenti tuareg, ha costantemente cercato di riunire i clan tuareg attorno alla sua leadership. E ci è riuscito! I gruppi armati tuareg si sono riuniti nel CSP-PSD (Quadro Strategico Permanente – Per la Pace, la Sicurezza e lo Sviluppo), di cui fa parte anche la CMA (Coordination des mouvements de l’Azawad), per offrire un fronte comune contro l’esercito maliano che, con l’appoggio finora poco determinante del gruppo Wagner, sta cercando di riconquistare l’Azawad da cui era stato cacciato nel 2012.

Di conseguenza, il 12 settembre, le forze armate maliane hanno subito un attacco mortale a Bourem, proprio il luogo in cui, nel gennaio 2012, è iniziata la guerra che ha incendiato l’intera regione. La città di Timbuctù è praticamente circondata. E poiché questa volta le forze francesi non verranno a salvarli, i meridionali potrebbero presto pentirsi di aver chiesto la partenza di Barkhane…

La lunga storia è riemersa in modi che sono naturalmente ignorati da coloro che pretendono di definire la politica africana della Francia e che portano la terribile responsabilità dell’umiliazione che il nostro Paese sta attualmente subendo nel Sahel e, più in generale, in tutta l’Africa. Questa lunga storia è raccontata nel mio libro Histoire du Sahel des origines à nos jours (Storia del Sahel dalle origini ai giorni nostri).

https://bernardlugan.blogspot.com/

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Un colpo di stato singolare, di Bernard Lugan

Quello appena avvenuto in Gabon è un colpo di Stato singolare, in cui il cuore del sistema ha spodestato in modo non violento il suo leader, un fantoccio diventato un fastidio per la sua stessa sopravvivenza… Nulla in comune con quanto accaduto in Mali, Burkina Faso o Niger. Qui non c’è jihadismo, né la “mano nascosta” della Russia, né il rifiuto della Francia, ma semplicemente una classica rivoluzione di palazzo. In Niger, la giunta è finanziariamente paralizzata perché non riesce a pagare gli stipendi (vedi pagina 17 di questo numero). Per salvarla, l’ex presidente Issoufou (che ha ispirato il colpo di Stato?) sta usando tutte le sue conoscenze per trovare denaro alla giunta. Una forte delegazione, tra cui il suo stesso figlio, è volata in Guinea Equatoriale per chiedere aiuto nel garantire gli stipendi e i salari di agosto in cambio della concessione di permessi per lo sfruttamento delle risorse naturali del Niger. Anche la situazione della sicurezza del Niger è catastrofica. Senza il supporto aereo, logistico e corazzato francese, le FAN (Forze Armate del Niger) hanno progressivamente abbandonato il terreno ai terroristi, che hanno inflitto loro pesanti perdite (17 morti il 15 agosto e 20 pochi giorni dopo). Temendo un contagio, Nigeria, Benin e Costa d’Avorio hanno adottato una posizione anti-giunta. La Nigeria ha interrotto la fornitura di elettricità al Niger. L’Algeria, da parte sua, è preoccupata e punta sui movimenti tuareg che potrebbero consentirle di creare un cuscinetto con lo Stato Islamico. All’interno della giunta sono sorti dissensi tra il generale Salifou Modi, che sarebbe filo-russo, il generale Barmou, che è l’uomo degli americani – decisi a mantenere la loro base ad Agadès – e il generale Tchiani, “vicino” all’ex presidente Issoufou, il cui ruolo nel golpe sta diventando sempre più chiaro. Inoltre, il leader dei KelAïr Touareg Ghissa Ag Boula, leader storico delle precedenti guerre Touareg, ha lanciato un appello alla rivolta contro la giunta.

I possibili scenari sono ora quattro:

1) Il movimento si esaurisce e muore.

2) Un attacco all’ambasciata o la dispersione di una folla incontrollata sulla BAP (base aerea prevista) francese sarebbe uno scenario simile a quello di Abidjan nel 2005, costringendo le forze francesi a intervenire.

3) Un colpo di Stato all’interno di un colpo di Stato.

4) Un intervento militare dell’Ecowas. Per comprendere i retroscena della questione nigerina, si rimanda al mio libro “Histoire du Sahel des origines à nos jours”.

GABON: UN COLPO DI STATO “FAMILIARE”? Ciò che è appena accaduto in Gabon non ha nulla in comune con quanto accaduto in Mali, Burkina Faso o Niger. Qui non c’è jihadismo, né “mano nascosta” della Russia, né rifiuto della Francia, ma semplicemente una classica rivoluzione di palazzo volta a salvare l’essenziale del regime. Un francofilo, il generale Brice Oligui Nguema, comandante in capo della Guardia presidenziale, ha rovesciato un presidente al quale era molto legato e al quale aveva giurato “fedeltà”[1]. Ora alla guida dello Stato attraverso il CTRI (Comitato per la transizione e il ripristino delle istituzioni), il generale Brice Oligui Nguema è Fang per parte di padre, come dimostra il cognome Nguema, e Teke per parte di madre. I Teke costituiscono il gruppo etnico maggioritario dell’Haut-Ogoué, la cui capitale è Franceville. Ali Bongo è egli stesso Teke. Da parte di madre, il generale Brice Oligui Nguema, cresciuto nell’Haut-Ogoué, è cugino di primo grado di Ali Bongo, che ha appena rovesciato. È essenziale rendersi conto che il colpo di Stato appena avvenuto è il risultato della difficile questione della successione di Ali Bongo. Di fronte a questo problema, i caciques dell’Haut-Ogoué, che costituiscono lo Stato profondo, si sono trovati di fronte a una scelta:

1) lasciare che Ali Bongo, molto indebolito dall’ictus che l’ha colpito nel 2018, svolgesse un terzo mandato presidenziale grazie a elezioni truccate. Un mandato marcio di affari e guerre tra clan che avrebbe finito per favorire l’opposizione. Questa opzione a breve termine, che era solo una tregua, non risolveva il problema alla radice, ovvero che l’opposizione avrebbe probabilmente vinto alla fine, spazzando via il sistema e i suoi beneficiari.

2) Tagliare il nodo gordiano per salvare il regime. Le discussioni sono state vivaci e i clan si sono scontrati. Ali Bongo ha difeso l’opzione di un terzo e ultimo mandato, che non avrebbe portato a termine, per consegnare il potere al figlio Valentin Noureddin Bongo. Alla fine, i sostenitori dell’opzione 1 hanno prevalso. Tuttavia, al momento dello spoglio dei voti per le elezioni presidenziali, fu chiaro che la candidatura di Ali Bongo era stata respinta a larga maggioranza. Da quel momento in poi, con le principali tendenze conosciute per strada e l’opposizione che aveva annunciato la sua vittoria, è apparso chiaro che era impossibile far credere che il Presidente avesse ottenuto la maggioranza dei voti. Durante le 48 ore in cui il Paese ha atteso i risultati, le discussioni si sono accese nel palazzo presidenziale. Il 30 agosto, per uno scherzo del destino, la Presidenza ha annunciato che Ali Bongo era stato eletto con il 64% dei voti. Pochi minuti dopo, giudicando la situazione insostenibile e tenendo conto dello stato di salute di Ali Bongo e delle “irregolarità” nelle elezioni presidenziali, il generale Brice Oligui Nguema ha preso il potere dal palazzo presidenziale. Tuttavia, per evitare di apparire troppo apertamente come il successore “consensuale” di Ali Bongo, ha dovuto mostrare il suo sostegno al popolo “epurando” il sistema dai suoi membri più cospicui. Sono state individuate alcune vittime dell’espiazione, tra cui Sylvia Nedjma Bongo Odimba, ex moglie di Ali Bongo, e suo figlio Valentin Nourddin Bongo. Una situazione che ricorda quella che si verificò in Tunisia nel 1987, quando il generale Ben Ali, sostenuto dalla perizia di sette medici che attestarono la sua incapacità mentale, depose Habib Bourguiba, la cui permanenza al potere rappresentava un rischio per lo Stato profondo.

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Dopo il Mali e il Burkina Faso… oggi il Niger… e domani il Ciad…, di Bernard Lugan

Gli eventi in Niger sono la logica conseguenza della disastrosa politica africana della Francia – da Nicolas Sarkozy a Emmanuel Macron, senza dimenticare François Hollande – e chi l’ha decisa deve finalmente risponderne. Com’è possibile che un conflitto etnico scoppiato nel 2011 nel nord-est del Mali e inizialmente limitato a una sola fazione tuareg si sia trasformato in un’incontrollabile conflagrazione regionale, la cui conseguenza più visibile è l’espulsione della Francia dalla regione del Sahel?

A causa della valanga di errori politici e sociali, e come ho costantemente annunciato dal 2011, il fallimento della Francia nel Sahel era purtroppo una certezza (si veda il mio libro Histoire du Sahel). È stato un fallimento politico mascherato per un certo periodo dai successi delle nostre Forze Armate, al costo del sacrificio di decine di figli migliori della Francia, caduti al posto di disertori africani che hanno preferito venire in Francia per approfittare delle grazie dell'”odiosa” ex potenza coloniale piuttosto che difendere i loro rispettivi Paesi.

Indottrinati dalla loro ideologia, i leader francesi hanno voluto che i diritti dei popoli africani passassero in secondo piano rispetto ai “diritti umani”, alla chimera del “buon governo” o alla nozione surrealista di “convivenza”. Per non parlare delle provocazioni LGBT e delle loro varianti, che in Africa sono viste come un abominio e che sono costate alla Francia la stima e il rispetto degli africani.
Privilegiando le analisi economiche e sociali, accecati dall’imperativo di un impossibile “sviluppo”, i decisori francesi hanno rifiutato la realtà, dimenticando le sagge raccomandazioni fatte nel 1953 dal governatore delle Indie Occidentali francesi: “Meno elezioni e più etnografia, e tutti troveranno qualcosa da amare”.

I “piccoli marchesi” storicamente sprovveduti che si sono laureati a Sciences-Po o all’ENA e pretendono di parlare dell’Africa non hanno capito che alla fine del XIX secolo la colonizzazione, che ha liberato i meridionali dalla predazione del nord, ha riunito dominati e dominanti entro confini amministrativi comuni. Con l’indipendenza, questi confini interni dell’ex AOF sono diventati confini di Stato e le leggi dell’etnomatematica elettorale hanno dato automaticamente il potere ai meridionali perché le loro donne erano state più fertili di quelle dei settentrionali. Così, in Mali, Niger e Ciad, dal 1960 al 1965, i settentrionali che rifiutavano di essere sottomessi dai loro ex affluenti meridionali si sono sollevati. La guerra scoppiata nel 2011 – quindi prima della presenza russa – e che si sta svolgendo sotto i nostri occhi, è una recrudescenza di questo fenomeno.

Di fronte a una realtà che non hanno capito o che si sono rifiutati di vedere, confondendo cause e conseguenze, gli irresponsabili che definiscono la politica africana della Francia hanno naturalmente commesso un errore diagnostico. Hanno parlato di un pericolo islamista quando si trattava chiaramente di una ferita etnico-razziale secolare superinfettata dall’islamismo contemporaneo.
Di conseguenza, la strategia francese si è basata sulla “essenzializzazione” della questione religiosa, etichettando perentoriamente come “jihadista” ogni bandito armato, pistolero e trafficante. Questo è stato un grosso errore, perché nella maggior parte dei casi si trattava di trafficanti che si dichiaravano jihadisti per coprire le loro tracce, e perché è più gratificante affermare di combattere per la maggior gloria del Profeta che per le stecche di sigarette o i carichi di cocaina. Da qui il legame tra traffico e religione, il primo dei quali si svolge nella bolla resa sicura dall’islamismo.
Di fronte a un’accozzaglia di istanze etniche, sociali, mafiose e politiche, opportunamente ammantate da un velo religioso, con diversi gradi di importanza attribuiti a ciascun punto a seconda del momento, la politica francese è stata rigida e incoerente.

In Niger, dove sono in corso diversi conflitti sia a ovest che a sud-est, la situazione è stata ulteriormente complicata dal fatto che il presidente Mohamed Bazoum è arabo. È un membro della tribù libica Ouled Slimane (Awlad Sulayman), che ha ramificazioni in Ciad e nel nord-est del Niger.
Anche in questo caso, un minimo di conoscenza storica avrebbe insegnato ai “ballerini di tip tap” che pretendono di definire la politica africana della Francia che questa potente tribù si è divisa in due negli anni Trenta del XIX secolo, quando il potere ottomano decise di riprendere effettivamente il controllo della Reggenza di Tripoli. Gli Ouled Slimane, una tribù Makhzen fedele ai Karamanli che erano stati rovesciati dai turchi, dissentirono (si veda il mio libro Histoire de la Libye).
Poiché la porta ottomana ebbe la mano pesante nel reprimere la rivolta, parte della tribù emigrò in Ciad e in Niger, dove prese parte al grande movimento di predazione del nord contro i sedentari del sud, che ha lasciato il segno nella nostra memoria collettiva.
In Niger, dove gli Ouled Slimane rappresentano meno dello 0,5% della popolazione e sono considerati stranieri, il fatto che uno di loro abbia raggiunto la presidenza è stato risentito. E, come se non bastasse, gli Ouled Slimane sono visti come amici della Francia da quando, nel 1940-1941, hanno opportunamente seguito la colonna Leclerc nella sua operazione di conquista del Fezzan italiano, operazione iniziata in Ciad e in Niger. Fu in quell’occasione che alcune frazioni degli Ouled Slimane tornarono in Libia, dove da allora si scontrano con i Toubou che occupano i loro antichi territori, abbandonati dopo l’esodo del XIX secolo.

Se la politica africana della Francia avrebbe dovuto essere affidata a uomini in loco che avessero ereditato il “metodo Lyautey” e l’approccio etno-differenzialista dei vecchi “Affari indigeni”, è stata invece gestita da insignificanti e pretenziosi maggiordomi che portano la terribile responsabilità del fallimento della Francia in Africa.
Un fallimento che non si è ancora consumato del tutto, visto che c’è ancora il Ciad, il cui turno arriverà prima o poi… inesorabilmente… E sempre per gli stessi motivi…

Come se non bastasse, invece di mettere in discussione i propri errori, aggiungendo ingenuità a incompetenza, i dirigenti francesi cercano ora di scagionarsi dalle proprie responsabilità indicando la “mano russa” ….. Come se, essendo in guerra con la NATO, la Russia si lasciasse sfuggire l’opportunità che le viene offerta di tuffarsi nell’abisso sbadigliante della nullità francese per aprire un fronte africano sulle spalle di coloro che lo combattono sul fronte europeo… Il discorso del presidente Putin all’ultimo vertice russo-africano di San Pietroburgo è stato molto chiaro su questo punto.

Le carenze dei leader francesi si riflettono nella loro incapacità di reagire alla menzogna sul presunto “saccheggio” delle risorse del Niger. Ci aspetteremmo che i “capponi” che parlano a nome della Francia dicessero chiaramente che la Francia non ha interessi in questo Paese desertico – il Mali, invece, è solo in parte desertico – destinato a soccombere alla sua demografia poligama suicida. Un Niger che, con tutto il rispetto per l’ineffabile Sandrine Rousseau, ha osato affermare che la Francia dipende da lui per l’uranio, quando il Paese rappresenta attualmente, nella migliore delle ipotesi, appena il 10% del fabbisogno francese… e quando è molto più facile ed economico approvvigionarsi altrove nel mondo.
Per non parlare dei giacimenti francesi, il cui sfruttamento è stato vietato per legge dagli ambientalisti…

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L’afrocentrismo tra miti e menzogne, di Bernard Lugan

Il primo uomo era nero. L’antico Egitto era “nero”, Cleopatra aveva la pelle nera.

Tutte le invenzioni primordiali sono state fatte dagli egiziani da persone di colore. La civiltà nera egiziana

civiltà egizia nera è quindi all’origine di tutti gli sviluppi intellettuali e tecnologici, in particolare dell’elettricità prodotta dalle piramidi, che di fatto erano centrali elettriche. I neri Africani hanno scoperto l’America prima di Colombo, sono all’origine della civiltà Maya e hanno imparato la mummificazione dagli Inca… ecc…

Queste sono solo alcune delle sciocchezze che costituiscono il “corpus dottrinale” dell’afrocentrismo. Eredità dei postulati “pittoreschi” e fantasmagorici di Cheick Anta Diop, ha avuto origine in America, in particolare nei campus degli Stati Uniti. Tormentati dall’inferno della loro storia, gli intellettuali afroamericani  inventarono l’afrocentrismo, un miraggio che permise loro di seppellire le loro frustrazioni nel rifugio dell’immaginario.

Con l’afrocentrismo e i suoi derivati, non ci troviamo però di fronte a semplici voli di fantasia prodotti dagli illuminati. Si tratta di un’ideologia coerente nella sua dottrina presentata come un’alternativa alla storia ufficiale  che si ritiene essere lo strumento della dominazione maschile bianca.

Un’ideologia razziale alimentata dal mito di una  “nazione africana la cui grande storia è stata oscurata a causa di una “cospirazione razzista” di cospirazione” dei bianchi-coloniali scienza storica bianco-coloniale.

Oggi, nell’epoca del wokismo e del de colonialismo  (si veda il mio libro Pour répondre aux décoloniaux),

per alcuni intellettuali afroamericani e africani, gli inverosimili postulati dell’afrocentrismo sono diventati

tante verità che prosperano sulla negazione della realtà.

Chi vi aderisce si rifiuta di riconoscere che esiste una differenza di natura tra fatto e mito.

Per gli afrocentristi e i decolonialisti la storia non è una scienza con regole e leggi proprie, metodologia, ma uno strumento dell’imperialismo coloniale bianco, progettato per sminuire i neri per far dimenticare di essere stati  il motore della storia umana.

In risposta alla storia bianca-coloniale, la “storia scritta dagli afrocentristi e dai decoloniali pretende di ristabilire la verità. In realtà, però, non è altro che un tentativo di affermare visioni tali da superare le frustrazioni dei gruppi lacerati dai loro complessi esistenziali.

Nel tentativo di giustificare i propri postulati, afrocentristi e decolonialisti hanno definitivamente rinunciato alla storia scientifica. Qualsiasi critica è vietata  “in quanto razzista” da parte degli afrocentristi. Questo permette loro di porre fine al dibattito, i loro avversari sono immediatamente disarmati e paralizzati da una un’accusa del genere…

Bibliographie du dossier – Carbonell, E et alii (2008) « The first hominin of Europe ». Nature, 452, 465-469. – Froment, A., (1992) « Origines du peuplement de l’Egypte Ancienne : l’apport de l’anthropobiologie ». Archéonil, 2, pp 79-98. – Froment, A., (1994) « Race et Histoire : la recomposition idéologique de l’image des Egyptiens Anciens. » Journal des Africanistes, 64, pp 37-64. – Hrdy, D.R., (1978) « Analysis of Hair Samples of Mummies from Semna-South ». American Journal of Physical Anthropology, n°49, 1978, pp 277-283. – Lazaridis, I et alii (2014) « Ancient human genomes suggest threre ancestral populations for presentday Européans ». Nature, 513, 409-413. – Lieberman, D.E (2007) « New described fossils from Georgia in Eurasia and from Kenya ». Nature, 449, 291-292. – Lucotte, G et Mercier, G., (2003) « Brief Communication : Y- Chromosome Haplotypes in Egypt. ». American Journal of Physical Anthropology, n°121, pp 63-66, 2003. – Lucotte, G ; Aouizérate A et Berriche, S., (2000) « Y-chromosome DNA haplotypes in North African populations. » Human Biology, 72 : 473-480, 2000 – Rabino-Massa, E et Chiarelli, B., (1972) « The Histology of Naturally Dessicated and Mummified Bodies ». Journal of Human Evolution, 1972, 1, pp 259-262. – Shuenemann, V et alii., (2017) « Ancient Egyptian mummy genomes suggest an increase of SubSaharan African ancestry in post-Roman periods ». Nature Communications, 8, 2017, 11 pages. – Taylor, J.H., (1991) Egypt and Nubia. London, British Museum. – Vercoutter, (1976) L’iconographie du Noir dans l’Egypte ancienne, des origines à la XXVe dynastie. In Vercoutter, Leclant, Snowdon, Desanges, « L’image du Noir dans l’art occidental », Fribourg, pp 33- 88. – Vercoutter, J., (1996) « L’image du Noir en Egypte ancienne ». Bulletin de la Société française d’Egyptologie, n° 135, 1996, pp 167-174. – Walker, S., (1997) « Ancient Faces : an exibition of Mummy Portraiture at the British Museum ». Egyptian Archaeology, 10, 1997, pp 19-23. – Wilding, D., (1997) « L’image des Nubiens dans l’art égyptien ». In Soudan, Royaumes sur le Nil, catalogue de l’exposition de l’Institut du Monde Arabe, 1997, pp 144-157.

ALL’ORIGINE DELL’AFROCENTRISMO C’È CHEIK H ANTA DIOP

Cheikh Anta Diop (1929-1986) è il principale ispiratore dell’afrocentrismo e del nazionalismo culturalista nero su base razziale, che afferma il primato creativo della negritudine.

Di nazionalità senegalese, Cheikh Anta Diop era un uomo di biblioteca e un compilatore selettivo, conservando solo gli elementi che confermavano i suoi postulati, tutti rifiutati dagli specialisti di tutte le discipline interessate.

Per Cheikh Anta Diop:

“Il negro non sa che i suoi antenati (…) sono le più antiche guide dell’umanità nel mondo.

Le più antiche guide dell’umanità sulla strada della civiltà; che sono stati loro a creare l’arte, la religione (in particolare il monoteismo), la letteratura, la prima letteratura filosofica, i primi sistemi filosofici, la scrittura, le scienze esatte (fisica, matematica, meccanica, astronomia, calendario…), la medicina, l’architettura, l’agricoltura, l’arte e la cultura.[1], ecc. in un’epoca in un momento in cui il resto del mondo (Asia, Europa: Grecia, Roma…) era immerso nella barbarie”.

(Allarme ai tropici, 196, 48).

Quindi, secondo Diop, i neri hanno la precedenza in tutte le aree della storia umana.

1) Le australopitecine, l’Homo erectus e l’uomo moderno (Homo Sapiens)  erano neri. Grazie all’incrocio – con chi? -poi sono comparsi i bianchi e i gialli.

2) L’Egitto, che era “negro”, fu la madre della civiltà.

La cultura greca gli deve tutto. La civiltà europea da cui scaturisce è quindi un eredità e retaggio. Inoltre, gli antichi greci non erano altro che plagiatori.

I postulati di C.A.Diop furono esposti a partire dal 1952 nel n. 1 de La Voix de l’Afrique, l’organo studentesco dell’RDA (Rassemblement Démocratique Africain), un partito che sosteneva l’indipendenza delle colonie africane dalla Francia. L’articolo, pubblicato nel febbraio 1952 e intitolato “Verso un’ideologia politica africana”, era una sintesi della tesi che avrebbe dovuto difendere alla Sorbona nel 1951, ma che era stata respinta per l’impossibilità di formare una giuria, motivo che nascondeva i suoi colossali “errori” metodologici. Un intero gruppo si attivò immediatamente per trovare un editore e la tesi fu pubblicata in forma di libro nel 1954 con il titolo “Nations nègres et culture”, che Aimé Césaire definì nel suo “Discours sur le colonialisme” come “il libro più audace che un negro abbia mai scritto”. Nel 1960, sotto la pressione degli intellettuali africani di lingua francese, la tesi fu finalmente difesa. Tuttavia, la giuria le assegnò solo una menzione “molto onorevole”, il che significava che era “mediocre”. Un voto così squalificante significava che C.A. Diop non poteva contemplare una carriera universitaria, che poteva essere raggiunta solo con la distinzione “Très Bien avec félicitations du jury”. Tenuto fuori dal mondo accademico senegalese dal presidente Senghor, anch’egli un vero accademico, C.A. Diop è stato nominato professore all’Università di Dakar per decisione politica del presidente Abdou Diouf nel 1981. C.A. Diop ha ripreso i suoi postulati e li ha sviluppati ulteriormente, in particolare in :

– “Nations nègres et Culture: de l’antiquité nègre égyptienne aux problèmes actuels de l’Afrique noire aujourd’hui”, Présence Africaine, Parigi. Présence Africaine, Parigi, 1954 (nuove edizioni nel 1964, 1979 ecc.) – “Les fondements culturels techniques et industriels d’un futur Etat fédéral d’Afrique noire”, Présence Africaine, Parigi, 1960. – Antériorité des civilisations nègres. Mito o verità storica? Présence Africaine, Parigi, 1967. – Civilisation ou Barbarie”, Présence Africaine, Parigi 1981. La critica ai postulati di Diop è iniziata negli anni Sessanta con la potente confutazione di Raymond Mauny, seguita nel 1972 da quella di Marcel d’Hertefelt, professore di antropologia al Museo Reale di Tervuren. Per quest’ultimo: “Le tesi di C.A. Diop ci impongono di decidere una volta per tutte di ignorare ciò che l’archeologia preistorica e protostorica, l’iconografia e la critica storica dei testi antichi ci dicono sulle popolazioni del Vicino Oriente e dell’Egitto, sullo sviluppo e la diffusione dell’agricoltura e della metallurgia e sui rispettivi contributi di queste due culle di civiltà alla scienza e alla scrittura. Va detto subito che generazioni di archeologi, egittologi, sumerologi, indoeuropei, semitologi e persino africanisti sono stati ideologicamente mistificati fino a falsificare la storia culturale, finché C.A. Diop non ha scoperto la verità. Questo è davvero chiedere molto. [2] Per una critica approfondita delle tesi di Diop, vedere :

– En collaboration (2000) Afrocentrismes. L’histoire des Africains entre Egypte et Amérique, Paris. – Fauvelle, F-X., (1996) L’Afrique de Cheikh Anta Diop, histoire et idéologie., Paris. – Froment, A., (1991) « Origine et évolution de l’homme dans la pensée de Cheikh Anta Diop : une analyse critique. ». Cahiers d’Etudes africaines, 121-122, XXXI-1-2, 1991, pp 29-64. – Hertefelt, (d’) M., (1972) Eléments pour une histoire culturelle de l’Afrique. Université du Rwanda. – Lugan, B., (2023) Histoire de l’Egypte des origines à nos jours. Paris. – Mauny, R., (1960) Recension de Nations nègres de C.A.Diop, in Bulletin de l’IFAN. XXII (1960), série B/544-551). Traduction anglaise sous le titre « Nations nègres et culture. A review. In Problems in African History, London, 1968, pp 16-23.

1_[Se ci limitiamo all’agricoltura, gli afrocentristi ignorano che intorno al 5000 a.C., dalle Fiandre al Danubio, si è formata una civiltà contadina europea che utilizzava la trazione animale.
La civiltà contadina europea utilizzava la trazione animale, mentre l’Africa sud-sahariana, l’Africa nera, ha scoperto questa tecnologia solo alla fine del XIX secolo.
L’Africa nera, da parte sua, ha scoperto la trazione animale, così come la ruota, la carrucola e la coltivazione a cavallo… solo con la conquista araba e poi la colonizzazione, cioè quasi un secolo dopo l’arrivo degli arabi.
conquista e la colonizzazione, cioè quasi 6.000 anni dopo… Per quanto riguarda i tre quarti delle piante alimentari consumate
consumati oggi a sud del Sahara (mais, fagioli, manioca, patate dolci, banane, ecc.) sono di origine americana o asiatica…
origine asiatica…

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François Mitterrand e Vladimir Putin: due visioni contrapposte del futuro dell’Africa, di Bernard Lugan

Il 20 giugno 1990, nel suo famoso discorso al 16° vertice franco-africano di La Baule, François Mitterrand dichiarò che era a causa della mancanza di democrazia che il continente non riusciva a “svilupparsi”. Di conseguenza, condizionò gli aiuti francesi all’introduzione di un sistema multipartitico.

Il risultato fu che, in tutta l’Africa francofona, la caduta del sistema monopartitico provocò una cascata di crisi e guerre, poiché il sistema multipartitico esacerbò l’etnismo e il tribalismo, che in precedenza erano stati contenuti e incanalati dal partito unico. Il risultato è stato il trionfo elettorale dei gruppi etnici più numerosi, che più di tre decenni fa ho definito “etno-matematica elettorale”.

Il fallimento è stato totale perché non si è verificato il postulato francese secondo cui le elezioni avrebbero permesso di ottenere un consenso “nazionale” tra le fazioni etno-politiche. In effetti, la democrazia non solo non ha risolto i conflitti africani, ma li ha anche alimentati. Tre esempi:

1) Nel Sahel, essendo in minoranza, i settentrionali, che hanno la garanzia di perdere le elezioni, sono quindi esclusi dal potere attraverso le urne. Per loro, la “soluzione” elettorale è quindi una farsa, poiché non fa che confermare le percentuali etniche a ogni elezione, e quindi la loro subordinazione democratica ai meridionali (si veda il mio libro Histoire du Sahel des origines à nos jours).

2) In Ruanda, dove i tutsi rappresentano il 10% della popolazione e gli hutu il 90%, su pressione della Francia, il presidente hutu Habyarimana fu costretto ad accettare un sistema multipartitico. Tuttavia, questo sistema portò alla luce le profonde divisioni nella società ruandese che esistevano in precedenza all’interno del partito unico. Il risultato fu un’atroce guerra civile seguita dal genocidio del 1994, al termine del quale i tutsi del generale Kagame, che erano ancora solo il 10% della popolazione, si ripresero con la forza delle armi il potere perso attraverso le urne tre decenni prima. In questo caso, la democrazia ha portato al caos, poi al genocidio (si veda il mio libro Rwanda, un genocidio in discussione) e infine alla destabilizzazione dell’intera regione dei Grandi Laghi e del Kivu.

3) In Libia, dopo aver provocato l’anarchia, la Francia, i suoi alleati della NATO e i suoi partner dell’UE hanno preteso di ricostruire il Paese sulla base di una precondizione elettorale. Tuttavia, quest’ultima è inapplicabile perché si scontra frontalmente con il sistema politico-tribale, in quanto le tribù libiche hanno le loro regole interne di funzionamento che non coincidono con la democrazia individualista occidentale basata su “Un uomo, un voto” (si veda il mio libro Histoire de la Libye des origines à nos jours).

La Russia di Vladimir Putin si è schierata esattamente all’opposto del “diktat” democratico di François Mitterrand. A differenza del presidente francese, ritiene che la causa dei blocchi dell’Africa non sia la mancanza di democrazia, ma la sua instabilità politica… Un’instabilità in gran parte causata da questa stessa democrazia…

Oggi sempre più Paesi africani fanno la stessa analisi. Queste sono le ragioni dell’estromissione della Francia, un fenomeno che fa parte del grande cambiamento in atto e che i leader francesi, impantanati nei loro concetti universalistici, non hanno visto arrivare. In Africa, come in molte altre parti del mondo, stiamo assistendo sia alla fine di un ciclo che a un cambio di paradigma.

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Africa, prima la politica_di Bernard Lugan

In Africa, a sud del Sahara, la costruzione degli Stati precoloniali era basata sull’etnicità.
Quando hanno portato a gruppi multietnici, in genere non hanno avuto successo.
Di fatto senza futuro. I controesempi sono rari: l’entità dei Toucouleur e alcuni imperi musulmani nati dalla jihad, esempi che hanno avuto successo.
Imperi musulmani nati dalla jihad, che sono stati in effetti dei parziali “agglomeratori” o “coagulatori” etnici.
Oggi, a sud del Sahara, con le tre eccezioni di Botswana, Lesotho ed Eswatini (ex Swaziland), tutti e tre monoetnici e dove quindi c’è confusione o osmosi tra etnia, nazione e Stato, non esiste un unico gruppo etnico, nazione e Stato, non c’è stata coagulazione etnica da nessuna parte.
L’Etiopia fa eccezione per la sua profondità storica, ma il divario etnico è così profondo che non è stata egualmente in grado di raggiungere lo stesso livello di coesione.
Le divisioni etniche sono così profonde da minacciare permanentemente la sua coesione, come ha appena dimostrato l’ultima guerra in Tigray.
Gli attuali sviluppi politici, che avvengono attraverso un rifiuto sempre più marcato del “modello democratico occidentale”, dimostrano che il futuro è in un sistema in cui la rappresentanza dei gruppi piuttosto che degli individui. Si tratterebbe di una vera e propria rivoluzione culturale perché, in ultima analisi, sono i fondamenti filosofici delle società democratiche “occidentali” a essere messi in discussione.
Ma la sopravvivenza dell’Africa sud-sahariana dipende da questo, e non può più essere messa in discussione. La posta in gioco è la sopravvivenza dell’Africa sud-sahariana, che non può più continuare a determinarsi secondo questi imperativi morali stranieri che la stanno lentamente uccidendo?

IL QUADRUPLICE PROBLEMA POLITICO
DELL’AFRICA

Nel 1968, Georges Balandier scriveva che: “(…) i nuovi Stati africani [hanno] il compito di realizzare rapidamente e allo stesso tempo (rivoluzioni) che la storia aveva scaglionato nel tempo [devono] reintegrarsi in una società che si è organizzata al di fuori di loro […]”. Questa osservazione evidenzia chiaramente i problemi politici che l’Africa indipendente dovette affrontare.

I quattro problemi principali che l’Africa deve affrontare sono:
1) La questione della trasposizione delle istituzioni politiche occidentali che ha causato il caos in Africa.
La ragione di ciò è che in Africa, dove l’autorità non è condivisa, l’autorità non è condivisa; si è proceduto senza alcuna preventiva creazione di contro-poteri con la conseguenza che la modalità di rappresentanza e di associazione al governo dei popoli minoritari li ha condannati dalla matematica elettorale ad essere esclusi dal potere per l’eternità.
2) L’idea di Nazione non è la stessa in Europa e in Africa perché, in un caso, l’ordine sociale si basa sugli individui e nell’altro sui gruppi. Tuttavia, il principio “un uomo, un voto”,
vieta di prendere in considerazione l’unica realtà politica africana, che è la comunità.
3) Gli Stati sono gusci giuridici vuoti che non coincidono con le patrie carnali che sono alla base delle vere radici umane.
4) I confini tracciati dalla colonizzazione sono sconosciuti e spesso incomprensibili. a livello locale. È importante rendersi conto che nell’Africa antica, i territori dei popoli
e che non si usciva dalla propria casa per entrare subito nella casa del vicino.
Tra i nuclei nucleari territoriali esistevano vere e proprie “zone cuscinetto”, che a volte si spostavano, appartenenti a nessuno dei due. In alcuni casi, questi spazi potevano essere attraversati da entrambe le parti da una parte o dall’altra. Altrove, erano il dominio degli spiriti in cui ci si poteva avventurare solo sacrificando a loro.
Le frontiere hanno anche distrutto, in modo irrimediabile, l’equilibrio interno delle grandi aree di allevamento dove la millenaria transumanza è stata interrotta dalla suddivisione degli spazi.
I confini hanno anche fatto sì che le persone siano state tagliate fuori da queste linee di demarcazione artificiali. Altrove, la colonizzazione ha altrettanto artificialmente riunito un mondo che era stato frammentato in numerose entità etniche, tribali o di altro tipo, addirittura di villaggio, al fine di renderle amministrativamente coerenti, ma che non avevano alcuna vocazione a diventare Stati.
Gli ex colonizzatori erano ben consapevoli di questi quattro
problemi nell’Africa sud-sahariana. Ecco perché, per tre decenni, dal 1960 al 1990, la priorità è stata costruire o rafforzare gli Stati. Poiché bisognava bruciare le tappe, gli Stati africani che erano emersi dalle divisioni coloniali hanno preso la “scorciatoia autoritaria”.
Per questo motivo, di norma, il partito unico si identificava con lo Stato che doveva essere essere creato. I particolarismi etnici erano allora combattuti e persino negati come potenziali fattori di divisione e indebolimento dell’edificio statale emergente.
Questa realtà ha dominato per tutto il periodo della “guerra fredda”, che per l’Africa corrispondeva al periodo della sua indipendenza.
Durante questa sequenza di confronto ideologico, la priorità per entrambi i blocchi è stata quella di mantenere le loro posizioni in Africa e quindi lo status quo politico era ricercato attraverso regimi forti su cui entrambe le parti potevano contare.
Poi, negli anni Novanta, dopo la scomparsa del blocco sovietico e di fronte ai fallimenti dell’Africa in campo politico, economico e sociale, la questione del potere è stata sollevata.
Nel 1990, in occasione della Conferenza franco-africana di La Baule, il presidente François Mitterrand affermò che l’Africa indipendente era fallita per mancanza di democrazia, e condizionò l’aiuto francese all’introduzione di un sistema multipartitico.
Il continente è stato quindi sottoposto a un vero e proprio “diktat democratico” che ha portato alla caduta del sistema o alla sua ridefinizione e, di conseguenza, all’indebolimento degli Stati che erano stati costruiti con tanta fatica.
Il risultato è stato che in tutta l’Africa francofona il crollo del sistema monopartitico ha portato a una cascata di crisi e guerre, con il multipartitismo che ha aggravato la situazione. Il sistema multipartitico ha esacerbato l’etnismo e il tribalismo che erano stati contenuti e incanalati dal partito unico.
partito. Il risultato è stato il trionfo dell’etnomatematica elettorale, con la vittoria delle etnie più numerose sulle meno numerose.
Il principale problema politico che l’Africa sud-sahariana deve affrontare è in definitiva chiaro. A non lasciare che le forze motrici della storia africana, non riuscendo a ritrovare il dinamismo perso con la colonizzazione.
Si tratta di trovare un modo istituzionale per permettere la convivenza etnica in modo che i popoli più numerosi non siano automaticamente i detentori di un potere matematico scaturito dalle urne.
La soluzione potrebbe quindi essere cercata in un sistema in cui la rappresentanza vada ai gruppi e non più ai singoli. Ma perché ciò avvenga, sarebbe importante ripudiare il sistema occidentale basato sul principio democratico di “un uomo, un voto”.

LE RAGIONI DEL FALLIMENTO DI SETTE
DECENNI DI “SVILUPPO

Più di settant’anni di politica di “sviluppo” si sono tradotti in un totale fallimento in Africa per tre ragioni principali; tutte e tre legate alla proiezione di ideologie “occidentali” su un corpo sociale che è antropologicamente impossibilitato ad assorbirle”.
Le tre ragioni principali sono
1) Il primato dato all’economia.
In tutti i modelli proposti o, più precisamente, imposti all’Africa sud-sahariana, l’economia è sempre stata messa in primo piano. Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale, con l’obiettivo di integrare l’Africa nell’economia globale, hanno cercato di costringere i paesi africani alla deregolamentazione, alla privatizzazione e alla liberalizzazione.
I veri problemi del continente non sono fondamentalmente economici, ma politici, istituzionali e sociologici. Il primo errore di questo mezzo secolo perduto è quindi quello di avere sempre dato la priorità all’economia, come hanno fatto e continuano a fare tutti i progetti di sviluppo, mentre ci troviamo prima di tutto di fronte a un evidente problema politico.
2) Il rifiuto di prendere in considerazione la nozione di differenza.
Le nostre definizioni universalistiche ci impediscono, anzi ci vietano, di vedere l’evidenza della differenza. Gli africani non sono poveri europei dalla pelle scura. Ed è perché il corpo sociale africano non è quello dell’Europa o dell’Asia, che l’innesto non è avvenuto.
Come se un giardiniere che insiste nell’innestare un albero di prugne su una palma si stupisce che nonostante le montagne di fertilizzante versate su di esso, la sua operazione non riesca.
Le ricette utilizzate in Asia e altrove hanno fallito in Africa semplicemente perché abbiamo un caso comprovato di incompatibilità delle colture. Quindi non è continuando ad affogare gli africani negli aiuti e nei sussidi che alla fine finiranno per assomigliare agli europei, agli asiatici o agli americani.
3) Il presupposto democratico.
Durante gli anni Novanta si è ipotizzato che lo sviluppo fosse fallito a causa della mancanza di democrazia.
Di conseguenza l’Africa è stata sottoposta a un vero e proprio “diktat democratico”.
Il risultato è stata la matematica elettorale, con il potere automaticamente assegnato
ai gruppi etnici più numerosi, che ho definito etno-matematica.
In Africa, dove la questione preliminare non è economica ma politica, gli esperimenti costituzionali importati sono quindi falliti. Non sono al passo con le realtà continentali, non permettono ovviamente ai diversi gruppi etnici che compongono gli Stati risultanti dalle divisioni coloniali di convivere in un’armonia sociale che integri le nozioni contraddittorie di unità di destino e di rispetto delle differenze.
Infatti, in Africa, l’autorità non è condivisa e l’idea di contropotere è sconosciuta.
In queste condizioni, gli Stati emersi dalla decolonizzazione non sono stati in grado di inventare uno strumento di rappresentazione o di associazione dei popoli minoritari.
Tolti dal potere, questi ultimi non hanno altra scelta che sottomettersi o ribellarsi.
Tra sottomissione o rivolta, nozioni che non sono molto portatrici del potenziale di fusione nazionale.
È per questo che i giovani Stati africani non sono stati in grado di trasformarsi in nazioni come avevano postulato gli ex colonizzatori.
Il fallimento era stato addirittura previsto e come avrebbe potuto essere altrimenti?
Costruiti entro confini artificiali che imprigionano popoli diversi senza un passato comune,
questi Stati non sono altro che gusci giuridici vuoti che non coincidono con le patrie carnali
che sono il fondamento delle vere radici. Inoltre, l’idea di nazione non è una realtà.
L’idea di Nazione non è la stessa in Europa e in Africa, poiché in un caso l’ordine sociale è basato sugli individui e nell’altro sui gruppi.

Tuttavia, il principio europeo-americano di “un uomo, un voto”, vieta precisamente di prendere in considerazione la grande realtà politica africana costituita da gruppi (etnie, tribù, clan o stirpi).
La soluzione non è ovviamente economica e non comporta un nuovo e inutile aumento degli aiuti. Non è nemmeno sociale o sanitaria, perché l’auspicabile miglioramento delle condizioni di vita non affronta le cause del disastro.

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