DEMOCRAZIA, UN TRAUMATISMO PER L’AFRICA?_Bernard Lugan

   Nell’Africa tradizionale il potere non si esercitava come in Europa. Non si basava sulla somma dei voti individuali; lo Stato, nel senso europeo del termine, non esisteva e la vita politica non era regolata da Costituzioni. È quindi facile capire perché l’introduzione della democrazia occidentale abbia causato un vero e proprio trauma
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Nei Paesi dell’emisfero settentrionale, dove le società sono individualiste, le basi costituzionali poggiano su programmi politici che trascendono le differenze culturali, sociali o regionali, con l’aggiunta del voto individuale che fonda la legittimità politica. Questa nozione è estranea all’Africa sud-sahariana, dove le società sono comunitarie, gerarchiche, solidali e territorializzate. In un caso, l’ordine sociale è basato sugli individui, nell’altro sui gruppi. Ecco perché la forma occidentale di democrazia non è compatibile con l’ordine sociale africano. Universalismo contro radicamento Il sistema politico tradizionale africano è per definizione “forte” perché ignora la separazione dei poteri. Poiché il capo deteneva sia l’auctoritas che la potestas, se cessava di possedere l’una o l’altra, scompariva. Avendo perso la sua autorità, si riteneva che avesse tradito gli antenati, il che portava sfortuna a tutta la comunità. I sostenitori dell’universalismo democratico non riescono a capire che il capo che deteneva il potere era l’intermediario tra i vivi e gli antenati. Le forze degli antenati aleggiavano costantemente intorno e all’interno della comunità, ricordando ai suoi membri l’obbligo di rimanere fedeli alle usanze e alle tradizioni. L’innovazione era quindi, in un certo senso, un tradimento della tradizione e i vivi erano condannati alla fedeltà alle antiche leggi che il capo era incaricato di far rispettare. Ora, in nome del nostro universalismo, che si ritiene applicabile a tutte le società umane, abbiamo provocato un trauma. Che ci piaccia o no, gli africani sono diversi dagli europei per diversi aspetti essenziali, come ha giustamente sottolineato il sociologo congolese Mwayila Tshiyembe:
Ogni africano porta in sé i principi che animano gli dei e il mondo: ordine e disordine, bene e male, giustizia e ingiustizia. Dopo la sua morte, gli elementi di cui è composto si combineranno in altri modi, ed egli è già un altro essere in divenire, così come l’albero è l’albero di oggi, il fuoco di domani, il tamburo di comando o la statuetta divinatoria (…) nelle religioni abramitiche (…) Dio trae dal nulla tutti gli elementi della Creazione e li sottopone alla sua Legge (il mito della Genesi). Nelle cosmogonie africane, invece, differenziazione e coerenza della creazione vanno di pari passo: le differenze creano solidarietà, perché la divisione sociale è concepita in termini di complementarietà. Fabbri, cacciatori, guerrieri e griot vivono gli uni attraverso gli altri”. Tutto è detto in queste righe, edificanti e realistiche al tempo stesso, che da sole dimostrano come le nostre definizioni filosofiche e politiche europee non ci permettano di comprendere la natura profonda degli africani. E questo semplicemente perché, come diceva il maresciallo Lyautey, l’uomo africano è “diverso” dall’uomo europeo. Ed è “diverso” in tre modi essenziali che fanno la differenza con la nostra filosofia universalista e individualista: 1) L’uomo africano è prima di tutto un membro di un gruppo al quale è indissolubilmente legato da una complessa rete di solidarietà e dipendenze. L’abisso che li separa dagli americani o dagli europei è quindi incolmabile, perché l’estremo individualismo di questi ultimi porta a un modo completamente diverso di percepire l’ambiente, di collocarsi al suo interno e quindi di vivere in società. 2) Gli africani cercano di conciliare le forze ostili che li circondano, in particolare attraverso rituali e danze. Le maschere che generalmente fungono da intermediarie tra l’uomo e queste forze riflettono l’armonia del mondo: spesso inquietanti e smorfiose nel caso dei popoli della foresta, schiacciati dal loro ambiente silvestre, più sorridenti e perfino sfrontate nel caso dei popoli della savana. In breve, l’uomo africano è prigioniero delle forze dell’aldilà, sulle quali non ha alcun controllo. 3) L’uomo africano fa parte di una lunga catena che lo lega ai suoi antenati, che sono intorno a lui. Per rimanere fedele a loro, deve evitare di tradire l’usanza. Se dovesse trasgredire questa legge, tutto il gruppo ne soffrirebbe, perché gli antenati si aggirerebbero tra i vivi per rimproverarli del loro tradimento. È quindi facile capire perché i tentativi di conciliare la visione politica individualista europea con una filosofia di gruppo africana, per di più basata sull’immutabilità, non possano che fallire. Per quanto riguarda la religione cristiana, è solo ai margini che essa permette di andare oltre queste definizioni, perché, anche in questo caso, la differenza di concezione religiosa tra l’uomo europeo e l’uomo africano è profonda: – la civiltà occidentale si basa sia sull’auto-miglioramento che sull’auto-esame individuale, a volte sulla santità che, nella religione cristiana, può assumere la forma esteriore della castità, della povertà e dell’umiltà, concetti insoliti e persino traumatici per le società africane che venerano il forte. È per questo che le celebrazioni cristiane africane, forti, vivaci e colorate, trovano nei riti collettivi un sostituto all’incomprensione di una religione che propone la ricerca della salvezza individuale. In Africa, il cattolicesimo è in costante ritardo rispetto alle chiese evangeliche perché ha abbandonato il rito e la sua pompa per l’introspezione e la miseria individuale. Più di mezzo secolo fa, Georges Balandier scriveva a questo proposito: “Le nostre chiese privilegiano la vita interiore e la regola morale rispetto all’esaltazione che porta alla soglia della perdita di coscienza. Esse appaiono fredde, vuote di presenza soprannaturale, poco propizie alla comunione appassionata”
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Nel pensiero degli abitanti del villaggio, tutti i missionari sono un impedimento alla danza per la gioia completa dell’uomo e la gloria degli dei”. Trauma da Stato Rinchiusi in Stati indipendenti, gli africani hanno subito due traumi dopo l’indipendenza. Il primo deriva dal fatto che per tre decenni, dal 1960 al 1990, la priorità politica è stata la costituzione di Stati che non erano mai esistiti a sud del Sahara, con la possibile eccezione di Etiopia e Ruanda. A tal fine, gli Stati africani multietnici nati dalle divisioni coloniali sono stati governati dal sistema a partito unico, che si è identificato con lo Stato diventando il partito-Stato. Le particolarità etniche all’interno delle quali si esercitava il potere tradizionale sono state quindi combattute come divisive. Il secondo è arrivato quando, non potendo più negare o nascondere il colossale fallimento dell’Africa indipendente, il 20 giugno 1990, in occasione della Conferenza franco-africana di La Baule, il Presidente François Mitterrand ha dichiarato che l’Africa era fallita per mancanza di democrazia. Si trattava di un totale fraintendimento da parte del Presidente, perché nessuno Stato al mondo è stato creato dalla democrazia, a partire dagli Stati nazionali europei. In Africa, il problema è che gli Stati post-coloniali costruiti entro confini artificiali sono gusci giuridici vuoti. Poiché non coincidono con le patrie carnali che costituiscono la base delle vere radici, si è verificato un divorzio tra la nazione di carne, il gruppo etnico, e la nazione giuridica importata, lo Stato. In queste condizioni, le pratiche del potere non sono definite come in Europa. Inoltre, come dimostro costantemente nei miei libri, la democrazia “un uomo, un voto” trasposta in Africa dà matematicamente il potere ai popoli, ai gruppi etnici o alle tribù che hanno il maggior numero di elettori. Quella che ho definito “etnomatematica elettorale”, un sistema in cui i popoli più prolifici sono automaticamente i detentori del potere derivato dalla somma dei voti… Da qui la maggior parte delle crisi africane.
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L’uomo è responsabile dei cicli climatici alternativi in Africa da 60.000 anni a questa parte?_di Bernard Lugan

L’Africa si sta riscaldando, è un fatto oggettivo e innegabile, ma non è la prima volta. L’attuale episodio di riscaldamento, che è chiaramente dimostrato, è iniziato 5000 anni fa e fa parte di un’alternanza di cicli che coprono un periodo di 60.000 anni.
La recente cronologia climatica africana mostra che 60.000 anni fa è iniziato un periodo freddo e arido a nord dell’equatore, con un picco tra 18.000 e 15.000 anni fa (Leroux, 2000). Questo fu il periodo dell’iperarido sahariano. Al culmine della fase di massima aridità, tra 18.000 e 15.000 anni fa, il deserto e le formazioni dunali si estendevano molto a sud. Le foreste erano quasi del tutto scomparse, essendo confinate in aree di rifugio vicino all’equatore, al riparo (in particolare grazie ai rilievi) dai venti forti e secchi provenienti da nord e da sud. L’Africa ha quindi subito un nuovo cambiamento climatico associato a una fase calda e umida, un fenomeno iniziato tra il 10.000 a.C. e il 7.000 a.C., a seconda delle regioni. Durante la fase più umida di questa sequenza, il Sahara, costellato di laghi e paludi, riceveva abbondanti piogge da fonti mediterranee e tropicali. Questo era il dominio degli allevatori. Più a sud, la riconquista della vegetazione portò la foresta a diffondersi nuovamente, superando di gran lunga l’estensione attuale. Seguì una nuova, breve sequenza di aridità, una sorta di breve periodo intermedio tra due fasi umide, della durata di circa un millennio tra il 6000 e il 4500 a.C., a seconda delle regioni. Dal 5000/4500 a.C. al 2500 a.C., seguì un nuovo periodo umido, molto meno pronunciato del precedente. Si tratta del grande periodo pastorale sahariano-saheliano.
Tuttavia, questo periodo umido fu solo una parentesi in un processo di inaridimento continuo che non è cessato fino ad oggi, nonostante le oscillazioni umide costituiscano delle remissioni in un’evoluzione dalla semi-aridità all’aridità assoluta. Tra il 2500 e il 2000-1500 a.C., il Sahara settentrionale conobbe un’accelerazione della siccità, con il risultato che la maggior parte dei gruppi umani se ne andò. È così che le popolazioni nere sembrano aver abbandonato definitivamente le zone del Tassili, dell’Hoggar e dell’Acacus in cui vivevano. Da quel momento in poi, queste regioni sembrano essere state popolate solo da gruppi proto-berberi e dagli antenati degli odierni Harratin, gli ultimi sopravvissuti della precedente popolazione nera. Nella parte meridionale, a partire dal 2000 a.C., gli uomini si ritirarono verso il fiume Niger, Più a sud, la savana, che durante il precedente periodo climatico si era spostata verso nord e aveva quindi colonizzato la parte meridionale del Sahara, si ritirò per rioccupare la “sua” zona precedente. Ancora più a sud, nella zona della foresta, a partire dal 1500 a.C., iniziò ad affermarsi il clima attuale. Intorno al 1000 a.C., e fino a circa l’800 a.C., un nuovo cambiamento climatico permise un breve e limitato ritorno delle piogge. Seguì un’accelerazione dell’aridità all’interno di un ciclo che iniziò, come abbiamo visto, circa cinque millenni fa e continua tuttora, intervallato da remissioni e siccità.
Nel periodo moderno, i principali picchi di aridità di cui siamo a conoscenza si sono verificati nel XVII secolo, con punte massime tra il 1730 e il 1750, mentre il XX secolo ha visto quattro grandi siccità tra il 1909-1913, il 1940-1944, il 1969-1973 e il 1983-1985 (Retaille, 1984; Ozer et alii, 2010; Maley e Vernet, 2013). Poi, durante gli anni Sessanta, un periodo “caldo” e quindi umido, un breve aumento delle precipitazioni ha fatto sì che la zona saheliana si spostasse verso nord, causando l’arretramento del deserto. Nel decennio successivo, e soprattutto a partire dal 1972, le precipitazioni sono nuovamente diminuite e, di conseguenza, il deserto si sta espandendo a scapito del Sahel, che sta nuovamente scivolando verso sud, con isoiete medie che scendono di 100-150 chilometri verso le zone sudanesi.
Questo spiega le più recenti siccità (Carré et alii, 2018), le cui conseguenze sono naturalmente aggravate dalla pressione demografica. Il pascolo eccessivo, la delimitazione, la distruzione delle foreste di tamerici trasformate in legna da ardere per alimentare i forni dei fornai per sfamare una popolazione con una demografia suicida, l’abbandono delle tradizionali rotazioni triennali, tutto questo porta ovviamente all’esaurimento del suolo, un fenomeno che oggi sta accelerando. Ma l’attuale massacro dell’ambiente africano da parte dell’uomo, un fenomeno molto contemporaneo, non è di per sé la causa del riscaldamento dell’Africa, che fa parte di una tendenza a lungo termine indipendente dall’attività umana.
  Bibliographie
– Carré, M et alii., (2018) « Modern drought conditions in Western Sahel unprecedented in the past
1600 years ». En ligne.
– Dalibard, M., (2011) Changements climatologiques en zone intertropicale africaine durant les derniers
165.000 ans. Thèse de paléontologie climatique, Université Claude Bernard, Lyon 1.
– Leroux, M., (1994) « Interprétation météorologique des changements climatiques observés en Afrique
depuis 18 000 ans. ». Geo-Eco-Trop, 1994,16, (1-4), pp. 207-258.
– Leroux, M., (2000) La dynamique du temps et du climat. Paris.
– Lugan, B., (2020) Histoire de l’Afrique des origines à nos jours. Paris.
– Maley, J et Vernet, R., (2013) « Peuples et évolutions climatiques en Afrique nord-tropicale, de la fin
du Néolithique à l’aube de l’époque moderne ». Afriques, débats, méthodes et terrains d’histoire, vol 4.
– Ozer, P et alii., (2010) « Désertification au Sahel : historique et perspectives ». BSGLg, 2010, 54, pp 69-
84.
– Retaille, D., (1984) La sécheresse et les sécheresses au Sahel, L’Information géographique, 1984, 48, pp
137 à 144.
– Tardy, Y et Probst, J-L., (1992) « Sécheresses, crises climatiques et oscillations téléconnectées du climat
depuis cent ans ». Sécheresse, 1992 ; 3 : 25-36.
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Russia e Africa: l’ora delle scelte_di Bernard Lugan

La Russia nella trappola maliana
Oltre a sconvolgere il partner algerino sostenendo la giunta di Bamako nel suo tentativo di mettere alle strette i tuareg maliani, la Russia ha appena scoperto tragicamente la “complessità” della questione del Sahel. Tra giovedì 25 e sabato 27 luglio, nella regione di Tinzawaten, vicino al confine tra Algeria e Mali, una colonna dell’esercito maliano accompagnata da mercenari russi è stata annientata dai combattenti tuareg. Era chiaro che, dopo l’umiliazione della caduta della loro roccaforte di Kidal lo scorso novembre, i combattenti del Quadro Strategico Permanente per la Difesa del Popolo dell’Azawad (CSP-DPA), il nuovo nome della coalizione armata tuareg e moresca, avrebbero contrattaccato. Sebbene sia difficile fornire un bilancio definitivo delle vittime, i video ampiamente diffusi suggeriscono che sono stati uccisi forse una dozzina di russi, tra cui il comandante del settore settentrionale, oltre a diverse decine di soldati maliani. Dopo un arrivo trionfale, reso possibile solo dalla somma degli errori politici della Francia, i russi hanno scelto l’opzione peggiore di tutte: aiutare il Mali meridionale a conquistare il Mali settentrionale, in altre parole, tornare alla situazione esistente prima del 2011, quando è iniziata la guerra. La Russia ha quindi appena scoperto che nel Sahel qualsiasi soluzione approfondita richiede che si tenga conto delle realtà locali… cosa che la Francia si è rifiutata di fare e che spiega il suo fallimento. La radice del problema, la cui genesi spiego nel mio libro Histoire du Sahel des origines à nos jours (Storia del Sahel dalle origini ai giorni nostri), è che insistere sul fatto che i contadini neri sedentari del sud e i berberi nomadi o gli arabi del nord vivano nello stesso Stato è un’utopia che crea tensioni, poiché l’etnomatematica elettorale dà automaticamente il potere ai più numerosi, in questo caso i neri del sud, cosa che i settentrionali non possono accettare. Come nuovo arrivato nella regione, la Russia non ha capito che l’unica via d’uscita dalla crisi è riconoscere una realtà che spiega tutto, ovvero che un Mali “unitario” non è mai esistito – e che quindi è urgente pensare a una nuova organizzazione costituzionale e territoriale. Qualsiasi altro approccio è destinato a fallire, e alla fine porterà alla coagulazione etnica attraverso un califfato islamico regionale… come è successo alla fine del XIX secolo… fino a quando la colonizzazione non ha liberato il popolo…
In Africa, tutto sembra andare a favore della Russia. Giorno dopo giorno, accumula un capitale di simpatia senza promettere sviluppo o democratizzazione, accontentandosi di affermare la propria non ingerenza negli affari interni e il riconoscimento della sovranità degli Stati africani. Dal 2018-2019 le relazioni della Russia con l’intero continente africano si sono intensificate, anche se tre Paesi – Egitto, Libia e Algeria – rappresentano ancora l’80% del fatturato del commercio estero russo con l’Africa. La base del successo della Russia in Africa è la cooperazione militare: Mosca ha firmato accordi di cooperazione tecnico-militare con 40 Stati africani. Il metodo russo è noto: i suoi rappresentanti propongono l’invio della milizia Wagner, ribattezzata Africa Corps, in Paesi in grave crisi di sicurezza, dove il governo centrale non controlla più ampie porzioni di territorio nazionale. È quello che è successo nella RCA e nel Mali, e che è attualmente in corso in Niger e Burkina Faso. Sconfortati dai successi di Mosca, alcuni osservatori parlano di una “politica delle iene”, con la Russia che si comporta, a loro avviso, come uno Stato “divoratore di carogne” che offre aiuti a Stati la cui situazione militare è disperata. Forse, ma i risultati ci sono, almeno per il momento, perché la Russia ha estromesso sia i francesi che gli americani dalla fascia sahelo-sahariana… In realtà, questa presentazione negativa serve ancora una volta a cercare di scagionare i leader “occidentali” dai loro errori. Infatti, anche se la politica della Russia in Africa non è chiaramente guidata dall’altruismo, ci si potrebbe chiedere se lo sia stata quella dell'”Occidente”. Il realismo dovrebbe portare gli osservatori a porsi un’unica domanda: siamo di fronte a una realtà di lungo periodo o siamo in presenza di una sorta di “tutto nuovo, tutto bello”? È a queste domande che è dedicato il presente dossier.  
IL GRANDE RITORNO DELLA RUSSIA
Dal 2009, dopo due decenni di assenza, dalla Libia alla Repubblica Centrafricana, dal Burkina Faso al Mozambico, dal Niger al Sudan e al Mali, la Russia ha fatto il suo ritorno in Africa.
Stretta nel cerchio ostile che la NATO sta chiudendo ogni giorno di più intorno a sé, la Russia ha deciso di rompere il proprio isolamento definendo una propria politica africana, ponendosi al centro delle vere strutture di potere e di influenza, ovvero le forze armate, e fornendo loro gli equipaggiamenti e i tecnici responsabili dell’addestramento e della manutenzione. Nel 2018, attraverso Rosoboronexport, la Russia è diventata il principale fornitore di armi all’Africa e sono stati firmati accordi militari con tre quarti dei Paesi africani. La Russia ha inoltre firmato accordi di estrema importanza con il Mozambico, che prevedono il “libero ingresso” delle navi militari russe nei porti del Paese. Mosca ha ora una base nell’Oceano Indiano, che garantisce alla sua flotta una presenza diretta sulle principali rotte di rifornimento petrolifero dell’Europa, ed è in fase di finalizzazione un accordo per la cessione di un porto del Mar Rosso da parte del Sudan (si veda più avanti nella recensione). La Russia ha stabilito o ristabilito relazioni diplomatiche con tutti i Paesi africani e nel 2019, 2022 e 2023 si sono tenuti diversi vertici Russia-Africa, l’ultimo dei quali ha riunito a San Pietroburgo 49 Paesi africani, 17 dei quali rappresentati dai rispettivi capi di Stato. In ogni occasione, Vladimir Putin ha confermato il ritorno della Russia in Africa, ribadendo tre idee che fanno la differenza con l’approccio occidentale: 1) la Russia non viene in Africa per saccheggiare il continente, essendo essa stessa ricca di risorse minerarie; 2) non ha un passato coloniale; al contrario, in passato l’URSS ha aiutato le lotte di liberazione; 3) non viene a dare lezioni morali agli africani. Non viene nemmeno a imporre loro diktat politici o economici, né le “singolarità” sociali promosse dall’ideologia LGBT o dalla “teoria del gender”. In questo modo, Vladimir Putin ha preso la strada opposta alla politica imposta da François Mitterrand nel 1990 a La Baule, una politica che ha provocato una crisi senza fine nel continente instaurando un disordine democratico duraturo. Per la Russia, nessuno sviluppo è possibile senza stabilità, il che significa sostenere regimi forti, e quindi eserciti… e non il cosiddetto “buon governo”. La Russia ha capito chiaramente che non ha senso imbarcarsi in questi progetti grandiosi e costosi in cui solo gli europei credono o fingono di credere.
  TRA ALGERIA E MALI, LA RUSSIA DEVE SCEGLIERE
In Mali, le scelte politiche della Russia si scontrano con le priorità di sicurezza dell’Algeria. Eppure l’Algeria è il principale partner di Mosca nel Maghreb. Quanto all’esercito algerino, dipende dagli armamenti russi…
In Mali, ma anche in Libia [1] , gli interessi della Russia e dell’Algeria sono contrapposti. Fino alle ultime settimane, la questione era stata discretamente taciuta, ma il 2 maggio 2024 la diplomazia algerina ha rotto il tabù quando il ministro degli Esteri algerino, Ahmed Attaf, ha detto chiaramente al suo omologo russo, Sergei Lavrov, che la politica del suo Paese nel Sahel e in Libia era contraria ai suoi interessi. Sentito il messaggio, i russi hanno deciso di cercare di appianare le divergenze. La domanda è: come può Algeri continuare a essere un alleato strategico di Mosca quando i suoi interessi sono minacciati dalla politica russa? Basta uno sguardo alla mappa per capire che la questione sahelo-sahariana riguarda direttamente l’Algeria. I Tuareg, nomadi berberi che in passato non sono mai stati dipendenti da Stati regionali, vivono nelle vaste distese del Sahara che la Francia ha donato loro nel 1962. I Tuareg algerini appartengono a tre confederazioni, di cui solo una, l’Hoggar, ha il suo territorio, cioè le sue ex aree nomadi, interamente in Algeria. Non è così per i Kel Adrar (gli Ifora), che si estendono oltre l’attuale Algeria fino a coprire tutto il nord dell’attuale Mali, e per i Kel Ajjer, il cui territorio si trova in parte in Libia. Separati dai loro fratelli algerini, i Tuareg libici si sono divisi in tre gruppi (Oubari, Ghat e Targa).
L’Algeria segue gelosamente tutto ciò che accade nella zona saharo-saheliana perché, per essa, la logica del caos che vi sviluppa i centri di instabilità è una minaccia diretta alla sua stabilità e sicurezza. Tanto più che nel 2003, braccati dalle forze di sicurezza algerine, alcuni gruppi islamisti hanno trovato rifugio nel Sahara, nella zona tuareg. Nel 2007 si sono affiliati ad “Al-Qaida nel Maghreb islamico” (AQIM), un movimento nato dal GSPC (Groupe Salafiste pour la Prédication et le Combat) fondato in Algeria nel 1998. L’Algeria è impegnata nella regione fin dall’indipendenza. Nel 1963-1964, durante la prima guerra tuareg in Mali, il presidente Ben Bella autorizzò l’esercito maliano a inseguire i ribelli tuareg del Mali fino a 200 km all’interno del territorio algerino, cioè fino ai limiti settentrionali del Kel Adrar. Nel gennaio 1991, durante la seconda guerra tuareg in Mali, l’Algeria ha organizzato i negoziati tra il generale Moussa Traoré e il MPA (Mouvement populaire de l’Azawad) di Iyad ag Ghali, che hanno portato alla firma dell’Accordo di Tamanrasset del 5-6 gennaio 1991. Questa mediazione portò alla firma del Patto Nazionale l’11 aprile 1992, ma la pace non tornò, poiché il nord del Mali si trasformò gradualmente in una “zona grigia” in cui si rifugiarono i sopravvissuti del maquis jihadista algerino, collegandosi a trafficanti di ogni tipo e ad alcuni irriducibili della causa tuareg.

Il 23 maggio 2006 è scoppiata la terza guerra tuareg del Mali. Ancora una volta è stata l’Algeria a facilitare la firma degli Accordi di Algeri per il ripristino della pace e dello sviluppo nella regione di Kidal. Questi accordi sono stati firmati il 4 luglio 2006 tra l’Alliance démocratique du 23 mai pour le changement (ADC), movimento fondato da Iyad Ag Ghali, Ibrahim Ag Bahanga e dal tenente colonnello Hassan Ag Fagaga, e il governo maliano. La quarta guerra tuareg (2007-2009) è scoppiata l’11 maggio 2007, su iniziativa di Ibrahim Ag Bahanga, che aveva ripreso le armi. Ferito in combattimento, è stato curato in Algeria. Nel settembre 2007, si è staccato dall’ADC per fondare l’Alliance Touareg du Nord-Mali pour le changement (ATNMC) [2]. È seguito un apparente ritorno alla calma, che è durato fino al 2012, quando è scoppiata l’ultima guerra. E ancora una volta, l’Algeria era lì per cercare di porvi fine. Il 15 maggio 2015 è stato firmato l’Accordo di pace e riconciliazione di Algeri, ma le armi hanno continuato a parlare, poiché le autorità di Bamako si sono rifiutate di prendere veramente in considerazione le richieste dell’MNLA Tuareg. Poiché questi accordi non affrontavano i problemi fondamentali, ossia la questione della condivisione del potere tra Nord e Sud, congelavano solo temporaneamente gli antagonismi. Tuttavia, la partenza delle forze francesi da Barkhane ebbe l’effetto di scongelare la questione. Con l’aiuto di Wagner e poi dell’Africa Corps, i sudisti al potere a Bamako hanno avviato una riconquista del nord del Mali, conquistando la città di Kidal dopo che la giunta maliana aveva dichiarato di abbandonare l’accordo di pace di Algeri, firmato nel 2015 tra il governo di Bamako e i gruppi ribelli del Coordination des mouvements de l’Azawad. Di fronte a questa sconfitta, le varie fazioni del Coordinamento dei movimenti dell’Azawad si sono riorganizzate con l’appoggio di Algeri e, il 2 maggio 2024, hanno dato vita a una nuova coalizione, il Cadre stratégique permanent pour la défense du peuple de l’Azawad (CSP-DPA). D’ora in poi, con gli interessi contrastanti di Algeri e Mosca chiaramente esposti, la Russia dovrà fare una scelta. Poiché è difficile per la Russia tagliarsi fuori dall’Algeria, potrebbe scegliere di frenare l’ardore dei suoi alleati nella giunta maliana. Ma in questo caso, nasceranno delusioni che getteranno una nuvola sulla “luna di miele” tra Bamako e Mosca…

1-[Anche in Libia gli interessi di Algeri si scontrano con la politica della Russia. Anche in questo caso, il problema è chiaro: l’Algeria rifiuta la presenza di membri dell’Africa Corps che combattono a fianco del maresciallo Khalifa Haftar, il sovrano della Cirenaica, la cui ostilità nei confronti dell’Algeria è forte.
Sostenuto dalla Russia e non dagli Emirati Arabi Uniti, il comandante in capo dell’Esercito Nazionale Libico sta sfidando  la legittimità del governo di Tripoli, sostenuto da Algeri.

SUDAN: LA RUSSIA COSTRETTA A CAMBIARE SCHIERAMENTO
Il Sudan è un alleato tradizionale, un tempo dell’URSS, oggi della Russia. Ma nell’aprile 2023 è scoppiata la guerra civile tra le Forze armate sudanesi (SAF) guidate dal generale Abdel Fattah al-Burhane e la Forza di sostegno rapido (RSF) guidata da Mohamad Hamdane Dagalo, alias Hemedti. La Russia si trovò così stretta tra i due belligeranti e fu costretta a cambiare radicalmente la propria posizione.
Allo scoppio della guerra civile, la Russia era dalla parte di Mohamed Hamdan Dagalo, detto “Hemedti”. Tuttavia, al di là del conflitto tra due generali, l’attuale guerra civile sudanese contrappone due grandi gruppi etnici. Da un lato, i nubiani che vivono lungo il Nilo, che costituiscono la spina dorsale del Paese e controllano l’esercito sotto il generale Abdel Fattah al-Burhane. Nel 2018, il presidente Omar Hassan al-Bashir ha firmato un accordo segreto con la Russia per stabilire una base militare a Port Sudan, sul Mar Rosso. Da quel momento gli Stati Uniti hanno iniziato a sovvertire il suo regime e nel 2019, proprio mentre stava per festeggiare i suoi tre decenni di potere e candidarsi per un nuovo mandato presidenziale, la protesta si è trasformata in rivoluzione. Nell’agosto 2019 l’esercito, che non voleva affrontare direttamente le folle, ha acconsentito alla partenza di Omar Hassan al-Bashir. Questo accordo di condivisione del potere tra il cosiddetto Consiglio militare di transizione e l’Alleanza per la libertà e il cambiamento, una miriade eterogenea di gruppi politici e ONG, non era altro che una costruzione artificiale. Così, nella notte tra il 24 e il 25 ottobre 2021, il generale Abdel Fattah al-Burhane ha preso il potere, che già esercitava in larga misura attraverso il Consiglio di sovranità.
In seguito a questo colpo di Stato, forti manifestazioni di protesta scossero Khartoum e la RSF svolse un ruolo chiave nella loro feroce repressione. Poi, il 15 aprile 2023, è scoppiata la guerra civile tra il numero due del regime, Mohamed Hamdane Dagalo, detto “Hemedti”, capo delle Forze di sostegno rapido (Rsf), e l’esercito regolare fedele al generale Abdel Fattah al-Burhane, al potere dal colpo di Stato dell’ottobre 2021. Mosca si è trovata di fronte a una situazione complessa. Inizialmente, scommettendo sulla vittoria dell’Rsf, la Russia, che ha legami di lunga data con le Forze armate sudanesi (SAF), ha sostenuto l’Rsf, che controlla i giacimenti d’oro in Darfur e i confini con il Ciad e la Libia, attraverso i quali passano il contrabbando e il flusso di cercatori di fortuna verso l’Europa. Il sostegno al generale ribelle Hemedti ha creato ostacoli alla creazione di una base russa a Port Sudan, sul Mar Rosso. La morte di Prigozhin ha permesso alla Russia di cambiare politica, abbandonando la Rsf e sostenendo la Rsf. Questo riallineamento avvicinerà Mosca alla linea di Teheran nella regione. Dalla fine del 2023, infatti, l’Iran ha rafforzato le sue relazioni bilaterali con il SAF, in particolare attraverso la fornitura di armi e droni. A fine aprile 2024, durante una visita a Port Sudan, l’inviato speciale della Russia per il Medio Oriente e l’Africa, il viceministro degli Esteri Mikhail Bogdanov, ha dichiarato che la Russia riconosceva il Consiglio di Sovranità Transitorio (TSC) guidato dal SAF come “legittimo rappresentante del popolo sudanese”. In seguito, la Russia si è impegnata a sostenere militarmente il SAF, facendo rivivere il progetto di una base navale permanente sul Mar Rosso. A dimostrazione dell’importanza del Sudan per la Russia, il ministro degli Esteri russo Sergueï Lavrov, nel 2023-2024, ha visitato il Paese due volte.
Somalia-Etiopia, un precedente cambio di campo da parte di Mosca
Nel 1969 sale al potere il capo dell’esercito somalo, il generale Siyad Barre, che, nel tentativo di superare il tribalismo che stava ipotecando il futuro del Paese, trova un diversivo nel nazionalismo pan-somalo, che prevede un conflitto con l’Etiopia per strappare a quest’ultima la regione dell’Ogaden, popolata da somali. L’URSS, che cercava di destabilizzare l’Etiopia, Paese alleato degli Stati Uniti, capì di avere un’opportunità in questo senso e diede alla Somalia i mezzi per attuare la sua politica fornendo equipaggiamenti militari. La Somalia, fino ad allora filo-occidentale, si rivolse al blocco sovietico e nel 1977, grazie alle armi fornite, il generale Siyad Barre lanciò il suo esercito nella guerra nella regione dell’Ogaden. Inizialmente l’esercito etiope fu spazzato via, ma ad Addis Abeba il colonnello Mengistu Haile Mariam, che aveva preso il potere, era marxista. Mosca si rese conto che era meglio ancorare la sua presenza regionale in un vecchio Stato, l’Etiopia, piuttosto che in Somalia, uno Stato in via di formazione, così l’URSS invertì le sue alleanze e abbandonò Mogadiscio a favore di Addis Abeba. L’offensiva somala nell’Ogaden fu quindi bloccata dalle forze etiopi, grazie al sostegno fornito senza la minima remora dall’URSS, che abbandonò la Somalia nel bel mezzo della battaglia.

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LA CINA NON RINUNCERÀ AL SUO DEBITO AFRICANO, di Bernard Lugan

All’articolo di Bernard Lugan vanno riconosciuti sicuramente due meriti. Il primo è la sottolineatura del senso di auto-colpevolezza e di auto-fustigazione che hanno caratterizzato i passi diplomatici e le relazioni dei paesi occidentali con le élites emergenti soprattutto africane negli ultimi decenni. Atti di contrizione che, però, sono andati di pari passo con operazioni scellerate e arroganti come l’attacco e la demolizione del regime di  Gheddafi e della struttura statuale della Libia e con la presunzione di poter imporre, per mera superiorità morale, i propri modelli istituzionali. La condizione patetica in cui si è cacciato ad esempio Macron, in Africa e non solo, è semplicemente l’epilogo di una postura assunta progressivamente dagli anni ’90. Da qui il giudizio moralistico sul periodo coloniale che ha impedito la contestualizzazione di quelle scelte politiche. Il secondo sottolinea il carattere pragmatico e rigoroso, rispetto ai canoni dell’interesse nazionale, della politica estera cinese in Africa, ma con una vena ironica e sarcastica non del tutto giustificabile che impedisce di cogliere almeno alcune delle ragioni profonde di auto-fustigazione che informano la politica estera occidentale, specie dei paesi sconfitti, in Africa. La politica di investimenti della Cina ha vissuto in realtà periodi di malumore e di profondi contrasti con le élites locali, specie nella fase iniziale, proprio perché escludeva il coinvolgimento nella attuazione delle opere e nell’acquisizione dei benefici. La dirigenza cinese si è resa conto subito della situazione e, soprattutto, ha colto, assieme ai russi, ma anche alla Turchia e all’India, la consapevolezza acquisita dalle élites africane di poter contrattare su più tavoli in un contesto di incipiente multipolarismo. Su questo la Cina ha parecchio da offrire ai propri interlocutori a differenza dei paesi occidentali, liberatisi troppo frettolosamente e sventatamente del proprio “fardello” di capacità industriale faticosamente accumulato all’interno e in parte decentrato verso le ex colonie. Le rinegoziazioni e le cancellazioni di debito, quasi mai concesse per altro a titolo gratuito e in assenza di contropartite, sono quindi dei surrogati da parte di chi non ha altro da offrire che una economia di mera rapina ed espropriazione. Il decorso dei rapporti della Francia con l’Algeria, come con i paesi dell’Africa Sub-sahariana, attraversato da estenuanti ed inconcludenti trattative e copi di mano, ne sono un tipico esempio. Buona lettura, Giuseppe Germinario
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A differenza dell'”Occidente”, che periodicamente accetta di rinegoziare o cancellare il debito africano, consumato da un masochistico senso di auto-colpevolezza, i cinesi non prestano per perdere denaro. Ecco perché rifiutano qualsiasi rinegoziazione globale.
LA CINA NON RINUNCERÀ AL SUO DEBITO AFRICANO
I conoscitori della Cina sono soliti dire che “un cinese non perdona mai il suo debito”, ed è esattamente ciò che sta accadendo in Africa in questo momento, dove Pechino ha prestato denaro a Paesi che non possono più ripagarlo. Ora, a differenza dei “buoni” occidentali che hanno sempre cancellato il debito, la Cina non perdonerà il suo debito africano…

La penetrazione predatoria della Cina nel continente africano a partire dagli anni ’90 si è concentrata principalmente sulle opportunità commerciali e sulle risorse naturali. La Cina ha prestato più di 100 miliardi di dollari ai Paesi, alcuni dei quali ora non sono in grado di ripagare o addirittura servire i loro debiti. Con l’aumento dei tassi di interesse e del prezzo delle importazioni di cibo, la loro situazione è catastrofica. Attualmente l’Africa importa cibo per 35 miliardi di dollari all’anno, cifra destinata a salire a 110 miliardi di dollari nei prossimi anni a causa del crescente numero di bocche da sfamare dovuto alla demografia suicida dell’Africa. E con l’impennata dei prezzi dell’energia, diversi Paesi africani sono sull’orlo della bancarotta. Una situazione drammatica, visto che, secondo il ministro delle Finanze del Ghana, 33 Paesi africani stanno pagando in interessi più di quanto non facciano con i bilanci della sanità e dell’istruzione. Oggi il debito dell’Africa si aggira intorno ai 700 miliardi di dollari, di cui poco meno di 100 miliardi sono dovuti ai prestatori cinesi. Ma la Cina, che non è disposta a perdere denaro, si rifiuta di ristrutturare questo debito in modo significativo. Di conseguenza, ai Paesi a rischio, che saranno ulteriormente strangolati dal prestatore cinese, rimane solo una speranza: implorare i prestatori occidentali di cancellare o ristrutturare il loro debito. Due esempi illustrano la situazione: lo Zambia e il Ghana. Lo Zambia, che deve quasi 20 miliardi di dollari, di cui poco più di 6 miliardi alla Cina, ha fatto default nel 2020 e non può più contrarre prestiti sui mercati finanziari internazionali. Di conseguenza, la Cina ha preso il controllo dell’emittente radiotelevisiva di Stato e dell’aeroporto della capitale Lusaka. Il Ghana, che ha un debito di 30 miliardi di dollari, di cui 2 miliardi verso la Cina, ha un bisogno vitale di un prestito di 3 miliardi di dollari dal Fondo Monetario Internazionale. In realtà, la Cina ha capito chiaramente che non recupererà mai tutte le somme prestate a questi due Paesi, il problema è sapere quante perdite accetterà e in cambio di cosa. Tanto più che il sistema bancario cinese è fortemente indebitato e indebolito dalla crisi del settore immobiliare. Pechino non sembra disposta a ignorare il debito africano in un momento in cui la sua priorità è ripianare il debito del suo sistema bancario. Tuttavia, non dobbiamo credere che i prestatori cinesi siano stati così ingenui da concedere consapevolmente prestiti a Paesi insolventi. In Africa, i prestiti cinesi sono stati spesso accusati di creare “trappole del debito”, ma nella maggior parte dei Paesi africani sovraindebitati, i prestiti cinesi rappresentano solo una parte dell’indebitamento, ovvero, a livello continentale, circa il 20% del debito estero dei Paesi africani. La Cina ha quindi concesso prestiti a diversi Paesi africani non sovraindebitati. Secondo il FMI, dei 15 Paesi africani ad alto rischio di sovraindebitamento, solo tre (Gibuti, Zambia e Camerun) hanno un debito cinese superiore al 24%.

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Le elezioni in Sud-Africa, di Bernard Lugan

Siamo abituati a cogliere le dinamiche politiche in Africa con gli occhi e le dinamiche dei paesi europei e occidentali. Un effetto collaterale è stato il tentativo di esportazione della democrazia occidentale in contesti sociali diversi.

Le stesse classi dirigenti locali, formatesi nel periodo coloniale, hanno assunto in qualche modo questi modelli, piegandoli più o meno consapevolmente alla realtà socio-politica. Da tempo Lugan ci offre analisi sugli effetti perversi di questa impostazione. Giuseppe Germinario

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Questo numero de L’Afrique Réelle si concentra su quattro temi.
In Sudafrica, dove l’ANC ha perso la maggioranza assoluta alle recenti elezioni, è stato formato un governo di coalizione. Ma, paradossalmente, mentre i programmi politici dell’ANC, dell’Umkhonto we Sizwe e dell’EFF sono praticamente identici, l’odio personale tra i loro tre leader, Cyril Ramaphosa, Jacob Zuma e Julius Malema, ha fatto sì che alla fine si sia formata un’alleanza quasi surreale. La nuova maggioranza riunisce l’ANC e la DA (Democratic Alliance). Un partito che vuole amplificare l’Affirmative Action, che chiede la condanna di Israele per genocidio, i cui parlamentari hanno tutti votato a favore del sequestro delle fattorie bianche, e un partito bianco che combatte l’Affirmative Action, sostiene Israele e si oppone al sequestro delle fattorie appartenenti ai bianchi, governeranno insieme… Di conseguenza, l’EFF e l’Umkhonto we Sizwe parlano di un tradimento degli ideali dell’ANC, di uno schema progettato per salvaguardare le posizioni e le prebende dei caciques dell’ANC, e chiedono a tutti i neri di unirsi a loro… Una situazione da seguire…


Le elezioni sudafricane del 2024 hanno assunto ancora una volta la forma di un censimento razziale. I neri hanno votato per i partiti neri (ANC, EFF, IFP, MK ecc.), mentre i bianchi, gli indiani e i coloured hanno dato i loro voti ai partiti non neri DA, PA e VF (Vreedom Front). Le cifre parlano chiaro: i neri rappresentano l’80% della popolazione, i coloured il 9%, i bianchi l’8,5% e gli indiani il 2,5%. Nelle elezioni del maggio 2014, il voto ha rispettato chiaramente questa divisione: i partiti neri nel complesso hanno ottenuto il 78% dei voti e i partiti non neri il 22%. All’interno di queste grandi categorie, è importante notare che gli zulu hanno votato IFP o MK, mentre i bianchi hanno votato DA con una frazione di loro, soprattutto afrikaner che hanno dato i loro voti al VF), mentre i coloured (Metis) si sono divisi tra DA e PA. La Nazione Arcobaleno è più che mai un mito.
CAMBIAMENTI NELL’ELETTORATO DAL 1994
Uno studio dell’elettorato sudafricano dal 1994, data delle prime elezioni multirazziali, cioè da oltre 30 anni, mostra che è rimasto molto stabile a causa delle determinanti razziali del Paese. Tuttavia, all’interno di questa costante possiamo notare diversi sviluppi.
1) Il declino dell’ANC Il partito storico della lotta contro la dominazione bianca è in declino dalle elezioni del 1994, anche se rimane di gran lunga il più grande partito del Paese. Questo costante declino è dovuto a due fattori: – Dissidenza interna (FF e MK). – Un bilancio di 30 anni di gestione disastrosa del Paese, corruzione diffusa, distruzione delle principali imprese statali, lotte interne tra fazioni e insicurezza. Oggi la posizione del Presidente Ramaphosa è delicata. Pragmaticamente, e contrariamente al voto unanime dei membri dell’ANC, il suo stesso partito, ha messo da parte la questione dell’esproprio immediato delle terre appartenenti ai bianchi. È perfettamente consapevole delle conseguenze disastrose che una tale misura avrebbe. Il settore agricolo, di grande successo, è l’unico in grado di sfamare la popolazione e di generare valuta estera attraverso le esportazioni. Lo smantellamento del settore agricolo porterebbe a rivolte alimentari e a un caos incalcolabile, ma sarà in grado di resistere, spinto dai parlamentari dell’ANC, dal suo stesso partito, dall’EFF e dall’MK?


2) Il DA ha raggiunto il suo punto più basso In 30 anni, il voto dei bianchi si è riunito nel DA, che ha completamente assorbito il National Party, l’ex partito di governo, il partito dell’apartheid, quello di Frederik De Klerk. Implacabile oppositore del regime bianco precedente al 1994, il DA incarna ora paradossalmente le speranze di bianchi, coloured e indiani. Il suo sogno era quello di formare un partito multirazziale che perdesse l’etichetta di “partito bianco” per attrarre il voto della borghesia nera e fornire un’alternativa liberale all’ANC. Il fallimento è evidente, in quanto non ha avuto successo, salvo eccezioni aneddotiche, mentre questa politica ha alienato alcuni elettori afrikaner che si sono rivolti al Vreedom Front. 3) Il movimento radicale nero dell’EFF sta ristagnando pur essendo dottrinalmente dominante Julius Malema, fondatore dell’EFF, è stato espulso dall’ANC nel 2012 ed è un demagogo corrotto la cui retorica violentemente anti-bianco è imponente. Non ha mai nascosto che il suo obiettivo primario e non negoziabile è la nazionalizzazione delle terre bianche, che diventerebbero proprietà dello Stato. La sua scommessa è che le masse nere abbandoneranno gradualmente l’ANC quando vedranno che il partito li ha traditi, e si riuniranno al suo slogan di “seconda liberazione”, che prevede la nazionalizzazione delle miniere, delle banche e delle terre appartenenti ai bianchi. Alle elezioni del 2024 ha dovuto affrontare la dura concorrenza dell’MK di Jacob Zuma, ma le sue idee sono condivise da quasi tutte le basi militanti dei vari movimenti politici neri. 4) Nel 2024, l’emergere dell’MK è costato all’ANC la sua tradizionale maggioranza. Con l’MK, siamo chiaramente in presenza di un dissidente zulu che non ha accettato il colpo di stato interno all’ANC che, nel 2018, ha visto il vicepresidente Cyril Ramaphosa spodestare il presidente Jacob Zuma prima di prendere il suo posto. Un putsch interno seguito dalla condanna dell’ex presidente al carcere. Il popolo zulu non ha perdonato la leadership dell’ANC per questo, il che spiega la vendetta elettorale di Jacob Zuma…

5) Il partito realista zulu Inkhata Freedom Party mantiene le sue posizioni L’IFP, che in …. ha perso un numero significativo di voti perché molti zulu hanno votato per l’ANC, allora guidata dallo zulu Jacob Zuma, ora sta risorgendo e ha persino creato una sorpresa nel suo tradizionale cuore rurale del Kwazulu-Natal. 6) I coloureds si stanno sempre più affermando come forza autonoma Con l’Alleanza patriottica (AP), un altro nuovo arrivato si sta affermando sulla scena politica affermando apertamente di essere un partito etnico di colore. Questi ultimi, va ricordato, non sono il prodotto dell’incrocio tra bianchi e neri, ma tra bianchi e khoisan. La loro lingua è l’afrikaans, la lingua degli afrikaner, con i quali condividono gli stessi valori culturali e sportivi, in particolare il rugby[1] . La loro roccaforte etnica è il Capo Occidentale. Questo nuovo partito ha preso piede ovunque ci fosse una forte comunità di colore, come ad esempio nella Ekhurhleni City Metro (le città industriali a est di Johannesburg), in particolare in due distretti con una popolazione di colore. Il leader del PA, Gayton Mackenzie, è un personaggio atipico, con un passato criminale da ex rapinatore di banche, ma politicamente ultra conservatore, che rifiuta l’aborto, la teoria del gender e i dettami LGBT. 7) A parte la scissione etnica Zulu (MK), tutte le altre scissioni dell’ANC sono fallite: piccoli partiti regionali neri come l’UDM sono stati assorbiti dall’ANC. Il Cope, il partito scissionista Xhosa dell’ANC formatosi contro la presa di potere all’interno del partito da parte di Jacob Zuma e degli Zulu, è scomparso tra il 2009 e il 2014 a causa delle sue divisioni interne. Per quanto riguarda SA (Azione Sudafrica), si è trattato di un fallimento. Il presidente fondatore di Action SA, Hermann Mashaba, un uomo d’affari di origine mozambicana che ha fatto fortuna creando “Black like me”, una catena di saloni di parrucchieri e prodotti per africani, aveva aderito al DA ed era persino diventato sindaco di Johannesburg. Le sue dimissioni dal DA segnarono il fallimento del tentativo di “africanizzare” questo partito bianco, radunando parte della borghesia e della classe media nera.
Il sistema elettorale sudafricano Le elezioni del maggio 2024 hanno eletto l’Assemblea nazionale e le assemblee provinciali. L’Assemblea nazionale è composta da 400 deputati eletti con il sistema della rappresentanza proporzionale, 200 con il sistema nazionale e gli altri 200 dalle 9 province con il sistema della rappresentanza proporzionale regionale. Il Presidente della Repubblica è eletto dall’Assemblea nazionale, mentre i presidenti delle assemblee regionali sono nominati dalle maggioranze provinciali.
SUDAFRICA: UN ELETTORATO MOLTO STABILE
Come al solito, l’analisi dei media sulle elezioni sudafricane del 29 maggio 2024 è stata superficiale. Parlare di “storica battuta d’arresto per l’ANC” è davvero affrettato:
1) È vero che l’ANC ha continuato il lento declino iniziato nel 2019, quando il movimento è sceso per la prima volta sotto la soglia del 60% a livello nazionale (57,5%). Tuttavia, con il 40,25% dei voti nel 2024, l’ANC non raggiungerà la maggioranza del 50%, ma rimane di gran lunga il più grande partito del Sudafrica. Al secondo posto, dietro di essa, il DA (Alleanza Democratica) ha ottenuto solo la metà dei suoi risultati, ovvero il 21,73% dei voti.

2) L’ANC ha vinto in 6 delle 9 province sudafricane, perdendo solo nel Gauteng, nel Kwazulu-Natal e nel Western Cape: – Nel Gauteng, i voti combinati dell’ANC (36%), dell’EFF (12%) e dell’MK (10%) hanno dato a questi tre partiti, che hanno lo stesso programma e sono divisi solo da questioni personali, una chiara maggioranza di governo del 58%. – Nel Kwazulu-Natal si è assistito a un chiaro voto identitario zulu, con il 46% dei voti per l’MK e il 16% per il vecchio partito realista zulu Inkhata, che sta mantenendo le sue posizioni nelle aree rurali. – Nel Capo Occidentale, essendo l’equilibrio etno-politico a favore dei bianchi e dei coloured, come mostra la mappa a pagina 5, l’ANC non poteva, da un punto di vista etno-matematico, aspettarsi di vincere elettoralmente. In realtà, il declino molto relativo dell’ANC è dipeso esclusivamente da quel 15% di voti zulu che hanno abbandonato il movimento di governo, considerato il tradimento dello zulu Jacob Zuma, e sono andati al suo partito, l’MK. Infatti, se sommiamo questo 14,68% al 40,25% ottenuto dall’ANC a livello nazionale, troviamo il punteggio dell’ANC per il 2019, ovvero quasi il 57%. Il vero partito di opposizione alla nebulosa nera ANC-IFF-MK, la DA (Democratic Alliance), ha ristagnato con un minuscolo guadagno di meno di un punto, passando dal 20,8% al 21,70%, in calo rispetto al punteggio del 2019, pari al 22,2%. Le ragioni di questa stagnazione sono due: – Perché parte dell’elettorato di razza mista ha votato per il partito di razza mista Alleanza Patriottica, che ha ottenuto il 2,04% a livello nazionale e il 7,4% nel Capo Occidentale. – Perché questo partito è considerato dai neri il partito dei bianchi. E come potrebbe “abboccare” all’elettorato nero se si è schierato a favore di Israele quando tutti i partiti neri e il governo chiedono che la Corte penale internazionale condanni quel Paese per “genocidio”? L’EFF di Julius Malema è sceso di un punto al 9,46%, avendo subito la concorrenza dell’MK. Gli afrikaner del FF, con l’1,36% dei voti, non sono più che una forza politica simbolica. Nel complesso, i quattro principali partiti neri (ANC, IFF, MK e Inkhata, più una decina di micro partiti) hanno ottenuto circa il 75% dei voti per una popolazione nera del 78-80%, mentre i partiti bianchi meticci e indiani hanno ottenuto circa il 24% dei voti per una popolazione del 20-22%.


QUALE COALIZIONE PER GUIDARE UN PAESE IN CRISI?


Per la prima volta dalla fine del regime bianco, con l’ANC privo di una maggioranza assoluta, il presidente Ramaphosa è stato costretto a formare un governo di coalizione, la cui composizione ha incontrato numerosi ostacoli e la cui formazione lascia perplessi.
Ora che sono stati resi noti i risultati ufficiali delle elezioni del maggio 2024, all’ANC mancavano 41 seggi per poter governare. Questa situazione, senza precedenti dal 1994, ha portato ai negoziati per la formazione di una coalizione. Il problema per l’ANC era che, anche se fosse riuscita a ottenere il sostegno della decina di piccoli partiti neri che avevano conquistato almeno un seggio in parlamento, il loro contributo non superava la ventina di seggi, che non era comunque sufficiente a formare una maggioranza. Erano quindi possibili tre opzioni: 1) Un’alleanza con il DA. (87 seggi in parlamento) Una tale coalizione sembrava impossibile per tre motivi principali: – Il DA si oppone alla discriminazione positiva, che è un pilastro del programma dell’ANC. – Il DA si è opposto con forza alla confisca delle fattorie di proprietà dei bianchi, mentre l’ANC ha votato all’unanimità a favore di questo piano di spoliazione. – Il DA sostiene Israele, mentre l’ANC si batte per la condanna di Israele per “genocidio” a Gaza. Infine, una simile alleanza sarebbe vista come una provocazione dagli altri partiti neri. 2) Un’alleanza con Umkhonto we Sizwe (58 seggi nell’ANC) È vero, ma Jacob Zuma aveva annunciato di essere pronto a collaborare con il suo ex partito, l’ANC, a condizione che Cyril Ramaphosa, il Presidente della Repubblica, si dimettesse… Gli zulu che sostengono Jacob Zuma, ma anche i radicali neri, criticano l’attuale Presidente, l’ex sindacalista Cyril Ramaphosa, per aver costruito la sua colossale fortuna tradendo i suoi elettori. Seduto nei consigli di amministrazione delle compagnie minerarie bianche, dove è stato cooptato in cambio della sua “esperienza” sindacale, è stato infatti onorato in cambio del suo aiuto nell’opporsi alle richieste dei minatori neri, di cui era rappresentante prima del 1994! Questo ha portato il leader rivoluzionario Julius Malema ad affermare: “In Sudafrica la situazione è peggiore di quella dell’apartheid (e che) l’unica cosa che è cambiata è che un governo bianco è stato sostituito da un governo nero”. C’è però una differenza: prima del 1994 i neri non morivano di fame, ricevevano cure mediche e istruzione gratuite, l’elettricità funzionava, la carenza d’acqua era sconosciuta e la polizia faceva il suo lavoro… 3) Un’alleanza con l’EFF di Julius Malema (39 seggi parlamentari) Per l’ANC sarebbe stata un’alleanza avvelenata perché il sostegno dell’EFF era subordinato all’immediata messa in pratica da parte dell’ANC del programma radicale sulla nazionalizzazione delle terre di proprietà dei bianchi votato il 27 febbraio 2018, quando, con 241 voti favorevoli e 83 contrari, il parlamento sudafricano ha votato per l’avvio di un processo di nazionalizzazione-espropriazione senza indennizzo di 35.000 agricoltori bianchi. 000 agricoltori bianchi. A parte il fatto che i 39 deputati dell’EFF da soli non basterebbero a dare all’ANC una chiara maggioranza, l’ingresso del partito al governo significherebbe che l’ANC sequestrerebbe di fatto le aziende agricole di proprietà dei bianchi e nazionalizzerebbe le industrie minerarie, portando a un esodo di capitali e alla rovina del Paese. Di conseguenza, mentre i programmi politici dell’ANC, dell’Umkhonto we Sizwe e dell’EFF sono virtualmente identici, l’odio personale tra i loro tre leader ha fatto sì che alla fine si sia formata un’alleanza a pezzi, e allo stesso tempo si potrebbe dire innaturale, con il sostegno dato all’ANC dal DA e dal partito zulu Inkhata… La nuova maggioranza combina quindi l’ANC, un partito che vuole estendere l’Affirmative Action, che chiede la condanna di Israele per genocidio e i cui parlamentari hanno tutti votato a favore del sequestro delle fattorie bianche, con il DA, che combatte l’Affirmative Action, sostiene Israele e si oppone al sequestro delle fattorie appartenenti ai bianchi… Di conseguenza, l’EFF ha parlato di un tradimento degli ideali dell’ANC, di uno schema progettato per salvaguardare le posizioni e le prebende dei suoi caciques, e ha invitato tutti i neri ad aderire… Una situazione da seguire…
Il governo di unità nazionale Il 17 giugno 2024 è stato ufficialmente creato il governo di unità nazionale (GNU). Cinque partiti compongono questo governo di unità nazionale: l’ANC, il DA, l’IFP (Inkhata Freedom Party), il Good e il PA (Patriotic Alliance). Questi cinque partiti hanno un totale di 273 seggi su 400 nell’Assemblea Nazionale, dando al GNU una maggioranza del 68%. Il comunicato stampa dell’ANC afferma che “il programma e le priorità del GNU sono pienamente allineati con gli impegni e le politiche di lunga data dell’ANC”, compresa “la riforma agraria”, cioè la politica di confisca delle aziende agricole di proprietà dei bianchi.

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Sudafrica: “Di fronte alla decomposizione del Paese, dovremo presto decidere di restituire la guida ai boeri”!_di Bernard Lugan

Sudafrica: “Di fronte alla decomposizione del Paese, dovremo presto decidere di restituire la guida ai boeri”!
Questo commento disilluso e iconoclasta è stato fatto da un giornalista nero sudafricano. Illustra lo sfacelo di un Paese in cui vengono commessi più di 70 omicidi al giorno, in cui la disoccupazione colpisce circa il 40% della popolazione attiva, in cui il reddito della fascia più povera della popolazione è inferiore di quasi il 50% rispetto al regime bianco precedente al 1994 e in cui più di un terzo della popolazione sopravvive esclusivamente grazie al welfare. Come potrebbe essere altrimenti nel “nuovo Sudafrica”, che è caduto preda del partito-stato ANC, i cui leader, troppo spesso tanto incompetenti quanto corrotti, sembrano non avere altro obiettivo che il proprio arricchimento? Un partito-stato che rischierà molto nelle elezioni del 29 maggio, perché non avrà più l’alibi dell’eredità cosiddetta “negativa” dell’apartheid per scagionarsi dalla sua incapacità predatoria. Infatti, nel 1994, quando il presidente De Klerk portò al potere Nelson Mandela, un Nelson Mandela incapace di prendere il potere con la forza [1], lasciò in eredità all’ANC la più grande economia del continente, un Paese con infrastrutture di comunicazione e di trasporto al pari dei Paesi sviluppati, un settore finanziario moderno e prospero, un’ampia indipendenza energetica, un’industria diversificata, capacità tecniche di alto livello e il più grande esercito africano. Ventotto anni dopo, intrappolati nella rete delle loro stesse bugie, prevaricazioni e inadeguatezze, i leader dell’ANC non sono più credibili quando continuano ad accusare il “regime dell’apartheid” nel tentativo di cancellare le loro colossali responsabilità per l’impressionante bancarotta di cui sono gli unici responsabili. Il tutto in un contesto di aspre lotte all’interno della stessa ANC tra i sostenitori di Cyril Ramaphosa, attuale Presidente della Repubblica, e l’ex Presidente Zulu Jacob Zuma, costretto alle dimissioni nel 2018 a causa di scandali di corruzione. Jacob Zuma è diventato la figura centrale di un nuovo partito, Umkhonto we Sizwe (MK), creato per ostacolare l’ANC nelle elezioni del 29 maggio, dal nome del braccio armato dell’ANC che ha guidato la lotta contro il regime bianco prima del 1994.
Le prossime elezioni nazionali sudafricane, che si terranno il 29 maggio 2024, segneranno il trentesimo anniversario della fine della dominazione bianca e dell’inizio di quella nera. Tuttavia, dopo il trionfo di Nelson Mandela, l’orizzonte si è offuscato per l’ANC, che secondo i sondaggi potrebbe perdere la maggioranza per la prima volta da quando è stata portata al potere da Frederik De Klerk. Dal 1994, l’ANC ha vinto tutte le elezioni nazionali, ma il suo sostegno si è gradualmente eroso negli ultimi 20 anni. Nelle elezioni locali del 2021, l’ANC è addirittura scesa sotto la soglia del 50%. Va detto che in tre decenni di potere assoluto, l’ANC ha metodicamente dilapidato l’immensa eredità lasciata dal regime bianco, trasformando gradualmente il prospero Sudafrica in uno Stato del “Terzo Mondo” alla deriva in un mare di penuria, corruzione, miseria sociale e violenza. Un guscio vuoto che ha perso ogni significato ideologico e politico, sopravvivendo solo come macchina elettorale per distribuire seggi in parlamento ai suoi membri, l’ANC è con le spalle al muro. Il momento della verità si avvicina inesorabilmente, poiché le masse nere, totalmente impoverite, formano un blocco sempre più esplosivo. Se dovesse perdere la maggioranza, l’ANC dovrebbe formare una coalizione politica per rimanere al potere[1]. Per la cronaca, alle elezioni politiche i sudafricani votano per un partito e non per un candidato alla presidenza. A seconda dei risultati, ai partiti vengono assegnati i seggi in Parlamento, che sono 400, e sono i deputati a eleggere il Presidente. Della Repubblica. Durante le elezioni, i sudafricani voteranno anche per la composizione delle assemblee legislative provinciali nelle nove province del Paese.

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Niger: dopo i francesi, agli americani chiesto di lasciare il paese, di L’Afrique Réelle

Niger: dopo i francesi, agli americani chiesto di lasciare il paese

Venerdì 19 aprile, dopo diversi mesi di negoziati accompagnati da promesse e minacce, gli Stati Uniti sono stati finalmente costretti ad accettare di ritirare le proprie truppe dal Niger. Seguendo le orme dei francesi, anche loro sono stati cacciati da un Paese che finora non aveva nulla da rifiutare.

Con questa partenza, richiesta dalle autorità di Niamey che sono al potere dal colpo di Stato del 26 luglio 2023, gli Stati Uniti perderanno la loro importante base di Agadez, specializzata in intercettazioni e guerra elettronica. Questa base permetteva di sorvegliare l’intera fascia saheliana, i fondali sahariani libici e l’intera regione peri-chad. Questa base, costata oltre 100 milioni di dollari, ospitava anche i droni utilizzati nella lotta contro i gruppi jihadisti.

Gli Stati Uniti avevano pensato che, a differenza della Francia, non essendo l’ex potenza coloniale, avrebbero potuto rimanere in Niger, tanto più che, fino ad allora, questo Paese, tra i più poveri del mondo, non aveva mai resistito agli “argomenti” del dollaro…
Ma i tempi sono cambiati. Con l’emergere di nuove potenze – Russia, Cina e India – i Paesi africani non possono più permettersi di essere semplici corrispondenti che si adeguano docilmente ai diktat, soprattutto democratici, dell'”Occidente”. O di apparire come vassalli obbedienti obbligati a riconoscere i nuovi standard morali occidentali – la “teoria del gender” o le “singolarità” LGBT – del tutto incomprensibili in Africa, dove un uomo è un uomo… una donna… una donna…

Il 16 marzo, il Niger aveva già annunciato la cessazione “con effetto immediato” dell’accordo militare che lo legava agli Stati Uniti, visto come un “accordo imposto”. Tra le ragioni di questo divorzio, il colonnello Amadou Abdramane ha citato alla televisione nazionale la “condiscendenza” della signora Molly Phee, assistente del Segretario di Stato per gli Affari africani. La signora aveva dichiarato con arroganza e compiacimento che gli Stati Uniti erano pronti a riprendere la loro cooperazione a condizione che il Niger ristabilisse la democrazia e smettesse di intrattenere relazioni con la Russia.

Tali richieste sono state naturalmente ritenute inaccettabili dai militari al potere a Niamey, che hanno quindi rifiutato questa comunicazione formale che negava “al popolo sovrano del Niger il diritto di scegliere i propri partner”.
Le centinaia di milioni di dollari investiti dagli Stati Uniti in tanti inutili programmi di aiuto allo sviluppo non erano sufficienti, perché Washington non aveva capito che il tempo delle interferenze e degli allineamenti era finito. Allo stesso tempo, il Niger si è aperto con entusiasmo alla Russia. Cosa ne sarà? Solo il tempo potrà dirlo.

Comunque sia, il 10 aprile sono sbarcati a Niamey i primi consiglieri militari russi con una grande quantità di equipaggiamento. Questa nuova cooperazione tra Niger e Russia è stata illustrata a fine marzo da una lunga e calorosa conversazione telefonica tra il Presidente Putin e il generale Abdourahamane Tiani, capo della giunta. L’uomo a cui, con grande senso della realtà supportato da un’ottima conoscenza della mentalità africana, il presidente Macron aveva, come un padrone al suo valletto, ordinato, sotto minaccia di intervento (!!!), di consegnare immediatamente il potere al suo protetto, il presidente Bazoum, il cui peso etnico, e quindi politico, è inferiore allo 0,5% della popolazione…

La cosa peggiore è che, invece di trarre insegnamento da questi fallimenti, coloro che sostengono di essere responsabili della politica africana della Francia cercano ora di sottrarsi alle loro responsabilità gridando al complotto russo e cinese. Sono la loro incompetenza, la loro cecità e il loro arrogante desiderio di imporre le loro “sfumature” sociali agli africani che hanno aperto le porte del continente a questi nuovi attori. E se questi ultimi sono ben accolti, è perché non sono venuti a dare lezioni di “buon governo”, a chiedere alla popolazione di credere che un uomo possa partorire o che la democrazia individualista sia la soluzione per i Paesi con strutture comunitarie…

In Africa, la ridistribuzione geostrategica si sta quindi completando. Nel Sahel, dopo essere stati cacciati dal Mali, dal Niger e dal Burkina Faso per aver ostinatamente deciso di ignorare i consigli di chi conosce meglio la regione, i “decisori” francesi assistono impotenti allo sviluppo di un movimento che si sta diffondendo in Ciad e in Senegal. Una parentesi africana francese aperta alla fine del XIX secolo in queste “terre del sole e del sonno” tanto care a Ernest Psichari sarà presto chiusa una volta per tutte.

Di fronte a una simile catastrofe, non deve sorprendere che alcuni, sulle orme del grande storico René Grousset (1885-1952), siano arrivati ad affermare che: “Quando il destino ha inutilmente profuso tutti gli avvertimenti su una società (…) ed essa persiste nel suicidarsi, la sua distruzione non è forse fonte di soddisfazione per lo spirito?”.

Il Dipartimento di Stato ritarda il ritiro delle truppe americane dal Niger di Moon of Alabama

Il titolo del Washington Post e i primi paragrafi della storia non sono realmente supportati da fatti.

Gli Stati Uniti accettano di ritirare le truppe americane dal Niger

NAPOLI, Italia – Venerdì gli Stati Uniti hanno informato il governo del Niger di aver accettato la richiesta di ritirare le truppe statunitensi dal Paese dell’Africa occidentale, come hanno dichiarato tre funzionari statunitensi, una mossa a cui l’amministrazione Biden aveva opposto resistenza e che trasformerà la posizione antiterrorismo di Washington nella regione.

L’accordo segnerà la fine di una presenza di truppe statunitensi che ammontava a più di 1.000 unità e metterà in discussione lo status di una base aerea statunitense da 110 milioni di dollari che ha solo sei anni. È il culmine di un colpo di Stato militare che l’anno scorso ha estromesso il governo democraticamente eletto del Paese e insediato una giunta che ha dichiarato “illegale” la presenza militare americana.

“Il primo ministro ci ha chiesto di ritirare le truppe statunitensi e noi abbiamo accettato di farlo”, ha dichiarato in un’intervista al Washington Post un alto funzionario del Dipartimento di Stato. Questo funzionario, come altri, ha parlato a condizione di anonimato per discutere della delicata situazione.

La decisione è stata siglata in un incontro avvenuto venerdì scorso tra il vice segretario di Stato Kurt Campbell e il primo ministro del Niger, Ali Lamine Zeine.

La base americana di droni in Niger è utilizzata dal Pentagono e dalla CIA per tenere sotto controllo l’ISIS nella regione.

Le truppe statunitensi stanno davvero lasciando il Niger?

Certo che no, almeno non ancora.

Il paragrafo successivo rivela ciò che è stato realmente concordato. Rende evidente che gli Stati Uniti vogliono rimandare la questione il più a lungo possibile:

“Abbiamo concordato di iniziare le conversazioni entro pochi giorni su come sviluppare un piano” per il ritiro delle truppe, ha detto l’alto funzionario del Dipartimento di Stato. “Hanno concordato di farlo in modo ordinato e responsabile. E probabilmente dovremo inviare delle persone a Niamey per sederci e discutere. E questo, ovviamente, sarà un progetto del Dipartimento della Difesa”.

– “Abbiamo concordato di iniziare le consultazioni” – (non abbiamo davvero concordato di ritirare le truppe, ma solo di parlare)
– “su come sviluppare un piano” – (dovremmo scrivere un piano per qualcosa in Excel o Word?)
– “in modo ordinato e responsabile” – (non vediamo assolutamente alcuna pressione temporale o scadenza)
– “probabilmente dovremo inviare gente a Niamey” – (ci saranno molti ritardi e la squadra cambierà spesso)
– “questo naturalmente sarà un progetto del Dipartimento della Difesa” – (noi, il Dipartimento di Stato, difficilmente saremo coinvolti. Quando la merda si spaccherà, la colpa sarà del Pentagono).

Un portavoce del Pentagono non ha rilasciato immediatamente alcun commento.

Gli Stati Uniti hanno messo in pausa la cooperazione con il Niger in materia di sicurezza, limitando le attività americane, compresi i voli di droni non armati. Ma i membri dei servizi statunitensi sono rimasti nel Paese, incapaci di adempiere alle loro responsabilità e sentendosi lasciati all’oscuro dai vertici dell’ambasciata americana mentre i negoziati proseguivano, secondo una recente denuncia di un informatore.

Da allora ci sono state altre proteste in Niger per chiedere l’uscita delle truppe statunitensi:

Nella città di Agadez, sede di una base aerea statunitense, centinaia di manifestanti si sono riuniti per chiedere la partenza delle forze americane.

Le proteste sono state organizzate da una coalizione di gruppi della società civile che hanno sostenuto l’attuale regime militare da quando è salito al potere lo scorso anno.

Mi sembra che il nuovo regime in Niger possa e debba inasprire la situazione.

Postato da b il 22 aprile 2024 alle 16:57 UTC | Permalink

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Equilibrismi impossibili, di Bernard Lugan

Un fattore determinante nell’individuare la posizione egemonica e dominante di una potenza imperiale all’interno della propria area di influenza e nelle dinamiche esterne ad essa è la capacità di istigare e determinare l’esito dei conflitti e di imporre una condizione di pace interna (pax imperiale). E’ quanto sono riusciti a fare le leadership degli Stati Uniti in Europa per lunghi decenni. La Francia di Macron ha raggiunto, al contrario, una fase parodistica della gestione delle contraddizioni nella sua area postcoloniale africana sino a diventare pericolosamente vittima e ostaggio dei contenziosi. Segno ineluttabile di un declino irreversibile condito di aspetti al limite del grottesco, ma con espressioni di sovranità, presenti in settori della classe dirigente che lasciano ancora sperare. Giuseppe Germinario

Quando era deputato al Parlamento europeo, Stéphane Sjourné, il nuovo Ministro degli Affari Esteri francese, era apertamente ostile al Marocco e guardava all’Algeria. E non si dica che si tratta di una questione di realpolitik sul gas, perché il futuro delle esportazioni di gas algerino è desolante: dato che la produzione media di gas del Paese è di circa 130 miliardi di m3, di cui il 30-40% viene reiniettato nei pozzi petroliferi per mantenerli attivi, l’Algeria ha solo circa 86 miliardi di m3 di produzione commercializzabile, di cui circa 35-40 miliardi di m3 vengono consumati localmente per produrre elettricità. In conclusione, entro il 2025 le esportazioni dovrebbero raggiungere circa 25 miliardi di m3, la metà del livello del 2018. Le esportazioni sono diminuite costantemente, passando dai 64 miliardi di metri cubi del 2005 ai 51 miliardi di metri cubi del 2018, ai 48 miliardi di metri cubi del 2019 e ai 41 miliardi di metri cubi del 2020. L’Algeria, che vede diminuire le proprie riserve, punta tutto sul progetto di un gasdotto trans-sahariano di 4.128 chilometri, che sarebbe in grado di trasportare il gas naturale nigeriano fino ai porti algerini e poi ai mercati europei. Un progetto spaventosamente realistico, visto che il gasdotto dovrebbe attraversare regioni saheliane in guerra o addirittura in stato di totale anarchia. In queste condizioni, quali investitori sarebbero disposti a rischiare decine di miliardi di dollari per portare a nord il gas prodotto nella regione costiera nigeriana? Ecco perché l’opzione più sicura è quella di esportare questo gas direttamente attraverso un gasdotto marino, da cui il progetto Nigeria-Morocco Gas Pipeline (NMGP). 5. Il progetto, che riunirebbe tutti i gasdotti della Nigeria e del Marocco, è stato concepito come una sorta di “gasdotto”. Questo progetto, che riunirebbe tutti i Paesi produttori di gas dell’Africa occidentale, correrebbe lungo la costa dell’Africa occidentale, danneggiando la produzione di gas dei Paesi costieri. In tutto sono 16 i Paesi coinvolti nel progetto, tra cui tutti i Paesi dell’ECOWAS, che potranno beneficiare delle sue ricadute, in particolare i Paesi senza sbocco sul mare come il Mali, il Burkina Faso e il Niger, che beneficerebbero di rampe terrestri. La prima fase del gasdotto collegherà i giacimenti offshore di Grande Tortue Ahmeyim (GTA), ai lati del confine marittimo tra Mauritania e Senegal, a Tangeri, in Marocco. Anche se la sinistra ha sempre avuto “occhi di Chimène” per l’Algeria, che non smette mai di accusare la Francia, gli interessi di quest’ultima richiedono una riconciliazione con il Marocco, che richiede il riconoscimento della natura marocchina del Sahara occidentale… che l’Algeria vedrà come una provocazione. La politica dell'”insieme” non è certo facile…

Nel numero di agosto 2023 de L’Afrique Réelle, abbiamo analizzato la storia della disputa tra Algeria e Marocco. Questa disputa affonda le sue radici nelle amputazioni territoriali subite dal Marocco a vantaggio dell’allora Algeria francese. Oggi analizzeremo il modo in cui sono state effettuate queste demarcazioni di confine, le proposte di rettifica avanzate dalla Francia e le ragioni del rifiuto del Marocco. POSIZIONI INCONCILIABILIDurante il periodo coloniale, il Marocco è stato amputato territorialmente a est e a sud. Secondo il diritto internazionale, il Marocco era quindi uno “Stato smembrato dalla colonizzazione” che, dopo l’indipendenza, doveva essere ricostituito entro i confini precoloniali. Ciò era però impossibile perché il giovane Stato algerino, creato dalla Francia e territorialmente a spese del Marocco, difendeva lo status quo, cioè il principio dei confini ereditati dalla colonizzazione. Questo è il cuore della disputa tra Algeria e Marocco. Va notato che, tra tutti gli Stati africani colonizzati, il Marocco è stato la vittima più territoriale delle linee di confine imposte dalle potenze coloniali. A est, la Francia ampliò il suo possedimento algerino annettendogli regioni storicamente marocchine: Touat, Saoura, Tidikelt, Gourara e Tindouf (carta a pagina 10); a sud, la Spagna amputò Saquia el-Hamra e Oued ad Dahab, due province marocchine meridionali, trasformandole nella colonia del Sahara occidentale (carta a pagina 17). Nel 1956, il Marocco riacquistò l’indipendenza, ma non la piena sovranità territoriale poiché, il 2 marzo e il 7 aprile 1956, quest’ultima fu ristabilita solo sulle due ex aree dei protettorati francese e spagnolo. Il Marocco si trovò allora di fronte a una situazione paradossale: 1) gli fu chiesto sia di ratificare la perdita delle sue province orientali, ossia Touat, Saoura, Tidikelt, Gourara e la regione di Tindouf, sia di riconoscere il loro legame con l’Algeria, lo Stato nato nel 1962 dalla decolonizzazione francese. L’Algeria, sostenendo di essere l’erede della colonizzazione francese e delle sue frontiere, ha rifiutato ogni trattativa territoriale con il Marocco, violando così i propri impegni e rinnegando la propria firma, come vedremo in seguito2. ) Poi, al momento della decolonizzazione del Sahara spagnolo, è stato chiesto al Marocco di accettare che le sue province sahariane di Saquia el-Hamra e Oued ad Dahab diventassero uno “Stato sahariano”, pseudopodia di un’Algeria che voleva aprirsi all’Oceano Atlantico. Per questo l’Algeria arma e finanzia il Polisario e mantiene relazioni diplomatiche con i Paesi che ancora riconoscono la SADR (Repubblica Araba Saharawi Democratica). Infine, questo è il motivo per cui l’Algeria sta bloccando una soluzione alla questione del Sahara Occidentale: secondo la Risoluzione ONU n. 1514 del 14 ottobre 1960: “I territori coloniali strappati a un Paese sovrano non possono avere alcuna forma di decolonizzazione se non la loro reintegrazione nel Paese d’origine da cui sono stati dissociati”. Articolo VI: “Se uno Stato è stato smembrato dal colonialismo, ha il diritto di recuperare la sua integrità territoriale dopo la sua decolonizzazione”. Prima dello smembramento coloniale, i confini del Marocco erano riconosciuti dai trattati internazionali e il Protettorato non li aveva resi nulli. Così, nel 1956, al momento dell’indipendenza del Marocco, nel 1962, al momento dell’indipendenza dell’Algeria, e nel 1975, al momento della decolonizzazione del Sahara spagnolo, la sovranità del Marocco doveva essere ristabilita sulle province da cui era stata amputata, sia dalla Francia che dalla Spagna. Le posizioni dei due Paesi sono inconciliabili: il Marocco ha sempre sostenuto che le linee di demarcazione tracciate unilateralmente dai colonizzatori francesi e spagnoli non erano opponibili ai suoi diritti storici, anche se questi ultimi erano stati posti sotto amministrazione fiduciaria per diversi decenni. Al contrario, l’Algeria si è attenuta allo stato di fatto coloniale, cioè al mantenimento delle frontiere create dalla colonizzazione, sia che si trattasse di frontiere vere e proprie, sia che si trattasse di semplici linee di demarcazione amministrative, e questo in virtù del principio secondo cui “le frontiere dei nuovi Stati sono stabilite sulla base delle frontiere delle ex province coloniali a cui questi Stati succedono”. Ma l’Algeria si spinge ancora più in là nel suo atteggiamento anti-marocchino. Oltre all’intangibilità delle frontiere ereditate dalla colonizzazione, tracciate a suo grande vantaggio a spese del Marocco, l’Algeria pretende che il diritto dei popoli all’autodeterminazione sia applicato nel caso del Sahara Occidentale, anche se questo territorio non ha nulla a che fare con l’Algeria. È questa insolita ed esorbitante richiesta algerina che ha dato origine alla questione del Sahara Occidentale, ed è questa stessa questione che mantiene un focolaio di tensione tra Rabat e Algeri.

QUANDO LA FRANCIA HA PROPOSTO UNA RETTIFICA FRONTALIERA AL MAROCCO Le autorità francesi hanno sempre ammesso che la costituzione territoriale dell’Algeria è stata in parte ottenuta a spese del Marocco. Negli anni Cinquanta, infatti, volevano riparare, per così dire, alla più grave delle amputazioni subite dal Marocco, prima di concedere l’indipendenza all’Algeria. Tuttavia, per una questione di solidarietà maghrebina, il Marocco rifiutò, scegliendo invece di riporre la propria fiducia nella futura Algeria indipendente. Il minimo che si possa dire è che l’Algeria si dimostrò molto ingrata. Dopo la Dichiarazione congiunta del 2 marzo 1956, che pose fine al protettorato francese sul Marocco e gli restituì l’indipendenza, la Francia si dichiarò pronta ad accettare la restituzione della regione di Tindouf e della Hamada du Draa, amministrativamente annesse all’Algeria francese. Una commissione congiunta franco-marocchina si riunì per discutere l’interpretazione del Trattato di La Marnia del 1845, gli accordi del 1901, 1902 e 1910 e i tracciati delle cosiddette linee Varnier e Trinquet (carta a pagina 14), che avrebbero risolto i problemi di Béchar, Tindouf e del Sahara occidentale a nord del 24° parallelo. Aziz Maarouf ha esposto chiaramente il problema: “Nel 1956, quando il Marocco firmò le convenzioni con Francia e Spagna che sancirono la sua indipendenza, si trovò liberato, ma entro i limiti stabiliti dalla colonizzazione. Non tutto il territorio era stato recuperato e nessuna delle ex potenze coloniali lo contestava. Per quanto riguarda la Francia, dopo gli accordi del 1956 fu persino istituita una commissione congiunta per studiare la controversia. I suoi lavori si trascinarono. I marocchini, che ponevano la guerra d’Algeria al centro delle loro preoccupazioni, rifiutarono di discutere ulteriormente con la Francia e insistettero sul fatto che il problema non era più di competenza di Parigi, ma di Algeri, e che sarebbe stato affrontato non appena il Paese avesse riacquistato l’indipendenza. Questo era il senso dell’accordo concluso tra Hassan II e Ferhat Abbas nel 1961”. (Jeune Afrique, n°151, 30 agosto 1963) A più riprese, la Francia propose al Marocco di negoziare le amputazioni territoriali subite durante il periodo coloniale. Tuttavia, nel 1960, il sultano Mohammed V rispose senza mezzi termini: “Qualsiasi negoziato con il governo francese sulle rivendicazioni e i diritti del Marocco sarà considerato come una pugnalata alle spalle dei nostri amici algerini che stanno combattendo, e preferisco aspettare l’indipendenza dell’Algeria prima di sollevare la disputa sui confini con i miei fratelli algerini”. “Nel suo libro Le Défi (La Sfida), il re Hassan II ha confermato l’esistenza delle proposte francesi e ha spiegato perché il Marocco non vi ha dato seguito: “Al termine della guerra d’Algeria, la Francia si è offerta a più riprese di risolvere con noi la questione dei confini a est e a sud. Abbiamo rifiutato (…) Al momento del cessate il fuoco (marzo 1961), ci siamo nuovamente rifiutati di permettere alla Francia di restituirci i territori marocchini alle frontiere orientali”. (Le Défi, pp. 91-92) La politica marocchina fu allora quella di fidarsi dei leader della futura Algeria indipendente, con i quali sottoscrisse accordi sulla questione dei confini. Questi accordi furono presto dimenticati dall’Algeria indipendente…

L’ALGERIA VIOLA I SUOI IMPEGNI Dopo aver rifiutato di negoziare con la Francia la rettifica dei confini, il 6 luglio 1961 il Marocco firmò un accordo con il GPRA (Governo provvisorio della Repubblica algerina) in cui si stabiliva che le questioni di confine tra i due Paesi sarebbero state risolte per via negoziale non appena l’Algeria avesse ottenuto l’indipendenza. Ma l’Algeria indipendente rinunciò alla firma. Sempre nel suo libro Le Défi, il re Hassan II scrisse: “(…) essendo chiaramente inteso che la nuova Algeria non accetterà in nessun caso che il Marocco sia danneggiato nel Sahara dalle modifiche territoriali imposte dalla Francia (…) Un accordo in tal senso è stato firmato il 6 luglio 1961 a Rabat dal presidente Ferhat Abbas e da me, con l’accordo formale del signor Ben Bella (Le Défi, p. 68). Le richieste marocchine riguardavano la linea di frontiera marocchino-algerina nella regione del Figuig, l’assenza di un accordo che fissasse la frontiera a sud del passo di Teniet es-Sassi e l’annessione all’Algeria delle regioni di Colomb-Béchar, Tindouf e Tabelbala. Con l’accordo del 6 luglio 1961, il GPRA (Governo provvisorio della Repubblica algerina) si impegnò a negoziare la questione della demarcazione dei confini una volta che l’Algeria avesse ottenuto l’indipendenza. Il 13 marzo 1963, ad Algeri, Re Hassan disse al Presidente Ben Bella: “Signor Presidente, c’è ancora Tindouf, e lei non può non riconoscere che Tindouf è certamente la più flagrante ed evidente di tutte le ingiustizie[1]”. La risposta del Presidente Ben Bella è stata la seguente: “Chiedo a Vostra Maestà di concedermi il tempo di creare le istituzioni algerine, di diventare capo dello Stato algerino e di prendere in mano il partito dell’opposizione.
e di prendere in mano il partito di opposizione, e poi, verso settembre-ottobre, avrò la pienezza e la qualità che mi permetteranno di aprire con voi la questione delle frontiere, fermo restando che non si può pensare che gli algerini siano puramente e semplicemente gli eredi della Francia per quanto riguarda le frontiere dell’Algeria. Mi sbagliavo a crederlo, perché fu proprio nell’ottobre 1963 che piccole guarnigioni marocchine furono attaccate e annientate a Hassi Beïda e a Tinjoub (Le Défi, p. 91). In effetti, nell’ottobre 1963, la guerra scoppiò lungo la frontiera algero-marocchina. Da Figuig a nord di Tindouf, la “guerra delle sabbie” contrappose gli eserciti dei due Paesi fino alla firma del cessate il fuoco il 30 ottobre. Per porre fine a queste dispute di confine, i due Paesi firmarono una serie di accordi, tra cui il Trattato di Ifrane nel 1969, volto a risolvere le dispute di confine tra Marocco e Algeria. Poi, il 27 maggio 1970, a Tlemcen, in Algeria, il re Hassan II e il presidente Boumediene si incontrarono: “È stato a Tlemcen, il 27 maggio 1970, che il presidente Boumediene e io abbiamo deciso che una commissione congiunta avrebbe risolto la questione dei confini”. (Le Défi, p.92) Il 15 giugno 1972, un accordo bilaterale ratificò la linea di confine coloniale tra i due Paesi, un’enorme concessione marocchina che si spiegava con la questione del Sahara occidentale, da cui la Spagna stava per ritirarsi. In cambio del riconoscimento dei confini coloniali e delle conseguenti amputazioni territoriali, il Marocco si aspettava un sostegno, o almeno la neutralità, nel suo tentativo di riunificare il Sahara occidentale. Ma, stufo del precedente atteggiamento algerino e sospettando che l’Algeria non avrebbe accettato questa riunificazione, il Marocco ha legato la ratifica della Convenzione del 1972 al riconoscimento da parte dell’Algeria di tutti i confini del Marocco, compresi quelli del Sahara occidentale, al fine di raggiungere una soluzione globale dei confini. Poi, il 16 novembre 1977, di fronte all’atteggiamento ostile dell’Algeria, che sosteneva la creazione di uno “Stato del Sahara” indipendente, uno pseudopodio che le avrebbe dato un’apertura sull’Oceano Atlantico, il re Hassan II annunciò che l’Accordo sulle frontiere e la cooperazione tra Marocco e Algeria del 1972 non sarebbe stato ratificato dal Marocco.

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La fiaccola arde tra Mali e Algeria, di Bernard Lugan

La Francia, comunque, ha perso troppa credibilità per recuperare spazio nella “sua” Africa, tanto meno in Algeria_Giuseppe Germinario

La fiaccola arde tra Mali e Algeria
La tensione tra il Mali e l’Algeria è attualmente alta. Mercoledì 20 dicembre 2023, l’ambasciatore algerino a Bamako è stato convocato dalla giunta militare al potere. A sua volta, il giorno successivo, giovedì 21 dicembre, l’ambasciatore maliano ad Algeri è stato convocato presso il Ministero degli Affari Esteri algerino.

Bamako rimprovera ad Algeri i suoi legami con i “separatisti” tuareg e l’accoglienza riservata martedì 19 dicembre dal presidente Abdelmaajid Tebboune a una delegazione politica e religiosa del Mali guidata dall’imam Mahmoud Dicko. Questo influente leader religioso di etnia Peul è un oppositore della giunta. Ciò potrebbe aver indotto la giunta a pensare che Algeri stia cercando di aprire un nuovo fronte in Mali per dare un po’ di respiro ai suoi alleati tuareg, attualmente in difficoltà militari… Come se non bastasse, il 22 e il 23 dicembre, il ministro degli Esteri maliano, Abdoulaye Diop, si è recato in visita in Marocco, Paese con il quale l’Algeria ha interrotto unilateralmente le relazioni diplomatiche nell’agosto 2021…

Dietro questi recenti avvenimenti, c’è in realtà una disputa di lunga data e profondamente radicata tra Algeri e Bamako. E poiché i due Paesi condividono un confine lungo 1400 chilometri e le loro popolazioni tuareg sono intrecciate, gli eventi fungono da vasi comunicanti.

Il problema è noto:

1) L’Algeria, che considera il nord del Mali come l’estensione meridionale della sua vastità sahariana e, per dirla senza mezzi termini, il suo “protettorato”, è sempre stata coinvolta nella risoluzione delle guerre tuareg in Mali. Poiché teme il contagio tra i propri tuareg, non vuole che questi vengano coinvolti nella polveriera maliana. Algeri è quindi il principale mediatore nella questione maliana dalla firma nel 2015 dell’Accordo di Algeri tra Bamako e i gruppi armati tuareg. Al contrario, la giunta maliana ritiene che questo accordo dia mano libera a coloro che definisce, a ragione, “separatisti”. Per i retroscena di questa vicenda, si rimanda al mio libro Histoire du Sahel des origines à nos jours.

2) L’Algeria ha mantenuto costantemente relazioni con i movimenti tuareg. È noto che il leader storico delle ultime rivolte, Iyad Ag Ghali, ha legami con Algeri. La sua famiglia vive in Algeria e lui stesso vi ha la sua base di appoggio.

3) Algeri si è accontentata di vedere il nord del Mali sottrarsi al potere di Bamako senza però raggiungere una vera indipendenza, che avrebbe potuto dare ai suoi tuareg. Al contrario, i militari maliani hanno un obiettivo prioritario, ovvero la riconquista del nord del Paese. Un obiettivo utopico fino alle ultime settimane. Tuttavia, l’intervento massiccio del gruppo Wagner ha permesso alle FAMA (Forze armate maliane) di prendere Kidal, la “capitale” tuareg svuotata della sua popolazione, che è partita verso il deserto e i confini algerini. In attesa di vendetta…

Gli interessi dell’Algeria sono quindi contrapposti a quelli del suo alleato storico, la Russia, il Paese che le fornisce quasi tutte le armi… Algeri sta quindi tentando un riavvicinamento con Parigi… Una questione da seguire, ma a distanza, ora che i protagonisti hanno chiesto la partenza delle forze francesi…

ALLE ORIGINI DEL “MALE ALGÉRINO” In “Le mal algérien” (Collection Bouquins), pubblicato nel giugno 2023, Jean-Louis Levet e Paul Tolila non si limitano a tracciare un quadro impietoso della predazione praticata dai dirigenti algerini dal 1962. Questo libro finemente documentato, scritto da due economisti che si sono recati in Algeria per diversi anni, mette in luce le radici di quello che definiscono il “male algerino”. È un libro che dovrebbe essere letto e riletto da tutti coloro che in Francia, sovvenzionati o “utili idioti”, continuano ad avere “occhi di Chimène” per l’Algeria e la sua “rivoluzione”. Un libro che dovrebbero leggere anche quei politici francesi che si inginocchiano ogni volta che parlano di Algeria. A cominciare da Emmanuel Macron che, in anticipo, ha giustificato tutte le richieste algerine di “riparazione” quando, in modo del tutto irresponsabile, ad Algeri, ha parlato della colonizzazione come di un “crimine contro l’umanità” perché, come scrivono gli autori: “Da quando le parole “crimine contro l’umanità” sono state pronunciate (da Emmanuel Macron) per descrivere la colonizzazione, le autorità algerine hanno avuto la possibilità di metterci nella posizione di eterni colpevoli, perché questo è l’unico crimine per il quale non c’è prescrizione”. ” (p. 348) – Una situazione ben riassunta in una frase da: “Chiedeteci il perdono… che non vi concederemo mai”. (p. 348) In questo libro, seguiamo la costruzione della falsa storia dell’Algeria, assistendo al naufragio economico e sociale del Paese come risultato dell’immensa corruzione e predazione perpetrata dai profittatori dell’indipendenza. Siamo sbalorditi dalla portata dei regolamenti di conti tra i clan mafiosi che si spartiscono il potere. E infine capiamo perché la “riconciliazione” con la Francia è impossibile. Nel mio libro Algérie l’histoire à l’endroit, cito Mohamed Harbi, che ha scritto: “La storia è l’inferno e il paradiso degli algerini.
Inferno e paradiso per gli algerini”. Paradiso perché, per dimenticare questo inferno, i leader algerini vivono in una storia inventata in cui fingono di credere attraverso un “incantesimo epico permanente” volto a “proteggere il sistema algerino e gli interessi della nationklatura che ne beneficia” (p. 14). Come scrivono ancora gli autori: “L’ago storico dell’Algeria sembra essere bloccato sulla guerra d’indipendenza, che occupa un posto e uno status ufficiali per lo Stato algerino, che rivendica apertamente il monopolio della sua narrazione ufficiale. (p.14) Da qui l’impossibilità di rivederla perché è un unogma. In queste condizioni, è facile capire che il “lavoro comune della memoria” tanto caro alla Francia non è altro che una farsa: la Francia apre i suoi archivi mentre quelli dell’Algeria restano chiusi. Quando Abdelmadjid Chikhi, l’omologo algerino di Benjamin Stora, “si è comportato come un procuratore militante e non come uno storico” (p.350). La storia è quindi al centro del “male algerino”, perché nasconde ciò che è accaduto durante la guerra, in particolare l’assassinio di Abane Ramdane, la trappola tesa ad Amirouche e il colpo di Stato del 1962, quando l’esercito di frontiera, i cui capi non avevano mai sparato un colpo, rovesciò il GPRA e schiacciò la resistenza dei maquisards. Essendo la matrice del “Sistema” che ha fatto e farà di tutto per rimanere al potere, la storia ufficiale non potrà essere messa in discussione finché governerà l’Algeria. Un “Sistema” che non ha avuto paura di usare il grottesco per sopravvivere. Ad esempio, quando il presidente Bouteflika è stato colpito da un ictus e non ha potuto svolgere le sue funzioni, è stato rappresentato nelle cerimonie ufficiali da un suo ritratto… Il libro descrive anche il regolamento di conti all’interno dell’esercito, quello che altrove ho definito “odjak dei giannizzeri”, attraverso denunce che non sono altro che gettoni dati alla strada per garantire che il “Sistema” rimanga al suo posto. Dalla morte del generale Gaïd Salah, sono in corso epurazioni e regolamenti di conti tra le persone vicine a colui che era soprannominato il “Ghiottone” e che era conosciuto come uno degli ufficiali più corrotti dell’esercito. L’epurazione è guidata dal nuovo Capo di Stato Maggiore, il generale Said Chengriha. Egli ha fatto licenziare e processare centocinquanta ufficiali, tra cui diversi generali, e decine di alti funzionari e ministri. Ma, poiché alcuni lo accusano di essere stato più che coinvolto nel traffico di droga e di armi, i giorni saranno difficili per il suo popolo una volta che sarà stato richiamato a Dio… Profittatori e prebendari Coloro che vivono direttamente o indirettamente di corruzione sono i “beneficiari” del Ministero di Moudjahidine e tutti i membri di quella che laggiù è conosciuta come la “famiglia rivoluzionaria”, integrati in particolare nell’ONM (Organizzazione Nazionale di Moudjahidine), nonché i loro discendenti. Eppure, secondo l’ex ministro algerino Abdeslam Ali Rachidi, “tutti sanno che il 90% dei veterani, i moudjahidine, sono falsi” (El Watan, 12 dicembre 2015). Inoltre, come ho spiegato con cifre dettagliate nel mio libro “Algérie l’histoire à l’endroit”, il numero di moudjahidine era inferiore al numero di algerini che combattevano nell’esercito francese… Nel gennaio 1961, quando il processo che portava all’indipendenza era chiaramente in corso, circa 250.000 algerini servivano nell’esercito francese, dagli ufficiali agli harkis. Secondo il 2° Ufficio francese, nel marzo 1962, quando furono firmati gli accordi di Evian, si stimava che ci fossero 15.200 combattenti nazionalisti sul fronte interno, sia regolari che ausiliari, e 22.000 combattenti all’esterno (l’ALN, o esercito di frontiera) in Tunisia e 10.000 in Marocco. La forza di combattimento degli indipendentisti ammontava quindi a 50.000 uomini in armi, contro i quasi 250.000 dell’esercito francese, cioè cinque volte meno.L’ONM è una vera e propria sanguisuga, poiché il Ministero dei Mujahidin, che è il fronte istituzionale, beneficia del terzo budget statale. Nel 2017, con 245 miliardi di dinari (mds/dz) – a seconda del tasso di cambio, circa 2 miliardi di euro – il bilancio di questo ministero era appena dietro a quelli dell’Istruzione e della Difesa. Ho anche spiegato l’originalità algerina che, contrariamente alla legge naturale secondo cui più si va indietro nel tempo, meno persone ci sono che hanno conosciuto Napoleone… In Algeria, al contrario, più passano gli anni, più aumenta il numero di “veterani”… Così, alla fine del 1962-inizio del 1963, l’Algeria aveva 6.000 mujahidin identificati, 70.000 nel 1972 e 200.000 nel 2017. Nel 2010, attraverso un fenomeno di generazioni spontanee, il numero dei mujahidin e dei loro beneficiari ha raggiunto 1,5 milioni. Ciò si spiega con il fatto che in Algeria, a più di mezzo secolo dall’indipendenza, si continua a richiedere la tessera di ex mujahidin… alcuni di loro, che nel 1962 non avevano nemmeno 10 anni, l’hanno addirittura ottenuta… L’emblematico “affare Mellouk”, dal nome del giudice Benyoucef Mellouk, ha illustrato questa commedia perché ha osato denunciare 312 (!!!!!) dei suoi colleghi che erano stati coinvolti nella guerra al terrorismo. L’affannosa ricerca dello status di ex moudjahidine si spiega semplicemente con il fatto che i titolari della preziosa tessera e i loro legittimi aventi diritto ricevono una pensione dallo Stato, godono di prerogative e beneficiano di privilegi. La carta, che funge da ammortizzatore sociale, dà anche diritto a licenze per taxi o bevande, agevolazioni per l’importazione (in particolare per le auto in franchigia), tariffe aeree ridotte, agevolazioni creditizie, posti di lavoro riservati, opportunità di pensionamento, promozioni più rapide, alloggi prioritari, ecc. Non contenti di essersi fatti rubare l’indipendenza dall’ALN, l’esercito di frontiera, nell’estate del 1962, ora devono sopportare di essere equiparati a impostori prebendari che, come loro, portano la carta del mujahidin. Per questo, nel 2003, alcuni veri ex militari di tutta l’Algeria hanno creato un’associazione per denunciare gli impostori. Secondo loro, l’80% dei membri dell’ONM erano falsi maquisard… compreso lo stesso ministro dei mujahidin… (Liberté-Algérie 28/10/2003). Secondo il quotidiano El Watan del 10 febbraio 2007, su una popolazione di 70.000 abitanti, la sola città di Nouakchott contava 1,5 milioni di abitanti. Secondo il quotidiano El Watan del 10 febbraio 2007, su una popolazione di 70.000 abitanti, la sola città di Nouakchott contava 1,5 milioni di abitanti, mentre la città di Aïn Defla (ex Duperré) contava 14.000 falsi moudjahidine, tra cui 1.300 donne… Per quanto riguarda Koléa, nella regione di Mitidja, i 2/3 dei suoi moudjahidine sarebbero impostori (Libération, 27 ottobre 2004). Sempre secondo il colonnello Ahmed Bencherif, questa inflazione di falsi maquisards si spiega con il fatto che, nominati dal “Sistema”, i dirigenti dell’ONM applicano la loro politica di sviluppo di una clientela di obbligati, che permette loro di far credere di godere di un sostegno popolare. Ciò è reso ancora più facile dal fatto che, come ha detto Abid Mustapha, ex colonnello della Wilaya V, agli organi direttivi dell’ONM: “Noi (i veri combattenti) siamo diventati una minoranza! Nel 2008, Nouredine Aït Hamouda, deputato dell’RCD (Rally per la Cultura e la Democrazia), ha fatto scalpore quando, in aula, ha denunciato lo scandalo dei falsi mujahidin. E ne aveva la legittimità, essendo figlio del colonnello Amirouche Aït Hamouda, leader emblematico del maquis cabilo di Willaya III, ucciso in battaglia il 29 marzo 1959[1]. Inoltre, ha fatto esplodere il mito del milione e mezzo di morti causati dalla guerra d’indipendenza, una cifra del tutto fantasiosa ma che permette al “Sistema” di giustificare il numero surreale di persone che hanno diritto ai sussidi, in particolare vedove e orfani. Secondo Nouredine Aït Hamouda, ¾ dei 2 milioni di portatori della tessera di mujahidin e degli aventi diritto sono falsi… Per essere riconosciuti come mujahidin, non c’è bisogno di formalità onerose. È sufficiente che due testimoni attestino le vostre “gesta in guerra” e riceverete l’Attestation communale d’ancienencombattant (certificato comunale di status di veterano). Acquistati dal “Sistema” che li detiene, e a maggior ragione quando sono impostori, i titolari delle carte costituiscono la sua spina dorsale popolare. Il loro notevole peso politico è esercitato in tutto il Paese da diverse associazioni nazionali, come l’ONEC (Organizzazione Nazionale dei Figli della Shuhada (Martiri)), il CNEC (Coordinamento Nazionale dei Figli della Shuhada) e l’ONEM (Organizzazione Nazionale dei Figli dei Mujahidin). Quest’ultima, che conta 1,5 milioni di membri, ha filiali in tutta l’Algeria e anche in Francia. Il numero dei suoi membri si spiega con il fatto che, in un’intervista rilasciata a Libération il 27 ottobre 2004, M’barak Khalfa, allora capo dell’ONEM, ha potuto dichiarare senza il minimo pudore che, poiché: “(…) ci sono stati almeno un milione (!!!) di mujahidin, questo fa sei o sette milioni di bambini e quindi potenziali membri”. Secondo il colonnello Ahmed Bencherif, ex capo della gendarmeria nazionale e presidente dell’Associazione per la lotta contro i falsi mujahidin, ogni mese vengono versati 750 milioni di dinari ai falsi mujahidin.Dipendenza dagli idrocarburiNel 2022, l’industria algerina rappresentava appena il 5% del PIL, rispetto al 7,5% del 2000. Quindi, invece di svilupparsi, l’industria algerina si sta riducendo ulteriormente. Tutto dipende dagli idrocarburi. L’agricoltura è in stato di abbandono, con 1/3 delle terre coltivabili incolte e rese cerealicole di appena 6 quintali per ettaro, contro i 12 della Tunisia e i 15 del Marocco. Contrariamente a quanto affermano i suoi leader, l’Algeria non è in grado di compensare la mancata fornitura di gas all’UE da parte della Russia aumentando le sue esportazioni attraverso il gasdotto Transmed che la collega all’Italia, perché le sue riserve si stanno esaurendo e i tre quarti della sua produzione vengono consumati localmente. Anno dopo anno, l’Europa (l’UE) ha importato poco più del 40% del suo consumo di gas dalla Russia, il 20% dalla Norvegia e tra l’11 e il 12% dall’Algeria.
Entro il 2021, l’Algeria avrà prodotto 130 miliardi di metri cubi (bcm) di gas su una produzione mondiale totale di 3.850 bcm, molto indietro rispetto a Stati Uniti, Russia, Iran e persino Cina. Inoltre, dei 130 miliardi di m3 prodotti dall’Algeria, vanno dedotti:- 48 miliardi di m3 per la produzione di gas di città per il consumo locale;- 20 miliardi di m3 per la produzione di energia elettrica, con l’Algeria che produce il 99% della sua energia elettrica dal gas naturale;- 20 miliardi di m3 per la reiniezione nella rete;- 20 miliardi di m3 per la produzione di energia elettrica dal gas naturale. 20 miliardi di m3 per la reiniezione nei pozzi petroliferi o nelle sacche di gas; – 5 miliardi di m3 per il flaring, cioè la combustione del gas non utilizzato, per un totale di 93 miliardi di m3 su una produzione totale di 130 miliardi di m3. Ciò lascia all’Algeria solo circa 40 miliardi di m3 di gas da esportare. Considerando che l’UE importa circa 520 miliardi di m3 di gas all’anno, è difficile capire come l’Algeria possa fare altro che aumentare aneddoticamente le sue forniture, sostenendo così di essere in grado di compensare una parte significativa delle forniture russe… A maggior ragione, ed è importante non dimenticare che il 28 gennaio 2013, intervistato da Maghreb Emergent, Tewfik Hasni, ex ministro algerino dell’Economia, delle Finanze e dell’Industria, ha dichiarato che l’Algeria non ha alcuna intenzione di esportare gas in Russia. Tewfik Hasni, ex vicepresidente di Sonatrach (Société nationale pour la recherche, la production, le transport, la transformation et la commercialisation des hydrocarbures) ed ex amministratore delegato di NEAL, la filiale congiunta di Sonelgaz (Société nationale de l’électricité et du gaz) e Sonatrach, ha dichiarato: “Tutti gli esperti seri sanno che le nostre riserve garantiscono meno di vent’anni di consumo al ritmo attuale di sfruttamento (…). … Se teniamo conto dello sviluppo del consumo interno al ritmo attuale, per fare un esempio, Sonelgaz avrà bisogno di 85 miliardi di metri cubi di gas nel 2030 solo per la produzione di elettricità”. All’epoca, Tewfik Hasni basava la sua stima sul consumo interno, che aumenta del 7% all’anno, il che significa che l’Algeria avrà meno gas da immettere sul mercato. Il 1° giugno 2014, l’allora primo ministro algerino, Abdelmalek Sellal, ha rilasciato una dichiarazione sensazionale all’Assemblea Nazionale del Popolo (APN), in cui ha cercato di sensibilizzare i parlamentari sull’imminente tragedia: “Entro il 2030, l’Algeria non sarà più in grado di esportare idrocarburi, se non in piccole quantità (…). Entro il 2030, le nostre riserve copriranno solo il nostro fabbisogno interno”. Quanto al gas di scisto, non può essere la soluzione: sebbene l’Algeria disponga di enormi riserve in questo settore, per produrre un miliardo di metri cubi di gas (MBTu o Million British Thermal Unit) occorre un milione di metri cubi di acqua dolce. Eppure, come tutti i Paesi del Maghreb, l’Algeria è crudelmente a corto di acqua… e ne avrà sempre più bisogno a causa dell’aumento della popolazione e dei cambiamenti climatici. Per l’Algeria, non riuscendo a rilanciare la produzione di gas, l’urgenza è di farlo durare il più a lungo possibile, e quindi di razionalizzarne l’uso. Tuttavia, per preservare la pace sociale, il governo mantiene artificialmente basse le tariffe, il che significa che una parte considerevole e crescente delle risorse di gas viene destinata al consumo domestico piuttosto che alle esportazioni che generano valuta estera. Come scrivono Jean-Louis Levet e Paul Tolia, la “malattia algerina” è davvero radicata…

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La questione del Sahel, di Bernard Lugan

La questione del Sahel è visibile nella fragilità dei suoi Stati, nell’azione del jihadismo e nell’onnipresenza della criminalità. Le chiavi di lettura della questione del Sahel possono essere raggruppate intorno a dieci questioni principali:
1) Come area di contatto e di transizione, ma anche come frattura razziale tra l’Africa “bianca” e “nera”, il Sahel riunisce la civiltà meridionale dei granai, o Bilad el-Sudan (la terra dei neri), e la civiltà nomade del nord, Bilad el-Beidan (la terra dei bianchi).
2) Ambiente naturalmente aperto, il Sahel è oggi diviso da confini artificiali, vere e proprie trappole per le persone, il cui tracciato non tiene conto delle grandi zone di transumanza attorno alle quali si è scritta la sua storia.
3) La vastità del Sahel è il dominio del lungo periodo, in cui l’affermazione di una costanza islamica radicale è soprattutto l’alibi per l’espansionismo di alcuni popoli (berberi almoravidi nell’XI secolo, peul nel XVIII e XIX secolo).
4) A partire dal X secolo, e per oltre mezzo millennio, dal fiume Senegal al lago Ciad si sono succeduti regni e imperi (Ghana, Mali e Songhay) che hanno controllato le rotte meridionali del commercio trans-sahariano. Il commercio odierno si basa su queste grandi rotte.
5) A partire dal XVII secolo, le popolazioni sedentarie furono prese nella tenaglia predatoria dei Tuareg a nord e dei Peul a sud.
6) Alla fine del XIX secolo, la conquista coloniale bloccò l’espansione di queste entità nomadi e offrì la pace alle popolazioni sedentarie.
7) La colonizzazione ha certamente liberato i meridionali dalla predazione del nord, ma allo stesso tempo ha riunito razziatori e razziati entro i confini amministrativi dell’AOF (Africa Occidentale Francese).
8) Con l’indipendenza, i confini amministrativi interni dell’AOF divennero confini statali all’interno dei quali, essendo i più numerosi, i meridionali prevalsero sui settentrionali secondo le leggi dell’etnomatematica elettorale.
9) La conseguenza di questa situazione fu che in Mali, Niger e Ciad, a partire dagli anni ’60, i Tuareg e i Toubou che rifiutavano di essere sottomessi dai loro ex affluenti meridionali si sollevarono.10) I trafficanti fiorirono allora in tutto il Sahel.
Poi, a partire dagli anni Duemila, gli islamojihadisti si sono opportunisticamente intromessi nel gioco politico locale, facendo sì che la ferita etnico-razziale, aperta dalla notte dei tempi, si incancrenisse. Una ferita tanto più difficile da rimarginare se si considera che la regione è una terra in palio per le sue materie prime e il suo ruolo di snodo per numerosi traffici, con l’esplosione demografica suicida sullo sfondo.

RIFLESSIONI SULLA QUESTIONE DEL SAHEL

Il conflitto che attualmente sta coinvolgendo Mali, Burkina Faso e Niger è scoppiato nel gennaio 2012 nel nord del Mali, quando i combattenti tuareg hanno messo in fuga le forze armate maliane. All’epoca, stavamo assistendo alla chiara rinascita di un conflitto secolare tra Tuareg e sedentari del Sud, ma i “decisori” francesi commisero un grave errore di analisi. Non hanno capito – o si sono rifiutati di farlo – che l’islamismo non era altro che una copertura per le continue rivendicazioni dei Tuareg fin dall’indipendenza del Paese, e che non era altro che la superinfezione di una piaga etno-razziale millenaria. Accantonata l’operazione Serval, con la partenza dal Mali delle forze francesi e poi di quelle dell’ONU, il vero problema maliano è riapparso alla luce del sole. E non è l’islamismo, ma l’irredentismo tuareg. Lo scorso 12 settembre le forze armate maliane hanno subito un attacco mortale a Bourem, proprio il luogo in cui, nel gennaio 2012, è iniziata la guerra in Mali e che ha mandato in fiamme l’intera regione. Quanto a Timbuctù, all’inizio di ottobre era praticamente circondata, ma da allora si è assistito a un’inversione di tendenza, con una sorta di tregua tra i gruppi dello Stato Islamico e le Forze armate maliane che, sostenute da Wagner, sono riuscite a liberare Timbuctù prima di prendere la città di Kidal, la “capitale” tuareg. Le implicazioni di queste operazioni sono chiare: per lo Stato Islamico, il cui nemico prioritario è l’alleanza Tuareg-Al Qaeda, i suoi leader sembrano aver scelto di lasciare che l’esercito maliano e i Tuareg si affrontino in una battaglia che li esaurirà entrambi… prima di lanciare una grande offensiva in un secondo momento.

I TUAREG SCOMPARIRANNO?

Con la progressiva riduzione del loro territorio, i Tuareg sono minacciati di estinzione dal suicidio demografico sahelo-sahariano, poiché la loro terra d’origine viene gradualmente colonizzata da migranti provenienti da tutto il Sahel. Il risultato è una crisi sociale che non offre prospettive ai giovani inattivi. Senza futuro se non nel traffico di ogni genere, i giovani tuareg vengono lentamente, e per certi versi inesorabilmente, emarginati.

All’inizio del XX secolo, la vastità del Sahel-Sahara era abitata da quasi 2.500.000 persone suddivise in diversi gruppi etnici, alcuni nomadi, altri sedentari, distinti per lingua: a nord vivevano i Berberi (Sanhaja, Touareg, Mozabiti), i Mori (Arabi-Berberi), gli Arabi (Chaamba, Kunta), i Toubou e gli Zaghawa. Nel sud c’erano molti popoli, alcuni nomadi come i Peul, altri prevalentemente sedentari. Oggi i Tuareg costituiscono solo una minoranza tra i gruppi etnici del nord. Stimati in circa un milione e mezzo, si trovano nel sud dell’Algeria, intorno al Tassilin’Ajjer e alle città di In Salah, Djanet e Tamanrasset, nel nord del Mali e in Niger, intorno a Bilma e Agadez. L’esplosione demografica fa sì che entro il 2040 la popolazione del Sahel sarà raddoppiata, raggiungendo i 150 milioni. Le regioni tuareg settentrionali del Mali hanno visto la loro popolazione crescere del 72% dal 1987, con una media annua del 3,6%, e addirittura dell’80% a Kidal e Timbuctù in soli quattro anni, dal 2005 al 2009. In Niger, Paese con il più alto tasso di fertilità al mondo (7,1 figli per donna), il tasso di crescita annuale è stato di circa il 3% negli ultimi dieci anni e la regione sahariana di Agadez (Arlit, Bilma, Tchirozérine) ha accolto non meno di 70.000 nuovi arrivi tra il 2008 e il 2011. In Ciad, Abéché supera oggi i 200.000 abitanti, grazie soprattutto a un tasso di natalità che si avvicina al 45‰ e a una popolazione molto giovane (il 46% ha meno di 15 anni). La crescita demografica e l’urbanizzazione hanno un’influenza diretta sulle popolazioni locali, sempre più emarginate numericamente: nelle regioni di Gao e Timbuctù i touareg, che costituivano un terzo della popolazione all’epoca dell’ultimo censimento coloniale del 1950, sono oggi meno del 20%.
Questo declino, dovuto essenzialmente alla migrazione, può essere spiegato anche da un tasso di natalità inferiore a quello di altri gruppi etnici, da un aumento dei matrimoni esogami e da una significativa migrazione verso il Nord e il Golfo di Guinea. Tuttavia, questo declino è essenzialmente il risultato di nuove popolazioni provenienti dal nord (arabi del Maghreb) e dal sud (bambara, zerma) che si sono insediate nelle terre dei tuareg, sia come migranti che come lavoratori attratti da aziende straniere. La rete urbana è quindi cambiata nell’arco di un decennio. Più grandi e più numerose, le città della regione del Sahel-Sahara sono anche più varie e, accanto alle vecchie città crocevia come Timbuctù, Mourzouk e N’Djamena, stanno emergendo nuove città come Faya-Largeau, Dirkou, Arlit e Taoudéni, oltre a città di medie dimensioni (Djanet, Ghat, Ain Guezzam e Zouar) che fungono da punti di sosta sulle rotte trans-sahariane, ma anche da alternative alle grandi città incapaci di offrire un futuro ai migranti. In Mali, diverse città, come Koro e Tonka, che non esistevano nel 2005, hanno ora più di 50.000 abitanti. Questo fenomeno sta interessando anche il Nord. In Libia, ad esempio, la popolazione del Fezzan è cresciuta a un tasso annuo superiore al 10% dal 1984, mentre quella delle wilaya del sud della Tunisia (Médenine, Tataouine, Kébili e Tozeur) è aumentata dell’80% dal 2004. In Algeria, la popolazione della sola wilaya di Adrar è aumentata del 39% dal 1998.

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