Dell’uguaglianza: dialogo sui due Manifesti (seconda parte), di Alessandro Visalli

Dell’uguaglianza: dialogo sui due Manifesti (seconda parte)tratto da

https://tempofertile.blogspot.it/2017/11/delluguaglianza-dialogo-sui-due.html

 

Continua il dibattito avviato con la pubblicazione dei due manifesti per l’Europa http://italiaeilmondo.com/2017/10/24/quale-europa-a-cura-di-giuseppe-germinario/

Rileggendo le repliche di Roberto Buffagni al mio testo su “Lo scontro tra le diverse Europe”, che a sua volta era una replica al suo “Due appelli, due Europe” mi pare il punto dirimente sia il concetto adoperato di “uguaglianza”. Si tratta, a tutta evidenza, di un concetto-monstre; all’avvio della voce “Uguaglianza” della vecchia e insostituibile Enciclopedia Einaudi (14, pp. 515 e seg) si legge che “il concetto di uguaglianza ha un’estensione tanto vasta che si può affermare nei suoi confronti ciò che Hegel diceva di Dio, che preso di per sé è ‘un suono privo di senso, un mero nome’”.

Tuttavia la sua replica ci precipita in tale estensione; dunque tocca parlarne.

Nella prima parte della replica si afferma con un’utile schematizzazione idealtipica che il “progressismo”, individuato come nemico da Buffagni, sia caratterizzato da: “universalismo politico”, “relativismo spirituale”, “egualitarismo omologante”, “individualismo astratto”, e probabilmente soprattutto “telos e senso della storia identificati con la distruzione creatrice capitalistica e il progresso che meccanicamente ne consegue, in vista dell’obiettivo strategico/utopico del governo mondiale”, in conseguenza “scientismo”. Al contrario il “conservatorismo” sarebbe caratterizzato da “endiadi di universalismo spirituale e relativismo politico”, “primato ontologico della comunità sull’individuo e della gerarchia sull’eguaglianza tanto nella personalità dell’uomo quanto nella strutturazione della società”, “telos e senso della storia identificati con la trasmissione dell’eredità del passato e la perenne ricerca – sempre contrastata e sempre rinnovata, mai conclusiva – dell’ordine, in vista del bene comune”.

Questa opposizione rappresenterebbe la frattura lungo la quale tendono a ricomporsi i campi politici. E nel ricomporsi riavviano le guerre di religione, nel senso di guerre per il senso più profondo dell’essere uomo. Si arriva a porre i due opposti manifesti (questo e questo) come momento di manifestazione di un piano di conflitto profondo come lo furono le 95 tesi luterane (a posteriori).

Su questa valutazione, che solo i posteri potranno confermare, viene la prima sfida intellettuale che il testo pone: la ‘sinistra’ si dividerà a suo parere lungo la linea di faglia, e precisamente tra umanismo e quello che chiama ‘post-strutturalismo’. Il punto di differenza sarebbe nell’attribuzione di qualche sostanza naturale all’uomo ed al suo bene. Il cosiddetto post-strutturalismo (termine nel quale, come noto, si addensano le ampie tradizioni culturali, in particolare filosofiche), oltrepassa, appunto, lo strutturalismo marxista ed il materialismo, che include necessariamente una valutazione del bene e dell’uomo come dotato di propria natura, seguendo una critica radicale della ‘ragione’. Questa prende in effetti molte e diverse facce (nel mondo francofono, passando per una rilettura di Nietsche e Heidegger, sfocia nella genealogia foucaultiana o nella ‘decostruzione’ derridiana; in quello anglofono nella rilettura della tradizione pragmatista ed in autori come Rorty; in quello italiano nel cosiddetto ‘pensiero debole’ di Vattimo e poi nel pensiero delle moltitudini di Negri). La spaccatura si aprirebbe dunque tra post-marxisti, legati a qualche tipo di umanesimo, e post-metafisici che cercano di farne a meno.

È piuttosto difficile alzare barriere così nette, ad esempio nella seconda famiglia sono molto più frequenti riletture di autori sicuramente riconducibili alla “cultura politica del conservatorismo”, come Heidegger e Nietzsche, e sono in opera tentativi di sintesi come quello di Habermas e delle ultime generazione francofortesi (che, però, in qualche modo tornano verso Hegel).

Se comunque la questione dirimente fosse l’ancoraggio ad un concetto di natura umana “fondato religiosamente e/o metafisicamente” (ancorato alle tradizioni culturali greco-romana e cristiana) e dunque ancorato ad un’affermazione assoluta e universale della verità, saremmo in presenza di una frattura che grosso modo può essere fatta risalire al trauma della ‘guerra civile europea’ della prima metà del novecento. Ma tutte le tradizioni culturali che dal trauma traggono una sorta di cultura del sospetto (tutti i citati, sia pure in modo enormemente differenziato) faticano ad essere raggruppate dalla stessa parte secondo gli assi conservatore/progressista o destra/sinistra. Per fare un esempio è l’opposto di un progressista Heidegger, ma certamente sospetta la metafisica occidentale (alla quale riconduce certamente lo scientismo e il mito del progresso prometeico) e con essa l’identificazione di essenze. È per lui la domanda sull’essere che tiene in movimento la natura umana, caratterizzata dall’esserci e dall’essere per la morte, e che abita nel linguaggio (nella radura aperta da esso). Questa mossa è interpretata da autori come Rorty, in uno con la tradizione pragmatista alla quale è legato, come parte di un “linguistic turn” complesso da incasellare nelle categorie indicate.

Ma in fondo credo che il discorso non sia su questo piano, la questione centrale focalizzata è tra un universalismo che si traduce in imperialismo (non alieno anche alle tradizioni antiche) e un universalismo fondato su una distinzione tra “le due città”, agostiniano. Qui la critica alla rivoluzione francese, con la sua pretesa tutta moderna di creare in terra la perfezione tocca il tema della “uguaglianza”, che sarebbe in realtà “solo virtuale o potenziale”.

Nel secondo intervento ecco che la critica prende corpo: secondo Buffagni se si cerca di attuare l’eguaglianza si passa inevitabilmente il segno, precipitando nel suo opposto (il concetto utilizzato è ‘enantiodromia’, che Jung riconduce al dominio di una direttiva unilaterale che produce una inconscia direzione d’azione opposta). Qui in particolare è discussa la critica che avevo avanzato al capoverso della “Dichiarazione di Parigi” nella quale veniva sconfessato “l’egualitarismo esagerato” e la connessione di una “democrazia sana” alle “gerarchie sociali e culturali”, capaci di articolarsi su perseguimento di “eccellenza” ed attribuzione di “onore”. Ovvero la “restaurazione” di un senso socialmente condiviso della grandezza “spirituale” (questa sottolineatura è naturalmente importante), degna di onore al di là della “mera ricchezza”. La frase che più di ogni altra mi ha mosso è, però, la seguente: “la cultura della dignità sgorga dal decoro e dall’adempimento dei doveri che competono al nostro stato sociale”. Frase che è soprattutto chiarita, nel suo senso, dal suo seguito: “dobbiamo ricuperare il rispetto tra le classi sociali che caratterizza una società che dà valore a tutti”.

Confermo che qui c’è una divergenza di sensibilità. Citai appositamente un autore denso, culturalmente avveduto, e molto consapevole della linea di frattura prima evocata, come il filosofo francese di destra (estrema) Alain De Benoist, perché leggendolo questa divergenza mi è sempre saltata all’occhio. Non è facile coglierlo in fallo, per così dire, ma nell’insieme per me passa il segno.

Non si tratta però neppure di disconoscere un semplice fatto, come quello che le classi ed i ceti sono regolarità storiche, perché sarebbe ovviamente atto ridicolo. Né si tratta di immaginare un mondo dell’eden, in terra, nel quale la diseguaglianza sociale (ovvero, appunto, le differenze creanti organizzazione sociale) sia eliminata.

Se si tentasse questa via (che è sfiorata in alcuni passi più politici anche di Marx, dunque di un autore “umanista” nella classificazione sopra fatta) certamente gli effetti sarebbero ‘enantiodromici’. E tale fu, più o meno, la critica della componente di sinistra (ma anche di quella di destra) della scuola post-strutturalista. Per chi volesse sincerarsene potrebbe rileggere il breve passo in cui Jacques Derrida, in “Spettri di Marx” afferma che non si può capire la decostruzione senza far mente al clima nei primi anni sessanta e tardi cinquanta di critica del sovietismo (seguita alle invasioni nell’Est europeo).

Come anche per altre grandi mosse della modernità (in particolare ottocentesche) quando ci si attarda con questa idea si sta trasponendo, senza avvedersene, strutture logiche e orientamenti affettivi delle escatologie cristiane. Lo fa il liberalismo, quando estremizza il proprio proceduralismo, lo fa il socialismo, quando immagina la ‘città celeste’ nella classe. Si tratta, indubbiamente, di teologie, anche se ‘civili’ (ovvero travestite).

E dunque in quella traccia cadono tutte le obiezioni di Buffagni; le condivido.

Posso anche capire il modo in cui usa il termine “ethos aristocratico” in questa frase: “la democrazia in quanto tale non basta affatto a garantire una saggia conduzione della cosa pubblica, e che una democrazia dà migliori risultati quando la guidi una classe dirigente coesa da un ethos aristocratico”, presumibilmente nella stessa direzione in cui Durkheim ricercava una ‘morale civica’ che sia in grado di creare un sentimento motivante alla reciproca considerazione ed all’agire comune. Un sentimento (si può leggere “la Fisica dei costumi”, del 1896) che consenta di anteporre alle loro preferenze e convinzioni il bene della comunità democratica, impegnandosi per lo sviluppo comune. Dato che le cittadine ed i cittadini possono essere disposti a tale passo solo se giudicano desiderabili, e degni di essere difesi, i corsi di azione comuni, è necessario quindi, scrive Durkheim, una qualche misura di “patriottismo”.

Dunque, come scrive Buffagni: “che sia capace, ad esempio, di compromesso politico, di tacito accordo in merito all’interesse nazionale, di condividere stile e cultura al di sopra delle inimicizie politiche”.

Direi che su questo piano si incontrano molte acque, l’ultimo Habermas, ad esempio (erede di alcune tradizioni “del sospetto”, ma anche “progressista”) si chiede nelle sue ultime riflessioni sulla religione (ad esempio “Verbalizzare il sacro”) se la trascendenza dall’interno, attivata dal linguaggio non sia circondata da distese, per così dire, “illuminabili ma non penetrabili” (scrive Leonardo Ceppa in un bel saggio su questo pensiero, “Habermas, le radici religiose del moderno”, che leggeremo insieme) con i semplici strumenti del pensiero proposizionale. Il disincantamento scientifico del mondo ed il lavoro di messa tra parentesi delle differenze compiuta dal diritto democratico non basta, ci sono fonti di solidarietà che non possono essere aggirate (qui torna anche il concetto di anomia durkmehiano). Dunque, in vece della promessa escatologica che si critica, per essa dell’idea liberale che l’ordine possa generarsi dall’aggregazione cieca delle libertà solo private, e la legittimità dalla mera legalità, è necessario riconoscere il surplus di ‘devozione repubblicana’.

È necessario dunque il ‘patriottismo’ di Durkheim e il patto politico. Come scrive Ceppa, “non è pensabile nessuna ‘repubblica dei diavoli’” (ivi, p.110).

Ma la ricerca dell’eguaglianza politica (e delle sue condizioni di possibilità materiali) è un cantiere sempre aperto, e che deve restare tale.

Ma forse conviene tornare un attimo sulla questione posta, dal Manifesto di Parigi, dell’uguaglianza dei moderni come invenzione della rivoluzione. Sieyès dirà in “Che cos’è il Terzo Stato”, nel gennaio 1789 che “il privilegiato si considera insieme ai suoi colleghi come appartenente a un ordine a parte, una nazione scelta all’interno della nazione”, questi “arrivano a vedersi come un’altra specie di uomini”. La democrazia è, alla fine, dunque semplicemente questo: una società di simili (Tocqueville).

Viceversa la mentalità aristocratica, consolidata in particolare nel sedicesimo secolo, verso la quale è mobilitata l’energia rivoluzionaria, vedeva stirpe, estrazione sociale, un insieme di qualità sociali ereditarie proprie, caratterizzare alcuni come preordinati, e per questo adatti, a dirigere la società tutta. Altri, viceversa, a stare “nei loro doveri” (per usare la formula di una supplica al re di Francia fatta appunto dai rappresentanti dei nobili in occasione degli Stati Generali del 1614). Le diversità di status, che fondavano una gerarchia naturale, erano quindi radicate da diversità intrinseche di per sé evidenti. Come la mette Rosanvallon “essi pensavano di vedere tanti tipi di uomini quante erano le condizioni sociali, tutti partecipi di una stessa natura, ma diversificati in modo ereditario per il loro comportamento e il loro diseguale valore umano” (“La società dell’uguaglianza”, p.30). Il Decreto della notte del 4 agosto 1789 ne distruggerà in Francia la base materiale (privilegi fiscali, diritti esclusivi e barriere professionali e amministrative) ma ne attaccherà anche la pretesa di non essere eguali, di non mescolarsi, di essere separati.

Dall’altra parte dell’oceano viene contemporaneamente posta sotto attacco la “frivola leziosità della cortesia”, i “gentiluomini”, e come dichiara la Pennsylvania la pretesa di “non essere tutti sullo stesso piano”. Nel 1786 i costituenti dello Stato americano affermeranno: “un regime democratico come il nostro non ammette alcuna superiorità”.

Questo è lo spirito rivoluzionario, ed è semplice: si tratta di rigenerare l’umanità e riconciliarla, farla uguale ed una.

La radice di ciò ha un’aria di famiglia inconfondibile: “non c’è né ebreo né greco, né schiavo né uomo libero, né uomo né donna, perché tutti voi non siete che uno in Cristo Gesu” (Paolo di Tarso, Lettera ai Galati, 3,28).

Ma, come ricorda anche Buffagni, questa uguaglianza (davvero radicale) è tuttavia “spirituale”, non è affatto politica. Non è per niente una eguaglianza democratica.

Per molti secoli nessuno (o quasi) ha tratto, infatti, conseguenze politiche dal lascito verbale del cristianesimo. L’intero sistema di credenze ed istituzioni lo impediva, lo rendeva non pensabile. La sovversione interna di questo messaggio potenziale avviene lentamente a partire dal ripensamento seicentesco e, in America, dalla tradizione puritana. Ancora nella Enciclopedia, curata da Diderot, la voce afferma essere la “uguaglianza assoluta” una “chimera”, e sottolinea “la necessità delle diverse condizioni, dei gradi, degli onori, delle distinzioni, delle prerogative, delle subordinazioni che devono regnare in ogni governo”. In accordo con una lontana tradizione l’uguaglianza davanti a dio e naturale ha ancora una dimensione strettamente morale, e solo questa.

Quello evocato dal nostro interlocutore è, insomma, un antico terreno di battaglia.

SIRIA, il vaso di Pandora dalle tante sorprese_ conversazione con Antonio de Martini

Continua il viaggio in Medio Oriente. Antonio de Martini è la bussola che ci consente di orientarci in quel vero e proprio vaso di Pandora che sta diventando il Medio Oriente. Questa volta si parte dalla Siria, l’attuale epicentro di una competizione, grazie soprattutto ai Saud, dai tratti a volte medievali_ Giuseppe Germinario

17° podcast_La Guerra di Bannon, la guerra a Bannon, di Gianfranco Campa

Lo scontro politico negli Stati Uniti inizia a delineare connotati di volta in volta un po’ più chiari; connotati i quali caratterizzano entrambi i due partiti storicamente in contesa sulle le leve del governo. Dalla parte del Partito Democratico la soluzione pare passare attraverso la liquidazione del gruppo di potere aggregatosi attorno ai Clinton. Le incognite da quel versante, però, non mancano; la principale riguarda la componente più radicale e legata al classico elettorato democratico, in buona parte ormai astenutosi o addirittura passato a sostenere Trump, quella rappresentata da Bernie Sanders. Sanders, da alcuni mesi, non fa più parte del Partito Democratico. In futuro, sempre che non rientri, si vedrà quale funzione intenderà assumere: quella di un leader alternativo oppure collaterale al Partito Democratico. La prima opzione potrebbe innescare un processo irreversibile di riorganizzazione del sistema politico americano con la formazione di un partito centrista, frutto della esplicitazione della collusione attualmente sottotraccia tra democratici e parte dei repubblicani, e due movimenti radicali. Ne parleremo meglio nei prossimi podcast. Da parte repubblicana l’obbiettivo non è più il conseguimento della vittoria da parte di uno degli schieramenti, ma la sconfitta totale dell’altro. Una dinamica che, se protratta all’estremo, potrebbe diventare perfettamente complementare alla prima opzione di confronto nella componente democratica. Buon ascolto, cliccando sull’immagine qui sotto_ Germinario Giuseppe

RAZIONALITA’ STRATEGICA E RAZIONALITÀ STRUMENTALE di G. La Grassa

Pubblichiamo qui sotto un  interessante saggio di Gianfranco La Grassa sul concetto di razionalità strategica e razionalità strumentale. La definizione ad inizio dello scritto introduce, in realtà, rapidamente al tema dell’analisi concreta delle formazioni sociali partendo dalle dinamiche conflittuali tra centri strategici e dal tentativo di riproporre in maniera più corretta e realistica la questione di una loro trasformazione che porti all’emancipazione degli strati subalterni. Un chiaro superamento della rappresentazione dualistica del conflitto sociale.

Lo scritto, tuttavia, apre più o meno esplicitamente numerose questioni piuttosto che risolverne come del resto è ovvio che sia per un tentativo di rottura critica di chiavi di interpretazioni ormai inadeguate e deleterie.

  • tende a liquidare troppo sbrigativamente il lavoro di ricerca teorico-filosofico teso ad individuare le caratteristiche intrinseche del politico e le relazioni di questo con gli altri ambiti dell’agire umano e tra esse la funzione della cooperazione oltre che del conflitto; un tale impegno è ovviamente parte integrante del contesto storico, sociale e culturale nel quale agisce ma è altrettanto indispensabile per individuare ed inquadrare sistemicamente le nuove chiavi di interpretazione, l’analisi concreta e gli obbiettivi politici senza sostituirsi ad essi, specie in Italia dove il dibattito in merito langue da almeno quarant’anni
  • il saggio, al pari delle precedenti elaborazioni di La Grassa, attribuisce un ruolo prioritario all’azione dei centri strategici, quindi all’azione e ai loro disegni politici; sottolinea che, con il rapporto capitalistico, il politico pervade ed agisce nell’economico; per meglio dire, è una mia precisazione, il ruolo politico della e nella funzione economica si accresce. Ma sino a che punto in termini assoluti e soprattutto rispetto agli altri ambiti?
  • l’autore parla di conflitto tra formazioni sociali capitalistiche e tra centri strategici (capitalistici?) in esse e tra di esse. Poiché, secondo definizione marxiana, il capitalismo è un rapporto sociale di produzione, laddove il possessore dei mezzi di produzione sovrasta il salariato, non si rischia di tornare alla surdeterminazione dell’economico, al meglio del politico nell’economico, rispetto agli altri ambiti?
  •  GLG sancisce l’inesistenza del “popolo”; sembra ricondurre la sua estinzione al processo di frammentazione e specializzazione proprio delle formazioni capitalistiche più mature ed evolute e all’incapacità, quindi, dei loro centri strategici di garantire i sufficienti livelli di coesione e di assimilazione identitaria necessari a garantire la sostenibilità interna ed esterna di esse. Mi pare una affermazione troppo apodittica che tende a sottovalutare le capacità di ricomposizione, magari sotto nuove vesti e nuovi nuclei, dei centri strategici e ad assecondare la facile, ma a mio avviso poco fondata, contrapposizione tra ad esempio i comunitaristi portatori della positiva pienezza dei valori umani, alla Fusaro e de Benoist, e i mercificatori alienatori della natura umana, propri dei capitalisti globalizzatori
  • con l’occasione il prof. La Grassa riprende il tema dell’emancipazione degli strati subalterni e delle particolari condizioni di crisi sistemica di particolari formazioni che potrebbero favorire la loro sollevazione e affermazione. Non si tratterebbero più di classi in sé, ma di gruppi o strati ben condotti da centri ben determinati ed alternativi. Il discorso nella fattispecie, una caratteristica comune a tutti, compreso chi scrive, rischia di cadere nell’indeterminatezza ed oscillare inconsapevolmente tra l’utopia di una società libera e egualitaria e l’azione magari anche meritoriamente redistributiva interna al sistema, ivi comprese le gerarchie stabilite. GLG avverte per altro saggiamente delle capacità dinamiche, propulsive e di sviluppo di un sistema fondato sulla concorrenza; della capacità, quindi, di riassorbimento, il più delle volte, delle contraddizioni più esplosive. Si tratta comunque di un avvertimento molto più opportuno e proficuo se finalizzato ad individuare nelle formazioni sociali e nei processi riformatori e rivoluzionari quelle figure e strati sociali e quei centri strategici i quali, per acquisire il controllo del potere o la partecipazione ad esso siano disposti a riconoscere un ruolo ed una condizione diversa e migliore, ivi compresa la mobilità, agli strati più subalterni. Anche in questo caso, però, il rischio di scambiare il classico piatto di lenticchie alle prospettive di sviluppo dinamico e duraturo è sempre presente. L’esperienza dei paesi socialisti, ancorché poco studiata, è tutta lì a dimostrarlo.

Mi sembrano cinque dei punti già sufficienti a consentire un’ulteriore spinta alle ipotesi di ricerca suggerite dal professore. Buona lettura_ Giuseppe Germinario

 

norne

GIANFRANCO LA GRASSA _ RAZIONALITA’ STRATEGICA E RAZIONALITA’ STRUMENTALE  http://www.conflittiestrategie.it/razionalita-strategica-e-razionalita-strumentale-di-g-la-grassa

 

  1. Non intendo qui diffondermi troppo sui due tipi di razionalità (e di funzioni); su entrambe sono state scritte infinite pagine e considerazioni. Mi interessa semmai chiarire alcune differenze e distinzioni. Innanzitutto, la metis – l’astuzia, il raggiro, l’inganno, ecc. (“il cavallo di Troia”) – fa parte dell’arte strategica, ne può in certi casi costituire l’aspetto principale, ma non fa conseguire, in ultima analisi, una vera supremazia, non consente di prevalere se non in casi assai particolari e magari in presenza di una discreta dose di ingenuità dell’avversario. Nemmeno credo si possa identificare la funzione strategica con la mera volontà di potenza, comunque quest’ultima possa essere intesa.

La strategia non è solo “arte”, non è solo carattere vitalistico e prorompente di una “personalità” – anche collettiva, in senso allora assai lato – portata a prevalere e a subordinare le altre, quelle “nemiche”. La strategia esige un elemento intuitivo (almeno all’apparenza), il cosiddetto colpo d’occhio, ma deve strettamente intrecciarsi con una precisa valutazione della situazione sul campo: risorse a disposizione, articolazione e movimento delle forze in campo, attenta mappatura e studio di quest’ultimo; con rapida presa in esame di ogni mutamento della situazione stessa e delle risposte da dare ai cambiamenti.

D’altra parte, la valutazione della situazione sul campo non è eseguita in base alla semplice razionalità strumentale, quella del minimo mezzo o del massimo risultato; quest’ultima attiene principalmente all’ambito economico in senso stretto, pur se poi è stata ampliata ai vari aspetti della vita personale e collettiva (sociale). Sia per quanto concerne la sua applicazione in campo economico sia per il suo generalizzarsi ad altri settori di attività, detta razionalità si è affermata essenzialmente in epoca capitalistica. Nella stessa conduzione delle attività produttive, agricole e artigianali, in formazioni precapitalistiche, essa non veniva affatto in evidenza; i saperi produttivi, frutto di una lunghissima e in genere lenta accumulazione storico-culturale, non avevano molto a che vedere con una mentalità semplicemente strumentale, che sarebbe anzi stata una vera “palla di piombo ai piedi” per artigiani e contadini delle società precapitalistiche, e avrebbe condotto alla disgregazione delle stesse per l’impossibilità di conciliare la struttura produttiva con quella del potere (che è poi quanto in definitiva accaduto durante la lunga transizione dal feudalesimo al capitalismo). In ogni caso, anche nella formazione sociale del capitale la posizione di preminenza attribuita alla razionalità strumentale ha carattere largamente ideologico. Certamente essa è creazione del capitalismo, e in quest’ultimo viene largamente utilizzata nei vari ambiti dell’attività sociale, ma non assurge affatto alla posizione di vertice nell’agire delle “classi” dominanti nemmeno in questa forma di società.

E’ stato un errore dello stesso marxismo – tutto centrato sul problema dell’ottenimento del massimo profitto (e quindi della massima estrazione del pluslavoro/plusvalore) da parte del capitalista, visto come essenzialmente proprietario e non invece quale agente di strategie – pensare che la razionalità strumentale (quella della cosiddetta efficienza) sia non solo acquisizione fondamentale del “modo di produzione” capitalistico, ma sorregga l’insieme dei rapporti caratteristici della società da questo strutturata e ne alimenti la dinamica decisiva; e rappresenti addirittura una conquista della Ragione che, sciolta dall’esigenza (del puro proprietario) di conseguire il massimo utile individuale, sarebbe cruciale anche nella futura società comunista onde sviluppare le forze produttive e conseguire quella massa di beni, cui potrebbe attingere ogni membro della società “secondo i suoi bisogni”.

 

  1. L’analisi della situazione sul campo – configurazione di quest’ultimo, forze in campo, ecc. – e le risposte ai mutamenti della stessa non si basano quindi sul mero principio del minimo mezzo o del massimo risultato; nel contempo, esse non consistono certo esclusivamente nel colpo d’occhio, nell’intuizione dell’agente strategico. Quest’ultima ha un che dell’arte, ma l’analisi e le risposte di cui si parla sono più vicine allo spirito dell’osservazione scientifica. Infine, nella preliminare individuazione delle tecniche e delle metodiche da impiegare per far fronte ai problemi osservati e analizzati, inizia a farsi avanti la razionalità della “efficienza economica”, quella del minimo mezzo, insomma quella detta strumentale. Quest’ultima ha dunque un ruolo subordinato, non è funzione esplicata dagli agenti “dominanti” (sto parlando delle differenti funzioni, non degli individui empirici che le supportano e che possono esercitarne contemporaneamente più d’una). Per il dominio, cioè per conquistare la supremazia attraverso la lotta, occorre l’analisi – assimilabile all’osservazione scientifica – e l’“artistico” colpo d’occhio sull’insieme e le sue intrinseche, ma non manifeste, potenzialità dinamiche (forza e direzione dei possibili eventi da provocare o impedire o deviare, ecc.) che debbono essere volte al successo della propria lotta tesa a prevalere.

Per ottenere la “vittoria in battaglia” sono perciò necessarie soprattutto le funzioni del “comandante in capo” (che, ovviamente, non è obbligatoriamente un solo individuo), capace di cogliere quello specifico potenziale insito nell’insieme, e le funzioni dello “Stato Maggiore” atte a svolgere i compiti relativi alla lucida e “scientifica” analisi del campo e delle forze in campo, con tutto ciò che segue. Il potenziale dell’insieme è la ben nota singolarità, che non è soggetta a generalizzazioni; pur se le varie “battaglie” svoltesi in passato, e le innumerevoli mosse strategiche in esse impiegate, sono sempre sottoposte a studio e a vaglio accurato in previsione di quelle future. L’analisi e valutazione del campo e delle forze in campo sono invece soggette a queste generalizzazioni (di tipo scientifico, per l’appunto), ma non debbono pesare sulle decisioni da prendere in future “battaglie” secondo una loro scolastica e pedantesca ripetizione, che condurrebbe quasi sempre a “sconfitta”. Ancor meno debbono pesare, sulle decisioni strategiche cruciali prese nella lotta per la supremazia, le tecniche e metodiche secondo cui vengono in essa impiegate “efficientemente” determinate risorse; tecniche e metodiche che, come sopra rilevato, attengono ai compiti delle funzioni strumentali, quelle del minimo mezzo o massimo risultato.

 

  1. L’aver posto tali funzioni (rette dalla razionalità strumentale) come essenziali e pervasive dell’intera attività dei dominanti capitalistici (trattati quali meri proprietari dei mezzi produttivi e finanziari) – e averne addirittura fatto una conquista generale del pensiero umano per ogni futuro sviluppo e trasformazione della società, addirittura in direzione del presunto comunismo – ha veramente ottuso le capacità critiche degli anticapitalisti. Quella che è soltanto ideologia – con la solita funzione di mascheramento delle fonti effettive del predominio degli agenti capitalistici, che non sono affatto semplici proprietari – è passata per una conquista fondamentale del pensiero razionale; una conquista, come altre del capitalismo, da mantenere e sviluppare poiché se ne supponeva l’indispensabilità anche ai fini della transizione al socialismo e poi comunismo.

Se, come ho chiarito più volte negli ultimi anni, fosse stata valida l’ipotesi di Marx relativa alla formazione, per dinamica intrinseca al modo di produzione capitalistico, del lavoratore collettivo cooperativo, in cui tutte le diverse funzioni (intellettuali e manuali, direttive ed esecutive) si sarebbero integrate in un unitario e compatto tessuto produttivo, allora la sussistenza di tale mascheramento ideologico non avrebbe alla fine nuociuto più che tanto. Il movimento reale – non l’opera di costruzione del socialismo da parte di presunte avanguardie della Classe (per antonomasia) – avrebbe condotto all’esaurirsi delle funzioni produttive dei proprietari capitalistici, trasformati in rentier, e all’affievolirsi dello spirito di competizione per la supremazia di dati gruppi sociali su altri. A questo punto, la razionalità del minimo mezzo sarebbe in effetti divenuta quella prevalentemente applicata nelle attività sociali (non della sola sfera economica) in quanto dirette soprattutto allo “sfruttamento” del “fondo naturale” per ottenere di che soddisfare i bisogni degli individui stretti in una società coordinata e di cooperazione, senza conflitti antagonistici né sfruttamento degli uomini su altri uomini.

Poiché la dinamica capitalistica, intrinseca o meno che sia, non conduce affatto in simili direzioni virtuose, è ovvio che le conclusioni da trarre sono totalmente differenti. La razionalità strumentale diventa un semplice mezzo per procurarsi, nel migliore (più efficiente) modo possibile, le risorse necessarie all’espletamento delle funzioni legate alla lotta per la supremazia, e che sono quelle appena sopra illustrate. La formazione sociale si frammenta, si segmenta e si stratifica sempre più complessamente, le minoranze predominano sulle maggioranze, ma attraverso lo scontro tra i vari gruppi di agenti di cui sono composte, gruppi che applicano strategie di lotta ai fini della prevalenza di alcuni su altri. Non si va minimamente formando alcun vertice ristretto e sempre più unitario di sfruttatori. La lotta tra gruppi conosce varie “periodicità” – da me adombrate con i termini di monocentrismo e policentrismo – che sono fasi (epoche) diverse in riferimento sia a quella da me indicata quale formazione sociale in generale sia alla formazione globale, costituita da una mutevole articolazione di tante formazioni particolari fra loro in conflitto, con i connessi fenomeni comportanti lo sviluppo ineguale dei vari gruppi capitalistici, in sede “nazionale” come “internazionale”.

In una società per null’affatto interessata da un movimento interno di omogeneizzazione e compattamento “armonico”, bensì da processi di frammentazione crescente e di – più o meno acuta a seconda di un periodico “pulsare” per epoche o fasi dell’evoluzione capitalistica – interazione contraddittoria e conflittuale tra i suoi vari comparti (o raggruppamenti, dominanti e non), le funzioni strumentali, attinenti al conseguimento del massimo risultato, scadono a semplice mezzo per procurarsi, con la massima “economicità”, le risorse necessarie all’esercizio delle funzioni strategiche, compito precipuo degli agenti dominanti in reciproca lotta per gruppi (per “bande”) ai fini della supremazia. A questo punto, sono gli “Stati Maggiori” con i loro “Comandanti in capo” a rappresentare quella “classe capitalistica”, che il marxismo pensava fosse invece costituita da semplici proprietari. Questi avrebbero esercitato una funzione produttiva propulsiva nel capitalismo concorrenziale – poiché il conflitto era visto dai marxisti come un fatto prevalentemente economico, un fenomeno in ultima analisi orientato dalla finalità del massimo prelievo di plusvalore in quanto profitto dell’impresa capitalistica – mentre sarebbero divenuti parassiti e “similsignori” nel capitalismo monopolistico strutturato in grandi società per azioni. Si sarebbe trattato certamente di “signori” differenti da quelli feudali o protocapitalistici per il tipo di rendita percepita: non più dalla terra, non più dal semplice prestito in denaro, ma prevalentemente dalla proprietà azionaria, dalla “attività” di “staccare cedole”.

Nella società capitalistica realmente affermatasi, strutturata in gruppi sempre più numerosi e in crescente disarticolazione, con “successiva” (in senso logico) ri-connessione interattiva tramite forme varie di conflitto di periodicamente differente intensità e acutezza, i dominanti sono gli agenti strategici (del “colpo d’occhio d’insieme” e dell’analisi del campo e delle forze in campo) che rendono la società capitalistica un terreno di battaglia, in cui tutti, ai più vari livelli della scala sociale, sono coinvolti; anche se gli strati sociali bassi sono quasi sempre truppe al seguito degli “Stati Maggiori”, ecc. Solo raramente, in particolari frangenti storici (congiunture), le truppe –  “incontrando” dati gruppi di dirigenti e di capi – sono in grado di nuocere agli agenti dominanti in una certa fase di acuto scontro tra questi ultimi; ma non è affatto deciso ineluttabilmente, come il novecento ha ampiamente dimostrato, quale sia l’effettivo sbocco degli eventi “rivoluzionari”. Sia l’ideologia dei dominanti (agenti capitalistici), sia quella degli un tempo oppositori e intenzionati a trascinare le “truppe” (le masse popolari) contro il loro potere, hanno provocato un totale annebbiamento della strutturazione della formazione capitalistica: sia di quella in generale sia di quella globale con le sue articolazioni particolari.

 

  1. E’ ormai indispensabile uscire – puntando intanto su di essa il riflettore del pensiero critico – da questa ideologia della razionalità strumentale in quanto elemento fondante e carattere decisivo della struttura capitalistica e dunque del movimento dei suoi rapporti di dominazione/subordinazione; un elemento che sarebbe negativo se utilizzato dai proprietari (dei mezzi produttivi) per sfruttare il lavoro (estorsione del massimo pluslavoro/plusvalore), ma che la “rivoluzione comunista” avrebbe potuto rovesciare in positivo, “estraendone il nocciolo razionale”, eliminando la proprietà privata e affidando il coordinamento cooperativo della produzione alla classe lavoratrice (cioè alle sue pretese “avanguardie”).

Deve essere contrastato questo ottundimento del pensiero, che ha condotto a pratiche inizialmente anche “eroiche” e che hanno rappresentato il famoso “assalto al Cielo”, ma che poi si sono, loro, rovesciate in aberrante dominazione di masse “abbrutite” da parte di capi degenerati in perpetua lotta (assassina) fra loro. Un comunismo, incapace di uscire dalla ideologia “annebbiante” fin qui illustrata, ha avuto un suo grande periodo in cui è sembrato essere il movimento di emancipazione dei diseredati contro i bestiali sfruttatori capitalisti (e colonialisti e imperialisti), ma ha poi abdicato completamente ai suoi ideali originari per divenire il peggiore e più devastante dei movimenti politici esistenti nell’ambito del capitalismo. Basta dunque con il comunismo in tutte le salse lo si voglia cucinare; e basta con il marxismo che ha toccato l’apice di quanto poteva farci conoscere per poi decadere a “dottrina religiosa” del tutto ottenebrante; una “religione” che non è nemmeno più l’oppio dei popoli, ma solo di piccole sette di inutili cultori del nulla teorico e politico.

Tuttavia, la reazione a questo annebbiamento ideologico non deve portare a rivalutare le sconfortanti banalità dell’ideologia conservatrice neoliberista o delle sue versioni “riformiste” neokeynesiane. Dalla padella nella brace; peggio la toppa dello strappo! Questa è l’alternativa che ci offre un ceto intellettuale fra i più fatui e sciocchi annoverati nella storia dell’Umanità; un vero campionario di “idioti con alto quoziente di intelligenza”, come recitava un “salmo” del movimento sessantottardo, che volentieri sostituirei con la più incisiva battuta di quel genio che fu Ettore Petrolini: “idioti con lampi di imbecillità”.

Ogni inizio è senza dubbio difficile. E’ tuttavia necessario che soprattutto i più giovani, e liberi di mente, non ottenebrati da quel cumulo di fanfaluche ammassate dagli intellettuali soprattutto negli ultimi trenta-quarant’anni, si mettano in moto al più presto; e prendano a calci chiunque parli di liberismo, di keynesismo, di marxismo; chiunque ancora si riempia la bocca di quelle ormai sconce parole – sia chiaro: di ben altro significato ed elevatezza molto tempo addietro – che sono democrazia liberale, socialismo, comunismo, con tutte le loro infinite variazioni.

 

  1. Cominciamo con il riportare al centro della questione, cioè dell’organizzazione dell’attuale società nella sua globalità (mondialità), il principio della preminenza delle funzioni strategiche che sottomettono, piegano ai loro fini, quelle strumentali, quelle del minimo mezzo o massimo risultato. In questo contesto, non mi sembra di alcun interesse lanciarsi in disquisizioni filosofiche o simili chiedendosi se lo spirito di competizione – teso però alla preminenza tramite prepotenza, sopraffazione, asservimento (e anche inganno e raggiro) esercitati dagli uni sugli altri – sia connaturato o meno all’essere umano. La millenaria storia dell’Umanità non induce certo all’ottimismo in proposito, ma tenuto conto degli orizzonti temporali su cui siamo in grado di allargare la nostra “vista” (teorica), compiendo analisi e sviluppando argomentazioni dotate di un minimo di realismo e credibilità, è assolutamente inutile arrovellarsi sulla “natura” umana, sulle “costanti antropologiche”, e via dicendo. Credo che discussioni del genere abbiano senso, così come ha senso dibattere sulla religione, sull’esistenza o meno di un Essere chiamato Dio e su molti altri problemi dello stesso ordine che, se hanno da sempre spinto grandi intelletti a profondervi le migliori energie, non sono evidentemente destituite di significato come spesso pensano coloro che hanno cervelli simili a computer, e sistemi nervosi solo dediti alle più elementari sensazioni animalesche.

Tuttavia, per una analisi che in qualche modo si richiami alla scienza della struttura e dinamica della società nell’attuale epoca storica – un’analisi che voglia porre le basi di prese di posizione pratico-politiche in essa, pur se magari ancora assai generali e non indirizzate alla soluzione di problemi “puntuali” – non è gran che rilevante decidere se le tendenze al conflitto per la preminenza, tramite sconfitta e subordinazione dell’avversario, fanno parte dell’intima costituzione dell’essere umano oppure se vi sono speranze circa l’avvento, in un futuro imprecisato, di una società fondata su rapporti interindividuali, al limite ancora competitivi, non però caratterizzati dalla prevaricazione, dalla menzogna e subornazione, ecc. Penso che chi non accetta la società così com’è adesso, diciamo pure quella capitalistica (perché abbiamo in definitiva a che fare con strutture sociali di questo tipo), debba mantenere un atteggiamento di contrasto e di critica radicale dello spirito conflittuale, basato sulla prepotenza e ricerca del predominio, che in detta società si dispiega pienamente in tutte le sue sfere (economica, politica, ideologico-culturale); non ci si deve però porre nella situazione del “profeta disarmato”.

E’ ora di farla finita con la favoletta della non violenza gandhiana, che sarebbe il miglior modo di vincere le proprie battaglie e di porre le basi per una organizzazione sociale di pace e armonia. A parte le falsità storiche raccontate dall’agiografia di Gandhi, che non era poi così pacifico come si vuol far credere (ai gonzi), la sua vittoria è nata dalla reale sconfitta subita dall’Inghilterra nella seconda guerra mondiale. Apparentemente tale paese faceva parte delle potenze vincitrici, ma in realtà uscì dalla guerra nettamente ridimensionato, avendo definitivamente perso il suo ruolo di grande potenza capitalistica e imperialistica (coloniale). Non poteva in nessun caso mantenere l’India nella situazione precedente la guerra, così come dovette rinunciare alle sue altre sfere di influenza asiatiche e africane. Non parliamo del “pacifismo” attuale dell’India, dotatasi dell’arma atomica, in ricorrente conflitto con il Pakistan, con alcuni (molti) suoi governi locali che reprimono moti popolari tipici di un paese lanciatosi nello sviluppo ad alti ritmi, con le sue “naturali” conseguenze fortemente squilibranti in termini sociali.

Oggi, c’è solo da decidere se è relativamente prossima (qualche decennio) una nuova epoca policentrica, con il rinnovarsi dei conflitti per la supremazia tra le diverse formazioni particolari componenti quella globale; oppure se permarrà ancora a lungo una sostanziale preminenza, sempre più deficitaria comunque, degli USA mentre altri paesi (Russia, Cina, India, Giappone, ecc.) non riusciranno ad andare oltre un conflitto tra potenze di carattere “regionale” (degli outsiders insomma). Credo che la tendenza sia verso un autentico conflitto policentrico, preceduto comunque da un periodo, probabilmente di alcuni decenni, in cui si assisterà al rafforzamento delle potenze “regionali”. E tenendo sempre in debito conto il problema dello sviluppo ineguale, per cui si verificheranno durante tale periodo delle “sorprese”: qualche formazione particolare (paese), oggi in ascesa, si arresterà e “deluderà” le aspettative, mentre magari ne verrà fuori alla distanza qualche altra.

Non si deve comunque contare – per tutto il periodo lungo il quale si sarà in grado di formulare qualche previsione in base al processo di gestazione di nuove categorie teoriche interpretative (ipotetiche) – sull’affievolirsi delle tendenze al conflitto e al predominio. E si deve tener presente che le tendenze in questione saranno prevalentemente guidate dai gruppi dominanti strategici di diverse formazioni capitalistiche. I conflitti più acuti si svilupperanno tra: a) la potenza (formazione particolare) centrale odierna e le potenze per il momento regionali, che non possono rinunciare (pena la decadenza dei gruppi dominanti all’interno di esse) al tentativo di contrastare il predominio della prima; b) tra le formazioni particolari o pienamente sviluppate capitalisticamente (USA in testa) o in forte ascesa quanto a sviluppo capitalistico e quelle arretrate o che hanno appena iniziato il loro sviluppo (ad es. l’Iran). In queste formazioni, ancora non pienamente maturate dal punto di vista capitalistico, i gruppi dominanti appaiono in buona parte con-fusi con la massa del popolo, un aggregato anche in tal caso non del tutto omogeneo, ma comunque nemmeno scisso in raggruppamenti ben distinti come nel capitalismo avanzato; un aggregato spesso cementato da una solida cultura comune, spesso da una forte religione. Assai meno acuti e rilevanti appaiono, al presente, i conflitti interni alle formazioni particolari capitalisticamente avanzate, dove la frammentazione sociale è assai spinta e l’interazione tra i vari comparti, in orizzontale e in verticale, non sconvolge la riproduzione capitalistica dell’insieme societario, poiché ci si limita a ridiscutere sia la divisione della “torta” (prodotto complessivo sociale) – il che implica mutamenti di condizioni di vita e di lavoro dei vari comparti in oggetto – sia le rispettive posizioni quanto a “fette di potere”, a status, a diritti e doveri, ecc.

 

  1. Una volta fissato un quadro orientativo di larga (larghissima) massima, si deve decidere dove collocarsi nello svolgimento della propria attività teorica e pratica; ricordando che la teoria – nella misura in cui sia solo quella di carattere scientifico attinente alla “visione” della struttura e dinamica della società – è in definitiva un lato della pratica stessa. Ha certo suoi caratteri propri, esige particolari strumentazioni, ma non “sta da un’altra parte”, non risponde ad altre esigenze, quelle che definiamo, non importa se propriamente o meno, “spirituali”. In questo senso, “la teoria è grigia” e tale deve rimanere. Non è che ciò la renda impermeabile alla penetrazione, mascherata e inconsapevole, di una qualche ideologia; ma deve stare sempre in guardia contro simili influssi (pur non sapendo in anticipo da che parte arriva il pericolo), deve compiere i suoi passi con prudenza e sempre sorvegliandosi. Non punta in ogni caso ad accendere gli animi, a suscitare entusiasmi, a dare un senso alto alla propria lotta. Questi compiti spettano ad altri lati dell’agire umano.

Guai se Lenin fosse sceso nell’agone della rivoluzione russa con in mano Il Capitale o anche semplicemente il suo Che fare o il saggio sull’imperialismo; guai se avesse “predicato” la teoria del valore lavoro e insegnato che questa dà la certezza dello sfruttamento della forza lavorativa (dei dominati); guai se avesse spiegato il concetto di modo di produzione (e l’intreccio tra forze e rapporti produttivi), se si fosse messo ad elucubrare sullo sviluppo ineguale, e via dicendo. Avremmo una rivoluzione in meno e un mondo assai diverso; e chissà se in poche righe, in un qualche manuale di storia, verrebbe ricordato che in un qualche anno dell’inizio del novecento, in un qualche luogo della Russia, un pazzo furioso era stato picchiato a sangue (forse ucciso) da masse popolari mentre stava vaneggiando e pronunziando parole smozzicate, prive di senso compiuto; e aveva malamente reagito all’indifferenza degli astanti, li aveva insultati, minacciati, maledetti per la loro ignoranza.

 

  1. A me sembra evidente che chi vive nel nostro paese debba accettare la prospettiva di sviluppare la propria attività (teorica e pratica) nell’ambito di una formazione particolare appartenente all’area del capitalismo avanzato, di quella tipologia che in altra sede ho indicato quale formazione dei funzionari (strategici) del capitale. E’ nell’ambito di questa che si dovrà “studiare” come muoversi, almeno in un primo approccio orientativo. Viene in evidenza, innanzitutto, l’impossibilità di trascurare l’humus conflittuale in cui si attua la riproduzione dei rapporti tipici della società in questione. Due errori sono da evitare. In primo luogo credere di poter contrastare immediatamente e direttamente la mentalità del conflitto per il predominio, che permea la società ad ogni livello. Non si tratta di un comportamento tenuto soltanto dagli agenti dominanti. Questi, essendo una minoranza, avrebbero già perduto ogni potere – ed è quanto pensava Marx che non immaginava affatto un capitalismo tanto durevole – se la conquista della supremazia non fosse il movente dell’agire in ogni più piccolo ambito della società. L’ideologia dei dominanti chiacchiera in continuazione della cooperazione, dell’utilità di unirsi, ecc. Ma ogni coagulazione di gruppi di individui si verifica sempre con il fine di meglio lottare contro altri gruppi; non ci si allea per spirito di fratellanza, ma perché, come dice il detto popolare: “l’unione fa la forza”. Anche dove, a parole, si celebra ad ogni istante l’amore (ad es. nella famiglia), in realtà si vivacizza sovente un confronto più o meno aspro o invece attutito dalla “giusta” valutazione delle rispettive posizioni di forza.

E’ ovvio che si cerchino tutti i marchingegni (legali) possibili per contemperare l’uso reciproco della violenza, per non andare incontro alla generale disgregazione e indebolimento, ecc. Ma si tratta del conseguimento di equilibri del tutto instabili che, qualunque sia la loro assai diversa durata, sono comunque soltanto periodiche soste tra uno squilibrio e l’altro. Non si raggiunge per via puramente formale ciò che non diventa insito nel movimento riproduttivo dei rapporti sociali. Nella società capitalistica, d’altronde, si è solo verificata l’estensione alla sfera economico-produttiva del principio del conflitto, che in altre epoche storiche vigeva soprattutto in quella politico-militare e in quella ideologico-religiosa. Certamente, questa estensione ha “involgarito” le classi dominanti; la generalizzazione della forma di merce, che significa la pervasività sociale del pagamento in denaro, ha reso tutto “comprabile”: l’onore, la dignità, il coraggio, la lealtà, ecc. Tutte queste belle qualità, però, servivano nelle precedenti epoche a stabilire regole diverse, e forse più “nobili”, di scannamento generale (o di duello individuale). Il principio del conflitto per sopraffare gli altri e assumere la predominanza non è però differente da quello degli “ultimi”….cinque o diecimila anni (o quanti? Credo da sempre).

Lo sviluppo nella “pacifica” India è del tutto simile a quello in atto nella “crudele” Cina; poiché è comunque disarmonia, squilibrio, lotta. Prima si sviluppano alcune regioni del paese e poi, sussistendo certe politiche effettuate da dati gruppi dominanti, assistiamo ad un trasmissione del dinamismo all’insieme, ma senza che si verifichi alcun livellamento delle differenze; quasi sempre, invece, in accentuazione. L’arricchimento di una parte della società – dei gruppi dominanti – è poi seguito, sempre se vengono attuate le opportune politiche, da un più “timido” innalzamento del livello di vita degli strati sociali dominati, e non in modo uniforme ed eguale neppure in quest’ambito. Il realismo impone di prendere le mosse dalle considerazioni appena fatte, non dalle menzogne, consapevoli o meno che siano, di ideologi imbonitori al servizio delle classi dominanti (sempre, anche quando sembra che difendano i dominati). Qui si pone quel problema che i vecchi “marxisti” incanalavano, con “falsa coscienza”, nella discussione sul rapporto tra riforme e rivoluzione. Ormai, tale problema non mi sembra proprio debba essere più posto nei termini di un tempo ben lontano.

I vecchi comunisti e marxisti pensavano l’attività riformistica – necessitata qualora ci si trovasse in un contesto sociale ancora fortemente dominato dalla classe capitalistica proprietaria – quale periodo di training e di accumulazione delle forze della classe in sé portatrice della rivoluzione. Le riforme, attuate nella sfera della distribuzione e del miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori (salariati), avrebbero vieppiù messo in evidenza l’impossibilità di contrastare per tale via lo sfruttamento (estrazione di pluslavoro, sia pure nella ingannevole forma del valore-lavoro delle merci, che sembra assicurare il mero scambio di equivalenti); nel contempo, tramite le lotte riformistiche si sarebbe rinsaldata l’unione della classe deputata al rivolgimento dei rapporti capitalistici, già in via di compattamento a causa del movimento intrinseco alla riproduzione sociale, teso alla già rilevata formazione del lavoratore collettivo cooperativo.

Una volta abbandonata questa scorretta e ormai inaccettabile visione della dinamica capitalistica, e appurata la crescente frammentazione (segmentazione e stratificazione) del tessuto sociale, le lotte dei vari raggruppamenti – di lavoratori o meno; e di lavoratori sia salariati che cosiddetti autonomi – restano strettamente confinate al livello distributivo della riproduzione dei rapporti sociali. I problemi della crisi, non nel suo semplice aspetto economico che è il meno dannoso e pericoloso per i dominanti capitalistici (malgrado l’enfasi posta su di essa dagli epigoni di Marx), nascono proprio dalle modalità assunte dallo sviluppo nell’ambito sia della formazione in generale che, soprattutto, di quella globale con riferimento all’articolazione di quelle particolari che la compongono. Lo sviluppo, causato dalla forte tensione dinamica impressa dalla lotta per la preminenza (estesasi nel capitalismo anche alla sfera economico-produttiva), provoca scissioni e distanziamenti tra ceti sociali e tra le diverse formazioni particolari (in genere paesi o gruppi degli stessi); diventano così molto probabili periodiche acutizzazioni delle tensioni sociali e delle lotte che da queste derivano.

Tuttavia, la situazione si aggrava nettamente quando si verifica lo sviluppo ineguale: sia tra gruppi dominanti diversi in una certa formazione particolare sia tra differenti formazioni particolari nell’ambito di quella globale. E’ l’alterazione dei rapporti di forza tra gruppi sociali, in specie tra quelli dominanti e soprattutto quando i mutamenti avvengono rapidamente in seguito a lotte estremamente acute, a provocare crisi politico-istituzionali, ideologico-culturali, ecc. che lacerano il tessuto sociale con possibilità di ristrutturazioni radicali. Le stesse considerazioni valgono per le crisi legate all’affermarsi di differenti rapporti di forza tra formazioni particolari e al precipitare di scontri accesi tra di esse per la preminenza globale. Va anche detto che spesso, e più facilmente, le crisi interne a determinate formazioni e quelle inerenti al confronto tra più formazioni in ambito (geopolitico) globale si intrecciano e alimentano vicendevolmente.

E’ bene ricordare ancora una volta che, per quanto riguarda sia la lotta tra gruppi all’interno di una data formazione particolare sia il conflitto tra più formazioni particolari, le crisi di maggiore intensità e ampiezza si manifestano quando lotta e conflitto si inaspriscono soprattutto tra dominanti. Se una certa costellazione di forze dominanti (costituita da intrecci di agenti strategici delle varie sfere sociali) fa entrare una formazione particolare in situazione di difficoltà, stagnazione, crisi, malcontento sempre più generalizzato, ecc., è più probabile, almeno in un primo tempo, l’emergere di altri gruppi dominanti che si pongono in alternativa. Così pure, quando si transita alle fasi policentriche, il conflitto si acutizza specialmente, provocando i più netti risultati trasformativi (passaggi d’epoca), tra formazioni particolari dell’area a capitalismo avanzato, caratterizzate da differenti ritmi di sviluppo, che non accettano più di sottostare alla formazione particolare fino ad allora in posizione predominante.

 

  1. Non è qui il caso di riferirsi specificamente alla formazione particolare Italia, che andrà analizzata ad un “più basso” livello di astrazione teorica. Tuttavia, sia pure per linee assai generali e generiche, è bene trarre alcune conclusioni da quanto fin qui sostenuto. Non esiste intanto alcuna classe, in via di omogeneizzazione e compattamento, da cui emerga uno strato di élite in grado di avere una visione complessiva e ben delineata della necessaria prassi trasformativa del capitalismo; per di più nella direzione di una determinata società altra del tipo del comunismo. Nemmeno è più possibile pensare ancora alla formazione, pur in qualche modo artificiale, di avanguardie “di classe”, che presuppongono pur sempre la sussistenza dell’in sé di quest’ultima, dunque di un movimento oggettivo verso la suddetta sua omogeneizzazione e compattamento, che faccia da supporto alla soggettiva azione rivoluzionaria delle avanguardie in questione.

Esistono sempre, in ogni epoca e in numero maggiore o minore, singoli gruppi di soggetti (individui) – per null’affatto caratterizzati in maggioranza da una determinata collocazione “di classe”, anzi provenienti dai più svariati comparti in cui si frammenta vieppiù la società del capitale – che si pongono criticamente rispetto ai caratteri di prepotenza, sopraffazione (e certo inganno, raggiro, ecc.), tipici del conflitto in questa (come in precedenti) forma di società. Tali gruppi di “critici” si espandono e rafforzano nelle situazioni in cui le tensioni sociali si fanno via via più acute: sia all’interno di una formazione particolare come tra più formazioni (in sviluppo ineguale) nell’ambito di quella globale. Tali gruppi perdono le loro potenzialità – e al limite possono di fatto costituire una “carta di riserva” per i dominanti – se “distraggono” forze da una critica sociale adeguata; soprattutto quando, con estremismo apparente, predicano l’eguaglianza, il pacifismo e altre favole edificanti. In primo luogo, bisogna comprendere la positività della competizione, se sfrondata dei lati di aperta violenza per conquistare la supremazia eliminando o asservendo i competitori. In secondo luogo, va rilevato che la critica alla forma assunta dal conflitto nel capitalismo deve comunque tener debito conto di essa e saperla gestire e sfruttare per i propri fini.

Le “anime belle”, spesso non proprio in buona fede, sono comunque, quand’anche “oneste” (anzi, sono ancora più pericolose in tal caso), del tutto negative e vanno combattute perché indeboliscono l’azione critica. E’ perfettamente inutile cercare di sfuggire alla contraddizione: da una parte è obbligatorio criticare, anzi opporsi drasticamente alla forma capitalistica del conflitto per la preminenza; tuttavia, è nel contempo necessario condurre la propria azione contro i gruppi dominanti, sapendo di strategia e del misto di forza e malizia che l’agire trasformativo (“rivoluzionario”) comporta nell’attuale società. Così pure, è indispensabile orientare i dominati – e prima di tutto unire i raggruppamenti decisivi degli stessi (che non sono affatto in via di amalgama) – per ottenere i risultati trasformativi (di rivoluzionamento sociale); nel contempo, bisogna saper entrare, e proprio nei momenti in cui ciò diventa possibile, nelle contraddizioni tra gruppi dominanti, le cui interrelazioni conflittuali e rispettivi rapporti di forza sono differenti in epoche diverse, in fasi mono o invece policentriche. E via dicendo.

Di tutto ciò è meglio essere ben edotti, avendo inoltre la piena consapevolezza che la propria azione tende a convergere, e rischia di confondersi, con quella degli agenti politici da me denominati rivoluzionari dentro il capitale, messi in campo da nuovi gruppi di dominanti intenzionati, una volta rottisi gli equilibri precedenti, a rovesciare il potere dei vecchi gruppi, le cui strategie – sia interne ad una formazione particolare sia applicate al confronto tra più formazioni –  aprono congiunture di crisi, di tensione sociale, di sfarinamento delle istituzioni, di caduta del consenso, ecc. In definitiva, si tratta delle stesse congiunture in cui si manifestano le maggiori possibilità d’azione da parte dei gruppi anticapitalistici. A causa di questa confusione, di questa “fatale” vicinanza di intenti “rivoluzionari” profondamente diversi, non è mai assicurato il successo, nemmeno nei momenti di massima crisi interna a date formazioni particolari, delle forze che agiscono specificatamente contro il capitale.

 

  1. Riassumiamo. Quella che continuiamo a chiamare società capitalistica – composta da ondate successive di sviluppo di formazioni sociali caratterizzate da via via differenti strutture di rapporti (capitalismo “borghese”, dei “funzionari del capitale”, ecc.) – non ha (più) molto a che vedere con le indicazioni forniteci dalla teoria di Marx; a meno di non rifarsi alla banale ripetizione delle “giuste” previsioni marxiane circa la centralizzazione monopolistica dei capitali, la generalizzazione della forma di merce e la continua estensione del mercato globale, e via cianciando. Se Marx avesse “scoperto” solo simile “acqua calda”, sarebbe veramente uno studioso di secondo rango. Ha detto molto di più, può quindi stimolare ben altre formulazioni teoriche; queste però debbono oggi soltanto aiutarci a percorrere nuovi sentieri. Le riflessioni di Marx vanno prese come un invito pressante a rimuginarne di nuove, che si distanzino dalle sue; è ben noto che, quando ci si allontana criticamente da un grande pensatore, non lo si abbandona e tanto meno lo si tradisce, bensì lo si usa – proprio mediante la negazione determinata delle sue tesi – quale pungolo ancora fecondo e vitale. Solo i dottrinari “chiesastici”, quali sono i rimasugli marxistoidi d’oggi, non capiscono tale problema e ci propinano sterili rimasticature del passato remoto.

I gruppi dominanti non tendono a centralizzarsi ed unificarsi, permangono invece in conflitto continuo con alternanza di acutizzazione e attenuazione dello stesso; quell’alternanza che, al livello delle interazioni fra formazioni particolari nell’ambito di quella globale, danno vita alle epoche (di lunga durata) di mono e policentrismo. All’interno delle singole formazioni particolari, le fasi di accentuazione dello scontro tra dominanti conduce, non però necessariamente e ineluttabilmente, a congiunture di “rivoluzione” con sbocchi non predeterminati: contro o dentro il capitale (più facilmente si realizza la seconda soluzione). Le modalità del conflitto sono quelle da sempre in uso tra i dominanti nelle diverse forme storiche di società; solo che in quelle precapitalistiche, le strategie del conflitto per la supremazia, fondate su forza e astuzia (detto in estrema sintesi), erano utilizzate nelle sfere politico-militare e ideologico-culturale, mentre nel capitalismo pervadono pure l’intera sfera economica duplicatasi in merce e denaro (produzione e finanza), una sfera che fornisce a questo punto i mezzi essenziali per l’attuazione delle strategie in ogni ambito sociale.

Un conflitto del genere produce sviluppo, e tramite questo consente l’egemonia dei gruppi dominanti e l’accettazione del dominio da parte dei sottoposti che migliorano comunque – come tendenza di lungo periodo – le loro condizioni di vita; diciamo pure quelle materiali, ma con ciò non si incrina di un ette il consenso generalizzato per questa forma sociale. Oltre allo sviluppo, il conflitto produce anche segmentazione e stratificazione crescenti della società, con interazione, quanto meno non armonica, tra i vari spezzoni e comparti sociali (segmenti e strati). Lo sviluppo è esso stesso disarmonico, avviene con ritmi diseguali in tempi e spazi diversi e conduce a periodi (e aree) di acutizzazione. Soprattutto nei periodi e aree (formazioni particolari o loro gruppi) in cui si accentuano disarmonia e crisi, si rafforza la “disaffezione” e spesso l’antagonismo nei confronti delle modalità di uno sviluppo fondato sulle strategie del conflitto per prevalere con la forza e con l’inganno; inizialmente lo scontro si fa più acuto tra i dominanti, ma ne vengono poi investiti sempre più largamente tutti gli altri ceti sociali.

I gruppi di agenti che criticano apertamente le caratteristiche del conflitto strategico tra dominanti – gruppi del tutto minoritari e relativamente isolati nelle fasi di attenuazione delle lotte e di prevalente consenso al capitale – non sono avanguardia di “una classe”, ma hanno anzi “estrazione sociale” assai composita. Chiedersi che cosa li unisca e che cosa essi rappresentino oggettivamente non è senza senso, ma credo costituisca in determinati periodi un esercizio perfettamente inutile. E’ più interessante chiedersi come mai essi – in genere figli di una passata epoca di acutizzazione del conflitto interdominanti – si trovino in situazione di crescente debolezza e di isolamento nell’ambito di formazioni particolari, man mano che queste accedono agli alti gradini dello sviluppo capitalistico, nel raggiungimento dei quali il processo di differenziazione sociale ha sciolto la “massa” del popolo dai suoi legami con più antiche tradizioni e culture. Non esiste anzi nemmeno più un popolo in senso proprio, bensì un insieme articolato di vari comparti sociali fra loro in interazione, diversamente posizionati sia in orizzontale che in verticale.

I gruppi critici (anticapitalistici) debbono comportarsi piuttosto differentemente nei periodi di attenuazione e in quelli di accentuazione degli scontri. Essi si muovono necessariamente tra molte contraddizioni che vanno assunte consapevolmente e senza pretese di una “purezza” di intendimenti, che si pretendono rivolti all’“amore per il popolo”, ormai del tutto inesistente come appena rilevato. E’ necessario condurre una critica delle modalità strategiche del conflitto tra dominanti, demistificando le varie ideologie “armoniciste” (e di falsa cooperazione) che le occultano e mistificano; e tuttavia si debbono conoscere tali modalità e rivolgerle contro i dominanti. Vanno condotte azioni politiche – sottoposte all’attento vaglio di date ipotesi teoriche circa la struttura e dinamica capitalistiche – atte a favorire il collegamento tra gli strati “bassi” della società (quelli più nettamente dominati) e la possibile loro alleanza in un dato “blocco sociale”; sarebbe però un errore decisivo dimenticare la lotta interdominanti e non assumere determinate posizioni in grado di acuirla e di favorire comunque i gruppi nuovi e più dinamici contro quelli ormai intorpiditisi e tendenzialmente parassitari. E’ semplicemente sciocco e avventuristico – tanto da far pensare talvolta alla mala fede di certi finti critici del capitalismo – inimicarsi proprio gli strati sociali “bassi” predicando contro lo sviluppo (solo “materiale”; che “orrore”! Questo però lo affermano certi intellettuali dalla pancia fin troppo piena); e tuttavia non vi è dubbio che non ogni tipo di sviluppo favorisce la crescita delle forze dette “antisistema”.

In ogni caso, si tenga presente che le possibilità “rivoluzionarie” si presentano soprattutto nelle congiunture di crisi. Ovviamente, come più sopra rilevato, non si tratta mai di crisi puramente economiche; occorrono ben altre condizioni di sfilacciamento della trama sociale complessiva, di affievolirsi del consenso e di forti incrinature degli apparati politici e istituzionali. Condizioni simili rendono perciò problematico lo sviluppo; questo diventa del resto ancora più debole, incerto e soggetto ad inversioni di tendenza anche in seguito al sempre più duro confronto interdominanti, che vede spesso intrecciarsi il conflitto tra formazioni particolari nel contesto globale e quello tra gruppi dominanti “vecchi” e “nuovi” all’interno delle formazioni particolari. Qui nasce allora una ulteriore complicazione per i gruppi di agenti politici che nutrono aspirazioni anticapitalistiche. La loro lotta si interseca, e rischia di confondersi, con quella degli agenti “rivoluzionari” dentro il capitale, intenzionati a rilanciare il sistema capitalistico sostenendo sia i nuovi gruppi di agenti capitalistici in una data formazione particolare, sia la propria formazione particolare contro le altre sul piano internazionale (epoche policentriche). Anche per questo, pur in congiunture adatte è comunque difficile l’attività dei gruppi anticapitalistici, che debbono porre molta attenzione a quanto predicano, pena l’alienarsi le simpatie di gran parte dei segmenti e strati – perfino di quelli situati nei bassi gradini della scala sociale (ed economica) – che tendono allora a raggrupparsi in “blocco sociale” sotto la direzione dei suddetti “rivoluzionari” dentro il capitale.

Se l’esperienza del fascismo, ma soprattutto del nazismo, non ha insegnato nulla, allora poveri noi! Vogliamo ancora sostenere la menzogna, sciocca e illusoria, che le masse erano antifasciste e antinaziste, che sono state subornate (chissà come e perché), che sono state piegate antidemocraticamente con la pura violenza? Se vogliamo continuare ad autoingannarci, seguendo i mediocri antifascisti che blaterano sciocchezze da tempo immemorabile, sotto la copertura della vittoria delle “democrazie” capitalistiche (il “migliore involucro della dittatura borghese” per Lenin), facciamolo pure; ma non avremo imparato nulla dall’esperienza storica. E ripeteremo i clamorosi errori degli anni trenta; non solo l’errore di definire socialfascisti i socialdemocratici, ma anche quello di aver in seguito costituito con questi ultimi un’alleanza “antifascista” confusa e pasticciata, che ha posto una bella pietra tombale su ogni velleità anticapitalistica. Non entro evidentemente in questa sede in una discussione, più storica che teorica (ma comunque orientata da nuove ipotesi teoriche), che sarebbe lunga e qui sviante. Certo, se qualcuno infine assolvesse un compito del genere, si farebbe chiarezza su temi ormai avvolti dalla spessa nebbia ideologica sparsa dai vincitori (capitalisti tanto quanto i perdenti).

 

  1. Questo è un altro piccolo pezzo di una lenta e faticosa costruzione teorica, che tenta in ogni caso di staccarsi dai vecchi lidi senza affatto perderne la memoria. Pur dove magari non sembra, mi confronto in realtà sempre con il passato (non solo teorico), sforzandomi però di prendere un diverso indirizzo. Non ho certo la pretesa di possedere le capacità intellettive di alcuni grandi di tempi trascorsi – non mi riferisco semplicemente a Marx e ai marxisti – che hanno dato forti contributi alla crescita di una teoria della società, soprattutto di quella capitalistica; una teoria capace anche di suggerire precise pratiche politiche ed economiche. Resto inoltre ben saldo sulla posizione assunta da Althusser quando affermò che Marx ha aperto alla scienza il Continente Storia.

Malgrado quanto appena ricordato, sono sempre più convinto della necessità di percorrere nuove strade, tornando eventualmente sui propri passi se ci si accorge di essere incappati in un “cul di sacco”; non arretrando però fino a ritrovarsi al punto di partenza per poi fermarsi e segnare il passo con stanche giaculatorie. Del resto, tanto per fare un esempio eclatante, Galileo, pur essendo un genio, non giungeva all’altezza di pensiero di Aristotele; eppure seppe mandare al diavolo gli aristotelici del suo tempo. Non mi sembra di vedere oggi in giro geni “galileiani”, ma ciò non deve impedire ad alcuna persona appena un po’ sensata di mandare infine al diavolo i marxisti o i weberiani o gli schumpeteriani o i keynesiani….ecc. ecc. (tanti sono i grandi del passato) onde avviarsi lungo sentieri non ben segnati, estirpando intanto un bel po’ di erbacce che intralciano il cammino.

Quindi mi sento tranquillo: non sono presuntuoso e tanto meno folle, so bene di essere lontanissimo dai livelli di intelligenza di Marx, ma anche di tanti altri marxisti minori. Tuttavia, sono del tutto insoddisfatto delle attuali analisi della società da qualsiasi parte provengano; credo perciò che ci sia spazio per pensare e “innovare”. Comunque tento, e andrò avanti passin passino, con estrema prudenza. Solo alla fine, se ne avrò il tempo, sonderò la possibilità di elaborare il tutto in un nuovo libro che segni un deciso passo in avanti rispetto agli Strateghi del capitale.

 

 

La saga dei Saud_una conversazione con Antonio de Martini

L’Arabia Saudita sta vivendo da tempo una defatigante fase di successione all’interno della dinastia regnante. Il sistema di trasmissione del potere ha sino ad ora consegnato le leve di governo ad una paradossale gerontocrazia. L’ascesa di Selman sembra contraddire questa prassi e condurre all’epilogo la saga; con essa il perseguimento di alcuni capisaldi della politica estera e della politica interna sta trovando nuove ed inquietanti modalità operative, grazie anche agli sconvolgimenti in corso nella casa-madre americana_ Buon ascolto_ Germinario Giuseppe

https://www.youtube.com/watch?v=hyxQVMqEkG8&t=72s

Oliver Stone, le mezze verità sull’assassinio di JFK _ Pubblicazione autorizzata

Pubblichiamo, debitamente autorizzate, alcune considerazioni del regista Oliver Stone sulla recente pubblicazione di file riservati inerenti l’assassinio a Dallas del Presidente J.F. Kennedy, tutt’ora uno degli enigmi e delle macchie più oscure che marchiano le vicende politiche degli Stati Uniti. Un episodio ancora suscettibile di influenzare pesantemente il confronto politico in atto nel paese. Un confronto, per meglio dire uno scontro, per molti versi incredibile, ancora più acuto e feroce ma che a tutt’oggi non ha trovato un analogo epilogo cruento solo per la crescente perdita di credibilità del vecchio establishment, visti anche gli oscuri antefatti. Non a caso rivangati di tanto in tanto da Trump e dai componenti più fedeli e militanti del suo staff.

Non solo! La formazione sociale statunitense è molto meno coesa di allora e la contrapposizione tra élites emergenti e vecchia classe dirigente sempre meno ricomponibile_ Il rischio è quello di pervenire, in tempi relativamente brevi, ad una implosione drammatica da cui potremmo veder sorgere, nel bene e nel male, “un nuovo mondo”. 

Oliver Stone continua a distinguersi, dal suo punto di vista tipicamente americano, nella sua opera di informazione e riflessione_ Una delle poche voci che riescono a oltrepassare la cortina mediatica sapientemente stesa. In Italia gli acuti sono ancora più rari ed impercettibili. Buona lettura. Gianfranco Campa e Giuseppe Germinario.

 

A picture taken on July 5, 2017 shows a souvenir shops offering among others cup a tin mug depicting Russian President Vladimir Putin and US President Donald Trump, in Moscow. It was a constant refrain on the campaign trail for Donald Trump in his quest for the US presidency: "We're going to have a great relationship with Putin and Russia." Now, weighed down by claims that Moscow helped put him in the White House, Trump is set to finally meet his Russian counterpart in an encounter fraught with potential danger for the struggling American leader. / AFP PHOTO / Mladen ANTONOV

A picture taken on July 5, 2017 shows a souvenir shops offering among others cup a tin mug depicting Russian President Vladimir Putin and US President Donald Trump, in Moscow.
It was a constant refrain on the campaign trail for Donald Trump in his quest for the US presidency: “We’re going to have a great relationship with Putin and Russia.”
Now, weighed down by claims that Moscow helped put him in the White House, Trump is set to finally meet his Russian counterpart in an encounter fraught with potential danger for the struggling American leader.
/ AFP PHOTO / Mladen ANTONOV

Queste alcune mie considerazioni sui file di JFK:

 

  1. Trump è stato derubato. Penso che volesse davvero la pubblicazione di tutti gli archivi su JFK, ma come per qualsiasi altra cosa che riguarda il “Deep State”, i sommi sacerdoti gli hanno detto: “Non puoi farlo”,  appellandosi alla “sicurezza nazionale”; lo stesso pretesto che  viene utilizzato dal 1963.

 

  1. La pubblicazione degli archivi  è stata programmata per essere un “niente di interessante.” Il lancio di materiale cancellato / non eliminato / non più redatto è spesso illeggibile e ha lo scopo di assicurarci che “vedi, qui non c’è niente”.

 

  1. Ma nonostante tutto, alcune “peculiarità” sono venute in superficie come melma in uno stagno; il fascicolo CIA / Angleton / Oswald risale chiaramente al 1959 e Angleton aveva senza dubbio un interesse speciale per Oswald. Jeff Morley, che ha scritto una nuova biografia di Angleton (“Il fantasma: La vita segreta di CIA Spymaster James Jesus Angleton”, St. Martin’s Press, 2017) e che lavora anche come redattore sulle verità di JFK, descrive Oswald come “carta segnata” nel gioco, cioè un soldato, una pedina  da utilizzare secondo necessità; il che, a mio parere, si adatta molto bene al profilo di Oswald.

 

  1. Oswald a Città del Messico rimane ancora un mistero. Era o non era lì? Non esistono foto di lui; ho testimonianze che indicano la sua presenza in Messico . Angleton, a quanto pare, intendeva che Oswald andasse a Cuba, usando la permanenza a New Orleans per ottenere le necessarie credenziali come agente pro-Cuba. Il piano della CIA subì un arresto quando il governo cubano respinse la domanda di visto di Oswald non credendo genuina la sua presunta posizione pro Cubana.

 

  1. Al di là di questa questione,  quello che colpisce è la completa assenza di attori chiave nell’affare JFK. Gente come Howard Hunt, William Harvey, David Atlee Phillips (CIA, Messico), Anne Goodpasture (CIA, Città del Messico) e George Joannides (CIA, Miami), non vengono menzionati negli archivi pubblicati. Gli archivi completi con i nomi di questi principali attori non sono stati ancora pubblicati. Nel complesso, ci sono troppe pagine vuote. Ad esempio, apparentemente, la CIA dedica undici pagine a Garrison, ma otto sono completamente cancellate.

 

  1. I documenti più controversi sono “declassificabili”, ma secondo James DiEugenio (“Reclaiming Parkland”, “Citizens for Truth about the Kennedy Assassination”), anche se queste pagine dovessero essere pubblicate in futuro e passate sotto la macchina del riconoscimento ottico dei caratteri (OCR), non sarebbero lo stesso decifrabili. In altre circostanze, la sentenza “NON RITENUTO IMPORTANTE” diventa un’altra categoria di documenti da screditare. Persone di grande interesse come Earle Cabell, sindaco di Dallas nel 1963 e fratello del vice direttore generale Charles Cabell, l’agente di alto livello della CIA licenziato da Kennedy insieme ad Allen Dulles e Richard M. Bissell Jr. dopo il fiasco della Baia dei Porci, non sono considerati importanti, anche se hanno giocato un ruolo enorme nel tracciare il tragitto della macchina di JFK. considerato “non importante” era ANCHE il disertore russo Yuri Nosenko, la spia sovietica che aveva una teoria sull’assassinio di Kennedy completamente diversa rispetto a quella di Angleton, che invece era intento a coprirla. Nosenko fu vittima della terrificante “caccia alla talpa” di Angleton (vedi “Wilderness of Mirrors” e la nuova biografia di Morley su Angleton); sfortunatamente, il fiasco di “The Good Shepherd”, un film brutto, con Matt Damon e Angelina Jolie, ha impedito la realizzazione di altri film su questo argomento.

 

  1. Allo stesso modo, si può affermare che i sovietici – Nikita Khrushchev e il KGB – avevano chiaramente capito come  l’assassino di Kennedy fosse un colpo di stato, con elementi di forze di “destra” intente ad arrivare al potere negli Stati Uniti. Ciò si rivelò sfortunatamente vero, poiché Lyndon Johnson introdusse un nuovo sistema con politiche di linea dura in tutto il mondo, a cominciare dalla dittatura militare in Brasile e, più disastrosamente, l’invio di 525.000 truppe da combattimento in Vietnam. Il presidente francese Charles de Gaulle si trovò d’accordo con l’opinione dei Sovietici. Ma de Gaulle non fa parte di questa tornata di declassificazione degli archivi.

 

In generale, direi che questa pubblicazione degli archivi JFK è deludente nelle informazioni, ma come ho detto in apertura, è fatta apposta per essere in questo modo. Si perde interesse quando si passa da una documentazione illeggibile a una documentazione classificata “niente di interessante” per finire con un documentazione minore, non interamente redatta. Qualunque cosa di valore deve essere soppesata nei dettagli ed è proprio chi conosce i dettagli a poter interpretare al meglio questo inganno poderoso.

 

Oliver Stone.

I MANIFESTI NEMICI _ REPLICA DI ROBERTO BUFFAGNI AD ALESSANDRO VISALLI_ULTIMA PARTE

I manifesti nemici

Replica ad Alessandro Visalli – seconda e ultima parte

1a PARTE   http://italiaeilmondo.com/2017/11/07/i-manifesti-nemici-di-roberto-buffagni/

In basso a destra della pagina principale del sito, nella categoria dossier, alla voce “Europa Unione Europea” sono disponibili gli articoli sin qui prodotti sull’argomento

 

Tocco qui il punto della Dichiarazione di Parigi che Visalli definisce “una scelta che proprio non posso condividere.” Riporto per esteso il brano criticato da Visalli sia per comodità del lettore, al quale sono stati presentati i testi in esame qualche settimana fa, sia perché il punto è importante.

Qual è la scelta che Visalli trova inaccettabile? Così la descrive il brano della Dichiarazione di Parigi citato e commentato dal nostro interlocutore: (sottolineature mie)

Dobbiamo ripristinare la dignità sociale che hanno i ruoli specifici. I genitori, gl’insegnanti e i professori hanno il dovere di formare coloro che sono affidati alle loro cure. Dobbiamo resistere al culto della competenza che s’impone a spese della sapienza, del garbo e della ricerca di una vita colta. L’Europa non conoscerà alcun rinnovamento senza il rifiuto deciso dell’egualitarismo esagerato e della riduzione del sapere a conoscenza tecnica. Noi abbracciamo con favore le conquiste politiche dell’età moderna. Ogni uomo e ogni donna debbono avere parità di voto. I diritti fondamentali debbono essere protetti. Ma una democrazia sana esige gerarchie sociali e culturali che incoraggino il perseguimento dell’eccellenza e che rendano onore a coloro che servono il bene comune. Dobbiamo restaurare il senso della grandezza spirituale e onorarlo in modo che la nostra civiltà possa contrastare il potere crescente della mera ricchezza da un lato e dell’intrattenimento triviale dall’altro…Non possiamo consentire che una falsa idea di libertà impedisca l’uso prudente del diritto per scoraggiare il vizio. Dobbiamo perdonare la debolezza umana, ma l’Europa non può prosperare senza restaurare l’aspirazione comune alla rettitudine e all’eccellenza umana. La cultura della dignità sgorga dal decoro e dall’adempimento dei doveri che competono al nostro stato sociale. Dobbiamo ricuperare il rispetto reciproco fra le classi sociali che caratterizza una società che dà valore ai contributi di tutti.”.

Visalli critica così: (sottolineature mie) “Qui comincia a divergere quindi la mia sensibilità: pur comprendendole, parole come “gerarchie sociali e culturali” e “senso della grandezza spirituale”, riverberano troppo da vicino il grande tema dei privilegi di rango, la società divisa in caste e ordini, quella che De Benoist in “Identità e comunità” chiama “l’identità di filiazione” della società tradizionale. Una società nella quale prevale la lealtà sull’interiorità e l’emancipazione. Ovvero una concezione troppo essenzialistica dell’identità, che non valuta abbastanza la sua natura dinamica, certamente dialogica, insieme individuale e collettiva. La paura dell’anomia, pur giustificata, non può dirigere nella direzione di una simmetrica indeterminazione dell’io, sciolto nell’appartenenza…. Una scelta che proprio non posso condividere. Usare concetti come “i doveri che competono allo stato”, e “rispetto tra le classi sociali”, appena seminascosto dal riverbero dell’ideale classico della eguaglianza come dare l’eguale all’eguale, nella formula “dare valore ai contributi di tutti”, significa andare molto oltre la giustificata critica del lato dispotico della ragione. Implica sposare direttamente l’ideale di restaurazione che fu della linea genealogica prima richiamata.

Replico brevemente alla critica di Visalli.

1) Le classi e i ceti, cioè a dire la diseguaglianza sociale, sono una regolarità storica permanente. La diseguaglianza sociale può affermarsi nella realtà effettuale in molti modi; e in molti modi può essere legittimata. Le distanze gerarchiche possono essere più o meno grandi e più o meno rigide, le asimmetrie di potenza maggiori o minori, ma la diseguaglianza sociale resta un dato storico permanente e universale.

2) E’ possibile e desiderabile, un’azione politica tendente a eliminare la diseguaglianza sociale? Si badi bene: eliminare, non ridurre, o modificare ricostruendola su basi anche radicalmente diverse?

3) No. L’eliminazione della diseguaglianza sociale è impossibile, e dunque indesiderabile, perché produce effetti enantiodromici. La dinamica è la seguente: a) per eliminare la diseguaglianza sociale è necessario intervenire sulla realtà sociale non egualitaria b) per intervenire efficacemente sulla realtà sociale è indispensabile il potere c) il potere non può essere esercitato da tutti, sennò l’eguaglianza ci sarebbe già d) il potere viene invece esercitato da alcuni: come sempre il potere, che è per sua natura un differenziale di potenza, + potente/- potente d) risultato: più eguaglianza sociale si vuole ottenere, più dispotismo politico risulta necessario impiegare e) alla fine delle operazioni, si ottiene molta eguaglianza per i molti, molto potere per i pochi.

4) Questa dinamica paradossale ed enantiodromica è la caratteristica più vistosa di quel che Eric Voegelin chiamò “gnosticismo politico”[1], cioè a dire la trasposizione sul piano storico, immanente, delle categorie escatologiche cristiane. La trasposizione è motivata dalla reazione patologica a un’esperienza universalmente umana: l’orrore di fronte all’esistenza – per esempio, l’orrore di fronte all’ingiustizia sociale, che può assumere forme veramente atroci – e il desiderio di fuggirne. Il cristianesimo sdivinizza, “disincanta” il mondo naturale e storico. Quando la fede cristiana nella trascendenza si eclissa, l’angoscioso vuoto di senso che si spalanca nel mondo viene riempito dalle gnosi: che prendono forma politica qualora le società non trovino più sufficiente legittimazione nel loro ethos tradizionale, e sentano il bisogno di un’efficace, coesiva teologia civile. Lo gnosticismo politico non commette soltanto un errore teorico in merito al significato dell’eschaton cristiano. In conformità a questo errore, le ideologie gnostiche e i movimenti che le traducono in azione politica interpretano una concreta società e l’ordine che la regge come un eschaton; e dando una lettura escatologica di concreti problemi sociali e politici, fraintendono la struttura della realtà immanente: cioè sognano quando sarebbe indispensabile essere ben desti. In particolare, il sogno gnostico oscura e rimuove la più antica acquisizione della saggezza umana: che ogni cosa sotto il sole ha un inizio e una fine, ed è sottoposta al ciclo di crescita e decadenza; che insomma tutto, nel mondo immanente, è governato dal limite.

5) Gli errori in merito alla struttura del reale hanno serie conseguenze pratiche, che spesso si manifestano in forma paradossale: come nell’esempio succitato, in cui perseguendo l’eliminazione della diseguaglianza sociale si ottiene il dispotismo; o come nel caso dell’immigrazione di massa, nel quale perseguendo l’accoglienza umanitaria indiscriminata degli stranieri si ottiene non soltanto il rischio di collasso delle strutture sociali, ma addirittura l’insorgenza del razzismo.

6) Se l’errore in merito alla struttura del reale consegue a un’ideologia gnostica, l’accecamento di fronte alla realtà diventa però una questione di principio. Immediata conseguenza: lo gnostico vuole ottenere un effetto, e ne ottiene un altro diametralmente opposto. Del baratro tra intenzione e risultato, però, lo gnostico non incolperà mai se stesso e il suo sogno: incolperà sempre gli altri, o la società nel suo insieme, che non si comportano secondo le regole in vigore nel suo profetico mondo di sogno.

7) Lo gnosticismo politico non si manifesta in una sola forma. Ieri si è manifestato in forma di comunismo, nazismo, puritanesimo, catarismo, etc. Oggi si manifesta in forma di progressismo, di “liberal-democrazia” mondialista.

8) Si può, e si deve, discutere a lungo e a fondo, dissentendo anche con asprezza, in merito ai contenuti, alle forme, alle ragioni di eguaglianza e gerarchia sociali. Il dibattito teorico, e il conflitto pratico, sono non soltanto inevitabili ma benefici: a patto che dibattito e conflitto non si si propongano obiettivi immaginari ma reali, e dunque limitati (può essere limitato anche un conflitto armato).

9) E’ un obiettivo immaginario e pertanto distruttivo ed enantiodromico l’abolizione delle diseguaglianze sociali, è un obiettivo reale e pertanto costruttivamente perseguibile una loro diminuzione, e/o una loro diversa composizione e legittimazione. Uno dei dati di realtà da tenere in conto è il conflitto dei valori: libertà/sicurezza, eccellenza/eguaglianza, democrazia/capacità decisionale, etc. In quest’ultimo caso, l’esperienza storica suggerisce che la democrazia in quanto tale non basta affatto a garantire una saggia conduzione della cosa pubblica, e che una democrazia dà migliori risultati quando la guidi una classe dirigente coesa da un ethos aristocratico; che sia capace, ad esempio, di compromesso politico, di tacito accordo in merito all’interesse nazionale, di condividere stile e cultura al di sopra delle inimicizie politiche. Nella cultura politica del repubblicanesimo antico e moderno si possono trovare molte utili indicazioni in merito alla funzione positiva e costruttiva della compresenza conflittuale di istituzioni che si rifanno a principi diversi: monarchico (esecutivo forte), aristocratico (senato), democratico (suffragio universale).

Per concludere. Non tocco, qui, il tema “quali eguaglianze, quali gerarchie siano desiderabili e perché”. Ne potremo discutere, con Visalli e con altri, in seguito. Quel che mi preme, per ora, è indicare il contesto entro il quale questa discussione mi pare fruttuosa: che non è l’antitesi radicale e principiale eguaglianza/gerarchia, progresso/reazione; ma le forme e i contenuti concreti delle eguaglianze, delle differenze, delle gerarchie possibili.

[1] Per una trattazione sintetica, v. Eric Voegelin, «Modernity without Restraint», in Collected Works of E.V., vol. V, Columbia and London: University of Missouri Press, 2000.

 

Movimento 5 Stelle = PD 2.0, di Roberto Buffagni

Movimento 5 Stelle = PD 2.0

Al ritorno dalla mia corsa mattutina, dall’ odierna rassegna stampa di “Prima Pagina” su Radiotre apprendo con sgomento una notizia che annulla i benefici dell’esercizio fisico e mi guasta il buonumore.

Nel suo colloquio di ieri con Mr. Conrad Tribble[1], Deputy Assistant Secretary del Bureau of European and Eurasian Affairs presso il Dipartimento di Stato USA, Luigi di Maio ha affermato che «Se non avremo la maggioranza assoluta ci assumeremo la responsabilità di non lasciare il Paese nel caos». “La Stampa” di stamattina[2] aggiunge che “Di Maio all’interprete fa tradurre la parola ‘convergenze’. Non si sbilancia ma fa intendere che intese in Parlamento, magari su un programma di pochi punti, sono possibili.”

Traduzione: senza averne mai fatto cenno né a militanti ed elettori del M5S, né in generale agli italiani, Di Maio annuncia a un diplomatico americano di medio rango che il M5S opera una conversione di 180° non solo della sua linea politica, ma della sua carta dei principi fondatori, che tra le scemenze tipo Gaia e via i corrotti annovera “mai alleanze con nessuno, al governo andiamo col 50%+1 voto”. Se alle prossime elezioni politiche il centrosinistra (PD + frattaglie) come probabile non prende il 40% che garantisce seggi premio & maggioranza parlamentare, ci pensa il M5S a metterci una toppa e a sostenere il governo piddino o parapiddino, entrando nella maggioranza di governo nella forma più opportuna (= la supercazzola che può meglio confondere le idee ai suoi elettori).

Se questa inversione di rotta non provoca reazioni serie nel M5S – e qualcosa mi dice che non le provocherà, visto il grado di autonomia dei dirigenti e il quoziente di intelligenza politica del militanti, prossime entrambe a – 273,15° centigradi, lo zero assoluto – questo vuol dire che ci beccheremo un governo PD + frattaglie piddine+M5S, una prospettiva apocalittica che pochi giorni fa avevo intravisto sul canale 5 della mia palla di cristallo[3].

Commento a caldo: siamo fottuti, Gesù aiutaci tu!

Commento a tiepido:

  1. a) dopo questa tragica pagliacciata, per credere che il M5S non sia eterodiretto dagli ambienti democrat USA ci vuole una riserva di ingenuità e fiducia nella bontà del mondo della quale disponevo (forse) a dodici anni. A sessantuno, ho finito le scorte da un pezzo.
  2. b) grazie alla suddetta tragica pagliacciata, si capisce meglio da dove origina l’imprevista candidatura di Piero Grasso a leader delle frattaglie piddine. Origina dai referenti americani di D’Alema, gli ambienti clintoniani e obamiani presso i quali D’Alema si accreditò bombardando illegalmente Belgrado.
  3. c) I suddetti ambienti democrat USA, che hanno diverse gatte da pelare e regolamenti di conti interni da sbrigare in casa loro, ogni tanto pensano anche a noi, la loro cara portaerei mediterranea, e in vista delle prossime elezioni si preparano un ventaglio di possibilità favorevoli.
  4. d) Le possibilità più serie che si preparano sono: 1. Stallo elettorale, PD non perde troppi voti, le Frattaglie Piddine prendono appena q.b per entrare in parlamento, Forza Italia supera la Lega = grande coalizione PD-FI, con Renzi o Gentiloni premier. 2. Stallo elettorale, PD prende una mazzata epocale, le Frattaglie Piddine fanno un discreto risultato perché una buona parte dei delusi dal PD li vota, FI non supera la Lega = governo PD+M5S guidato dal Capofrattaglie Piero Grasso, il Magistrato Integerrimo che garantisce il Governo dell’Onestà per i trinariciuti 5 stelle. In breve, il M5S si fa protagonista di una riedizione aggiornata dello schema di subalternità della “sinistra critica” alla “sinistra ortodossa”: intercettare il dissenso, e al momento buono riversare i voti sulla sinistra di governo; solo che lo fa con il 25% dei voti, il che cambia tutto.

Nota di speranza finale: il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, e anche alla stupidità c’è un limite. Non è detto che questa indigesta ciambella Centrosinistra+Cinquestelle riesca col buco.

 

 

 

[1] https://www.state.gov/r/pa/ei/biog/bureau/247194.htm

[2] http://www.lastampa.it/2017/11/15/italia/politica/di-maio-promette-stabilit-agli-stati-uniti-senza-maggioranza-pronti-a-intese-apwEU16Nw2g7Y4e74JLxlM/pagina.html

[3] http://italiaeilmondo.com/2017/11/10/dalla-mia-palla-di-cristallo-di-roberto-buffagni/

L’ aperi-cena filosofica _ Il Manifesto convivialista , di Elio Paoloni

 

 

L’ aperi-cena filosofica

Il Manifesto convivialista

 

Elio Paoloni

 

Su questo sito si discute di Manifesti, in particolare della Dichiarazione di Parigi,(https://thetrueeurope.eu/uneuropa-in-cui-possiamo-credere/ ) che, come altri collaboratori del blog, condivido interamente. Parigi c’entra poco, in realtà, anche se tra i firmatari ci sono il medievista francese Rémi Brague, studioso di Maimonide e docente alla Sorbona e Chantal Delsol, la fondatrice dell’Istituto Hannah Arendt di Parigi: tra gli altri firmatari del documento, originariamente redatto in inglese,  troviamo Roger  Scruton, uno dei massimi filosofi anglosassoni, (https://eliopaoloni.jimdo.com/2013/01/14/un-conservatore-relativista ) il polacco Ryszard Legutko, ex ministro dell’Istruzione, docente di Filosofia antica all’Università Jagellonica di Cracovia e prima ancora responsabile intellettuale di Solidarnosc durante la Guerra fredda, il tedesco Robert Spaemann, a lungo compagno di ricerche e studi dell’allora professor Joseph Ratzinger e poi erede della prestigiosa cattedra che fu di Hans-George Gadamer a Heidelberg, lo spagnolo Dalmacio Negro Pavón, membro dell’Accademia reale spagnola per le scienze sociali e poi personalità olandesi, tedesche, norvegesi.

 

Francofoni erano invece i firmatari di un manifesto in cui mi sono imbattuto, quello convivialista, (qui http://www.edizioniets.com/scheda.asp?n=9788846739421 , qui un compendio in PDF http://www.postfilosofie.it/archivio_numeri/anno7_8_numero7/1compendio.pdf ), redatto qualche anno fa con il proposito di unire le diverse anime del pensiero alternativo, di “individuarne il massimo comun denominatore”.

 

Non è così difficile, in realtà, unire diversi volenterosi sull’ennesima esposizione di lodevoli principi: come non concordare sulla nocività della finanziarizzazione del mondo e della subordinazione di tutte le attività umane a una norma commerciale, iniziata con l’imposizione dell’idea di “Fine della storia”? Come dissentire dalla stigmatizzazione dell’imperio del Mercato a discapito di qualsiasi seria azione politica? Come non rammaricarsi, con i firmatari, che venga disconosciuta la “motivazione intrinseca” al lavoro, che si escluda il fare per senso del dovere, per solidarietà, per il gusto di un lavoro ben fatto e per il desiderio di creare?

 

Vediamo dunque i capisaldi della politica convivialista:

 

  • Principio di comune umanità: aldilà delle differenze di colore della pelle, di nazionalità, di lingua, di cultura, di religione o di ricchezza, di sesso o di orientamento sessuale, esiste soltanto un’umanità, che deve essere rispettata nella persona di ognuno dei suoi membri. Sai la novità! Dette duemila anni fa e riproposte, desacralizzate, due o tre secoli fa in tanto solenni quanto inerti dichiarazioni. Ma concordiamo pure.

 

  • Principio di comune socialità: gli esseri umani sono esseri sociali. Un po’ di storia della filosofia e la ritroviamo ancor più indietro dei duemila anni. Ma, ancora una volta, nulla da eccepire.

 

  • Principio di individuazione: la politica legittima è quella che permette a ciascuno di affermare al meglio la propria singolare individualità in divenire, sviluppando le proprie capabilità (apprezzabile richiamo all’etica di Amartya Sen).

 

  • Principio di opposizione controllata: è naturale che gli esseri umani possano opporsi. Ma è legittimo farlo solo se non si mette in pericolo il quadro di comune socialità. Perbacco! E ci si sono messi in quaranta?

 

In effetti i firmatari si rendono conto che la scommessa “porta esattamente su ciò che si cerca dall’inizio della storia umana: un fondamento durevole all’esistenza comune, al contempo etico, economico, ecologico e politico”. Per quel che mi riguarda quel Fondamento esiste già. Non per i convivialisti, ovviamente. Quale sarebbe dunque questo massimo comun denominatore?

 

Forse la costruzione di una società del care, “la cura, la sollecitudine – alle quali le donne per prime sono state storicamente assegnate”. Ed eccoci subito dinanzi alla mancanza di coraggio, o alla necessità di mediazione, insomma al timore di indispettire le femministe, perché quello storicamente andrebbe sostituito con biologicamente.

 

Ma questo non basta, ovviamente. Analizziamo le considerazioni morali dei firmatari: va proibito all’individuo “di sprofondare nell’eccesso e nel desiderio infantile di onnipotenza (la hybris dei Greci)”. Giustissimo! Ma la hybris si configurerebbe, qui, nel pretendere di appartenere a qualche specie superiore (perché mai, infatti, l’uomo dovrebbe essere superiore alla zanzara?) o nel monopolizzare una quantità di beni eccessiva. Non un cenno al galoppare dell’Eugenetica o al delirio di onnipotenza di chi cerca l’immortalità tagliandosi le tette in via preventiva, a prescindere, come la tristemente rifatta Angelina Jolie, approdo ultimo della vaccinocrazia, della medicalizzazione di ogni ambito della vita, della ricerca ossessiva della Sicurezza. Neanche una parola sul delirio di onnipotenza di chi intende annullare i generi, femminilizzare gli uomini, abbrutire le donne. Nessun riferimento a chi manovra per sradicare le tradizioni e imporre a tutto il pianeta, divinizzandolo, un unico regime politico, un unico governo. Ah, dimenticavo: il governo mondiale è anche nei disegni dei nostri buontemponi: nel paragrafo delle considerazioni politiche si prende atto che è illusorio attendere nel prossimo futuro la costituzione di uno stato mondiale. Pare di capire che in un futuro più remoto essa sia probabile, anzi auspicabile. Viva il mondialismo? E in che cosa sarebbe alternativo questo movimento? Nel frattempo, poveri noi, dovremmo accontentarci dell’azione politica di “associazioni e ONG”, magnifici strumenti sovranazionali, progressisti e – come dubitarne – indipendenti che abbiamo imparato a conoscere.

 

Concretamente, continuano i convivialisti, il dovere di ciascuno è di lottare contro la corruzione. Questi umanisti non hanno letto Croce (https://www.storiadellafilosofia.net/filosofia-moderna/benedetto-croce/l-onest%C3%A0-politica/ ). Ad ogni modo, occorre “rifiutare di fare ciò che la coscienza disapprova”. Coscienza con la minuscola? E perché mai, in un mondo relativista, la coscienza di Soros dovrebbe dettare gli stessi imperativi di quella di un derviscio rotante? Chi stabilisce, nel mondo del pensiero debole, liquido, più propriamente diarroico (che nessun convivialista si sogna di denigrare) cosa sia “giusto e intrinsecamente desiderabile”?

 

Ma nello specifico? Reddito di base, ovvero il grillino reddito di cittadinanza depurato dell’aggettivo troppo nazionalistico: non siamo tutti, soltanto, cittadini del mondo? Pare abbastanza condivisibile l’instaurazione di un reddito massimo, che però non scalfirebbe minimamente le grandi entità multinazionali e i centri di potere finanziari, le cui sedi sono immateriali. Ah, dimenticavo, nel convivialismo ‘pienamente realizzato’, il governo sarà planetario.

 

Evasivi, criptici, fumosi, gli altri proponimenti politici: “nella moltiplicazione delle attività comuni e associative, costitutive di una società civile mondiale… il principio di autogoverno ritroverebbe i suoi diritti, al di qua e al di là degli Stati e delle nazioni”. Cosa ci sarebbe qui di alternativo alla globalizzazione? Che senso ha scardinare le uniche entità che possono avere la forza di arrestare il tanto osteggiato dominio della finanza, a favore di un arcadia anarco-digitale? Digitale, già. Perché, come insegnava anche Casaleggio, “Internet è un potente mezzo di democratizzazione della società e di invenzioni di soluzioni che né il Mercato né lo Stato sono stati capaci di produrre… attraverso una politica di apertura, di accesso gratuito, di neutralità e di scambio”. Come se il Mercato non passasse ormai massicciamente dalla rete, come se la neutralità fosse un attributo necessario dei Gates e degli Zucherberg. Come se in assenza di Stato si potesse impedire il monopolio, quel monopolio che ora almeno viene – debolmente – avversato. Come se qualcuno, in assenza di Nazione, potesse garantire l’accesso gratuito. Come se davvero la gente usasse quel Linux che a costoro pare la panacea: tra le mie conoscenze, un solo amico lo ha installato (ma non lo usa: è uno smanettone e ha voluto provarlo, tutto qui).

 

Non è possibile commentare seriamente il proposito di rinnovamento dei servizi pubblici attraverso “emergenza, consolidamento e allargamento dei nuovi beni comuni dell’umanità”. Con scappellamento a destra?

La situazione planetaria “impone di regolare strettamente l’attività bancaria e i mercati finanziari e delle materie prime, limitando le dimensioni delle banche e mettendo fine ai paradisi fiscali”. Non ci avevamo pensato! Eppure sarebbe così semplice, tra una sarchiata nell’orto comunitario urbano e una corsa al mercatino equosolidale per acquistare il caffè, sbaragliare, convivialmente, i paradisi fiscali. Chi, esattamente, lo farà, in assenza di Stato e di Nazione? Ah, ecco: “sarebbe giudizioso creare un abbozzo di l’Assemblea Mondiale (Non ci sono bastate la Società delle Nazioni e l’ONU?) che comprenda rappresentanti della società civile mondiale associazionista, della filosofia, delle scienze umane e sociali e delle differenti correnti etiche, spirituali e religiose che si riconoscono nei principi del convivialismo”.

1980-16-pellegrinaggio-nucleare-cm86x71-0-126Non sbagliava Michel Lacroix: “Per affrontare i problemi odierni, il New Age sogna un’aristocrazia spirituale nello stile de La Repubblica di Platone, gestita da società segrete”. E codesta accolta di onesti uomini tecnici, che per fortuna non ci è dato sperimentare (dal brano di Croce sopra citato) che si ritroveranno a governare il mondo, così, per caso (per acclamazione?) come fermeranno i finanzieri cattivi? Con un armata di bocciofile? Con volenterose truppe internazionali, come i caschi blu di Srebrenica? No, essenzialmente con tre formidabili armi:

 

  • il sentimento di appartenere a una comunità umana mondiale” che è un sentimento abbastanza comune, preso genericamente (per certi versi un’ovvia constatazione) ma difficile da provare nel concreto a meno che non si appartenga agli esponenti della globocrazia, quella casta di cosmopoliti che scorrazzano per il mondo piegandolo ai loro illuminati voleri (Monti, Boldrini, Draghi, Rockefeller e via dicendo). Nel mondo reale solo una cerchia ristretta può essere avvertita come la nostra comunità. Già la nazione – fuori dai campionati di calcio – è qualcosa di difficilmente avvertibile: il soldato non lotta per la Patria ma per il suo plotone. L’umanità è troppo ampia perché la si possa – politicamente – avvertire come prossima. Non è questione di cultura o sensibilità: la storia tutta intera, l’antropologia, la sociologia e la psicologia ci avvertono che l’accento del paesino limitrofo già ci separa. Aci Trezza è tuttora acerrima nemica di Aci Castello. Eppure, secondo Fistetti, firmatario e postfatore del manifesto, “tocca ai cittadini delle società liberaldemocratiche «deporre le armi», o, come dice Mauss, «fidarsi interamente» e avanzare l’offerta di alleanza” ai migranti che, manco a dirlo, sono, nella loro totalità ‘profughi’ e, se proprio non ce la facciamo a infilarli nella categoria, ‘migranti ambientali”. Una «scommessa sulla generosità»(Caillé) tipicamente cristiana ma in assenza di cristianesimo e anche di una seria riflessione sulla natura della principale religione antagonista, quindi una follia. Un suicidio politico, e prima ancora morale.

 

  • l’indignazione degli onesti e, specularmente, la vergogna “che è necessario far provare a coloro che violano i principi di comune umanità” (si vergogni, califfo Al Baghdadi, si vergogni, mister Rothschild, si vergogni mister Soros. Ma se già i fantocci politici di casa nostra sono proverbialmente definiti “senza vergogna”!).

 

  • sempre in tema sentimentale, la mobilitazione degli affetti e delle passioni, ben al di là, udite udite, delle scelte razionali degli uni e degli altri. Ma come, ci hanno sempre messo in guardia dal far appello alla pancia dei cittadini, ai rischi dello scatenarsi di emotività nella massa! Ma no, nel Mondo Nuovo convivialista si affermerà per incanto “il meglio delle passioni”, “per inventare altre maniere diverse di vivere, di produrre, di giocare, di amare, di pensare e di insegnare”. Immaginazione al potere, quand’è che l’avevo già sentita? Basteranno nuove Enciclopedie – digitali, ça va sans dire – aggiornate ai dettami ecovegansolidalpacifisti, compulsate le quali narcos boliviani, narcotizzati telespettatori e coatti d’ogni continente si eleveranno a un nuovo stadio di spiritualità.

 

Scorrendo le pagine di questo fantasioso libello mi imbatto anche nell’“obbligo perentorio di far scomparire la disoccupazione”. Di perentorio in tal senso ricordo solo i piani quinquennali. Che si facevano rispettare a suon di deportazioni.

In fondo, finalmente, leggo che si “dovrà assolutamente puntare a ricongiungere sovranità monetaria, sovranità politica e sovranità sociale”. Ottimo! Anzi no: eravamo stati ingannati dalla formulazione ambigua: leggendo meglio si arguisce che la sovranità riguarderebbe una UE rafforzata, non i singoli Paesi.

 

Fin qui solo fuffa: un contenitore vuoto, una sequela di buonismi, di quelle buone intenzioni che sappiamo bene cosa sono destinate a lastricare. Anche di intenzioni pessime, per quel che mi riguarda, come lo è ogni proposito contro la sovranità nazionale. Ma, a ben vedere, una proposta politica concreta c’è: tra le anime alternative ne emerge prepotentemente una, che ho volutamente tralasciato, benché sia presente sin dalle premesse. La parola d’ordine è ‘decrescita’. Latouche risulta essere solo uno dei firmatari ma sui suoi vagheggiamenti si fonda buona parte del manifesto, che riprende i catastrofismi da Club di Roma e il tormentone del CO2 per approdare alla esaltazione della “sobrietà volontaria e dell’abbondanza frugale”. Il problema fondamentale sarebbe la “minaccia antropica”(ci mancava il neo-malthusianesimo), la “finitezza orami evidente del Pianeta e delle sue risorse naturali”. “Gli uomini non possono più considerarsi possessori e padroni della Natura”. “La situazione ecologica del pianeta rende necessario ricercare tutte le forme possibili di una prosperità senza crescita”.

 

Le infelici uscite di Latouche, che si fondano su un’idea primitiva dei sistemi economici, immaginati come insiemi di caratteristiche fisse ed immutabili nel tempo, sono state già ampiamente contestate: è chiaro per qualsiasi studioso vero che la riduzione del reddito nazionale non si traduce automaticamente in una produzione più pulita; anzi, è più facile che un calo delle risorse monetarie finisca con il tradursi in un processo di regressione industriale in cui vengano preferite tecnologie obsolete, e più dannose per l’ambiente (vedi il recente ritorno in auge del carbone tra le fonti di energia). E, soprattutto, gli effetti di una riduzione del PIL non sarebbero equamente distribuiti: andrebbero ad abbattersi in modo regressivo, colpendo la fascia più povera della popolazione, accrescendo proprio quella già enorme disuguaglianza additata nel Manifesto.

 

Collegate alla famigerata decrescita troviamo altre esplosive iniziative alternative: post-sviluppo, movimenti slow food, slow town, slow science; la rivendicazione del buen vivir, l’affermazione dei diritti della natura: “Gli uomini non possono più considerarsi possessori e padroni della Natura”. “La relazione di dono/contro-dono e di interdipendenza deve esercitarsi soprattutto verso gli animali, che non devono più essere considerati come materiale industriale. E, più in generale verso la Terra”.

Diritti della natura, attenzione. Non giuste e condivisibili preoccupazioni razionali su ciò che dobbiamo gestire e tutelare ma attribuzione di “diritti”. Per attribuirne alla gramigna e alle blatte non basta un paradigma filosofico, occorre una nuova religione, anzi no, basta forse reintrodurre quella andina (vedi elogio del pachamama). Non solo animalismo, insomma si accenna a cavalcare anche il misticismo dell’ipotesi Gaia, la teoria di Lovelock, allarmista pentito che non crede più alla fine del mondo per surriscaldamento e che, ad ogni buon conto, ha sempre sostenuto  l’unica energia abbondante veramente pulita e, per il nostro Paese, strategica e opportuna: quella nucleare, ovviamente demonizzata dai firmatari.

Il Sacro, scacciato dalla porta, rientra sempre dalla finestra. L’adorazione che non è rivolta al cielo si proietta verso il mondo. Gea, Iside o Mama Pacha, e l’immarcescibile Vitello d’oro (oggi Gattino, Cagnolino, Maialino), tutto si presta ad essere venerato dai nuovi pagani, i ‘laici’.

 

Ma cosa, insomma, sta dietro a questo movimento? Cosa lo differenzia da tanti generici propositi di tante brave (e anche pessime) persone? A conferire portata filosofica a questo documento di una povertà concettuale sconcertante, sarebbe, spiega Francesco Fistetti nella postfazione all’edizione italiana, il paradigma del Dono: molti degli studiosi firmatari, in particolare il propugnatore del manifesto, Alain Caillé, sono seguaci dell’eroe della tradizione antropologica francese, Marcel Mauss, autore del Saggio sul dono (1925), nel quale, interrogandosi sul rapporto tra diritto e interesse, teorizzava che la forma-dono delle società primitive resta uno dei capisaldi sui quali è fondata anche  la nostra società. “Non si concepiscono società senza mercato” e l’errore del socialismo è stato quello di volerlo abolire: il mercato va regolato.

Tutti noi non chiediamo di meglio anche se siamo convinti che per farlo ci vogliano un pensiero – e una azione – tutt’altro che slow. In cosa, ad ogni modo,  il convivialismo differisce dal Welfare State o dallo stato Keynesiano? Nel principio euristico, per cui l’economia, come la politica e la morale, è soltanto uno degli elementi dell’arte di viver in comune: “la società è un tutt’uno”. Non fa una piega. E dunque? “Occorre tornare al paradigma del dono”. Questo è lo slogan risolutivo, la panacea.

 

Ora, se questa parola d’ordine deve essere divulgata e portata sugli scudi, è necessario qualche chiarimento. Il termine dono , in questo contesto, è irrimediabilmente ambiguo, anzi fuorviante. Perché il destinatario del messaggio penserà al Dono, alla gratuità totale, a una postura caritatevole, disinteressata e amorevole come solo nella dimensione trascendente si dà. Stiamo invece parlando di un meccanismo di mercato molto ritualizzato e complesso, solo apparentemente libero e gratuito, in realtà obbligato e interessato (poiché il dono va obbligatoriamente ricambiato). Presso i Polinesiani gli attori coinvolti erano collettività: famiglie, clan, tribù; e non venivano scambiati solo beni ma anche “banchetti, riti, cortesie, azioni militari, donne, bambini”. Insomma “un sistema di prestazioni sociali totali”. Nelle quali, inutile dirlo, il manato ricambio veniva sanzionato anche duramente. Mauss riallacciava tutto ciò alle istituzioni di sicurezza e previdenza sociale. L’assicurazione è dunque un dono? E la previdenza? A me pare un mero accantonamento, una forma di risparmio, ma forse sto banalizzando.

 

Sarebbe il caso, ad ogni modo, di lasciar perdere questo mantra poiché il grande merito di Mauss è stato proprio quello di scoprire che quel dono non era affatto un dono. Lasciamo il Dono ai credenti e chiamiamo scambio questa forma della socialità.  Ecco che ci ritroviamo con un pallone sgonfiato. Che c’è di così nuovo nello scambio? Se ben comprendo, nel fare a meno della moneta tradizionale. Si parla infatti, nel manifesto, di commercio equo, mutua assistenza, monete parallele e complementari, sistemi di scambio locale. Si avversa dunque il signoraggio?

 

Il punto è, si sostiene, che mentre nelle società arcaiche l’economia era inserita nei rapporti sociali ora sono i rapporti sociali a essere inseriti nel sistema economico. Giusto. Sono anni che qui e su ogni sito decente del web si proclama che la politica deve riprendere il sopravvento sull’economia. Ma il dono non c’entra: c’entrano i rapporti di forza, nozione ormai abbandonata dagli intellettuali progressisti che la forza non vogliono sentirla nominare in alcun contesto.

 

Ad ogni modo, chiarito l’equivoco ci troviamo di fronte a un altro intoppo: abbiamo un paradigma che da un canto si sostiene già attivo – attivo da sempre, in ogni società, e – d’altro canto – non presente, dato che si chiede di  reintrodurlo. Si deve intendere che la reintroduzione consista semplicemente nel riconoscere – e ricollocare – le forme presenti oppure che si debba tornare a forme arcaiche, vale a dire alle usanze di piccole, lente e crudeli società patriarcali dove si “donavano” donne e bambini? C’è di che far spazientire.

 

babeleCosa disegnano costoro, insomma? Una società molto liquida basata su un economia di sussistenza, con strutture politiche anch’esse liquide, come avveniva appunto nelle società tribali, popolate di figure di prestigio prive di reale potere. Come poi tutto questo, una rete di centri sociali allargati percorsi dalla buona volontà senza neppure il supporto della Buona Novella, possa affermarsi su scala planetaria senza che si precipiti nell’anarchia più belluina non è dato comprendere. Vi saranno sempre nobili figure stoiche in grado di recepire imperativi morali, tratteggiare etiche e conformarvisi pure. Ma non è cosa che commuova le folle. Le lotte non si conducono con il salmodiare buonista ma con la dura analisi degli interessi storici e degli arcana imperii, diceva Costanzo Preve, che pure, per certi versi, col suo Nuovo Comunitarismo, potrebbe essere apparentato ai convivialisti.

 

Perché dunque spendere tante righe per confutare le affermazioni di un movimento così poco convincente, che è riuscito a darsi un nome improbabile, evocatore più di  libagioni da nouvelle cuisine che di lotte politiche, un movimento che presumibilmente si scioglierà come neve al sole o sopravvivrà in eterno come accade a quelle conferenze ininfluenti e costituzionalmente inconcludenti che sono i tavoli ecumenici del dialogo interreligioso?

 

Perché mentre i volenterosi pensatori francesi tentano di indurci alla frugalità volontaria i loro governanti si occupano della nostra decrescita forzosa. Tra banche, moda, alimentare, hi-tech ed energia, i cugini d’Oltralpe hanno speso negli ultimi cinque anni la bellezza di 24 miliardi di euro per mettere le mani sui gioielli grandi e piccoli, quotati e non, del made in Italy. Vedi qui: http://www.ilgiornale.it/news/politica/litalia-gi-colonia-francese-24-miliardi-1342668.html

 

Normali operazioni commerciali, all’apparenza. Ma quando il nostro governo, pochissimo tempo dopo aver stretto accordi di enorme importanza (e di mutuo soccorso militare) con Gheddafi, ha assistito coraggiosamente, favorendola pure, all’esplosione della Libia, voluta e fomentata col beneplacito della Clinton (vedi file wikileaks) dai nostri cari cugini al fine di estromettere l’ENI e concederci in cambio graziosamente la risorsa profughi, si è compreso che l’invasione è – anche – politica, strategica, preordinata. E’ di dominio pubblico la recente nazionalizzazione “temporanea” dei cantieri navali Stx, attualmente appartenenti a imprenditori coreani, pur di non farli finire nelle mani dell’italiana Fincantieri. Nonostante accordi ineccepibili con l’ex presidente Hollande. In altri tempi cose del genere potevano scatenare una guerra. Noi sorridiamo e libiamo ne’ lieti calici.

 

I nostri cari cugini, insomma, crescono, si espandono e si accaparrano risorse fossili, compreso l’uranio, mentre i loro chierici tentano di intortarci con le tavolate slow food.

 

 

 

 

LA CRISI LIBANESE SARA’ LA TOMBA DELLA DINASTIA SAUDITA? IN OGNI CASO E’ UN ALTRO SCHIAFFO AGLI USA. di Antonio de Martini

La saga dei Saud prosegue con continui colpi di scena. Prosegue l’avvincente e documentato resoconto di Antonio de Martini. Il velo di ironia e sarcasmo che pervade lo scritto non fa che accentuare la drammaticità degli eventi_Giuseppe Germinario https://corrieredellacollera.com/2017/11/13/la-crisi-libanese-sara-la-tomba-della-dinastia-saudita-in-ogni-caso-e-un-altro-schiaffo-agli-usa-di-antonio-de-martini/

Immaginatevi che il Primo ministro Paolo Gentiloni vada in America,  all’arrivo invece del benvenuto di prammatica si veda sequestrato il telefonino, venga catapultato davanti a una telecamera a leggere una lettera di dimissioni e a chi lo contattasse per sapere quando torna in Italia, risponda ” a Dio piacendo” e avrete la fotografia di quel che è accaduto tra Libano e Arabia Saudita in questi giorni.

La motivazione del perché avviene è più complessa e andrebbe spiegata con la psicoanalisi prima che con l’analisi politica. Proviamo a dipanare questa intricata matassa di lana di cammello.Procediamo in ordine cronologico distinguendo tra interno ed estero..

Da quando il nuovo principe ereditario ( MOHAMMED BEN SALMAN) ha ottenuto dal re suo padre,( SALMAN BEN ABDULAZIZ)  approfittando della sua infermità, i pieni poteri, la situazione interna ed estera saudita ha iniziato a muoversi con un moto progressivamente accelerato. Impossibile oggi  capire se verso i vertici del mondo o verso il baratro.

SUL PIANO INTERNO

, col solito pretesto della ” lotta alla corruzione” il nuovo aspirante re ha fatto uccidere due tra i figli di  predecessori del re suo padre che avevano la caratura per contendergli il trono ( il figlio di Abdallah e quello di Fahd; ha messo agli arresto nella sua residenza il cugino ministro dell’interno Mohammed Ben Nayaf suo predecessore nel ruolo, arrestato cinque altri cugini figli di re predecessori del padre  e dieci principi minori più undici ex ministri e le tre fortune più importanti del regno.

E’ di stanotte la notizia che avrebbe arrestato l’ex capo dei servizi segreti Bandar ” Busch” Sultan che fu l’iniziatore della guerra alla Siria,  amico intimo dell’ex Presidente USA George W. Bush ( di qui il suo nomignolo) ed è stato lunghi anni ambasciatore saudita a Washington. Per metterci un po di pepe nel minestrone , sua moglie è stata notata dalla commissione di inchiesta come generosa contribuente di un pio conterraneo il cui nome figura tra quelli dei caduti sauditi che hanno condotto l’attentato alle due torri del World Trade Center.

Mohammed Ben Salman , ormai l Crownprince , è figlio dell’attuale re Salman ben Abdulaziz ,ultimo dei sette fratelli di stessa madre ( Hassa , la preferita del fondatore della dinastia) che si sono trasmessi il trono, per via adelfica, dal 1945.                                                                                                                                                                                               Prima d’essere vittima dell’Alzeimer, Salman era reputato come il più rigido della famiglia reale e il solo che nel 1991 si oppose  – nel Consiglio di famiglia composto da 150 persone – alla concessione di basi militari USA sul territorio saudita, con la motivazione che una volta installati non se ne sarebbero più andati. E’ stato facile profeta. Essndo l’ultimo figlio di Abdelaziz,  otttantenne e malato, si pensò che non avrebbe creato problemi , anzi che avrebbe dato tempo per pensare alla successione e al passaggio generazionale.

Appena salito al trono invece, Salman ha nominato – come da attese-  Crownprince Mohammed Ben Nayaf che da quattro anni era succeduto al defunto suo padre nella conduzione del ministero dell’interno. Dopo qualche tempo, però, il re creò una nuova carica: vice principe ereditario, mettendoci suo figlio Mohammed Ben Salman ( ministro della Difesa e capo della polizia religiosa).

I due Mohammed, in perfetto accordo giubilarono Bandar Bush ( creando per un breve periodo una sorta di Consiglio per la sicurezza nazionale con dentro il figlio), misero da parte il principe Muqrin che aspirava a fare da ago della bilancia tra i due  e poi iniziarono il confronto culminato nella nomina a principe ereditario ( che ha unicamente funzioni di primo ministro dato che il re viene nominato dal Consiglio di famiglia) del trentaduenne  figlio prediletto  Mohammed  il quale non ha esitato a sbarazzarsi del più anziano cugino , accoppare i due principi-cugini  più quotati alla successione e terrorizzare i membri più anziani del clan arrestando in totale quindici principi di varia caratura, oggi ospiti del Royal Carlton Hotel  trasformato in una fastosa prigione e ” fully booked” . L’inchiesta sulla corruzione prosegue senza fretta. Sono ostaggi nella più genuina tradizione beduina. E’ stato proibito in tutto il regno, il decollo di jet privati.

Posto che il piano riesca e il Crownprince prevalga, gli resterà da sciogliere il nodo della modernizzazione ( es la patente alle donne) con il fatto che egli ( e il padre) rappresenta l’ala conservatrice wahabita e si è appoggiato alla polizia religiosa nella sua scalata….

SUL PIANO ESTERO

 Come ministro della Difesa , Mohammed Ben Salman avrebbe dovuto passare per il tramite del Ministero degli Esteri per guerreggiare nello Yemen, ma come figlio del re non si attardò in quisquilie e mosse all’attacco, creandosi così una buona rete di amicizie USA tra i fornitori di materiale bellico.

Per la prima volta nella storia della dinastia il ministro degli esteri fu scelto NON tra i membri della famiglia reale e questo fu un primo segnale che sarebbe stata una partita a due.

Come nemico fu scelta la tribù degli Houti confinanti con l’Arabia Saudita a sud . Il pretesto era che stavano diventando una spina nel fianco alleata con l’Iran.        Inaspettatamente, gli Houti – privi di aeronautica-  resistettero, contrattaccarono, occuparono la capitale Sanaa e il giovane principe ebbe il suo primo “scacco al regno”.  Ossessionato dalla onnipresenza iraniana , il saudita si lanciò sulla scia USA nelle vicende irachene  che hanno visto trionfare l’Irak ufficiale ormai in mano agli sciiti per decreto ( 2003)  del proconsole USA Bremer. I Curdi rientrarono nell’ordine e l’Arabia Saudita si trovò confinante con un Irak ricostruito e diventato potenza sciita invece che sunnita come era sempre stato. Potenzialmente soggetto a influenze iraniane.

Sempre in cerca di successi napoleonici che lo legittimassero agli occhi dei sudditi, specie dopo le prime pessime figure, Mohammed Ben Salman decise di egemonizzare il Consiglio del Golfo ( una sorta di UE degli Emirati) fino ad allora gestito assieme al Katar della famiglia Al Thani. La politica del Katar è sempre consistita nel far fluire i denari in tutte le direzioni e supplire alla dimensione minima del paese ( 300.000 abitanti) con partecipazioni e sponsorizzazioni sportive di caratura mondiale.

Invitato a rompere i contatti con l’Iran ,  Tamim al Thani ,  emiro del katar, finse di non sentire. La reazione smodata fu l’accusa ufficiale  di sostenere nascostamente  il terrorismo e la sanzione lampo fu l’embargo.

Gli americani, per mostrare equidistanza autorizzarono comunque una significativa vendita di armi all’emirato. La famiglia al Thani, approfittando che il padre dell’emiro, Ahmad ben Khalifa al Thani,   ( defenestrato su richiesta USA quando iniziarono a girare le voci sui finanziamenti al Daesch) utilizzò il padre installato negli USA, per una intervista televisiva bomba: nella sua veste di ex primo ministro, dichiarò davanti alle telecamere di aver in effetti finanziato il Daesch, e di averlo fatto suprecisa, insistente  richiesta del re Abdallahben Abdulaziz , predecessore dell’attuale, e d’intesa con il governo americano e la Turchia che si sono occupati della distribuzione dei finanziamenti, delle armi, e della selezione dei mercenari. Il gruppo era destinato a ” una partita di caccia alla volpe” siriana. A conclusione della intervista, il vecchio sceicco ha anche posto la pietra tombale al progetto, dichiarandolo fallito.

Come e dove colpire l’odiato Iran? Come recuperare prestigio alla corona? Sconfitto in Siria, scornato in Yemen e ridicolizzato a Doha, restava il Libano.

Mohammed Ben Salman, convoca il primo ministro libanese Saad Hariri ( figlio dell’ex premier, arricchitosi in Arabia Saudita e  saltato in aria nel 2009) e dopo una accoglienza fredda ( nessuno all’aeroporto ad accoglierlo) e quattro ore di anticamera l’indomani, gli ingiunge di muovere guerra all’Hezbollah. Sarebbe come chiedere alla Romania di muovere guerra alla Russia.

Giudiziosamente Saad Hariri gli deve aver risposto che ci ha già provato nel 2006, subendo una sconfitta netta – come sconfitto fu l’esercito israeliano che aveva sottovalutato il problema –  Oggi l’Hezbollah fa parte del governo, alle elezioni ottiene il 50% dei voti ed è armato fino ai denti con in più la campagna di Siria in cui ha acquisito esperienza  operativa di manovra anche a livello di brigata, cosa che l’esercito regolare non ha. Hezbollah è nell’elenco delle organizzazioni terroristiche in USA, ma un movimento che ha dietro di se metà del paese, è un problema politico , non di ordine pubblico.

Altra reazione furente: Mohammed ingiunge a Saad di dimettersi da primo ministro e lo vuole sostituire col fratello maggiore Bahaa che, guarda caso è in Arabia anche lui.  Il Libano insorge in favore del suo giovanotto in pericolo, i dirigenti del partito di Hariri ( il 14 marzo) rifiutano di andare a Ryad a prestare giuramento di fedeltà a Bahaa come richiesto,  spiegando sprezzantemente che in Libano i dirigenti dei partiti li sceglie il partito in un congresso. Pietosa bugia che rivela la paura di non tornare a casa.

il presidente  della Repubblica, generale Aoun ( i cui volontari cristiani hanno combattuto assieme all’Hezbollah in Siria) si rivolge agli USA e alla Francia per ottenere la liberazione dell’ostaggio. Il dipartimento di Stato USA rilascia una dichiarazione di solidarietà e rispetto per Hariri, mentre il presidente francese Macron va in Arabia Saudita a parlare col focoso giovanotto. Esce dichiarando di non essere d’accordo con la politica iraniana del Crownprince e di ritenere che Hariri è trattenuto. Gli americani cerchiobbottisti avventizi, dichiarano che studieranno delle sanzioni a Hezbollah e la Camera dei rappresentanti autorizza eventuali spese in questo senso.

Consapevoli della gravità del momento, Israele e Hezbollah hanno tenuto un profilo basso e insolitamente silenzioso. Il quotidiano Haartez commenta che l’Arabia Saudita vuole far fare a Israele ” il lavoro sporco”.  In sede di analisi, spiega che non vuole intralciare il processo in corso di accordo tra Hamas e Fatah al Cairo e abbisogna di almeno un anno per completare le sistemazioni difensive del Sinai.

Credo che il silenzioso Hezbollah stia cercando tra i familiari del Crownprince la persona adatta a sbarazzarci del matto, mentre Saad Hariri , rintracciato da un giornalista che voleva sapere quando sarebbe tornato in Patria,  avrebbe risposto ” tra giorni”. Inchallah.

Gli USA adesso non sanno che pesci pigliare. Se seguire il rampollo reale nella sua spericolata discesa e inimicarsi anche il Libano, oppure guardare alla dinastia giordana che potrebbe sostituire i sauditi ( wahabiti) nella custodia dei luoghi santi dell’Islam, visto che ormai i wahabiti vengono sempre più considerati come estranei all’Islam. E guidati da due matti. Sono quasi certo che prenderanno la decisione sbagliata.

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