Italia e il mondo

CONFRONTANDO AGATOCLE CON NETANYAHU  COMMENTANDO ISRAELE-ITALIA DI CESARE SEMOVIGO_di Massimo Morigi

CONFRONTANDO AGATOCLE CON NETANYAHU  COMMENTANDO ISRAELE-ITALIA DI CESARE SEMOVIGO: IL RAPPORTO FRA VIRTÙ, FORTUNA E MORALE  NEL  REALISMO POLITICO DEL PRINCIPE DI MACHIAVELLI E NEL PENSIERO E NELL’AZIONE DI GIUSEPPE MAZZINI A PROPOSITO   DELL’ACCORDO    FRA   ISRAELE   ED   HAMAS E DEL ‘COMPIUTO    PECCATO’    DELL’OCCIDENTE  E   DELL’ITALIA

di Massimo Morigi

 Cesare Semovigo ha appena pubblicato in data 10 ottobre 2025 per “L’Italia e il Mondo” Israele-Italia un’alleanza bipartisan. Italia e Israele: alleati privilegiati, un binomio strategico tra storia, tecnologia e politica (http://web.archive.org/web/20251010104842/https://italiaeilmondo.com/2025/10/10/israele-italia-un-alleanza-bipartisan-di-cesare-semovigo/) prima parte di suoi ulteriori interventi sull’argomento degli  (ahimè) inscindibili legami fra Italia e Israele –  stante l’attuale stato delle cose degli strettissimi rapporti indusrial-militari-finanziari fra i due paesi – , legami di una tale intensità e pervasività che rendono l’Italia forse la nazione del c.d. occidente con forma di stato democratico-rappresentativa più succube  all’imperialista politica di potenza di Israele e prona alla sua ideologia sionista, la quale a livello mainsteam, in Italia come nel resto del già menzionato c.d. occidente, non ci si permette nemmeno di nominare dando la colpa di quanto è successo negli ultimi due anni (dimenticando che è una vicenda che si trascina dalla costituzione stessa dello stato d’Israele) al “terrorismo” di Hamas (‘terrorismo’, parola del lessico politico mainstream che svolge la funzione di una sorta di ‘orizzonte degli eventi’ del concetto per designare senza ulteriore ragionamento ed analisi il nemico) che avrebbe agito contro un paese retto da una matura e completa democrazia (medesima funzione di “orizzonte degli eventi” di quest’ultima parola, solo che in questo caso denotante un giudizio positivo su un sistema politico, non considerando menomamente la  realtà effettuale cui il lemma ‘democrazia’ fa da velo  a livello interno ed internazionale e che, nel caso di Israele,  è connotata dal più feroce e razzista imperialismo di stampo sionista), una democrazia israeliana che – sempre secondo il mainstream – se proprio le si vuole fare un appunto, avrebbe la sventura di essere oggi governata dal malvagio primo ministro Benjamin Netanyahu, trascurando però il “piccolo” dettaglio che questo personaggio, al netto di tutto il male che se ne possa dire, non è arrivato al potere tramite la violenza ed in maniera illegale ma attraverso i ben oliati e “universalmente” venerati meccanismi della democrazia rappresentativa, la quale anche se tecnicamente in quanto democrazia rappresentativa sarebbe più corretto chiamarla ‘polioligarchia competitiva’ (e sul mito occidentale della democrazia rappresentativa in realtà ‘polioligarichia competitiva’ praticamente nulla è stato scritto, avendola definita i suoi critici apparentemente più feroci – ma in realtà anch’essi omologati – al più come poliarchia, vedi Robert Dahal che con il termine ‘poliarchia’ vorrebbe restituirci una visione più realista della democrazia ma mantenendone un giudizio sostanzialmente positivo perché col termine vorrebbe indicare la democrazia come una polifonia più o meno armoniosa di poteri e  Colin Crouch che ha coniato a suo tempo il termine ‘postdemocrazia’,  il quale col termine  prospetta un destino gramo per la democrazia, un’analisi sulla quale si concorda tranne che sull’  “insignificate” dettaglio che in realtà la democrazia non s’è mai vista sulla faccia della Terra, secondo la vulgata appartenendo  questo potere  al popolo, in realtà un potere conteso fra varie oligarchie che lo se lo contendono, nel caso delle c.d. democrazie rappresentative occidentali attraverso il suffragio universale libero e segreto, questo sì, ma quasi del tutto eteroderodiretto in ragione dello squilibrio cognitivo e di potere politico-economico che le élite o le oligarchie che dir si voglia hanno da sempre sulla massa ma questo è un discorso sul quale torneremo), non si può nemmeno affermare che essa, almeno nello spirito, non rappresenti sempre – sia a livello di politiche pubbliche che a livello di selezione della classe dirigente –  in qualche modo e secondo variabili gradi di intensità dipendenti dalle diverse realtà nazionali,    il paese inserito nel  suo sistema politico. E nel caso di Israele non è azzardato dire  che la c.d.  democrazia rappresentativa è il sistema di potere che più di ogni altro del mondo occidentale retto tramite questa forma politico-isituzionale riesce a rappresentalre e a dare seguito agli umori del paese, totalmente informati tutti, destra e sinistra indifferentemente, all’imperialismo sionista. Il lucido e spietato articolo di Cesare Semovigo, che guarda ai legami un tempo si direbbe strutturali che a livello internazionale orientano non solo la politica di Israele ma ancor per noi più importante, la nostra vergognosa dipendenza economica ed anche morale dal malvagio comportamento interno ed internazionale di questo paese,  fa quindi totalmente giustizia di questa fanciullesca narrazione non tentando nemmeno di “smontarla” ma, giustamente, semplicemente ignorandola e, piuttosto, concentrandosi, molto opportunamente, sul perché, strutturalmente, l’Italia è così prona ad Israle, e che Benjamin Netanyahu sia o no un politico malvagio o, a suo modo, semplicemente realista non gliene potrebbe fregar de meno. Tuttavia, siccome il realismo politico quando nacque ad opera di Niccolò Machiavelli non si basava su un modello  poggiato sull’analisi della commistione fra i decisori dei grandi gruppi economici e i decisori politici, si era agli albori della nostra modernità occidentale e la società industrial-capitalista doveva ancora un po’ attendere,  ma era incentrato sull’analisi di come il decisore politico-militare potesse ottenere il successo (cioè la conquista e poi il mantenimento ed infine l’accrescimento del suo potere personale)  riuscendo con la sua peculiare personalità  a tenere testa e a vincere contro una casualità (la fortuna) a lui del tutto indifferente se non ostile  e siccome pensiamo anche che una completa visione geopolitica non possa prescindere da considerazioni sul lato umano  del decisore, ci si permette qui di inquadrare meglio alla luce del Principe e delle sue categorie machiavelliane che hanno presieduto alla nascita della Weltanschauung politica realista, la figura del primo ministro israeliano, fiduciosi che questa piccola incursione nell’archeologia della geopolitica ma, soprattutto, antropologica (nel senso dell’antropologia del decisore ma anche del popolo che esso guida e con ciò si confida quindi di essere pienamente conformi ad un discorso geopolitico, che mai deve tralasciare il loto umano-culturale dell’oggetto di studio della disciplina) possa essere d’aiuto per meglio inquadrare, anche dal punto di vista strutturale o per meglio dire dal punto di vista della dialettica del conflitto strategico fra i grandi decisori umani e/o associati in gruppi collettivi di potere che animano lo scenario geopolitico e che struttura il discorso di  Semovigo,  non solo la politica interna ed estera dello Stato di Israele ma anche il ‘compiuto peccato’ dell’occidente che nella vicenda del martirio del popolo palestinese ha distinte ma ugualmente gravissime responsabilità  in concorso con lo Stato sionista.

Ecco allora come nel capitolo 7 del Principe, De principatibus novis qui alienis armis et fortuna acquiruntur, Niccolo Machiavelli inquadra la rovina del Valentino, il principe estremamente violento ma anche pieno di virtù, almeno nell’accezione machiavelliana del termine, dovuta alla morte del suo protettore e padre, il Papa Alessandro VI Borgia: « […] E l’animo suo era assicurarsi di loro; il che gli sarebbe presto riuscito, se Alessandro viveva. E questi furono e’ governi suoi quanto alle cose presenti. Ma quanto alle future, lui aveva a dubitare, in prima, che uno nuovo successore alla Chiesa non li fussi amico e cercassi tòrli quello che Alessandro gli aveva dato. Di che pensò assicurarsi in quattro modi: prima, di spegnere tutti e’ sangui di quelli signori che lui aveva spogliati, per torre al papa quella occasione: secondo, di guadagnarsi tutti e’ gentili uomini di Roma, come è detto, per potere con quelli tenere el papa in freno: terzo, ridurre el Collegio più suo che poteva: quarto, acquistare tanto imperio, avanti che il papa morissi, che potessi per se medesimo resistere a uno primo impeto. Di queste quattro cose, alla morte di Alessandro ne aveva condotte tre; la quarta aveva quasi per condotta; perché de’ signori spogliati ne ammazzò quanti ne possé aggiugnere, e pochissimi si salvorono; e’ gentili uomini romani si aveva guadagnati, e nel Collegio aveva grandissima parte: e, quanto al nuovo acquisto, aveva disegnato diventare signore di Toscana, e possedeva di già Perugia e Piombino, e di Pisa aveva presa la protezione. È come non avessi avuto ad avere respetto a Francia (ché non gliene aveva ad avere più, per essere di già e’ Franzesi spogliati del Regno dagli Spagnoli, di qualità che ciascuno di loro era necessitato comperare l’amicizia sua), e’ saltava in Pisa. Dopo questo, Lucca e Siena cedeva subito, parte per invidia de’ Fiorentini, parte per paura; e’ Fiorentini non avevano remedio. Il che se li fusse riuscito (che gli riusciva l’anno medesimo che Alessandro morì), si acquistava tante forze e tanta reputazione, che per se stesso si sarebbe retto, e non sarebbe più dependuto dalla fortuna e forze di altri, ma dalla potenzia e virtù sua. Ma Alessandro morì dopo cinque anni ch’egli aveva cominciato a trarre fuora la spada. Lasciollo con lo stato di Romagna solamente assolidato, con tutti gli altri in aria, intra dua potentissimi eserciti inimici, e malato a morte. Ed era nel duca tanta ferocia e tanta virtù, e sì bene conosceva come gli uomini si hanno a guadagnare o perdere, e tanto erano validi e’ fondamenti che in sì poco tempo si aveva fatti, che, se lui non avessi avuto quegli eserciti addosso, o lui fussi stato sano, arebbe retto a ogni difficultà. E ch’e’ fondamenti sua fussino buoni, si vidde: ché la Romagna lo aspettò più di uno mese; in Roma, ancora che mezzo vivo, stette sicuro; e benché Baglioni, Vitelli e Orsini venissino in Roma, non ebbono seguito contro di lui; possé fare, se non chi e’ volle, papa, almeno che non fussi chi non voleva. Ma se nella morte di Alessandro lui fussi stato sano, ogni cosa gli era facile. E lui mi disse, ne’ dì che fu creato Iulio II, che aveva pensato a ciò che potessi nascere, morendo el padre, e a tutto aveva trovato remedio, eccetto che non pensò mai, in su la sua morte, di stare ancora lui per morire, Raccolte io adunque tutte le azioni del duca, non saprei reprenderlo; anzi mi pare, come ho fatto, di preporlo imitabile a tutti coloro che per fortuna e con l’arme d’altri sono ascesi allo imperio. Perché lui avendo l’animo grande e la sua intenzione alta, non si poteva governare altrimenti; e solo si oppose alli sua disegni la brevità della vita di Alessandro e la malattia sua. Chi, adunque, iudica necessario nel suo principato nuovo assicurarsi de’ nimici, guadagnarsi degli amici, vincere o per forza o per fraude, farsi amare c temere da’ populi, seguire e reverire da’ soldati, spegnere quelli che ti possono o debbono offendere, innovare con nuovi modi gli ordini antiqui, essere severo c grato, magnanimo e liberale, spegnere la milizia infedele, creare della nuova, mantenere le amicizie de’ re e de’ principi in modo che ti abbino o a beneficare con grazia o offendere con respetto, non può trovare e’ più freschi esempli che le azioni di costui. Solamente si può accusarlo nella creazione di Iulio pontefice, nella quale lui ebbe mala elezione; perché, come è detto, non potendo fare uno papa a suo modo, e’ poteva tenere che uno non fussi papa; e non doveva mai consentire al papato di quelli cardinali che lui avessi offesi, o che, diventati papi, avessino ad avere paura di lui. Perché gli uomini offendono o per paura o per odio. Quelli che lui aveva offesi erano, infra gli altri, San Piero ad Vincula, Colonna, San Giorgio, Ascanio; tutti gli altri, divenuti papi, aveano a temerlo, eccetto Roano e li Spagnuoli: questi per coniunzione e obligo; quello per potenzia, avendo coniunto seco il regno di Francia. Pertanto el duca, innanzi a ogni cosa, doveva creare papa uno spagnolo, e, non potendo, doveva consentire che fussi Roano e non San Piero ad Vincula. E chi crede che ne’ personaggi grandi e’ benefizii nuovi faccino dimenticare le iniurie vecchie, s’inganna. Errò, adunque, el duca in questa elezione; e fu cagione dell’ultima ruina sua.»: Niccolò Machiavelli, De Principatibus (Il Principe), cap. VII  De principatibus novis qui alienis armis et fortuna acquiruntur, in Id., Machiavelli. Tutte le opere, a cura di Mario Martelli, Firenze, Sansoni, 1971, pp.268-269.

La sventura irreparabile per il Valentino della  morte di suo padre il  papa Borgia paragonabile per il primo ministro Benjamin Netanyahu all’elezione come Presidente degli Stati uniti di Donald Trump, il quale a dispetto di tutto quello che si possa dire sul suo conto, col suo America first sta inaugurando la nuova fase nei rapporti internazionali da noi già definita ‘impérialisme en forme’, un ‘impérialisme en forme’ connotato sul piano ideologico nel far cadere tutti i precedenti velami della precedente narrazione liberaldemocratica al fine di ottenere una totale libertà di azione nello scenario internazionale sempre più configurato in forma policentrica e sempre più refrattario alla vecchia retorica liberaldemocratica e, sul piano operativo, oltre che dal diretto protagonismo di Trump, dalla necessità, proprio per ottenere una maggiore efficacia operativa e spendibile hic et nunc, di abbandonare lunghe e snervanti trattative con il fantomatico raggruppamento degli alleati che singolarmente hanno aderito alla NATO e che pretenderebbe di avere una personalità internazionale (nella trattativa sui dazi, per Trump   l’Unione europea ha meritato solo disprezzo in quanto essa viene da lui giudicata una   entità non  geopolitica ma meramente burocratica, e non ha proprio tutti i torti, anzi!…), privilegiando il rapporto con ogni singolo alleato preso separatamente per imporgli, così, la legge del più forte, cioè quella degli Stati uniti. Nel caso dell’imposizione da parte di Trump della fine delle ostilità di Israele contro Hamas, sarebbe, però, certamente un eccesso di analogismo storico sovrappore integralmente la sventura del Valentino cui morì il padre papa protettore, con la sventura di Benjamin Netanyahu al quale è politicamente morto il già rimbambito padre protettore, e totalmente asservito al sionismo,  Biden, che è stato sostituito dall’imperialista in forma Donald Trump, non certo avverso al sionismo per ragioni ideologiche ma fermamente contrario, per carattere e per la nuova impostazione della politica estera americana marcata ora da un drastico unilateralismo; e questo anche perché nel passo machiavelliano appena citato è assente una valutazione sistemica dei rapporti fra Stati nella penisola italica, riducendosi quindi le valutazioni di Machiavelli attorno a considerazioni sulla natura concretamente operativa della personalità del leader, il Valentino, e di come questo leader con la sua virtù avesse cercato di  far pendere la fortuna a sua favore (cosa che nel Valentino ma non per sua colpa non si verificò) ma anche perché, e qui interviene una nostra idiosincrasia personale ma condivisa fortunamente da molti in Italia e nel c.d. occidente, se possiamo convenire con Machiavelli che il Valentino fu sì tanto virtuoso ma anche tanto sfortunato, non ci sentiamo proprio di condividere un analogo  moto di empatica simpatia verso il primo ministro israeliano che se sfortunato è stato per la morte politica del suo asservito protettore Biden sostituito dall’esoso ed arrogante protettore Donald Trump, altrettanto irresponsabile si è dimostrato nel ficcarsi in una guerra contro Hamas che comportava, “piccolo” dettaglio, l’annientamento del popolo palestinese (volutamente non si impiega il termine ‘genocidio’ perché esso implica anche la volontà di mettere in atto pure lo sterminio biologico, fino all’ultima persona presente sulla faccia della Terra, di un gruppo etnico, i palestinesi nella fattispecie. Questo non è nei piani di Netanyahu e nemmeno delle frange più oltranziste del sionismo, attuale e delle origini. Sarebbe più corretto parlare, in questo caso, del tentativo di compiere una pulizia etnica condotta, come esige questa macabra tipologia di interventi, con metodi del tutto criminali   –  lo sterminio di gran parte della popolazione di Gaza per costrigere i rimanenti a lasciare il territorio per un’imprecisata destinazione che comporterebbe, fra l’altro, oltra alla perdità di identità del popolo palestenise, anche ulteriori morti –  e animati da un proposito totalmente illegale e piratesco, la cacciata dei palestinesi dalle loro proprietà al fine di impossessarsene ma, come si dice, nulla di nuovo sotto il sole, essendo questo il modo col quale è sorto lo Stato di Israele compiendo una iniziale  anche se non completa pulizia etnica ai danni dei palestenisi e che nelle intenzioni del  primo ministro israliano ora in carica avrebbe dovuto essere portata al suo totale compimento: quindi, in conclusione di ragionamento, non ci si sente proprio di condannare l’uso improprio del termine ‘genocidio’ da parte dei giustamente simpatizzanti della causa palestinese, avendo l’azione politica delle ragioni che non sono proprio quelle dell’analisi scientifica ma che, in questo caso, sono convergenti nel condannare l’azione criminale del primo ministro israeliano, fondata su una purtroppo consolidata tradizione storica di dominio e furto coloniale dello Stato di Israele ed ancor oggi, come alla nascita di questo Stato, appoggiata da buona parte della popolazione di Israele, e con ciò non ci si accusi di antisemitismo perché di pulizie etniche è piena la storia dell’occidente cristiano, con una particolare intensificazione di queste pratiche tramite il colonialismo che, guarda caso, ebbe il suo acme mentre le sue forme istituzionali a livello interno assumevano via via forme sempre più simili alla c.d. nostra “democrazia rappresentativa”).

Ma se nel passo citato, assai sfuocata da parte di Machiavelli l’analisi della dinamica conflittuale degli Stati italiani del tempo (e incentrando quindi la sua analisi, pur sempre improntata al realismo politico di cui Machiavelli è l’indiscusso iniziatore, alla dimensione  puramente antropologica della descrizione della volontà di potenza del Valentino rappresentandone  l’impossibilità, nonostante il suo grande valore, di sormontare una avversa sorte), ed anche insoddisfacente o del tutto schematica un’analisi sul valore della morale (o della finzione della stessa) nella dinamica politica, ed anzi dal passo citato sembrando che tanto più il Principe è immorale questo è più virtuoso, è impossibile il suo impiego integrale come idealtipo in cui rientrerebbe l’attuale imposizione a Netanyahu da parte di Trump della fine delle ostilità contro Hamas, il capitolo 8 del Principe, De his qui per scelera ad principatum pervenere, è invece un’analisi veramente esemplare dell’importanza del buon nome di un regnante e di quanto quindi sia fondamentale evitare  i danni reputazionali derivanti da una sconsiderata azione politica: « […] Agatocle Siciliano, non solo di privata ma di infima e abietta fortuna, divenne re di Siracusa. Costui, nato di uno figulo, tenne sempre, per li gradi della sua età, vita scellerata: nondimanco, accompagnò le sue scelleratezze con tanta virtù di animo e di corpo, che, voltosi alla milizia, per li gradi di quella pervenne ad essere pretore di Siracusa. Nel quale grado sendo costituito, e avendo deliberato diventare principe e tenere con violenzia e sanza obligo d’altri quello che d’accordo gli era suto concesso, e avuto di questo suo disegno intelligenzia con Amilcare cartaginese, il quale con gli eserciti militava in Sicilia, raunò una mattina il populo e il Senato di Siracusa, come se egli avessi avuto a deliberare cose pertinenti alla republica; e, ad uno cenno ordinato, fece da’ sua soldati uccidere tutti li senatori e li più ricchi del popolo; li quali morti, occupò e tenne il principato di quella città sanza alcuna controversia civile. […] Chi considerassi, adunque, le azioni e vita di costui, non vedrà cose, o poche, le quali possa attribuire alla fortuna; con ciò sia cosa, come di sopra è detto, che, non per favore d’alcuno, ma per li gradi della milizia, li quali modi possono fare acquistare aveva guadagnati, pervenissi al principato, e quello di poi con tanti partiti animosi e periculosi mantenessi. Non si può ancora chiamare virtù ammazzare e’ sua cittadini, tradire gli amici, essere sanza fede, sanza pietà, sanza religione; li quali modi possono fare acquistare imperio, ma non gloria. Perché, se si considerassi la virtù di Agatocle nello entrare e nello uscire de’ periculi, e la grandezza dello animo suo nel sopportare e superate le cose avverse, non si vede perché egli abbia ad essere iudicato inferiore a qualunque eccellentissimo capitano; nondimanco, la sua efferata crudeltà e inumanità, con infinite scelleratezze, non consentono che sia infra gli eccellentissimi uomini celebrato. Non si può, adunque, attribuire alla fortuna o alla virtù quello che sanza l’una e l’altra fu da lui conseguito. […] Potrebbe alcuno dubitare donde nascessi che Agatocle e alcuno simile, dopo infiniti tradimenti e crudeltà, possé vivere lungamente sicuro nella sua patria e defendersi dagli inimici esterni, e da’ suoi cittadini non gli fu mai cospirato contro; con ciò sia che molti altri, mediante la crudeltà, non abbino, etiam ne’ tempi pacifici, possuto mantenere lo stato, non che ne’ tempi dubbiosi di guerra. Credo che questo avvenga dalle crudeltà male usate o bene usate. Bene usate si possono chiamare quelle (se del male è licito dire bene) che si fanno a uno tratto, per la necessità dello assicurarsi, e di poi non vi si insiste drento, ma si convertiscono in più utilità de’ sudditi che si può. Male usate sono quelle le quali, ancora che nel principio sieno poche, più tosto col tempo crescono che le si spenghino. Coloro che osservano el primo modo, possono con Dio e con gli uomini avere allo stato loro qualche remedio, come ebbe Agatocle; quegli altri è impossibile si mantenghino. Onde è da notare che, nel pigliare uno stato, debbe l’occupatore di esso discorrere tutte quelle offese che gli è necessario fare; e tutte farle a un tratto, per non le avere a rinnovare ogni dì, e potere, non le innovando, assicurare gli uomini e guadagnarseli con beneficarli. Chi fa altrimenti, o per timidità o per mal consiglio, è sempre necessitato tenere il coltello in mano; né mai può fondarsi sopra li sua sudditi, non si potendo quelli, per le fresche e continue iniurie, assicurare di lui. Perché le iniurie si debbono fare tutte insieme, acciò che, assaporandosi meno, offendino meno: e’ benefizii si debbono fare a poco a poco, acciò si assaporino meglio. E debbe, sopra tutto, uno principe vivere con li suoi sudditi in modo che veruno accidente o di male o di bene lo abbi a far variare; perché, venendo, per li tempi avversi, le necessità, tu non se’ a tempo al male, e il bene che tu fai non ti giova, perché è iudicato forzato, e non te n’è saputo grado alcuno. »: Idem, ivi, cap. VIII De his qui per scelera ad principatum pervenere, in Idem, ivi, pp. 269-271.

Per quanto possa sembrare assurdo, al contrario di Agatocle, il primo ministro israeliano non è stato in grado di portare fino in fondo il suo piano malvagio di cancellare il popolo palestinese  e quindi, dal punto di vista machiavelliano, non solo gli è mancata la fortuna, la salita al potere di Trump, ma gli è anche mancata la virtù perché come dice Machiavelli (e quanto stranamente suona alle orecchie di chi non è avvezzo a frequentare i luoghi del Segretario fiorentino, che nei loro momenti più fulgidi esprimono con quel loro sinuoso ed avvolgente modo di argomentare tutta la complessità dialettica dell’agire umano ma che tanto nel corso dei secoli hanno reso perplessi anche i suoi più ferventi estimatori e dato il destro ai suoi denigratori di ritenere il Principe di Machiavelli un’opera demoniaca): «Non si può ancora chiamare virtù ammazzare e’ sua cittadini, tradire gli amici, essere sanza fede, sanza pietà, sanza religione; li quali modi possono fare acquistare imperio, ma non gloria. Perché, se si considerassi la virtù di Agatocle nello entrare e nello uscire de’ periculi, e la grandezza dello animo suo nel sopportare e superate le cose avverse, non si vede perché egli abbia ad essere iudicato inferiore a qualunque eccellentissimo capitano; nondimanco, la sua efferata crudeltà e inumanità, con infinite scelleratezze, non consentono che sia infra gli eccellentissimi uomini celebrato. Non si può, adunque, attribuire alla fortuna o alla virtù quello che sanza l’una e l’altra fu da lui conseguito.». Contrariamente alla vulgata, il vero realismo politico è da sempre un’inestricabile e dialettico nodo fra potere, inteso come imposizione più o meno violenta della propria volontà, e moralità che per convinzione o per opportunismo valuta sempre le conseguenze pratiche ed etiche, dove un’opzione etica non ha valore se  non ha una ricaduta concreta e una scelta pragmatica nega sé stessa se le manca un’orizzonte di senso morale   delle proprie azioni (Max Weber: la dialettica fra l’etica della convinzione e quella  della responsabilità ma, soprattutto, Giuseppe Mazzini: la politica senza morale è brigantaggio e Antonio Gramsci: non la conquista violenta del potere ma la creazione ed esercizio dell’egemonia all’interno della società etc.). E sempre  contrariamente a quanto si pensa, Machiavelli era ben consapevole di questa dialettica. Ed è una vera sfortuna non solo per il primo ministro ed il popolo del paese che governa ma anche per le c.d. liberaldemocrazie che la scriteriata politica israeliana hanno sempre appoggiato, che questa dialettica sia costantemente ignorata, coperta dal chiasso della retorica della difesa di una inesistente democrazia (quella israeliana ma anche quella interna di questi paesi). In ultima analisi, un atteggiamento tanto più pericoloso ora che il principale sponsor di questa retorica, gli Stati uniti, si stanno dedicando all’edificazione del loro ‘impérialisme en forme’. E quanto è accaduto con la provvisoria fine delle ostilità fra Israele ed Hamas ma anche con le scriteriate posizioni dell’Europa nella vicenda Ucraina, che sono lì a dimostrare il definitivo declino strategico e morale del c.d. occidente c.d. liberaldemocratico. Machiavelli ne avrebbe abbondante materiale per scrivere un nuovo trattato non su un Principe virtuoso e di come esso possa sormontare le avversità della sorte ma su un Principe privo di ogni virtù e di come questo, nonostante le buone carte che gli vengono date dalla storia, sia diretto verso la sua dissoluzione. Insomma, qui non abbiamo ragionato solo intorno al peccato originale della nascita dello Stato d’Israele ma anche, se non soprattutto, intorno al ‘compiuto peccato’ della “democrazia”  dell’occidente, nel quale una posizione di primato appartiene all’Italia, un compiuto peccato che già molto tempo prima, anche se non dandogli una specifica denominazione e solo impersonificandolo nel personaggio storico di Agatocle col  suo modus operandi totalmente malvagio e perciò incurante dei danni arrecati allo Stato e alla popolazione sotto la sua sovrantà  ma non configurandolo direttamente come un problema sistemico di una comunità politica, anche Niccolò Machiavelli nel suo Principe aveva avuto piena contezza. Una dialettica consapevolezza dei legami fra azione politicamente efficace ed orizzonte morale che è propria del vero realismo politico e che, se lo si studia più a fondo e non riducendolo ad un santino astrattamente moraleggiante e di stampo liberalmocratico, fu anche del primo uomo che concretamente si pose politicamente il problema di unificare l’Italia. Ma su Giuseppe Mazzini e di come la sua azione e il suo pensiero ci indichino la via per uscire dal ‘compiuto peccato’ italiano e del c.d. occidente liberaldemocratico, ancora torneremo  nei prossimi discorsi…

Massimo Morigi, ottobre 2025

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LA PACE DI TRUMP – Campa & GERMINARIO

LA PACE DI TRUMP – Campa & GERMINARIO_Al momento della pubblicazione di questa conversazione è in corso a Sharm el-Sheikh la firma di un memorandum tra oltre venti paesi a garanzia della cessazione delle ostilità e del processo di ricostruzione di Gaza. Non sono presenti, significativamente, i due contendenti del conflitto: Israele e Hamas. Dal numero e dalla qualità dei garanti, difficilmente i due contendenti, a cominciare da Nethanyahu, potranno sfuggire alla morsa di un accordo che potrà cambiare gli equilibri e il peso dei vari paesi di quell’area. Difficile, ma non impossibile. Difficile per il peso politico dei garanti, per la stanchezza dell’esercito israeliano e la relativa vulnerabilità del suo sistema di difesa; non impossibile per l’incertezza dell’esito dello scontro politico negli Stati Uniti e per i tempi stretti di cui dispone l’attuale presidenza statunitense. Un accordo che non tarderà a mettere a nudo la natura e l’evoluzione dei rapporti tra le varie élites del mondo occidentale, i centri di Israele e quelli del Medio Oriente- Un tassello della grande complessità e ambiguità entro la quale si trova ad agire Trump e il suo composito schieramento. Un dato certo permane: l’assenza di una adeguata rappresentanza politica dei palestinesi. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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Si accettano miracoli, di WS

Consiglio di rilanciare questo notevole intervento di Aurelien https://italiaeilmondo.com/2025/10/05/ripartire-da-zero_di-aurelien/ che mi ero perso; confesso che non lo avevo nemmeno letto  finché  l’ ho  ritrovato oggi   per caso   su Reseau International.

E in  ciò   mi dichiaro  colpevole  di  essere  prevenuto   perché oramai leggo  Aurelien  distrattamente  considerandolo solo un  raffinato  gatekeeper.

Questa volta, però, Aurelien mostra  che non è un personaggio  così banale; lui   “le cose le sa” e  sa trarne tutte le dovute conseguenze.  L’  €uropa  è ad bivio   tra  “tornare indietro”  pagando  comunque  un duro  contraccolpo o andare  avanti  in un abisso  che di certo non la vedrà “vincitrice”.

 Ma il nostro è come sempre un po’ ” perfidamente omissivo” perché qualunque sia la migliore “gestione del danno” nell’ormai inevitabile “ripartire da zero ” ( perché ” a zero” alla fine  ci saremo COMUNQUE finiti) , se  si vuole  “ridefinire  “ la futura  politica  europea   in un post-ucraina  che   non ci veda   a  “zero  tagliato” ,   si deve inevitabilmente partire dal definire PRIMA   tutte le colpe di chi “il danno” lo ha voluto e provocato.

 Io trovo in questo articolo  di Aurelien appunto l’ eco di un  dibattito che sicuramente adesso corre nei quadri intermedi delle elite inglesi da cui il nostro proviene; dibattito ovviamente riservato e che di sicuro non è ancora iniziato invece nelle élites coloniali del resto d’€uropa.

Questo è  certamente  un segno  interessante ma  temo  molto probabilmente finalizzato alla speranza  dei più   furbi  di potersene  appunto” filare a l’ inglese” lasciando   nelle pesti  tutti gli altri . 

Una  cosa che però non dovrebbe essere permessa al principale “piromane” di questo danno. Anche perché in questo  gli inglesi  sono almeno tre volte recidivi; non c’ è dubbio che se la facesse   franca l’elite inglese ci  riproverebbe alla prima occasione.

La    russofobia delle elites inglesi non è una pulsione  occasionale    come  quelle  della  sue “scimmie”  italiche; è ben  radicata  e perseguita  con maligna “coerenza”   da almeno   due secoli  e mezzo.

Aurelien  questo lo sa , ma soprattutto  sa  che  questo cominciano a comprenderlo  tutti i russi.  Aurelien  non è ora preoccupato  per “l’€uropa” , cosa  di cui  ad ogni inglese  importa un piffero , ma   della  SUA  Inghilterra  per  cui    comunque  le  cose  volgono  al peggio-

   E appunto  ora valuta la necessità  di definire   per TUTTI   ciò che i russi  hanno  chiesto  sempre e da subito: la definizione  di un quadro  di sicurezza  collettiva,   financo  fosse  una    totale €urofinlandesizzazione,  che però  sostanzialmente  lasci  libera  e nell’ ombra  la  solita  “manina” inglese.

Ma  Aurelien  sa  certamente  anche  “che i fatti  comportano  conseguenze” . 

C’ è appunto un  primo   fatto  che  questa  nuova “ sicurezza  collettiva”  alla  Russia  è stata  negata   su istigazione  inglese   suppur per voce  spesso  dei  suoi  “obbedienti”  massonici posti a dirigere  i vari  €uronanerottoli .

E  c’ è un  un  secondo  fatto:  la “sconfitta  strategica”   che  si  voleva così  imporre  alla  Russia   dovrà per  forza  ritorcersi verso chi l’aveva progettata  e perseguita.

 Certo  Putin non vuole “vincere”, la Russia  lotta solo per  “sopravvivere”; ma   se  ci riesce,  quale  “ sicurezza  collettiva”   potrà mai    firmare   con chi   ha  così  subdolamente  minacciato l’esistenza  della Russia?

Forse  qualcuno   più  resipiscente  in €uropa sta  sinceramente valutando una  “nuova  Helsinki “   ma  anche  qui  c’ è un  terzo  fatto:  quella “Finlandia”   lì non  esiste più. La memoria  del  voltafaccia  finlandese, per non dire   tradimento  dei patti sottoscritti,  ora  non potrà essere rimossa  dalla  testa  dei russi.

In altre  parole  tutto    deve necessariamente passare PRIMA  per  la  rimozione  delle  attuali  elites  €uropee ,  perché  “chi  è stato parte  del problema non può essere parte  della  soluzione”. 

Solo  così  la Russia  potrà veramente   credere  che valga la pena  di firmare  qualcosa   con chi la voleva morta.

Ma  queste   élites  non  se ne andranno  da  sole;  lotteranno fin in fondo  per  trascinare  tutti con  sé.

La conclusione  quindi  è la  stessa di sempre  e  mi rendo  conto  di essere  noioso  a   ribadirla continuamente.

 Non ci sono più margini per  fermare   questo  treno in corsa , “salvo miracoli” ovviamente.

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Addavenì er Messìa_di WS

Di questo lungo articolo di MdL condivido sia la premessa che la conclusione , ma non il concetto di fondo, perché   seppure  “il male” è ineliminabile   esso è sempre  contenibile; la prova  è che  l’umanità è ancora  qui   in miglior condizioni  di quando  si è affrancata  dalla  ferinità.

Per ora , precisiamo, datosi  che gli inistancabili  “maligni”  sono anch’essi ancora qui   ma  stavolta  con mezzi  e tecnologie mai avute prima.

 In  questo  articolo MdL   decrive benissimo  il meccanismo  che  avvelena la nostra  società.

La quale  società  , oggi “morente”,   e che  noi tutti  siamo  chiamati  a deridere  e a disprezzare   storicamente,  è  stata  GRANDE,   tant’è  che      migliaia di  “ cervelli  a pagamento”   sono oggi  chiamati a     riscriverne  la   Storia   come in “1984”.

E non c’è dubbio  che la prognosi   per questa  società sia  infausta;  ma  saremo  NOI a finire,  non il mondo .

  E  per  altro    a questo NOSTRO   disastro non  ci sono  soluzioni “personali “ . Non  è fuggendo dal mondo che si riducono  né il proprio, né l’ altrui dolore di vivere su questa terra, anche perché il cammino umano seppur tortuoso è stato positivo, almeno fino ad ora.

 Quindi non condivido la critica feroce contro ogni sovrastruttura  sociale sia essa religiosa che politica che affermi e quindi cerchi di ridurre la quota di “male” che sempre spetta “ai più” perché “i meno” abbiano più “bene” per sé, perché  il  contenimento del male  non si ottiene “contemplando il proprio ombelico”.

 Anche se “homo homini lupus “, l’ uomo è un animale sociale e come in un branco di lupi le società umane  si basano su regole tese a massimizzare il vantaggio di tutti.

E la prima  regola di un  gruppo,  anzi  il  concetto  fondante   del  gruppo,  è “ tutti per uno e uno per tutti”;   il che comporta anche  il sacrificio del singolo finalizzato alla  maggior forza del gruppo,  purché  TUTTI siano chiamati  al sacrificio  in ragione della propria posizione nel “gruppo” stesso.

Se  si permettesse  la “speciazione”  del gruppo  in  due gruppi in cui  uno  deve solo  dare  e l’ altro solo   ricevere   il gruppo si frantumerebbe    qualunque  strumento  coercitivo usasse  il   gruppo  dei “privilegiati”.

E le “religioni” siano esse “trascendenti” o “civili” servono solo a questo:  fortificare il gruppo  affinché  tutti  possano  vivere  meglio. Queste  “religioni” muoiono quando esse cessano da questa funzione.

Non è un caso che ogni “religione” FUNZIONANTE parli di “prossimo” e non di “genere umano” e peggio ancora di “pianeta Terra”. 

Lo stesso Emmanuel Todd il “descrittore” franco-ebreo del collasso della civiltà occidentale ha correttamente attribuito la fine della nostra civiltà alla scomparsa della nostra (ex) religione cristiana, ma  si guarda bene   da analizzarne le cause profonde.

Quindi non basta , come fa benissimo MdL, descrivere come ha agito e ancora agisce il veleno ponerologico in ogni  società, la nostra compresa ; bisogna   trovarne  dei  rimedi  anche  se  fossero solo “pannicelli caldi” perché    “il  gruppo non tiene”.  Se ne accorgeranno    anche  gli  attuali “privilegiati”  per quanto “ricchi&potenti”   essi siano.

E di  sicuro  non serve la fuga,per altro personale e quindi socialmente inutile , verso il “buddismo”. Storicamente  dopo una  grande espansione le  società   basate sul buddismo  sono  state pressoché  tutte  travolte  da  altre ,   sicuramente  eticamente inferiori, ma  più dinamiche, perché  per  la sopravvivenza   del “gruppo” il buddismo offre  MENO.

E  siccome  su il “Primum vivere deinde philosophari” sarà  certamente  d’accordo  anche MdL ,   se “la fuga” non arresta il declino allora  a che ci serve la “filosofia “? .

Ma  chi volesse arrestare questo NOSTRO declino non potrà mai  ottenere nulla se  PRIMA   non indaga   e  non capisce   su CHI  e perché abbia  diffuso questo veleno nella nosta società.

E  qui  si potrebbe  fare una analisi  storico-politica ma in realtà le  ragioni  sono     “trascendenti”    sebbene in ogni  capitolo  storico  gli “attori”  siano  sempre facilmente individuabili.

La prima ragione  trascendente    che  avvelena ogni  società  è  “politica”,  e l’ ho  già    richiamata  altre volte :    ci sarà sempre    un  conflitto  sociale  tra  “chi  deve lavorare per poter  vivere, peggio   e chi può vivere, meglio, senza  dover lavorare”

La seconda è filosofica  , ma è anche intrinsecamente  legata  alla prima:   ci sarà  sempre    un conflitto  ideologico  e morale   tra “verbo”  e “gnosi”     cioè   tra “verità”    rivelata  a tutti    e  “verità”   riservata  a  pochi

E le società muoiono  quando   “la gnosi”  prende  il sopravvento  sul “verbo”  come strumento  di oppressione  dei   “pochi”   su “tutti”.

E  siccome lo vede  anche un  “diversamente intelligente”    che la NOSTRA  società   sta morendo qualcuno  adesso potrebbe chiedersi   chi  siano oggi i “pochi”  che opprimono i “tutti”     e con  quale “gnosticismo”.

Ma  la  risposta  non  vale la pena  di darla  perché  “  ci sono cose  che  se potessero  essere  capite  non  dovrebbero  essere  spiegate”.

Quando anche la massa , costretta dalla realtà , si porrà  quelle domande che  è stata addestrata a non porsi  , forse allora  troverà anche “il messia “ che gli spiegherà   il  suo“ verbo”.

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ISRAELE-ITALIA UN ALLEANZA BIPARTISAN, di Cesare Semovigo

ISRAELE-ITALIA UN ALLEANZA BIPARTISAN

 Italia e Israele: alleati privilegiati, un binomio strategico tra storia, tecnologia e politica

**di Cesare Semovigo** italiaeilmondo.com 

Negli ultimi anni uno dei temi più dibattuti nel panorama politico italiano è stato il rapporto speciale tra Italia e Israele ma ultimamente , complice l’indiscriminato massacro a Gaza e l’affaire Flotilla la polemica ha raggiunto i massimi storici .

Accuse più o meno velate hanno etichettato il governo Meloni come “alleato privilegiato” oltre ogni misura, spesso con toni critici ma parziali o mancanti di quel background storicogeopolitico che è indispensabile per capire davvero. Questa serie di tre articoli si propone di fare luce in modo minuzioso e rigoroso, basandosi su fonti OSINT, documenti ufficiali, dati finanziari e militari, e ricostruendo con ordine e chiarezza l’alleanza a 360 gradi.

Il primo testo contestualizza la relazione nel quadro geopolitico europeo e mondiale attuale e storico. Il secondo approfondirà gli aspetti tecnico-militari, esercitazioni, joint venture e tabelle di aziende e collaborazioni. Il terzo sarà dedicato al settore aeronautico, intelligence, esercitazioni e aspetti più “nerd” ma cruciali del rapporto dual-use tra Roma e Tel Aviv.

Un’alleanza con radici profonde e progetti a lungo termine 

L’Italia e Israele sono legate da decenni da una partnership che va ben oltre il rapporto diplomatico tradizionale. La loro relazione, soprattutto nel settore militare, si è sviluppata sotto l’ombrello strategico degli Stati Uniti e della NATO, guadagnando negli ultimi anni spazi di autonomia e cooperazione diretta[1][2].

Una data simbolo cade il 16 giugno 2003: Roma e Tel Aviv firmano un *memorandum d’intesa* in materia di cooperazione militare. Non si tratta di un accordo tecnico qualsiasi, ma di un quadro generale che regola tutto: interscambio di materiale militare, addestramento reciproco, formazioni, sviluppi congiunti in ambito industriale e tecnologico[1]. Questo accordo è stato approvato con quasi unanimità dal Parlamento italiano nel 2005, segnando un punto di svolta strategica che da allora ha visto un crescendo di collaborazioni[2].

Senza cesure né retorica, va detto che questa alleanza nasce in un contesto globale profondamente multipolare e instabile, dove l’Italia gioca una partita geopolitica e industriale a complessità crescente dentro un quadro di dipendenze e alleanze con USA, Israele, Europa e Medio Oriente.

Una feeling Bipartisan 

Cronologia governi, accordi e collaborazioni militari

Da allora ogni governo italiano, di destra o centro-sinistra, non ha mai messo in discussione questo rapporto ma lo ha fatto evolvere, spesso sottotraccia o senza eccessivo clamore politico. Dal governo Prodi a quelli Berlusconi, Renzi, Conte fino alla Meloni, la continuità è stata una costante[1][3].

Nel decennio 2010-2020 sono stati siglati diversi accordi per la produzione e sviluppo congiunto di tecnologie avanzate: sistemi di difesa missilistica, aerei da pattugliamento marittimo, sistemi d’intelligence e cyberwarfare. In particolare, la cooperazione si è consolidata attraverso joint venture industriali tra aziende israeliane, come *Rafael Advanced Defense Systems* o *Elbit Systems*, e le italiane Leonardo, Thales Alenia, e altre eccellenze tecnologiche italiane[3][5].

Nel 2021, in piena pandemia e in mezzo alla guerra in Medio Oriente, l’Italia ha aperto in Parlamento un dibattito rapido e senza clamore sull’acquisto di aerei Gulfstream G550 riconvertiti in piattaforme di sorveglianza di tecnologia israeliana, rilevando un incremento della cooperazione militare in settori dual-use (civile e militare) che passa quasi inosservato ai più[4].

La dimensione industriale: joint venture e commesse Tech-Cyber 

Leonardo e Rafael sono i principali protagonisti di un’alleanza industriale che unisce know-how aeronautico, sistemi missilistici e cyberstrategia tecnologica. Nella loro storia comune si contano commesse di decine di milioni di euro in ambito europeo, che vanno dalla produzione di componenti avionici all’integrazione in sistemi stealth e intelligence. L’Istituto Italiano per gli Studi Strategici riferisce che queste collaborationi sono parte integrante della strategia ‘dual-use’ europea, coerente con la politica di riarmo lanciata da Bruxelles e Roma[5].

Sul fronte operativo, la presenza israeliana in esercitazioni congiunte è storicamente rilevante. L’aeronautica israeliana è stata impegnata con l’Italia regolarmente sulla base di Sigonella e in Sardegna, e i piloti italiani hanno esperienza nell’addestramento su velivoli C-130J “Super Hercules”, vettore chiave di molte missioni NATO. Le esercitazioni aeree “Falcon Strike” del 2021 hanno visto la partecipazione di F-35 israeliani sui cieli italiani, segno di un’intesa che è ormai consolidata in ambito NATO e che resiste anche nei momenti di tensione internazionale più accesa[2][3].

Scambi finanziari e investimenti bilaterali

I dati economici confermano la robustezza del legame finanziario a corollario politico-militare. Il flusso commerciale tra Italia e Israele ha raggiunto nel 2024 circa 5,5 miliardi di euro, con un saldo commerciale positivo per l’Italia grazie prevalentemente all’export tecnologico e meccatronico. Gli investimenti diretti israeliani in Italia sono cresciuti del 12% negli ultimi cinque anni, concentrati su settori tecnologici avanzati legati anche al settore difesa[6].

Israele acquista in Italia prodotti high-tech per circa 2,3 miliardi annui, mentre la base industriale italiana beneficia di commesse continue, soprattutto nel distretto produttivo aerospaziale del nord e nelle industrie della difesa di Roma, Milano e Torino. Questo va nella direzione di un’integrazione sempre più forte a livello economico e industriale, spesso poco visibile ma ben tangibile nei numeri istituzionali e nei report di settore[6][7].

Una partnership solida ma complessa 

Alla luce del rigore OSINT e della documentazione ufficiale, è chiaro che l’Italia non è un alleato “speciale” solo grazie alla retorica politica recente, ma fa parte di una rete strategica ormai consolidata da almeno vent’anni e oltre, fatta di accordi ratificati, joint venture industriali e collaborazione militare intensa.

Critiche le ricevono tutti i governi, anche quelli che si sono definiti progressisti o di centrosinistra, perché la realtà geopolitica, soprattutto in ambito dual-use e sicurezza, ha imposto coerenza e continuità. Nessun esecutivo fino a oggi ha dismesso questo rapporto: semplicemente è la realtà di una politica internazionale che vede nell’Italia un nodo logistico e tecnologico di primo piano nell’area mediterranea e europea, e che su questo impianto costruisce parte della propria autonomia strategica in seno alla NATO.

Nel prossimo articolo affronteremo il dettaglio delle esercitazioni, delle aziende coinvolte e un’analisi tecnica delle joint venture, con dati aggiornati e grafici replicabili per chi vuole capire davvero come si muovono sul piano militare e industriale queste collaborazioni , ricordando agli smemorati della carta stampata e della politica che ne nel caso non ve ne fossero accorti , sono tutti coinvolti . 

 Note

[1] Contropiano (2014), “Roma-Tel Aviv, fratelli d’armi: alleati di guerra”  

[2] Orient XXI (2023), “La partnership strategica Italia-Israele”  

[3] L’Espresso (2025), “La collaborazione militare mai interrotta”  

[4] Peacelink (2025), “Le forze armate italiane e israeliane”  

[5] Il Manifesto (2025), “La vita segreta delle armi nell’intesa Italia-Israele”  

[6] ISTAT e Agenzia ICE, dati commercio bilaterale 2024-25  

[7] Ministero Difesa, bilanci collaborativi 2023-2025  

Rudolf Von Jhering, La lotta per il diritto e altri saggi_a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Rudolf Von Jhering, La lotta per il diritto e altri saggi, Castelvecchi editore (traduzione di Roberto Racinaro, a cura di Pasquale Femia e Francesco Mancuso), € 21,00, pp. 254.

A leggere questa nuova edizione della traduzione (del 1989) di Roberto Racinaro di un classico del pensiero giuridico come Der Kampf um’s Recht occorre porsi alcuni interrogativi.

Il primo è: se il saggio di Jhering è uno dei libri giuridici più conosciuto (e pubblicato) degli ultimi centocinquant’anni, tradotto in una ventina di lingue, continuamente ripubblicato (Italia compresa) a che serve una nuova edizione? La prima risposta che si può dare è che i problemi lì affrontati (connaturati al diritto) sono  sempre attuali. Facciamo un esempio. Nelle prime edizioni del saggio, Jhering scriveva “Il concetto del diritto è un concetto pratico, cioè rivolto ad uno scopo, ma ogni concetto rivolto a uno scopo è configurato per sua natura dualisticamente, poiché racchiude in sé l’antitesi di scopo e di mezzo: non basta rendere noto semplicemente lo scopo, ma deve insieme essere fornito il mezzo, attraverso cui esso possa essere raggiunto”.

A chi rimproverava a Jhering di aver enfatizzato la litigiosità perciò rispondeva, nella prefazione del 1891 (non presente nell’edizione italiana precedente, neanche in quella del 1935, traduttore R. Mariano) “mi limito soltanto a rivolgere, a coloro che si sentono chiamati a farmi delle critiche, due preghiere. In primo luogo, che non facciano in modo di distorcere e snaturare le mie vedute, da farmi propugnare la lite e la lotta, l’amore di far liti e processi, mentre io non richiedo assolutamente la lotta per il diritto in ogni lite, ma solo là, ove l’assalto contro il diritto implica parimenti il dispregio della persona… L’arrendevolezza e lo spirito di conciliazione, la mitezza e la natura pacifica, la composizione amichevole e la rinunzia a far valere il diritto trovano anche nella mia teoria il posto che loro compete; ciò contro cui essa si pronunzia è unicamente l’umiliante tolleranza dell’ingiustizia che deriva da viltà, pigrizia, indolenza” e sottolinea il limite di opposte critiche “Cos’ha il dovere di fare chi si trova dalla parte del diritto, quando il suo diritto è calpestato? Chi può darmi al riguardo una risposta diversa dalla mia, ma tollerabile, cioè compatibile con il sussistere dell’ordinamento giuridico e con l’idea della personalità, mi ha battuto”; perché in attività (e problemi) pratici “per quanto riguarda i problemi puramente scientifici ci si può limitare a confutare semplicemente l’errore, anche se non si è in grado di sostituirvi la verità positiva, ma nel caso dei problemi pratici, ove è certo che un problema non può essere non trattato, e ove la questione è come debba essere trattato, non è sufficiente rifiutare come non giusta l’indicazione positiva data da un altro, ma la si deve sostituire con un’altra. Attendo che ciò avvenga riguardo all’indicazione da me fornita; finora, non sono stati compiuti in proposito neanche i primi passi”.

E nell’attualità abbondano quelli che Jhering chiamava i “Sancho Panza… i filistei del diritto”, ai quali conveniva l’espressione di Kant “chi si fa verme, non può lamentarsi se viene calpestato”: il  risultato delle loro condotte, di mancata coltivazione dei diritti soggettivi, è il venir meno del diritto oggettivo come il grande giurista ripeteva “La vita del diritto è lotta, una lotta dei popoli, del potere statale, degli individui.

Ogni diritto nel mondo è stato conquistato, ogni massima giuridica ha dovuto dapprima essere strappata con la lotta a coloro che le si opponevano, e ogni diritto, il diritto di un popolo come quello del singolo individuo, presuppone la disposizione continua alla sua affermazione. Il diritto non è un concetto logico, ma un concetto di forza… La spada senza la bilancia è la cruda violenza, la bilancia senza la spada è l’impotenza del diritto… Il diritto è un lavoro ininterrotto e cioè non è soltanto un lavoro che riguardi il potere dello Stato, ma tutto il popolo. L’intera vita del diritto, vista con uno sguardo d’insieme, ci offre l’immagine di un infaticabile lavorare e lottare… Ogni singolo che si trova nella situazione di dover affermare il suo diritto, svolge la sua parte in questo lavoro nazionale, offre il suo contributo alla realizzazione dell’idea del diritto sulla terra”. Che quello stigmatizzato da Jhering sia l’andazzo prevalente nell’Italia del XXI secolo è evidente.

La ripetuta formulazione di leggi che rendono difficoltosa e onerosa l’esecuzione di sentenze, soprattutto nei confronti delle pubbliche amministrazioni ne è la componente saliente. Così come è trascurato quello che sosteneva Jhering, che il diritto è un lavoro di tutto il popolo e non solo (e non tanto) del potere dello Stato. Tanto più quando questo è strumento per l’approvazione e il mantenimento di una classe dirigente decadente: e proprio perciò propensa, come scriveva Pareto, a far uso della furbizia piuttosto che della forza.

La seconda questione è la capacità di Jhering di coniugare versanti spesso contrapposti, o quanto meno distinti, in una sorta di complexio oppositorum e così diritto soggettivo ed oggettivo, forza e diritto, norma ed eccezione.

Lunità dei quali, o quanto meno la loro coincidenza e sinergia è trascurata o negata.

Gli è che Jhering come scrive in “Das Zweek im Recht” ritiene che scopo del diritto sia la vita (collettiva ed individuale) e in ciò manifesta molti punti di contatto con altri giuristi, a cominciare da Hauriou e Santi Romano. E’ un vitalismo giuridico che vede nella norma lo strumento dell’ordine della (e nella) vita comunitaria (come nella metafora della scacchiera di Romano).

Un cenno, prima di terminare queste note. Jhering rileva che nel “Mercante di Venezia” Shylock lotta per il proprio diritto, che è, a un tempo, quello di Venezia, come afferma il mercante. A fronte di tale domanda “Il giudice aveva l’alternativa di ritenere valida oppure non valida la cambiale”. Tuttavia “dopo che è stata pronunciata la sentenza del giudice, dopo che è stato fugato dal giudice stesso ogni dubbio sul diritto dell’ebreo, non si osa più contraddire tale  diritto… lo stesso giudice, che ha riconosciuto solennemente il suo diritto, glielo rende vano con una scusa, con una malizia così meschina e vergognosa, che non merita alcuna seria critica… egli deve prendere soltanto carne senza sangue e deve tagliare solo una libbra determinata, né più né meno”.

Porzia così vanifica il diritto di Shylock non con l’argomento forte della nullità del contratto per “illiceità della causa” (o illiceità in genere) ma con un espediente da causidico di mezza tacca. E, nell’opera di Shakespeare, anche il Doge ritiene di non poter cambiare la legge di Venezia e la sentenza che la applica. In un altro capolavoro teatrale come il Tartuffe di Molière, la conclusione è inversa, perché il rapporto tra legge ed autorità politica è cambiato. Nello Stato  assoluto di Luigi XIV è l’occhio vigile del Sovrano, il quale cassando la sentenza pronunciata legalmente dai giudici (ingannati da Tartuffe) salva Orgon e la sua famiglia. Ma lo fa senza espedienti, senza ipocrisia, sicuro della propria autorità e decisione.

Come scrive Schmitt a proposito dell’Amleto, in Shakespeare c’è una rappresentazione pre-statuale (cioè pre-moderna) della realtà mentre nella commedia di Moliére, c’è un nuovo protagonista: la monarchia assoluta. E di conseguenza lo Stato sovrano, il quale oggi appare in calo di sovranità (e abbondanza di espedienti).

Teodoro Klitsche de la Grange

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La doppia Kansas PNL: eretici nel ventre del sistema_di Cesare Semovigo

La doppia Kansas PNL: eretici nel ventre del sistema

Quando il dogma si incrina sotto il peso della realtà, nascono le conversioni più radicali. Jeffrey D. Sachs e Alessandro Orsini rappresentano il raro caso di insider che, dopo aver plasmato e servito l’establishment atlanticista, ne hanno smascherato le contraddizioni mortali con il rigore di chi conosce i meccanismi dall’interno. Le loro storie non sono semplici pentimenti, ma veri tradimenti intellettuali — i più pericolosi, quelli che costringono il potere a guardarsi allo specchio.

Sachs, l’enfant prodige di Harvard, per anni è stato il sacerdote della shock therapy: Bolivia, Polonia, Russia. Dietro i trionfalismi delle privatizzazioni lampo si nascondeva un bilancio di sangue. Milioni di morti premature, sistemi sanitari devastati, aspettative di vita crollate. I dati veri — non quelli dei report ottimisti — raccontano una verità scomoda: quando il dogma del mercato viene applicato senza pietà, le conseguenze sono genocide economiche.

La dissonanza sachsiana emerge crudamente dai suoi scritti e dichiarazioni recenti. Lo stesso uomo che nel 1994 dichiarava che “la terapia d’urto in Russia è necessaria e funziona”, nel suo *A New Foreign Policy* (2018) attacca frontalmente “l’eccezionalismo americano che ha creato instabilità globale”. Dalla cattedra della Columbia, nella sua pagina su Project Syndicate, non usa mezzi termini: “L’allargamento NATO è stato un errore strategico che ha portato direttamente al conflitto ucraino”. Non è una posizione di rottura casuale ma il ritratto di un tecnocrate che, pur restando dentro le istituzioni che lo hanno formato, trasforma la contrizione in metodo critico. Dall’analisi delle guerre in Iraq e Afghanistan all’ammissione dell’errore sulla gestione della Russia postsovietica, Sachs denuncia il fallimento morale delle politiche di cui è stato architect — la distruzione degli stati, il saccheggio delle economie, la cooptazione delle élite locali, la creazione di oligarchie mafiose. L’uomo che ha formato quadri e dirigenti politici ora attacca il sistema che li ha plasmati, ma sempre giocando dentro le regole, evitando un’uscita radicale.

Dall’altra parte dell’Atlantico, Alessandro Orsini ha vissuto un percorso speculare, benché in scala e registro diversi. Docente alla LUISS e voce mediatica rassicurante del mainstream euro-atlantico in tema di sicurezza, ha costruito una narrativa allineata alle strategie antiterrorismo e interventiste globaliste, interpretando il terrorismo internazionale come minaccia da annientare senza concessioni e criticando apertamente gli stati accusati di sostenerlo.

Ma con l’esplosione del conflitto ucraino nel 2022, Orsini si trasforma. Nel suo libro *Ucraina. Critica della politica internazionale* denuncia che “l’Occidente ha ignorato le legittime preoccupazioni di sicurezza russe, provocando il conflitto”. Scopre il realismo geopolitico, ricacciando indietro la retorica moralistica dei talk show. Il risultato è una frattura relazionale intensa: la LUISS interrompe i rapporti con l’associazione che gestiva l’Osservatorio sulla Sicurezza Internazionale e il portale viene chiuso. Ma Orsini non si arrende, moltiplica le pubblicazioni e gli interventi, diventando una voce sgradita che ricorda come la sicurezza collettiva si costruisca con l’equilibrio diplomatico, non con l’espansionismo militare.

Il punto destabilizzante che lega le due figure è il loro passato: Sachs non è un outsider, ma l’architetto delle politiche neoliberali di shock; Orsini non è un ingenuo pacifista, ma l’esperto che per anni ha costruito la narrativa securitaria mainstream. Il loro “dietrofront” assume un valore particolare perché proviene da chi quelle strade le ha progettate e battute, percorrendo e plasmando i sentieri del dogma che oggi mettono in discussione.

Cadranno le maschere se ricordiamo che entrambi operavano in un sistema che George Kennan, già nel 1997, definiva “un errore fatale” nel contestare l’allargamento NATO, e John Mearsheimer, nel 2014, aveva analizzato come profezia autoavverante quella dinamica che stava generando reazioni russe inevitabili e prevedibili. Nel frattempo, il Project for the New American Century teorizzava senza remore la supremazia militare globale preventiva. Proprio quelle ricette sono state messe in pratica mentre loro ne reclamavano le virtù, convinti di costruire un mondo migliore.

La peggiore cecità non è non vedere, ma portare in tasca quei testi fondativi fingendo che non significhino ciò che dicono.

Parallelamente, emergono convergenze e differenze emblematiche. Entrambi hanno goduto di piena cittadinanza al centro del sistema: Sachs a Harvard, Columbia e ONU; Orsini nel circuito LUISS, think tank e media mainstream. Entrambi hanno costruito e praticato narrazioni compatibili con l’ordine dominante. Entrambi, dopo la rottura, non sono fuggiti ai margini, ma hanno scelto la critica dall’interno, rimanendo in ambienti accademici o para-istituzionali.

Diversamente, Sachs lavora su scala globale, nella macroeconomia e nella governance; Orsini dal suo canto si muove nel circuito della sicurezza tra Italia ed Europa, passando da un registro istituzional-tecnocratico a un confronto polemico e televisivo. Sachs ha messo insieme anni di contrizione analitica, Orsini invece è stato travolto dallo shock immediato e dilagante della guerra in Ucraina.

Aneddoti emblematici gettano luce su queste diverse traiettorie: la Bolivia 1985 è il primissimo laboratorio di quella terapia anti-inflazione rapida che, sebbene vincente in termini puramente macroeconomici, aprì un vasto capitolo di costi umani evitabili; la corsa contro il tempo in Polonia con il pacchetto Balcerowicz mostra come la “velocità” delle riforme sia scelta politica e mai neutralmente scientifica; la Russia ha vissuto un trauma privo di ammortizzatori sociali, con milioni di morti premature legate al vuoto istituzionale e alle privatizzazioni rapide: negare questa catastrofe è mala fede.

Analogamente, sul versante italiano, la chiusura improvvisa del portale “Sicurezza Internazionale” LUISS nel 2022 segna il restringersi disciplinare del campo intellettuale quando la cornice dominante crolla, un segnale di come il dissenso interno venga silenziato con mezzi amministrativi e politici. Infine, New York, la doppia vita di Sachs — quale guida di network ONU per la sostenibilità e nello stesso tempo critico della geopolitica che ostacola quegli stessi obiettivi — racconta la dialettica interna alle stesse istituzioni: dentro e fuori, contro e con, sempre però nel recinto del consenso possibile.

Qui si separano i cammini: il lettore smaliziato coglie il paradosso e accetta che due insider oggi critici non siano “puri”, e per questo sono preziosi; chi invece transita per conformismo, quieto vivere o mestiere scambia il monitoraggio dei sentiment per la comprensione storica reale. L’analisi senza memoria è un eterno A/B test sterile che non produce apprendimento. La malafede si traduce in un ritornello stanco: “non è successo”, “non è provato”, “non è rilevante”, mentre atti, carte e libri sono ben lì, disponibili.

Questo doppio tradimento intellettuale smaschera il gioco polarizzante della sedicente democrazia liberale: si celebra il dissenso solo se è decorativo, mentre la critica che colpisce il cuore viene travolta dalle furie istituzionali. Quando è l’insider a dire che il re è nudo, la risposta non è mai il confronto, ma la scomunica e l’espulsione.

La lezione è limpida: il potere tollera il dissenso sui dettagli ma non quello che minaccia i fondamenti. Eppure sono proprio queste abiure radicali, nate dalle ceneri del dogma, a dimostrare che la verità può emergere anche tra le sue stesse viscere. Sachs e Orsini ci insegnano che l’eresia più pericolosa nasce dall’ortodossia, e che la critica più efficace arriva da chi il sistema lo conosce perché ne ha fatto parte.

Come ricordano Bruno e Pasolini, patroni spirituali di ogni eresia intellettuale, la verità non ha bisogno di consenso ma di coraggio. A volte quel coraggio abita proprio dentro il cuore del sistema che pretende di domarla e addomesticarla.

Le parole di Sachs riecheggiano profetiche: *“La terapia d’urto non fu solo un errore tecnico, ma un fallimento morale. Abbiamo trattato le nazioni come laboratori, dimenticando che l’economia è fatta di persone.”* E ancora: *“L’espansionismo NATO è una nuova forma di imperialismo, più pericolosa perché velata da idealismo.”*

Orsini completa il quadro con un taglio altrettanto netto: *“Il terrorismo va combattuto senza compromessi, ma oggi la NATO ha creato più terrorismo di quanto ne abbia mai sradicato. Siamo diventati il motore dell’instabilità che dicevamo di voler fermare.”*

La parabola di Sachs non è quella di un uomo qualunque, ma del macellaio di Mosca. L’uomo che teorizzò e impose la “liberalizzazione” che nei fatti fu un’olocausto sociale; scout e former delle classi dirigenti future — quelle di Eltsin, di Gorbačëv, di decine di capi di stato post-sovietici — che diventavano così pedine di un disegno più grande.

Il suo passato è solido, intenso, insindacabile: la “shock therapy” non fu solo teoria ma pratica di devastazione sociale, a cui partecipò con spirito e determinazione da inquisitore economico. Poi una metamorfosi repentina: oggi urla che “l’imperatore è nudo”, smonta le menzogne della NATO e l’eccezionalismo americano, invoca una diplomazia che lo stesso establishment considera eresia imperdonabile.

La domanda allora sorge spontanea: di fronte alla potenza della sua autorevolezza e alla forza del ragionamento nel contesto più propizio, è davvero possibile sacrificare le categorie analitiche imprescindibili che fino a ieri sostenevano l’ordine? Oppure si tratta piuttosto di un riciclo astuto, di un’opera studiata per modulare la critica, adattarla e contenerla?

La risposta risiede nella perdita della memoria storica: tallone d’Achille di ogni vera analisi geopolitica. Non un dettaglio o una curiosità, ma la prova lampante che negli ultimi decenni le narrazioni dominanti hanno contaminato quasi ogni ambito intellettuale. Quando la complessità si riduce al relativismo autoreferenziale, quando il dibattito si cinge nel recinto delle “verità parallele”, allora non stiamo più indagando la realtà, ma recitando un copione imposto e mai davvero sfidato.

Nei conflitti, la memoria storica — fragile ma imprescindibile — stratifica identità, confini e rivendicazioni. Ignorarla significa perdere l’essenza stessa della geopolitica. Quello che oggi constatiamo è invece un suo azzeramento sistematico, sostituito da narrazioni piatte, semplificate, manipolatorie, che alimentano una spirale di “noi contro loro” e impediscono qualsiasi sguardo realmente obiettivo.

Populismi e nazionalismi non nascono per caso, né sono figli esclusivi della crisi economica. Sono invece figli manipolati di una memoria mutilata o abusata, strumento di stratagemmi politici che riscrivono la storia per orientare masse e giustificare guerre e dominazioni, con la complicità di un’egemonia culturale trasversalmente funzionale a questo scopo.

Il risultato è disperante: l’analisi geopolitica precipita in una girandola di opinioni soggettive, dove l’indagine perde la sua efficacia e diventa propaganda. Gli analisti stessi, per mantenere posizioni e finanziamenti, si piegano al sistema dominante. Senza radici storiche condivise, la critica perde mordente e resta intrappolata nelle stesse formule simboliche che vuole contrastare.

Non a caso, le crisi contemporanee—dalla dissoluzione post-sovietica alla guerra in Ucraina—vengono raccontate come eventi deflagrati e scollegati dal passato, quando sono invece il prodotto di dinamiche di lungo corso e memorie che nessuno vuole riconoscere. Chi tenta di riportarle alla luce viene marginalizzato o demonizzato.

Solo riscoprendo e rispettando la memoria storica è possibile uscire dal ciclo infinito di conflitti, comprese le loro radici identitarie, e costruire una pace fondata sulla consapevolezza condivisa degli errori commessi e delle responsabilità di tutti.

Senonché, senza memoria e con narrazioni inconsce e superficiali, qualsiasi analisi profonda è destinata a diventare tautologia sterile o strumento degli stessi poteri che dovrebbe criticare. Chiudere l’analisi nel relativismo è la prova più chiara di un gioco truccato: non per astuzia del banco, ma per conformismo dei giocatori.

In questo teatro di ipocrisie, il nostro compito non è certamente beatificare figure come Sachs e Orsini — che siano convertiti sinceri o strateghi dell’ultimo minuto poco importa — ma utilizzare le loro parabole per decostruire il dogma, ricostruire le cause, accettare i conti umani e diffidare delle parole salvifiche.

Pentitevi, prima che ritorni Nibiru: non il pianeta fantasma, ma la rotazione inevitabile e periodica della realtà che travolge retoriche e mistificazioni e riporta alla luce ciò che i manuali preferirebbero ignorare.

La verità non ha bisogno di urlare; le basta di esistere. Per rispetto, almeno leggiamola.

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Gaza: Netanyahu tra isolamento e ipocrisie_Con Roberto Iannuzzi

Nell’alternarsi di incontri e trattative continua la pressione distruttiva e tragica di Israele su Gaza. Dalle ceneri, come un’araba fenice, Hamas sembra risorgere dai colpi costanti di IDF. Gli attacchi e l’assedio alla popolazione civile sono l’arma totale che Netanyahu intende utilizzare per risolvere il conflitto e allargare la presenza di Israele. Una ferocia insostenibile agli occhi dei suoi stessi alleati più stretti in un Medio Oriente nel quale il ruolo di Israele rischia sempre più il ridimensionamento. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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Lo Stato delle Cose dell’Ultima Religione Politica Italiana: il Mazzinianesimo (integrale), di Massimo Morigi

 

 

Monica Vitti, nella parte di Giuliana in una scena del film Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni, girato nel 1964 a Ravenna

 

 

“L’ Italia e il Mondo” pubblica ora in un’unica soluzione il saggio di Massimo Morigi Lo Stato delle Cose dell’Ultima Religione Politica Italiana: il Mazzinianesimo.  Con due “piccole” differenze rispetto alla pubblicazione in quattro puntate. La prima che   al saggio introduttivo alla biografia su Arnaldo Guerrini e alla biografia stessa sul martire repubblicano ed antifascista sono state aggiunte le scansioni PDF degli originali delle tre “veline di Guerrini” che erano pur presenti da p. 83 a p. 89 del saggio ma che vi erano riportati solo nella loro trascrizione ma non nella loro autentica immagine. È un po’ un’emersione fantasmatica dalla notte dei tempi, tanto più, come preciseremo ora, che l’archivio dai quali questi importanti documenti erano stati recuperati e riconsegnati alla storia degli uomini ora probabilmente non esiste più. La seconda differenza è che il saggio che nella sua interezza “L’Italia e il Mondo” propone ai suoi lettori contiene anche una commemorazione dell’avvocato Vincenzo Cicognani di Lugo, che non solo fu amico e collaboratore di Arnaldo Guerrini (ed anche fra i fondatori del Partito d’Azione) ma che di quell’archivio che serbava i tre importantissimi documenti redatti da Arnaldo Guerrini era stato il creatore ed il custode e che, probabilmente a causa, mettiamola così, di una notevole insensibilità storica da parte di chi avrebbe dovuto custodirlo, oggi non esiste più. Leggerete anche che per Morigi l’occasione per commemorare Vincenzo Cicognani è stata l’ultima ricorrenza del IX Febbraio, col quale quest’anno i residuali mazziniani italiani hanno celebrato il 174° anniversario della fondazione della Repubblica Romana del 1849. Siamo sempre in tema di spettrali “emergenze”  ma, come ben si vede anche in questi giorni, anche (se non soprattutto) di queste fantasmatiche apparizioni politico-religiose, così nel bene come nel male, è indissolubilmente impastata e generata la geopolitica…

Giuseppe Germinario

https://ia801605.us.archive.org/31/items/repubblicanesimo-repubblicanesimo-geopolitico-neomarxismo-monica-vitti/Repubblicanesimo%2C%20Repubblicanesimo%20Geopolitico%2C%20Neomarxismo%2C%20Monica%20Vitti.pdf

Stati Uniti, NATO e Unione Europea! L’illusione di un addio, il miraggio dell’autonomia_di Giuseppe Germinario

Gli alti lai hanno raggiunto alla fine l’Olimpo; sono riusciti a smuovere la magnanimità dell’Onnipotente. Per quattro anni gli orfanelli hanno smarrito la guida; hanno dovuto sopportare smarriti le bizze dell’impostore. Hanno avuto davanti a sé l’uscio maliziosamente socchiuso verso le incertezze della libertà; non dovevano far altro che liberarsi dei guardiani arcigni, ma privi di una guida. Non hanno nemmeno avuto il coraggio di sbirciare il nuovo mondo dai pertugi. Hanno tramato invece per il ritorno del vecchio padrone aspirando nient’altro che al ripristino delle sicurezze di una strada obbligata scelta da altri. Joe Biden, il nuovo messia, li ha accontentati prontamente. Ha indicato loro la strada obbligata con piglio fermo e modi cortesi; ma la direzione indicata non è proprio la medesima percorsa per trenta anni. Biden, però, impersona più l’umanità e le debolezze delle divinità greche, che la purezza del dio cristiano; il prezzo chiesto agli alleati è stato quindi piuttosto salato e guidato da una tattica levantina.

I recenti vertici del G7 e della NATO tenutisi a giugno non possono infatti essere considerati nella ordinaria routine diplomatica.

Il G7 ha certamente assunto la funzione politica di allineare preliminarmente il gruppo di paesi determinanti per lo svolgimento degli indirizzi; nella divisione dei compiti ha assunto il compito politico-culturale di offrire nuovamente al mondo, in particolare nelle zone critiche di competizione con la Cina e la Russia, il modo di vita, i valori e la generosità occidentali. Ben più corposi i due vertici successivi della NATO e con Putin.

Mi ero ripromesso di scriverne a ridosso. Non è stato possibile, ma il tempo trascorso non è passato invano.

Tra la piaggeria e il lirismo prevalenti, non sono mancati commenti e analisi più avveduti; tra questi la constatazione che nell’assemblea NATO i diversi punti di vista, gli interessi strategici potenzialmente divergenti hanno spinto l’egemone statunitense ad una salomonica divisione dei compiti tra gli alleati eurorientali impegnati a sostenere gli USA nel fronteggiare la Russia e i fondatori originari, in particolare Italia, Francia e Germania impegnati nel loro sostegno ai propositi americani di arginare la Cina nel Pacifico con alcune varianti legate al comportamento britannico. In pratica una fotografia se non una interpretazione sin troppo letterale del contenuto dei colloqui e dei testi finali concordati.

Eppure quei documenti, i finali ed i preparatori, in particolare quelli della NATO, rivelano qualcosa di ben più complesso ed articolato.

LA NATO, QUESTA (S)CONOSCIUTA

Già soffermandosi sulla constatazione “fotografica” dei testi non è sufficiente ricondurre la dicotomia (schizofrenia?) al classico schema delle divisioni e differenze tra alleati senza considerare quindi l’acceso conflitto e le incertezze ormai, con l’uscita di Trump, tutte interne alla amministrazione americana in primo luogo, ma anche in particolare e in subordine in quella francese.

Una prima chiave di interpretazione di questa complessità la si trova in alcune frasi apparentemente anodine a partire da pag 77 del documento preparatorio dell’Assemblea NATO*: “a partire dal 2014 la NATO ha adattato con successo le proprie strutture militari e la propria postura di potenza. Continua a farlo alla luce delle nuove sfide (Depuis 2014, l’OTAN a adapté avec succès ses structures militaires et sa posture de forces. Elle continue de le faire à la lumière des nouveaux défis.)”; ancora: “tuttavia il braccio politico della NATO che permette al segretario generale e all’Organizzazione stessa di adattarsi e posizionarsi in un ambiente securitario in rapida trasformazione, deve ancora evolvere (Cependant, le bras politique de l’OTAN, qui permet au secrétaire général et à l’Organisation ellemême de s’adapter et de se positionner dans un environnement de sécurité en rapide transformation, doit encore évoluer).

La riproposizione in ambito NATO della pratica funzionalista brillantemente adottata nell’ambito della Unione Europea.

Niente di originale in un caso come nell’altro. Tutto rientra da sempre nei normali canoni dell’azione politica dei centri decisionali più avveduti capaci di occupare i posti chiave, di innescare le inerzie degli apparati e di creare una situazione di fatto propedeutica alla sanzione politica o quantomeno in grado di contrastare e rendere improbabili eventuali scelte alternative. Nella fattispecie imporre di fatto con un livello di integrazione addirittura maggiore quello che gli statunitensi non riuscirono a sancire per decisione esplicita negli anni ‘50 con la CED (Comunità Europea di Difesa).

Il filo conduttore del documento è sin troppo chiaro ed esplicito e si traduce in pochi indirizzi strategici della NATO:

  • deve affermarsi sempre più come un centro di decisione politica in quanto detentrice della forza militare;

  • deve diventare una sede privilegiata di incontro, di consultazione e di coordinamento non solo dei ministri della difesa, ma anche degli esteri e degli altri ambiti che abbiano implicazione con la difesa e la sicurezza della alleanza e dei singoli appartenenti, in particolare la ricerca scientifica, le comunicazioni, l’energia; devono essere ulteriormente rafforzati i legami e il coordinamento con le strutture della UE (Unione Europea);

  • deve decidere, operare e comunicare in maniera univoca evitando progressivamente sovrapposizioni delle altre istituzioni nazionali e comunitarie concorrenti sino a curare la stessa formazione culturale e tecnica del personale e dei collaboratori nonché dell’ambiente operativo;

  • deve agire statutariamente in ambiti operativi e spazi geopolitici più ampi e globali rispetto a quelli fondativi della fase bipolare di confronto sul fronte occidentale con la Unione Sovietica ipotizzando, anche se non ancora esplicitamente, l’allargamento ad una “NATO mondiale” e praticando l’estensione dei rapporti di collaborazione;

  • deve stabilire una linea di comando più efficace che superi su più temi l’obbligo della unanimità nelle decisioni, che attribuisca maggiori poteri al Segretario Generale, compresa la maggiore autonomia nell’utilizzo delle risorse disponibili e la verifica della effettiva esecuzione delle decisioni, che stabilisca tempi certi nelle decisioni, che attribuisca infine al Comando Generale maggiori poteri nella preparazione degli interventi in situazioni di emergenza anche in anticipo e propedeutici alle decisioni politiche.

Una chiarezza, una puntualità ed una sicumera inedite ampiamente corroborate e indotte da due situazioni:

  • la progressiva affermazione pratica e ormai sempre più adozione concettuale del modello di guerra ibrida e in subordine asimmetrica che estende compiutamente il classico confronto militare diretto con armi da fuoco ai più diversi ambiti e spazi dell’agire umano e lo “diluisce” di fatto nell’ambito del più generale confronto geopolitico; una dinamica innescata inesorabilmente dall’avvento dell’economia industriale e resa organica dalle nuove potenzialità tecnologiche e dalla capacità operativa e di influenza delle grandi potenze. Un modello che implica un salto qualitativo della visione strategica e della capacità operativa e una mole immane di risorse necessarie;

  • l’accelerazione ormai trentennale dei processi di integrazione militare, innescata dalla prima Guerra del Golfo, proseguita con l’allargamento delle adesioni all’Allenza Atlantica e non ancora compiuti. Una integrazione che ha riguardato il rapporto tra le forze territoriali e le unità mobili centrali, l’integrazione e velocizzazione delle reti di mobilità e comunicazione, l’integrazione delle reti energetiche, quella dei centri di comando e la creazione di centri operativi e logistici (17?) a direzione NATO nei diversi ambiti compreso quello tecnologico. Tutti processi che stanno svuotando di fatto la capacità e le prerogative dei singoli stati nazionali europei in materia di difesa e di influenza geopolitica.

In questo quadro vengono definiti i punti dichiarati di attacco dell’alleanza: quello in atto contro la Russia, dovuto bontà loro al carattere estremamente aggressivo sul fronte europeo pur riconoscendo capacità operative non comparabili con quelle della Unione Sovietica; quello in divenire con la Cina, paese le cui ambizioni vanno contenute ma con il quale ci sono margini di trattativa e collaborazione.

In sintesi, più che l’individuazione pur indispensabile degli avversari colpisce, a parere dello scrivente, il tentativo articolato di allargare ed approfondire il campo di azione e le prerogative “statuali” su base oligarchica di una alleanza sino ad ora statutariamente definita “militare” e basata nominalmente sulla pari dignità degli aderenti. Non a caso prendono piede proposte tali quali la costituzione di una DARPA atlantica, di una agenzia quindi in grado di sviluppare l’uso civile e militare delle applicazioni tecnologiche frutto della ricerca scientifica con tutto quello che ne consegue nei rapporti con le università e con gli apparati industriali; l’uso ventilato delle forze militari a fini di sicurezza interna nei paesi dell’alleanza in risposta alle minacce del terrorismo, ma anche di fenomeni politici emergenti.

L’esigenza di rispondere tempestivamente alle dinamiche multipolari sempre più complesse e imprevedibili sono certamente un impulso potente all’accentramento politico. Un proposito più facilmente perseguibile in una struttura chiusa come la NATO nel quale il personale è selezionato sulla base della fedeltà alla missione. Più complicato e meno dissimulabile nelle intenzioni reali e nelle contraddizioni intrinseche quando deve essere adottato coerentemente dai paesi e dagli stati nazionali europei.

Su questo ci offre lumi particolari il documento conclusivo dell’assemblea, altrettanto articolato di quello preliminare; meno compassato, decisamente più pervaso piuttosto da enfasi propagandistica ed ideologica.

A prima vista ha colpito il furore con il quale si scaglia contro il pericolo ru(o)sso, reo di revanscismo, di militarismo, di autoritarismo ai danni delle democrazie dei paesi vicini; una sfrontatezza tale da rimuovere e ribaltare la realtà della delusione della fine dello spolpamento della Russia, dell’aggressività continua perpetrata ai suoi danni, dell’impronta russofoba dell’adesione alla NATO e alla UE dei paesi dell’Europa Orientale, dei colpi di mano perpetrati in Ucraina ed altri paesi; in particolare della rimozione vergognosa della questione del trattamento riservato alle popolazioni russe e russofone rimaste intrappolate nei nuovi stati frutto dell’implosione dell’URSS, tanto più grave in quanto perpetrata dai sedicenti paladini dei diritti umani.

Del tutto ignorato al contrario l’insolito lirismo, un vero e proprio panegirico di numerose pagine, riservato al decisivo contributo offerto dalla UE e dalla sua Commissione al processo di integrazione intensiva e allargamento della NATO. Un cappello addirittura imbarazzante nella sua evidenza tale da mettere in dubbio impietosamente l’immagine di relativa autonomia politica costruita intorno alla costruzione europea. Un florilegio che manca il punto qualificante e più paradossale di questo altruismo comunitario: quello dell’apprezzamento di un documento della Commissione Europea sulla politica estera e di difesa autonoma europea che prevede la costruzione di una forza militare per le missioni estere, in realtà di supporto e che ignora del tutto la creazione di una forza militare autonoma posta a difesa dei confini territoriali europei.

“Italia e il Mondo”nel proprio piccolo, grazie in particolare agli articoli di Luigi Longo, ha cercato di smontare nel merito questa immagine sottolineando in particolare la coincidenza dei progetti infrastrutturali europei con gli interessi strategici e di riorganizzazione della NATO; ci stanno ora pensando in grande gli stessi artefici principali della costruzione europea a demolirla assieme al giocattolo stesso. Un gioco rischioso che intanto di fatto mette in imbarazzo e erode ogni sponda a quella componente europeista, di impronta radicale e progressista, che fonda la propria fedeltà al progetto sul carattere endogeno della formazione e sul potenziale offerto di autonomia politica dell’istituzione rispetto a tutte le grandi potenze, compresi gli stessi Stati Uniti.

LO STATO dell’ARTE

Un gioco rischioso appunto, che rischia di creare problemi ben più gravi di quanti ne possa risolvere, ma non per questo meno sagace ed articolato.

Gli Stati Uniti, i loro centri decisori in particolare, hanno diversi problemi strategici di fondo da risolvere:

  • la individuazione e la scelta del nemico principale da affrontare con una strategia coerente. Questo nemico sta diventando oggettivamente la Cina in uno scenario nel quale sta emergendo e riemergendo l’intraprendenza di numerosi attori regionali ed alcuni “quasi globali”, come la Russia; in una situazione però nella quale gli Stati Uniti hanno grosse collusioni e interdipendenze nella Cina stessa e della cui ascesa a potenza sono di fatto uno dei principali responsabili assieme alla geniale abilità della classe dirigente mandarina;

  • il baricentro politico e militare statunitense è orientato ancora prevalentemente in Europa, area da cui trae la maggiore forza politico-economica e la maggiore capacità pervasiva; lo rimarrà per altro ancora per molto tempo. La resilienza ormai settantennale di questo enorme coagulo di potere ha consentito la formazione di potenti ed imprescindibili centri decisionali e di apparati di potere in grado di condizionare e decidere degli orientamenti e dello scontro politico interno agli Stati Uniti, come si è visto apertamente durante i quattro anni di presidenza Trump; centri difficili da scalzare, ridimensionare e riorientare a seconda delle necessità e delle condizioni;

  • gli Stati Uniti dispongono, in termini relativi, non assoluti, di una minore quantità di risorse materiali e umane rispetto ai numerosi fronti che si stanno aprendo e al peso degli avversari in lizza ferma restando la ancora sostanziale superiorità tecnologica, economica ed operativa. Sono ancor meno in grado di sostenere più di un confronto militare diretto e di gestire soprattutto l’esito dello scontro;

  • gli Stati Uniti, sfortunatamente per i loro centri decisori ancora prevalenti, fortunatamente per il resto del mondo, stanno vivendo una situazione interna nella quale gran parte, forse la maggioranza della popolazione è nettamente contraria ad ulteriori impegni militari diretti sul terreno e dotata di una superiore consapevolezza, rispetto agli europei, delle implicazioni interne della collocazione e delle scelte geopolitiche del paese. Questo grazie soprattutto alla evidenza e alla violenza dello scontro politico in atto, alla pesantezza in termini di squilibri delle conseguenze delle dinamiche concrete della globalizzazione; alla formazione infine di una sorta di platea magmatica particolarmente inquieta e manipolabile sempre più legata ad una visione assistenziale dei diritti.

In tale contesto, in attesa che lo scontro politico interno, nient’affatto sopito, si delinei e risolva più chiaramente, nella sua sostanza quindi sciolga il dilemma tra una delimitazione della propria sfera d’influenza accettando la condizione multipolare oppure la conferma della propria ambizione egemonica mondiale, ai centri decisori americani non resta che rifugiarsi sempre più nel modello egemonico britannico del secolo XIX teso a giocare sulle rivalità e a creare un equilibrio nel quale fungere da arbitro-giocatore senza eccessive esposizioni militaresche.

Da questo punto di vista il gioco europeo assume caratteristiche particolarmente complesse e sofisticate; di questo vissuto si alimenta anche la Alleanza Atlantica.

ESEMPI DI PERVICACIA

Le dinamiche in corso, compreso il manifesto programmatico appena illustrato, accrediterebbero la parvenza di autonomia istituzionale e di esercizio di sovranità della NATO; un accredito sempre in voga tra i fautori e gli esorcisti del governo mondiale.

Niente di più ingannevole.

La NATO rimane una alleanza militare con precise gerarchie interne attraverso le quali la potenza egemone americana esercita uno stretto controllo sugli alleati; le uniche libertà che possono esercitare entro certi limiti i paesi subalterni sono quelle di astenersi dalle azioni, ma mai e poi mai di agire in contrasto.

Si tratta però di un esercizio molto sofisticato, dai meccanismi assunti ormai quasi naturalmente e dove l’uso dell’imposizione esplicita pende sulla testa, ma solo come estrema ratio; un esercizio che agisce soprattutto per vie interne o sfruttando i dualismi presenti in un continente così affollato e variegato o ancora attraverso il sistema di relazioni bilaterali dirette.

Già di per sé sarebbe sufficiente osservare la localizzazione della sede di comando militare (Norfolk-USA) e il centro di elaborazione strategica della NATO e a chi deve rispondere direttamente il comandante militare.

Per chi non dovesse accontentarsi vi sono numerosi esempi di tecniche avvolgenti a conforto:

  • si parla di creare un complesso industriale-militare europeo a sostegno delle forze militari europee con il patrocinio della UE ed un primo significativo sforzo di 17 miliardi di euro? Arriva la batteria di paesi filogermanici che riescono a ridurre l’investimento a 7 miliardi e la cancelliera Merkel che esorta ad essere “inclusivi” e ad inserire le industrie americane nel pool;

  • alcuni paesi europei si avventurano a creare con successo un sistema di posizionamento satellitare simile e più efficiente del GPS (Galileo)? Il bon ton non consente sgarbi e dinieghi di principio; il prezzo dell’accoglienza è però il divieto di utilizzo del sistema a fini militari;

  • qualcosa di analogo accade con AIRBUS, nato con la contrarietà della Commissione Europea, sviluppatosi per altro quasi esclusivamente nel settore civile, incappato nello spionaggio industriale americano grazie alla posizione equivoca del proprio ex-amministratore delegato tedesco, successivamente nelle grinfie delle sanzioni economiche statunitensi per quegli stessi finanziamenti pubblici dei quali fruiscono le imprese aeronautiche americane dal proprio governo;

  • si tratta di sviluppare tecnologia “atlantica”, di creare addirittura una DARPA ( agenzia per le applicazioni miste civili-militari delle tecnologie) della NATO? L’Alleanza decide di creare il centro più importante a ridosso di quello francese, a controllarne ed assorbirne le attività. Tutto questo dopo che il governo francese, lo stesso Macron, ha consentito la cessione di ALSTOM energia, una azienda strategica nel settore nucleare civile e militare, alla General Electric americana e quest’ultima, a pochi mesi dall’acquisizione, ha annunciato la chiusura del suo centro ricerche nei pressi di Parigi con il suo corredo di novecento dipendenti altamente qualificati;

  • la NATO decide di creare qualche decina di centri operativi e logistici sparsi per l’Europa? Guarda caso chi riesce a far man bassa degli incarichi di direzione, in particolare i più strategici, è la Germania con il corollario dei paesi più germano-americanofili; il paese più debole militarmente e più occupato e infiltrato, in termini assoluti e relativi alla potenza economica, soprattutto nei settori della sicurezza, della difesa, dell’intelligence e della comunicazione;

  • Francia e Germania decidono a più riprese di creare una forza militare comune, una prima volta a ridosso dell’intervento nei Balcani negli anni ‘90? Puntualmente queste iniziative non riescono a decollare, mentre funzionano le collaborazioni tedesche con olandesi, cechi ed altri;

  • Francia e Germania decidono di incontrare Putin a ridosso del G7, vista l’analoga iniziativa di Biden? Puntualmente arriva la retromarcia per l’opposizione vivace di paesi dell’Europa Orientale russofobi, debitamente incoraggiati e sostenuti da inglesi, americani e tedeschi.

L’elenco potrebbe proseguire. Le costanti sono il ricorrente cedimento pubblico di tutti e il tornaconto politico ed economico della propria subalternità che riesce ad ottenere la classe dirigente tedesca, compresa qualche fregatura di successo come le acquisizioni in America della Bayer tedesca. È accaduto all’inizio del periodo esaminato con la guerra nei Balcani; è riconfermato appena adesso con il clamoroso via libera americano al Northstream II, dopo la beffa al diniego del Southstream all’Italia di cinque anni fa. Un chiaro messaggio a Putin di garanzia almeno temporanea di statu quo e la concessione di un ulteriore strumento di controllo tedesco, per conto terzi, della platea europea utilizzando lo strumento strategico della rete energetica.

RIMOSTRANZE e DETERMINAZIONE

Non si tratta di proseguire nelle rimostranze più o meno violente nei confronti degli americani. Le rimostranze sono comunque un segno di subalternità e di debolezza. Le classi dirigenti e i centri decisori statunitensi fanno semplicemente il loro mestiere; riescono ancora a sfruttare egregiamente in Europa il successo politico-militare ottenuto nella seconda guerra mondiale e con l’implosione della Unione Sovietica; sono stati capaci di proporsi positivamente, offrendo in cambio di subordinazione politica, un modello economico e culturale altrettanto subordinato ma di successo e proficuo anche per i subordinati pur con evidenti segni di crisi e decadenza. Modelli in larga misura adottati da quegli stessi paesi che si stanno ergendo ad alternativa geopolitica.

Una proposta positiva, proattiva che non si è ancora esaurita.

Gli indirizzi di movimento geopolitico non sono solo una presa d’atto e un utilizzo, a mo’ di constatazione, dei dualismi geopolitici presenti in Europa con i paesi dell’Est impegnati in prima linea contro la Russia e la triade italo-franco-tedesca distolta dalle tentazioni di pacificazione con i russi e indotta a limitare le potenziali relazioni strategiche con la Cina, trascinata com’è, con la complicità britannica, nella partecipazione militare marittima e in futuro aerea nel Pacifico. La Francia e la Gran Bretagna, per inciso, hanno ancora corposi interessi in quell’area.

Si tratta di qualcosa di più propositivo e complesso. Si tratta di assecondare e vellicare, in condizioni di aperta dipendenza politico-militare, le ambizioni politiche e geopolitiche della triade, soprattutto di Francia e Germania, nelle loro aree tradizionali di influenza, il Vicino Oriente, il Mediterraneo, l’Africa Sahariana e Sub-sahariana, in modo tale da evidenziare il loro contrasto di interessi con la Cina e la Russia in quelle aree. L’impressione è che sia ancora la Germania il fulcro sul quale gli statunitensi agiranno principalmente per mantenere le redini del gioco. Sta di fatto che gli Stati Uniti devono risolvere un problema di fondo ancora più complicato. La NATO nel Pacifico per ovvi motivi logistici e di geografia potrà svolgere una funzione pur importante di supporto; lo zoccolo duro delle alleanze e il teatro delle operazioni dovrà essere costruito soprattutto con gli stati e i paesi posti sul Pacifico con dinamiche affatto diverse da quelle adottate in un continente simile culturalmente e particolarmente frammentato politicamente. Non sarà semplice condurre rigorosamente al proprio gioco giganti come l’India e i paesi del Sud-est asiatico i quali si sono guadagnati recentemente l’indipendenza a scapito degli occidentali e tessono rapporti importanti con il vicino rivale.

Il nodo da sciogliere e l’ostacolo da affrontare sono le classi dirigenti, i centri decisionali e i ceti politici unionisti e dei singoli paesi europei; soprattutto la doppiezza di quelli tedeschi. Non tanto quelli politico-economici particolarmente adatti a sfruttare gli spazi ed interstizi offerti dalle congiunture politiche e ad adagiarvisi; non ha caso in questi i tedeschi non conoscono rivali. Quanto quelli presenti negli altri ambiti, particolarmente in quelli prettamente politico-istituzionali. Coaguli abbarbicati inesorabilmente a questo sistema di relazioni dal quale traggono forza e ragion d’essere.

Basterebbe ricordare la determinazione e il sollievo con i quali hanno contribuito a chiudere la parentesi di Trump, ovverossia della finestra e dell’occasione più eclatante di potersi ritagliare la propria autonomia.

L’evolversi delle dinamiche interne alla NATO cercheranno di accrescere l’incisività della sua azione, ma porteranno in seno alla alleanza militare competenze e funzioni in parte esorbitanti la missione propria dell’organizzazione e con la corrispondenza in senso sempre più univoco delle sue relazioni con gli stati nazionali e soprattutto con le strutture della UE la priveranno sempre più di uno scudo ed una maschera sino ad ora particolarmente efficaci ma in via di logoramento.

Cogliere queste dinamiche e approfittare degli spazi che inevitabilmente si apriranno in forme inedite comporta l’evaporazione di due illusioni ben radicate sia nelle componenti più servili per giustificare le proprie implorazioni che in quelle “sovraniste” più o meno presenti nei paesi europei, ma particolarmente strutturate in Francia in settori chiave, che confidano nella facilità di strade aperte generosamente dai liberatori:

  • che saranno gli statunitensi ad allontanarsi di buon grado dall’Europa e dagli europei

  • che gli sforzi di autonomia ed indipendenza politica e geopolitica comporta una sagacia e degli sforzi economici e socio-politici non particolarmente impegnativi e difficilmente perseguibili senza una particolare coesione politica.

In questo contesto è comunque possibile una azione politica interna a queste organizzazioni; deve servire però ad inibire ulteriori processi di subordinazione e soprattutto di integrazione tali da perpetuare a costi inferiori il predominio e rendere sempre più difficoltoso l’eventuale districarsi dal groviglio, piuttosto che puntare su velleitarie riforme ormai storicamente rivelatesi un fattore di paralisi o di mistificazione opportunista. Su queste basi sarà possibile determinare su basi più paritarie e di confronto i rapporti con la Cina e la Russia, ma anche con gli stessi Stati Uniti.

Contribuirebbe certamente a far uscire gli Stati Uniti da una impasse e una incertezza particolarmente rischiose per il mondo e favorevole ad incontrollati colpi di mano di centri decisori fuori controllo. Di seguito offriremo la traduzione di un articolo di “Foreign Affairs” particolarmente illuminante in proposito.

https://www.consilium.europa.eu/media/50361/carbis-bay-g7-summit-communique.pdf

https://www.nato.int/nato_static_fl2014/assets/pdf/2020/12/pdf/201201-Reflection-Group-Final-Report-Fre.pdf

file:///C:/Users/admin/Downloads/OF0116825FRN.fr.pdf

https://www.nato.int/cps/en/natohq/news_185000.htm

https://www.foreignaffairs.com/articles/united-states/2021-08-04/right-way-split-china-and-russia

https://www.startmag.it/mondo/cina-russia-cyber-e-non-solo-ecco-cosa-scrive-la-nato/

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