Il discorso di Conte, di Alessandro Visalli

Il discorso di Conte: coronavirus e cronache del crollo.

Raramente, forse mai, un momento così solenne è stato fatto oggetto di un discorso così inadeguato. Mai in tempo di pace un’intera nazione era stata fermata, limitati gli spostamenti da paese a paese, da città a città, chiusi gli esercizi ad orario da coprifuoco, ostacolati i normali spostamenti, impedite le manifestazioni e qualunque riunione, dai matrimoni alle funzioni religiose, ai funerali.

Mai in tempo di pace.

Perché, in effetti, non siamo più in tempo di pace.

Qualcuno ci ha dichiarato guerra. E non è stato il coronavirus.

Lui non è neppure un essere vivente, e non è tanto meno un’individualità (si tratta di una nuvola di virus a Rna, continuamente mutanti). Il coronavirus si sta semplicemente adattando ad un nuovo ambiente, essendo ‘saltato’ dal vecchio ospite ad un altro. Non è una cosa particolarmente strana, noi conviviamo con miliardi di organismi, batteri e virus, che sono integrati nel nostro organismo, ma questo è nuovo.

Quella che ci ha dichiarato guerra è la nostra stessa follia. In linguaggio informatico sarebbe un difetto di sistema. Aver per decenni ridotto la spesa sanitaria, portandola sotto il livello di un paese a reddito pro capite medio come la Cina, eliminato quasi tutti i servizi territoriali di prevenzione, ridotta la pubblica amministrazione sotto la media europea (16% dei lavoratori). Solo Germania, Lussemburgo e Olanda hanno meno dipendenti pubblici, paesi come la Scandinavia ne hanno il doppio. In generale siamo alla metà dei paesi nordici, il 14% dei dipendenti, per 3,2 milioni di addetti. Per fare un paragone con paesi simili, la Spagna ne ha il 15% e la Francia ben il 22%. Portarci al livello della famosa burocrazia e livello dei servizi pubblici francesi significherebbe, dunque, assumere 1,5 milioni di addetti, portarci intanto alla media europea corrisponderebbe a 0,4 milioni di assunzioni urgenti.

Se avessimo più di 3.000 dispositivi di respirazione assistita, più di 5.000 posti letto in rianimazione (300 in Campania), più di 100.000 medici specializzati, se avessimo i 50.000 infermieri che mancano alle piante organiche, o non avessimo chiuso per risparmiare centinaia di presidi ospedalieri, soprattutto al sud, ora potremmo offrire soccorso.

Non capiterebbe, come ho sentito su You Tube[1], che una povera donna con complicazioni neurologiche possa ammalarsi a casa e non ricevere nessun soccorso e quindi possa morire soffocata dopo solo due giorni. Non so se è vero, probabilmente no, ma potrebbe facilmente diventarlo tra breve.

Dunque siamo in guerra.

Il 13 maggio 1940 il primo ministro britannico, appena nominato, pronuncia un drammatico discorso alla Camera dei Comuni, nella quale annuncia “blood, toil, tears and sweat”. Non promette altro che “molti, molti lunghi mesi di lotta e sofferenza”, ma anche lo scopo della lotta: “la vittoria”, per la sopravvivenza.

Le cose stanno così. Anche noi dobbiamo vincere perché se riusciamo a non lasciare nessuno indietro, a prestare soccorso anche all’ultimo, a stringere il meno fortunato nel nostro abbraccio, allora sopravviveremo come nazione e sapremo di avere uno Stato.

Nel post “Coronavirus, cronache del crollodi ieri raccontavo di chi ci ha portati in questa guerra. Un sistema economico completamente privo di capacità di assorbire shock di questo genere nel quale tutte le catene di fornitura e produttive, di tutti i beni e servizi, sono ormai estese a livello mondiale ed interconnesse, nel quale nulla o quasi si può produrre senza ricevere componenti, materiali, competenze da qualche altra parte del mondo, spesso a grandissima distanza. Un sistema nel quale l’intera catena economica è eterodiretta, dai centri decisionali delle multinazionali, o dipende per segmenti decisivi da fornitori che non possiamo controllare. Dunque, un modello insostenibile sotto il profilo ambientale e fragilissimo sotto quello economico. Che è stato interamente ed unicamente costruito, in una lunga fase di follia e debolezza degli Stati, per sfruttare fino all’ultimo centesimo i differenziali di prezzo e di potere che il capitale mobile riusciva a estorcere a lavoratori deboli o a imprese subordinate[2].

Come si reagisce in guerra, una volta che si è capito chi è il nemico?

Ricordando chi si è. Noi, il popolo, siamo tutto. Loro, i lontani contabili ed i vicini servi del profitto e delle rendite, sono niente.

È quindi ora di combattere. Ed è ora che la nostra casa comune apra le sue porte, che accolga tutti e non lasci fuori, al freddo, nessuno.

Quando si è in guerra si fanno misure da guerra. È il momento, non si può aspettare, il paese non può aspettare l’autorizzazione. Non può aspettare che il nemico si impietosisca. Quando persino il direttore del Sole 24 ore, in televisione, dice che l’Italia deve andare per conto suo se l’Europa tentenna[3], è chiaro che chi parla di compatibilità con l’astratta contabilità da bottegai germanica deve essere trattato come un traditore della patria nell’ora più buia.

Vediamo che sta succedendo.

Provo a fare uno schema, basandomi su un modello[4] a quattro settori del sistema economico italiano: “stato”, “famiglie”, “imprese”, “estero”. Schematicamente: lo Stato spende 500 miliardi, incassandoli con le tasse ed impegna 3 milioni di lavoratori[5]; Il settore delle famiglie spende 1.000 miliardi di consumi e riceve due terzi di questa somma dalle imprese per lavoro dipendente ed il resto dallo Stato o sotto forme di lavoro autonomo e professionale o per redditi da capitale[6]; Il settore delle imprese (70% di servizio) produce valore aggiunto per 1.780 miliardi ed impiega 17 milioni di lavoratori. Dal settore estero sono importati 510 miliardi di beni e servizi ed esportati 560 miliardi.

Ora, immaginiamo che le misure adottate (“zona rossa” estesa all’intero paese, limitazioni nella circolazione, chiusure selettive), comportino a partire dall’immediato e poi progressivamente per sei mesi un calo del 50% del commercio all’ingrosso e dettaglio, del 10% dei servizi alle imprese e del 20% dei settori professionali[7]. Sul montante complessivo dei redditi delle famiglie l’impatto diretto potrebbe essere qualcosa nell’ordine del 5%. Calcolando un moltiplicatore ragionevole potrebbe salire al 6-8%. Questo impatto si ripartirebbe come impulso deflazionistico per metà all’estero, riducendo le importazioni (ma dall’estero potrebbero arrivare analoghi input, man mano che l’epidemia procede negli altri paesi), e per metà sul mercato interno.

Potrebbe valere in modo grezzo qualcosa come 3 punti di Pil, e comportare nuovi disoccupati pari a 2 milioni di persone.

Ma ciò solo se il sistema delle imprese produttive (30% del valore aggiunto, 5 milioni di addetti diretti) non viene toccato e se la logistica resta non toccata dal crollo del commercio (in altre parole, se i flussi si spostano su altri canali di acquisto, ma le persone comprano). Facciamo l’ipotesi che, invece, il settore produttivo, messo in crisi dalla riduzione della mobilità personale e, in misura maggiore, dalle difficoltà della logistica integrata mondiale, abbia un massiccio calo congiunturale del 30% e, similmente, la logistica[8]. In questo caso l’impatto distruggerebbe 600 miliardi di valore aggiunto su base annuale (ovvero 300 in sei mesi) e una quota di investimenti. Ma avrebbe impatto anche sui 3,5 milioni di addetti diretti dell’industria e sul milione della logistica. Un crollo di questa misura si può stimare impatterebbe sul reddito degli addetti provocando un’ulteriore riduzione dei consumi, inoltre aggiungerebbe 1,5 milioni di disoccupati diretti. Trattandosi di posti di lavoro di buona qualità, questi potrebbero portare ad un impatto indiretto molto significativo.

Agendo sul monte complessivo dei redditi delle famiglie tutto ciò potrebbe impattare in modo analogo per un altro 4% di Pil in meno, che con lo stesso moltiplicatore salirebbe al 7-8%. L’impulso deflazionario complessivo che stiamo rischiando sarebbe quindi, con queste assunzioni, nell’ordine del 16% del reddito medio delle famiglie italiane.

Con questi scenari non è affatto improbabile una severissima recessione compresa tra quella del 2009 (perdita di 6 punti di Pil) e quella successiva del 2012-13 (perdita di 4 punti) ed i disoccupati salirebbero di quasi 4 milioni aggiuntivi.

Il punto è stabilire che manovra dovrebbe fare un governo all’altezza del momento per fermare una valanga che si propagherebbe come fuoco nella steppa, attraverso il calo della domanda. In parte potrebbe riassorbire qualche quota di disoccupazione con assunzioni di emergenza nella sanità (che ha 0,6 milioni di addetti) in modo da poter garantire il soccorso necessario a ciascuno, e nei servizi sociali e tecnici. Ma difficilmente in tempi rapidi si potrebbe andare oltre poche centinaia di migliaia di assunzioni, e il gap con la Francia non potrebbe essere colmato.

Dandosi nel medio periodo l’obiettivo di arrivare a 1,5 milioni di assunzioni aggiuntive nella P.A., bisognerebbe però, subito, compensare almeno il 75% del calo dei redditi cumulato che potrebbe essere stimato, se va bene, a 90 miliardi complessivi in sei mesi, ovvero compensare 15 miliardi al mese. Ciò oltre un danno fiscale di circa 40 miliardi, 6 al mese[9]. Inoltre, sono indispensabili investimenti urgenti nella sanità per alcuni miliardi.

La misura macroeconomica della manovra dovrebbe essere dunque di oltre 110-130 miliardi, ovvero quasi 20 miliardi al mese in media. Naturalmente tali somme andrebbero impegnate progressivamente, solo man mano che gli impulsi di crisi, propagandosi, richiedano interventi correttivi e compensativi[10]. Di questi almeno 10 miliardi al mese dovrebbero essere destinati al sostegno del reddito.

Questo per combattere la guerra.

Ma come usarli in modo sia efficace sia equo? Oltre agli investimenti diretti nella sanità, bisognerebbe investire risorse in attività capaci di colpire l’occupazione potenzialmente lasciata libera dalla contrazione, nella produzione socialmente e tecnicamente necessaria, nella riorganizzazione della distribuzione, nei servizi civili, …

Ricapitoliamo, se vogliamo vincere dobbiamo, e man mano che si rende necessario:

  • Investire con modalità di urgenza tutte le somme necessarie nella sanità, dando priorità alle macchine salvavita, ai Dpi, al personale medico ed infermieristico, quindi alle strutture, ai centri territoriali, ai servizi sociali di prevenzione;
  • Requisire tutte le strutture disponibili, se necessarie ad erogare servizi indispensabili, soprattutto al sud;
  • Precettare tutto il personale necessario ad erogare i servizi di prima necessità;
  • Garantire con mezzi pubblici la distribuzione, precettandola o sostituendola, se le catene logistiche interne dovessero entrare in crisi;
  • Imporre alle industrie idonee, qualunque sia la nazionalità della proprietà, programmi di fabbricazione, fornendogli specifiche, assistenza tecnica, mandati, per rendere indipendente il paese delle principali forniture strategiche, partendo da quelle mediche, in considerazione del possibile crollo delle supply chain mondiali;
  • Nazionalizzare tutte le imprese, finanziarie o non, che dovessero entrare in crisi non risolvibile per effetto della crisi e quindi creare un veicolo di gestione delle imprese pubbliche e nazionalizzate, sul modello della vecchia Iri;
  • Per gestire tutto questo con il minimo dell’inefficienza, creare un centro di pianificazione di emergenza, dotato dei necessari poteri;
  • In favore del sostegno del reddito, sospendere immediatamente il pagamento dei mutui e degli affitti (provvedendo con risorse pubbliche ad attenuare l’impatto sulle controparti), per chiunque dichiari una riduzione del reddito superiore al 30%;
  • Integrare il reddito, con la Cig in deroga o Reddito di Cittadinanza straordinario, di chiunque dichiari una riduzione tra il 30% ed il 100% del reddito, fino al massimo di 1.000 euro;
  • Sospendere per sei mesi in modo generalizzato i pagamenti fiscali a tutti i cittadini ed a tutte le imprese con un fatturato inferiore a una soglia da definire;
  • Sospendere per tre mesi ogni rateizzazione, a qualsiasi titolo;
  • Sospendere, e poi revocare, tutte le normative europee che fossero in conflitto con queste misure di emergenze, necessarie per la sopravvivenza della nazione;
  • Sospendere, e poi revisionare profondamente, la normativa bancaria di Basilea;
  • Sospendere, e poi revocare, il Mes.

Questo è il minimo per continuare ad essere un paese civile.

 

[1] – Questo video: https://www.youtube.com/watch?v=ZgJHdun0TGs

[2] – Inoltre questo modello è esattamente lo stesso che ha compresso per decenni il reddito e l’indipendenza dei lavoratori in occidente, rendendo ovvio che la maggior parte delle persone viva con contratti senza protezioni, precari, a tempo, con singole settimane di risparmi, sovraindebitati. Fa stare l’economia in costante stato di carenza di domanda, per cui i prezzi dei beni di prima necessità continuano a calare, e tutti coloro che li producono sono giorno dopo giorno alla disperata ricerca di un modo di risparmiare qualche costo di produzione, anche se comporta andarsi a cercare un fornitore dall’altra parte del mondo che costa il 2 per cento meno di quello sotto casa, che chiude. È così che ci siamo trovati senza mascherine.

[3] – Fabio Tamburini su La 7: “Se l’Europa continua a tentennare segna la sua fine, ed è giusto che l’Italia vada per conto suo. [..] I soldi per salvare le banche sono stati trovati ora vanno trovati per salvare l’economia reale”.

[4] – Alcuni dati: http://dati.istat.it/Index.aspx?DataSetCode=DCCN_PILN; http://dati.istat.it/Index.aspx?QueryId=20596; https://www.eticapa.it/eticapa/quanti-sono-e-quanto-costano-gli-impiegati-pubblici-italiani/;

[5] – Si veda http://www.rgs.mef.gov.it/VERSIONE-I/attivita_istituzionali/formazione_e_gestione_del_bilancio/bilancio_di_previsione/bilancio_semplificato/ lo Stato spende 500 miliardi all’anno di spese correnti e 78 di interessi quota parte (49) dei 320 miliardi di investimenti, inoltre impiega 3,2 milioni di lavoratori, riceve un totale di 510 miliardi di tasse (260 dalle imprese), cui vanno aggiunti 65 miliardi di entrate non tributarie.

[6] – 700 miliardi di redditi da lavoro dipendente dalle imprese, 150 dallo Stato, oltre che, probabilmente, 150 da lavoro autonomo e professionale. Si possono stimare per differenza 200 miliardi di reddito da capitale e rendite. Infine, questo settore paga circa 250 miliardi di tasse.

[7] – Il commercio, secondo alcune stime, vale qualcosa come 190 miliardi, i servizi alle imprese 50 e i servizi professionali altri 60 miliardi. Un impatto del genere sui redditi degli addetti diretti alle filiere coinvolte impatterebbe per ca. 100 miliardi e potrebbe produrre, al netto delle tasse, una riduzione dei consumi stimabile in ca. 50 miliardi per sei mesi. Poi c’è l’impatto sul rilevante settore del turismo, se non altro per differimento e rinvio di vacanze.

[8] – Che vale almeno altri 100 miliardi.

[9] – Queste stime sono ottenute dalle assunzioni di cui sopra, su dati Istat 2019, e valutando prudenzialmente un basso contagio intersettoriale, oltre una limitatissima trasmissione di impulsi di crisi dall’estero.

[10] – Chiaramente il proporzionamento della manovra non è un compito espletabile con le poche informazioni disponibili e senza l’ausilio di un modello di simulazione adeguato, che non sia, ovviamente escludendo modelli di “output gap” e modelli dell’equilibrio generale, come quelli impiegati nelle Banche Centrali, o al Ministero delle Finanze, noti per fallire sistematicamente le previsioni.

https://tempofertile.blogspot.com/2020/03/il-discorso-di-conte-coronavirus-e.html

CONTRO IL LIBERALISMO 2 – RISPOSTA A GAMBESCIA, di Teodoro Klitsche de la Grange

CONTRO IL LIBERALISMO 2 – RISPOSTA A GAMBESCIA

Caro Carlo,

rispondo al cortese intervento sul tuo blog del 6 marzo u.s..

In primo luogo quando scrivo nella mia recensione di “usuali deprecazioni, anatemi ed esorcismi, come capitato (in Italia da ultimo circa un anno fa)” mi riferivo al noto episodio dell’invito (rivolto se, ben ricordo, dalla Feltrinelli) a De Benoist, poi annullato per le “contestazioni” di insegnanti di sinistra, e non alla Tua recensione, dotta e ragionata, non come quelle dei contestatori “a prescindere”.

Quanto al resto, ritengo di essere da sempre un seguace del liberalismo “triste”, che a me piace chiamare “forte”: ossia quello che non dimentica né la realtà e la storia, né i presupposti del politico, cioè le regolarità, le leggi sociologiche che non solo Miglio ma, come puoi leggere dalla mia recensione, anche il giovane V. E. Orlando (nel 1881) riteneva ineluttabili, che (anche) il giurista non può accantonare.

E venendo ad Orban, Ti posso rimandare per un’analisi più dettagliata al mio articolo “Costituzione ungherese e Stato di diritto” pubblicato da “Italia e il mondo” nel gennaio 2019 e mesi dopo, col titolo: “Attacco alla costituzione ungherese” su stampa da Nova Historica, in cui analizzavo la risoluzione del parlamento UE per la procedura d’infrazione all’Ungheria per violazioni dello “Stato di diritto” (ecc. ecc.).

Da tale risoluzione risulta che lo Stato di diritto ungherese era messo in pericolo da:

  1. a) l’assenza nei sussidiari ungheresi di immagini di famiglie omosessuali (del tipo Tognazzi e Serrault nel “Vizietto”).
  2. b) Dal fatto che i vigili urbani di un paese ungherese elevavano troppe contravvenzioni ai rom.
  3. c) Dal fatto che la Corte EDU avesse condannato l’Ungheria per la brutalità della polizia nel respingere i migranti.
  4. d) Dall’abolizione del ricorso diretto alla Corte Costituzionale (mentre nel ventennio circa – dopo il crollo del comunismo –era stato in vigore). Ma anche in Italia ai cittadini non è dato adire direttamente la Corte Costituzionale (come avviene per il TAR, p.es.) e all’UE nessuno ne mena scandalo; come neppure del fatto che l’Italia sia stata condannata dalla Corte EDU per la brutalità nella repressione e le torture poliziesche a Genova nel 2001 (e perché non aprono la procedura d’infrazione?). Peraltro, non è stato notato che la Costituzione ungherese prevede oltre a quelle “classiche” un’istituzione di garanzia che manca in quella italiana: il difensore civico.

Penso che risoluzioni come questa non colgono l’obiettivo esternato, ma servono più che altro alla guerra (psicologica) delle elite decadenti.

Più meritatamente una procedura d’infrazione spetterebbe all’Italia della Seconda Repubblica che, tante volte sanzionata dalle Corti europee (sia la Corte EDU che la Corte di Giustizia) ha poco o punto cambiato l’abitudine di conculcare i diritti, anche quelli più elementari, dei cittadini.

Per questi, e altri fatti e i correlativi comportamenti strabici della UE mi chiedevo se quello che dispiaceva tanto della Costituzione Ungherese fosse invece che, nella stessa, era ben chiaro e solennemente affermato la centralità del popolo e ancor più la continuità storica della comunità nazionale, a partire da Santo Stefano d’Ungheria.

Dichiarazioni che, specie la seconda, difficilmente si trovano in documenti analoghi, ma sono nient’altro che l’enunciazione di un fatto: che l’esistenza di una comunità è il presupposto dello Stato, anche quello “borghese di diritto”. Spesso attualmente dimenticato. E che, aimè, contribuisce a spoliticizzare ed emasculare il liberalismo. È esatta, a mio avviso, la critica di Schmitt che questo non fonda un potere, ma lo limita; per cui il liberalismo forte è quello che riconosce il nemico nell’oppressore delle libertà (politica, in primo luogo) e delle garanzie di queste. Ma se il nemico dei liberali non è più chi conculca la libertà ma diventa chi difende la famiglia tradizionale, i rapporti comunitari e la comunità, ciò non significa altro se de-politicizzare il liberalismo (chi difenderà la libertà politica, se neppure i liberali lo fanno?), e, ancor più, compiere l’errore più grave in politica: quello di identificare il nemico sbagliato. Quanto alla mafiosità di Orlando ritengo che la Sicilia abbia dato alla cultura tre dei maggiori esponenti del diritto e della scienza politica a cavallo del XIX e XX secolo: Gaetano Mosca, V.E. Orlando e Santi Romano. Sono orgoglioso che fossero italiani e non mi interessa cosa nelle loro azioni o scritti può essere valutato prossimo all’ “onorata società” (anche qualche affermazione di Santi Romano è imputata di “mafiosità”).

Ricambio i saluti, con immutata stima ed amicizia.

Teodoro Klitsche de la Grange

In calce il testo di riferimento di Carlo Gambescia

https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2020/03/storie-di-liberalismo-e-di-amicizia-una.html?spref=fb&fbclid=IwAR2_qadultF2O4tJ9h5qt8k31lOLjqJpJIIM0Vr3sl4l_LAyEP-vbt8AbNg

Coronavirus, politica e geopolitica, con Piero Visani e Gianfranco Campa

Qui sotto una conversazione con Gianfranco Campa e Piero Visani, registrata una settimana fa, sulle pesanti implicazioni politiche e geopolitiche della pandemia ormai in corso. L’Italia è ormai uno dei paesi più esposti ma la crisi è destinata a coinvolgere drammaticamente sempre più paesi e contribuirà a sconvolgere ulteriormente gli equilibri. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

Il Fiero Pasto, di Giuseppe Masala

Qui sotto alcune pregnanti riflessioni di Giuseppe Masala. In questi giorni si sono susseguiti gli appelli e le stigmatizzazioni per indurre tutto il paese e le forze politiche ad adottare uno spirito unitario e di concordia nazionale indispensabile a fronteggiare l’emergenza sanitaria. Emergenza che allo stato riguarda la contagiosità piuttosto che la letalità del virus. Appelli che poggiano in gran parte su un equivoco più che mai deleterio e subordinato a dinamiche politiche potenti. La diffusione del corona virus e la gestione dell’emergenza sanitaria sono l’occasione e lo strumento per rideterminare i rapporti di forza e le relazioni geopolitiche. Da una parte il colpevole ritardo della Cina nel comunicare ed affrontare l’epidemia. Nella fattispecie vediamo che per ragioni di gestione interna e di implicita attribuzione a soggetti esterni, gli untori di turno, delle responsabilità della diffusione, tra questi numerosi paesi europei, in particolare Francia e Germania si adoperano a nascondere, minimizzare e manipolare i dati di contaminazione del virus nei propri territori nazionali; dall’altro i suddetti, spalleggiati tempestivamente dai funzionari della Unione Europea, stanno spingendo per l’approvazione definitiva entro metà marzo del MES2 ed una accelerazione della Unione Bancaria. Due trattati particolarmente deleteri per il nostro paese, in particolare nell’attuale contingenza. Una operazione di vero e proprio sciacallaggio del resto consueta nel sistema di relazioni internazionali. Per quanto riguarda le dinamiche politiche interne al paese, i provvedimenti del Governo sono comunque il frutto di pressioni, punti di vista ed interessi contrastanti; ne parleremo a tempo debito. Stanno evidenziando le crepe e le disarticolazioni delle quali soffre particolarmente il nostro apparato statale ed amministrativo. Ancora una volta anzichè a un Giuseppe, continuiamo ad assistere a più “Giuseppi”, di Mattei ne abbiamo già almeno due; bastano ed avanzano. A questo punto un Governo che si vorrebbe di “afflato nazionale”, che invoca la concordia nazionale, che cerchi piena legittimità ed autorevolezza, dovrebbe contraccambiare la richiesta di responsabilità con l’accantonamento quanto meno delle scelte più divisive del paese e delle forze politiche. Il MES2 e l’Unione Bancaria sono appunto tra le scelte più divisive e su questo le forze di governo sembrano troppo ben disposte a cedere e accondiscendere. La gestione interna dell’emergenza sta assumendo toni contraddittori e ormai grotteschi. Il virus segue certamente una logica ed una dinamica più potente delle intenzioni politiche, anche le migliori; la contraddittorietà, la comunicazione e l’uso spesso maldestri dei provvedimenti sono il frutto di un progressivo disordine istituzionale ormai ultratrentennale e di un senso civico ed uno spirito di unità nazionale quantomeno carente tanto da rendere improbo il sacrificio degli operatori impegnati nell’emergenza. Non pare proprio che questa classe dirigente, questo Governo e la stessa PdR siano in grado di contrastare queste dinamiche; ne sembrano piuttosto una espressione. Non riesce ad ottenere dai fratelli europei nemmeno forniture di mascherine, medicinali e disinfettanti, nè pare porsi il problema di cominciare a produrne in casa propria.  Pare piuttosto propensa a manipolare ad uso proprio le progressive limitazioni. Il potere è protezione, e la protezione implica sempre il dominio. Non esiste la decretazione d’emergenza che si basa sul “per favore”. Le talpe che hanno diffuso in anticipo il decreto governativo di ieri vanno individuate, sanzionate, esposte al pubblico ludibrio. Lo stesso vale per i fuggitivi. Se la situazione si fa seria, e pare sia così, il governo si avochi i poteri necessari, metta fine al disordine istituzionale, consultata l’opposizione nomini un responsabile esecutivo (meglio un militare). L’opposizione, in particolare la Lega, all’inizio dell’emergenza virus ha gravemente sbagliato, attaccando il governo e facendo leva sul disordine istituzionale nel tentativo di accedere al governo. Poi i sondaggi l’hanno informata che el pueblo non gradiva, e si è corretta. Ora fa benissimo a contestare con la massima forza il tentativo di far passare i provvedimenti dei cravattari della UE come il MES. Può dunque con piena ragione condizionare il suo indispensabile appoggio alla necessaria avocazione governativa dei poteri emergenziali. Niente MES, e responsabile esecutivo dell’emergenza scelto di comune accordo. Parafrasando Giuseppe Masala ” Se la prossima settimana a Palazzo Chigi ci fosse un Generale dei Carabinieri non mi stupirei”. L’importante è che non si chiami Pietro Badoglio._Giuseppe Germinario, Roberto Buffagni

Il Fiero Pasto.

Fonti dell’Eurogruppo hanno fatto sapere che è attesa l’approvazione definitiva della riforma del Mes (Meccanismo Europeo di Stabilità) per il 16 di Marzo. Ecco, allora, non è che ci vuole Nostradamus per capire che per l’Italia la firma del Mes significherebbe suicidarsi. Le nostre banche stanno crollando in borsa e conseguentemente lo spread Btp/Bund sta salendo. E’ evidente che avremo bisogno di finanziamenti e quelli della Bce sono vincolati all’attivazione del Meccanismo Europeo di Stabilità. Herr Weidman ha parlato chiaro: non sono all’orizzonte misure straordinarie di erogazione di liquidità da parte della Banca Centrale Europea. Letto in controluce significa: <<Chi ha bisogno di liquidità usi le procedure ordinarie attivando il Mes e firmando un Memorandum of Understanding in stile greco>>.

Ancora meno si può parlare di approvazione di norme capestro quali quella della dell’Unione Bancaria che prevedono la ponderazione del peso dei titoli di stato nazionali nel portafoglio titoli delle banche. Il cosiddetto doom loop tra banche e governi” è un concetto tortuoso e illogico che solo gli economisti – categoria maestra di pensiero gregario – può accettare. In una situazione di crollo generalizzato la logica dello spalmare il rischio sia nello spazio che nella diversificazione degli asset class non funziona: crolla tutto. Il concetto di Risk-Weighted Assets (RWA) è stato semplicemente demolito come concetto dal crollo del 2008. I tedeschi fanno finta di crederci e vorrebbero imporlo perchè è funzionale ai loro disegni. L’Italia ha un un’allocazione dei risparmi/capitali fortemente concentrata sui titoli di stato italiani e questa situazione va smontata (dal loro punto di vista) con la scusa dell’effetto contagio banche-governo. Ma le banche spagnole che hanno una distribuzione più incentrata sull’estero sono messe meglio? Non mi pare proprio, hanno centinaia di miliardi impelagati in quell’Argentina che non riesce manco a pagare le rate dell’FMI e in quella Turchia impegnata in due guerre a bassa intensità (Siria e Libia) e come se non bastasse che rischia uno scontro con la Grecia. E’ forse questa un allocazione delle risorse più razionale e meno rischiosa? Non mi pare proprio.

Perchè i tedeschi vorrebbero una allocazione meno incentrata sul nazionale da parte dell’Italia? Siamo alle solite: comportarsi alla prussiana mantenendo una parvenza di correttezza con la quale fare pistolotti morali agli altri. Ovviamente loro con questa manovra intendono attivare un meccanismo virtuoso per loro e mortale per l’Italia: convogliare verso gli assets tedeschi parte del risparmio italiano abbassando i tassi sui bund che sono già negativi e sottoponendo i capitali esteri che vi sono convogliati a una patrimoniale di fatto. Ovvero sia, le spese per l’emergenza sanitaria glielo pagano i risparmiatori italiani (che però non possono pagarle per se stessi). I tassi dei titoli italiani saliranno vista la mancanza dell’afflusso di risparmio italiano? Non c’è problema secondo loro, lo stato italiano può tranquillamente attivare il Mes firmando un Memorandum of Understendig che ci vincolerà per decine di anni a ciò che decide una società privata di diritto lussemburghese (questo è il Mes). Questo è il meccanismo. Non entro neanche nel discorso su come definire il vincolo del parlamento italiano e del governo alle decisioni di una società privata di diritto lussemburghese, dico solo che io nella costituzione italiana non vedo questa opzione che vincola il parlamento italiano nell’approvazione della legge finanziaria al placet di una società privata. Un colpo di stato bello e buono.

Semplicemente con l’attivazione di questo meccanismo mortale si vedrebbe la riedizione di quanto è accaduto con la crisi finanziaria partita nel 2008: il primo che cade viene usato come fiero pasto dagli altri che si rafforzano ed evitano così a loro volta di cadere semplicemente spolpando come degli avvoltoio il malcapitato. Chiedere ad Atene in cosa si sostanzia questo concetto. Solo che questa volta a rischiare di essere i primi a cadere siamo noi.

Scusate il sermone di primo mattino.

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NOTE A MARGINE
  • per amore di verità, spiega però che gran parte degli scenari che descrivi a partire dal secondo paragrafo fanno parte dell’Unione bancaria e non propriamente del MES2.
  • In realtà, il MES2 è preparatorio all’UB, va solo precisato che su quella l’Eurogruppo è ancora indietro. Ma non di molto. E con questo governo…
  • e si, le due cose vanno di pari passo….del resto è stato Conte a parlare di “logica di pacchetto” non avendo capito che è proprio il pacchetto che ci uccide…

tratto da https://www.facebook.com/bud.fox.58/posts/3078210225570615

CONTINUARE A RIFLETTERE MENTRE ACCADONO I FATTI, di Pierluigi Fagan

CONTINUARE A RIFLETTERE MENTRE ACCADONO I FATTI. Una settimana fa, scrivemmo un post sul fatto dei tempi, lasciando lì una domanda di accompagno allo svolgersi dei fatti: in che misura quanto sta succedendo cambierà la mentalità e poi le forme sociali, se le cambierà? Mi pare la domanda sia e sarà, a lungo, attuale. Vediamo allora, se qualcosa sta cambiando, cosa sta cambiando.

Al momento sta cambiando una cosa sola che però non è di poco conto. Stiamo mano a mano sapendo di non sapere. Il virus sta avendo una funzione socratica, almeno potenzialmente. Non sappiamo un sacco di cose, vediamo di farne un primo elenco:

1) Del virus non sappiamo l’origine. Le tesi possibili, al momento, sono due, l’origine animale e quella umana. Quella umana ipotizza il caso o l’intenzione deliberata. La prima possibilità, l’inavvertita fuga da un laboratorio mi pare molto improbabile, la seconda mi pare ancor meno probabile per varie ragioni, ma il post non è su quello che io penso a riguardo quindi lasciamo lì la pista. L’origine animale a sua volta, chiama due considerazioni. La prima, come alcuni stanno cominciando a fare, è sul quanto il cambiamento climatico ovvero il cambiamento degli equilibri dinamici delle ecologie, stia portando a contatto le specie in modo nuovo, contatto che forma le prime catene si trasmissione che poi arrivano all’uomo.

La seconda considerazione invece è più una constatazione, una deduzione cioè cosa certa eppure fintanto che viene espressa, non conosciuta esplicitamente. L’ha espressa ieri una biologa italiana “gli uomini sono animali”. Questo potente ritorno del biologico che riprende il dominio dell’immagine di mondo dopo esser stato a lungo chiuso in cantina mentre all’attico dell’edificio cognitivo il metafisico, l’economico e l’informatico si dilettavano a dar dell’umano astratte descrizioni ad hoc necessarie poi a sciorinare il loro discorso egemone, è il grande ritorno del principio di realtà. Si noti ad esempio come alcuni concetti di recente o meno recente, grande diffusione stiano cambiando significato: il virale ad esempio, la realtà aumentata, la sempiterna relazione problematica mente-corpo, l’altra sempiterna problematica relazione emozione-ragione, il presunto concetto di “singolarità”, il nostro tendere a costruire cose morte che poi ci fanno pensare di essere divinità creatrici, il trans umanesimo e l’immortalità, il grande significato dei Big data, la distruzione creatrice, confini e frontiere, libertà, e molto altro. Il virus, sull’immagine di mondo, potrà avere un certo effetto, credo.

2) La seconda cosa che non sappiamo è anch’essa duplice: che effetto ha sugli individui e che effetto ha nei grandi numeri? Il virus si sta scavando una sua nicchia definitoria tra l’influenza nomale e quella spagnola. Ma fanno fatiche molte menti ad aggiornare la classificazione e quindi s’è speso inutilmente molto tempo per cercar di capire se fosse dell’una o dell’altra categoria, quando il suo posto è semplicemente in un’altra categoria, una categoria propria. Fanno fatica le menti individuali ma fa molta più fatica la mente collettiva anche perché gli esperti riflettono lo stato di incertezza. Scopriamo così lo statuto limitato della stessa nozione di “esperto”. Esperto di cosa? Innanzitutto se il virus è di tipo nuovo e categoria propria, le analogie non funzionano. La novità poi di per sé significa che non ha storia pregressa e quindi è difficile fare induzioni. Poi tra i biomolecolari, i biologi, gli epidemiologi, i medici, gli statistici, i nutrizionisti, gli immunologi, i farmaceutici ci sono decine di gradazioni di esperti. Ci vorrebbe une esperto di esperti, ma temo che direbbe: ancora non sappiamo dire precisamente. Forse è proprio che quell’aspettativa di “precisione” è sbagliata, le cose morte sono precise, quelle vive no. Ma a noi piacciono i numeri, i confini definiti, le cose chiare e distinte e poiché non vogliamo rinunciare a questa aspettativa a priori, costringiamo i fatti nel nostro letto di Procuste, tagliandoli, allungandoli, legandoli, obbligandoli a stare lì dove non possono stare ed a dirci quello non ci possono dire. Ci metteremo un po’ a cambiare i nostri presupposti, è questo il destino del nostro obbligo ad adattarci alla realtà. Questo poi se gli esperti vivessero nel migliore dei mondo possibili. Nei fatti però vivono nel nostro imperfetto mondo e quindi ecco che prima si allarmano, poi rimangono allarmati ma gli vien detto di esser rassicuranti, poi sono in competizione tra loro, oscuri funzionari della scienza vengono sbattuti davanti al microfono ed il video provando il warholiano quarto d’ora di celebrità e fanno pasticci. Ne potrebbero conseguire effetti positivi, tipo domandarsi cos’è la scienza o se sono legittime le nostre aspettative per un certo tipo di scienza che però non corrisponde alla scienza in quanto tale, quanto finanziamo e quale scienza finanziamo nella ricerca e molto altro. Ma è presto per dire, vedremo. Nel frattempo scopriamo di non sapere molte cose come accadde a suo tempo per il termine “spread” ovvero la differenza tra epidemia e pandemia, tra causa unica (il virus ammazza) e causa complessa (il virus può portare sistemi già compromessi all’esito finale, è causa quindi? O concausa? Che cos’è una concausa?). Non sapendo che WHO ha lanciato un voluminoso paper su i rischi epidemico-pandemici come fenomeno probabile per una serie di ragioni già nel 2007 (ma altri ne parlavano già negli anni ’70), ci meravigliamo che Bill Gates se ne occupi per cui se si occupa sapendo cose che noi non sappiamo, invece di domandarci cosa non sappiamo, deduciamo che Bil Gates fabbrica apposta virus per sterminarci. Anche se il virus ha mortalità relativa. Tra l’altro, WHO ossia OMS è l’unica entità pubblica ad aver mantenuto costante forma e contenuto del suo dire in queste settimane, un dire settato sul problematico-plumbeo direi.

Il secondo effetto è nei grandi numeri. Qui appaiono chiare alcune cose, ovvero che le cose non sono chiare. Come fa il Sud Est asiatico ad avere così pochi casi? O il Pakistan? O le monarchie del Golfo? E l’Africa? La Germania? Gli Stati uniti d’America? Abbiamo citato tutte aree che statisticamente hanno dalle decine alle centinaia di linee di interrelazione coi cinesi, più che non quelli di Codogno lodigiano. Scopriamo così che in alcune parti del mondo globale gli standard sanitari non sono globali (accipicchia, una deduzione davvero illuminante!), ma non lo sono neanche quelli politici. Spicca il caso americano dove il presidente ha nominato addirittura uno “Zar”, un terminale unico che è l’unico che ha diritto a parlare di cosa sta succedendo. Però è scientificamente affidabile visto che si è più volte dichiarato per il “disegno intelligente”. E cosa succede quindi nel Paese che non ha una sanità pubblica, in cui i test tamponi sono a volte a pagamento, dove la lobby delle assicurazioni private trema al timor di doversi dissanguare per pagare gli effetti del cigno nero, dove il partito di opposizione rischia di veder nominato candidato uno che propugna la sanità pubblica sul modello europeo e dove tra nove mesi si va ad elezioni col rischio di esser in recessione economica e l’evidenza che solo i ricchi possono sperare di sopravvivere indenni alla cieca furia infetticida del virus cinese? Ma che domande, non succede (quasi) niente, è ovvio! Quindi, sì non sappiamo perché non abbiamo esperienza ma neanche sapremo perché chi detiene le chiavi del diritto pubblico all’informazione, deciderà che è meglio non sapere. Infatti, una prima cosa che abbiamo capito presto, è che non il virus in sé ma le aspettative su i suoi effetti sono molto più dannose del virus stesso, per cui la società dell’informazione diventa improvvisamente la società della non informazione. I dati saranno Big per le banche dati che servono la marketing ed al controllo panoptico ma rimarranno Small per quanto riguarda ampiezza e velocità dell’epidemia.

Questa enorme bolla di incertezza oscura poi tutto il resto. L’Antartide nell’ultimo mese si sta sciogliendo e se si scioglie tutta, dio non voglia, i mari saliranno di cinquanta metri. Di cavallette abbiamo già parlato in altro post. In India si massacrano tra hindu e musulmani con un bilancio morti e feriti che fa di Delhi un posto più rischioso di Vo’ euganeo. Trump fa finta di fare pace coi talebani ma con effetti a quattordici mesi per cui c’è tutto il tempo per presentarsi alle elezioni come “ho mantenuto le mie promesse” e poi ripensarci. La Nato che ha perso l’andata della guerra in Siria, vuole giocare il ritorno scendendo in campo con i turchi che nel frattempo ci vogliono inondare di siriani, a noi che poi in teoria siamo Nato. A dirigere la CDU si candida un certo Merz che oggi lavora per Blackrock che fa paura solo a guardarlo con la sua aria da feldmaresciallo sadico che ci farà ricordare la Merkel come Nonna Papera. Prestigiose università americane hanno verificato e confermato che i risultati delle elezioni che si tennero in Bolivia erano assolutamente corretti e quindi abbiamo cacciato un presidente legittimo perché trionfasse la vera democrazia. Roubini è l’unico che dice quello che tutti sanno ovvero che ci sarà una recessione globale. Nel mentre torme di sciacalli si aggirano furtivi intorno al caos per trarne qualche piccolo vantaggio, economico, finanziario, politico, geopolitico, di momentanea notorietà.

Non sappiamo poi tante altre cose, dal quanto durerà, al che effetto finale avrà, del che faremo dopo, se ci saremo nel dopo e così via. Ma dovremo abituarci, è passata una sola forse un paio di settimane dall’inizio della storia, almeno la sua italica fase conclamata. C’è tempo per sapere quante altre cose non sappiamo e sapremo e domandarci meglio che ruolo hanno informazione e conoscenza nei funzionamenti delle nostre società complesse. Intanto, laviamoci le mani …

NB tratto da facebook

‘Guerre di movimento’ e ‘guerre di posizione’, di Alessandro Visalli

‘Guerre di movimento’ e ‘guerre di posizione’.

Scrive in un passo giustamente famoso Antonio Gramsci: “in Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte; più o meno, da Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto domandava un’accurata ricognizione di carattere nazionale[1].

Quando, scrive ancora, gli Stati più avanzati, nei quali “la società civile è diventata una struttura molto complessa e resistente alle ‘irruzioni’ catastrofiche dell’elemento economico immediato (crisi, depressioni, ecc.)”, allora si può porre questa precisa analogia: “le superstrutture della società civile sono come il sistema delle trincee nella guerra moderna. Come in questa avveniva che un accanito attacco di artiglieria sembrava aver distrutto tutto il sistema difensivo avversario ma ne aveva solo invece distrutto la superficie esterna e al momento dell’attacco e dell’avanzata gli assalitori si trovavano di fronte una linea difensiva ancora efficiente, così avviene nella politica durante le grandi crisi economiche; né le truppe assalitrici, per effetto della crisi, si organizzano fulmineamente nel tempo e nello spazio, né tanto meno acquistano uno spirito aggressivo; per reciproca, gli assaliti non si demoralizzano né abbandonano le difese, pur tra le macerie, né perdono la fiducia nella propria forza e nel proprio avvenire.” E prosegue, “si tratta dunque di studiare con ‘profondità’ quali sono gli elementi della società civile che corrispondono ai sistemi di difesa nella guerra di posizione”[2].

Ma, dunque, se così formidabili sono le difese, che vanno studiate “in profondità”, quando va combattuta contro di esse una “guerra di movimento” (il cui prototipo è la rivoluzione d’ottobre del 1917) e quando una “guerra di posizione”? E questa non è l’unica possibile in occidente, come scrive Ilici, citato da Gramsci[3]?

Ma, ancora, si può scegliere? Risponde che “la verità è che non si può scegliere la forma di guerra che si vuole, a meno di avere subito una superiorità schiacciante del nemico”, questa (di posizione) può essere imposta dai rapporti generali delle forze in campo. Rapporti generali significa “tutto il sistema organizzativo e industriale del territorio che è alle spalle dell’esercito schierato”.

Presumere dunque, come attribuisce alla Rosa Luxemburg, che l’esistenza di una crisi economica, di per sé, provochi le condizioni della “guerra di manovra” (o “di movimento”) è, per Gramsci, effetto di una rigidità ideologica, di ferreo determinismo ideologico. Significa immaginare, cioè, che la semplice volontà, o il corso indefettibile della struttura, possa di per se stesso: “1) aprire un varco nella difesa nemica dopo aver scompaginato e fatto perdere la fiducia in sé e nelle sue forze e nel suo avvenire al nemico stesso; 2) di organizzare fulmineamente le proprie truppe, di creare i quadri, o almeno di porre i quadri esistenti (elaborati fino allora dal processo storico generale) fulmineamente al loro posto di inquadramento delle truppe disseminate; 3) di creare fulmineamente la concentrazione ideologica dell’identità di fine da raggiungere”[4].

Le strutture, dunque, o le crisi (l’artiglieria nella metafora di Gramsci) non contano? O, in altre parole, come avviene che da esse nasce effettivamente il movimento storico? Nasce dalla forza materiale e dalla credenza popolare, o dalla ideologia? In effetti forze materiali e ideologia, sono sempre e necessariamente contenuto e forma del “blocco storico” che può rendersi protagonista del cambiamento, perché “le forze materiali non sarebbero concepibili storicamente senza forma e le ideologie sarebbero sghiribizzi individuali senza le forze materiali”.

In “Contenitori dell’ira e contenitori di potere[5], tentavo di fissare queste distinzioni all’opera nella coppia del “Momento Polanyi” (determinato da una crisi che è molto più che meramente economica e che è la faccia visibile di una fase di caos sistemico e perdita di egemonia) e del “Momento populista”, che ne è la forma politica (o ideologica, se si preferisce).

Riassumiamo: i sistemi di ordine egemonici, ed imperiali, della modernità contemporanea (grosso modo la fase che sussegue al terzo quarto del secolo scorso) sono definitivamente entrati in una fase di ‘caos sistemico’. La fase terminare della finanziarizzazione e della globalizzazione, sulla quale ci affacciamo, ne è immagine e manifestazione. L’Europa è uno dei baricentri di questo caos.

Nel quadro di un “Momento Polanyi”, che si distende su tutti i decenni del nuovo millennio, la rivolta del sociale alle costrizioni disgreganti dell’economico trionfante, abbiamo assistito nel decennio trascorso ad un ciclo breve “populista”. Una forma politica che si è nutrita, mimeticamente e senza riuscire a determinare né egemonia, né nuovo blocco storico, del veleno che ha condotto entro il “Momento Polanyi”.

Questo ciclo è terminato perché, nella sua debolezza, non è riuscito a compiere i tre passi indicati da Rosa Luxemburg ed è stato riassorbito. E’ stato riassorbito in tutte le sue varianti.

Ha avuto dei meriti, parzialmente ha compiuto la fase 1) dello schema (ha aperto un varco), rompendo per un poco lo schema destra/sinistra polarizzato al centro. Ma ha fallito in 2) organizzare le proprie truppe e formare quadri e soprattutto 3) “creare fulmineamente la concentrazione ideologica dell’identità di fine da raggiungere”. E lo ha fatto proprio perché si è limitato a trovare quel che c’era, sia in termini di quadri, sia di concentrazione ideologica[6].

Ha creato alla fine solo “contenitori dell’ira”, che si limitavano a raccogliere l’attivismo individualista neoliberale degli anni novanta[7] e la sua attitudine alla “sorveglianza”[8]. Inoltre, facevano leva sul risentimento indirizzandolo verso figure individuali (le “caste”, le “generazioni” dei baby boomers, la burocrazia, …) anziché verso strutture di nessi e produzione di potere. Antistatalismo, disintermediazione, moralismo e profondo individualismo ne sono stati la cifra.

Il riassorbimento ha sfruttato queste debolezze, l’incapacità di farsi potere, e ha ampliato la tendenza a valere come distrazione sistemica, connaturata alla cosa.

Insomma, gli assaliti non si sono demoralizzati e non hanno perso fiducia nelle proprie forze, e la robusta catena di fortezze e casamatte ha retto.

Ciò vuol dire che bisogna arrendersi? Direi tutt’altro.

Occorre ancora più azione politica e “filosofia della praxis”, che deve essere interamente orientata a “trasformare il senso comune”. Si noti, “trasformare”, non assorbire. Se c’è stato un punto specifico nel quale il “primopopulismo” è divenuto solo “contenitore dell’ira”, fallendo la trasformazione in “contenitore di (nuovo) potere”, è l’aver preso da terra esattamente quel che ha trovato. Il cascame della rabbia, del risentimento, dell’offesa di tutti coloro che sono stati ostacolati nella loro ascesa individuale, che reputavano loro diritto individuale su tutti. Non ha davvero esercitato quella “fantasia concreta” che è capace di “operare su un popolo disperso e polverizzato per suscitare e organizzarne la volontà collettiva”.

Nelle “Notarelle sul Machiavelli[9], è contenuta una netta opposizione che parla ancora al presente:

  • tra l’azione collettiva messa in campo da un “partito”, capace di creare ex-novo una volontà collettiva per indirizzare verso mete concrete e razionali, ma nuove (“di una concretezza e razionalità non ancora verificate e criticate da una esperienza storica effettuale e universalmente conosciuta”);
  • e l’azione storico politica che si manifesta in modo rapido e fulmineo, resa necessaria da un grande pericolo imminente, e che si manifesta in un individuo focale (qui ovviamente sta parlando con la necessaria prudenza di Mussolini). Questa azione, nella condizione di pericolo, “crea fulmineamente l’arroventarsi delle passioni e del fanatismo, annichilendo il senso critico e la corrosività ironica (che, altrimenti, potrebbero, se fatte agire, “distruggere il carattere ‘carismatico’ del condottiero)”. Il fatto è che, al contrario della prima strada, “un’azione immediata di tal genere, per la sua stessa natura, non può essere di vasto respiro e di carattere organico: sarà quasi sempre del tipo restaurazione e riorganizzazione e non del tipo proprio alla fondazione di nuovi Stati e nuove strutture nazionali e sociali, […] di tipo difensivo e non creativo originale, in cui, cioè, si suppone che una volontà collettiva, già esistente, sia snervata, dispersa, abbia subito un collasso pericoloso e minaccioso ma non decisivo e catastrofico e occorra riconcentrarla e irrobustirla”.

La prima strada, in altre parole, è rivolta alla creazione di una “volontà collettiva” nuova, e di un nuovo “senso comune”, intorno al quale, facendo leva sia sulla praxis sia sulla educazione e la critica, si possa creare[10] una direzione politica originale ed organica.

La seconda strada, invece, si nutre dell’energia reattiva, fondata sul senso comune che è già in campo e su passioni e fanatismo. È radicalmente acritica e manca sia di respiro sia di visione organica. In definitiva, anche se può sembrare altro, è un movimento restaurativo.

Ne abbiamo avuto una notevolissima dimostrazione con i movimenti apparentemente rivoluzionari, ma in realtà di riaffermazione della logica neoliberale, del secondo decennio del secolo in corso. Movimenti “di tipo boulangista” nel suo linguaggio[11].

Un movimento “di tipo boulangista” viene facilmente neutralizzato, quando fallisce lo sfondamento e si incastra nelle casamatte della seconda linea. Allora queste imparano in fretta ad incorporarlo. Non ha mai rappresentato un’autentica sfida sistemica, un assalto al ‘senso comune’ e alla ideologia che tiene insieme lo Stato.

Non ci sono dunque due strade possibili, ce ne è una. Bisogna comprendere cosa è accaduto ed evitare, accuratamente, di ripeterlo. Non bisogna muoversi sempre nello stesso circolo in forma di volta in volta minore. Non limitarsi a produrre sempre più piccoli “contenitori dell’ira” senza prospettiva strategica.

Ma, soprattutto, se non si può scegliere che tipo di guerra combattere, bisogna continuare a stare sul campo, politici, materiali e populisti ad un tempo, dicevo. Non fare think thank, ma “guerra di posizione”[12].

 

[1] – Antonio Gramsci, “Quaderni dal Carcere”, Vol. II, quaderno 7, “Appunti di filosofia”, 60 bis.
[2] – Antonio Gramsci, “Quaderni dal Carcere”, Vol III, Quaderno 13, “Noterelle sul Machiavelli”, $ 24, 18.
[3] – Antonio Gramsci, “Quaderni dal Carcere”, Vol. II, quaderno 7, “Appunti di filosofia”, 60.
[4] – Antonio Gramsci, “Quaderni dal Carcere”, Vol III, Quaderno 13, “Noterelle sul Machiavelli”, $ 24, 18.
[5] – “Dai ‘contenitori dell’ira’ ai ‘contenitori di potere’”.
[6] – Nel febbraio 2014, al momento dell’esplosione del fenomeno del Movimento 5 Stelle, con simpatia del resto immutata nel tempo, scrissi che il Movimento aveva trovato, quasi per caso, assorbendo l’umore del paese, una sua posizione. E continuavo: “Ma questo non è preciso, ciò che viene assorbito e condensato è l’umore, il linguaggio, i lemmi, gli enunciati, i blocchi emotivi di un nuovo popolo che si sta separando nel paese. Che si incrocia nei bar, nelle strade, nei negozi dietro i banconi, negli uffici spesso cambiati, a spasso nei giardini, di fronte ad una partita di calcio o nelle sue curve. Un popolo certamente arrabbiato, vittimizzato, stanco di sentirsi inutile, sprecato, rigettato, isolato e capace di riconoscersi. Questo “popolo” ha costruito se stesso intorno a un’identificazione negativa; “non”, per differenza dal potere, dalla politica, dalla finanza, dalla grande impresa, dalla globalizzazione, dalla tecnologia industriale, dalle <caste>, dal denaro.” E, ancora: “Appare sconnessa, contraddittoria, mal costruita, oscura e per certi versi temibile, pericolosa. Intendiamoci, anche io sotto alcuni profili la considero tale. Alcuni dei “materiali” di montaggio mi appaiono “nemici”. E li combatterò. Ma non si capisce nulla se non si vede che in questo c’è del nuovo. Si rischia di fare la fine di De Maistre con la Rivoluzione Francese. Di trovarsi alla corte di Alessandro di Russia. Dato che un’aristocrazia schiavista ed imperialista resta tale, anche quando ha come nemico Napoleone, io vorrei restare in equilibrio. Allora tornerei qui, Grillo non costruisce il suo movimento, lo trova a tentoni e per tentativi. Si tratta della storia di una co-evoluzione”.“una sorta di “spugna”. L’elemento più costante, in essa è morale. Anzi moralistico. E’ uno schema noi-loro che proietta nel nemico di turno ogni bruttura ed ogni colpa, lo fa responsabile del dolore e dell’insuccesso, del fallimento. Lo rende balsamo delle ferite.” Concludendo: “Ciò che gonfia le vele è la capacità di non avere forma e di prendere tutte le forme, contemporaneamente. E’ la tecnica dello spettacolo. E’ la società che in esso si rispecchia e il nuovo popolo che si muove dentro questi <frame>.” Si veda, “Grillo e Casaleggio. Trovare la forma”.
[7] – Si legga Colin Crouch, “Postdemocrazia”, 2003
[8] – Si legga Pierre Rosanvallon, “La politica nell’era della sfiducia”,
[9] – Antonio Gramsci, “Quaderni dal Carcere”, Vol III, Quaderno 13, “Noterelle sul Machiavelli”, 10
[10] – Il Partito, questo è essenziale, non assorbe il senso comune, senza sottoporlo a critica e facendosene trasportare, ma lo trasforma, contribuendo, sulla base di un fondo di esistenza, a creare una volontà collettiva che sia parte di una riforma sia intellettuale (nuovi concetti e critica dei concetti esistenti, ridefinizione dell’egemonia ideologica) sia morale (nuovi valori, scale di priorità, metri di giudizio).
[11] – Georges Boulanger è stato un generale francese che da Ministro della Guerra, nel 1886, sollevò il desiderio di rivalsa contro la Germania che aveva umiliato la Francia nel 1871, rieletto alla camera dopo l’espulsione dall’esercito, nel 1888 era al vertice della fama e sembrava voler fare un colpo di stato. Raggiunto da un mandato di arresto fuggì e finì, sconfitto e suicida nel 1891. La sua fama travolgente fu una brevissima fiammata, ma spaventò tutti e per un breve tratto sembrò poter ottenere tutto. Quando un movimento di tipo boulangista si produce, occorre analizzare: 1. il contenuto sociale della massa che aderisce al movimento; 2. che funzione questa massa ha nell’equilibrio di forze che va formandosi; 3. quali sono le rivendicazioni che i suoi dirigenti presentano e che significato hanno, politicamente e socialmente, ma soprattutto a quali esigenze effettive corrispondono; 4. quale è la conformità dei mezzi al fine che è proposto; 5. e solo alla fine l’ipotesi che il movimento necessariamente verrà snaturato e servirà altri fini rispetto a quelli proposti alle moltitudini che lo seguono. Una diagnosi che deve scaturire, se del caso, dall’analisi concreta e non dalla presunzione di avere “il diavolo nell’ampolla”.
[12] – Che definivo così: “non farsi ingolosire da immediate traduzioni elettorali, ma lavorare alla cultura politica, ovvero alla creazione di una struttura sociale densa ed una rete di impegni e riconoscimenti con la necessaria decisione e passo. Ciò non significa produrre infinite versioni ‘socialiste’ dei think thank neoliberali che hanno fatto da base alla svolta neoliberale (quando per loro si è trattato di passare, tra gli anni sessanta e settanta, dalla “guerra di posizione” a quella “di movimento”), perché è diversissima la base di potere e l’attivazione di risorse. Ma deve significare svolgere, con il passo determinato e paziente di chi sa che le case si costruiscono un giorno dopo l’altro, due lavori insieme, sia diversi sia complementari, entrambi indispensabili: l’autochiarificazione teorica e la discussione, seria, decisa, onesta, sulle diverse ipotesi analitiche e meccaniche causali e funzionali, da una parte, e l’immersione nelle lotte, nelle contraddizioni materiali, nei luoghi come via privilegiata della stessa formulazione teorica, dall’altra. Riflessione in azione, dunque, e costruzione di sintesi e narrazioni rivolte alla manifestazione della proposta teorica e pratica (indissolubilmente teorica e pratica). Ciò deve significare lavorare sulle manifestazioni del conflitto, dove si identifica la contraddizione figlia del caos sistemico, e renderle occasione di formazione ed autoformazione anche teorica.
Inchiesta, mobilitazione, lotta sui temi e nei conflitti nella sfera pubblica, tesseramento, militanza, creazione di collettivo e di comunità, divisione del lavoro ed organizzazione, e poi, discussioni sulla fase, sulle opzioni, sulle idee, messa alla prova reciproca, creazione di lealtà. Tutto questo è “lotta di posizione”, mentre si cerca di produrre collettivamente influenza, caposaldo per caposaldo, giorno per giorno. Ovunque”.

https://tempofertile.blogspot.com/2020/03/guerre-di-movimento-e-guerre-di.html?fbclid=IwAR0kOL5m0IACeW-7M69pKb0h-UDTA2mRDeuRR1NBwHIE1BT4dZsKHdKqgnE

Alain De Benoist Critica del liberalismo, a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Alain De Benoist Critica del liberalismo. Arianna editrice, Bologna 2019, pp. 285 € 23,50

Quando un pensatore così acuto e influente come Alain De Benoist giudica il liberalismo che considera (a ragione) come “l’ideologia dominante del nostro tempo”, occorre prenderne atto, senza incorrere nelle usuali deprecazioni, anatemi ed esorcismi, come capitato (in Italia da ultimo circa un anno fa) anche se (parte) delle tesi sostenute non convincono.

Scrive De Benoist “Una società liberale non è esattamente la stessa cosa di un’economia liberale. È invece una società in cui dominano la preminenza dell’individuo, l’ideologia del progresso, l’ideologia dei diritti dell’uomo, l’ossessione della crescita, lo spazio sproporzionato del valore mercantile, l’assoggettamento dell’immaginario simbolico all’assiomatica dell’interesse … è all’origine della mondializzazione, la quale non è altro che la trasformazione del Pianeta in un immenso mercato, e ispira quello che oggi si chiama «pensiero unico». Beninteso, come ogni ideologia dominante, è anche l’ideologia della classe dominante”; ma aggiunge subito dopo “Se “liberale” è sinonimo di persona dalla mente aperta, tollerante, sostenitrice del libero esame e della libertà di opinione, o ancora ostile alla burocrazia e all’assistenzialismo come allo statalismo centralizzatore e invasore, l’autore di queste righe non avrà evidentemente alcuna difficoltà a fare proprio questo termine. Lo storico delle idee, però, sa bene che tali accezioni sono triviali. Il liberalismo è una dottrina filosofica, economica e politica, ed è evidente in quanto tale che deve essere studiato e giudicato”. Studiandolo come dottrina, De Benoist, ne indica i fondamenti, “ossia un’antropologia fondata essenzialmente nell’individualismo e sull’economicismo …  pensiamo infatti che il liberalismo sia anzitutto un “errore antropologico”; perciò parliamo di liberalismo … per designare questa ideologia e per parlare del suo naturale correlato: il capitalismo”; la conseguenza (logica)  ne è che “ l’individuo è divenuto il centro di tutto ed è stato eretto a criterio di valutazione universale. Comprendere la logica liberale vuol dire comprendere ciò che unisce tutti questi elementi fra loro e li fa derivare da una matrice comune”. L’uomo liberale è così connotato da due fondamentali caratteri: l’indipendenza dagli altri e la ricerca del proprio interesse. Ogni struttura politica e sociale che limiti l’individualismo economicista è quindi negata o rigettata. In particolare la dedizione rispetto alla comunità. Se Renan diceva che la nazione è “un’anima, un principio spirituale”, per i liberali contemporanei, Stato, nazione, patria sono qualcosa di non-esistente.

Per cui il bene comune ossia il fine per cui si costruisce l’istituzione politica, viene negato, più spesso, minimizzato o comunque viene dopo la tutela dei diritti individuali.

Né sono sostenibili e coerenti le posizioni dei conservatori-liberali. In effetti è contraddittorio pretendere di regolare “l’immigrazione aderendo al contempo all’ordine economico liberale, che si basa su un ideale di mobilità, di flessibilità, di apertura delle frontiere e di nomadismo generalizzato”; in genere difendere le frontiere, limitative sia del diritto a trasferirsi sia di quello a consumare, è in contrasto all’ “ideal-tipo” liberal-liberista. I liberali conservatori “non vogliono comprendere che il movimento perpetuo della hybris capitalistica non può non provocare sconvolgimenti, che lo rendono incompatibile con ogni vera forma di conservatorismo”. La crisi attuale dipende dall’aver portato alle conseguenze più estreme l’individualismo economicista con la relativa chiusura di senso e la marginalizzazione della politica, del politico e dello Stato, e generato la dialettica nascita del sovranismo, contrario a talE prospettiva.

Questo per sintetizzare l’essenza del libro che, in quasi trecento pagine di critiche serrate e coerenti, spazia su tanti temi, come l’Unione Europea, le insorgenze populiste, i regimi “illiberali” della Polonia e dell’Ungheria, il conflitto tra Stato democratico e cosmopolitismo liberista per cui rinviamo alla lettura del saggio, concettoso e ricco quanto chiaro.

Al recensore trarre un paio di osservazioni generali.

De Benoist stigmatizza il liberalismo come ideologia, come tipo ideale (à la Weber); e la critica è particolarmente efficace e coerente. Ma, è appunto quella al “tipo ideale” liberale che tra lo scorcio del XX secolo e l’inizio del XXI secolo, si è preso (da solo) troppo sul serio, pretendendo di fare di una parte del liberalismo pensato e storicamente realizzato in alcuni secoli il tutto. A tal proposito, a ripristinare il carattere concreto del liberalismo ci soccorre un grande giurista come Carl Schmitt, apprezzato dall’autore (e da chi scrive). Sostiene Schmitt nella Verfassungslehre (e in altri scritti) che lo Stato liberale è frutto della ibridazione tra principi di forma politica (identità e rappresentanza) e principi dello Stato borghese (separazione dei poteri e distinzione tra Stato e società civile – id est tutela dei diritti fondamentali).

I primi necessari a costituire la forma politica e legittimare il potere pubblico: i secondi a limitarlo. Senza forma di potere le limitazioni a questo non hanno senso. A tale proposito Schmitt cita quanto sosteneva Mazzini “sulla libertà non si costituisce nulla”; e il patriota italiano aveva ragione: riecheggia in ciò l’affermazione di Hegel che “lo Stato è la realtà della libertà concreta” (prgrf. 260 dei Grundlinien). In altre parole: i teorici dello Stato borghese moderno da Sieyès a Tocqueville, da Hegel a Jellinek da Hamilton a Orlando (tra i tanti) ben capivano che potere pubblico e limiti a quello vanno di pari passo.

Per tenerci all’antropologia, ritenevano necessaria perché naturale sia la sociabilità umana (che genera lo scambio e il droit commun) che la politicità (la zoon politikon di Aristotele e S. Tommaso) che genera il droit disciplinaire, cioè il diritto dell’istituzione politica, come scriveva Hauriou. Se l’uomo dei liberali odierni è solo individualista ed economicista, quello dei “vecchi” era anche comunitario e politicista. Inoltre nel Federalista si afferma che lo Stato borghese si regge su un’antropologia negativa: “Ma cos’è il governo se non la più poderosa analisi dell’umana natura? Se gli uomini fossero angeli non occorrerebbe alcun governo. Se fossero gli angeli a governare gli uomini, ogni controllo interno ed esterno sul governo diverrebbe superfluo.  Ma nell’organizzare un governo di uomini che dovranno reggere altri uomini, qui sorge la grande difficoltà: prima si dovrà mettere il governo in grado di controllare … e quindi obbligarlo ad autocontrollarsi … L’autorità del popolo rappresenta il primo sistema di controllo … ma l’esperienza ha insegnato all’umanità che altre garanzie ausiliarie sono necessarie” (Il Federalista n. 51). Qui di esaltazione della mano invisibile e della governance tecnocratica ce n’è poco o punto, tantomeno di un’antropologia meramente individualista, soprattutto in grado di far a meno dell’autorità politica. Per cui il liberalismo reale e concreto si fonda sulla natura problematica dell’essere umano, sulla conseguente necessità di un potere politico e su quella di controlli perché i governanti realizzino in concreto l’interesse generale (il “bene comune”) e non il proprio.

Ossia proprio l’inverso delle conclusioni cui porta il liberalismo astratto e ideal-tipico propinatoci da un trentennio (almeno) e che De Benoist acutamente critica.

Liberalismo (quello global-mercatista) estraneo a chi recensisce, che, come liberale italiano, appartiene ad una variante tutta nazionale del liberalismo, la quale -.diversamente da altri Stati europei, costruiti dalla plurisecolare e paziente opera dei monarchi (prima feudali poi assoluti) – ha costituito in unione alla monarchia sabauda lo Stato nazionale. Quello Stato liberale che i vecchi maestri del diritto pubblico e della scienza politica italiani come Orlando e Mosca  non chiamavano (pur considerandolo tale) neppure liberale ma “Stato rappresentativo”.

Peraltro, e veniamo al secondo punto essenziale, i (sedicenti) liberali global-mercatisti sono, in grado di realizzare quanto fanno intendere, o non lo sono proprio, perché dovrebbero cambiare le leggi naturali, almeno quelle sociologiche?

In realtà è che su tale punto, decisivo, i liberal, o non parlano (per lo più) o lo presuppongono scontato, in contrasto con l’esperienza storica. Ad esempio l’idea espressa già da B. Constant, che l’esprit de commerce riduce l’ esprit de conquête, è (in parte) condivisibile a condizione di relativizzarla. Perchè è un fatto che proprio nel XIX secolo i due esprits si congiunsero generando guerre imperialiste: il che induce a prendere il giudizio del pensatore di Losanna come tendenziale, utile ma non decisivo. Piuttosto occorre ricordare quanto sosteneva V. E. Orlando “le leggi sociali come le leggi fisiche, hanno una forza tutta propria, sono un portato affatto naturale cui la volontà umana non può che conformarsi. Elles ne se font pas, elles poussent”; per cui sono le regolarità (Miglio), i presupposti del politico (Freund) a condizionare la capacità umana di conformare le istituzioni. Cosa che i liberal contemporanei dimenticano o sottovalutano. C’è da chiedersi se poi  questi “liberali” siano veramente tali. Sempre a seguire Schmitt, i nemici del liberalismo e dello Stato borghese di diritto sono coloro che non ritengono desiderabile uno Stato connotato (anche) dalla divisione dei poteri e dalla tutela della libertà e della proprietà. Osama Bin Laden (tra i tanti) avrebbe sottoscritto con entusiasmo. Ma se il liberalismo si basa sul mercatismo globalista, sulla confusione dei generi, sulla distruzione dei legami comunitari, e così via, il nemico dei liberali non è più il tiranno liberticida, ma il governante che cerca di difendere l’anima di un popolo e il suo modo d’esistenza.

E in effetti se nella prima metà del XX secolo i nemici sono stati Hitler e Stalin, in questo inizio di secolo è diventato Orban (tra i tanti). Quell’Orban il quale ha voluto una costituzione che, ad onta delle decisioni del Parlamento UE, ha più istituti di garanzia di quella italiana, ma il torto imperdonabile di volerli fondare sulla storia e sull’anima della comunità nazionale ungherese.

Resta da vedere se i veri liberali sono quelli che nel Parlamento UE hanno votato l’apertura della procedura d’infrazione all’Ungheria o – piuttosto – gli emergenti governi sovranisti che non hanno dimenticato che la libertà dell’individuo si fonda su quella della comunità cui appartiene; che la libertà dei moderni non è opposta, ma complementare a quella degli antichi.

Teodoro Klitsche de la Grange

L’isteria al comando, di Piero Laporta

Qui sotto alcune significative considerazioni del Generale Piero Laporta. Da leggere con attenzione e con una nostra precisazione. A questo punto della emergenza un cambio della guardia al governo pare inopportuno se non esiziale; più opportuna una ampia delega ad un organismo o ad una figura preposta ad hoc_Giuseppe Germinario

Giuseppe Conte, scaricando invano sui medici le proprie responsabilità per l’epidemia, cerca di evitare di rispondere alla domanda: come si gestisce un’emergenza nazionale?

Che cos’è un’emergenza nazionale? Chi deve assumerne la gestione? Quali le modalità attraverso le quali la gestione è razionale? Innanzi tutto occorre evitare l’isteresi, cioè la reazione paradossale e fuori tempo alla sollecitazione emotiva, tanto più intensa quanto più grave è l’emergenza.

Emergenza è una serie concatenata di eventi, sul primo momento imprevedibili nei loro effetti catastrofici, ai quali è indispensabile contrapporre provvedimenti rapidi e straordinari, per circoscriverla, arrestarla, rimediare infine ai suoi effetti di breve, medio e lungo termine.
Le potenziali emergenze concernenti un’intera nazione appartengono alle seguenti famiglie: 1) bellica, 2) geosi­smica, 3)geometeorologica, 4) socioeconomica,5) agroalimentare, 6) finanziaria, 7) medica. ll carattere nazionale di queste crisi è improntato dalla valutazione del rischio potenziale, centrato su quattro punti. Primo: vastità in atto e potenziale del territorio coinvolto e delle risorse su quel territorio. Secondo: quantità in atto e potenziale di vittime. Terzo: durata potenziale. Quatto: capacità potenziale dell’emergenza incorso di innescare e concatenarsi con le rimanenti sei famiglie di emergenze di cui abbiamo detto.
.È ovvio che un capo di governo non possa anelare oltre la capacità di riconoscere l’esistenza d’una un’epidemia, potenzialmente in grado quindi di insinuarsi nel territorio nazionale italiano. Lo stesso capo di governo, dopo questa iniziale, banale consapevolezza, deve concentrare la sua attenzione sulle operazioni da compiere – immediatamente e le altre a seguire – per fermare il contagio aldilà delle nostre frontiere e, quando esse ne siano perforate, attuare le operazioni necessarie per rallentarlo, fermarlo, spegnerlo.
Un moderno Paese del G-20, l’Italia, avrebbe dovuto reagire sin dalla fine di dicembre, quandola reticenza della Cina e i nostri sensori a Pechino (ambasciata, servizi, turisti, osservatori e corrispondenti della stampa e della TV) dovevano allarmare. È comprensibile tuttavia che la novità del fenomeno abbia disorientato le decisioni. Questo non è tuttavia più ammissibile dai primi di gennaio, quando l’OMS accende i riflettori.
Che cosa fa un capo di governo in questi casi? Se la Protezione Civile non ha di suo attuato procedure di emergenza, come invece avrebbe dovuto, il capo del Governo costituisce una commissione tecnica, avvalendosi delle proprie enormi possibilità di consultazione ad altissimo Livello, offertegli dalla comunità scientifica, nazionale e internazionale – Istituto superiore di Sanità, CNR; autorità ospedaliere (Spallanzani, Sacco, San Raffaele, Biocampus, Gemelli, ecc.) nonché in conferenza con le autorità OMS e con le principali università mondiali. Ottenuta una prima valutazione del rischio, nomina un’autorità collegiale e multidisciplinare col compito di definire quattro obiettivi di primo tempo: 1) che cosa fare; 2) chi lo deve fare;3) quali risorse (umane, finanziarie e materiali) sono necessarie; 4) la politica delle comunicazioni, per impedire il panico in Italia e verso l’Italia.
Conseguito tale quadro, non oltre due o tre giorni dopo, tutti i competenti organismi tecnici ministeriali devono aver approntato proprie pianificazioni a breve, medio e lungo periodo, rendendole immediatamente esecutive.

ACCENTRARE L’AUTORITÀ

A questo punto il capo del governo dovrebbe aver già emanato dalla prima settimana di gennaio un decreto conseguente, per stabilire chi fa che cosa e in quali tempi. Un capo del governo, accentrandosi ogni autorità – com’è previsto dalla Costituzione, art. 117, comma d – avrebbe mantenuto pienamente operativo l’organismo consultivo multidisciplinare, per reagire tempestivamente al mutare delle situazioni. Che cos’è invece accaduto? A metà gennaio s’offriva una risposta paradossale, l’accusa di fascio­leghismo, a chi chiedeva, seppure scompostamente, risposte operative a un’emergenza nazionale e internazionale.
L’assenza di decisioni pianificate, coordinate, tempestive ha fatto dilagare l’epidemia. Giuseppe Conte a quel punto s’è dichiarato 《sorpreso, come fosse una casalinga davanti alla tivvù. Ha poi reagito in ritardo e con provvedimenti sgangherati, improvvisati, taluni esagerati, altri inadeguati, mentre le amministrazioni regionali si sono scollate dal governo centrale, chi con effetti positivi, chi con provvedimenti tanto improvvisati quanto grotteschi. Tale isteria ha causato la sopravvenienza di ulteriori emergenze, com’è d’altronde naturale in tali catastrofi. All’emergenza medica, si è quindi sommata quella economica, sociale e diplomatica-internazionale, senza escluderne ulteriori a venire.
Conclusione. Conte è un inetto, oscillante fra la risposta paradossale davanti alla prima sollecitazione emotiva a gennaio, per poi rincorrere in ritardo, oltre quaranta giorni dopo, la sopravanzante e per lui “sorprendente” realtà, scaricando su altri le proprie enormi responsabilità, politiche e non solo. La nave rischia di perdere anche il timone, sbattendo sugli scogli sui quali la porta il comandante fuori di testa. È ora che l’equipaggio s’ammutini, nomini un nuovo comandante, a meno che Sergio Mattarella non voglia condividerne le responsabilità.

https://www.pierolaporta.it/un-premier-inetto-e-un-po-isterico-ecco-cosa-doveva-fare-e-non-ha-fatto/

I “MOLTIPLICATORI DI IMPOTENZA” NELLA GUERRA IBRIDA, di Piero Visani

I “MOLTIPLICATORI DI IMPOTENZA” NELLA GUERRA IBRIDA

Si parla molto della questione se il Coronavirus sia stato o meno di produzione militare e si sostengono varie tesi al riguardo, tutte interessanti.
Sfugge però – a mio parere – un aspetto fondamentale: al centro della guerra ibrida non si pongono, come in altre tipologie belliche, i “moltiplicatori di potenza”, ma semmai quelli “di impotenza”, poiché essa si preoccupa di rovesciare, non di confermare, assetti già noti.
L’esempio italiano è classico, al riguardo. Si prenda una classe dirigente ignorantissima, ottusa, autoreferenziale e sempre pronta a vendere se stessa per pochi (e talvolta neppure così pochi) euro, a condizione di rimanere al vertice (anche al vertice di Cialtronia o di niente, pur sempre un vertice è, per nani e ballerine…; i primi, del resto, come ebbe a scrivere il mitico Faber, hanno il cuore – e pure la testa, aggiungo io – “molto vicino al buco del…” etc. etc.) e la si solleciti con stimolazioni che si sappia possano farle molto male, nel senso che – giostrando accortamente una serie di fattori di cui essa SA NULLA, in base al notorio principio che “uno vale uno e zero vale zero” (e la medesima è più prossima al secondo che al primo…) – la si possa danneggiare in profondità sotto vari punti di vista.
Adeguatamente stimolata alla reazione pavloviana, essa partirà in quarta, distruggendo un Paese, un’economia e un’immagine internazionale già pressoché inesistente semplicemente per attivare quei “moltiplicatori di impotenza” che è stata abilmente sollecitata ad attivare. Il risultato sarà l’ennesimo disastro, i suoi abitanti saranno ridotti al rango di appestati, la sua economia si fermerà e quella parte di suoi cittadini che era tanto favorevole all’accoglienza si vedrà chiudere in faccia tutte le porte possibili e immaginabili da parte di chi è un po’ meno fesso (o venduto…) di lei (e sono tanti…). Alcuni, poi, si accorgeranno che la globalizzazione vale fin che fa comodo ai padroni del vapore, poi fa subito loro decisamente più comodo la “glebalizzazione”.
Ecco come si attivano i “moltiplicatori di impotenza” in una guerra ibrida. E’ sufficiente che siano disponibili i materiali di base: gli idioti. E da noi – a quanto pare – abbondano.

Nadia Urbinati, Io, il popolo, a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Nadia Urbinati, Io, il popolo, Il Mulino, Bologna 2019, pp. 339, € 24,00

 

Nella messe di libri pubblicati sul populismo, spesso esorcizzanti – per conto delle élite – i nuovi soggetti politici, questo lavoro si distingue perché, secondo l’autrice “il populismo non è un’ideologia, ma una forma di rappresentanza politica e di governo democratico, Questo lo rende rischioso e difficile da contrastare e, soprattutto, ne fa un fattore di successo molto remunerativo nell’età della politica dell’audience”; così “Questo libro prende sul serio tale concettualizzazione e cerca di capire che tipo di democrazia è la democrazia populista. Unire le più diverse rivendicazioni, anche quelle trasversali alle ideologie della destra e della sinistra, comporta superare la rappresentanza per mezzo dei partiti e creare un’unica frontiera: quella che separa chi esercita il potere e chi non lo esercita, l’establishment e tutti gli altri”. Il che non è altro che ricondurre al “criterio del politico” la lotta tra popolo ed establishment. Il populismo è contro i partiti (e soprattutto contro la partitocrazia), ma non è antidemocratico: “è lo specchio della democrazia rappresentativa”. Anche in tal senso, ma soprattutto perché i populisti stanno progressivamente conquistando il governo di molti Stati, non lo si può identificare con movimenti di pura protesta (di opposizione), giacché lì sono al governo. La Urbinati scrive che quella che critica è una debolezza concettuale: “La mia idea è che dovremmo abbandonare l’atteggiamento polemico e considerare il populismo alla stregua di un processo politico inteso a conquistare il governo. Suggerisco di vederlo come l’esito di una trasformazione dei tre pilastri sui quali si regge la democrazia moderna – il popolo, il principio di maggioranza e la rappresentanza… prendo in seria considerazione la capacità che i movimenti populisti hanno di costruire un particolare loro regime dall’interno della democrazia costituzionale. Il populismo è rappresentativo: ma una forma sfigurata, che si situa entro la categoria della deformazione”.

Al contrario della narrazione prevalente nei media “di regime” Urbinati ritiene che il populismo è “incompatibile con i regimi politici non democratici” e tuttavia, sfigura la democrazia rappresentativa.

L’autrice ritiene che la democrazia rappresentativa è diarchica: “La diarchia sta a significare che le elezioni e il forum delle opinioni fanno delle istituzioni al contempo il luogo del potere legittimo e però anche un oggetto di discussione, di controllo e di contestazione. Una costituzione democratica deve regolare e proteggere entrambi i poteri”; il populismo tende a svalutare/ridurre il momento del formarsi dell’opinione rispetto all’esercizio della volontà pubblica; con ciò sono anche svalutati gli “intermediari” d’opinione (partiti e mezzi di comunicazione), rispetto al rapporto tra capo e popolo. Scrive “Il cardine della mia analisi del populismo è la relazione diretta con il popolo che il leader stabilisce e mantiene. È questa la dinamica che sfuoca i confini della diarchia democratica. Tale dinamica consiste nell’accentuare il dualismo tra «i molti» e «i pochi» e nell’espandere il potere del pubblico fino a mettere in discussione la democrazia costituzionale”.

Così il populismo col suo insistere sul momento della decisione, sul principio maggioritario e sulla contrapposizione tra il popolo (in effetti la “sua” parte di popolo) e l’establishment “non è il compimento, né la norma, del principio di maggioranza e della democrazia, ma il suo sfiguramento… le cui «conseguenze illiberali non sono necessariamente conseguenti a una crisi del liberalismo in uno stato democratico», ma si possono sviluppare dalla pratica stessa della democrazia, dall’uso della libertà”.

Il populismo è pericoloso, ma non anti-democratico tuttavia, come scrive l’autrice è anti-liberale e ne individua quattro inevitabili tendenze: 1) è refrattario alle tradizionali divisioni partigiane e contempla solo il dualismo di base tra la gente comune e l’establishment; è insofferente del pluralismo 2) Il populismo conquista il potere attraverso la competizione elettorale, ma usa le elezioni come plebisciti per dimostrare la forza del vincitore; il voto serve a confermare l’esistenza del “popolo vero” 3) Il populismo opera questa trasformazione dopo aver respinto l’idea della rappresentanza come articolazione elettorale di rivendicazioni e interpretazioni 4) Il populismo interpreta la democrazia come maggioritarismo radicale… L’esito finale è un radicale fazionalismo, un’ammissione senza infingimenti del fatto che la politica è una guerra più che un gioco… Rappresenta la vittoria di una visione iperrealista e relativistica della politica come costruzione ed esercizio del potere che ha nella vittoria la sua legittimità (v. p. 302-303).

Il saggio, pur così articolato, presente due punti dolenti. Da un lato accomuna sotto il concetto e il termine “populismo” fenomeni che, sviluppandosi in contesti assai differenti, hanno caratteristiche comuni poco rilevanti se non marginali. L’Argentina di Peron a poco a che fare con l’Ungheria di Orban, la Gran Bretagna della Brexit o l’Italia del XX secolo.

La seconda è che a restringere l’esame al populismo contemporaneo, il carattere “illiberale” emerge poco o nulla, se si passa da una valutazione basata su impressioni, esternazioni, proclami polemici a quella sulle realizzazioni, sul piano istituzionale soprattutto.

Esame omesso. Perché, se si va a guardare gli USA di Trump, la Gran Bretagna post-Brexit o l’Ungheria di Orban, tutti gli istituti dello Stato di diritto non sono stati toccati. Non risulta, tra le realizzazioni dei leaders populisti qualcosa  che somigli, neanche lontanamente, alla legge sui pieni poteri votata dal Reichstag nel marzo 1933 (in sostanza l’abolizione della costituzione di Weimar), né alcuna significativa riduzione dei principi di separazione dei poteri o di tutela dei diritti fondamentali che sono, dalla solenne enunciazione nell’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del cittadino del 26 agosto 1789 i principi del costituzionalismo liberale.

Anzi in taluni casi le garanzie sono state se non rafforzate, almeno estese.

Lo stesso parlamento europeo nell’approvare l’apertura della procedura d’infrazione all’Ungheria nel 2018, non ha saputo trovare altro (di rilevante) che “violazioni” analoghe a quanto regolato analogamente in altri Stati dell’UE (ad esempio l’assenza di azione popolare alla Corte Costituzionale, come anche in Italia), e/o praticato come le attitudini “manesche” della polizia – anche qui condanne all’Ungheria e all’Italia da parte della CEDU – ed altro che i limiti di una recensione non consentono di ricordare. Gli è che, malgrado lo sforzo dell’autrice di non cadere negli esorcismi anti-populisti, le lesioni alla diarchia opinione-volontà appaiono poco non solo per considerarli attentati allo Stato di diritto ed ai suoi istituti, ma anche cambiamenti di qualche sostanza, perché si limitano alle modalità di propaganda ad aspetti marginali della formazione dell’opinione pubblica. Per fortuna.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

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