Libia: la soluzione è non democratica, di Bernard Lugan

Qui sotto alcune brevi e puntuali considerazioni di Bernard Lugan sulla situazione in Libia. Di fatto una traccia operativa offerta alla classe dirigente ed ai centri decisionali italiani. Una linea tracciata per altro sulla falsariga messa in atto dai servizi italiani al momento del loro sostegno decisivo all’insediamento di Muhammar Gheddafi, padre di Seif al-Islam. Questo ceto politico, però, sembra aver rimosso ogni memoria storica assieme alla propria sia pur minima autonomia politica_Giuseppe Germinario

Libia: la soluzione è non democratica
Uno dopo l’altro, i vertici internazionali sulla Libia falliscono nell’intenzione di porre riparo alle conseguenze dell’ingiustificabile guerra al colonnello Gheddafi. Falliscono perché, come diceva Albert Einstein: “Non possiamo risolvere un problema con lo stesso modo di pensare di chi l’ha generato “. La guerra contro il colonnello Gheddafi era ufficialmente innescata in nome della democrazia e tutte le soluzioni proposte sono democratiche o democratiche …
Inoltre, come fingere di mettere fine al conflitto quando:
1) Le tribù, di fatto le uniche vere forze politiche del paese vengono scartate, mentre la soluzione comporta in particolare la ricostituzione delle alleanze tribali [1] forgiate dal colonnello Gheddafi?
2) Riconosciuto dal 14 settembre2015 dal Consiglio tribale supremo in qualità di rappresentante legale, Seif al-Islam, il figlio del colonnello Gheddafi, che rappresenta una delle soluzioni, viene sistematicamente escluso dagli europei. Ora è uno dei pochissimi capi libici in grado di far convivere centro e periferia, come suo padre, articolando i poteri e distribuendo le rendite legate agli idrocarburi alle realtà locali, con un minimo di presenza di potere centrale. La costa urbanizzata di Tripoli è un caso speciale. Qui, il potere appartiene alle milizie delle quali solo una piccola minoranza rivendicano l’Islam jihadista.
Siamo nel mondo dei traffici che consentono ai miliziani di sostenere le loro famiglie. Adesso loro avrebbero tutto da perdere da una vittoria del generale Haftar che li metterebbe al passo. Ecco perché supportano lo pseudo-governo di Tripoli, a sua volta supportato dalla Turchia.
La situazione in Tripolitania è così molto chiaro: se il generale Haftar non riesce ad imporsi militarmente, Tripoli e le città costiere rimarranno quindi in potere delle milizie. Per sperare di vincere il generale Haftar dovrebbe quindi offrire una via di uscita ad alcuni leader della milizia tale da renderli futuri attori politici nelle regioni che controllano e nelle quali hanno acquisito legittimità reale. L’unica soluzione che potrebbe staccarli dalla Turchia. Lo scopo di quest’ultima è di mantenere a Tripoli un potere che deve a lei la propria sopravvivenza e permetterle di giustificare l’estensione delle sue acque territoriali a spese di Grecia e Cipro.
Bernard Lugan

LA REPUBBLICA DIMEZZATA, di Teodoro Klitsche de la Grange

LA REPUBBLICA DIMEZZATA

Ha suscitato un modesto interesse che la Corte di giustizia UE abbia condannato la Repubblica italiana perché (cito testualmente)  “Non assicurando che le sue pubbliche amministrazioni rispettino effettivamente i termini di pagamento stabiliti all’articolo 4, paragrafi 3 e 4, della direttiva 2011/7/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 febbraio 2011, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza di tali disposizioni”.

Che l’interesse sia stato modesto lo si deve probabilmente da un lato al fatto che tutti sanno – anche se nei mass-media se ne legge poco – che i ritardi nei pagamenti dei creditori del settore pubblico sono enormi, molto peggiori di quanto risulti dagli atti citati dal Giudice europeo nella sentenza, dall’altro che le decisioni giudiziarie sui ritardi sono tante che non “fanno più notizia”.

Ciò stante, dall’arresto suddetto della Corte risulta che l’argomentazione dell’Italia per difendere la prassi (costante e reiterata) del ritardato adempimento (spesso di anni e talvolta di lustri) consisteva in ciò che (cito testualmente) “le direttive europee…non impongono, invece, agli stati membri di garantire l’effettiva osservanza, in qualsiasi circostanza, dei suddetti termini da parte delle loro pubbliche amministrazioni. La direttiva 2011/7 mirerebbe ad uniformare non i tempi entro i quali le pubbliche  amministrazioni devono effettivamente procedere al pagamento… ma unicamente tempi entro i quali essi devono adempiere alle loro obbligazioni senza incorrere nelle penalità automatiche di mora”. Cioè non conta se il creditore è stato pagato, perché ad avviso della nostra Repubblica “non implicherebbe uno stato membro sia tenuto ad assicurare in concreto il rispetto di detti termini”… perché le “direttive non assoggettano…. lo Stato membro… ad obblighi di risultato, ma, tutt’al più ad obblighi di mezzi”. Traducendo tali espressioni tecniche in linguaggio più corrente, lo Stato membro europeo avrebbe l’obbligo di tradurre in norme nazionali le direttive U.E., ma se poi queste vengono aggirate o di fatto disapplicate dalle pubbliche amministrazioni o dai giudici, col lasciare i creditori “a becco asciutto” il tutto non darebbe adito ad alcun dovere né responsabilità dello Stato. Cioè i creditori dovrebbero essere appagati che il (loro) diritto al (sollecito) pagamento sia stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale, che magari  sia stato anche statuito in altra sede, tuttavia, senza poter pretendere che lo Stato si attivi perché il pagamento sia effettuato. A parte la sottile quanto involontaria comicità di tale impianto argomentativo, dato che per i creditori veder riconoscere il proprio diritto al pagamento è qualcosa, ma essere pagati è tutto (mentre per la Repubblica italiana è il contrario), va esaminato non solo perché la prassi è reiterata, ma perché rientra nel dibattito sul sovranismo (o meglio sulla sovranità) tanto demonizzata.

Lo stato moderno è responsabile in linea generale dell’applicazione del diritto sul proprio territorio. Scriveva (tra i tanti) un maestro del diritto internazionale come Triepel che, in caso di violazione di un diritto garantito da norme internazionali “per quanto lo Stato col mantenersi inattivo verso chi lede un altro Stato non diventi complice di costui, è tuttavia esatto dire che è responsabile se non procede contro di lui”. E ciò avviene perché “la responsabilità ha nel nostro caso un carattere schiettamente territoriale, essa è conseguenza necessaria della sovranità territoriale… tale responsabilità è giustificata dal fatto che determinati interessi furono lesi entro la cerchia cui si estende la esclusiva sovranità di uno Stato”.

Onde lo Stato è responsabile anche per gli atti dei suoi organi; degli enti pubblici e comunque “per la condotta delle persone che ha investito di una pubblica funzione” sia che abbiano commesso atti illeciti che leciti (secondo il diritto internazionale). Le norme che consentono di sanzionare i funzionari che li abbiano commessi secondo il giurista tedesco “costituiscono diritto internazionalmente indispensabile”.

Diversamente da quello che pensano gli adepti del “politicamente corretto” è proprio la sovranità territoriale a garantire non solo l’esistenza politica delle comunità umane, ma anche l’effettiva applicazione del diritto; e così a prendersi carico dei relativi obblighi e responsabilità, sia che derivino da fonti del diritto interne che internazionali. Scriveva Hegel che “lo Stato è la realtà della libertà concreta”. È questo un aspetto peculiare dello Stato moderno che consiste anche di un’organizzazione di applicazione del diritto, la cui funzione è di rendere reali e concreti i diritti enunciati nella legislazione o comunque vigenti. Diversamente dalle monarchie feudali in cui la realizzazione delle pretese era spesso rimessa agli interessati medesimi (così, in genere, come nelle forme arcaiche di ordinamenti politico-sociali).

Situazione pericolosa. Lo Stato moderno, anche per questo, conquistò oltre al monopolio della violenza legittima, quello dell’applicazione del diritto (ne cives ne arma ruant). che non è il monopolio del diritto, giacché questo è generato in parte considerevole, spesso la più importante, non da organi statali: ma è quello della sua concreta esecuzione e realizzazione.

Se la Repubblica si difende in giudizio sostenendo che non è suo compito assicurare che il diritto sia realizzato, vuol dire che sta regredendo verso forme pre-moderne di ordinamento: o meglio che è in de-composizione. Come, in effetti, è ogni Stato che non pretende di essere sovrano.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

Wellingtoniana e… Salviniana, di Piero Visani

Wellingtoniana e… Salviniana

       Dal momento che mi pare di capire – da certi comportamenti – che non solo si intende insistere in strategie comunicative totalmente errate, ma si vuole pure accentuarle, ricorrerò all’aneddotica, soluzione immaginifica adatta a penetrare (forse…) nelle menti più semplici e meno provvedute…
       Notte fra sabato 17 e domenica 18 giugno 1815. Piana di Waterloo. La giornata è stata afosa e il calare delle tenebre non ha portato refrigerio. Qualche tuono annuncia che presto potrebbe scoppiare un temporale anche di forte intensità, ma per il momento ancora si fa attendere.
       Nel quartier generale britannico, nei pressi di Mont Saint-Jean, gli aiutanti di campo (molti dei quali giovani e giovanissimi rampolli della nobiltà inglese) e gli ufficiali subalterni si affollano intorno al loro comandante, il duca di Wellington, certamente per trarre conforto e sicurezza dalla sua calma glaciale. Per alcuni, che per ragioni anagrafiche non avevano potuto prendere parte alla Guerra Peninsulare in Spagna e Portogallo (1808-1814) contro i francesi, quella che si annunciava per l’indomani era la prima grande battaglia della loro vita (e per non pochi di essi sarebbe stata anche l’ultima…)
       Il desiderio di avere indicazioni su cosa sarebbe potuto accadere il giorno dopo era troppo forte, per cui i più audaci azzardarono a chiederlo al loro comandante: “Vostra Grazia, che cosa accadrà domani?”.
       Con il suo consueto, nobiliare distacco, il “Duca di ferro” [così era soprannominato] li guardò con l’aria serena di un comandante che di battaglie ne aveva vinte molte, contro i francesi, e rispose: “Verranno su alla solita vecchia maniera [si riferiva al fatto che i francesi erano soliti attaccare in colonne di battaglione, invece che in linea] e noi li batteremo alla solita vecchia maniera” [vale a dire con i reparti schierati in linea, che potevano sviluppare un volume di fuoco nettamente superiore a quello dei francesi, come era accaduto a partire dalla battaglia di Maida, in Calabria, nel 1806, ed era continuato per tutta la Guerra Peninsulare, senza che i comandanti francesi – salvo pochissime eccezioni – si accorgessero della natura del problema].
       Questo accadde puntualmente anche il giorno dopo, a Waterloo.
       L’aneddoto serve solo a ricordare che l’iterazione di tattiche e strategie già dimostratesi perdenti in varie occasioni, specie quanto si va all’attacco di gente molto abile nella difesa, serve solo a perdere una volta di più e forse sarebbe meglio cambiarle. Forse…

Oltre la destra e la sinistra: la necessità di una nuova direzione, di Andrea Zhok

Oltre la destra e la sinistra: la necessità di una nuova direzione
tratto da facebook

1) Lo scenario contemporaneo
Due grandi tendenze caratterizzano la politica dell’ultimo quarto di secolo nel mondo occidentale. La prima, e più importante, è rappresentata dal trionfo del modello liberale con i connessi processi di globalizzazione; e in maniera concomitante, dalla crescita di reazioni di rigetto di tali processi (dai ‘no-global’ degli anni ’90, al ‘populismo’ e ‘sovranismo’ odierni).
La seconda tendenza, derivativa, è una crisi profonda delle categorie politiche di ‘destra’ e ‘sinistra’; tale crisi si è manifestata sia come ‘crisi d’identità’ che in cortocircuiti e ribaltamenti concettuali, dove posizioni tradizionalmente ascrivibili alla ‘sinistra’ sono state assimilate dalla ‘destra’ e viceversa.
Questi due processi vanno intesi insieme e sono parte di una medesima configurazione. La prima tendenza è quella strutturalmente portante e definisce il carattere della nostra epoca, come epoca del trionfo della ‘ragione liberale’ (e della sconfitta del suo principale competitore storico, dopo la caduta del muro di Berlino). In mancanza di avversari la ragione liberale ha accelerato le tendenze di sviluppo interne, e segnatamente i processi di movimentazione globale di merci, forza-lavoro e capitale. Quest’accelerazione ha riportato alla luce i limiti del progetto politico liberale e capitalistico, che dopo la crisi finanziaria del 2008 appaiono manifesti a chiunque non sia ideologicamente accecato.
Il rimescolamento odierno delle categorie di ‘destra’ e ‘sinistra’ è un effetto diretto dell’apogeo, e della concomitante crisi, della ragione liberale. Una chiara manifestazione ne è stato lo scivolamento negli anni ’80 e ‘90 della ‘sinistra’ occidentale (comunisti e socialisti) su posizioni liberali, facendo proprie le istanze di ciò che fino a poc’anzi era il ‘nemico’. Ciò è avvenuto facendosi carico dell’intero blocco ideologico liberale, dalla tradizione dei diritti umani, al libertarismo individualista, dalla contestazione dello Stato, alla venerazione delle libertà di mercato. Solo alcune minoranze della ‘sinistra’ tradizionale hanno continuato, con non pochi imbarazzi e ambiguità teoriche, a tener fermi alcuni punti di contestazione al blocco liberal-capitalistico. Simultaneamente, il vuoto nella rappresentanza di istanze anticapitalistiche e antiliberali prodotto dalla defezione della ‘sinistra’ ha fatto spazio ad una sua parziale appropriazione da parte della ‘destra’.
Questo duplice processo di riposizionamento sta trasformando il paesaggio politico tradizionale, ma il tutto si sta svolgendo in una cornice di opacità e scarsa consapevolezza, che nasconde il carattere strutturalmente obsoleto delle categorie di ‘destra’ e ‘sinistra’. Finora chi ha osato denunciare tale obsolescenza è stato tacciato di ‘qualunquismo’ o di ‘tradimento’, in un pervicace rifiuto di riconoscere uno stravolgimento già avvenuto. In molti rimangono abbarbicati a simulacri delle vecchie categorie, oramai scarnificate o ‘geneticamente modificate’, senza voler riconoscere che la realtà si è lasciata alle spalle quelle forme, come un serpente la sua pelle. A sinistra, dove l’esplicitazione dell’apparato teorico è stata storicamente più definita, l’irrigidimento delle posizioni appare particolarmente persistente, con l’aggrapparsi ansioso ad una coperta di Linus fatta di parole d’ordine e riflessi condizionati. La minore elaborazione teorica della destra si è rivelata, in questa fase, un paradossale vantaggio, consentendo aggiustamenti di tiro più pragmatici (o semplicemente più opportunisti).
Il processo cui stiamo assistendo è dotato di una logica storica ferrea, che però deve trovare riconoscimento teorico, e rappresentanza politica, per superare l’attuale situazione di incertezza e paralisi. Ciò cui assistiamo oggi è la faticosa ricomposizione di quel mondo umano che il modello liberal-capitalistico ha progressivamente marginalizzato. Tale ricomposizione deve avvenire recuperando in un’immagine unitaria le contestazioni della ragione liberale presenti tanto nella tradizione ‘di destra’ che in quella ‘di sinistra’.
2) Le radici storiche
Il modello liberal-capitalistico ha poco più di due secoli nell’Europa continentale e solo qualche decennio di più in Inghilterra, dove mosse i primi passi. In Europa il suo imporsi passò attraverso lo spartiacque, determinante quanto ambiguo, della Rivoluzione francese, che fu anche il contesto in cui vennero alla luce le categorie di ‘destra’ e ‘sinistra’.
Come noto, questa distinzione nacque nell’Assemblea Nazionale Costituente del 1789, a partire dalla posizione fisica dei gruppi rispetto al presidente: alla sua destra stavano monarchici, conservatori e tradizionalisti, mentre filorivoluzionari e illuministi stavano alla sinistra. Successivamente, nell’Assemblea Legislativa del 1791, la destra venne assegnata ai fautori della monarchia costituzionale – che accettavano l’abolizione del feudalesimo –, e la sinistra ai repubblicani seguaci delle idee dell’Illuminismo (Giacobini, Cordiglieri, Girondini, ecc.).
L’evoluzione interna del processo rivoluzionario portò alla luce ben presto una discrasia interna alla parte vincente, cioè alla ‘sinistra’. Schematicamente, l’opposizione alle gerarchie di sangue dell’Ancien Régime iniziò a mostrare una divaricazione tra chi intendeva sostituirle con una gerarchia di censo e chi intendeva sostituirle con una società egalitaria. Le istanze egalitarie, che persero terreno dopo il 1794, riemersero in varie forme di neogiacobinismo dopo la Restaurazione, ricevendo una nuova investitura con l’opera di Karl Marx, in cui l’egalitarismo usciva dall’astrattezza giacobina e prendeva la veste chiarificatrice di una richiesta di giustizia sociale, nella cornice di una critica ai meccanismi di produzione e riproduzione del capitale.
Il modello liberal-capitalistico si impose in Europa, nella scia della Rivoluzione francese, come presa del potere da parte della borghesia (che rappresentava allora una minoranza della popolazione, inferiore al 10%). Ad essa nel corso dell’800 si opposero dunque un fronte conservatore e tradizionalista (destra), e un fronte egalitario (frazione dell’originaria ‘sinistra’). La loro diversa genesi tenne l’antiliberalismo della destra e quello della sinistra (socialista e comunista) a distanza nel corso dell’intero XIX secolo e per parte del XX. Per tutta la prima metà del XIX secolo – la ragione liberale ebbe motivazioni storiche potenti per imporsi, presentandosi come una necessità storica dotata di un carattere ‘progressivo’ che né l’egalitarismo di ‘sinistra’, né il tradizionalismo di ‘destra’ potevano vantare.
Nella seconda metà del XIX secolo l’elaborazione marxiana fornì alla ‘sinistra’ antiliberale un potente strumento di analisi che, identificando il ruolo fondamentale del capitale, consentiva di approntare politiche popolari strutturate. È su questa base che il movimento socialista poté espandere la sua base di consenso nel corso dell’800, fino a divenire una concreta minaccia per il modello liberal-capitalistico.
Diversa fu la storia dell’antiliberalismo di destra, nel cui ambito non vi fu una figura di impatto comparabile a quello di Marx, e la cui impronta ab origine antirivoluzionaria (e antipopolare) lo relegò a lungo in una posizione di opposizione tendenzialmente aristocratica ed elitista. La mancanza di una teorizzazione dominante lasciò tuttavia spazio ad una varietà di posizioni, che oscillavano dal tradizionalismo, al conservatorismo religioso, al nazionalismo, al populismo, al darwinismo sociale spenceriano, all’individualismo nietzscheano. Questa minore definitezza teorica ha spesso consentito alla destra di adattarsi alle circostanze in maniera pragmatica (od opportunistica), come visibile nella parabola fascista, dove tutte le istanze citate, per quanto in contraddizione tra loro, riuscirono a trovare spazio.
D’altro canto, tanto nella tradizione di destra che in quella di sinistra hanno trovato posto forme di assimilazione del paradigma liberal-capitalistico.
A destra ciò è avvenuto precocemente, rigiocando la concezione gerarchica della società, originariamente di matrice aristocratica, in chiave di gerarchizzazione economica: il darwinismo spenceriano e versioni divulgative del superomismo nietzscheano hanno fornito spesso il pretesto per assimilare istanze capitalistiche. Un’ampia parte della tradizione di destra, a partire da fine ‘800 ha rivestito il capitalista vittorioso (‘padroni del vapore’ o ‘maghi della finanza’ che fossero) dei panni dell’eroe guerriero: Shylock che recita Sigfrido.
A sinistra l’assimilazione di istanze liberali avvenne più tardi, una volta venuta meno la fiducia nella lezione marxiana, ma a quel punto essa avvenne con grande radicalità, rendendo nell’ultima parte del XX secolo pressoché indistinguibili posizioni liberali e posizioni ‘di sinistra’.
Ma tanto nell’ambito della destra quanto in quello della sinistra ha continuato a sussistere una dimensione, minoritaria ma viva, di consapevole contestazione del modello liberal-capitalistico.
3) Parzialità strutturali e il dovere di superarle
Tanto la tradizione antiliberale di destra, che quella di sinistra sono naufragate più volte contro limiti e parzialità delle rispettive letture della realtà. Ma percepire dei limiti non è di per sé ancora sufficiente a definire un orizzonte di superamento.
D’altro canto chi aderisce al modello liberal-capitalistico non vede alcuna necessità di ‘superare destra e sinistra’, perché ne considera le versioni antiliberali meri tratti folcloristici finiti nella “pattumiera della storia”, e ne contempla come concrete solo le varianti liberali, che sono espressioni essenzialmente intercambiabili del modello dominante (il ‘bipolarismo’ politico degli ultimi decenni ne è chiara testimonianza).
La percezione, spesso acuta, della necessità di superare le parzialità della ‘destra’ e della ‘sinistra’ tradizionali non è di per sé sufficiente a produrre una sintesi feconda. Confuse evocazioni di ‘incontri a metà strada’, e formule ad effetto tipo “valori di destra, idee di sinistra” lasciano il tempo che trovano, finché non se ne determinano gli specifici punti ciechi.
Alla tradizione della destra antiliberale è mancata l’analisi marxiana e post-marxiana. Essa ha perciò sofferto di tre fondamentali tendenze: 1) a sottovalutare la capacità delle condizioni economiche di determinare i rapporti di potere, interni ed esterni; 2) a sottostimare l’impatto dell’educazione e della cultura sulle disposizioni umane; 3) a misconoscere la diversificazione degli interessi di classe e la loro essenziale divergenza in una cornice capitalistica. Nonostante alcuni autori di matrice marxista, come Gramsci, siano stati in parte recepiti da minoranze della riflessione di destra (es.: Alain De Benoist), questa dimensione analitica resta subottimale nella ‘destra sociale’, e ciò ne limita la capacità di avere una visione pienamente realistica della società e di incidere sui processi capitalistici.
Alla tradizione di sinistra, sulla scorta del suo originario innesto nell’universalismo illuminista, è mancata un’adeguata comprensione del significato antropologico di tre fattori: 1) il radicamento territoriale; 2) l’appartenenza alla natio (famiglia, comunità, stato-nazione); e 3) l’adesione ad un éthos (costumi, tradizioni, cultura materiale). Nonostante in Marx, sulla scorta di Hegel, ci sia un apparato teorico capace di fare spazio a questi fattori, tale dimensione è rimasta ambigua nelle pagine marxiane, e successivamente verrà marginalizzata con l’assimilazione del socialismo scientifico in chiave positivistica. Tanto il socialismo nel XIX secolo, che il comunismo nella prima parte del XX secolo, manterranno comunque aperta la porta a questa dimensione etica di radicamento e appartenenza, che fa capolino in intellettuali come Gramsci e Pasolini. Tuttavia dopo il ’68 la componente libertaria e individualistica avrà la meglio, espellendo l’idea stessa di ‘comunità’, così cruciale alla tradizione ideale del ‘comunismo’ – che precede di molto Marx – dal novero delle idee ‘di sinistra’.
Lo scarso credito che oggi caratterizza l’antiliberalismo di ‘sinistra’ e quello di ‘destra’, separatamente presi, è dovuto alle loro strutturali parzialità, emblematicamente rappresentate dall’insuccesso dei comunismi e dei fascismi storici. Sul piano simbolico (sospendendo il piano della realtà storica, molto più articolato e complesso) i comunismi-socialismi realizzati sono percepiti come appiattimento individuale e ateismo di stato, mentre i fascismi come prevaricazione violenta, irrazionalismo e intolleranza. In entrambi i casi questa approssimazione simbolica segnala un fondo reale.
L’ispirazione comunista-socialista ha sofferto di un fondamentale punto cieco, nell’assumere una visione astratta dell’umano, di matrice illuminista. In questa visione il razionalismo si tradusse frequentemente in riduzionismo scientifico e laicismo forzoso, dove l’uomo sottratto alla dimensione storico-tradizionale e a quella spirituale veniva uniformato e semplificato. Ciò prese la forma a fine ‘800 di una ‘naturalizzazione’ dell’uomo secondo un modello positivista e riduzionista, modello profondamente inadeguato a fornire una spinta motivazionale e un’adesione affettiva duratura alle aggregazioni sociali. Tale astrattezza si palesa già nella difficoltà teorica per le riflessioni marxiane di attribuire contenuti positivi al comunismo a venire: la definizione del comunismo come “movimento reale che abbatte lo stato di cose presenti” ne rivela in trasparenza il carattere essenzialmente negativo. Questa labilità della matrice socialista/comunista nell’istituire un’adesione partecipativa profonda può essere scorta in filigrana – al netto di un’ovvia semplificazione storica – in molti momenti decisivi della sua storia. L’impotenza dei partiti socialisti di opporsi all’empito nazionalista che fece da volano alla Prima Guerra Mondiale ne mostrò drammaticamente un aspetto. La scarsa ‘fidelizzazione’ delle popolazioni sotto il ‘socialismo reale’, una volta venute meno le esigenze di guerra, ne fu un’altra espressione. L’involuzione delle ‘sinistre’, fino all’odierno ‘sconfittismo’, una volta venuta meno la fiducia nel modello critico marxista, dopo il ’68, ne è una terza espressione. Finché c’è un nemico, la componente critico-negativa dell’apparato socialista-comunista può rappresentare da sola un collante sufficiente, ma in mancanza di questo ruolo oppositivo l’adesione promossa da un paradigma positivista e riduzionista risulta fragile. Per quanto questo problema non sia strettamente imputabile alla concettualizzazione marxiana, che rimane nell’essenza umanista e storicista, esso è stato spesso caratterizzante degli sviluppi storici socialisti/comunisti.
L’ispirazione di destra ha invece sofferto di un differente punto cieco, anch’esso discendente dalla mossa originante che la mise al mondo: l’originaria ostilità al razionalismo illuminista si sviluppò spesso in generico irrazionalismo e anti-intellettualismo. Quest’aspetto ha preservato la destra dal riduzionismo e dall’astrattezza positivista, ma l’ha spesso consegnata al mero pregiudizio. Questa permeabilità al pregiudizio, al convincimento prerazionale e prescientifico, è alla radice dei suoi due principali difetti storici. Da un lato, l’aspettativa che le diversità di fondo, i contrasti, siano razionalmente inestricabili ha promosso una propensione alla ‘sbrigatività semplificatoria’ che non di rado è sfociata in violenza o prevaricazione, vissute come necessità di tagliare nodi gordiani razionalmente indissolubili. Dall’altro lato, lo spazio lasciato al giudizio pre-analitico, al pre-giudizio, ha aperto le porte a scivolamenti nella xenofobia e nel razzismo. Per quanto il rigetto da destra delle astrazioni illuministe e dello scientismo sia perfettamente compatibile con un’idea forte di razionalità (ad esempio quella hegeliana), questa tendenza irrazionalistica ha spesso preso il sopravvento nelle prospettive di destra.
Queste due parzialità spiegano anche i modi specifici in cui la teoria liberale ha potuto assimilare di volta in volta talune istanze sia di destra che di sinistra. La ragione liberale è infatti caratterizzata dalla giustapposizione di due errori complementari. Da un lato promuove una visione dell’umano ridotto ad un’individualità impermeabile e irriducibile, sottratta a valutazioni razionali, una scatola nera come agglomerato di desiderata insindacabili, di pulsioni che si esprimono in meri atti di preferenza. Dall’altro lato essa promuove una visione della natura (mondo) come luogo governato da leggi rigorose e inviolabili (fisiche o economiche), leggi che pongono la natura come mero materiale a disposizione, anonimo strumento dominabile attraverso cause e computazioni. La prima posizione, che possiamo chiamare di “individualismo a-razionale”, ha dato ospitalità ad alcune istanze di destra, mentre la seconda, che possiamo chiamare di “naturalismo riduzionistico e costruttivista”, è risultata compatibile con alcune istanze di sinistra.
È importante sottolineare come l’antiliberalismo ‘di destra’ e quello ‘di sinistra’ siano accomunati proprio nell’opposizione a questi due pilastri della concettualità liberale. Entrambi infatti assumono una base ‘umanistica’, per cui esiste una ‘essenza dell’umano’, irriducibile all’individuale, che consente di definire ciò che è giusto o ingiusto, ciò che è di valore o disvalore. Ed entrambi assumono l’idea di una natura dotata di valore e sviluppo (una storia), e che non è semplicemente ‘a disposizione’ come strumento per finalità arbitrarie.
4) Necessità e difficoltà di una nuova direzione
Il tacito presupposto di tutto quanto precede è l’identificazione del ‘nemico’ in questa fase storica. Per chi scrive (per ragioni che troveranno esplicitazione in un lavoro di prossima uscita), il problema strutturale dell’epoca che abbiamo la ventura di vivere è rappresentato dalla necessità inderogabile di superare il modello liberal-capitalistico, modello che ha esaurito la sua spinta storica propulsiva e che ora comincia a divorare sé stesso, avvelenando simultaneamente tutto ciò che lo circonda, uomini e natura, valore e senso, storie e speranze.
Il modello di società liberal-capitalistico, pur presentando linee di rottura molteplici, possiede, come tutti i sistemi storici consolidati, grande inerzia e resilienza. Non basta segnalarne i gravi problemi per decretarne il superamento, ma è necessario disporre di un’offerta politica con un’alternativa che permetta di percepire per contrasto l’intollerabilità del sistema vigente.
Ciò significa che vanno riconosciuti i modi fondamentali dell’influsso dell’economia sulla società (alienazione, sfruttamento), che vanno denunciati i meccanismi di ricatto economico su individui e gruppi, che va compreso come la mercificazione operi in profondità nel disgregare soggetti e forme di vita. Al tempo stesso bisogna comprendere come ciascun soggetto sia pienamente ciò che è in quanto nato e cresciuto in uno specifico contesto: famigliare, territoriale, linguistico, culturale, materiale; e che tale appartenenza ne definisce in parte significativa l’orizzonte valoriale e il senso. Bisogna comprendere che tanto l’identità individuale quanto l’identità collettiva rappresentano fattori determinanti nella definizione di ciò che di volta in volta è ‘di valore’, e che perciò svuotare tali identità nel nome di un’umanità astratta composta di individui idiosincratici e, di principio, mutuamente estranei è non solo un errore teorico, ma una fondamentale minaccia al senso che gli uomini conferiscono alle proprie esistenze.
Questo significa che una politica che voglia rappresentare un’alternativa al modello dominante deve far posto a idee e valori che si sono trovate storicamente su versanti differenti: giustizia sociale, solidarietà, redistribuzione, comunità, appartenenza, identità, lealtà, onorabilità, riconoscimento, senso dello Stato e amore per la propria terra. Si tratta di una costellazione di nozioni non soltanto internamente compatibili, ma fondamentalmente coessenziali, e strutturalmente alternative a tutte le tendenze di fondo del modello liberal-capitalistico.
Molti problemi contingenti si oppongono a questa esigenza, pure inderogabile. Ne voglio menzionare qui solo uno, apparentemente minore, e tuttavia insidioso, che probabilmente continuerà ad ostacolare a lungo la creazione di una sintesi capace di superare le parzialità storiche di ‘destra’ e ‘sinistra’. Non si tratta di una difficoltà teorica, ma squisitamente psicologica. Ciascuna tradizione ha avuto, ed ha, le sue letture preferenziali della storia, in cui ha collocato sia i propri ‘eroi indiscussi’ che le sue ‘figure controverse, ma difendibili’. La ricostruzione storica in forme convenienti, proiettandovi le proprie ragioni e i torti altrui, è sempre stata una forma influente per creare un senso di gruppo e una sfera di mutuo riconoscimento. Due secoli di evoluzione politica su binari paralleli ha creato dei ‘pantheon’, negativi e positivi, costruiti per essere mutuamente incompatibili.
Ora, fino a quando le prospettive antiliberali di destra e di sinistra si incontrano sul terreno dell’analisi del presente e sulla progettazione di prospettive future, non vi sono ragioni sostanziali perché esse non possano conciliarsi, creando anzi una sintesi assai più potente delle sue parti. Ma nel momento in cui esse confrontano le proprie narrazioni storiche e i relativi ‘pantheon’, lo scontro è sempre latente. (Questa insidia è peraltro ben presente anche all’interno della stessa storia della ‘sinistra’, dove il ‘pantheon’ socialista e quello comunista sono ben lontani dal coincidere.) Ci sono figure e personaggi storici costruiti in modo da suscitare la semplice immediata repulsione in un gruppo mentre magari sono stimati, o almeno giustificati, nell’altro. Ci sono letture degli eventi articolate e consolidate che confliggono senza scampo. Per quanto la freddezza dell’analisi storica possa in linea di principio restituire ragioni e torti, riconfigurare luci ed ombre di qualunque figura del passato, è dubbio che tale differenza di retroterra possa essere liquidata con facilità. La nascita di una prospettiva politica che superi destra e sinistra in una chiave critica del modello liberale è una necessità storica, ma l’esatta forma in cui ciò potrà avere luogo appare ancora piena di incognite.

Antonino Galloni L’altra moneta Womanesimo e Natura, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Antonino Galloni L’altra moneta Womanesimo e Natura (dall’avere all’essere), Ed. Arianna 2019, pp. 159 € 15,00

È inconsueto leggere nel “proemio” del libro che “Al liceo e all’Università mi hanno insegnato che la guerra è la continuazione della politica, con altri mezzi; adesso insegno che l’economia può essere la continuazione della guerra, con vari mezzi”. Il che significa: a) che la politica – e il politico – è determinante; b) che l’economia riproduce – e spesso serve – le stesse distinzioni e finalità del politico. Cioè crea (e supporta) inimicizia ed amicizia, situazioni di comando ed obbedienza. Cosa ovviamente nota al pensiero moderno da Marx a Weber, Schmitt o Wittvogel, ma dimenticata da quello contemporaneo per cui l’economia (lo sviluppo economico) dovrebbe avere come effetto di eliminare il dominio, pacificare, e così subordinare il politico.

L’esprit de commerce limita l’esprit de comquete: che la considerazione di Constant non fosse una regolarità, ma solo una possibilità, più probabile dopo la rivoluzione francese che qualche secolo prima, lo provano, dopo la morte del pensatore di Losanna, le guerre imperialistiche che hanno connotato – in parte – il XIX e XX secolo. Nello stesso periodo, il raggruppamento amico/nemico è stato, almeno fino al collasso del comunismo, determinato (per lo più) da una scriminante economica: la proprietà o meno dei mezzi di produzione.

In tale prospettiva è chiaro che servirsi sempre di moneta a debito – com’è quella che l’istituto d’emissione presta allo Stato – può non essere opportuno, specie in situazioni di crisi. Ricorda Galloni “durante la Prima Guerra Mondiale il Ministro del Tesoro del Regno Unito, trovandosi in difficoltà, scelse di emettere sterline non a debito (non fornite dalla Banca d’Inghilterra), così risolvendo un enorme problema per il suo Paese (e non si può negare che ciò abbia contribuito alla conclusione positiva delle belligeranze per il suo Paese … eppure funzionò” e potrebbe ancora funzionare.

Onde l’economista propone di emettere moneta a sola circolazione nazionale, non convertibile, come mezzo per uscire dalla crisi. Mesi fa, polemizzando con Draghi il quale aveva sostenuto – mal applicando l’albero di Porfirio (la c.d. “divisione esauriente”) e riferendosi ai mini-Bot proposti dalla Lega che questi o sono illegali o generano ulteriore debito – che non era vero né l’uno né l’altro. Infatti perché fossero illegali occorrerebbe che fossero vietati da una legge o un Trattato: ma il Trattato di Lisbona non li vieta. Che aumentino lo stock di debito non è neanche vero, nella proposta leghista, perché da un lato sono liberamente accettati dal creditore, il quale lo fa perché opta di essere pagato subito con quelli e non anni dopo con l’euro. D’altra parte se il creditore li gira in pagamento a qualche (proprio) creditore, anche in tal caso il terzo può liberamente accettarli o meno. Il tutto fu (ampiamente) sperimentato in Germania negli anni ’30 con un mezzo simile: le cambiali MEFO (garantite dallo Stato). Scriveva Schacht, il quale tale sistema aveva ideato e realizzato, che data la garanzia del Reich e il buon saggio d’interesse, gran parte delle cambiali finirono per essere girate a terzi o detenute in attesa della scadenza, piuttosto che presentate per lo sconto alla Reichsbank.

L’effetto (anche) delle cambiali Mefo fu di finanziare gli enormi investimenti pubblici del Terzo Reich (compreso il riarmo). Anche in tal caso “funzionò”. Ma contro tali strumenti alternativi si ricorre ad ogni genere di esorcismo anche a quello della logica.

Dimenticando quello che l’Europa (tanto amata) ci ricorda sempre, da ultimo con la sentenza della Corte UE del 28 gennaio: che i debiti vanno pagati. e alla scadenza. L’inverso di quanto praticato dalla finanza (piddina soprattutto) della seconda repubblica.

Peraltro nascondendo che di tali – o simili – mezzi alternativi d’estinzione delle obbligazioni si era fatto uso con risultati positivi. Dato però che l’assetto di potere economico oggi prevalente è diverso, occorre non intaccarlo. E con buona pace dell’ “ottimo” economico, torniamo così al rapporto di dominio.

Teodoro Klitsche de la Grange

DAGLI AMICI MI GUARDI IDDIO…., di Teodoro Klitsche de la Grange

DAGLI AMICI MI GUARDI IDDIO….

Da quando è in sella il governo giallorosso i suoi sostenitori decantano che i rapporti con l’Europa sono tornati al bello stabile, che il governo è tra i più considerati a Bruxelles e così via.

Nessuno, che mi risulti, ha notato, all’apertura di tali cori, che l’Unione Europea aveva concesso all’Italia un incremento del rapporto deficit/PIL del di 2,2% per il corrente anno, a fronte del 2,04% assicurato al governo “nemico” Lega-M5S.

Questo (misero) 0,16% del PIL, pari a poco più di 2,5 miliardi di euro, ci ha dato la misura dell’amicizia nutrita dall’establishment europeo nei confronti del nuovo governo. Per fare un paragone è assai meno del deficit concesso alla Francia e comunque inferiore a quello realizzato dalla Spagna (2,5%) che non sembrano preoccupare granché i vertici europei. Anche in passato sono stati tollerati rapporti deficit/PIL superiori al 10% senza ansie eccessive. Vero è che per l’Italia – a differenza di altri Stati (come l’Irlanda e il Portogallo) – le dimensioni economiche e il complesso del debito pubblico rende l’incremento più rischioso.

Ciò stante resta il fatto che laddove esiste un rapporto d’amicizia politica o quanto meno un interesse comune degli Stati i rapporti economici non si misurano col bilancino e la partita doppia, ma seguono esigenze e criteri di carattere politico. Facciamo due esempi di questa costante nel secolo scorso.

Il primo: quando la Gran Bretagna, già in guerra con il III Reich, si trovò a corto di contante, Roosvelt ne finanziò l’armamento con la legge “affitti e prestiti” con cui praticamente concesse un credito amplissimo alla Gran Bretagna (e non solo). Rischiando grosso, perché questa era esposta all’invasione delle Panzer Divisionen, per cui i creditori americani correvano il rischio di ritrovarsi il debitore inglese “al gabbio” tedesco.

Qualche anno dopo, di fronte ad un’Europa distrutta dalla guerra, il Presidente Truman col piano Marshall decise di aiutarne la ricostruzione con copiosi aiuti economici. Anche in tal caso determinante fu l’esigenza politica di bloccare l’espansionismo sovietico e di consolidare il rapporto con i governi amici dell’Europa occidentale; comunque il piano si rivelò una mossa azzeccata anche economicamente, perché consentì di accelerare il recupero delle economie europee con notevoli benefici anche per quella USA.

Se i Presidenti USA avessero valutato le situazioni ricordate in base al giornalmastro, forse l’Inghilterra sarebbe finita sotto un Gauleiter o qualche paese europeo-occidentale sotto un governo comunista o para-comunista (di “larghe intese”) con notevole ridimensionamento della potenza USA (e probabilmente, anche  dell’economia). Quindi era stata una scelta corretta e provvida quella di aiutare gli amici politici, anche correndo un rischio elevato.

Se questo è vero, occorre capire perché i governanti europei sono così avari nei confronti dei loro “alleati” italiani e lesinino loro anche gli zerovirgola.

La prima spiegazione è che gli eurocrati pensino che l’economia debba prevalere sulla politica; ma l’ipotesi non è del tutto credibile – anche se in linea col pensiero prevalente (oggi al tramonto). Questo perché l’ascesa del popul-sovranisti rischia di mandare a casa gran parte degli attuali governanti europei (in particolare quelli di centrosinistra, debilitati dalla disaffezione del loro elettorato); e in politica, l’obiettivo di conservazione del potere è primario onde non è credibile che, per  qualche zerovirgola si ripeta quanto già successo nel 2018: che l’Italia è stata il primo paese dell’Europa occidentale ad avere un governo popul-sovranista.

Tenuto conto che comunque c’è un interesse a dare una mano al governo giallorosso, occorre cercare i motivi perché, a Bruxelles si limitino alla falange del mignolo. All’uopo possono formularsi due ipotesi.

La prima è che si considera il governo giallorosso poco o punto affidabile, per due ragioni concorrenti. L’una che tutti i governi italiani dal 2008 ad oggi, pur applicando, spesso con zelo, le direttive europee, non hanno fatto altro che aumentare l’indice deficit/PIL.

Per cui il PD che di quei governi (con l’eccezione del Conte 1) e dell’attuale è il sostegno più qualificante è considerato poco affidabile. Alla fin fine coniuga le direttive europee con la conservazione degli assetti vintage e la strategia delle mance (alle banche, alle concessionarie “privatizzate”, ai tax-consommers) per cui l’aumento del deficit e della spesa non ha alcun effetto politico gratificante. La crescita dei consensi, anche rispetto alle politiche 2018, dei partiti sovranisti (LEGA e          FDS) lo comprova. Come parimenti il crollo rovinoso dei 5S, aumentato dopo il varo del governo Conte-bis. E qua veniamo alla seconda ragione: se il governo attuale, già minoritario, continua a perdere consensi, l’aiuto è politicamente inutile. Meglio trattare con chi ha una reale legittimazione democratica, e cioè il consenso del potere maggioritario, perché quanto meno, ha più autorità nel far valere poi gli accordi stipulati e mantenerli.

Insomma c’è un grave sospetto che quello 0,16% in più di deficit sia dovuto alla scarsa considerazione che “la dove si puote ciò che si vuole” si ha delle declinanti élite italiane. Altre ragioni si potrebbero enumerare, ma paiono d’impatto minore. La sostanza è che in Europa si aspettano l’imminente tracollo – se non definitivo, almeno per un decennio – degli “amici” italiani.

Per cui come succede in guerra dove gli ascari o gli auxilia erano i primi ad essere sacrificati, così lo saranno gli “amici” italiani, a prova di un rapporto ineguale più che di amicizia, di sudditanza. Politicamente normale per chi la accetta.

Teodoro Klitsche de la Grange

Il gioco dell’oca, di Andrea Zhok

Sul Financial Times di una settimana fa è apparso un articolo cui è utile dedicare qualche riflessione (vedi estremi nei commenti).

https://amp.ft.com/content/b9dea3b6-3384-11ea-a329-0bcf87a328f2?__twitter_impression=true&fbclid=IwAR3GtZdXmuER3AtBlxH1Bz4aGW3DSJ9HWj_8gVMxgpuGDWFhheSuh0g2vXg

In sostanza vi si sostiene che:

1) L’Italia sta bloccando la firma del MES con specifico riferimento al regolamento bancario.

2) Il blocco per il presente governo avrebbe ragioni di ‘vendibilità politica’ presso l’opinione pubblica, ragioni che potrebbero essere rimosse di fronte a eventi politici che indebolissero l’opposizione (Lucrezia Reichlin, intervistata, cita esplicitamente una possibile vittoria del PD nelle prossime elezioni regionali).

3) L’oggetto fondamentale del contendere sono le limitazioni agli istituti bancari privati nel detenere titoli del debito pubblico. Va notato che tale possibilità è considerata dall’articolista del Financial Times come “un potere attraente per i governi di farsi finanziare il debito quando nessun altro sarebbe disponibile a farlo”. In altri termini il debito pubblico in pancia agli istituti privati viene visto – coerentemente con posizioni neoliberiste – come una comoda valvola di sfogo per i governi, che disporrebbero così di margini di spesa altrimenti inaccessibili e non sarebbero costretti alla piena ‘disciplina dei mercati’.
A questo proposito è utile sottolineare tre punti:

3.1) I titoli del debito pubblico, italiano e non solo, si trovano in grande quantità in possesso di istituti bancari privati perché così era concepito il sistema del Quantitative Easing (LTRO e TLTRO): la concessione di credito facile da parte della BCE avveniva rigorosamente solo al sistema bancario privato, che lo usava per acquistare titoli di stato, come collaterale. Non si trattava dunque di un ‘trucco’, ma di un’operazione concepita per funzionare esattamente in quel modo e di cui si conosceva perfettamente l’esito.

3.2) Incidentalmente il QE serviva a tappare i buchi creati dalla crisi subprime e dai suoi postumi, crisi creata non da ‘governi dalla spesa facile’, ma dai mercati finanziari, quelli che poi sarebbero chiamati a bacchettare severamente gli stati per ‘disciplinarli’.

3.3) Togliere quello che il FT presenta come una sorta di ‘privilegio dei governi’, e dunque obbligare il sistema bancario italiano a disfarsi di parte significativa dei titoli di stato in suo possesso significa simultaneamente mettere in ginocchio il sistema bancario italiano, e devastare l’equilibrio finanziario dello stato, obbligando quest’ultimo ad un’operazione austeritaria rispetto a cui il governo Monti sembrerà un Luna Park.

4) La posizione sostenuta anche da Ignazio Visco (non da Che Guevara) che tali limitazioni all’esposizione bancaria in titoli di stato sarebbero sopportabili dal sistema italiano solo con l’istituzione di ‘eurobond’ (cioè di una corresponsabilità sui debiti pubblici a livello europeo) non è neppure lontanamente presa in considerazione, per la semplice ragione che sono “anatema” per Germania e paesi satellite del Nord Europa. Questo ci ricorda quanto contino le frasette “vogliamo un’Europa diversa”, e “cambieremo l’Europa dall’interno”.

————————

A questo punto qualcuno dovrebbe chiedere al presente governo di prendere una ferma ed inequivoca posizione, negando solennemente che la firma del MES, con quelle clausole, sia all’ordine del giorno nel caso di una sconfitta di Salvini alle regionali (con conseguente consolidamento della durata del governo).

In mancanza di chiare garanzie su questo punto, la cui portata è potenzialmente drammatica, bisognerà prendere dolorosamente atto che gli italiani – almeno quelli consapevoli – vengono spinti a forza nelle braccia di Salvini.

CHI DECIDE PER SALVINI?, di Teodoro Klitsche de la Grange

CHI DECIDE PER SALVINI?

Ha suscitato un vivace dibattito la richiesta di autorizzazione a processare Salvini sulla quale si deve pronunciare la camera d’appartenenza.

Ovviamente il ritornello più battuto dalla maggioranza parlamentare è quello solito: eguaglianza versus privilegio; giustizia versus politica; in minor misura umanità versus sicurezza nazionale.

Da una parte si vuole che la giustizia faccia il suo corso, dall’altra che la politica lo interrompa. Chi ha ragione?

Si può rispondere, in prima battuta: entrambi. Questo perché se una condotta è illecita (giudizio giuridico) o se è politicamente opportuna (giudizio politico) si valutano in base a parametri diversi, hanno corsi differenti e sono entrambi necessari all’esistenza comunitaria. Per cui il fatto che un’azione sia illecita non implica che non sia opportuna e viceversa. Anzi già nella Farsaglia (14 secoli prima di Machiavelli) il contrasto tra norma e opportunità politica è così descritto da Lucano: “Sidera terra ut distant et flamma mari, sic utile recto.Sceptrorum vis tota perit, si pendere iusta incipit, evertitque arces respectus honesti”[1]

Onde nel Principe, dove si legge a proposito del contrasto tra (norma) morale e opportunità politica “è necessario a un principe, volendosi mantenere, imparare a poter essere non buono e usarlo e non usarlo secondo la necessità”, il Segretario fiorentino non faceva che esprimere mutatis mutandis l’esigenza di autonomia della politica. E ancora della prevalenza dell’istituzione politica la cui funzione è la protezione dell’esistenza della comunità.

Dato che, in uno Stato, la protezione comporta anche, sia pure in subordine, di assicurare l’ordine (anche) con l’applicazione del diritto, occorre trovare dei meccanismi in grado di garantire che, nei punti di frizione tra opportunità e politica ed applicazione della legge, si prenda una decisione, necessariamente derogativa del corso normale della giustizia. E così è, anche nei moderni Stati democratici-liberali, nei quali, quando sono in gioco responsabilità politiche, si prescrivono deroghe alla giurisdizione ordinaria. Nel caso dei ministri in Italia la norma relativa (l’autorizzazione a procedere), espressa nella brevità della disposizione è che: a) la camera valuta con giudizio insindacabile; b) se il ministro abbia agito per la tutela di un interesse (ripetuto due volte) pubblico. La camera così non giudica se vi sia illecito, ma soltanto se l’eventuale illecito, anche se commesso, era comunque in funzione di un interesse generale (prevalente). La responsabilità è tutta politica: se l’elettorato non condivide la decisione della Camera, alle prime elezioni può rimandare a casa politici sgraditi.

Così Salvini non sbaglia nel sostenere che aver chiuso i porti era volontà maggioritaria degli italiani (v. risultati elettorali); che rincorrendo interpretazioni, anche ove non peregrine, è voler sopraffare quella volontà: e se proprio gli italiani fossero di opinione diversa dalla Lega, hanno il potere di ridurla alle dimensioni pre-Salvini. La questione è tutta politica e, in una democrazia, rimessa al popolo e non a un collegio di funzionari, i quali per quanto stimabili e giusperiti, non hanno il potere di derogare alle leggi, ma solo di applicarle.

E se anche giuridicamente fondato e condivisibile, la decisione relativa potrebbe essere politicamente inopportuna o contraria alla volontà del “potere maggioritario”: cioè quella del popolo.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

[1] “L’utile dista dall’equo come gli astri dalla terra e il fuoco dal mare. Tutta la forza degli scettri perisce se considera il giusto; il rispetto dell’onestà abbatte i castelli” Pharsalia, VIII, 487-490

BETTINO CRAXI, UNO DEGLI UOMINI POLITICI PIU’ ONESTI NELLA STORIA DEL NOVECENTO ITALIANO, di Giuseppe Angiuli

 

BETTINO CRAXI, UNO DEGLI UOMINI POLITICI PIU’ONESTI NELLA STORIA DEL NOVECENTO ITALIANO

 

 

Il ventesimo anniversario della morte di Bettino Craxi è stato accompagnato da un inatteso clima di curiosità, attenzione e partecipazione emotiva nell’opinione pubblica del nostro Paese, lasciandoci forse intravedere per la prima volta dei barlumi circa la possibilità di aprire finalmente un serio dibattito che conduca ad una radicale riscoperta e ad una giusta ri-valorizzazione della figura del leader socialista, con cui porre fine ad un lungo periodo di ingiusto oblio e di inaccettabile damnatio memoriae nei suoi riguardi.

A determinare tale clima nel Paese non penso abbia contribuito unicamente la programmazione nelle sale cinematografiche della pregevole pellicola di Gianni Amelio dal titolo Hammamet, contraddistinta da una interpretazione straordinariamente realistica dell’attore Pierfrancesco Favino e che, lungi dal fare luce sui torbidi retroscena del Golpe morbido del 1992 passato alla storia come Mani Pulite, è riuscito quanto meno nell’intento di risarcire parzialmente la dignità di Bettino Craxi restituendolo in tutta la sua nuda umanità all’immaginario collettivo degli italiani.

In realtà, a distanza di 20 anni esatti dalla tragica dipartita dello statista milanese – a cui fu di fatto reso impossibile il rientro in Italia per curarsi, senza correre il contestuale rischio di farsi arrestare – vi sono ormai tutte le condizioni per trarre finalmente un serio ed onesto bilancio sulle vicende che portarono alla fine della cosiddetta Prima Repubblica, con tutto quel che ne è conseguito in termini di trionfo del neo-liberismo e della globalizzazione nonché in termini di drastica riduzione della sfera delle opportunità economiche e dei diritti sociali degli italiani.

In particolare, i nostri concittadini con un po’ di capelli bianchi sul cranio sono oggi perfettamente in grado di operare un serio e crudo confronto fra le condizioni generali di vita in cui si trovava il Belpaese nei tanto vituperati anni ’80 del secolo scorso, quando i socialisti craxiani erano collocati a Palazzo Chigi (all’epoca l’Italia era la quinta potenza industriale al mondo) e le condizioni miserevoli e patetiche in cui esso si trova oggigiorno, dopo una lunga fase di sistematica spoliazione delle nostre ricchezze e di umiliazione della nostra sovranità nazionale e dopo quasi un trentennio di idiozie e scempiaggini (prima fra tutte quella sui meccanismi che avrebbero dato vita alla spirale dell’incremento del nostro debito pubblico) che hanno preso il totale sopravvento nel dibattito politico di casa nostra su qualsiasi ragionamento strategico minimamente dotato di buon senso.

Negli anni ’30 del secolo scorso, Benedetto Croce, con una saggia riflessione che al giorno d’oggi si attaglierebbe perfettamente a tutti i post-dipietristi travagliati ed in particolar modo ai grilloidi a cinque stelle, affermava che la frequente richiesta di onestà in politica altro non è che un «ideale che canta nell’anima di tutti gli imbecilli».

E a chi gli domandava che cosa fosse per lui, in fondo, l’essere onesti nella vita politica, il filosofo nativo di Pescasseroli rispondeva così: «L’onestà politica non è altro che la capacità politica, come l’onestà del medico e del chirurgo è la sua capacità di medico e di chirurgo, che non rovina e assassina la gente con la propria insipienza condita di buone intenzioni e di svariate e teoriche conoscenze».

Noi siamo d’accordo con Croce e ci permettiamo di aggiungere che a nostro avviso l’uomo politico onesto fino in fondo è colui il quale si dedica con passione alla lotta politica perseguendo una sua precisa visione del mondo e del Governo della cosa pubblica, che è capace di comunicare con trasparenza tale visione ai suoi elettori o seguaci e che, una volta acquisite delle responsabilità dirette verso la collettività, è in grado di ancorare nel modo più possibilmente coerente i suoi atti e comportamenti alle sue parole.

 

La tomba di Bettino Craxi nel cimitero cristiano di Hammamet

Ebbene, se ci si potesse trovare tutti quanti concordi con questa definizione del concetto di onestà nella vita politica, ecco che dovremmo quasi inevitabilmente pervenire alla conclusione per cui Bettino Craxi non soltanto poteva a giusta ragione qualificarsi come un uomo politico di grande onestà intellettuale ma con buona probabilità è stato senz’altro tra i più onesti e capaci fra tutti i dirigenti politici che il nostro Paese abbia avuto nella storia del novecento.

Craxi è stato onesto e capace prima di tutto nell’avere saputo approntare per tempo una rielaborazione critica, seria e lineare del retaggio ideologico ereditato dal pensiero positivista ottocentesco e dai movimenti politici di matrice marxiana[1].

Senza operare alcuna comoda o frettolosa abiura – come avrebbero fatto i post-comunisti appena dopo il collasso della cortina di ferro nel 1989 – appena dopo avere assunto la guida del P.S.I. nel 1976, Craxi seppe rapidamente dotare il suo partito di una visione moderna e realistica del socialismo riformista, una visione che riusciva a collegare sapientemente i meriti con i bisogni, la giustizia sociale con la salvaguardia delle libertà degli individui, le esigenze della crescita, della produttività e dello sviluppo con quelle legate al welfare ed all’ambizione di ascesa dal basso verso l’alto della piramide sociale.

Tale operazione di saggio revisionismo storico del pensiero marxiano – alla cui elaborazione concorse senz’altro in misura determinante l’apporto dottrinale di pensatori del calibro di Luciano Pellicani e Norberto Bobbio – consentì ai socialisti italiani di giungere bene attrezzati alla responsabilità di guidare il nostro Paese, nel corso degli anni ’80 del secolo scorso, muniti di grande credibilità, di sano realismo e di un’indubbia solidità politico-programmatica.

Il contesto che i detrattori di Craxi oggi descrivono in modo caricaturale come quello degli anni bui della «Milano da bere», della corruzione e delle tangenti fu in realtà un periodo di straordinaria ed impetuosa crescita economica dell’intero Paese, un periodo in cui al successo del Made in Italy nel mondo si associavano un’efficace mobilità sociale ed un potere reale d’acquisto dei salari dei lavoratori italiani impensabilmente alto se posto al confronto con quello odierno, un periodo in cui, in fin dei conti, anche alle famiglie di operai italiani era concesso ogni anno il lusso di farsi almeno due settimane di vacanza in riviera romagnola o sulle Dolomiti.

 

 

Sbaglia peraltro chi pensa di potere accostare politicamente ed ideologicamente in modo perfetto le figure di Bettino Craxi e di Silvio Berlusconi, che erano due personalità molto diverse e per certi versi di natura opposta.

Il rapporto di amicizia, complicità e di reciproca convenienza che Craxi strinse con Berlusconi fu dettato in primo luogo dallo stato di necessità in cui venne a trovarsi lo statista socialista: giunto a Palazzo Chigi nel 1983, egli si trovò a dover fronteggiare il fuoco di sbarramento dell’intero gotha economico-finanziario italiano, a cominciare da Cuccia-Mediobanca, Agnelli e De Benedetti con tutto il corollario della grande stampa ad essi connessa: Corriere, Stampa, Repubblica-L’Espresso.

Fu così che Craxi si trovò di fronte alla scelta obbligata di cercare una sponda mediatica nel parvenu Berlusconi, il quale a sua volta, non essendo mai riuscito a fare ingresso in certi salotti che contano, dapprima utilizzò l’amicizia con Craxi per conquistare terreno nel settore televisivo ma poi nel 1992 mollò presto il suo vecchio amico al suo triste destino, cavalcando anch’egli la prima fase dell’ondata giustizialista di Mani Pulite.

Ma Craxi fu un leader di grande onestà anche e soprattutto per il merito di non avere mai smarrito nella sua azione un forte senso della difesa dell’interesse nazionale, in un Paese come l’Italia che da almeno un migliaio di anni si contraddistingue per una strutturale e atavica propensione al particolarismo, al tradimento, ad un’esterofilia figlia della nostra debole autostima come italiani, un sentimento patologico che molto spesso ci induce perfino a vantare e sbandierare pubblicamente la nostra intelligenza col nemico, all’insegna del celebre motto «Franza o Spagna, purchè se magna».

La sua visione dirigista, statalista ed anti-liberista in economia non venne mai meno nel corso degli anni di Governo a partecipazione socialista, allorquando Bettino non mancò di protendersi coraggiosamente a difendere i gioielli delle nostre partecipazioni statali dalle grinfie e dagli appetiti famelici di uomini senza scrupoli del calibro di Carlo De Benedetti il quale già nel 1985, platealmente agevolato da Romano Prodi, con il tentativo maldestro di acquisizione del comparto alimentare dell’IRI (SME) provò con impudenza a mettere in atto le prime prove tecniche di privatizzazioni-svendita.

 

Craxi in compagnia dello storico leader palestinese Yasser Arafat

La notevole abilità e destrezza con cui Bettino Craxi si muoveva sui più complessi scenari della politica estera costituisce la prova più evidente del carattere genuino della sua passione politica, coltivata fin da quando era un ragazzino e che negli anni lo condusse ad instaurare una rete assai fitta e articolata di rapporti politici, in cui un posto d’onore era riservato ai leader laici e socialisteggianti dell’area mediterranea e dei Paesi in via di sviluppo, su tutti il palestinese Yasser Arafat, il somalo Siad Barre e il libico Muhammar Gheddafi (a quest’ultimo Craxi salvò la vita nel 1986, avvertendolo per tempo dell’intenzione degli USA di bombardare il suo quartiere generale a Tripoli).

Con la visione craxiana della politica estera euro-mediterranea l’Italia ha saputo esprimere il meglio della sua credibilità nel campo delle relazioni internazionali, agendo all’insegna di uno spirito di mutua cooperazione con tutti i popoli del bacino mediterraneo, una modalità d’azione che riusciva a coniugare la legittima difesa dei nostri interessi nazionali col rispetto della sacra aspirazione dei popoli del sud del mondo a coltivare il loro diritto alla conquista della sovranità ed il definitivo affrancamento dal colonialismo.

Secondo l’analista Luca Pinasco, «il grande sogno di Craxi era la costruzione di una “terza via socialista” definita “Socialismo Mediterraneo” che vedeva l’Italia leader di un terzo polo, socialista, il quale aggregava Paesi del sud Europa e i Paesi arabi più laici a sud e a est del Mediterraneo, proseguendo nella via già tracciata qualche decennio prima da Enrico Mattei»[2].

Sfortunatamente per Craxi e per il nostro Paese, agli inizi degli anni ’90 del Novecento, dopo il crollo del Muro di Berlino, gli USA iniziarono a guardare all’Europa con un’ottica del tutto nuova,  in un contesto inedito nel quale il nostro Paese aveva ormai perso la sua funzione strategica di contenimento dell’avanzata del comunismo sovietico verso ovest.

 

Antonio Di Pietro a cena con Bruno Contrada e con altri amici fidati il giorno del primo avviso di garanzia a Craxi (dicembre 1992)

L’operazione sporca Mani Pulite, nella cui orchestrazione furono coinvolti senza alcun dubbio alcuni apparati investigativi e/o informativi d’oltre-oceano, si configurò dunque come una precisa strategia di destabilizzazione degli equilibri politici dell’Italia, alla cui guida era previsto che si collocasse una nuova classe politica docilmente addomesticabile o comunque non in grado di opporre alcuna resistenza a tutte le principali dinamiche che avrebbero contraddistinto la successiva fase storica della Seconda Repubblica, nel contesto generale della globalizzazione neo-liberista: privatizzazioni scriteriate, de-industrializzazione del Paese, smantellamento del welfare e delle tradizionali garanzie del mondo del lavoro dipendente e, in politica estera, sudditanza euro-atlantica senza se e senza ma (la manifestazione più clamorosa di tale sudditanza l’avremmo avuta nel 1999 col bombardamento NATO di Belgrado, avvenuto giusto in coincidenza con l’ingresso del primo Presidente del Consiglio “comunista” a Palazzo Chigi).

Bettino Craxi, una volta compresa la natura sostanzialmente e politicamente eversiva – ancorchè formalmente confinata entro i limiti del diritto positivo – dell’azione dei magistrati del pool di Mani Pulite, si rese conto che per lui, soprattutto se fosse andato in carcere, il destino avrebbe riservato una fine assai simile a quella del caffè al cianuro già dispensato a personaggi del calibro di Michele Sindona e Gaspare Pisciotta e fu così che egli, essenzialmente al fine di salvaguardare la sua incolumità fisica, decise di rifugiarsi stabilmente in Tunisia sotto la protezione dell’amico Presidente Ben Alì (il quale nel 1987 era stato aiutato proprio da Craxi e dal nostro SISMI ad ascendere al potere a Tunisi, facendo infuriare i francesi).

Negli anni del suo esilio malinconico di Hammamet, Craxi seppe riordinare i suoi pensieri e ci regalò delle pillole di verità così chiarificatrici sulla natura oligarchica e profondamente penalizzante per l’Italia del processo di costruzione dell’Unione Europea al punto da apparire oggigiorno preveggenti.

Su tutte merita di essere ricordata la sua infausta previsione sui profondi squilibri economici e sociali che l’incauta adozione dell’euro avrebbe ineluttabilmente creato: «Affidare effetti taumaturgici e miracolose resurrezioni alla moneta unica europea, dopo aver provveduto a isterilire, rinunciare, accrescere i conflitti sociali, è una fantastica illusione che i fatti e le realtà economiche e finanziarie del mondo non tarderanno a mettere in chiaro»[3].

Nell’Italia del 2020, la riscoperta della figura di Craxi potrebbe costituire il miglior viatico per l’auspicabile imbocco di una nuova strada per il Paese all’insegna del recupero della dignità nazionale e del rilancio della stessa dimensione della politica al cospetto di organismi oligarchici a carattere sovranazionale che in questi ultimi decenni ci hanno colpito al cuore con delle «limitazioni di sovranità» che sono andate ben aldilà dei confini semantici dettati dall’articolo 11 della nostra carta costituzionale.

Ecco perché per i nostri giovani è oggi essenziale studiare a fondo la figura politica di Bettino Craxi sotto tutti i suoi profili quale dirigente socialista riformista, uomo di Governo, statista, stratega in politica estera, patriota e infine martire dell’indipendenza nazionale.

Per i giustizialisti pedanti come Marco Travaglio, che con la loro voce stridula ancora oggi strepitano e ululano alla luna ripetendo il consueto ritornello stantio del Craxi uomo corrotto e «latitante», la migliore risposta la si può forse attingere da una celebre riflessione di Indro Montanelli (che proprio del Travaglio fu a suo tempo maestro protettore nel periodo di avvio della sua carriera di giornalista), il quale soleva ripetere: «Nella mia vita ho conosciuto farabutti che non erano moralisti ma raramente dei moralisti che non erano farabutti».

 

Giuseppe Angiuli

 

[1] Si legga il significativo discorso tenuto da Craxi nel 1977 a Treviri, in occasione del 30° anniversario della ricostruzione della casa natale di Karl Marx, dal titolo «Marxismo, socialismo e libertà» (http://www.circolorossellimilano.org/MaterialePDF/marxismo_socialismo_liberta_bettino_craxi.pdf). Più noto di tale discorso è il celebre articolo Il Vangelo socialista, pubblicato sul settimanale L’Espresso nel 1978.

[2] L. Pinasco, Bettino Craxi e Giulio Andreotti: il Mediterraneo come spazio vitale, pubbl. in AA. VV., L’Italia nel Mondo – L’altra politica estera italiana dal dopoguerra ad oggi, Circolo Proudhon, 2016, p. 135.

[3] Citazione riportata nel libro Io parlo e continuerò a parlare – Note e appunti sull’Italia vista da Hammamet, a cura di A. Spiri, Oscar Mondadori, 2016.

1 219 220 221 222 223 250