Taccuino francese: il ritorno della Vandea, di Roberto Buffagni

Taccuino francese: il ritorno della Vandea

 

Nello scorso novembre, Patrick Buisson[1] ha pubblicato un libro molto interessante: La grande histoire des guerres de Vendée[2]. Non l’ho letto, ma da quel che ne dicono le recensioni non credo ci racconterà  molto di nuovo sulla terribile repressione rivoluzionaria dell’insorgenza vandeana.

Il libro resta di grande interesse, ma per altre ragioni. Anzitutto, per l’autore. Patrick Buisson è uno storico, un giornalista e un militante politico di primo piano della destra francese. E’ stato consigliere di Sarkozy nella sua prima campagna elettorale (2007); seguendo i suoi consigli, Sarkozy non solo ha vinto le elezioni presidenziali, ma per la prima e unica volta nella storia politica francese ha strappato sette punti elettorali al Front National. La campagna elettorale suggerita da Buisson, che appartiene alla destra francese conservatrice di ascendenza maurrassiana[3], batteva su tutti i temi cari al FN, anzitutto l’identità nazionale (alla quale fu poi intitolato un ministero). Buisson, però, nel corso della presidenza Sarkozy, ha dovuto toccare con mano le conseguenze di una circostanza che non gli sarà sfuggita, ma che forse aveva sottovalutato: l’altro principale consigliere del suo candidato era Alain Minc[4], cioè l’esatto opposto ideologico di Buisson, un liberal-progressista che “ha superato la distinzione destra/sinistra”; e infatti, nell’elezione presidenziale del 2017 Minc ha sostenuto la candidatura del centrista républicain Alain Juppé finché ha avuto chances, per poi passare nel campo di Emmanuel Macron, il candidato su misura per lui. In sintesi: Sarkozy, un abile tattico senza principi, ha usato la linea conservatrice e populista di Buisson in campagna elettorale per prendere voti, e una volta al governo ha seguito la linea liberal-progressista di Minc (così perdendo l’elezione del 2012). Insomma: passata la festa, gabbato lo santo.

Non l’ha presa bene, Buisson. Dopo un ultimo tentativo con Sarkozy nel 2012, quando ha tentato inutilmente di persuadere sia il candidato sia il partito a uscire dalla trappola del Front Républicain – la conventio ad excludendum contro il Front National costruita da Mitterrand per garantire ai socialisti il congelamento di metà della destra francese, e la rendita di posizione che ne conseguiva per il PS – Buisson si è allontanato dai Républicains, ha pubblicato La cause du peuple, un libro di violentissima critica a Sarkozy e alla destra liberale[5] che ha avuto spinosi contraccolpi giudiziari, e si è dedicato alla battaglia politico-culturale per la riforma della destra francese.

L’obiettivo strategico della battaglia di Buisson è la fondazione di una destra conservatrice autentica, accomunata da tradizioni, valori e ideologie non liberali o francamente antiliberali (gaullisti di destra e gaullisti sociali, cattolici reazionari, maurrassiani, etc.). Sul piano operativo, l’obiettivo si può raggiungere solo attraverso una spaccatura e una rifondazione: la spaccatura dei Républicains tra liberali/conservatori non liberali e antiliberali, e la rifondazione del Front National su basi nazionaliste, antiliberali, conservatrici, cattoliche (grossolanamente: la linea che si identifica in Marion Maréchal Le Pen[6], contro quella che si identifica in Marine, e prima di Marine in Florian Philippot[7]). In termini pragmatici, per Buisson i conservatori francesi, sinora politicamente rappresentati dai Républicains, devono prendere la guida di una nuova formazione politica di destra antiliberale e antiprogressista, e diventare il corpo ufficiali di un esercito le cui truppe sono costituite dall’elettorato popolare, sociologicamente e geograficamente periferico, del Front National.

Un’altra ragione d’interesse de La grande histoire des guerres de Vendée è il suo prefatore, Philippe de Villiers[8]. Il visconte vandeano Philippe de Villiers è stato leader del fronte sovranista che nel referendum del 2005 bocciò la proposta di costituzione europea promossa dalla UE; ed è fratello maggiore di Pierre de Villiers[9], il capo di stato maggiore delle FFAA francesi che si è recentemente dimesso (applaudito dalle truppe) dopo un violento scontro con il presidente Macron sui finanziamenti alle forze armate.

Terza e ultima ragione d’interesse del libro, il suo soggetto. Non solo perché la guerra civile di Vandea e il terrore di Stato che sterminò  i combattenti vandeani sono una memoria tuttora viva e politicamente attiva in Francia; ma perché non ho il minimo dubbio che Buisson abbia sottolineato, nel suo libro, come la Convenzione rivoluzionaria abbia decretato la durissima repressione delle insorgenze legittimiste e cattoliche sulla base di un consenso elettorale che definire minoritario è dir poco: su 7 MLN di aventi diritto (suffragio ristretto), solo il 10% espresse un voto valido. L’analogia con la ridotta legittimazione popolare di Emmanuel Macron (al secondo turno, 40% circa sul totale degli aventi diritto, con un record storico di astensione e schede bianche o nulle) è lampante[10].

Non è da ieri che uomini di cultura e politici propongono alle destre francesi questa linea francamente conservatrice, che non è mai riuscita ad affermarsi. Ma rispetto a ieri, oggi c’è una grossa novità: che il successo di Emmanuel Macron l’ha resa l’unica linea politica praticabile, se la destra francese non vuole mettere una pietra tombale sulla sua lunga storia. L’abilissima operazione di “taglio delle estreme” che ha condotto Macron alla presidenza ha resuscitato la “destra di situazione” liberale e orleanista[11] che si cristallizzò nel 1830: nell’odierna riedizione, i centristi e gli europeisti/mondialisti di entrambi i maggiori partiti francesi, PS e Républicains, vengono risucchiati dal “movimento di governo” En Marche!  e svuotano dall’interno i partiti da cui provengono. Li svuotano di personale politico, di clientele, di voti, di finanziamenti e soprattutto di ragioni d’esistere. Li svuotano di ragioni d’esistere, perché a dettare la strategia politica tanto del PS quanto dei Républicains è tuttora il paradigma del Front Républicain, l’adattamento francese dell’ “arco costituzionale antifascista” italiano inventato da Mitterrand negli anni Ottanta[12]: e come hanno dimostrato plasticamente le presidenziali del 2017, non esiste blocco sociale, ideologia, formazione politica più adatta ed efficace per battere il Front National del centrismo orleanista di Macron, che si situa all’esatto opposto del blocco sociale e dell’ideologia del Front National e ne è per così dire il negativo fotografico.

Quindi, chi all’interno del PS e dei Républicains vuole ritrovare ragioni d’esistere al di là del nudo e crudo richiamo della gamelle, e non si vuole allineare con il centrismo orleanista di Macron, è costretto a spezzare il cerchio magico del Front Républicain, e a prendere atto che è finita l’alleanza storica tra il liberalismo e il conservatorismo a destra, tra il liberalismo e il socialismo a sinistra. Esattamente come nel 1830, il  liberalismo puro coincide, oggi, con il pensiero e le forze economiche e politiche socialmente dominanti. C’è però una differenza sostanziale tra il 1830 e il 2018, una differenza che è la chiave politica di tutto: che nel 1830 il suffragio elettorale era censitario e ristretto, nel 2017 universale: e per quanto il sistema politico-mediatico possa manipolarlo con le campagne di guerra psicologica, con le leggi elettorali maggioritarie, etc., non può permettersi di abolirlo, perché il suffragio universale è la “formula politica” (Mosca)[13] che lo legittima. E’ questo, il punto debole del liberalismo, che è democratico soltanto suo malgrado. Il liberalismo non è mai riuscito a diventare “popolare”, perché sin dalla sua premessa metodologica non si rivolge ai popoli e alle comunità, ma agli individui.

In sintesi. Stravincendo e mettendo con le spalle al muro tanto la sinistra quanto la destra, il liberalismo orleanista di Macron costringe entrambe ad affrontare e tentar di sciogliere un nodo metapolitico di portata storica: la dialettica dell’illuminismo e il precipitato storico della Rivoluzione francese. Il mondialismo liberale è la manifestazione storica della dialettica dell’illuminismo, del progressismo e dell’universalismo, culturale e politico, che li accompagna. Illuminismo e universalismo sono trascrizioni secolarizzate – amputate della dimensione metafisica e propriamente religiosa – del cristianesimo. L’opposizione al mondialismo è dunque costretta ad essere, volens nolens, opposizione all’illuminismo e all’universalismo politico[14]; e la linea di frattura politica che divide i campi tende a coincidere con la linea di frattura culturale che divide l’Europa sin dal tempo delle guerre di religione[15].

Ecco perché nel 2018 ritorna di attualità la Vandea. Ed ecco perché nella campagna elettorale presidenziale del 2017 due soli candidati hanno incentrato la loro proposta intorno alla ripetizione della parola “patrie”: Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon. Per Marine, non c’è bisogno di spiegare. Per Mélenchon, la spiegazione che propongo è questa: con la reiterazione martellante della parola “patrie”, Mélenchon manifesta il tendenziale distacco della sinistra francese dal liberalismo, e cerca di ritrovare le radici democratiche rousseauiane della sinistra giacobina e socialista. Non è un caso che anche Alain de Benoist, che ha designato il liberalismo come nemico principale del suo campo politico, abbia dedicato una crescente attenzione a Rousseau[16]: perché il liberalismo trionfante tende a separarsi dalla democrazia.

I progetti di ridefinizione politica e partitica oggi in corso in Francia e non solo in Francia, insomma, sono la manifestazione di superficie di un movimento tettonico profondissimo, che costringe gli europei e gli occidentali a ripensare la loro storia, la loro filosofia e la loro religione (o irreligione). Proprio per questo, le vicende politiche francesi che ho brevemente illustrato sin qui interessano direttamente anche l’Italia. Le differenze storiche tra le culture politiche francese ed italiana sono molte, e non superficiali. Ma in profondità, il sommovimento geologico culturale tocca l’Italia come la Francia. Ne vedremo, probabilmente, gli effetti di superficie dopo le prossime elezioni politiche del marzo 2018. Anche da noi, il blocco sociale e politico liberale tenterà di operare il “taglio delle estreme”, con l’ausilio, a destra, delle quinte colonne Berlusconi e Maroni, a sinistra delle formazioni dissidenti dal PD, e usando come massa di manovra il Movimento 5 Stelle, che grazie alla sua “impoliticità”[17] si candida a essere usato come “ago della bilancia” in una manovra machiavellica di superamento della distinzione tra destra e sinistra storiche. Se l’operazione “taglio delle estreme” riuscirà, l’effetto a breve termine sarà devastante per il campo antimondialista e antiUE; a medio e lungo termine, però, sarà benefico e liberatorio, perché farà coincidere la linea di frattura politica con la linea di frattura culturale e sociale reale e principale.

[1] https://fr.wikipedia.org/wiki/Patrick_Buisson. Per una esposizione approfondita delle sue posizioni, i francofoni possono seguire questa sua conferenza del maggio 2017: https://youtu.be/Hj_B708sCWY

[2] La grande histoire des guerres de Vendée, Perrin, Paris 2017

[3] https://fr.wikipedia.org/wiki/Nationalisme_int%C3%A9gral

[4] https://fr.wikipedia.org/wiki/Alain_Minc

[5] Qui una recensione simpatizzante : https://www.polemia.com/la-cause-du-peuple-de-patrick-buisson/

[6] https://fr.wikipedia.org/wiki/Marion_Mar%C3%A9chal-Le_Pen

[7] https://fr.wikipedia.org/wiki/Florian_Philippot

[8] https://fr.wikipedia.org/wiki/Philippe_de_Villiers

[9] https://fr.wikipedia.org/wiki/Pierre_de_Villiers_(militaire)

[10] http://www.lefigaro.fr/elections/presidentielles/2017/05/07/35003-20170507ARTFIG00164-apres-une-abstention-et-un-vote-blanc-record-macron-attendu-au-tournant.php; https://www.rtbf.be/info/monde/detail_presidentielle-francaise-emmanuel-macron-obtient-66-06-de-voix-selon-les-resultats-quasi-definitifs?id=9600231

[11] Ne ho parlato diffusamente qui: http://italiaeilmondo.com/2017/09/29/taccuino-francese-che-cosa-ci-insegna-la-crisi-del-front-national-di-roberto-buffagni/ . “Destra di situazione” significa una destra che non è tale per i valori e l’ideologia che propone, ma per il posizionamento relativo nella dialettica parlamentare; come fu appunto la destra orleanista nel 1830, che a sinistra escludeva repubblicani e bonapartisti, a destra i legittimisti.

[12] Mitterrand, un politico di abilità machiavellica, fece di tutto per promuovere a dignità di pericolo nazionale il Front National di Jean-Marie Le Pen, erede di Vichy e dell’OAS, piazzandolo nello spettro politico-ideologico allo stesso posto in cui stavano il fascismo e i suoi eredi in Italia, così ridefinendo i confini della legittimità politica in Francia a scapito della destra, e garantendo alla sinistra un vantaggio permanente in ogni competizione elettorale. A sinistra, nessun nemico (Mitterrand vinse la sua prima campagna presidenziale, nel 1981, con l’appoggio decisivo del Partito Comunista Francese, allora forte di un 15% di voti) a destra, un confine invalicabile.

[13] https://fr.wikipedia.org/wiki/Gaetano_Mosca

[14] Ne ho parlato qui: http://italiaeilmondo.com/2017/09/29/taccuino-francese-che-cosa-ci-insegna-la-crisi-del-front-national-di-roberto-buffagni/

[15] Ne ho parlato, dialogando con Alessandro Visalli, a proposito della “Dichiarazione di Parigi” firmata da un gruppo di studiosi conservatori di chiara fama: http://italiaeilmondo.com/category/dossier/autori-dossier/roberto-buffagni/

[16] Qui un articolo liberamente scaricabile: https://s3-eu-west-1.amazonaws.com/alaindebenoist/pdf/relire_rousseau.pdf

[17] E’ “impolitico” un movimento politico che non designa l’avversario, e dunque non designa neppure l’amico. La sua impoliticità lo predispone all’eterodirezione, all’essere usato come massa di manovra e come “ago della bilancia” in una manovra politica spregiudicata “al di là della destra e della sinistra”.

IDEOLOGIE_UN CASO CLAMOROSO DI ACCECAMENTO, di Antonio de Martini

Un esempio di come un’ideologia possa obnubilare le menti è l’accanimento con cui i nazisti vollero perdere la guerra piuttosto che cambiare il loro modo preconfezionato di vedere il mondo.

Incastrati in una tenaglia a est e a ovest per via dell’inganno ordito dagli inglesi che fecero credere a Hitler la favola di una Inghilterra pronta alla pace, Hitler mantenne quel che aveva scritto nel Mein Kampf, attaccò l’URSS e dovette combattere su due fronti.

Tutti gli strateghi e i politici tedeschi capirono che uno dei fronti andava pacificato a pena di sconfitta.
Ci furono decine di contatti in Svezia, Svizzera e Vaticano per fare pace con l’Occidente e continuare la guerra a Oriente, mentre i sovietici continuarono con offerte di pace separata – nelle stesse zone neutrali- fino al giugno 1943 !

Il pregiudizio nazista di trattare solo con l’Ovest impedì loro di capire che la richiesta di resa incondizionata di Roosevelt sarebbe stata mantenuta e che l’URSS avrebbe potuto rifornire di materie prime contro tecnologie la Germania ( oltre a risparmiare quattro gruppi di Armate) e farle rovesciare la situazione.

In cambio, i russi volevano creare un ritorno ai confini del 1939 e uno stato cuscinetto in Ucraina.

Hitler rifiutò ostinatamente fino a che non fu troppo tardi, ma tutte le ipotesi di chiusura di un fronte – anche per i generali tedeschi- presupponevano una intesa con l’Ovest e non con i russi che invece continuarono a proporla per due anni e in più sedi.

Ne sapremo di più quando la Russia si deciderà a desegretare i 39 volumi del processo a Lavrenti Berjia i cui termini di segretezza sono scaduti da oltre trenta anni senza esito. Il poco che se ne sa è fonte di incredulo stupore.

Da Himmler a Halder e Falkenaym a Schellenberg a Kluge, tutti cospirarono, separatamente, per la morte di Hitler e trattativa con l’Occidente. Nessuno prese in considerazione l’URSS.

Anche gli italiani presuppongono unicamente alleanze con gli USA, invece di creare almeno un sottoinsieme mediterraneo, meglio se neutrale.
Fino a che non sarà troppo tardi anche per noi.

Per i nostri governanti, gli USA sono sempre i liberatori e vanno assieme alla devozione per San Gennaro che, come è noto, non è mai esistito.

Le infrastrutture militari nella fase multicentrica di Luigi Longo

 

Le infrastrutture militari nella fase multicentrica

di Luigi Longo

 

 

Non gli animali, ma senz’altro gli uomini e soltanto gli uomini conducono gli uni contro gli altri << guerre terrestri e marittime >>. Sempre, quando l’ostilità tra grandi potenze ha raggiunto il culmine, la contrapposizione bellica si svolge contemporaneamente sia nell’uno

che nell’altro ambito, sicché da entrambe le parti la guerra si trasforma in << guerra terreste e marittima >> […] Se poi si aggiunge l’aria come terza dimensione, la guerra si  trasforma per entrambi i contendenti anche in guerra aerea.

                                                                                                                                  Carl Schmitt*

 

L’esercito, nel proprio paese, avrà bensì linee di comunicazioni proprie, organizzate a tal fine, ma non è affatto obbligato a valersi di esse sole; e può, in caso di necessità, scostarsene e scegliere qualsiasi altra strada esistente […] Le strade principali attraversanti le città più ricche e le province più importanti sono le migliori linee di      comunicazioni. Esse meritano la preferenza anche se producono percorsi molto maggiori e hanno, nella maggior parte dei casi, carattere determinante per lo schieramento dell’esercito.

                                                                                                                                  Clausewitz**

 

1. Le potenze mondiali, gli Stati Uniti (potenza egemone in relativo declino), la Russia e la Cina (potenze emergenti in relativo consolidamento), protagoniste in questa fase multicentrica che sta diventando sempre più visibile e determinata, vengono attraversate da conflitti interni tra gli agenti strategici delle sfere sociali per la configurazione, in equilibrio dinamico, del blocco egemone dominante (emblematico è l’esempio in questa fase del conflitto interno statunitense). All’interno di questo conflitto assumono rilevanza i comandanti della sfera militare che hanno un peso specifico nelle decisioni sugli investimenti per le infrastrutture militari e civili finalizzate alle diverse strategie territoriali sia nelle nazioni alleate sia nelle varie aree o regioni di influenza per preparare il campo [terreste, acquatico e aereo (1)] del conflitto per il dominio mondiale che non necessariamente deve passare per la fase policentrica (la guerra) anche se la storia mondiale dimostra la inevitabilità della guerra (2). Quindi i suddetti comandanti formano, insieme agli agenti strategici delle altre sfere sociali (politiche, economiche, istituzionali, culturali, eccetera), il blocco egemone dominante di ogni singola potenza mondiale con una propria visione politica del mondo: dominio assoluto gli USA, dominio multicentrico la Russia e la Cina. In sintesi, per quanto suddetto, introduco il seguente schema del conflitto strategico che ha come punto di partenza il nascente paradigma di Gianfranco La Grassa (approfondirò lo schema nel prossimo scritto su Il conflitto strategico e la mossa del cavallo).

 

Nell’attuale fase multicentrica gli USA, consapevoli di essere una potenza egemone in relativo declino, ri-lanciano la loro sfida per il dominio mondiale assoluto poggiandosi prevalentemente sulla indiscussa (ancora per molto, ahinoi) supremazia mondiale della forza militare (3) e non su una diversa visione dello sviluppo e delle relazioni sociali mondiali perché hanno la fissazione storica di essere la nazione indispensabile per mandato divino [il Popolo Eletto (4)] per assicurare la libertà, la pace, la democrazia, i diritti sulla Terra. In virtù di tale fissazione << gli Stati Uniti avanzavano la pretesa di decidere, al di là della distinzione tra emisfero occidentale ed emisfero orientale, sulla liceità o illiceità di ogni mutamento territoriale in tutta la terra. Tale pretesa riguardava l’ordinamento spaziale della terra. Ogni avvenimento in qualsiasi punto della terra poteva riguardare gli Stati Uniti >>(5). << Nel settembre 2000, nel condurre la campagna elettorale che l’avrebbe portato alla presidenza, George W. Bush enunciava un vero e proprio dogma: “la nostra nazione è eletta da Dio e ha il mandato della storia per essere un modello per il mondo”. E’ un dogma ben radicato nella tradizione politica statunitense. Bill Clinton aveva inaugurato il suo primo mandato presidenziale, con una proclamazione ancora più enfatica del primato degli USA e del diritto-dovere a dirigere il mondo “La nostra missione è senza tempo”. Si direbbe che alla white supremacy sia subentrata la western supremacy ovvero l’American supremacy […] >> (6). Nella continuità della fissazione storica, Donald Trump sostiene che è fondamentale per << mettere l’America al primo posto perché sia sicura, prospera e libera >> avere << la forza e la volontà di esercitare la leadership Usa nel mondo >> (7).

Le basi aeree, le basi navali, le basi dell’esercito degli USA hanno circondato la Terra: guardate con coscienza dell’occhio (8) le carte seguenti ben sapendo che la cartografia sacrifica le relazioni sociali o il corpo vivente della terra, dello spazio, del territorio ed evidenzia i segni e i simboli del dominio (9).

E’ sulla Terra che si vivono i rapporti sociali, lo spazio aereo li sorvola, lo spazio acquatico li limita, lo spazio nucleare li estingue. Essi sono spazi fondanti per le strategie degli agenti dominanti delle potenze mondiali per la egemonia e per la configurazione o ri-configurazione dei nuovi rapporti sociali e territoriali storicamente dati. Stiamo entrando in una fase storica di esplosione degli spazi che distrugge e costruisce un nuovo ordine mondiale. Per dirla con Neil Brenner << […] Nelle condizioni geografiche e storiche attuali, tuttavia, il processo di urbanizzazione si struttura sempre più su scala mondiale. L’urbanizzazione non si riferisce più solo all’espansione delle “grandi città” (Friedrich Engels) del capitalismo industriale, all’estendersi di centri di produzione metropolitani, alle configurazioni di reticoli di insediamenti suburbani e di infrastrutture regionali tipiche del capitalismo fordista-keynesiano, o all’anticipata espansione lineare della popolazione umana nelle megalopoli mondiali che finisce per creare un “pianeta di slum”. Invece […] questo processo si sviluppa oggi sempre di più attraverso lo sviluppo ineguale [ corsivo mio]di un “tessuto urbano” composto da diversi tipi di strutture d’investimento, di spazi di insediamento, di matrici di uso del suolo e di reti di infrastrutture, attraverso l’intera economia mondiale […] Noi stiamo assistendo, in breve, all’intensificazione e all’estensione dei processi di urbanizzazione su tutte le scale spaziali e attraverso l’intera superficie dello spazio planetario >> (10).

Fonte: Limes n.11/2016

Fonte: Limes n9/2016

Fonte: Limes n.11/2016

 

Gli Stati Uniti, parafrasando Tacito letto da Concetto Marchesi, appena diventati Nazione dopo un lungo periodo storico che va dalla guerra di indipendenza (1775-1783) alla guerra di secessione (1861-1865) (11), sono costretti a combattere per vivere; poi seguitano a combattere per accrescere il loro dominio e la loro ricchezza. La guerra è per loro prima una necessità di vita, poi una incessante necessità di grandezza e di arricchimento (12). E’ attraverso la guerra che hanno sempre affermato l’autorità globale.

 

2. Tratterò, in estrema sintesi, le suddette infrastrutture militari e civili in Europa, attraverso la PeSCO (Permanent Structured Cooperation, Cooperazione Strutturata Permanente) del campo della difesa UE, non come conseguenza di scelte politiche di un soggetto unitario ed autonomo, che non c’è e che non è mai esistito storicamente, ma come un continente che per la prima volta nella storia non sarà protagonista mondiale del conflitto ma sarà campo di battaglia e spazio importante per le strategie statunitensi, con conseguenti trasformazioni, modificazioni, ri-configurazioni, organizzazioni e ruoli di territori e di aree.

Inoltre tratterò degli investimenti che il Pentagono sta realizzando, a spese nostre, sul territorio italiano nelle basi militari e nelle infrastrutture civili ad esse collegate, soprattutto ferroviarie [alta velocità (AV) e alta capacità(AC)] e stradali (corridoi nazionali ed europei) (13).

Infine, un accenno ai ruoli importanti che potrebbero avere le due città della Puglia, Taranto e Foggia [già protagoniste nella seconda guerra mondiale con le loro infrastrutture militari e civili (14)] nelle strategie statunitensi nel Mediterraneo, nel Vicino Oriente e nei Balcani.

 

3. Riporto una sintesi chiara sulla nascita e sul ruolo della PeSCO avanzata da Manlio Dinucci << Dopo 60 anni di attesa, annuncia la ministra della Difesa Roberta Pinotti, sta per nascere a dicembre la Pesco, «Cooperazione strutturata permanente» dell’Unione europea nel settore militare, inizialmente tra 23 dei 27 stati membri.

Che cosa sia lo spiega il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg. Partecipando al Consiglio degli affari esteri dell’Unione europea, egli sottolinea «l’importanza, evidenziata da tanti leader europei, che la Difesa europea debba essere sviluppata in modo tale da essere non competitiva ma complementare alla Nato [corsivo mio]».

Il primo modo per farlo è che i paesi europei accrescano la propria spesa militare: la Pesco stabilisce che, tra «gli impegni comuni ambiziosi e più vincolanti» c’è «l’aumento periodico in termini reali dei bilanci per la Difesa al fine di raggiungere gli obiettivi concordati». Al budget in continuo aumento della Nato, di cui fanno parte 21 dei 27 stati della Ue, si aggiunge ora il Fondo europeo della Difesa attraverso cui la Ue stanzierà 1,5 miliardi di euro l’anno per finanziare progetti di ricerca in tecnologie militari e acquistare sistemi d’arma comuni. Questa sarà la cifra di partenza, destinata a crescere nel corso degli anni.

Oltre all’aumento della spesa militare, tra gli impegni fondamentali della Pesco ci sono «lo sviluppo di nuove capacità e la preparazione a partecipare insieme ad operazioni militari». Capacità complementari alle esigenze della Nato che, nel Consiglio Nord Atlantico dell’8 novembre, ha stabilito l’adattamento della struttura di comando per accrescere, in Europa, «la capacità di rafforzare gli Alleati in modo rapido ed efficace».

Vengono a tale scopo istituiti due nuovi comandi. Un Comando per l’Atlantico, con il compito di mantenere «libere e sicure le linee marittime di comunicazione tra Europa e Stati uniti, vitali per la nostra Alleanza transatlantica». Un Comando per la mobilità, con il compito di «migliorare la capacità di movimento delle forze militari Nato attraverso l’Europa» [ corsivo mio].

Per far sì che forze ed armamenti possano muoversi rapidamente sul territorio europeo, spiega il segretario generale della Nato, occorre che i paesi europei «rimuovano molti ostacoli burocratici». Molto è stato fatto dal 2014, ma molto ancora resta da fare perché siano «pienamente applicate le legislazioni nazionali che facilitano il passaggio di forze militari attraverso le frontiere». La Nato, aggiunge Stoltenberg, ha inoltre bisogno di avere a disposizione, in Europa, una sufficiente capacità di trasporto di soldati e armamenti, fornita in larga parte dal settore privato.

Ancora più importante è che in Europa vengano «migliorate le infrastrutture civili – quali strade, ponti, ferrovie, aeroporti e porti – così che esse siano adattate alle esigenze militari della Nato» [corsivo mio]. In altre parole, i paesi europei devono effettuare a proprie spese lavori di adeguamento delle infrastrutture civili per un loro uso militare: ad esempio, un ponte sufficiente al traffico di pullman e autoarticolati dovrà essere rinforzato per permettere il passaggio di carrarmati.

Questa è la strategia in cui si inserisce la Pesco, espressione dei circoli dominanti europei che, pur avendo contrasti di interesse con quelli statunitensi, si ricompattano nella Nato sotto comando Usa quando entrano in gioco gli interessi fondamentali dell’Occidente messi in pericolo da un mondo che cambia [neretto mio]. Ecco allora spuntare la «minaccia russa», di fronte alla quale si erge quella «Europa unita» che, mentre taglia le spese sociali e chiude le sue frontiere interne ai migranti, accresce le spese militari e apre le frontiere interne per far circolare liberamente soldati e carrarmati >> (15).

 

4. Riprendo gli interventi del Pentagono (Dipartimento della Difesa degli USA) sulle strutture militari presenti sul territorio italiano da una descrizione puntuale di Manlio Dinucci << Grandi opere sul nostro territorio, da nord a sud. Non sono quelle del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, di cui tutti discutono, ma quelle del Pentagono di cui nessuno discute. Eppure sono in gran parte pagate con i nostri soldi e comportano, per noi italiani, crescenti rischi.

All’aeroporto militare di Ghedi (Brescia) parte il progetto da oltre 60 milioni di euro, a carico dell’Italia, per la costruzione di infrastrutture per 30 caccia Usa F-35, acquistati dall’Italia, e per 60 bombe nucleari Usa B61-12.

Alla base di Aviano (Pordenone), dove sono di stanza circa 5000 militari Usa con caccia F-16 armati di bombe nucleari (sette dei quali sono attualmente in Israele per l’esercitazione Blue Flag 2017), sono stati effettuati altri costosi lavori a carico dell’Italia e della Nato.

A Vicenza vengono spesi 8 milioni di euro, a carico dell’Italia, per la «riqualificazione» delle caserme Ederle e Del Din, che ospitano il quartier generale dell’Esercito Usa in Italia e la 173a Brigata aviotrasportata (impegnata in Europa orientale, Afghanistan e Africa), e per ampliare il «Villaggio della Pace» dove risiedono militari Usa con le famiglie.

Alla base Usa di Camp Darby (Pisa/Livorno) inizia in dicembre la costruzione di una infrastruttura ferroviaria, del costo di 45 milioni di dollari a carico degli Usa più altre spese a carico dell’Italia, per potenziare il collegamento della base con il porto di Livorno e l’aeroporto di Pisa, opera che comporta l’abbattimento di 1000 alberi nel parco naturale. Camp Darby è uno dei cinque siti che l’Esercito Usa ha nel mondo per lo «stoccaggio preposizionato» di armamenti (contenente milioni di missili e proiettili, migliaia di carrarmati e veicoli corazzati): da qui vengono inviati alle forze Usa in Europa, Medioriente e Africa, con grandi navi militarizzate e aerei cargo.

A Lago Patria (Napoli) il nuovo quartier generale della Nato, costato circa 200 milioni di euro di cui circa un quarto a carico dell’Italia, comporta ulteriori costi a carico dell’Italia, tipo quello di 10 milioni di euro per la nuova viabilità attorno al quartier generale Nato.

Alla base di Amendola (Foggia) sono stati effettuati lavori, dal costo inquantificato, per rendere le piste idonee agli F-35 e ai droni Predator statunitensi, acquistati dall’Italia.

Alla Naval Air Station Sigonella, in Sicilia, sono stati effettuati lavori per oltre 100 milioni di dollari a carico di Stati uniti e Nato, quindi anche dell’Italia. Oltre a fornire appoggio logistico alla Sesta Flotta, la base serve a operazioni in Medioriente, Africa ed Europa orientale, con aerei e droni di tutti i tipi e forze speciali. A tali funzioni si aggiunge ora quella di base avanzata dello «scudo anti-missili» Usa, in funzione non difensiva ma offensiva soprattutto nei confronti della Russia: se fossero in grado di intercettare i missili, gli Usa potrebbero lanciare il first strike nucleare neutralizzando la rappresaglia.

A Sigonella sta per essere installata la Jtags, stazione di ricezione e trasmissione satellitare dello «scudo», non a caso mentre, con il lancio del quinto satellite, sta per divenire pienamente operativo il Muos, il sistema satellitare Usa che ha nella vicina Niscemi una delle quatto stazioni terrestri.

Il generale James Dickinson, capo del Comando strategico Usa, in una audizione al Congresso il 7 giugno 2017 ha dichiarato: «Quest’anno abbiamo ottenuto l’appoggio del Governo italiano a ridislocare, in Europa, la Jtags alla Naval Air Station Sigonella».

Era al corrente il Parlamento italiano di una decisione di tale portata strategica, che porta il nostro paese in prima linea nel sempre più pericoloso confronto nucleare? Se ne è almeno parlato nelle commissioni Difesa? >> (16).

 

5. In Puglia, due città, Taranto e Foggia, stanno subendo trasformazioni territoriali finalizzate all’approntamento di una rete di infrastrutture che apparentemente nulla hanno a che fare con il loro utilizzo ai fini militari. In realtà esse sono ben velate sotto l’uso civile delle infrastrutture (logistica, ferroviarie, aeroportuali, portuali) per lo sviluppo economico dei territori e delle città, ma nella sostanza esse sono fondanti come nodi di una rete nazionale (ed europea) che fa dell’Italia una espressione geografica al servizio delle strategie statunitensi.

Taranto, una città storicamente rilevante per la funzione militare e strategica sin dalla più remota antichità fino ai giorni nostri (17), è attraversata, dal 2012 anno di intervento della Magistratura tarantina, da una fase complessa di trasformazione da polo siderurgico a polo strategico della Nato (18). Un polo Nato che incorporerà città e territori interscalari (dal mondiale al locale con differenza qualitativa in relazione “alla specificità storica delle morfologie scalari associate ai processi sociali e alle forme istituzionali”) riconfigurandoli e riorganizzandoli alle esigenze di uno sviluppo imperniato sulle strategie USA-Nato. Un territorio logistico che formalmente è progettato per diventare un hub dell’area mediterranea destinato ad aggregare iniziative nazionali ed internazionali a sostegno della ricerca, sviluppo, sperimentazione e certificazione di soluzioni integrate tra trasporto aereo e industria aerospaziale, ma sostanzialmente piegato alle esigenze del conflitto USA-Nato per contrastare le emergenti potenze mondiali (Russia e Cina). E’ qui che si sta realizzando un progetto tra USA ed Enac (Ente Nazionale per l’Aviazione Civile) per l’utilizzo di Droni con una compressione di tempo e di spazio impressionante: si parla di 100 minuti da Los Angeles a Roma attraverso un corridoio nella stratosfera (19), ovviamente per il trasporto merci di uno sviluppo pacifico e non di uno sviluppo finalizzato agli scenari di guerra. Tutto questo a partire dal 2012 (l’anno serve solo per indicare il punto di svolta dei processi sociali storicamente dati) in un luogo istituzionale di medio potere, quale è la regione Puglia, con un Presidente, Nichi Vendola, l’uomo della famosa risata servile verso i poteri dell’ILVA (20).

Foggia, una città storicamente rilevante per la posizione geografica (un nodo di collegamento tra la via Adriatica, la via Tirrenica e la via interregionale) sin dai tempi di Federico II fino ad oggi (21). Il territorio logistico è in fase di progettazione: una riconversione dello storico aeroporto “Gino Lisa” (22) (è stato nel periodo tra le due guerre mondiali una scuola per piloti di importanza mondiale, qui si sono formati i primi piloti statunitensi comandati dal Maggiore Fiorello La Guardia) in sede della Protezione Civile regionale che è il cavallo di troia per nascondere il vero obiettivo di un aeroporto di merci e mezzi militari (unica ragione per tenere in vita un aeroporto economicamente insostenibile); una riconfigurazione della base Amendola come base di fatto a comando USA-Nato così come da interventi progettati dal Pentagono; una grande area logistica ingiustificata tenendo conto del basso livello dello sviluppo economico della città e del territorio; un collegamento stradale e ferroviario tra area logistica, nodi territoriali e aerea portuale di Manfredonia ( antico porto di scambi con l’altra sponda adriatica) (23); una rete ferroviaria ad alta capacità in fase di realizzazione di collegamento tra Roma-Bari, facente parte della rete Scandinavia-Mediterraneo (Helsinki-Valletta) una delle linee strategiche europee e uno degli obiettivi della programmazione a lungo termine per lo sviluppo del settore ferroviario (24).

Posso dire con Ennio Flaiano che la situazione politica in Italia è grave ma non è seria se si pensa che la struttura del Libro Bianco del Ministero della Difesa (25) è tutta interna alla logica funzionale Nato ad egemonia USA. Tutto questo la dice lunga sull’autonomia e sul ruolo della sfera militare italiana frammentata e incapace di esprimere agenti strategici per un disegno, per una idea di una nazione autonoma e sovrana nelle relazioni mondiali (26).

 

6. Io non vedo nessun ruolo che l’Italia possa avere nel Mediterraneo così come non vedo nessun ruolo che la Francia e la Germania possano avere per un processo di costruzione di autonomia europea.

La divisione del lavoro tra una Francia (leader militare) e una Germania (leader economica) per costruire un asse su cui pensare una futura Europa è una utopia irrealizzabile (27).

Il problema vero è l’assenza di agenti strategici autonomi in tutte le nazioni europee (a diverse sfumature considerata la storia e la cultura peculiari di ogni singolo popolo) in grado di liberarsi dalle strategie e dalla occupazione militare statunitensi sul continente Europa. L’autonomia e le relazioni tra nazioni sono processi storici che non si costruiscono nel breve periodo.

Se non si avvierà questa costruzione di soggetti di trasformazione non dati dalla Storia ma costruiti nella Storia che pensano un progetto di coordinamento europeo per rilanciare un ruolo significativo del continente Europa tra Occidente e Oriente e soprattutto nuove relazioni con le potenze mondiali che lottano per un mondo multicentrico, dispiace dirlo scivoleremo tutti in quella che Gyorgy Lukacs ha definito :<< La stupidità e la disonestà si manifestano anzitutto nell’adattamento dei sentimenti e delle idee alla infamia della realtà sociale [ad egemonia statunitense, mia aggiunta]>> (28).

EPIGRAFI

 

* Carl Schmitt, Dialogo sul potere, Adelphi, Milano, 2012, pp. 58-59.

**Clausewitz, Dalla guerra, Mondadori, Milano, 2011, pp. 429 e 432.

 

NOTE

 

1. Ad ulteriore conferma del ruolo importante dei comandanti militari nelle relazioni internazionali si legga Manlio Dinucci, Italia-Israele: la << diplomazia dei caccia >> in www.voltairenet.org, 14/12/2017; sulle rivoluzioni spaziali mondiale si veda Carl Schmitt, Dialogo sul nuovo spazio in Carl Schmitt, Dialogo sul potere, op.cit., pp. 49-93; Carl Schmitt, Terra e mare, Adelphi, Milano, 2006; Matteo Vegetti, L’invenzione del globo. Spazio, potere, comunicazione nell’epoca dell’aria, Einaudi, Torino, 2017.

2. Il termine comandante è riferito non solo alla sfera militare, ma può essere allargato anche alle altre sfere sociali perché è da intendere come espressione di dominio della gerarchia del mondo << Per i greci il mondo era fatto soltanto di rapporti di forza, di gerarchie, di livelli di autorità. Il mondo era composto da chi stava sopra e da chi stava sotto, da chi comandava e da chi ubbidiva. >> in Franco Farinelli, L’invenzione della terra, Sellerio, Palermo, 2016, pag. 38.

3. Sugli Stati Uniti come prima potenza militare oltre ai rapporti SIPRI (www.sipri.org) si rimanda a Guy Mettan, Russofobia. Mille anni di diffidenza, Sandro Teti Editore, Roma, 2016, pp.272-312; Manlio Dinucci, Geopolitica di una <<guerra globale>> in AaVv, Escalation. Anatomia della guerra infinita, Derive Approdi, Roma, 2005, pp. 11-112; Wesley K. Clark, Vincere le guerre moderne, Iraq, terrorismo e l’impero americano, Bompiani, Milano, 2004. A mio avviso, non sono convincenti le analisi di The Saker (per esempio, Pensi che la sua valutazione sia accurata ?, www.sakeritalia.it, 9/11/2017) e di Paul Craig Roberts (per esempio, Un giorno non ci sarà un domani, www.comedonchisciotte.org, 28/10/2017) sulla debolezza della sfera militare USA.

4. Sul popolo eletto si rimanda a Costanzo Preve, La quarta guerra mondiale, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 2008, pp.156-160.

5. Cal Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello << jus pubblicum europaeum >>, Adelphi, Milano, 1991, pag.407.

6. Domenico Losurdo, Rivoluzione d’Ottobre e democrazia, www.marx21.it, 30/8/2017.

7. Donald J. Trump, National Security Strategy of the United States of America in www.whitehouse.gov./…/NSS-Final-12-18-2017-0905.pd; Si legga anche Manlio Dinucci, Il vero libro esplosivo è a firma di Trump, www.ilmanifesto.it, 9/1/2018.

8. Richard Sennet, La coscienza dell’occhio, Feltrinelli, Milano, 1992.

9. Franco Farinelli, L’invenzione, op.cit., pp. 55-62; si legga il capitolo secondo dell’interessante libro di Matteo Vegetti, L’invenzione del globo, op.cit., pp.31-76. 10.Neil Brenner, Stato, spazio, urbanizzazione, Edizioni Guerini e Associati, Milano, 2016, pp.35-36.

11. Per la guerra di indipendenza si rimanda a Gino Luzzatto, L’evoluzione economica e sociale mondiale negli ultimi due secoli, Storia Universale, vol. VII, Casa Editrice Francesco Vallardi, 1970, pp.3-116; per la guerra di secessione si veda Raimondo Luraghi, La guerra civile americana. Le ragioni e i protagonisti del primo conflitto industriale, BUR-Rizzoli, Milano, 2013.

12. Concetto Marchesi, Tacito, Casa editrice Giuseppe Principato, Milano-Messina, 1942, pp.129-170.

13. Per un primo svelamento sull’uso della infrastrutture, tramite la Nato e l’Unione Europea, in funzione delle strategie degli Stati Uniti di penetrazione ad Est dell’Europa per contrastare soprattutto la potenza mondiale emergente come la Russia, si rimanda a Luigi Longo, Tav, Corridoio V, Nato e USA. Dalla critica dell’economia politica al conflitto strategico, www.conflittiestrategie.it, 23/12/2012.

14. Mario Gismondi, Taranto: La notte più lunga. Foggia: la tragica estate, Dedalo, Bari, 1968.

15.Manlio Dinucci, Nasce la Pesco costola della Nato, www.voltairenet.org, 28/11/2017; si veda anche Alessandro Marrone, UE: difesa, parte Pesco, cooperazione strutturata permanente, www.affarinternazionali.it, 14/11/2017.

16. Manlio Dinucci, Le grandi opere del Pentagono a spese nostre, www.voltairenet.org, 5/12/2017.

17.G.C.Speziale, Storia militare di Taranto. Negli ultimi cinque secoli, Laterza, Bari, 1930.

18. Luigi Longo, Dalla trappola capitale/lavoro – capitale/ambiente al conflitto strategico, www.conflittiestrategie.it, 7/8/2012; Idem, Taranto, da polo siderurgico a polo strategico della Nato, www.conflittiestrategie.it, 20/7/2013.

19. Franco Giuliano, Aerei senza pilota la Puglia è nel futuro, www.lagazzettadelmezzogiorno.it, 15/4/2014.

20. Domenico Palmiotti, La Puglia investe nell’aerospazio, www.ilsole24ore.com, 20/4/2014; Marolla, L’aeroporto di Grottaglie piattaforma logistica dell’area mediterranea, www.impresametropolitana.it, 16/3/2016; Leo Spalluto, Taranto, smontare aerei e navi nuovo spazio per le imprese, www.lagazzettadelmezzogiorno.it, 15/6/2017; Redazione Repubblica, Aeroporto di Taranto-Grottaglie, iniziati lavori potenziamento infrastrutture, https://finanza,repubblica.it/News/2017/12/27/aeroporto_di_taranto_grottaglie_iniziati_lavori_infrastrutture-161/, 27/12/2017.

21. Macry Paolo, L’area del Mezzogiorno in Storia d’Italia, Volume Sesto, Atlante, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1976; J.-M. Martin-E. Cuozzo, Federico II. Le tre capitali del Regno di Sicilia: Palermo-Foggia-Napoli, Procaccini Editore, Napoli, 1995.

22. Luigi Iacomino, L’aeronautica militare a Foggia e in Capitanata, Edizioni del Rosone, Foggia, 2002; Idem, Storia dell’aviazione in Capitanata, Grenzi Editore, Foggia, 2006;.

23. Si veda il Piano Strategico di area vasta “Capitanata 2020” in www.capitanata2020.eu.

24. RFI, Audizione senato, VIII Commissione permanente, Lavori Pubblici, Comunicazione, Contratto di Programma 2012-2016, Parte Investimenti, Aggiornamento 2015, www.senato.it/…commissione/…/Memoria_RFI-Audizione_del_24_maggio_2016.

25. www.difesa.it/Primo_Piano/Documents/2015/04_Aprile/LB_2015.pdf

26. Fabio Mini, Usa-Italia comunicazione di servizio, Limes n.4/2017; Gianfranco La Grassa, La nostra italietta, www.conflittiestrategie, 3/1/2018.

27. Il ruolo dell’Eni e dell’Invitalia che emerge dalle interessanti analisi di Alberto Negri non può essere condiviso perché ignora il fatto che dietro alle grandi imprese (sia pubbliche sia private) non esiste uno Stato, inteso come luogo di potere degli agenti sub-sub-dominanti italiani, in grado di proteggere il loro ruolo e le loro strategie di penetrazione nelle aree di interesse (la Libia, l’Egitto, l’Iran, solo per fare alcuni esempi, non insegnano niente?). Così dicasi per un ruolo ancora più di peso, impegnativo e qualificato quale quello di un intervento nell’area Mediterranea avanzato da Fabio Falchi e da Pierluigi Fagan. Si vedano: Alberto Negri, L’Italia alla conquista del gas, è l’unica arma per contare nel mondo, www.tiscali.it, 17/12/2017; Alberto Negri, L’Italia fa grandi affari con l’Iran e se ne infischia delle sanzioni di Trump. Cinque miliardi di euro sono solo l’inizio, www.tiscali.it, 12/1/2018; Fabio Falchi, L’Italia, il Mediterraneo e il futuro dell’Europa, www.eurasia.com, 1/12/2017; Pierluigi Fagan, Propositi per il nuovo anno: torniamo a pensare un piano B per l’Europa, www.pierluigifagan.wordpress.com, 2/1/2018.

28.Gyorgy Lukacs, Tolstoj e l’evoluzione del realismo, www.gyorgylukacs.wordpress.com, 30/8/2016.

Il triangolo imperfetto_Un anno di Trump_19° podcast, di Gianfranco Campa

Ad un anno dal suo insediamento alla Casa Bianca si può tentare un primo bilancio della azione di Donald Trump. Gianfranco Campa, all’inizio del suo intervento, ci rivela le fondamenta e le ragioni di interesse che consentono l’instabile equilibrio tra il Presidente, il vecchio establishment neoconservatore repubblicano e l’imprescindibile elettorato più militante e critico verso la vecchia guardia. La definitiva defenestrazione di Bannon, grazie anche ai suoi incredibili harakiri, ha spianato la strada ad un accordo, per quanto difficoltoso, sulla politica interna che ha consentito di portare avanti buona parte del programma presidenziale già dal primo anno di insediamento. Un dinamismo i cui risultati stanno incrinando le certezze di vittoria del Partito Democratico Americano alle prossime elezioni congressuali di medio termine.

Molto più controverse e contraddittorie risultano essere le linee di politica estera. Appare insolitamente evidente l’esistenza di più canali diplomatici e di diversi centri strategici in diretta competizione tra loro e su linee divergenti e contraddittorie; come pure l’esistenza di canali alternativi di comunicazione con i competitori geopolitici non corrispondenti ai canali ufficiali. Una fase nella quale le logiche apparenti stridono con quelle più profonde e riservate. Un chiaro indizio che l’equilibrio faticoso e precario in questo ambito coinvolge forze molto più potenti e temibili in una condizione molto più sfavorevole rispetto alle intenzioni dichiarate da Trump nella sua campagna elettorale. Su questo piano si riscontreranno i maggiori effetti della defenestrazione di Bannon. Antonio de Martini, nel post precedente pubblicato su questo sito, ha rivelato con particolare perspicacia l’essenziale della reale posta in palio riguardante l’uso “del bottone più grosso” http://italiaeilmondo.com/2018/01/14/il-bottone-piu-grosso-di-antonio-de-martini/ . Si profila un equilibrio tra poteri, soprattutto dello stato profondo che sembra concedere qualcosa di significativo sul piano interno in cambio di una “armonizzazione” maggiore delle intenzioni trumpiane con i canoni classici della politica estera e della diplomazia americane. Sono comunque equilibri dinamici che non consentiranno comunque il ritorno allo “statu quo ante” sia per il rafforzamento progressivo degli altri attori geopolitici, ad eccezione ahimè degli stati europei, che per i diversi assetti interni alla potenza tuttora prevalente. Sta di fatto che anche su questo piano, la tattica de “l’America first” con l’indebolimento dell’approccio multilaterale e la rinegoziazione su base bilaterale dei trattati con gli USA sta modificando pesantemente e in maniera duratura le modalità e i contenuti delle relazioni internazionali. A prescindere dal suo esito tutt’ora incerto, penso che ricorderemo per tanto tempo questa presidenza. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

 

https://soundcloud.com/user-159708855/podcast-episode-1

PALESTINA INFELIX, di Luigi Longo

Si pubblicano due brevi articoli, il mio di un paio di anni fa, sulla distruzione del popolo palestinese per rafforzare e rilanciare la potenza regionale di Israele come contrafforte delle altre due potenze emergenti regionali come l’ Iran e la Turchia. Sullo sfondo l’attacco USA al nascente asse Russia-Cina  probabili  poli di potenze mondiali che hanno la visione di un ordine mondiale multicentrico. Luigi Longo

Una riflessione e una domanda a proposito di << due popoli due stati>>.

di Luigi Longo

La riflessione che pongo necessiterebbe di un lungo racconto sull’uso del territorio ( meglio sarebbe spazio) nel conflitto tra Israele e la Palestina, a partire dal 1948 anno di proclamazione formale dello stato di Israele. Mi limito qui a constatare che si tratta di un conflitto tra un aggressore, Israele, che sta malvagiamente ridimensionando un popolo palestinese che cerca di resistere e di difendere legittimamente i residui territori a propria disposizione che non possono più formare una nazione.

La questione avanti posta va vista nei giochi strategici che le potenze mondiali (soprattutto gli USA) hanno fatto, fanno e continueranno a fare per ottenere l’egemonia dell’area mediorientale, tutto storicamente dato.

La riflessione è: non ci sono più le condizioni territoriali per la creazione di due popoli e due stati. La politica territoriale di Israele, con lo strumento delle colonie e con tutta la sua strumentazione scientifica e tecnica (che non è mai neutrale, è bene ricordarlo), di fatto non permette più di parlare di due stati e di due popoli, ma bensì di uno stato per gli israeliani e di enclave per i palestinesi. Usando un linguaggio lagrassiano direi che storicamente gli agenti sub-dominanti della sfera politica, della sfera religiosa, della sfera militare e della sfera istituzionale-territoriale hanno avuto un ruolo fondamentale nel concentrare il popolo palestinese in enclave e distruggere l’idea stessa di una loro nazione con un territorio, una istituzione, delle risorse, una storia e una cultura propri.

Esiste un popolo israeliano con uno stato, gestito da agenti strategici sub dominanti spietati e insaziabili di potere e di egemonia, che è una pedina fondamentale (fino a poco tempo fa) degli USA e delle loro strategie mediorientali nella scacchiera del conflitto per l’egemonia mondiale.

Esiste un popolo palestinese rinchiuso in enclave le cui condizioni di vita sono sempre più difficili e al limite della sopravvivenza (almeno per la maggioranza della popolazione).

Una domanda ora sorge spontanea: perché si continua a lanciare missili innocui su Israele sapendo delle conseguenze inenarrabili sulla popolazione palestinese (donne, bambini e anziani, i numeri dei morti della guerra in atto lo stanno a dimostrare)?.

Avanzo un dubbio: siamo sicuri che i gruppi dominanti del popolo palestinese ( con le loro articolazioni in forze politiche: OLP, Hamas, eccetera) non utilizzano ideologicamente l’obiettivo dei << due popoli due stati >> per le loro strategie di potere e di egemonia per meglio posizionarsi, sia negli accordi di pace sia nelle strategie complessive delle potenze mondiali, con i gruppi strategici egemonici sub dominanti (israeliani e non solo) e dominanti ( USA e non solo) in questa crisi d’epoca di chiaro avvio della fase multipolare?

Se rimaniamo nella dialettica << due popoli due stati >> non riusciamo a capire i rapporti sociali e le trasformazioni sociali che avvengono in quell’area nevralgica del medioriente. E non riusciremo mai a capire perchè si lanciano missili innocui su Israele, ritorsivi e autodistruttivi per la maggioranza dei palestinesi.

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Italia costruirà gasdotto a Israele (per rubare il greggio palestinese)
www.maurizioblondet.it/italia-costruira-gasdotto-israele-aiutarla-rubare-greggio-palestinese/
“Non esiste ancora una pipeline così lunga e così profonda”, esulta il ministro dell’energia sionista Juval Steinitz. L’Italia e la Grecia (ma soprattutto l’Italia) gli costruiranno il gasdotto che costerà 6 miliardi e sarà completato nel 2025, che pomperà gas e greggio del grande giacimento davanti a Gaza, che ovviamente i sionisti si sono accaparrati, rubandolo ai palestinesi, in condominio con Cipro (che ha perfettamente diritto, perché il giacimento è nelle sue acque territoriali). Il memorandum in questo senso è stato firmato martedì a Nicosia, fra l’ambasciatore italiano a Cipro, e i ministri dell’energie di Israele, Cipro, Grecia. Benediceva l’operazione il commissario europeo all’energia Miguel Arias Cañete. E’ probabile che sarà la UE a pagare il progetto, perché l’eurocrazia persegue instancabilmente la strategia di svincolare l’Europa dalla “dipendenza energetica da Mosca” (oltre a quella di fare regali allo Stato razziale mediterraneo). Il tubo, chiamato EastMed che approderà in Italia nel 2025, trasporterà fino a 16 miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno, pari a circa il 5% del consumo annuale in Europa, secondo quanto riferito da EUObserver. Si è costituita allo scopo una joint venture fra Edison e la consorella greca Depa.
Lasciamo perdere la presunta “polemica” e “presa di distanza” dell’Europa dalla decisione trumpiana di dichiarare Gerusalemme capitale indivisa di Sion, lo “scontro” di Netanyahu con Macron, i “disaccordi” di costui coi ministri degli esteri della UE che sa per incontrare a Bruxelles. Quello è teatro per la scena. La realtà è che gli europei restano legati a filo doppio, anzi sempre più soggetti, agli interessi israeliani.

LA GERUSALEMME LIBERATA_UNA SFIDA CAPITALE_una conversazione con Antonio de Martini

Trump ha dato seguito ad un altro degli impegni elettorali. Con la sua decisione di procedere al trasferimento, entro due anni, dell’ambasciata americana a Gerusalemme ha sparigliato le carte e strappato il velo di ipocrisia che ammantava il groviglio mediorientale, e gli atteggiamenti delle classi dirigenti arabe; ha privato gli Stati Uniti del ruolo di mediatore; sta sancendo la realtà dell’ingresso di nuovi soggetti politici nel gioco di quella zona cruciale. Qui sotto una interessante conversazione con Antonio de Martini

TRUMP UNIFICA IL MONDO ARABO E RICOMPATTA L’ISLAM CONTRO ISRAELE. POSSIAMO APPROFITTARNE. di antonio de martini

oggi, 6 dicembre, Trump – per rispettare una promessa elettorale- riconoscerà Gerusalemme capitale di Israele e trasferirà l’ambasciata USA costì. È una scelta che mi ricorda l’adozione del proibizionismo che si ritorse contro gli autori e poi dovette essere rimangiata.

Non accadrà nulla di epocale, tanto la impopolarità e l’odio nei confronti degli Stati Uniti erano già al massimo storico e così rimarranno molto a lungo.

Diversa la situazione di Israele che potrebbe essere nuovamente isolata mentre stava per incassare il riconoscimento saudita, che ora non potrà non sfumare.
Si intravede una nuova rottura dei rapporti con la Turchia e forse persino con l’Egitto.

Per riempire il vuoto politico ed economico che viene lasciato dagli USA ( che a loro volta avevano sostituito gli inglesi dal 1948 in poi) ecco apparire la Francia di Macron.

È possibile che al vuoto politico segua quello economico deciso a livello popolare, che potremmo riempire noi, dato che il gettito maggiore gli USA lo registravano negli approvvigionamenti alimentari all’area MENA e noi potremmo intervenire proficuamente in tutta l’area facendo uscire dallo stato di crisi le fabbriche di pollame e carne non suina in scatola,tabacchi,bibite e dolciumi, condizionatori, distribuzione energetica ecc.

Il settore trainante dell’economia USA non è mai stato la tecnologia o gli armamenti, bensì l’agroindustria e il suo maggior cliente è proprio il mondo arabo.

Per noi è una occasione da non perdere.

Politicamente, il mondo intero – il mondo islamico moderato in particolare- vede questa scelta come un grave errore ed uno schiaffo alla credibilità ONU oltre che ai leaders arabi alleati che vedono traballare i loro troni. Difficile che qualcun altro leader si dichiari alleato o amico degli USA di Trump. Nemmeno i curdi.

Oltre ai tradizionali avversari, anche il Vaticano che puntava alla internazionalizzazione di Gerusalemme e i cristiani palestinesi si muoveranno in senso contrario a queste scelte USA.

Credo che nessun paese occidentale seguirà l’esempio americano e la speranza di promuovere una qualche forma di pace tra palestinesi e israeliani andrà in soffitta per un bel pezzo.

Per ogni paese che trasferirà l’ambasciata a Gerusalemme, si apriranno opportunità commerciali per noi se ci allineeremo col Vaticano invece che con Trump e suo genero.

La conseguenza politica di maggior rilievo, sarà l’atteggiamento delle Nazioni Unite che vedono stracciata la loro storica risoluzione costitutiva dello Stato di Israele del 1948 che in contemporanea stabiliva che Gerusalemme sarebbe stata internazionalizzata.
La credibilità ONU è così azzerata definitivamente.

La reazione araba è scontata ed è possibile che assuma anche forme creative alla Ben Laden. La distinzione molto pompata tra sciiti e sunniti perderà significato.

Meno scontata e prevedibile la reazione dell’Europa e dell’Asia nei confronti di Israele che rischia di fare la spese della bella figura di Trump i cui elettori amano molto vederlo “rompere gli schemi.”

Rischiamo una crisi internazionale di lunga durata per consentire al Presidente americano di conquistare gli elettori dell’Alabama.

Possiamo però trasformare questo problema in una grande occasione commerciale e industriale per occupare le aree in cui gli arabi ( e gli islamici) boicotteranno gli Stati Uniti.

THE DAY AFTER

gli ultimi tentativi di pace tra israeliani e palestinesi ci furono nel 2014, John Kerry consule, e finirono in un nulla di fatto.
Oggi tutti gli israeliani festeggeranno il riconoscimento degli Stati Uniti di quel che già avevano, cioè Gerusalemme capitale.

Passata la sbornia, si renderanno conto di aver barattato la pace con una soddisfazione enorme ma psicologica.

Tutta la comunità internazionale mantiene il punto che i negoziati devono farsi tra le parti in causa ( Israele e i palestinesi) con trattative dirette e che la sola soluzione che tutti gli analisti individuano al problema è quella di creare due Stati .

La frattura stessa interna agli USA, tra democratici e parte dei repubblicani da una parte e seguaci di Trump dall’altra, fa sì che gli USA stessi non siano unanimi in questa scelta ed abbiano bruciato la credibilità delle Nazioni Unite che creava un sembiante di consenso internazionale a molte decisioni USA.

Trump dice che andava tolta la polvere dal negoziato che si trascina da mezzo secolo. Vero, ma andava usato il piumino, non l’idrante.

Netanyahu, è certamente felice di aver acquisito questo merito storico che spera allontani lo spettro della indagine della polizia israeliana che è giunta ormai al suo quinto interrogatorio sulla vicenda di corruzione sulle forniture militari tedesche. Per lui, ogni giorno in più è guadagnato, ma ha messo l’intero paese nella stessa situazione di precarietà.

Nessuno intanto tra gli amici di Israele risponde alla domanda posta da Paolo Sax Sassetti:
da domani Israele sarà più o meno sicuro?

IL “CHE FARE?” DI CARL SCHMITT. Europa, Nuovi Stati, Nomos del Mondo (2/2), di Pierluigi Fagan

IL “CHE FARE?” DI CARL SCHMITT. Europa, Nuovi Stati, Nomos del Mondo (2/2).

Questa seconda parte, conclude lo studio iniziato qui.

Tornando all’”inquietante attualità” di Schmitt, e volgendoci allo scenario extra-europeo, la composizione del parterre del gioco mondiale ha subito diversi cambiamenti negli ultimi due secoli. Da un dominio eurocentrico che termina ai primi del secolo scorso,  ad un sistema binario americo-europeo che va a comporre il fantomatico “emisfero occidentale” passando per le due guerre euro-mondiali, al mondo “troppo piccolo per due sistemi tra loro contrapposti” dell’ideologia global-idealista[1] in accompagno alla guerra fredda e successivo breve dominio unipolare americano, ad un oggi in cui s’annuncia un mondo nuovo, tendenzialmente multipolare.

In questa idea dell’One World, del Piccolo pianeta, del Villaggio globale ritroviamo anche il famoso strabismo teoria e prassi, riflesso di quello idea-realtà. Se la lettura economicista dell’immagine di mondo (che sia a base metodologica liberal-individualista o comunista-classista) vede l’ineluttabilità dell’One World tessuto dalla globalizzazione (o dai sincronici movimenti di emancipazione del proletario che supera la nazione), dal Segretario di Stato americano H.L.Stimson e la sua presunta affermazione del 1941 alle sorprendenti letture del problema impero-globalizzazione di Antonio Negri , la verifica del campo di gioco in termini realistici, legge invece un tendenziale pluralismo di potenze.   Come altrimenti definire la Cina, la Russia, l’India ma in diversa misura anche il Giappone e la Corea del Sud ed almeno il mondo arabo-islamico a guida Arabia Saudita-EAU ma animato anche dagli interessi di grande spazio neo-ottomano della Turchia, neo-sciita dell’Iran, dell’Egitto e del Pakistan? E cosa sono gli ormai nove possessori di armi nucleari se non altrettanti poli inattaccabili per paura di ritorsione atomica che con l’offrire il loro “ombrello” di copertura, si formano un loro grande spazio in cui i nemici non possono attaccare nella rinnovata logica Monroe? Ed anche rimanendo nel monoteismo economicista come non accorgersi del cambio radicale di composizione, peso e primato,  confrontando la Top Ten dei Paesi per Pil tra 1980 e le previsioni 2030? Sembrerebbe che la logica teorica, che per sue esigenze di discorso tende ad asciugare molto in concetti nitidi una realtà dai bordi molto più sfumati e sovrapposti, vedendo il mondo troppo piccolo per un pluralismo o forse mossa da una teologia dell’Uno, diverga dalla logica pratica per la quale sistemi più densi[2] diventano più complessi e sistemi complessi si ripartiscono in più nodi o attrattori per darsi un ordine[3]. Nella crescita di massa c’è un aumento di complessità non una tendenza alla semplificazione dell’Uno.

Tutti i sempre più numerosi giocatori del mondo multipolare sembra stiano accrescendo la loro potenza, tutti fanno piani e agiscono di conseguenza per darsi un grande spazio nel loro immediato intorno che sia di terra o di mare. Gli americani con la globalizzazione dollarizzata a trazione banco-finanziaria o la NATO o il nuovo “pivot indo-pacifico”, con la BRI e lo sviluppo africano i cinesi o con l’internazionale wahhabita-fraternità musulmana l’islam che ha iniziato un sua guerra per l’egemonia interna, con l’UEE e la nuova egemonia su Caucaso – Siria dei russi o le mire neo-ottomane di Erdogan, con la rinnovata autonomia di Londra che punta al Commonwealth 2.0, tutti stanno correndo a rinforzarela propria costituzione di potenza dandosi prospettive di grande spazio, tranne lo Stato europeo che non c’è. La stessa Germania che è una potenza economica[4] è un nano geopolitico ed un fantasma sul piano militare. Lo stesso scenario di gioco è in transizione, dall’assetto euro centrato a quello atlantico dominato del sistema occidentale a quello mondiale in cui al talassocratico sistema occidentale si va a contrapporre il terraneo sistema afro-eurasiatico tessuto dai cinesi (e russi)[5]. Disputa titanica che verte essenzialmente sull’Europa la cui oscillazione da una parte o dall’altra, può determinare l’esito della transizione e la sua stessa natura, pacifica o, come da molti temuto, bellica.

La “crisi dello Stato” che anima molte riflessioni occidentali, come la dobbiamo intendere? L’impressione è che a questo topos critico manchi un aggettivo di precisazione: “europeo”. Sembra che anche i più avveduti critici dell’eurocentrismo, alfieri del multiculturalismo e del relativismo applicato a gli altri ma non a se stessi, non s’accorgano che la proclamata “crisi dello Stato” fase suprema di un capitalismo finanziario assoluto (ma il capitalismo è a guida finanziaria sin dalle sue origini nel XV secolo se non prima, secondo F. Braudel[6]),  a sua volta de-geo-storicizzato[7], non è un universale, ma una sindrome -almeno nelle sua forme più virulente- dello Stato europeo. Né le pratiche, né il concetto di Stato, sembrano in crisi negli Stati Uniti o in Gran Bretagna o in Russia o in Cina o in India o altrove. La globalizzazione alcuni la subiscono, ma altri la sfruttano, così come la “tecnica” oggetto di molte analisi sulla modernità. I fenomeni si offrono all’intenzionalità degli agenti e se non si riesce ad essere agenti si diventa agiti, ma è improprio diagnosticare la minorità con la sola potenza ordinativa del fenomeno, del dispositivo e della sua ineluttabili facoltà governamentali. I nuovi poli con tendenza ad ampliarsi e segnare il proprio grande spazio, sono centrati  su Stati che hanno  intenzionalità, potenza e condizioni di possibilità per essere tali[8]. Se altri tipi di Stati, denunciano una difficoltà a governare i fenomeni e ne diventano governati, piuttosto che diagnosticarne la “fine dello Stato”, forse si dovrebbe riflettere su come potenziarli. Forse in Europa sta finendo il tempo degli Stati-nazione ma non per la parte Stato, per la parte “nazione”. Forse, in Europa, è giunto il momento di domandarci se ci possiamo ancora permettere i nostri piccoli Stati, il che non porta necessariamente però a darsi come unica risposta l’Unione di tutti, subito ed a qualsiasi condizione.

A riguardo, anche alcuni teorici ed analisti politici della plurale tradizione detta “sinistra”, tra i tanti punti di autointerrogazione che dovrebbero porsi per verificare la realtà dei loro sistemi di pensiero, realtà che sta sfumando in una appiccicosa ed inservibile scolastica (come ammoniva per altro lo stesso Marx nella seconda Tesi su Feuerbach), dovrebbero contemplare il sistema dei fatti demografici, geografici, storici di lunga durata, nonché quelli altrimenti sottovalutati nel concetto di “sovrastruttura” e la stessa politica internazionale anche perché rimanendo abbarbicati al paradigma economicista, diventano sempre più simmetrico-inversi ai liberali, in fondo “simili”. Far scattare lo sprezzante giudizio di “rossobrunismo” ogni volta che si pone a sinistra la questione geopolitica, aiuterà forse a sedare l’ansia da -non comprensione del mondo- ma l’abuso di questo tipo di ansiolitici, può portare al disordine mentale permanente, invecchiando. E sistemi di pensiero nati centocinquanta anni fa, forse, dei sintomi di senilità disfunzionale, è naturale li mostrino.

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Come inquadrare allora la sindrome europea di una ipertrofica Germania in tandem con la Francia, che si muovono in uno scenario di sovranità azzoppata anche per loro, in un contesto di così complesse trasformazioni mondiali? E noi, come rispondiamo al nostro specifico “che fare?”, stretti tra fuga nell’Unione e ritorno alla Nazione? Riepiloghiamo ed andiamo ad una prima -provvisoria- conclusione.

In Europa è terminata da tempo la fase storica iniziata nel XVI secolo con la nascita dei moderni Stati. Alla fine del XIX secolo, gli europei vanno tendenzialmente a saturare gli spazi esterni all’Europa con la colonizzazione, processo di lunga durata iniziato a fine XV secolo e costitutivo dell’equilibrio europeo e della stessa consistenza dello Stato europeo[9]. Contemporaneamente si siedono al tavolo della spartizione dello spazio mondiale due nuovi attori non europei gli Stati Uniti ed il Giappone. Si rinforza la Russia poi Unione Sovietica e nel XIX secolo si formano due nuovi Stati europei (l’Italia e la Germania), appena compensati dall’implosione e sparizione dell’Impero asburgico.  La risultante di questo linee di pressione, fu la prima e la seconda guerra mondiale, intervallate sia dalla grande depressione[10], sia dal trasferimento della posizione di egemone mondiale dalla Gran Bretagna a gli Stati Uniti, sia dalla crescente esuberante assertività della nuova Germania. Dopo la seconda guerra mondiale, il pluriverso europeo è ripartito tra l’area occidentale a supervisione americana e l’area orientale a supervisione sovietica. Gli Stati Uniti, se da una parte aiutarono la ricostruzione euro-occidentale, dall’altra cancellarono sistematicamente ogni potere coloniale extra-europeo. Da verso lafine del XX secolo ad oggi, gli europei si trovano sempre più confinati nel loro angusto e molto affollato sub-continente. Dentro si forma un ordine funzionale alle logiche americane che vogliono un mercato unito ma nessuna vera unificazione statale (e militare), poi si permette alla Germania la sua riunificazione che la porta ad una massa fuori standard (la RFT era al livello di massa di Francia-Italia-UK) che si somma alle note caratteristiche geopolitiche di centralità spaziale in uno spazio europeo già di suo saturo. Allora i francesi ed i tedeschi pongono una appendice al loro trattato di pace già base del progetto unionista europeo: l’euro[11].  I tedeschi accettano a condizione di fissarne loro i parametri tecnici che poi diventano politici, i francesi a patto di esserne sostanzialmente esentati fungendo da legittimante e junior partner. I tedeschi controlleranno i paesi nordici e dell’est, i francesi quelli latino-mediterranei. Nel frattempo è collassato lo spazio euro-orientale sovietico ed a seguire quello balcanico,  con gli americani che danno alla Germania un nuovo grande spazio di espansione economica, tenendosi però il controllo delle leve politiche e militari che usano sempre più contro la Russia. Fuori d’Europa, si sviluppa velocemente l’Asia ed al Giappone si affiancano Cina ed India mentre l’ordine del mondo è fissato dalla prima globalizzazione a guida anglosassone che -ideologicamente- compendia il regolamento del buon comportamento economico nei decaloghi neoliberali che impongono lì dove possono, cioè soprattutto nel loro grande spazio. Gli americani, che certo non hanno alcuna intenzione di crearsi un Leviatano concorrente ma solo una eterogenea macedonia condannata al “divide et impera”,  hanno gioco facile a spingere gli europei ad unirsi economicamente, ma non politicamente e militarmente. E’ un gioco facile questo di non pensare dall’inizio all’unione in termini politici, primo perché i singoli popoli nazionali e quindi i singoli Stati non ci pensano minimamente a fondersi davvero, né questo è al fondo il desiderio delle loro stesse élite politiche ognuna delle quali esiste proprio perché appartiene ad un suo specifico spazio nazionale, né la condizione geopolitica ad eventuale ragione dell’unificazione  è “sentita” dalle rispettive opinioni pubbliche[12] che diventano sempre più ignare della complessità di questo enorme e complicatissimo scenario. Ma a ben vedere, l’ idea stessa di unire gli europei in quello che per avere sostanza politica[13] non può che non essere uno Stato, magari federale[14], ha sostanza fantasmatica. Non perché nessuno in fondo la vuole questa unione, ma perché non sta nel novero delle cose che è concretamente possibile fare.

Lo stesso Schmitt ci ricorda che la precondizione ovvia per pensare ad uno Stato più grande di quello che ci ha dato in sorte la nostra storia passata, sta in quella physis-terra composta di immagini, concezioni del mondo, religioni, tradizioni, “ricordi storici, saghe, miti e leggende, simboli e tabù, abbreviazioni e segnali del sentimento, del pensiero e del linguaggio”, insomma la materia che fa la sostanza assieme alla forma.  Fuori di questo presupposto dell’in comune c’è solo la conquista e subordinazione coattiva per poter formare uno Stato. Ma essendo il progetto UE una fusione e non una incorporazione, incorporazione che se pure qualcuno immagina è del tutto fuori luogo discutere visto cha la storia europea ci ha abbondantemente mostrato l’impossibilità di una conquista di Uno su Tutti,  quanto di quel “essere in comune” ha davvero in comune un presunto “popolo europeo”? Nulla. E’ l’atto giuridico politico che fonda lo Stato a fare il popolo o bisogna prima avere un per quanto mal definito popolo prima di poter pensare possibile uno Stato che lo amalgami e meglio definisca? Dove mai si è condivisa la discussione pubblica e popolare sul cambio di paradigma per cui se i nostri vecchi Stati si son fatti tra “noi” e contro quelli dei vicini, oggi i ragionamenti sul nuovo scenario del mondo del secondo millennio, ci imporrebbero di trovare un nuovo “noi” contro i nuovi attori multipolari?  E gli “europei” definizione che parafrasando Metternich non parte da una entità storico-politica ma da una mera espressione geografica, possono pensarsi come “noi”, possono davvero diventare e sentirsi un “popolo” o debbono rifiutare questa categoria e pensarsi come una società per azioni? Se non sono un popolo e non possono diventarlo in tempi storici ragionevoli, se nessuno realmente pensa e vuole immaginare possibile uno Stato europeo, se non potendo mai divenire uno Stato non potrà quindi neanche mai esser democratico, se non potendo  mai essere un vero Stato mai potrà esser un soggetto geopolitico nel gioco multipolare, su cosa stiamo buttando via tempo continuando ad affidarci con sempre minor entusiasmo al sistema UE – euro?  Queste cose, credo appaiano auto-evidenti al netto di qualsivoglia inclinazione ideologica ad uno storico, il problema è che il processo politico di presunta unificazione è discusso e teorizzato principalmente da economisti. Purtroppo però lo sguardo economico tende ad una metafisica platonica che, con logica geometrico-numerica, non legge la logica concretamente incarnata negli individui, nelle società, nelle istituzioni e nelle culture e nelle storie e nelle geografie che fanno i “popoli”, eterogeneità che fanno del complesso pluriverso europeo un frattale di multipolarità in sé. Da questo punto di vista, con Schmitt si vedono cose che  con Smith non si possono  vedere, pensando teoricamente possibile quella che è una tragica astrazione.

Si può lasciare questa idea dell’uni-verso europeo come idea regolativa della ragione, come punto di fuga ideale kantiano a cui tendere. Ma detto per inciso non secondario,  Kant parlò più di confederazione che di federazione ad al solo scopo giuridico-militare in modo da evitare l’eterno riproporsi della coazione hobbessiana del tutti contro tutti, Kant non hamai parlato di uno Stato federale europeo ed è probabile che la sola idea gli facesse ribrezzo[15]. Se questo è un punto di fuga in prospettiva, telos da traguardare nei (molti) decenni a venire,  nel frattempo, occorrerebbe pensare a qualcosa di meno sbilenco ed impossibile e che -tuttavia-  aiuti gli Stati europei a sopravvivere nel difficile e caotico scenario del mondo nuovo. Forse non c’è solo la dicotomia Stato ed Impero ma Stato piccolo ed impotente, Stato grande e potente ed Impero. Forse dobbiamo aprirci un pertugio nelle condizioni di pensabilità e sdoganare l’apparentemente banale e volgare considerazione di buon senso che -in questo discorso- le dimensioni contano. L’eterogeneità europea andrebbe forse pensata per gradi di prossimità, si dovrebbero prima fare federazioni basate su un comune  secondo le grandi ripartizioni dello spazio geo-storico europeo, magari tra loro confederate in una semplice alleanza militare che tra l’altro ci emancipi tutti dalla NATO e solo dopo federazioni di federazioni, ovvero l’ipotetico e molto remoto Stato europeo. Questa idea dell’effettiva unione politica sub-continentale -in prospettiva- sarà anche una necessità , ma pensare sia perseguibile nel delirio dell’impossibile analogia detta “Stati Uniti d’Europa” che ha più ruolo pubblicitario che realmente programmatico, dove la forma (unità) ignora la materia (pluralità storica dei popoli) e quindi non giungerà mai  a sostanza, non è guadagnare tempo, ma perderlo.

Quanto tempo possiamo ancora perdere invece che iniziare un nuovo viabile percorso di adattamento al mondo nuovo e complesso?

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In questo periodo sto studiando le faccende che riguardano questo complesso argomento e questo Autore che oltre a dare suggestioni utili alla riflessione, dà anche tanti problemi in quanto non si può relativizzare la sua piena e convinta adesione al nazismo da cui il problema del provare a separarne il pensiero puro e critico-teorico da quello pratico-pragmatico contingente. Sentire un tedesco, per giunta approssimativamente nazista, che parla di “impero” e di “grande spazio” fa scattare le saracinesche dell’ostracismo prima ancora di poter cogliere qualche idea magari poi da trasformare per altra utilità, non  facile visto che la nostra ragione è anche tanto emotiva, ma lo sforzo forse merita un impegno.  Il nostro “leninista” titolo sul Che fare? di Schmitt, allude al “Che fare di Carl Schmitt?[16]” che è il bel titolo di un altrettanto interessante libricino che si pone la stessa questione: cosa fare di certe riflessioni che sembrano fatte oggi, che sembrano assai lucide e predittive del dominio liberal-anglosassone, dell’universalismo mercatistico imperialista di cui oggi vediamo la piena espansione globalizzante -tra l’altro- in crisi di riformulazione, della pari confusione universalista dell’internazionalismo di sinistra che legge solo classi e non i popoli, dell’ingombrante volontà di potenza teutonica, della crescita di binomi impero-grande spazio tutti non europei, cosa fare della sua acutezza critica e della sua inservibilità normativa, malattia endemica dei pensatori tedeschi in genere? Jean-Francois Kervégan, l’Autore del libro citato, dà la sua diagnosi, così Stefano Pietropaoli  nella monografia dedicatagli[17], così nel suo lungo lavoro di scavo ed approfondimento Carlo Galli[18], così Giovanni Gurisatti curatore dell’edizione italiana della raccolta di scritti schmittiani di politica e diritto internazionali[19] e poiché amalgamati anche con considerazioni su “terra e sul mare”[20] validi anche in termini di geopolitica teorica, così il curatore tedesco originario di Stato, Grande Spazio e Nomos, Gunter Mashke nell’Epilogo post-fazione dello stesso volume. Così le riflessioni stimolate da Schmitt che hanno svolto a vario modo, qui da noi, Cacciari, Duso, Marramao, Tronti, Negri ed Agamben ma anche Julien Freund, Alexander Kojève o il “maoista” tedesco J. Schickel nel Dialogo sul partigiano del 1970. Ma di tutto questo, della “questione Schmitt”, parleremo altrove.

Convegno 16-17 Gennaio 2018, Villa Mirafiori, Facoltà di filosofia La Sapienza Roma – Micromega dal titolo “Lumi sul mediterraneo”.

La questione delle questioni poste da Schmitt ed il suo stesso statuto di pensatore, ha per noi rilievo di attualità sia in termini di geopolitica sulla teoria multipolare[21], sia in termini di concreta geopolitica europea (incluse le aggrovigliate matasse dei sistemi Unione europea ed euro), sia in termini di geocultura e geofilosofia e proprio sul fatto della questione teoria-prassi. Lo facciamo con Hegel come con Marx, con Nietzsche come con Heidegger, con i francofortesi e fino a Sloterdjik ed in parte con Schmitt, si finisce sempre col pascolare nelle radure del pensiero critico tedesco ma poi il mondo, il nostro mondo occidentale, continua imperterrito ad esser ordinato dal nomos anglosassone. Per parafrasare un francese (Deleuze)[22] “i tedeschi progettano mondi, gli anglosassoni li abitano” o li governano, si potrebbe meglio dire[23]. E non è tutto. Questa riflessione sullo Stato e sulla potenza, sulla condizione multipolare ed  il grande spazio che per noi italiani è  il Mediterraneo e la costa dirimpetta in cui tutti i grandi giocatori del gioco di tutti i giochi vengono a disordinare e far danni di cui poi noi paghiamo immancabilmente le conseguenze, cosa ci porta? Dove ci dovremmo dirigere per divincolarci dalla nostra passività subalterna che oscilla tra l’astratto unionismo europeo e l’improbabile ritorno ai confini nazionali di un Paese che sta scivolando nella gerarchia dei soggetti che contano oltre il limite di ciò che ha significato? Come possiamo trasformare questa progressiva insignificanza che ci condanna ad ogni tipo di eteronomia, dalla globalizzazione passiva  all’ineluttabilità neoliberista, dalla NATO ed ai diktat euristi del binomio franco-tedesco alle pressioni russe e cinesi non meno che americane, britanniche ed islamiche, dove volgere un diverso progetto, finalizzarlo a cosa, organizzarlo come? Chi gli amici, chi i nemici? Sovrani come e di che spazio, con quale regolamento ed intenzione? Come districarsi nella selva oscura fatta di imperi, comune, Stati, nazione, popoli, mercato, terra-mare-aria, teorie e fatti, mondo e sua immagine, politico ed economico e ritrovare la diritta via, oggi smarrita? E come rispondere a queste inevitabili domande poste dal primato di realtà, cercando di portare avanti anche le nostre non meno legittime ispirazioni ideali di giustizia sociale ed emancipazione, democrazia reale e buona vita sostanziale?

Riprenderemo  queste urgenti riflessioni in prossimi articoli.

[2/2, la prima parte qui]

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[1] In “Mutamenti di struttura del diritto internazionale” di Schmitt (1943), l’Autore fa un preciso riferimento ad un presunto discorso fatto da Stimson (Segretario di Stato ed alla Guerra americano) a West Point nel 1941 da cui sarebbe stato tratto il virgolettato, riferimento che ripete in altre opere successive ma al curatore dell’edizione tedesca Maschke, questo discorso di Stimson non risulta verificabile. Altresì, lo stesso Maschke, accetta che, esistente il preciso riferimento o meno, questo è stato effettivamente il pensiero “… dell’ideologia dei globalist che circondavano F.D.Roosevelt” (Nota 35 p.255 di Stato, Grande spazio, …. op. cit.).

[2] Nella vasta letteratura che indaga questi fenomeni di mondializzazione ed egemonia, si sottovaluta sistematicamente il dato demografico. Se non si considera la diversa massa e distribuzione di densità della popolazione mondiale che passa dal 1,5 mild dei primi del secolo, ai 7,5 mld più recenti (in poco più di un secolo) è facile cadere in narrazioni che hanno più del letterario che del concreto. Purtroppo, come la geopolitica ha lo stigma del suo utilizzo teorico-pratico da parte dei nazisti, la demografica lo ha con Malthus, ma così come non si può negare l’esistenza di una logica geo-storica a base della politica internazionale, sarebbe il caso anche di far pace con l’evidenza che spesso (non sempre e non da sola), motore attivo della Storia, è proprio la crescita o decrescita delle popolazioni.

[3] Oggi c’è anche una nuova linea dell’universale dell’Uno ma versione  pluralista, non quindi nel distopico addensamento nell’impossibile Un Mondo – Uno Stato (una idea, Schmitt direbbe, di teologia politica, monoteista nella fattispecie) ma nella riduzione degli Stati a regioni o città-Stato, connesse in un  network di scambi di materie, energie, individui, culture ed informazione. Un Uno non piramidale e monolitico ma a “rete” secondo la metafora del tempo (ogni tempo ha la sua). P. Khanna ne è il principale, ma non unico, cantore.

[4] Ma il mercantilismo tedesco (e cinese) quanto verrà ulteriormente permesso in un mondo che s’avvia ad una condizione stabilmente multipolare?

[5] Si segnala questa analisi di G. Doctorow, il quale vede un riproporsi di bipolarismo più che un avvio di multipolarismo https://consortiumnews.com/2017/10/23/russia-china-tandem-changes-the-world/

[6] F. Braudel, La dinamica del capitalismo, il Mulino, 1981

[7] Tanto la tradizione liberale che quella comunista, parlano spesso di mercato o capitale come se questo non fosse ripartito in aree territoriali governate da intenzionalità statali. Eppure i geoeconomisti (ad esempio il R. Gilpin di Economia politica globale, EGEA-Bocconi 2008) sanno bene che il “capitalismo” tedesco non è quello americano che non è quello giapponese che non è quello britannico ed oggi quello cinese. Forse molti non considerano che la Washington del “Washington consensus” non è solo l’addensamento ideologico delle élite transnazionali neo-liberali ma il nome della capitale degli Stati Uniti d’America.

[8] Chi in Europa potrebbe mandare in giro il proprio presidente a richiedere più che con le buone con le cattive il riequilibrio delle bilance commerciali, nel frattempo piazzando missili ed ottenendo nuove sottoscrizioni del debito pubblico “monstre”? Chi potrebbe fare la sua “exit” dall’UE senza rimanere polverizzato dal bombardamento finanziario dei “mercati” da cui Londra è immune? Chi potrebbe subire l’attacco al proprio grande spazio ucraino e siriano e reagire come ha reagito Putin? Chi potrebbe gestire e non esser gestito dalla globalizzazione investendo miliardi in strade, porti, linee e logistica per innervare la propria espansione mondiale come la Cina? I teorici della fine dello Stato vadano a spiegare ad americani, britannici, russi e cinesi che loro sono fatti fuori teoria e non teoria che sotto non ha alcun fatto della dimensione raccontata in  analisi che hanno costruito un falso luogo comune, come sempre “universale”. Intendiamoci, problemi ce ne sono parecchi nel conflitto strutturale tra Stato e mercato e sono certo cresciuti ad ogni ondata di mondializzazione, ma sono drammatici solo dove non c’è uno Stato in grado di esser tale.

[9] Nel caso francese ad esempio, dove ancora oggi questo Stato-economia vanta una privilegiata posizione di egemonia sull’Africa occidentale, come dovremmo valutare le sue performance capitalistiche? La Francia è ancora la 6a – 7economia mondo perché ha sostanzialmente ancora benefici coloniali? E il Regno Unito? E manterranno questo privilegio nei prossimi dieci anni? E cosa succederà se la risposta, com’è probabile, sarà “no”? La Francafrique concetto noto ai geopolitici, è noto anche a gli economisti?

[10] Questo crocevia è tutto da riesplorare. Messi in sequenza prima guerra – depressione e seconda guerra abbiamo trenta anni di stato d’eccezione del normale funzionamento delle società e quindi del capitalismo. Ma poi abbiamo altri trenta anni di eccezione (’45 – ’75) perché la ricostruzione post bellica (europea – asiatica – sovietica) è stata una condizione eccezionale. Poi abbiamo trenta anni (’75 – 2007/8) di espansione globalista soprattutto finanziaria a guida dollaro fiat money. Poi abbiamo il crollo dell’esagerazione finanziaria con crisi dei debiti privati e sovrani ipertrofici. Ma allora sono 100 anni che il “capitalismo” funziona in condizioni di contesto eccezionali. Come allora dovremmo considerare questo modo economico se volessimo immaginare un futuro normale ovvero un diverso ruolo sociale e politico del fatto economico?

[11] La moneta unica è solo una ovvia conseguenza del mercato unico altrimenti ciò che avrebbe dovuto unire (lo scambio commerciale) avrebbe riproposto le dinamiche concorrenziali tra Stati europei, generando nuova energia di frizione ed attrito. Qui si deve riconoscere l’apporto degli economisti critici che hanno ben analizzato e spiegato l’effetto che l’euro produce in termini di sottrazione di inter-competitività tra le economia nazionali del sistema euro.

[12] Sin dagli anni ’60, a partire dagli Stati Uniti, inizia un lento processo di degradazione culturale delle opinioni pubbliche. Chi ha una certa età e prova a mettere anche solo “a sensazione”, l’uno accanto all’altro il frame anni ’60-’70, col frame del ventennio del nuovo millennio, non potrà che rendersi immediatamente conto di quanto la “cultura” media sia regredita, in sostanza ed in valore stesso del concetto di “cultura”. Il fatto è viepiù preoccupante poiché incrocia con dinamica inversa la crescente complessificazione del mondo. Dovremmo sviluppare adattamento ad un mondo sempre più complesso con una dotazione culturale sempre più scarsa e mal distribuita? Le élite che si lamentano della vampata populista ed alla post verità a cui ricorrono come i tossicodipendenti che “domani smetto”, dovrebbero piangere se stesse poiché son loro ad aver boicottato la formazione culturale popolare che oggi, non trova altro sbocco di reazione che quella “istintiva ed intestinale”.

[13] Ovvero piena autonomia e sovranità in tutti gli aspetti, oltreché essere l’unico presupposto per l’esercizio della sovranità democratica.

[14] Dove “federale” non è una complicata e confusa struttura di relazioni plurilivello a diversa intensità ma una ben precisa forma di organizzazione politico-amministrativa che si applica in tanti Paesi che complessivamente sommano più o meno la metà della popolazione mondiale, tra cui India, USA, Brasile, Russia, Germania, Pakistan, Messico, Canada ed Argentina.

[15] Il Settimo articolo del progetto filosofico di I. Kant Per la pace perpetua (1795, in Kant, Scritti di storia, politica e diritto a cura di F. Gonnelli, Laterza, 2009), cita espressamente lo statuto giuridico di una confederazione (altrove Kant parla di una lega, sul modello dell’anfizionia dell’Antica Grecia) pacifica (foedus pacificum), che renda permanente quello che un normale trattato di pace rende episodico e precario. Tale permanenza, per quanto reversibile, sarebbe altresì assicurata dal Terzo articolo preliminare dove si indica la progressiva sparizione di eserciti permanenti. Perché per evitare la coazione alla guerra europea non sia scelta originariamente la strada di darsi un esercito comune in Europa che sottraesse materialmente la stessa possibilità del conflitto (difficile farsi una guerra senza avere un proprio esercito) ma si sia scelto il mercato comune (che tra l’altro contravviene il Quarto articolo che vieterebbe di contrarre debiti pubblici reciproci tra i contraenti confederati o il Quinto che vieta ad uno Stato di intromettersi nel governo e costituzione di un altro Stato) e ciononostante si citi Kant come padre spirituale dell’Unione europea è un mistero. Mistero viepiù fitto se si considera che Kant dava espressamente come opposto modello a ciò che voleva intendere con l’espressione Volkerbund, il Volkerstaat degli Stati Uniti d’America, la federazione dei popoli non portava affatto ad uno stato federale. Non quindi un super-Stato federale unico quale vagheggiano i sostenitori degli Stati Uniti d’Europa (analogia falsa ed improponibile), ma una confederazione a mo’ di alleanza di Stati sovrani. E che i singoli Stati dovessero rimanere pienamente sovrani, lo esplicita altrove e più volte negando a priori l’idea di una Universalmonarchie, ribadendo così la necessaria autonomia (darsi la legge da sé) su cui è basato l’intero impianto della sua filosofia della ragion pratica. (Sulla controversa questione si veda anche M. Mori, Studi kantiani, il Mulino, 2017 capitoli IV e V).

[16] J-F Kervégan, Che fare di C. Schnitt? Laterza, 2016

[17] S. Pietropaoli, Schmitt, Carocci editore, 2012

[18] C. Galli, Lo sguardo di Giano, il Mulino, 2008 ma anche Genealogia della politica, 2010

[19] C. Schmitt, Stato, Grande Spazio e Nomos, op. cit.

[20] C. Schmitt, Terra e mare, Adelphi 2002

[21] Per “teoria multipolare” s’intende una riflessione che non c’è, se non resuscitando qualche paragone con il Concerto europeo o l’equilibrio post-Westfalia (passione dellucido Kissinger che fra un po’ ci lascerà, lui “nemico” intelligente, con tutti “nemici” stupidi), quindi in un ambito parziale più ristretto ovvero quello europeo. Il soggetto politico mondo inteso non più solo nel limitato senso geografico, c’è da poco più di un secolo. Dopo la fase unipolare britannica e le due guerre, c’è stata la fase bipolare (debolmente tripolare) e poi quella breve unipolare americana, quindi non c’è riflessione multipolare contemporanea perché il fatto multipolare è assai recente e per altro in iniziale divenire. In più, c’è un monopolio americano di riflessione in politica internazionale e certo che a Washington non fanno il tifo per la multipolarità. Ne abbiamo parlato nel nostro “Verso un mondo multipolare”, Fazi editore, 2017.

[22] G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia? Einaudi, 2002, all’interno di nota 15, p.99.

[23] Questione già nota al Marx del “Per la critica alla filosofia del diritto di Hegel”, in cui nota che “I tedeschi nella politica hanno pensato ciò che gli altri popoli hanno fatto” che anticipa (visto che è di due anni prima) la celebre XIa Tesi su Feuerbach sulla questione  teoria e prassi, relativa forse proprio alla mania tedesca di rimanere troppo astratti ed alla fine, inconcludenti o pragmaticamente inservibili.

Guerra di secessione americana-le ragioni del protezionismo, a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto la traduzione di un interessante articolo del professore americano Thomas Di Lorenzo riguardante i motivi profondi della drammatica guerra di secessione interna agli Stati Uniti deflagrata a metà ‘800.

 Il saggio è importante per almeno due motivi.  https://www.paulcraigroberts.org/2017/12/01/professor-dilorenzo-explains-real-cause-war-northern-aggression/

Il primo riguarda il contributo ulteriore che riesce ad offrire, pur in una produzione letteraria ormai copiosa, sulle cause scatenanti di un evento sanguinoso e tragico, che portò alla morte violenta di circa il 3% della popolazione statunitense, concentrata nella sua parte più vitale e ammantato di una retorica umanitaria ed antirazziale in gran parte fuorviante rispetto a quel contesto storico; evento epocale, propedeutico alla irresistibile ascesa di quello stato nell’agone geopolitico mondiale.

Il secondo aiuta indirettamente a collocare più realisticamente e pragmaticamente il dibattito sul rapporto tra globalizzazione e protezionismo.

Il termine di globalizzazione tende ad essere identificato con il processo di liberalizzazione degli scambi. Con globalizzazione si dovrebbe intendere, invece, la possibilità e capacità incrementata di relazione, comunicazione e scambio resa possibile dagli impressionanti sviluppi della tecnologia in spazi talmente estesi e lassi di tempo talmente ridotti, impensabili sino a quaranta anni fa. Il processo di globalizzazione non comporta l’eliminazione e l’irrilevanza progressiva di regole, norme, imposizioni di fatto e compromessi che conformino tali scambi, tutt’altro; i campi di normazione e di azione si estendono in ambiti sino a poco tempo fa impensabili. Il discrimine che determina le peculiarità di sviluppo di questo processo è tra una situazione di dominio egemonico di una potenza sulle altre ed una nella quale sono più potenze a contendersi il predominio e le rispettive aree di influenza all’interno delle quali comunque avviene il gioco dei vari centri strategici e dei vari stati nazionali.

Nel primo caso è più facile che la normazione sia più uniforme, ma comunque conformata dando priorità alla visione e agli interessi della forza dominante; tendenzialmente l’ambito economico e le strategie politiche all’interno di esso assumono un carattere più autonomo.

Nel secondo la mediazione, i contrasti e la regolazione sono sicuramente più faticosi, imprevedibili e contraddittori. Ma sempre di regolazione si tratta. Gli Stati Uniti, specie nella periferia e nella semi periferia, sono presentati ostinatamente come i paladini del liberalismo tout court, quando sono in realtà i campioni di un liberalismo alquanto selettivo e di una definizione di regole e consuetudini conformi alle loro esigenze di sviluppo e di successo. Sarebbe interessante analizzare con cura e competenza le loro modalità operative e regolative. Sono un esempio, ma certamente anche gli altri soggetti politici, gli altri stati ambiscono ai medesimi obbiettivi, secondo le ambizioni e le possibilità delle rispettive classi dirigenti (qui di seguito un testo dove tratto più estesamente l’argomento ( http://italiaeilmondo.com/2016/10/02/globalizzazione-e-stati-nazionali/  – http://italiaeilmondo.com/category/dossier/globalizzazione-e-stati-nazionali/ ). Ogni stato ed ogni formazione sociale che abbia  voluto tentare la strada dello sviluppo e della crescita di potenza ha tentato di stabilire al proprio interno e nelle relazioni esterne particolari norme e filtri che consentissero il proprio sviluppo industriale.

La guerra di secessione americana rappresenta certamente un paradigma per tentare di inquadrare queste dinamiche. Un paradigma, però, che non deve nascondere l’attuale complessità dell’azione politica dei centri strategici. Allora la contesa riguardava praticamente l’entità delle barriere doganali e le modalità di funzionamento delle giovani istituzioni americane; oggi le contese riguardano apparati e ambiti operativi molto più sofisticati e complessi all’interno dei quali le barriere citate assumono un ruolo secondario e spesso distorcente. Gli Stati Uniti, ancora oggi, con le vicende legate all’avvento della presidenza Trump appaiono l’epicentro di questo scontro. A titolo di esempio per definizione parziale, riguarda la difesa del know-how, della conoscenza, della tecnologia, della determinazione degli standard di applicazione, delle caratteristiche dei prodotti, della regolazione dei flussi finanziari, dei dati, delle comunicazioni, dei confini entro i quali gli stati hanno giurisdizione. Tutto questo presuppone l’esistenza, non l’abolizione o l’indebolimento degli stati nazionali, come ancora sentiamo predicare soprattutto negli ambienti della sinistra, mondialista o del particulare che sia. Le modalità di sviluppo delle loro relazioni e dei loro conflitti sono, quindi, una chiave interpretativa fondamentale delle vicende del mondo. Buona lettura_ Germinario Giuseppe

PS_ Per la traduzione, per motivi di tempo, ho corretto le imprecisioni più vistose del traduttore utilizzato. Segnalate eventualmente ulteriori errori ed imperfezioni

guerra-civile-americana-27617055Il professor DiLorenzo spiega la vera causa della guerra dell’aggressione nordica

1 ° dicembre 2017 | Categorie: Contributi ospiti | Tag: | Stampa questo articolo

Il professor DiLorenzo spiega la vera causa della guerra dell’aggressione nordica

Le cause della “guerra civile” nelle parole di Abraham Lincoln e Jefferson Davis
Di Thomas DiLorenzo
, 30 novembre 2017
https://www.lewrockwell.com/2017/11/thomas-dilorenzo/the-causes-of-the- guerra civile-in-the-parole-di-Abraham-Lincoln-e-Jefferson-Davis /

“Quando [gli stati] entrarono nell’Unione del 1789, accompagnarono il loro ingresso con l’innegabile riconoscimento della facoltà del popolo di riprendere l’autorità delegata ai fini di quel governo, ogni volta che, a loro parere, le sue funzioni erano pervertite e i suoi fini sconfitti . . . gli Stati sovrani qui rappresentati si sono separati da quella Unione, ed è un grave abuso di linguaggio definire tale atto ribellione o rivoluzione. “ -Jefferson Davis, Primo discorso inaugurale, Montgomery, Alabama, febbraio 1861.

“Quindi . . . l’Unione è perpetua  ed [è] confermata dalla storia dell’Unione stessa. L’Unione è molto più antica della Costituzione. È stato formato, infatti, dallo Statuto nel 1774. È stato maturato e confermatoo dalla Dichiarazione d’Indipendenza nel 1776. È stato ulteriormente consolidato e la fede di tutti i tredici Stati si è espressa e impegnata espressamente nella affermazione che dovrebbe essere perpetua . . . . Da queste considerazioni risulta che nessuno Stato. . . può uscire legalmente dall’Unione. . . e quelli che agiscono. . . contro l’autorità degli Stati Uniti sono insurrezionali o rivoluzionari. . . “
-Abraham Lincoln, primo discorso inaugurale, 4 marzo 1861.

Queste due dichiarazioni di Abraham Lincoln e Jefferson Davis nei rispettivi discorsi inaugurali evidenziano forse la causa principale della guerra per prevenire l’indipendenza del Sud: Davis credeva, come fecero i padri fondatori, che l’unione degli stati fosse un’unione volontaria creata quando gli Stati liberi, indipendenti e sovrani hanno ratificato la Costituzione, come stabilito dall’articolo 7 della Costituzione; Lincoln affermò che non era volontaria; era più simile a quella che le generazioni future avrebbero conosciuto come Unione Sovietica – tenute insieme dalla forza e dallo spargimento di sangue. Murray Rothbard ha deriso la teoria di Lincoln circa l’unione americana non volontaria con una teoria dell’unione “Venere velenosa” descritta nel suo saggio, “Just War”. Infatti, nello stesso discorso Lincoln ha usato le parole “invasione” e “spargimento di sangue” per descrivere cosa sarebbe successo con qualsiasi stato che avesse lasciato la sua unione “perpetua”. La sua posizione era che dopo aver combattuto una lunga guerra di secessione dal tirannico impero britannico, i fondatori si voltarono e crearono uno stato centralizzato quasi identico, di tipo britannico, dal quale non ci sarebbe mai stata alcuna via di fuga.

Per quanto importante fosse questo problema, Jefferson Davis annunciò al mondo che una questione altrettanto importante se non più importante era il tentativo del Nord di usare finalmente i poteri dello stato nazionale per saccheggiare il Sud, con una tariffa protezionistica come suo principale strumento di predazione. Come ha affermato nel suo primo discorso inaugurale, il popolo del Sud era “ansioso di coltivare la pace e il commercio con tutte le nazioni”. Tuttavia:”Non c’è motivo di dubitare che il coraggio e il patriottismo del popolo degli Stati confederati si troveranno pronti a qualsiasi misura di difesa che potrebbe essere richiesta per la loro sicurezza. Dedicati alle attività agricole, il loro principale interesse è l’esportazione di una merce richiesta in ogni paese manifatturiero. La nostra politica è la pace e il commercio più libero che le nostre necessità consentiranno. È allo stesso modo il nostro interesse, e quello di tutti coloro a cui vorremmo vendere e da cui compreremmo, che ci dovrebbe essere la minor quantità di restrizioni praticabili sull’interscambio di merci. Non può esserci che poca rivalità tra noi e qualsiasi comunità manifatturiera o di navigazione, come gli Stati nordoccidentali dell’Unione americana. ”

“Deve seguire, quindi, che l’interesse reciproco dovrebbe invitare alla buona volontà e alla gentilezza tra loro e noi. Se, tuttavia, la passione o la lussuria del dominio dovessero offuscare il giudizio e infiammare l’ambizione di questi Stati, dobbiamo prepararci a fronteggiare l’emergenza e mantenere, con l’ultimo arbitraggio della spada, la posizione che abbiamo assunto tra le nazioni della terra.”

Per inserire queste affermazioni nel contesto, è importante capire che il Nord stava più che raddoppiando il tasso medio delle importazioni in un momento in cui almeno il 90% di tutte le entrate fiscali federali proveniva dalle tariffe sulle importazioni. Il livello di tassazione federale era più che raddoppiato (dal 15% al 32,7%), come accadde il 2 marzo 1861, quando il presidente James Buchanan, il protezionista della Pennsylvania,commutò l’ordinanza tariffaria di Morrill in legge; una legge che fu pervicacemente promossa da Abraham Lincoln e il Partito Repubblicano. (La delegazione della Pennsylvania era una componente chiave per la nomina di Lincoln. Prima della convention repubblicana mandò un emissario privato, il giudice David Davis, in Pennsylvania con copie originali di tutti i suoi discorsi in difesa delle tariffe protezionistiche degli ultimi venticinque anni per convincere gli stessi protezionisti della Pennsylvania, guidati dal produttore / legislatore d’acciaio Thaddeus Stevens, che era il loro uomo. Ha conquistato la delegazione della Pennsylvania e in seguito ha nominato Davis alla Corte Suprema.

Da quando entrarono in vigore la Tariffa del 1824 e la “Tariffa degli abomini” ancor più protezionistica del 1828, con una aliquota media del 48%, il Sud protestava e minacciava persino l’annullamento e la secessione dal saccheggio protezionistico, come fece la Carolina del Sud nel 1833 quando fu formalmente annullata la “Tariffa degli abomini”. I voti al Congresso su queste tariffe erano completamente sbilanciati in termini di sostegno settentrionale e opposizione meridionale – sebbene vi fossero piccole minoranze di protezionisti del Sud e commercianti liberi del Nord, specialmente a New York in quest’ultimo caso.

Il Sud, come il Mid-West, era una società agricola che veniva saccheggiata due volte dalle tariffe protezionistiche: una volta pagando prezzi più elevati per i manufatti “protetti” e una seconda volta riducendo le esportazioni dopo che le alte tariffe impoverivano i loro clienti europei ai quali era proibitivo vendere negli Stati Uniti a causa delle tariffe elevate. La maggior parte dei prodotti agricoli del Sud – quasi il 75% circa in alcuni anni – era venduta in Europa.

La Carolina del Sud annullò la tariffa degli abomini e costrinse il presidente Andrew Jackson ad accettare un tasso tariffario inferiore, di compromesso, introdotto per più di dieci anni, a partire dal 1833. Il Nord non aveva ancora il potere politico di saccheggiare il Sud, un atto che molti statisti del Sud ritenevano talmente una grave violazione del patto costituzionale da giustificare la secessione. Ma nel 1861 la crescita della popolazione nel Nord e l’aggiunta di nuovi stati del Nord, avevano dato al Nord stesso un potere politico sufficiente per saccheggiare il Sud e il Mid-West agricoli con tariffe protezionistiche. La Tariffa Morrill era passata alla Camera dei Rappresentanti durante la sessione del 1859-60, molto prima che qualsiasi stato meridionale si fosse separato, e era segnato sul muro che era solo una questione di tempo prima che il Senato degli Stati Uniti ne seguisse l’esempio.

La Costituzione Confederata ha messo fuori legge completamente le tariffe protezionistiche, chiedendo solo una modesta “tariffa di entrata” del dieci percento circa. Un atto talmente orribile per il “Partito delle grandi cause morali” che i giornali affiliati al Partito repubblicano nel Nord chiesero il bombardamento dei porti del Sud prima della guerra. Con una tariffa del Nord nella fascia del 50% (l’aumento tariffario che sarebbe intervenuto alla firma di Lincoln dei dieci articoli legislativi; e tale sarebbe rimasta per i successivi cinquanta anni) rispetto alla tariffa media del 10% meridionale, hanno capito che molto del commercio del mondo sarebbe passato attraverso i porti del Sud, non del Nord, e per loro è stato questo il motivo di guerra. “Ora abbiamo i voti e intendiamo saccheggiarti senza pietà; se resisti invaderemo, conquisteremo e soggiogheremo “è essenzialmente ciò che diceva il Nord.

Né Lincoln né il partito repubblicano si sono opposti alla schiavitù del sud durante la campagna del 1860. Si sono solo opposti all’estensione della schiavitù nei nuovi territori. Questo non era a causa di alcuna preoccupazione per la condizione degli schiavi, ma faceva parte della loro strategia di saccheggio perpetuo. Gli agricoltori del Mid-West, come gli agricoltori meridionali, sono stati duramente discriminati dalle tariffe protezionistiche. Anche loro sono stati doppiamente tassati dal protezionismo. Questo è il motivo per cui il Mid-West (chiamato “il Nord-Ovest” nel 1860) ha fornito una seria resistenza antebellum allo schema yankee di saccheggio protezionistico. (Il Mid-West ha anche fornito alcune delle più efficaci opposizioni al regime di Lincoln durante la guerra, essendo la casa dei “Copperheads”, così chiamato come un termine diffamatorio del Partito Repubblicano). Questa opposizione è stata annacquata, tuttavia, quando il Partito Repubblicano sostenne la politica di impedire la schiavitù nei territori, preservandoli “per il libero lavoro bianco” secondo le parole dello stesso Abraham Lincoln. I Mid-Western erano razzisti come chiunque altro a metà del diciannovesimo secolo, e la stragrande maggioranza di loro non voleva che i neri, liberi o schiavi, vivessero in mezzo a loro. Lo stato dell’Illinois di Lincoln aveva modificato la sua costituzione nel 1848 per proibire l’immigrazione di neri liberi nello stato, e Lincoln stesso era un “manager” della Illinois Colonization Society, che usava i dollari delle tasse statali per deportare il piccolo numero di neri liberi che risiedeva nello stato. La stragrande maggioranza di loro non voleva che i neri, liberi o schiavi, vivessero in mezzo a loro.

Anche i braccianti bianchi e le masse di contadini non volevano la concorrenza per il loro lavoro da neri, liberi o schiavi che fossero; il Partito Repubblicano era felice di assecondarli. Poi c’è il “problema” degli schiavi nei Territori che gonfia la rappresentanza congressuale del Partito Democratico a causa della clausola della Costituzione dei tre quinti. Con una maggiore rappresentanza democratica, il saccheggio protezionista sarebbe diventato molto più problematico da raggiungere.

Questa strategia fu spiegata nella relazione della commissione per gli affari esteri degli Stati Confederati d’America il 4 settembre 1861:

“Mentre la gente del Nord-Ovest, essendo come la gente del Sud, un popolo agricolo, era generalmente contraria alla politica tariffaria protettiva – la grande strumentalizzazione settoriale del Nord. Erano alleati del sud, per sconfiggere questa politica. Quindi è stato solo parzialmente, e occasionalmente di successo. Per renderlo completo e per rendere il nord onnipotente a governare il Sud, la divisione nel Nord doveva essere sanata. Per realizzare questo progetto, e per sezionare il Nord, iniziò l’agitazione riguardante la schiavitù africana nel Sud. . . . Di conseguenza, dopo il rovesciamento della tariffa del 1828 [cioè la tariffa degli abomini], con la resistenza della Carolina del Sud nel 1833, l’agitazione riguardante l’istituzione della schiavitù del sud. . . è stato immediatamente avviato nel Congresso degli Stati Uniti. . . . Il primo frutto di [questo] dispotismo settoriale. . . era la tariffa recentemente approvata dal Congresso degli Stati Uniti. Con questa tariffa la politica protettiva si rinnova nelle sue forme più odiose e oppressive, e gli Stati agricoli sono resi tributari agli Stati manifatturieri “.

Il primo discorso inaugurale di Lincoln: “Pay Up or Die!”
Il primo discorso inaugurale di Abraham Lincoln fu probabilmente la più forte difesa della schiavitù del Sud mai fatta da un politico americano. Cominciò dicendo che in “quasi tutti i discorsi pubblicati” aveva dichiarato che “non ho alcuno scopo, direttamente o indirettamente, di interferire con l’istituzione della schiavitù negli Stati in cui già esiste”. Credo di non avere alcuna diritto legale di farlo, e non ho alcuna inclinazione a farlo. “Ha poi citato la Piattaforma del Partito Repubblicano del 1860, pienamente approvata, che proclamava che” il mantenimento inviolato dei diritti degli Stati, e in particolare il diritto di ciascuno Stato per ordinare e controllare le proprie istituzioni nazionali. . . è essenziale per quell’equilibrio di potere da cui dipendono la perfezione e la resistenza del nostro tessuto politico. . .” (enfasi aggiunta). “Istituzioni domestiche” significava schiavitù.

Lincoln quindi si impegnò a far rispettare la legge sugli schiavi fuggiaschi, che in effetti fece durante la sua amministrazione, restituendo dozzine di schiavi fuggiaschi ai loro “proprietari”. Soprattutto, sul finire del suo discorso approvò i sette paragrafi dell’emendamento Corwin alla Costituzione, già approvati da Camera e Senato e ratificato da diversi stati. Questo “primo tredicesimo emendamento” proibirebbe al governo federale di interferire in ogni modo con la schiavitù del sud. Avrebbe inciso esplicitamente la schiavitù nel testo della Costituzione. Lincoln affermò nello stesso paragrafo che riteneva che la schiavitù fosse già costituzionale, ma che non aveva “alcuna obiezione al fatto che fosse reso esplicito e irrevocabile”.

Nel suo libro La squadra dei rivali Doris Kearns-Goodwin usa fonti primarie per documentare che la fonte dell’emendamento non era in realtà il deputato dell’Ohio Thomas Corwin ma lo stesso Abraham Lincoln che, dopo essere stato eletto ma prima di essere insediato, incaricò William Seward di ottenere l’emendamento attraverso il Senato degli Stati Uniti dominato dal Nord; cosa che ha fatto. Altri repubblicani videro che anche la Camera dei rappresentanti dominata dal Nord avrebbe votato a favore.

Così, il giorno in cui fu insediato, Abraham Lincoln offrì la più forte e intransigente difesa della schiavitù del Sud immaginabile. Egli annunciò efficacemente al mondo che se gli stati del Sud rimanessero nell’unione e si sottomettessero a essere saccheggiati dall’impero protezionista dominato dagli yankee, allora il governo degli Stati Uniti non avrebbe mai fatto nulla contro la schiavitù.

La risoluzione Aims War of the Senate degli Stati Uniti riecheggiava le parole di Lincoln secondo cui la guerra NON riguardava la schiavitù, ma il “salvataggio dell’unione”; una contesa che Lincoln ripeteva molte volte, inclusa la famosa lettera al direttore del New York Tribune Horace Greeley in cui diceva pubblicamente ancora una volta che questo scopo era “salvare l’unione”; il non fare nulla contro la schiavitù. In realtà il regime di Lincoln distrusse completamente l’unione volontaria dei padri fondatori. “Salvando l’Unione” intendeva costringere il Sud a sottomettersi al saccheggio protezionistico, non preservando l’unione altamente decentralizzata e volontaria della generazione fondatrice basata su principi come il federalismo e la sussidiarietà.

In drammatico contrasto, sulla questione della riscossione delle tariffe, Abraham Lincoln fu violentemente intransigente. “Niente” è più importante del passaggio della tariffa Morrill, come aveva annunciato a un pubblico della Pennsylvania poche settimane prima. Niente. Nel suo primo discorso inaugurale ha affermato nel diciottesimo paragrafo che “[T] qui non deve essere spargimento di sangue o violenza, e non ce ne sarà nessuno a meno che non sia forzata l’autorità nazionale”. Di cosa avrebbe potuto parlare? Cosa causerebbe “l’autorità nazionale” a compiere atti di “spargimento di sangue” e “violenza” contro i propri cittadini americani? Il presidente non fa un giuramento in cui promette di difendere le libertà costituzionali dei cittadini americani? In quale modo ordinare atti di “spargimento di sangue” e “violenza” nei loro confronti è coerente con il giuramento presidenziale per l’ufficio che aveva appena assunto,

Lincoln spiegò nella successiva frase: “Il potere confidato in me sarà usato per tenere, occupare e possedere la proprietà e i luoghi appartenenti al Governo, e per raccogliere i doveri e le imposte; ma al di là di ciò che potrebbe essere necessario per questi oggetti, non ci sarà nessuna invasione, nessuna forza sarà usata contro la gente da nessuna parte “(enfasi aggiunta). I “doveri e imposte” a cui si riferiva erano le tariffe da riscuotere secondo la nuova legge Morrill. Se ci dovesse essere una guerra, disse, la causa della guerra sarebbe in realtà il rifiuto degli Stati del Sud a sottomettersi al saccheggio della tassa federale appena raddoppiata, una politica che il Sud stava periodicamente minacciando di annullare con la stessa secessione finita per i precedenti trentatré anni.

In sostanza, Abraham Lincoln stava annunciando al mondo che non avrebbe fatto marcia indietro verso i secessionisti del Sud come aveva fatto il presidente Andrew Jackson accettando una riduzione negoziata della tariffa degli abomini (negoziata dall’idolo e dall’ispirazione politica di Lincoln, Henry Clay, autore della Tariffa degli Abomini in primo luogo!). Ha promesso “violenza”, “spargimento di sangue” e guerra alla riscossione delle tariffe, e ha mantenuto la sua promessa.

Thomas J. DiLorenzo è professore di economia alla Loyola University nel Maryland e autore di The Real Lincoln.

 

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