IL “CHE FARE?” DI CARL SCHMITT. Europa, Nuovi Stati, Nomos del Mondo (2/2), di Pierluigi Fagan

IL “CHE FARE?” DI CARL SCHMITT. Europa, Nuovi Stati, Nomos del Mondo (2/2).

Questa seconda parte, conclude lo studio iniziato qui.

Tornando all’”inquietante attualità” di Schmitt, e volgendoci allo scenario extra-europeo, la composizione del parterre del gioco mondiale ha subito diversi cambiamenti negli ultimi due secoli. Da un dominio eurocentrico che termina ai primi del secolo scorso,  ad un sistema binario americo-europeo che va a comporre il fantomatico “emisfero occidentale” passando per le due guerre euro-mondiali, al mondo “troppo piccolo per due sistemi tra loro contrapposti” dell’ideologia global-idealista[1] in accompagno alla guerra fredda e successivo breve dominio unipolare americano, ad un oggi in cui s’annuncia un mondo nuovo, tendenzialmente multipolare.

In questa idea dell’One World, del Piccolo pianeta, del Villaggio globale ritroviamo anche il famoso strabismo teoria e prassi, riflesso di quello idea-realtà. Se la lettura economicista dell’immagine di mondo (che sia a base metodologica liberal-individualista o comunista-classista) vede l’ineluttabilità dell’One World tessuto dalla globalizzazione (o dai sincronici movimenti di emancipazione del proletario che supera la nazione), dal Segretario di Stato americano H.L.Stimson e la sua presunta affermazione del 1941 alle sorprendenti letture del problema impero-globalizzazione di Antonio Negri , la verifica del campo di gioco in termini realistici, legge invece un tendenziale pluralismo di potenze.   Come altrimenti definire la Cina, la Russia, l’India ma in diversa misura anche il Giappone e la Corea del Sud ed almeno il mondo arabo-islamico a guida Arabia Saudita-EAU ma animato anche dagli interessi di grande spazio neo-ottomano della Turchia, neo-sciita dell’Iran, dell’Egitto e del Pakistan? E cosa sono gli ormai nove possessori di armi nucleari se non altrettanti poli inattaccabili per paura di ritorsione atomica che con l’offrire il loro “ombrello” di copertura, si formano un loro grande spazio in cui i nemici non possono attaccare nella rinnovata logica Monroe? Ed anche rimanendo nel monoteismo economicista come non accorgersi del cambio radicale di composizione, peso e primato,  confrontando la Top Ten dei Paesi per Pil tra 1980 e le previsioni 2030? Sembrerebbe che la logica teorica, che per sue esigenze di discorso tende ad asciugare molto in concetti nitidi una realtà dai bordi molto più sfumati e sovrapposti, vedendo il mondo troppo piccolo per un pluralismo o forse mossa da una teologia dell’Uno, diverga dalla logica pratica per la quale sistemi più densi[2] diventano più complessi e sistemi complessi si ripartiscono in più nodi o attrattori per darsi un ordine[3]. Nella crescita di massa c’è un aumento di complessità non una tendenza alla semplificazione dell’Uno.

Tutti i sempre più numerosi giocatori del mondo multipolare sembra stiano accrescendo la loro potenza, tutti fanno piani e agiscono di conseguenza per darsi un grande spazio nel loro immediato intorno che sia di terra o di mare. Gli americani con la globalizzazione dollarizzata a trazione banco-finanziaria o la NATO o il nuovo “pivot indo-pacifico”, con la BRI e lo sviluppo africano i cinesi o con l’internazionale wahhabita-fraternità musulmana l’islam che ha iniziato un sua guerra per l’egemonia interna, con l’UEE e la nuova egemonia su Caucaso – Siria dei russi o le mire neo-ottomane di Erdogan, con la rinnovata autonomia di Londra che punta al Commonwealth 2.0, tutti stanno correndo a rinforzarela propria costituzione di potenza dandosi prospettive di grande spazio, tranne lo Stato europeo che non c’è. La stessa Germania che è una potenza economica[4] è un nano geopolitico ed un fantasma sul piano militare. Lo stesso scenario di gioco è in transizione, dall’assetto euro centrato a quello atlantico dominato del sistema occidentale a quello mondiale in cui al talassocratico sistema occidentale si va a contrapporre il terraneo sistema afro-eurasiatico tessuto dai cinesi (e russi)[5]. Disputa titanica che verte essenzialmente sull’Europa la cui oscillazione da una parte o dall’altra, può determinare l’esito della transizione e la sua stessa natura, pacifica o, come da molti temuto, bellica.

La “crisi dello Stato” che anima molte riflessioni occidentali, come la dobbiamo intendere? L’impressione è che a questo topos critico manchi un aggettivo di precisazione: “europeo”. Sembra che anche i più avveduti critici dell’eurocentrismo, alfieri del multiculturalismo e del relativismo applicato a gli altri ma non a se stessi, non s’accorgano che la proclamata “crisi dello Stato” fase suprema di un capitalismo finanziario assoluto (ma il capitalismo è a guida finanziaria sin dalle sue origini nel XV secolo se non prima, secondo F. Braudel[6]),  a sua volta de-geo-storicizzato[7], non è un universale, ma una sindrome -almeno nelle sua forme più virulente- dello Stato europeo. Né le pratiche, né il concetto di Stato, sembrano in crisi negli Stati Uniti o in Gran Bretagna o in Russia o in Cina o in India o altrove. La globalizzazione alcuni la subiscono, ma altri la sfruttano, così come la “tecnica” oggetto di molte analisi sulla modernità. I fenomeni si offrono all’intenzionalità degli agenti e se non si riesce ad essere agenti si diventa agiti, ma è improprio diagnosticare la minorità con la sola potenza ordinativa del fenomeno, del dispositivo e della sua ineluttabili facoltà governamentali. I nuovi poli con tendenza ad ampliarsi e segnare il proprio grande spazio, sono centrati  su Stati che hanno  intenzionalità, potenza e condizioni di possibilità per essere tali[8]. Se altri tipi di Stati, denunciano una difficoltà a governare i fenomeni e ne diventano governati, piuttosto che diagnosticarne la “fine dello Stato”, forse si dovrebbe riflettere su come potenziarli. Forse in Europa sta finendo il tempo degli Stati-nazione ma non per la parte Stato, per la parte “nazione”. Forse, in Europa, è giunto il momento di domandarci se ci possiamo ancora permettere i nostri piccoli Stati, il che non porta necessariamente però a darsi come unica risposta l’Unione di tutti, subito ed a qualsiasi condizione.

A riguardo, anche alcuni teorici ed analisti politici della plurale tradizione detta “sinistra”, tra i tanti punti di autointerrogazione che dovrebbero porsi per verificare la realtà dei loro sistemi di pensiero, realtà che sta sfumando in una appiccicosa ed inservibile scolastica (come ammoniva per altro lo stesso Marx nella seconda Tesi su Feuerbach), dovrebbero contemplare il sistema dei fatti demografici, geografici, storici di lunga durata, nonché quelli altrimenti sottovalutati nel concetto di “sovrastruttura” e la stessa politica internazionale anche perché rimanendo abbarbicati al paradigma economicista, diventano sempre più simmetrico-inversi ai liberali, in fondo “simili”. Far scattare lo sprezzante giudizio di “rossobrunismo” ogni volta che si pone a sinistra la questione geopolitica, aiuterà forse a sedare l’ansia da -non comprensione del mondo- ma l’abuso di questo tipo di ansiolitici, può portare al disordine mentale permanente, invecchiando. E sistemi di pensiero nati centocinquanta anni fa, forse, dei sintomi di senilità disfunzionale, è naturale li mostrino.

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Come inquadrare allora la sindrome europea di una ipertrofica Germania in tandem con la Francia, che si muovono in uno scenario di sovranità azzoppata anche per loro, in un contesto di così complesse trasformazioni mondiali? E noi, come rispondiamo al nostro specifico “che fare?”, stretti tra fuga nell’Unione e ritorno alla Nazione? Riepiloghiamo ed andiamo ad una prima -provvisoria- conclusione.

In Europa è terminata da tempo la fase storica iniziata nel XVI secolo con la nascita dei moderni Stati. Alla fine del XIX secolo, gli europei vanno tendenzialmente a saturare gli spazi esterni all’Europa con la colonizzazione, processo di lunga durata iniziato a fine XV secolo e costitutivo dell’equilibrio europeo e della stessa consistenza dello Stato europeo[9]. Contemporaneamente si siedono al tavolo della spartizione dello spazio mondiale due nuovi attori non europei gli Stati Uniti ed il Giappone. Si rinforza la Russia poi Unione Sovietica e nel XIX secolo si formano due nuovi Stati europei (l’Italia e la Germania), appena compensati dall’implosione e sparizione dell’Impero asburgico.  La risultante di questo linee di pressione, fu la prima e la seconda guerra mondiale, intervallate sia dalla grande depressione[10], sia dal trasferimento della posizione di egemone mondiale dalla Gran Bretagna a gli Stati Uniti, sia dalla crescente esuberante assertività della nuova Germania. Dopo la seconda guerra mondiale, il pluriverso europeo è ripartito tra l’area occidentale a supervisione americana e l’area orientale a supervisione sovietica. Gli Stati Uniti, se da una parte aiutarono la ricostruzione euro-occidentale, dall’altra cancellarono sistematicamente ogni potere coloniale extra-europeo. Da verso lafine del XX secolo ad oggi, gli europei si trovano sempre più confinati nel loro angusto e molto affollato sub-continente. Dentro si forma un ordine funzionale alle logiche americane che vogliono un mercato unito ma nessuna vera unificazione statale (e militare), poi si permette alla Germania la sua riunificazione che la porta ad una massa fuori standard (la RFT era al livello di massa di Francia-Italia-UK) che si somma alle note caratteristiche geopolitiche di centralità spaziale in uno spazio europeo già di suo saturo. Allora i francesi ed i tedeschi pongono una appendice al loro trattato di pace già base del progetto unionista europeo: l’euro[11].  I tedeschi accettano a condizione di fissarne loro i parametri tecnici che poi diventano politici, i francesi a patto di esserne sostanzialmente esentati fungendo da legittimante e junior partner. I tedeschi controlleranno i paesi nordici e dell’est, i francesi quelli latino-mediterranei. Nel frattempo è collassato lo spazio euro-orientale sovietico ed a seguire quello balcanico,  con gli americani che danno alla Germania un nuovo grande spazio di espansione economica, tenendosi però il controllo delle leve politiche e militari che usano sempre più contro la Russia. Fuori d’Europa, si sviluppa velocemente l’Asia ed al Giappone si affiancano Cina ed India mentre l’ordine del mondo è fissato dalla prima globalizzazione a guida anglosassone che -ideologicamente- compendia il regolamento del buon comportamento economico nei decaloghi neoliberali che impongono lì dove possono, cioè soprattutto nel loro grande spazio. Gli americani, che certo non hanno alcuna intenzione di crearsi un Leviatano concorrente ma solo una eterogenea macedonia condannata al “divide et impera”,  hanno gioco facile a spingere gli europei ad unirsi economicamente, ma non politicamente e militarmente. E’ un gioco facile questo di non pensare dall’inizio all’unione in termini politici, primo perché i singoli popoli nazionali e quindi i singoli Stati non ci pensano minimamente a fondersi davvero, né questo è al fondo il desiderio delle loro stesse élite politiche ognuna delle quali esiste proprio perché appartiene ad un suo specifico spazio nazionale, né la condizione geopolitica ad eventuale ragione dell’unificazione  è “sentita” dalle rispettive opinioni pubbliche[12] che diventano sempre più ignare della complessità di questo enorme e complicatissimo scenario. Ma a ben vedere, l’ idea stessa di unire gli europei in quello che per avere sostanza politica[13] non può che non essere uno Stato, magari federale[14], ha sostanza fantasmatica. Non perché nessuno in fondo la vuole questa unione, ma perché non sta nel novero delle cose che è concretamente possibile fare.

Lo stesso Schmitt ci ricorda che la precondizione ovvia per pensare ad uno Stato più grande di quello che ci ha dato in sorte la nostra storia passata, sta in quella physis-terra composta di immagini, concezioni del mondo, religioni, tradizioni, “ricordi storici, saghe, miti e leggende, simboli e tabù, abbreviazioni e segnali del sentimento, del pensiero e del linguaggio”, insomma la materia che fa la sostanza assieme alla forma.  Fuori di questo presupposto dell’in comune c’è solo la conquista e subordinazione coattiva per poter formare uno Stato. Ma essendo il progetto UE una fusione e non una incorporazione, incorporazione che se pure qualcuno immagina è del tutto fuori luogo discutere visto cha la storia europea ci ha abbondantemente mostrato l’impossibilità di una conquista di Uno su Tutti,  quanto di quel “essere in comune” ha davvero in comune un presunto “popolo europeo”? Nulla. E’ l’atto giuridico politico che fonda lo Stato a fare il popolo o bisogna prima avere un per quanto mal definito popolo prima di poter pensare possibile uno Stato che lo amalgami e meglio definisca? Dove mai si è condivisa la discussione pubblica e popolare sul cambio di paradigma per cui se i nostri vecchi Stati si son fatti tra “noi” e contro quelli dei vicini, oggi i ragionamenti sul nuovo scenario del mondo del secondo millennio, ci imporrebbero di trovare un nuovo “noi” contro i nuovi attori multipolari?  E gli “europei” definizione che parafrasando Metternich non parte da una entità storico-politica ma da una mera espressione geografica, possono pensarsi come “noi”, possono davvero diventare e sentirsi un “popolo” o debbono rifiutare questa categoria e pensarsi come una società per azioni? Se non sono un popolo e non possono diventarlo in tempi storici ragionevoli, se nessuno realmente pensa e vuole immaginare possibile uno Stato europeo, se non potendo mai divenire uno Stato non potrà quindi neanche mai esser democratico, se non potendo  mai essere un vero Stato mai potrà esser un soggetto geopolitico nel gioco multipolare, su cosa stiamo buttando via tempo continuando ad affidarci con sempre minor entusiasmo al sistema UE – euro?  Queste cose, credo appaiano auto-evidenti al netto di qualsivoglia inclinazione ideologica ad uno storico, il problema è che il processo politico di presunta unificazione è discusso e teorizzato principalmente da economisti. Purtroppo però lo sguardo economico tende ad una metafisica platonica che, con logica geometrico-numerica, non legge la logica concretamente incarnata negli individui, nelle società, nelle istituzioni e nelle culture e nelle storie e nelle geografie che fanno i “popoli”, eterogeneità che fanno del complesso pluriverso europeo un frattale di multipolarità in sé. Da questo punto di vista, con Schmitt si vedono cose che  con Smith non si possono  vedere, pensando teoricamente possibile quella che è una tragica astrazione.

Si può lasciare questa idea dell’uni-verso europeo come idea regolativa della ragione, come punto di fuga ideale kantiano a cui tendere. Ma detto per inciso non secondario,  Kant parlò più di confederazione che di federazione ad al solo scopo giuridico-militare in modo da evitare l’eterno riproporsi della coazione hobbessiana del tutti contro tutti, Kant non hamai parlato di uno Stato federale europeo ed è probabile che la sola idea gli facesse ribrezzo[15]. Se questo è un punto di fuga in prospettiva, telos da traguardare nei (molti) decenni a venire,  nel frattempo, occorrerebbe pensare a qualcosa di meno sbilenco ed impossibile e che -tuttavia-  aiuti gli Stati europei a sopravvivere nel difficile e caotico scenario del mondo nuovo. Forse non c’è solo la dicotomia Stato ed Impero ma Stato piccolo ed impotente, Stato grande e potente ed Impero. Forse dobbiamo aprirci un pertugio nelle condizioni di pensabilità e sdoganare l’apparentemente banale e volgare considerazione di buon senso che -in questo discorso- le dimensioni contano. L’eterogeneità europea andrebbe forse pensata per gradi di prossimità, si dovrebbero prima fare federazioni basate su un comune  secondo le grandi ripartizioni dello spazio geo-storico europeo, magari tra loro confederate in una semplice alleanza militare che tra l’altro ci emancipi tutti dalla NATO e solo dopo federazioni di federazioni, ovvero l’ipotetico e molto remoto Stato europeo. Questa idea dell’effettiva unione politica sub-continentale -in prospettiva- sarà anche una necessità , ma pensare sia perseguibile nel delirio dell’impossibile analogia detta “Stati Uniti d’Europa” che ha più ruolo pubblicitario che realmente programmatico, dove la forma (unità) ignora la materia (pluralità storica dei popoli) e quindi non giungerà mai  a sostanza, non è guadagnare tempo, ma perderlo.

Quanto tempo possiamo ancora perdere invece che iniziare un nuovo viabile percorso di adattamento al mondo nuovo e complesso?

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In questo periodo sto studiando le faccende che riguardano questo complesso argomento e questo Autore che oltre a dare suggestioni utili alla riflessione, dà anche tanti problemi in quanto non si può relativizzare la sua piena e convinta adesione al nazismo da cui il problema del provare a separarne il pensiero puro e critico-teorico da quello pratico-pragmatico contingente. Sentire un tedesco, per giunta approssimativamente nazista, che parla di “impero” e di “grande spazio” fa scattare le saracinesche dell’ostracismo prima ancora di poter cogliere qualche idea magari poi da trasformare per altra utilità, non  facile visto che la nostra ragione è anche tanto emotiva, ma lo sforzo forse merita un impegno.  Il nostro “leninista” titolo sul Che fare? di Schmitt, allude al “Che fare di Carl Schmitt?[16]” che è il bel titolo di un altrettanto interessante libricino che si pone la stessa questione: cosa fare di certe riflessioni che sembrano fatte oggi, che sembrano assai lucide e predittive del dominio liberal-anglosassone, dell’universalismo mercatistico imperialista di cui oggi vediamo la piena espansione globalizzante -tra l’altro- in crisi di riformulazione, della pari confusione universalista dell’internazionalismo di sinistra che legge solo classi e non i popoli, dell’ingombrante volontà di potenza teutonica, della crescita di binomi impero-grande spazio tutti non europei, cosa fare della sua acutezza critica e della sua inservibilità normativa, malattia endemica dei pensatori tedeschi in genere? Jean-Francois Kervégan, l’Autore del libro citato, dà la sua diagnosi, così Stefano Pietropaoli  nella monografia dedicatagli[17], così nel suo lungo lavoro di scavo ed approfondimento Carlo Galli[18], così Giovanni Gurisatti curatore dell’edizione italiana della raccolta di scritti schmittiani di politica e diritto internazionali[19] e poiché amalgamati anche con considerazioni su “terra e sul mare”[20] validi anche in termini di geopolitica teorica, così il curatore tedesco originario di Stato, Grande Spazio e Nomos, Gunter Mashke nell’Epilogo post-fazione dello stesso volume. Così le riflessioni stimolate da Schmitt che hanno svolto a vario modo, qui da noi, Cacciari, Duso, Marramao, Tronti, Negri ed Agamben ma anche Julien Freund, Alexander Kojève o il “maoista” tedesco J. Schickel nel Dialogo sul partigiano del 1970. Ma di tutto questo, della “questione Schmitt”, parleremo altrove.

Convegno 16-17 Gennaio 2018, Villa Mirafiori, Facoltà di filosofia La Sapienza Roma – Micromega dal titolo “Lumi sul mediterraneo”.

La questione delle questioni poste da Schmitt ed il suo stesso statuto di pensatore, ha per noi rilievo di attualità sia in termini di geopolitica sulla teoria multipolare[21], sia in termini di concreta geopolitica europea (incluse le aggrovigliate matasse dei sistemi Unione europea ed euro), sia in termini di geocultura e geofilosofia e proprio sul fatto della questione teoria-prassi. Lo facciamo con Hegel come con Marx, con Nietzsche come con Heidegger, con i francofortesi e fino a Sloterdjik ed in parte con Schmitt, si finisce sempre col pascolare nelle radure del pensiero critico tedesco ma poi il mondo, il nostro mondo occidentale, continua imperterrito ad esser ordinato dal nomos anglosassone. Per parafrasare un francese (Deleuze)[22] “i tedeschi progettano mondi, gli anglosassoni li abitano” o li governano, si potrebbe meglio dire[23]. E non è tutto. Questa riflessione sullo Stato e sulla potenza, sulla condizione multipolare ed  il grande spazio che per noi italiani è  il Mediterraneo e la costa dirimpetta in cui tutti i grandi giocatori del gioco di tutti i giochi vengono a disordinare e far danni di cui poi noi paghiamo immancabilmente le conseguenze, cosa ci porta? Dove ci dovremmo dirigere per divincolarci dalla nostra passività subalterna che oscilla tra l’astratto unionismo europeo e l’improbabile ritorno ai confini nazionali di un Paese che sta scivolando nella gerarchia dei soggetti che contano oltre il limite di ciò che ha significato? Come possiamo trasformare questa progressiva insignificanza che ci condanna ad ogni tipo di eteronomia, dalla globalizzazione passiva  all’ineluttabilità neoliberista, dalla NATO ed ai diktat euristi del binomio franco-tedesco alle pressioni russe e cinesi non meno che americane, britanniche ed islamiche, dove volgere un diverso progetto, finalizzarlo a cosa, organizzarlo come? Chi gli amici, chi i nemici? Sovrani come e di che spazio, con quale regolamento ed intenzione? Come districarsi nella selva oscura fatta di imperi, comune, Stati, nazione, popoli, mercato, terra-mare-aria, teorie e fatti, mondo e sua immagine, politico ed economico e ritrovare la diritta via, oggi smarrita? E come rispondere a queste inevitabili domande poste dal primato di realtà, cercando di portare avanti anche le nostre non meno legittime ispirazioni ideali di giustizia sociale ed emancipazione, democrazia reale e buona vita sostanziale?

Riprenderemo  queste urgenti riflessioni in prossimi articoli.

[2/2, la prima parte qui]

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[1] In “Mutamenti di struttura del diritto internazionale” di Schmitt (1943), l’Autore fa un preciso riferimento ad un presunto discorso fatto da Stimson (Segretario di Stato ed alla Guerra americano) a West Point nel 1941 da cui sarebbe stato tratto il virgolettato, riferimento che ripete in altre opere successive ma al curatore dell’edizione tedesca Maschke, questo discorso di Stimson non risulta verificabile. Altresì, lo stesso Maschke, accetta che, esistente il preciso riferimento o meno, questo è stato effettivamente il pensiero “… dell’ideologia dei globalist che circondavano F.D.Roosevelt” (Nota 35 p.255 di Stato, Grande spazio, …. op. cit.).

[2] Nella vasta letteratura che indaga questi fenomeni di mondializzazione ed egemonia, si sottovaluta sistematicamente il dato demografico. Se non si considera la diversa massa e distribuzione di densità della popolazione mondiale che passa dal 1,5 mild dei primi del secolo, ai 7,5 mld più recenti (in poco più di un secolo) è facile cadere in narrazioni che hanno più del letterario che del concreto. Purtroppo, come la geopolitica ha lo stigma del suo utilizzo teorico-pratico da parte dei nazisti, la demografica lo ha con Malthus, ma così come non si può negare l’esistenza di una logica geo-storica a base della politica internazionale, sarebbe il caso anche di far pace con l’evidenza che spesso (non sempre e non da sola), motore attivo della Storia, è proprio la crescita o decrescita delle popolazioni.

[3] Oggi c’è anche una nuova linea dell’universale dell’Uno ma versione  pluralista, non quindi nel distopico addensamento nell’impossibile Un Mondo – Uno Stato (una idea, Schmitt direbbe, di teologia politica, monoteista nella fattispecie) ma nella riduzione degli Stati a regioni o città-Stato, connesse in un  network di scambi di materie, energie, individui, culture ed informazione. Un Uno non piramidale e monolitico ma a “rete” secondo la metafora del tempo (ogni tempo ha la sua). P. Khanna ne è il principale, ma non unico, cantore.

[4] Ma il mercantilismo tedesco (e cinese) quanto verrà ulteriormente permesso in un mondo che s’avvia ad una condizione stabilmente multipolare?

[5] Si segnala questa analisi di G. Doctorow, il quale vede un riproporsi di bipolarismo più che un avvio di multipolarismo https://consortiumnews.com/2017/10/23/russia-china-tandem-changes-the-world/

[6] F. Braudel, La dinamica del capitalismo, il Mulino, 1981

[7] Tanto la tradizione liberale che quella comunista, parlano spesso di mercato o capitale come se questo non fosse ripartito in aree territoriali governate da intenzionalità statali. Eppure i geoeconomisti (ad esempio il R. Gilpin di Economia politica globale, EGEA-Bocconi 2008) sanno bene che il “capitalismo” tedesco non è quello americano che non è quello giapponese che non è quello britannico ed oggi quello cinese. Forse molti non considerano che la Washington del “Washington consensus” non è solo l’addensamento ideologico delle élite transnazionali neo-liberali ma il nome della capitale degli Stati Uniti d’America.

[8] Chi in Europa potrebbe mandare in giro il proprio presidente a richiedere più che con le buone con le cattive il riequilibrio delle bilance commerciali, nel frattempo piazzando missili ed ottenendo nuove sottoscrizioni del debito pubblico “monstre”? Chi potrebbe fare la sua “exit” dall’UE senza rimanere polverizzato dal bombardamento finanziario dei “mercati” da cui Londra è immune? Chi potrebbe subire l’attacco al proprio grande spazio ucraino e siriano e reagire come ha reagito Putin? Chi potrebbe gestire e non esser gestito dalla globalizzazione investendo miliardi in strade, porti, linee e logistica per innervare la propria espansione mondiale come la Cina? I teorici della fine dello Stato vadano a spiegare ad americani, britannici, russi e cinesi che loro sono fatti fuori teoria e non teoria che sotto non ha alcun fatto della dimensione raccontata in  analisi che hanno costruito un falso luogo comune, come sempre “universale”. Intendiamoci, problemi ce ne sono parecchi nel conflitto strutturale tra Stato e mercato e sono certo cresciuti ad ogni ondata di mondializzazione, ma sono drammatici solo dove non c’è uno Stato in grado di esser tale.

[9] Nel caso francese ad esempio, dove ancora oggi questo Stato-economia vanta una privilegiata posizione di egemonia sull’Africa occidentale, come dovremmo valutare le sue performance capitalistiche? La Francia è ancora la 6a – 7economia mondo perché ha sostanzialmente ancora benefici coloniali? E il Regno Unito? E manterranno questo privilegio nei prossimi dieci anni? E cosa succederà se la risposta, com’è probabile, sarà “no”? La Francafrique concetto noto ai geopolitici, è noto anche a gli economisti?

[10] Questo crocevia è tutto da riesplorare. Messi in sequenza prima guerra – depressione e seconda guerra abbiamo trenta anni di stato d’eccezione del normale funzionamento delle società e quindi del capitalismo. Ma poi abbiamo altri trenta anni di eccezione (’45 – ’75) perché la ricostruzione post bellica (europea – asiatica – sovietica) è stata una condizione eccezionale. Poi abbiamo trenta anni (’75 – 2007/8) di espansione globalista soprattutto finanziaria a guida dollaro fiat money. Poi abbiamo il crollo dell’esagerazione finanziaria con crisi dei debiti privati e sovrani ipertrofici. Ma allora sono 100 anni che il “capitalismo” funziona in condizioni di contesto eccezionali. Come allora dovremmo considerare questo modo economico se volessimo immaginare un futuro normale ovvero un diverso ruolo sociale e politico del fatto economico?

[11] La moneta unica è solo una ovvia conseguenza del mercato unico altrimenti ciò che avrebbe dovuto unire (lo scambio commerciale) avrebbe riproposto le dinamiche concorrenziali tra Stati europei, generando nuova energia di frizione ed attrito. Qui si deve riconoscere l’apporto degli economisti critici che hanno ben analizzato e spiegato l’effetto che l’euro produce in termini di sottrazione di inter-competitività tra le economia nazionali del sistema euro.

[12] Sin dagli anni ’60, a partire dagli Stati Uniti, inizia un lento processo di degradazione culturale delle opinioni pubbliche. Chi ha una certa età e prova a mettere anche solo “a sensazione”, l’uno accanto all’altro il frame anni ’60-’70, col frame del ventennio del nuovo millennio, non potrà che rendersi immediatamente conto di quanto la “cultura” media sia regredita, in sostanza ed in valore stesso del concetto di “cultura”. Il fatto è viepiù preoccupante poiché incrocia con dinamica inversa la crescente complessificazione del mondo. Dovremmo sviluppare adattamento ad un mondo sempre più complesso con una dotazione culturale sempre più scarsa e mal distribuita? Le élite che si lamentano della vampata populista ed alla post verità a cui ricorrono come i tossicodipendenti che “domani smetto”, dovrebbero piangere se stesse poiché son loro ad aver boicottato la formazione culturale popolare che oggi, non trova altro sbocco di reazione che quella “istintiva ed intestinale”.

[13] Ovvero piena autonomia e sovranità in tutti gli aspetti, oltreché essere l’unico presupposto per l’esercizio della sovranità democratica.

[14] Dove “federale” non è una complicata e confusa struttura di relazioni plurilivello a diversa intensità ma una ben precisa forma di organizzazione politico-amministrativa che si applica in tanti Paesi che complessivamente sommano più o meno la metà della popolazione mondiale, tra cui India, USA, Brasile, Russia, Germania, Pakistan, Messico, Canada ed Argentina.

[15] Il Settimo articolo del progetto filosofico di I. Kant Per la pace perpetua (1795, in Kant, Scritti di storia, politica e diritto a cura di F. Gonnelli, Laterza, 2009), cita espressamente lo statuto giuridico di una confederazione (altrove Kant parla di una lega, sul modello dell’anfizionia dell’Antica Grecia) pacifica (foedus pacificum), che renda permanente quello che un normale trattato di pace rende episodico e precario. Tale permanenza, per quanto reversibile, sarebbe altresì assicurata dal Terzo articolo preliminare dove si indica la progressiva sparizione di eserciti permanenti. Perché per evitare la coazione alla guerra europea non sia scelta originariamente la strada di darsi un esercito comune in Europa che sottraesse materialmente la stessa possibilità del conflitto (difficile farsi una guerra senza avere un proprio esercito) ma si sia scelto il mercato comune (che tra l’altro contravviene il Quarto articolo che vieterebbe di contrarre debiti pubblici reciproci tra i contraenti confederati o il Quinto che vieta ad uno Stato di intromettersi nel governo e costituzione di un altro Stato) e ciononostante si citi Kant come padre spirituale dell’Unione europea è un mistero. Mistero viepiù fitto se si considera che Kant dava espressamente come opposto modello a ciò che voleva intendere con l’espressione Volkerbund, il Volkerstaat degli Stati Uniti d’America, la federazione dei popoli non portava affatto ad uno stato federale. Non quindi un super-Stato federale unico quale vagheggiano i sostenitori degli Stati Uniti d’Europa (analogia falsa ed improponibile), ma una confederazione a mo’ di alleanza di Stati sovrani. E che i singoli Stati dovessero rimanere pienamente sovrani, lo esplicita altrove e più volte negando a priori l’idea di una Universalmonarchie, ribadendo così la necessaria autonomia (darsi la legge da sé) su cui è basato l’intero impianto della sua filosofia della ragion pratica. (Sulla controversa questione si veda anche M. Mori, Studi kantiani, il Mulino, 2017 capitoli IV e V).

[16] J-F Kervégan, Che fare di C. Schnitt? Laterza, 2016

[17] S. Pietropaoli, Schmitt, Carocci editore, 2012

[18] C. Galli, Lo sguardo di Giano, il Mulino, 2008 ma anche Genealogia della politica, 2010

[19] C. Schmitt, Stato, Grande Spazio e Nomos, op. cit.

[20] C. Schmitt, Terra e mare, Adelphi 2002

[21] Per “teoria multipolare” s’intende una riflessione che non c’è, se non resuscitando qualche paragone con il Concerto europeo o l’equilibrio post-Westfalia (passione dellucido Kissinger che fra un po’ ci lascerà, lui “nemico” intelligente, con tutti “nemici” stupidi), quindi in un ambito parziale più ristretto ovvero quello europeo. Il soggetto politico mondo inteso non più solo nel limitato senso geografico, c’è da poco più di un secolo. Dopo la fase unipolare britannica e le due guerre, c’è stata la fase bipolare (debolmente tripolare) e poi quella breve unipolare americana, quindi non c’è riflessione multipolare contemporanea perché il fatto multipolare è assai recente e per altro in iniziale divenire. In più, c’è un monopolio americano di riflessione in politica internazionale e certo che a Washington non fanno il tifo per la multipolarità. Ne abbiamo parlato nel nostro “Verso un mondo multipolare”, Fazi editore, 2017.

[22] G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia? Einaudi, 2002, all’interno di nota 15, p.99.

[23] Questione già nota al Marx del “Per la critica alla filosofia del diritto di Hegel”, in cui nota che “I tedeschi nella politica hanno pensato ciò che gli altri popoli hanno fatto” che anticipa (visto che è di due anni prima) la celebre XIa Tesi su Feuerbach sulla questione  teoria e prassi, relativa forse proprio alla mania tedesca di rimanere troppo astratti ed alla fine, inconcludenti o pragmaticamente inservibili.

I BUOI OLTRE LA STALLA, di Giuseppe Germinario

Nell’attuale compagine governativa pare finalmente emergere il paladino di un protezionismo mirato, il fautore della “messa in sicurezza del paese”: Carlo Calenda. Il ministro aveva evidenziato al pubblico le proprie doti di chiarezza e determinazione (https://www.youtube.com/watch?v=MW0ERHOqqr4 ) già nel suo primo intervento da ministro del Governo Renzi all’assemblea di Confindustria. L’intervista al Corriere della Sera del 1° gennaio (  http://www.corriere.it/economia/17_gennaio_01/calenda-una-rete-protezione-difendere-interessi-nazionali-2ecfb74e-d05c-11e6-a287-5b1c5604d8ca.shtml  ) sembra infine tracciare chiaramente il nuovo orientamento  delle forze dette progressiste, della possibile grande coalizione che si va profilando con le prossime elezioni o quantomeno del perpetuarsi dell’attuale gioco politico nelle mutate condizioni del contesto interno e internazionale. Più che i punti salienti dell’intervista, facilmente desumibili dal testo, mi paiono significative piuttosto quelle espressioni che delimitano l’orizzonte culturale e politico, quindi la sostanziale inadeguatezza della attuale classe dirigente, della quale Calenda mi pare uno dei migliori esponenti, ad affrontare le sfide in atto. L’Italia anello debole dell’Europa “rischia di esserlo se si interrompe il percorso che ha iniziato a portarci fuori dalla crisi, e mettere in sicurezza il Paese, dopo la sconfitta sulle riforme istituzionali, richiede un cambiamento di strategia“; “entriamo in una stagione dove il nazionalismo economico si rafforzerà in tutto il mondo. Non dobbiamo abbracciarlo, ma neanche essere impreparati ad affrontarlo”; “questo non vuol dire limitare gli spazi di mercato, ma essere in grado di reagire quando viene distorto o manipolato, anche con regole scritte ad hoc, per indebolire il nostro tessuto economico”; “dovremmo da subito lavorare al progetto di una nuova Europa con i Paesi fondatori, ma oggi la priorità è vincere i populismi”; i settori prioritari sono “L’industria, dando supporto solo a chi investe in innovazione e internazionalizzazione con strumenti automatici che eliminino l’intermediazione politica e burocratica, come abbiamo fatto con il piano Industria 4.0. Analogo lavoro va fatto nei settori del turismo, della cultura, dove moltissimo è già stato realizzato, e delle scienze della vita”; “Nessuna forza politica, da sola, potrà portare il fardello delle scelte che si renderanno necessarie. La stessa legge elettorale va disegnata tenendo presente questo scenario, che “chiamerà” probabilmente una grande coalizione.”; “Questo esecutivo assolverà al suo compito se sarà il ponte tra la stagione importantissima di rottura del governo Renzi e quella di messa in sicurezza del Paese che dovrà portare avanti il prossimo esecutivo, mi auguro sempre con Renzi alla guida”.

Alla luce di queste dichiarazioni l’intenzione di “fare sistema” e l’obbiettivo di “ricostruire una rete fatta di grandi aziende, pubbliche e private, e di istituzioni finanziarie capaci di muoversi all’occorrenza in modo coordinato, tra di loro e insieme al governo” appaiono rispettivamente meno realistica e poco coerente.

Appaiono più che altro un ripiego legato al soprassalto di nazionalismo economico e all’ondata di populismo; esauritosi il primo e sconfitto il secondo non resterebbe che riprendere coerentemente le politiche comunitarie di creazione di un mercato unico nel rispetto delle regole stesse di mercato.

Da dirigente e manager, più spesso da politico e da ministro, abbiamo ascoltato Calenda difendere il liberismo dal suo peggior nemico: il dogmatismo liberista. Critica giustamente, anche se tardivamente, l’assunzione pedissequa di un modello economico astratto, associato negli ultimi venti anni alla retorica magnifica e progressiva della globalizzazione, ma ritiene l’intervento politico di regolamentazione e l’intervento pubblico diretto nelle scelte gestionali e di investimento un evento straordinario, un espediente o uno strumento temporaneo teso a ripristinare il mercato. Di fatto quel dogma che cerca di cacciare dalla porta rientra surrettiziamente dalla finestra. Un dogma che impedisce di vedere il mercato come una combinazione infinita e variabile di dirigismo e di libertà di iniziativa, di protezioni e di spontaneità, di regolamentazione della circolazione e delle caratteristiche dei prodotti e delle merci, di tutela della proprietà e del patrimonio la cui particolare peculiarità dipende da determinati rapporti di forza politici/economici che delimitano la formazione di una o più aree di influenza. Paradossalmente la “libertà” e la “spontaneità” di scelta e circolazione individuale si liberano con la vittoria egemonica di centri strategici, di un paese e di una formazione sociale in grado di stabilire un perimetro di influenza, le regole di funzionamento e le necessarie trasgressioni, il grado e gli ambiti di liberismo e dirigismo.

In base a questa dinamica fondamentale i paladini del dogma liberista e della globalizzazione, sia gli oltranzisti che i pragmatici, solitamente diventano i sostenitori della politica di potenza nei paesi egemoni e della sudditanza nella periferia della sfera di influenza.

Può sembrare una diatriba puramente accademica; spesso assume le vesti di una discussione riguardante la mera correttezza o i meri errori, l’irrazionalità di scelte ed indirizzi. In realtà è un paradigma la cui ostinata adozione comporta delle profonde implicazioni, tutte negative, in termini di adeguata analisi politica e di perseguimento di strategie e di obbiettivi altrettanto adeguati all’attuale lunga congiuntura che stiamo attraversando; una adeguatezza che si deve misurare rispetto al livello di autorevolezza, di forza, di benessere e coesione che una classe dirigente degna di questo nome intende realisticamente raggiungere per sé e per il proprio paese.

Il nazionalismo economico appare quindi un incidente e un accidente della storia da rimuovere al più presto per riprendere il cammino verso la costruzione di una comunità globale quando in realtà pervade le vicende politiche e il conflitto economico sin dalla prima formazione degli stati nazionali sia nella forma a prevalenza liberista propugnata dalle formazioni dominanti, sia a quella a prevalenza protezionistica delle formazioni in ascesa o in posizione difensiva nell’agone internazionale. Nella fattispecie dell’Unione Europea il nazionalismo economico appare solo oggi agli occhi dei liberisti dogmatici, ma solo perché è finalmente caduta la maschera della retorica europeista basata sulla distruzione degli stati nazionali che celava sotto mentite spoglie il dominio politico dello stato nazionale americano frutto di una schiacciante vittoria militare e il conflitto e la regolazione continua di esso tra gli stati nazionali componenti l’Unione. Una retorica nefasta che ha illuso e neutralizzato le ambizioni delle formazioni più fragili; che ha bloccato sul nascere, con la retorica della costruzione del mercato comune dei consumatori propedeutica alla unione politica, l’opzione di De Gaulle, negli anni ’60, di una concomitante costruzione europea fondata sugli stati nazionali, sulla creazione concordata di grandi aziende, frutto di accordi, compartecipazioni, integrazioni paragonabili a quelle americane, sulla fondazione di una politica estera autonoma. Una retorica che interpreta come contingente ciò che in realtà sarà strutturale e pervicace ancora per lungo tempo.

Se il nazionalismo economico va contenuto e neutralizzato, l’avversario da battere in questo frangente è il populismo o sedicente tale. Anche in questo caso si assiste ad una sorta di dissociazione dell’azione politica strategica dall’attuale contingenza quasi che la lotta al populismo debba comportare una sospensione del programma di integrazione europea.

Il “reddito d’inclusione” come gli altri singoli e parziali provvedimenti redistributivi assumono la caratteristica di un rozzo strattagemma dal sapore assistenziale teso a fronteggiare la deriva politica.

Gli investimenti, per altro radi, sono proposti come semplice volano per rilanciare la domanda. L’aspetto strategico di questi ultimi e la loro possibilità di realizzazione ottimale sono sicuramente inficiati dal tramonto del progetto di riorganizzazione istituzionale ed amministrativo legato all’esito referendario. È la stessa loro natura, però, legata quasi esclusivamente all’ammodernamento delle infrastrutture che potrà certamente migliorare l’efficienza del sistema ma che non determinerà di per sé una direzione di sviluppo che interrompa l’attuale processo di declassamento.

Si arriva quindi al cuore degli argomenti e degli indirizzi posti da Calenda.

Ricostruire una rete” solo per contrastare “distorsioni e manipolazioni del mercato” significa di per sé precludersi una gamma di interventi “assertivi” più volte utilizzati in passato nei momenti di costruzione e di crisi dell’economia del paese.

TRE QUESITI AL NOSTRO MINISTRO

Il proclama, però, glissa clamorosamente su tre importanti questioni alla mancata o erronea risposta delle quali corrisponde esattamente la velleità del progetto.

  1. Quali strumenti si intende utilizzare per trattenere in Italia il risparmio e le riserve che con l’attuale struttura finanziaria continuano a migrare massicciamente all’estero e a rientrare parzialmente, in mano però a gestori estranei al controllo nazionale? Il collocamento azionario di Poste Italiane, la sua sempre più marcata scissione dalla Cassa Depositi e Prestiti (CDP), l’ingresso di fondi esteri nella stessa CDP, il fallimento della costituzione di una banca per il Mezzogiorno, il fantasma di una banca di credito alle piccole e medie imprese, l’utilizzo della CDP per indebolire la forza ed il controllo delle grandi aziende strategiche residue piuttosto che il loro rafforzamento, l’attività di raccolta delle banche ormai largamente legata al collocamento di titoli di terzi e al ruolo di collettori sono scelte in netto contrasto con il proclama.
  2. Come si intende esercitare il necessario controllo e condizionamento sulle scelte di quelle aziende strategiche e leader nei vari settori che dovrebbero partecipare alla rete? L’indifferenza se non la compiaciuta e reiterata connivenza che Calenda, così come Renzi, Monti e la quasi totalità della classe dirigente degli ultimi trenta anni hanno ostentato nella inesorabile cessione all’estero della proprietà e controllo non solo delle aziende strategiche del settore finanziario, energetico, delle infrastrutture e dell’alta tecnologia ma ultimamente anche delle aziende leader di numerosi distretti industriali e della rete commerciale e logistica mi sembra faccia a pugni con il sussulto di sovranismo verbale ed estemporaneo del nostro ministro. In alcuni casi queste cessioni hanno determinato uno sviluppo dell’attività produttiva, nella grande maggioranza di casi un rapido ridimensionamento ed impoverimento; comunque un incremento di spese di risorse pregiate, comprese le attività di ricerca, utilizzate come incentivi e destinate ad essere valorizzate altrove e una subordinazione a strategie decise altrove. Le vicende della FIAT, della TELECOM, dell’industria degli elettrodomestici tra le tante parlano da sole.
  3. Come si intende costruire quella necessaria rete di agenzie funzionali ai grandi progetti di intervento infrastrutturale e di investimento diretto un tempo presenti, pur tra innumerevoli carenze, e smantellata sciaguratamente a partire dalla metà degli anni ’80 in concomitanza con il processo di regionalizzazione delle competenze?

Nell’intervista non troviamo né le giuste domande e questo va a scapito dei professionisti dell’informazione, né tantomeno le risposte adeguate e convincenti.

IL CAVALLO DI BATTAGLIA. L’INDUSTRIA 4.0

Il limite dell’orizzonte interpretativo di Calenda si svela proprio nel progetto fondativo della sua azione: il programma di sviluppo dell’industria 4.0.

L’enfasi e le aspettative sono del tutto giustificate.

L’implementazione dell’industria 4.0 è iniziata ormai da parecchi anni prima negli USA poi in alcuni paesi dell’Europa Centrale.

È un processo che si realizzerà ancora attraverso lunghi anni; che segnerà in maniera diversa i vari settori produttivi; che cambierà i modelli di organizzazione aziendale; che porterà ad una maggiore integrazione delle attività sia nella verticale che nell’orizzontale delle relazioni gestionali; che sconvolgerà una delle basi sulle quali si forma la stratificazione sociale, in particolare la formazione degli strati intermedi professionali e di quelli con competenze elementari.

È un modello operativo concepito per le grandi imprese e le grandi unità amministrative e gestionali.

Manca sino ad ora una definizione rigorosa di industria 4.0; riguarda comunque un processo di digitalizzazione ed informatizzazione che preveda la costruzione di reti informatiche e telematiche, l’acquisizione ed elaborazione dati e la conseguente trasmissione digitale di comandi operativi e adattivi nelle varie fasi comprese quelle produttive (internet delle cose) secondo processi modulari predeterminati ed introiettati nei software applicativi.

Il controllo e l’elaborazione nei primi due ambiti sono appannaggio pressoché esclusivo dell’impresa americana e senza una integrazione e concentrazione dell’industria e della ricerca europea, tutt’altro che promossa dalle istituzioni comunitarie e dai suoi governi nazionali costitutivi, difficilmente potrà essere scalfita seriamente. Rimangono gli ultimi due ambiti; in questi il nostro paese soffre di ulteriori handicap legati alla dimensione ridotta delle aziende, alla perdita di controllo dei distretti industriali, alla merceologia dei prodotti legati soprattutto alla componentistica specie meccanica piuttosto che al prodotto finito, a settori tradizionali di produzione piuttosto che innovativi.

Un contesto quindi che rende se non impossibile più problematica e costosa l’implementazione dei processi, che tende a concentrarla nei settori dedicati all’esportazione.

Una condizione che richiederebbe un intervento politico ancora più assertivo (un termine ormai ricorrente nel linguaggio di Calenda) rispetto ad altri paesi nella ricerca, nella creazione di piattaforme industriali adeguate, nel coordinamento del processo di integrazione, nella trasmissione delle competenze informali  nelle piccole aziende, nel sostegno delle necessarie figure professionali che in altri contesti sono le stesse grandi aziende a creare e tutelare.

Su quest’ultimo aspetto, ad esempio, il Governo Renzi pur avendo ancora una volta centrato il problema, lo ha ridotto ad una mera tutela assistenziale e normativa di alcune categorie professionali autonome esterne agli attuali ordini.

Affermare al contrario il carattere indifferenziato del processo di informatizzazione, l’irrilevanza quindi di settori strategici; supportare genericamente l’industria attraverso “sistemi automatici” e neutri di incentivazione nei processi di innovazione ed internazionalizzazione; celare dietro l’importanza dei settori complementari nel garantire la coesione della formazione sociale la necessità dello sviluppo dei settori strategici comporta di conseguenza assecondare la tendenza “spontanea” al declassamento dell’economia italiana, alla concentrazione degli investimenti, nel migliore dei casi, nel mero ammodernamento tecnologico degli impianti produttivi digitalizzati secondo standard stabiliti dalle aziende leader e da quelle in grado di progettare e collocare i prodotti finiti, alla drammatica concentrazione degli investimenti in un numero limitato di aziende. Tale scelta, altrettanto unilaterale di quella delle elargizioni ad personam può contribuire nel migliore dei casi all’ammodernamento dell’apparato produttivo residuo, almeno di quelle aziende che dispongono dei capitali necessari ad anticipare l’investimento. I quattro competence center al contrario sono pressoché irrilevanti nel qualificare almeno alcuni dei settori di punta, come del resto ben evidenziato dall’economista Mariana Mazzucato.

IL RITORNO ALL’OVILE

Il Ministro sembra quindi assecondare la tendenza storica dell’industria italiana a coprire i settori e le tecnologie mature e complementari e a scoraggiare sul nascere quei sussulti di leadership che in alcuni frangenti sono emersi ma che sono stati prontamente soffocati con la complicità dei settori più retrivi dell’imprenditoria. Il declino dell’Olivetti, dell’industria nucleare, della chimica fine sono lì a testimoniare la ricorrenza di questi sussulti ma anche la mancanza di autorità e maturità politica necessarie a stabilizzarli. Calenda sembra voler in realtà stroncare sul nascere la loro possibilità di emersione. La sua ritrosia ad abbandonare gli stereotipi del dogmatismo liberista lo porta ad esaltare le ambizioni di un progetto velleitario che comporterà la dilapidazione e la dispersione delle poche risorse nei vari meandri dei settori economici e nelle mani di centri strategici concorrenti ed avversari; diventa patetica se confrontata con la capacità organizzativa americana, avviata già dagli anni ’90 ad integrare strettamente il ruolo pubblico e privato nel settore dell’innovazione attraverso numerose agenzie, con la guasconeria francese che da oltre sei anni ha creato addirittura il Ministero della Guerra Economica, con il carattere tetragono dell’organizzazione industriale tedesca già in corsa da oltre dieci anni su questi processi.

Ho accennato all’inizio di inadeguatezza di questa classe dirigente, ma il termine è sin troppo giustificativo ed assolutorio. Si tratta, piuttosto, di una incapacità che trova alimento, forza e giustificazione in quei centri e settori che non trovano di meglio che trarre potere e profitto da quei settori ed interstizi sempre più ristretti concessi dai centri e dalle formazioni dominanti. Il predominio americano ed il bipolarismo imperante sino agli anni ’80 ha consentito una certa benevolenza del predominante ed una rarefazione dei competitori. Il multipolarismo incipiente può aprire teoricamente nuove opportunità e nuove libertà; rischia al contrario di attirare un maggior numero di predatori sulle prede magari ancora pasciute ma disarmate rispetto al livello di conflitto raggiunto.

Calenda anche su questo sembra avere le idee chiare. Nell’intervento citato all’inizio prende atto della fine della visione idealistica del processo di globalizzazione. Invita quindi gli imprenditori ad essere selettivi ed oculati nel cogliere le opportunità; suggerisce loro di voltare gli occhi verso gli Stati Uniti, glissa elegantemente sugli ingenti danni subiti per la sciagurata subordinazione nel sostegno alle sanzioni contro la Russia, all’intervento in Libia, alla destabilizzazione della Siria e all’ostracismo all’Iran, tutti principali partner economici del nostro paese ovviamente nel rispetto di quelle regole diplomatiche e di mercato che hanno consentito alla inglese BP di sostituire l’ENI nella partecipazione allo sfruttamento dei giacimenti petroliferi, alle aziende meccaniche tedesche la Breda-Ansaldo italiana nella ristrutturazione delle ferrovie regionali, all’americana FCA la FIAT nella produzione di automobili.

Viva Farinetti, abbasso Mattei. Viva il mercato, abbasso il paese. Tanta nobiltà d’animo comporta sacrifici ma va certamente ricompensata. Ci stanno pensando i nuovi benefattori d’oltre alpe, offrendo presidenze, consulenze e titoli onorifici. Montezemolo, il mentore di Calenda e Tronchetti-Provera ne sono fulgido esempio tra tanti.

Desta meraviglia quindi l’improvvida esaltazione della conversione del Ministro da parte di uno studioso accorto come Giulio Sapelli (  http://www.ilfoglio.it/politica/2017/01/04/news/calenda-economia-premier-subito-113597/ ). Spero che si ravveda prima che Calenda rischi davvero di diventare Premier

 

GLOBALIZZAZIONE E STATI NAZIONALI-CONFLITTI TRA STATI E AUTONOMIA NAZIONALE. PERCHE’?,di Gianfranco La Grassa

Con questo intervento si completa la quadrilogia ripresa dall’incontro di metà aprile organizzato dal gruppo di www.conflittiestrategie.it e da questi già pubblicato. In basso a destra ddi questa pagina web, nella sezione dossier troverete tutti e quattro gli interventi
Incontro di C&S sul tema: Stato, Interesse Nazionale. Perché scegliamo in questa fase l’Autonomia Nazionale.
Questo è l’intervento che farò a Bologna nel seminario del prossimo fine settimana (di fatto domani). Ho preferito scriverlo perché poi, a voce, sarò molto succinto; sia per ragioni di tempo che per le condizioni della mia voce (e anche un po’ fisiche in generale). Consiglio perciò anche ai partecipanti all’incontro di leggerselo per capire quanto sostengo. Spero di essere stato sufficientemente chiaro.
CONFLITTI TRA STATI E AUTONOMIA NAZIONALE. PERCHE’?
Gianfranco La Grassa
1. Tratto normalmente Stato, paese o anche nazione quasi si trattasse di sinonimi. So che non è così, ma per quanto riguarda quanto devo dire in merito al problema dell’autonomia nazionale, credo si capisca comunque il discorso. Ammetto di non sapere mai con precisione che cosa debbo intendere con la parola Stato. Mi sembra che se ne parli sempre in modo metafisico o quasi; e in ogni caso come ci si riferisse ad un vero e proprio soggetto, di cui si possa disquisire quasi avesse volontà, desideri, intendimenti, finalità, ecc. propri, esattamente come quando si parla di un singolo individuo umano o di un determinato gruppo sociale, insieme di individui espletanti funzioni specifiche o che assuma decisioni in comune. Diciamo pure che per Stato si potrebbe intendere un grande raggruppamento di individui, in genere con ben preciso insediamento territoriale definito da confini, spesso (ma non sempre) unito da una sola lingua, che accetta un dato complesso di regole di comportamento fissate da leggi e il cui non rispetto viene sanzionato mediante un sistema di perseguimenti e di punizioni posto in atto da organi unanimemente accettati nel loro funzionamento a tali fini.
Preferirei tuttavia che si specificasse meglio il complesso, strutturato, di apparati che costituisce quello che chiamiamo Stato, sia nell’esercizio dei compiti relativi all’intero territorio posto sotto la sua potestà sia in quello decentrato nelle diverse parti in cui è suddiviso quest’ultimo. In particolare, darei la massima rilevanza a quegli apparati addetti all’esercizio della politica, intesa quale insieme organico di mosse – che possiamo definire strategia – compiute per raggiungere determinate finalità all’interno di un dato paese così come all’esterno d’esso, nei confronti degli altri paesi. Un conto è quella che potremmo definire l’amministrazione di determinati affari riguardanti il coordinamento d’insieme di una data comunità territoriale (suddivisa in diversi gruppi sociali); un altro è il vero potere di esplicare la politica diretta all’interno o all’esterno di quel paese. Il controllo degli apparati dotati di tale potere è il vero oggetto della lotta che si svolge tra diverse associazioni di individui (partiti o altri organismi di vario genere).
Di questi apparati (di potere) si dovrebbe soprattutto discettare per meglio definire i compiti che si pone chi intende perseguire l’autonomia del proprio paese. In questi ultimi anni si era diffusa una particolare concezione, che tuttavia mi sembra oggi un po’ in decadenza. Si sosteneva la fine della funzione degli Stati nazionali. Con ciò s’intendeva sostenere precisamente che quegli apparati di potere (interno ed esterno), di cui ho appena detto, non avevano più alcun reale compito in quanto ormai il potere in questione spetterebbe ad organismi sovranazionali, in particolare di carattere finanziario; vere massonerie che ormai comanderebbero in tutto il mondo o quasi. A tali organismi dovrebbero ribellarsi tutti i cittadini (le “moltitudini”), senza più distinzione di questo o quel paese (di tutto il mondo appunto). Tale tesi, che sembra voler essere una sorta di versione aggiornata e moderna dell’antico “internazionalismo proletario” (essa è in genere propagandata da vecchi arnesi della pseudorivoluzione sessantottarda e sue propaggini ulteriori), mira di fatto a salvaguardare il potere di quei gruppi che, all’interno di ogni paese, controllano gli apparati statali in questione (sia rivolto all’interno che verso l’estero). I “vecchi arnesi” sono ormai parte integrante, reazionaria, dei gruppi dominanti.
In realtà, in ogni paese (o nazione, se si preferisce) vi sono gruppi dominanti dotati di potere (decisionale), che controllano gli apparati statali di cui stiamo parlando; questi sono costantemente in funzione, per nulla superati e riposti in un qualche museo. Il problema è diverso. Esistono complessi (e spesso ben mascherati) legami internazionali tra i vari gruppi decisionali nei diversi paesi. E tali legami assicurano a quelli attivi nei paesi preminenti – oggi sopra tutti stanno gli Stati Uniti – un particolare potere di “influsso” (chiamiamolo così) sui gruppi decisionali di paesi che si pongono in una determinata filiera di potere via via discendente; per cui abbiamo gruppi che potremmo definire subdominanti, subsubdominanti, ecc. fino a quelli via via sempre più subordinati. I gruppi di potere nei vari paesi, anche i più subordinati, hanno pur sempre capacità decisionali nell’ambito degli apparati statali appositamente addetti alla politica, alla strategia, alle mosse da compiere per giungere a certe finalità interne ed esterne. Semplicemente, i loro poteri decisionali si subordinano a quelli dei gruppi dominanti di altri paesi, secondo una gerarchia che muta di fase storica in fase storica; e ha gradazioni differenti anche nell’ambito di ognuna di queste fasi.
Tanto per fare un “banale” esempio, i gruppi decisori italiani sono sempre stati subordinati a quelli statunitensi dalla fine della seconda guerra mondiale. E oggi siamo sempre in quella fase storica iniziata nel 1945, in cui sono stati creati vari organismi per sanzionare la supremazia Usa, fra cui la Nato e poi le varie organizzazioni intereuropee, ecc. Tuttavia, il grado di subordinazione dei gruppi decisori italiani ha avuto un netto scatto in crescita con la fine della prima Repubblica, con la sporca operazione di falsa “giustizia” denominata “mani pulite” e tutto ciò che ne è seguito. E oggi appare in ulteriore continuo accrescimento.
Bene, una volta chiarito questo punto, e dichiarata pura mistificazione la tesi della fine degli Stati nazionali, passerò ad un altro ordine di considerazioni. In effetti, la nostra attuale attenzione ai problemi dell’autonomia nazionale potrebbe sembrare un semplice cambiamento di impostazione teorica. In quanto marxisti, eravamo interessati un tempo alla lotta di classe e al problema dell’abbattimento e trasformazione della società capitalistica; ci siamo oggi innamorati della geopolitica, dell’interazione tra Stati? Oppure siamo stati folgorati da una visione nazionalistica e quindi abbandoniamo ogni discorso di conflitto (in verticale) tra classi per abbracciare quello (in orizzontale) tra comunità nazionali? Non è affatto questa la nostra effettiva posizione.
2. Personalmente, continuo a ritenere importante, in linea di principio, la struttura dei rapporti sociali (rapporti tra diversi gruppi in cui è suddivisa la società). Proprio per questo, malgrado la mia critica non marginale al marxismo, continuo tuttavia ad avere grande attenzione per tale teoria della società. E, sempre in linea di principio, la ritengo più avanzata rispetto all’individualismo tipico delle teorie liberali. Tuttavia, in Marx è fondamentale, nella costituzione di società, la sfera produttiva. Ci si ricordi sempre la sua lettera a Kugelman del 1864 in cui si dice che anche i bambini sanno che, se non si producesse per un breve periodo di tempo, ogni società verrebbe a dissolversi. E’ quindi logico che i rapporti sociali per questo pensatore decisivi sono quelli di produzione. E simili rapporti si annodano intorno al problema della proprietà (potere effettivo di disposizione) o meno dei mezzi produttivi. In base a quest’ultima, Marx distinse, nella società capitalistica, la classe borghese (i proprietari) e quella proletaria (o operaia) solo in possesso della propria capacità lavorativa da vendere in qualità di merce come ogni altro bene circolante nella società in questione. Da qui – corro perché ho scritto in proposito ormai centinaia di pagine – deriva l’ipotesi della dinamica capitalistica che avrebbe condotto infine ad una borghesia assenteista rispetto alla direzione dei processi produttivi, mentre in questa sfera sociale si sarebbe andato consolidando un corpo di produttori associati; dal massimo gradino dirigente fino all’ultimo di carattere esecutivo. Già nel grembo del capitalismo, quindi, si sarebbe formata la condizione base della nuova società socialista, primo gradino di quella comunista.
Nulla di tutto questo si è storicamente verificato; in nessuna delle società a capitalismo avanzato si è mai andato costituendo il “lavoratore collettivo cooperativo” (i produttori associati) così come previsto da Marx. E, soprattutto, le rivoluzioni più radicali si sono avute in società a prevalenza contadina e non operaia. Il cosiddetto socialismo del XX secolo – o quanto meno la “costruzione” dello stesso – si è rivelato essere una società estremamente verticistica, in cui la sfera produttiva era completamente sottomessa alla direzione di quella degli apparati del potere strettamente politico. Non intendo qui diffondermi su che cosa è stata questa particolare formazione sociale venuta a crearsi con le rivoluzioni guidate da partiti comunisti in paesi sostanzialmente precapitalistici. Mi sembra comunque evidente che non si è creata alcuna società socialista nel senso marxiano del termine. Lascio perdere i tentativi di diffondere l’idea (del resto tarda, ultimo sbiadito tentativo di difendere l’indifendibile) che si trattava di un socialismo di mercato.
Di fronte al fallimento storico di un movimento rivoluzionario guidato da una specifica teoria – del resto ormai molto modificata rispetto all’originale e ridotta a pura agitazione di tipo ideologico con presa sempre minore fino al suo azzeramento – ho proposto già da tempo l’abbandono del principio guida della proprietà o meno dei mezzi produttivi, andando invece nella direzione della politica intesa appunto quale conflitto tra le strategie di più gruppi sociali in cerca di una supremazia nel controllo dei vari apparati funzionanti nelle diverse sfere sociali: produttiva, politica, ideologico-culturale. Credo che questo mutamento abbia effetti abbastanza positivi nella considerazione realistica delle lotte sociali sussistenti all’interno della società in cui viviamo; anche perché fa vedere come gli “attori” in conflitto non siano, prevalentemente, quelli attivi nella sfera produttiva, ma vi siano invece svariati rapporti, e spesso piuttosto stretti, tra agenti in opera nelle diverse sfere per la conquista di una supremazia sociale complessiva. Tuttavia, è ovvio che la teoria del conflitto tra strategie non consente alcuna divisione netta tra le classi in lotta, riducendole a due soltanto. E non pone in luce alcuna dinamica, intrinseca all’attuale formazione sociale di tipologia capitalistica, diretta alla sua trasformazione in altra nettamente differente che possa pensarsi quale fase di transizione ad una qualsiasi forma di socialismo o comunismo.
I gruppi sociali, insomma, non possono essere definiti classi nel senso in cui queste erano intese nel marxismo in base al criterio, rivelatosi piuttosto semplicistico, della proprietà o meno dei mezzi produttivi. Inoltre, tali gruppi non possono mai ridursi a due; a meno che il conflitto diventi tanto acuto da spingere vari gruppi ad allearsi tra loro in modo che, alla fine, si trovano a confrontarsi due schieramenti contrapposti, che non saranno mai comunque due classi in lotta, ma due coacervi di gruppi riunitisi per le concrete esigenze “di combattimento” in quella particolare fase storica e in quella determinata formazione sociale, in cui si è prodotto un contrasto così netto e ormai irrisolvibile con semplici mediazioni. Vi è di più. Si possono verificare – per contingenze non riconducibili all’intenzione consapevole di trasformare quella data formazione sociale in un’altra considerata superiore – dei cosiddetti “sollevamenti di masse”, causati dal malcontento e disagio sociale particolarmente acuti, in genere susseguenti all’incapacità ormai manifesta di coloro, che hanno in mano gli apparati del potere, di saperli gestire in modo minimamente appropriato ai bisogni complessivi di quella società. Questi sollevamenti non produrranno mai effetti stabili e di reale trasformazione, se nel loro ambito non agiscono dati nuclei dirigenti di gruppi sociali, che vanno appunto alleandosi e unendosi a fini comuni in risposta alla gravità della crisi provocata dalla suddetta incapacità dei vecchi nuclei al potere.
In ogni caso, sia se si producono, abbastanza raramente, situazioni così estreme sia se ci si trova in una situazione di più “normale” e non sconvolgente conflitto tra strategie per ottenere la supremazia (in base ad esigenze di lungo periodo o invece per risolvere problemi di portata momentanea e d’ambito ristretto), non si è in presenza del semplificato scontro tra dominanti e dominati di cui troppo spesso si blatera. In un certo senso esiste un confronto, più o meno serrato, tra gruppi sociali con maggiori o minori (in certi casi magari nulle) prerogative decisionali. Tuttavia, nel reale conflitto, sempre condotto in base alla politica (cioè secondo varie linee strategiche), si enucleano alcune élites dirigenti, che tendono a rappresentare più gruppi sociali. E anche quando si tratti di gruppi formati principalmente da “non decisori”, le loro dirigenze partecipano comunque, con maggiore o minore forza, alle decisioni sociali di maggiore portata. Esempio tipico ne è la lotta sindacale. I nuclei dirigenti di quei gruppi situati alla base della piramide sociale non sono certo privi di qualsiasi potere decisionale in merito a questioni interessanti l’intera collettività di quel dato paese.
3. Giungiamo adesso al problema centrale che ci interessa. E che ci interessa – almeno per quanto mi riguarda e riguarda, credo, anche coloro che con me hanno dato vita a “Conflitti e Strategie” – proprio in quanto abbiamo dovuto prendere atto del fallimento delle finalità poste al movimento delle cosiddette “masse popolari” da una data concezione dello sviluppo sociale, quella concezione che è appunto il marxismo. Si è dovuto prendere atto che non c’è stata finora alcuna effettiva possibilità di evoluzione dell’attuale società verso strutture di rapporti da definire oltre-capitalistiche. Quello che abbiamo sempre chiamato capitalismo (e così continuiamo a denominarlo) si è andato indubbiamente trasformando profondamente rispetto al suo punto di partenza; o anche semplicemente considerando l’ultimo secolo. Tuttavia, alcuni suoi moduli non si sono modificati; non si è certo giunti al rivolgimento della sua configurazione piramidale caratterizzata dalle concentrazioni imprenditoriali e dal correlato assetto degli apparati politici, fortemente verticistico anche nei paesi dove si ciancia sempre di “democrazia parlamentare” e si esaltano le periodiche “chiamate al voto”, che si fanno passare per espressione genuina della “volontà popolare” in grado di governare gli affari del paese, sempre invece nella sostanza affidati a contrapposizioni tra date élites.
Intendiamoci bene. Nessuno di noi svaluta quelle lotte sociali che mirino a migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle più vaste “masse” situate nei gradini medi e bassi della piramide sociale. E dobbiamo ammettere che oggi, anzi, quelle lotte stentano perfino a mantenere vecchie “conquiste” in tema di benessere. Di conseguenza, un rilancio di queste lotte sarebbe senz’altro visto da tutti noi con estremo favore. Tuttavia, dobbiamo rilevare alcuni semplici fatti. Simili lotte diventano sempre più difficili, sono viepiù spezzettate e condotte spesso in modo da lasciare largo spazio a quella divisione tra strati sociali medio-bassi che favorisce i vertici della società (il ben noto “dividere per imperare”). E’ però un caso che ciò avvenga? E soprattutto nella presente fase storica (che dura da due-tre decenni)? Non posso dilungarmi nella considerazione delle condizioni storiche che avevano consentito un qualche elevamento della posizione degli strati sociali in questione. Noto solo che l’attuale peggioramento di tale posizione dimostra a iosa come non si fosse compiuto alcun decisivo passo in direzione dell’indebolimento di quella società denominata capitalismo.
Si è dovuto constatare un fatto ancora più rilevante per le nostre convinzioni ideologiche (e anche teoriche). Sia l’iniziale successo (relativo) di certe lotte sociali, sia la loro crescente irrilevanza attuale, sono fondamentalmente dipesi dalla predominanza di fatto che sempre hanno mantenuto gli Stati Uniti dalla seconda guerra mondiale in poi. Credevamo che il mondo bipolare fosse un contrasto tra capitalismo e socialismo. Siamo stati messi in crisi dalla rottura tra Urss e Cina, ma non abbiamo interpretato correttamente (e non sappiamo farlo ancora adesso) che cosa in realtà fosse accaduto. Abbiamo preso il successo di certe lotte anticoloniali (vedi Vietnam) come si trattasse di un allargamento del campo “socialista”; un allargamento durato l’espace d’un matin, con conflitto tra Vietnam e Cina e poi il progressivo spostarsi di quel paese verso l’orbita statunitense (sia pure dopo il crollo dell’Urss, che comunque non è stato un caso “sfortunato”). Oggi dobbiamo prendere atto – in una considerazione di più lungo periodo; ed è su questo che la storia deve essere “misurata” nei suoi effettivi andamenti – che gli Stati Uniti sono stati sempre il perno più solido dell’andamento degli affari mondiali.
In definitiva, è ora di ammettere infine che non esiste più da molto tempo (ammesso che sia mai esistita nei termini pensati dai marxisti) la lotta di classe su cui tante speranze erano un tempo riposte. Non esiste soprattutto un antagonismo tra due grandi blocchi sociali alternativi, foriero di trasformazioni anticapitalistiche. Nei paesi a capitalismo sviluppato – che ha conosciuto varie trasformazioni da giudicarsi interne a quel certo “modulo” sociale – si sono verificati contrasti, anche assai forti a volte, che sono sempre stati di tipo redistributivo; soprattutto di reddito, in parte anche di potere. E’ tuttavia mancato proprio l’effetto che alcuni attribuivano a tale conflitto, la trasformazione in senso anticapitalistico. Chiunque ancora ne parli – ormai alcuni rimasugli di dementi – va proprio ignorato. Ripeto che questo tipo di lotte va appoggiato proprio per quello che può al massimo conseguire: la difesa delle condizioni di vita e di lavoro dei ceti medio-bassi, oggi in deciso peggioramento. E sempre con la precisa consapevolezza che simili conflitti sono diretti da determinati gruppi dirigenti politici e sindacali, i maggiori beneficiari degli eventuali risultati positivi dello scontro.
Cosa invece si nota nettamente nell’attuale fase storica? I conflitti più acuti e più significativi sono quelli tra Stati. Di conseguenza, diventa in un certo senso scopo preminente seguire gli eventi di quella che è la politica internazionale, l’interrelazione tra i diversi Stati, lo stabilirsi di determinati rapporti di forza tra essi, il loro eventuale modificarsi i cui effetti ricadono immediatamente anche sull’andamento dei sistemi economici. Tuttavia, abbiamo già ricordato come gli Stati siano un insieme organico di svariati apparati, di cui alcuni sono quelli adibiti all’effettivo uso del potere (mentre altri hanno un carattere più propriamente amministrativo, diciamo così). E’ allora rilevante la comprensione dei contrasti in atto tra quei gruppi d’élite che si battono per il controllo e l’uso di tali apparati. Poiché questo “battersi” è appunto la politica, è un intreccio tra differenti strategie svolte per conquistare la supremazia, i gruppi d’élite (se tali sono effettivamente) debbono essere strettamente correlati con dati nuclei in cui si elaborano le strategie. E poiché le mosse della politica mirano al successo nell’ambito di uno scontro tra le varie élites, la segretezza è d’obbligo; e ogni venir meno della stessa o è una di queste mosse o è lo sgretolamento della “copertura” (lo sbucciarsi della “corteccia”) dovuto ad un acuirsi del combattimento tra due o più “attori”.
Del resto ho già ricordato un fatto ben noto a chiunque segua minimamente le vicende politiche. Non esistono élites dirigenti dei gruppi sociali nei diversi paesi, che non siano variamente interrelate tra loro in senso economico, politico, culturale. E certamente nel nostro paese, e più generalmente in tutti i paesi europei, in misura maggiore o minore queste élites sono strettamente collegate con quelle statunitensi, ponendosi nei loro confronti in una situazione di maggiore o minore subordinazione. In questo senso, gli Stati Uniti sono ancor oggi il centro di un ampio sistema mondiale di paesi; in particolare, hanno la guida, per quanto a volte appena mascherata, dell’intera UE che, come già detto, è in definitiva un’organizzazione parallela a quella della Nato. E’ impossibile seguire le vicende politiche interne di un qualsiasi paese europeo senza tener conto dei rapporti di subordinazione rispetto al paese predominante. Questo è particolarmente valido per l’Italia, paese la cui subordinazione è di alto livello e va crescendo. E continuerà a crescere per quanto diremo subito appresso.
4. Con quanto appena sostenuto, sia pure succintamente, abbiamo svelato il “segreto” della nostra pretesa preferenza per la geopolitica e per il tema dell’indipendenza o autonomia nazionale. Abbiamo semplicemente preso atto della fine della mitica lotta di classe e constatiamo che attualmente sono in ribasso anche le lotte sindacali per la semplice “redistribuzione”, nel tentativo di evitare l’arretramento delle cosiddette “conquiste sociali” di alcuni decenni fa. Dopo circa mezzo secolo di mondo bipolare e con i pericoli, spesso esagerati e montati a bella posta, relativi alla “guerra fredda”, si è avuto il “crollo” del campo sedicente socialista ed è sembrato che ci si avviasse verso una sorta di monocentrismo Usa. La sensazione è durata poco e ormai, malgrado sia ancora predominante quel paese, pare assai probabile che ci si avvii intanto verso un multipolarismo per quanto ancora imperfetto. Il caos nel mondo va accentuandosi come sempre avviene in epoche del genere; più volte ho fatto il paragone con la fine del secolo XIX.
In una situazione simile, è del tutto evidente un crescente impegno degli Stati Uniti per accentuare la presa sull’Europa e scongiurare quanto indubbiamente sembra serpeggiare al suo interno con il rafforzarsi di movimenti detti “euroscettici”; per quanto essi sembrino ancora abbastanza deboli. Il “Trattato transatlantico” (TTIP) dal punto di vista economico (che ha sempre riflessi politici), gli sconvolgimenti, più o meno ben riusciti, suscitati nel Nord Africa e in Medioriente, la crisi ucraina (dopo il primo approccio in Georgia), l’impulso dato alle organizzazioni islamiche “estremiste” poi ovviamente combattute (con forti ambiguità e senza ancora una conclusiva decisione; e qualche perplessità la nutro pure intorno alle mosse russe), le situazioni estremamente confuse e di sostanziale stallo (pur assai sanguinoso) in Libia e Siria, così come altre egualmente poco chiare (in Egitto come in Turchia o Iran, ecc.), sono operazioni che avranno certo motivazioni legate ai rapporti di forza nelle aree interessate; e tuttavia non vi è dubbio che il principale obiettivo degli Stati Uniti è, in ultima analisi, il mantenimento della presa in Europa e l’isolamento massimo possibile della Russia.
Se veniamo al nostro paese, credo che esso sia massimamente importante per le suddette finalità perseguite dagli Stati Uniti. La posizione geografica dell’Italia è in tutta evidenza significativa per le operazioni nelle aree investite, non sempre direttamente, dagli Usa (con l’Amministrazione Obama ci si è largamente serviti di “sicari”). Tuttavia, con l’operazione “giudiziaria” che mise fine alla prima Repubblica (solo dopo il crollo del campo “socialista”) si è reso del tutto manifesta la funzione che a noi spetta nelle intenzioni americane di tenere strettamente agganciata l’Europa. Dobbiamo essere decisamente affermativi in proposito. L’Europa è l’area in cui ancora si giocheranno i destini del probabile prossimo scontro policentrico per conquistare una nuova centralità preminente (uno scontro non temporalmente vicino, meglio essere espliciti in proposito). E l’Italia è paese fondamentale per il controllo europeo. Ci sono forti tendenze – a mio avviso tutte ben finanziate da chi di dovere – a sostenere l’ormai irreversibile decadenza europea e la crescente irrilevanza italiana.
Se con questo si vuole sostenere che mai si era visto in quest’area e in questo paese un degrado sociale (e culturale) come quello odierno, siamo d’accordo. Tutto questo avviene però proprio perché l’Europa (e, al suo interno, l’Italia) sono aree di importanza decisiva per gli Usa nel loro tentativo di restare preminenti; anzi di arrivare un giorno a porsi in una situazione di sostanziale monocentrismo, magari attraverso un futuro regolamento generale di conti. In questa fase, la pressione Usa sul nostro paese è massima, anche se non viene solitamente rilevata perché ovviamente non si esprime con le vecchie modalità coloniali. Di conseguenza, nella presente fase storica di non breve momento, chiunque straparli di lotta anticapitalistica, inganna scientemente quelle minoranze che cominciano a rendersi conto della situazione di degrado e sfascio sociale (e anche istituzionale), in cui ci hanno condotto le forze politiche padrone dell’andamento degli “affari” nel nostro paese.
Non ci sono per nulla prospettive di superamento del capitalismo in Italia (e in Europa); e nemmeno si saprebbe in che direzione si dovrebbe andare in una simile fantasiosa prospettiva. Ripeto che nessuno (di noi) si oppone a che i ceti medio-bassi difendano le proprie condizioni di vita aggredite dal potere esistente. Questo però non significa abbattere il capitalismo (e di quale si sta parlando, del resto, se non a vanvera?). E non c’è nessuna difesa possibile se restiamo un paese governato da élites che si pongono nella relazione di subordinazione rispetto a quelle del paese predominante. E’ di una evidenza palmare che il primo passo da compiere è (diciamo sarebbe) togliere il governo ai servi del potere statunitense. E vorrei essere preciso. Quando parlo in questo contesto di governo non mi riferisco soltanto a quelle forze politiche che hanno in mano la direzione dell’Italia. Valuto negativamente pure le sedicenti opposizioni, invischiate in quel gioco elettorale che fa dimenticare ogni problema di reale potere, con il mero scopo di conquistare favori nell’“opinione pubblica” onde migliorare la propria posizione all’interno dell’attuale struttura politica, comunque sempre subordinata alla predominanza degli Stati Uniti.
Ecco allora spiegato perché è indispensabile battersi oggi per l’autonomia nazionale. E per porsi in quest’ottica, è necessario dedicare i nostri sforzi soprattutto all’analisi degli intrecci internazionali tra i vari paesi; nelle loro filiere di predominanti, subdominanti, subsubdominanti….ecc. fino alle ultime propaggini della subordinazione, laddove siamo tutto sommato situati noi italiani. E mi sembra lampante che passi in avanti di questa autonomia sarebbero favoriti dall’affermarsi crescente della tendenza al multipolarismo. Quindi ci si deve battere per il rafforzamento delle relazioni – non solo economiche, bensì proprio politiche e di collegamento tecnico-scientifico e di “Informazione” e magari anche militari – con i paesi che hanno maggiori prospettive “oggettive” di ergersi quali antagonisti degli Stati Uniti; e fra questi, a mio avviso, il principale è la Russia. Nessuna particolare simpatia per questa e nessuna particolare antipatia per gli Stati Uniti. Semplicemente, è necessario battersi per l’accentuarsi del multipolarismo e, dunque, per la nostra autonomia. Multipolarismo e indipendenza sono in relazione biunivoca. E sono il primo compito per la fase attuale.
5. C’è poco da aggiungere, io credo. Ritengo auspicabile – nella fase storica che viviamo e che non sarà di breve momento – una politica tesa all’autonomia dei paesi europei rispetto a quello ancora oggi preminente, pur se a mio avviso procediamo, in modo certo non lineare e continuo, verso una situazione multipolare. Qualcuno potrebbe obiettare che sarebbe bene allora battersi per una profonda revisione dell’attuale organizzazione dell’Europa Unita in modo da ottenere l’effetto voluto. Credo che ci si avvierebbe lungo una strada fallimentare. La UE non mi sembra affatto riformabile per come è nata e si è andata configurando sulla base dell’accettazione di una chiara subordinazione – sia pure con accenti diversi nei vari paesi – agli Stati Uniti. Mi sembra anche non molto chiara l’agitazione di alcuni movimenti per l’uscita del proprio paese dalla UE e dall’euro.
Il problema centrale è la lunga subordinazione che, soprattutto i più sviluppati paesi europei (quelli “occidentali”), hanno dovuto subire rispetto agli Usa. Bisogna invertire questo processo – economico, politico, culturale – di subordinazione. Per far questo, nei vari paesi europei devono crescere movimenti consapevoli della difficoltà e complessità di tale compito, che comporterà infine la necessità di abbattere con energia i governi del servilismo. E’ un processo che va sviluppato all’interno dei vari paesi; e che, se avrà successo, lo avrà in modi e tempi specifici per ognuno d’essi. Ogni movimento dovrà rispettare le caratteristiche del proprio paese, delle proprie popolazioni (e, in questo senso, tornerà utile anche l’analisi delle differenti strutture dei rapporti sociali).
I movimenti di autonomia devono senza dubbio ricercare il reciproco collegamento nel contesto europeo, ma senza mai dimenticare le differenze del proprio paese rispetto agli altri; pena il diffondersi di una nuova “mistica” europeista che ha già prodotto in passato i guasti che vediamo oggi sotto i nostri occhi. E’ stata proprio la propaganda di questa idea di una generica Europa unita a consentire il prevalere nella nostra area di élites dirigenti che – oggi finalmente è venuto in chiara luce – si sono piegate, spesso con pingui finanziamenti, agli intendimenti e voleri degli Stati Uniti. Alcuni si saranno anche “venduti”, ma altri hanno superficialmente creduto che, come si erano fatti gli Stati Uniti d’America, si potessero fare quelli d’Europa, i cui paesi hanno ben più complessa e “antica” storia.
Ulteriore problema. Malgrado molti paesi europei siano economicamente piuttosto avanzati, è altrettanto evidente la loro debolezza politica e – perché voler essere pacifisti ad oltranza – bellica. Ogni movimento che si batta per l’autonomia del proprio paese – lo ripeto ossessivamente, autonomia soprattutto in direzione degli Usa – dovrà non soltanto cercare i collegamenti con i propri simili europei, bensì sviluppare precise politiche verso est; in particolare nei confronti della Russia. Inutile nascondersi che simili politiche potrebbero un giorno provocare il passaggio dalla tendenza multipolare all’affermarsi di un reale policentrismo conflittuale, con tutti i rischi che ben conosciamo dal XX secolo. Se si teme questo, è inutile mettersi sulla strada dell’autonomia; si resti subordinati come lo si è adesso.
E veniamo così all’ultimo punto. Ci sono molti sciocchi che credono ad un’Italia di benessere diffuso sulla base del turismo, sfruttando i suoi mari blu, i cieli azzurri, le cosiddette bellezze paesaggistiche (come se altrove mancassero), i suoi cibi (che nemmeno gli italiani più giovani sanno ormai apprezzare); e altre litanie del genere. Se l’Italia rimane a questo livello, resterà pure tranquillamente subordinata; e avvizziranno progressivamente in essa tutti quei settori che consentono il maggiore sviluppo di un qualsiasi paese nell’epoca moderna (a meno che non si tratti di quei paeselli, magari isole, che sono piccole oasi per i “ricchi del mondo”). E mancando l’autonomia e il tipo di sviluppo ad essa connesso, inutile anche pensare a chissà quali possibilità di lotta sociale per difendere le proprie condizioni di vita, soprattutto da parte dei già più volte ricordati ceti medio-bassi.
Lasciamo perdere per favore la lotta anticapitalistica; abbiamo una concezione arretratissima di capitalismo, ancora primonovecentesca se va bene. Non abbiamo assolutamente l’idea di quel che dovrebbe essere una società non più capitalistica (a parte le ubbie anti-grande finanza diffuse oggi). Ho però sostenuto che è approvabile la resistenza dei ceti meno abbienti di fronte ad un chiaro peggioramento delle prospettive nei nostri paesi detti avanzati. E’ bene mettersi in testa che in un periodo di multipolarismo in accentuazione, si amplifica il “caos” nelle relazioni internazionali; e non solo politicamente, ma pure economicamente. In poche parole, quella che chiamiamo crescita (aumento del Pil) non conoscerà andamenti travolgenti per molto tempo. Molti finalmente cominciano ad arrivare a simili conclusioni. Tuttavia, la debole (o nulla) crescita non impedisce uno sviluppo, cioè un miglioramento di certe strutture sociali e l’arresto del progressivo smantellamento delle “conquiste” ottenute già da tempo.
Tuttavia, non vi sarà nulla di tutto questo se si cede sul punto dell’autonomia propria, dello sviluppo di settori innovativi che la subordinazione invece sacrificherà sempre più. Cari “amici delle lotte sociali”, volete che possano essere ancora condotte almeno in un certo grado? Ebbene, battetevi per l’autonomia del paese rispetto all’attuale piatta subordinazione agli Stati Uniti. Battetevi per una diversa politica internazionale. Invece di fissarvi sul superamento del capitalismo (che si supera da solo in sempre nuove forme che vi lasciano poi a mani, e testa, vuote), concentratevi sull’attuale evoluzione dei rapporti di forza tra Stati (paesi), in modo da giocare nel suo ambito con opportune politiche di “nuove alleanze” al fine di non veder peggiorare gravemente le condizioni del vostro paese e, dunque, dei ceti sociali in esso meno favoriti.
E con questo fervorino finale, veramente Amen.

GLOBALIZZAZIONE E STATI NAZIONALI _ I fondamenti dell’idea di nazione a partire dal punto di vista del pensiero liberale e del decisionismo giuridico, di Mauro Tozzato

I fondamenti dell’idea di nazione a partire dal punto di vista del pensiero liberale e del decisionismo giuridico, di Mauro Tozzato
Già apparso sul sito di www.conflittiestrategie.it terza parte del seminario di Bologna su Globalismo e Stati Nazionali, tenutosi a metà aprile ad opera del gruppo di www.conflittiestrategie.it del quale hanno fatto parte Giuseppe Germinario e Luigi Longo

Bozza preparatoria per l’intervento al seminario di Bologna rielaborata con alcune aggiunte.
La tradizione del liberalismo continentale europeo trova nella conferenza su La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni di Benjamin Constant, tenuta nel 1819 all’Ateneo di Parigi il suo manifesto classico fondativo. Per quanto riguarda l’aspetto concernente la tematica della nazione e quindi gli elementi storico-genetici che connettono le idee liberali alla tradizione del costituzionalismo giuridico un ruolo altrettanto decisivo è svolto dal testo della conferenza di Ernest Renan alla Sorbona, del 1882, dal titolo Qu’est-ce qu’une nation? All’inizio Renan elenca le varie tipologie di formazioni storico-politiche a partire dai “grandi agglomerati” come gli antichi imperi orientali caratterizzati da una centralizzazione dispotica; seguono i “gruppi tribali” come gli Ebrei e gli Arabi, le città-stato (polis), gli imperi plurinazionali, le comunità religiose e quelle etno-linguistiche ed infine gli Stati-nazione moderni con le varianti delle loro aggregazioni in federazioni e confederazioni. Il punto di partenza del suo discorso si basa sull’affermazione che l’etnia, intesa come ethnos e come “razza”, non definisce quell’entità coesa determinata territorialmente come insieme di individui (popolazione) che chiamiamo nazione. I gruppi etnico-linguistici non si identificano con i “popoli realmente esistenti”. Il periodo antico e medioevale europeo caratterizzato dalle scansioni che, a partire dalla caduta dell’Impero romano d’occidente, hanno poi visto la “restaurazione” di Giustiniano e l’ascesa e il declino del Sacro Romano Impero carolingio trova la sua risoluzione con l’avvento delle monarchie nazionali assolute agli albori della modernità. A quel punto
<<l’Europa occidentale (e poi anche il resto d’Europa) appare divisa in nazioni [Stati-nazione].>>
Questo tipo di formazione politica appare, quindi, a Renan come un fatto sostanzialmente nuovo, a partire dal quale si è creato un contesto nel quale ogni struttura sovrana territoriale-popolare ha stabilito relazioni conflittuali con le altre, senza che nessuna di esse fosse in grado di assumere una stabile supremazia. Gli imperi asiatici – tra i quali, a partire da Hegel, poteva essere incluso anche l’antico Egitto e la civiltà degli Incas – erano invece
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In queste società secondo lo schema hegeliano “uno solo era libero” anche se l’assoluta “trascendenza” dell’Imperatore era importante prevalentemente a livello simbolico per garantire e mantenere l’unità del corpo politico e l’assoluta centralizzazione della comunità “organica” così costituita. In questa struttura avevano, infatti, un ruolo fondamentale i funzionari amministrativi (scribi e sacerdoti) ed esecutivi (nobili e guerrieri) attraverso i quali si pianificavano le attività economico-produttive e la redistribuzione dei beni prodotti. Nell’antichità classica greco-romana la partecipazione dei cittadini (individui liberi) alle faccende politiche, secondo Renan, aveva portato alla sostanziale mancanza di uno stabile apparato amministrativo fino all’avvento delle istituzioni imperiali a Roma. In precedenza le repubbliche e monarchie municipali e le confederazioni di repubbliche locali avevano garantito la più grande partecipazione del popolo agli affari pubblici ma anche una debole coesione dell’apparato amministrativo-burocratico. Prima dell’Impero romano l’Europa occidentale era formata da “agglomerati di popolazioni, spesso coalizzate tra loro, prive di istituzioni centrali e dinastie”. Solo con l’Impero di Roma ci si avvicinò alla formazione di qualcosa che poteva essere definita “patria”. La “dominazione romana” portò così, dopo le guerre di conquista, a
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Ma un impero esteso come quello romano non poteva portate alla formazione di uno Stato, nel senso moderno del termine. Il vero cambiamento ebbe inizio a partire dalle invasioni germaniche che stabilirono i due fondamentali pilastri del sistema dinastico e del predominio di una aristocrazia militare. Il sistema feudale, con lo spezzettamento del territorio in piccole unità economico-politiche quasi autonome, impedì lo stabilizzarsi delle prime formazioni statali. La Francia, la Burgundia, la Lombardia, la Normandia e poi l’Impero franco-carolingio vissero perciò, nell’Alto Medioevo, una persistente situazione di instabilità e di crisi. Ma piano piano, attraverso questo travagliato processo, presero forma i primi embrionali coaguli che avrebbero portato agli Stati-nazione assoluti di Francia, Inghilterra e Spagna e successivamente – con il superamento della Respublica Christiana e il declino dell’Impero e della Chiesa come entità almeno formalmente sovra ordinate agli Stati – anche all’unificazione di Germania e Italia. Renan poi contrappone il processo che caratterizzò l’Impero turco-ottomano – in cui convivevano Turchi, Slavi, Greci, Armeni, Arabi, Siriani e Curdi e in cui non si realizzò mai una autentica integrazione perché le identità linguistiche e religiose mantennero sempre la loro autonomia seppure, in alcuni periodi, in un clima di sostanziale reciproca tolleranza – a quello che si manifestò nell’occidente cristiano. In occidente, infatti, i vincitori, per lo più, adottarono la religione dei vinti: il cristianesimo. I conquistatori spesso rinunciarono anche alla loro identità linguistica così che in Italia, Francia e Spagna adottarono un “idioma romanzo”. Tra i barbari conquistatori le donne erano in netta minoranza e alla lunga questo risultò un fattore importante di integrazione. In Inghilterra, viceversa, i matrimoni misti risultarono meno necessari e anche il latino non si diffuse molto tra i popoli invasori. Renan ritiene che in Francia nel periodo successivo al regno di Ugo Capeto le differenze etniche avessero perso quasi tutta la loro importanza e i “francesi” si differenziassero prevalentemente in verticale con i due estremi rappresentati dai nobili e dalla plebe rurale. Anche nelle zone oggetto delle conquiste normanne si verificarono fenomeni di rapida integrazione etnica sotto la guida di un ceto nobiliare particolarmente portato alla guerra e ad enfatizzare il patriottismo. La progressiva diffusione di una mentalità che giustificava ed accettava come necessari i fatti di violenza, i conflitti e le guerre che erano stati alla base della fondazione dei nuovi Stati portarono progressivamente alla formazione di una cultura nazionale con la relativa mitizzazione degli eventi fondativi. In maniera realistica bisogna riconoscere che la tirannia e la giustizia sono entrambe necessarie per la nascita e la durata degli stati. Viceversa l’enfatizzazione delle identità religiose come nel caso dell’Impero turco-ottomano ha portato alla rovina del Medio Oriente. L’impero asburgico, invece, bastione di frontiera tra l’occidente e l’islam, ha mostrato la sua debolezza nella persistenza di tradizioni, linguaggi e costumi (ethnos e ethos) diversificati tra le sue varie nazionalità: tedesca, boema, ceca, magiara, slava e austriaca. Comunque all’origine della creazione delle varie identità nazionali sono risultate decisive dinamiche politico-militari del tutto contingenti mentre nei casi in cui è prevalsa la disgregazione è stata la frammentazione etnica, linguistica e religiosa che ha determinato il fallimento di quel processo che avrebbe portato alla costituzione di un blocco nazionale coeso. Ma in definitiva
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Alcuni teorici della politica affermavano che
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In molti casi, afferma Renan, il vincolo che mantenne uniti per un periodo più o meno lungo vincitori e vinti risultò essere quello dinastico ovverosia, specifichiamo noi, una egemonia connessa al prestigio di una élite dominante detentrice di strumenti di coercizione militare. Ma non sempre è così: Svizzera e Stati Uniti che si sono formate come agglomerazione di aggiunte successive non “hanno alcuna base dinastica” e comunque gli Stati-nazione consolidati ed economicamente e culturalmente coesi riescono, per lo più, a sopravvivere alle crisi “dinastiche”. Con il XVIII secolo, poi, la patria e la cittadinanza, in se stesse, divengono elementi decisivi di identificazione e coesione nazionale: il diritto “dinastico” lascia progressivamente posto al principio nazionale. Su che cosa risulta fondato allora il principio e il diritto nazionale? Sappiamo bene che spesso si è messo in primo piano il “criterio etnico”. Il principio etnico può portare a guerre di conquista verso territori abitati da “consanguinei” ma, osserva lo studioso francese, “il diritto primordiale delle razze è un errore gravissimo”. E difatti già con l’Impero romano il principio etnocentrico era stato falsificato: fondata dalla violenza, mantenuta dall’interesse, la Pax romana era diventata una unione di cittadini e stranieri tenuti assieme da un ordinamento giuridico universalistico. Ad esso si aggiunse il cristianesimo con il principio della eguale dignità e “personalità” di tutti gli esseri umani di fronte a Dio. Neanche le invasioni barbariche né Carlo Magno seguirono il principio etnico. Queste formazioni pre-statuali erano basate sui rapporti di forza e infatti la Francia dei capetingi e altre grandi nazioni si sono sviluppate proprio negando le identità dei numerosi gruppi etnici che le avevano originariamente popolate. Ogni gruppo etnico, tra l’altro, è una famiglia ben distinta nella specie umana che, però, si costruisce effettivamente solo nella storia, come unità culturale e linguistica. Rispetto a questa il rapporto stabilito dal legame biologico (fisiologico, genetico) appare incerto e sostanzialmente indecifrabile.
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Anche la “lingua” comune invita ma non forza ad unirsi, come nel caso dell’America Latina e della Spagna oppure di Stati Uniti ed Inghilterra, mentre in alcuni Stati, tipo la Svizzera, possono coesistere anche tre o quattro idiomi. La volontà, la volontà “di stare insieme”, è superiore alla “lingua” a patto che non vengano prese iniziative che mirino ad una unità linguistica forzata. Le “lingue” non stanno in corrispondenza diretta con le etnie: “le lingue sono formazioni storiche che non c’entrano con l’unità di sangue”. Così scrive Renan:
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L’approccio universalistico liberale-borghese si esprime nella convinzione che prima della cultura nazionale c’è la “cultura umana”. Per quanto riguarda le religioni e i riti essi all’inizio erano legati alla famiglia, poi alla città e allo Stato; a Roma la religione di Stato divenne un problema politico e chi la attaccava veniva perseguito e perseguitato. A partire dalla modernità e dalla Riforma la religione è diventata una “questione personale, riguarda la coscienza di ognuno”. La comunanza di interessi non costituisce una nazione e lo Stato che ne comprende una o più d’una (comunità), se è un vero Stato, non è, quindi, soltanto una unione commerciale. Nemmeno la geografia e i confini naturali stabiliscono un criterio fondante per la costituzione di una realtà nazionale ma essi vengono, a volte, usati come una scusa per intraprendere azioni politiche e militari determinate da strategie che hanno lo scopo di accrescere la potenza.
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Il principio “spirituale” che si chiama nazione sussiste perché è presente una comune
<<eredità di ricordi e il desiderio di vivere insieme, la volontà di mantenere indivisa l’eredità ricevuta e le glorie del passato da prolungare nel futuro>>.
Una coesione culturale, di mentalità (ideologia) e modi di vita è quella che costituisce la nazione in senso etico-politico mentre solo in un secondo tempo si può valutare l’importanza di dogane in comune, frontiere conformi ai principi strategici, “razza, “lingua”. Una autentica nazione si fonda sulla solidarietà per i sacrifici compiuti e per quelli da compiere e sul consenso per mantenere questi impegni e restare uniti. Ma i gruppi esterni o esterni allo Stato rimangono uniti o vengono attratti da esso solo se gli abitanti di un territorio, mediante un voto, manifestano la loro volontà in questo senso. Renan pensava che gli Stati-nazione europei potessero evolvere verso una forma confederale ma, con una sorta di preveggenza, nutriva forti dubbi sul valore e sui risultati di simili iniziative. Gli Stati-nazione devono tutelarsi contro i propositi di secessione arbitrari; in questo senso, mi sembra, egli ritiene che essi debbano risultare legittimi, ovverosia conformi a norme universali di diritto e quindi non sottoposti a decisioni che, seppure prese legalmente, sulla base di iniziative della maggioranza della popolazione, vengano determinate da umori contingenti di forze sociali manipolate e manipolabili. Enfatizzando l’elemento etico Renan ripete:
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Essa è, pur tuttavia, anche identificabile tramite una popolazione che risiede permanentemente in un determinato territorio così che l’appartenenza di un suolo ad un determinato popolo, per tradizione, sarebbe un fattore determinante dell’identità nazionale.
Secondo il filosofo e studioso Mario Albertini la nazionalità si fonda sulla fedeltà e sulla “identificazione” degli individui con essa. Esisterebbe una “nazionalità naturale” legata al territorio e alla “lingua” e una “nazionalità artificiale” basata sull’attaccamento al territorio, alla lingua e alle origini comuni e fondamentalmente tesa a svilupparsi in un area più vasta della prima. Albertini partiva da una ideologia di tipo federalista che ipotizzava una “supernazionalità” spontanea dei popoli a partire dalla Respublica Christiana del medioevo e dalla successiva cosiddetta “repubblica europea dei letterati”. In realtà il principio federale e confederale è sempre subordinato a quello statuale: esso ha valore soltanto quando è inserito in una formazione politica coesa capace di esercitare egemonia, “ordine” e “sicurezza” all’interno e forza espansiva verso l’esterno.
Mises osserva che, in Renan, Nazione e Stato risultano praticamente sinonimi. La nazione nasce dalla volontà degli uomini di vivere insieme in uno “stato” comune, ovvero dal diritto inalienabile delle popolazioni di decidere autonomamente del proprio destino. Ma il diritto all’autodeterminazione di cui parla Renan non è un diritto all’autodeterminazione delle comunità linguistiche bensì degli individui. In ossequio ai fondamenti del liberalismo Renan non dà peso alle minoranze e alle migrazioni nazionali, ma, piuttosto, alla volontà di un popolo, che pur risultando delimitato da una autorità statuale, può essere inteso sempre e solo come una somma di “liberi individui”.
***
Nel suo saggio Appropriazione/Divisione/Produzione del 1953 Carl Schmitt inizia con alcune precisazione etimologiche e terminologiche. Le parole tedesche Nehmen e Teilen hanno il significato rispettivamente, a partire dal fatto dell’appropriazione, di “prendere” e “divisione” con riferimento al concetto di “partecipazione”. Weilen, invece, rimanda all’idea di “produzione”, a partire del significato arcaico di “pascolare”, con allusione ad un originaria economia nomade riferita alla tradizione germanica antica. Il termine greco Nomos si riferisce normalmente alla nozione di “legge”, come legge scritta oppure come costume e/o consuetudine; la parola si oppone anche a Physis in quanto caratterizzante ciò che ha “valore”. In quanto derivata dal verbo Nemein la parola Nomos ha, però, le sue radici in un concetto almeno apparentemente molto diverso come “prendere”, “conquistare” e da qui il suo collegamento con il termine tedesco Nehmen. L’associazione del verbo Nemein e di Nomos, secondo Schmitt, può essere collegata, per analogia, a Legein e Logos, con i loro corrispettivi tedeschi Sprechen e Sprache, i cui significati sono traducibili sostanzialmente con “parlare” e “lingua”. Il Nomos sembra possa essere letto, perciò, come la “parola” che sanziona e stabilisce formalmente il momento dell’appropriazione e della conquista. Così Schmitt afferma:
<>.
Dal verbo greco Nemein – e dalle parole tedesche Nehmen, Nahme – nel senso di cui sopra proviene, in secondo luogo, lo “spartire”, il “dividere” (Teilen) e da questo anche il “distribuire” e, in ultima istanza, il “giudizio” come “fatto” sociale (Ur-Teil) ed il suo risultato. Schmitt introduce, poi, una lunga citazione da il Leviatano di Hobbes:
<>.
Ma, in terzo luogo, da Nemein deriva ancora la nozione del coltivare/produrre (Weiden), del lavoro produttivo fondato sulla proprietà personale. La giustizia commutativa (l’acquisto, lo scambio) e quindi l’eguaglianza formale degli attori nel mercato presuppone una proprietà che nasce, secondo uno schema che rimanda al diritto naturale, da una divisione “primitiva” coordinata con una corrispondente produzione. Da Nemein “derivano”, quindi, i fenomeni economico-sociali del coltivare, dell’agire economicamente, dell’utilizzare, del produrre così che si può dire che in ogni ordine giuridico e sociale organizzato politicamente si è preso, diviso e prodotto. Questi atti sociali sono il fondamento – in un approccio, diverso da quello schmittiano, denominato comunemente col termine “istituzionalismo” – di quell’agglomerato di istituzioni reali ed effettive che vengono tenute assieme dal potere statuale e che sono caratterizzate da un corpo sociale, da una organizzazione gerarchica e da un sistema normativo disciplinante il funzionamento delle istituzioni stesse. Comunque, a questo punto, Schmitt si domanda:”Dove e come si svolgono gli atti del prendere, dividere e produrre?” Fino al XVIII secolo e alla Rivoluzione Industriale si pensava che l’appropriazione dovesse precedere la “divisione” e la produzione. L’appropriazione veniva intesa come un atto eminentemente politico: essa si presentava come guerra verso l’esterno e come messa al bando, privazione di diritti, spoliazione nei conflitti interni ai vari corpi politici statuali. Essa si presentava come una serie di azioni esercitate tramite la forza coercitiva e, quindi, come un processo non particolarmente differente da quello che caratterizzava l’accumulazione originaria vista all’interno della teorizzazione marxiana. Successivamente, secondo Schmitt, tutti gli ordinamenti e i rapporti giuridici concreti che conseguivano all’acquisizione della terra “sorgono solo dalla divisione, dal mio e il tuo delle stirpi, tribù, gruppi e individui”. Nell’antichità e nel medioevo anche la “divisione” si presenta come un atto di forza, nella forma di guerre e conquiste spesso determinate nel loro risultato dalla “sorte” e culminanti in un ideale “giudizio di dio”. A proposito del colonialismo e dell’imperialismo Schmitt riferisce che per Chamberlain essi rappresentavano la soluzione della questione sociale mentre in Lenin l’appropriazione così intesa doveva essere considerata come un atto di predazione e usurpazione. In maniera corrispondente il socialismo viene qui inteso, non del tutto scorrettamente dal suo punto di vista, secondo una formula pseudo-leniniana che l’interpretava come “sviluppo delle forze produttive, pianificazione ed elettrificazione”. Liberalismo e socialismo darebbero il primato, entrambi, alla produzione e alla distribuzione. Lo sviluppo delle forze produttive “libere”, o “centralizzate”, comporterebbe un aumento tale della produzione, e quindi della massa dei beni di consumo, che porrebbe termine ai conflitti “violenti” per l’appropriazione e al problema dell’equità della “divisione”. In questa ottica, liberale e socialista ad un tempo secondo Schmitt, lo sterminato aumento della produzione mediante la tecnica – ma sarebbe meglio parlare di tecnoscienza – relegherebbe l’”appropriazione” a una sorta di residuo atavico del diritto primordiale di preda, retaggio di una età di miseria. Nel liberalismo, tramite l’aumento delle produzione e del consumo, si risolverebbe la questione sociale mentre nel comunismo, come compimento del socialismo, il telos sarebbe rappresentato dall’aspirazione ad una giusta divisione e distribuzione, ad una redistribuzione che può essere resa possibile solo da una sovrabbondanza di beni. Al di là delle utopie sulla fine della “scarsità” rimane comunque da affrontare un reale problema di divisione e redistribuzione che mette in gioco anche la possibilità di limitazioni e regolazioni dei diritti dei privati alla proprietà, in senso egualitario, partendo da processi politici “democratici” in cui la partecipazione della maggioranza dei cittadini – compresi i membri di gruppi normalmente “esclusi” – alle decisioni politiche avrebbe un ruolo decisivo. Schmitt inizia poi un breve excursus descrivendo alcuni aspetti dei movimenti socialisti a partire dai cosiddetti “utopisti”. Fourier vede la possibilità della realizzazione di una società di giusti e eguali per mezzo di una organizzazione (falansteri) che permetterebbe la realizzazione di una produzione illimitata fondata su uno sviluppo tecnoscientifico incessante. In Proudhon, viceversa, prevale il moralismo, così che la giustizia troverebbe la sua realizzazione in una redistribuzione della proprietà in piccole quote permettendo, perciò, ai lavoratori di rimanere autonomi come liberi produttori – nell’illusoria ipotesi che la piccola produzione mercantile possa permanere indefinitivamente – premiando per l’appunto la laboriosità a detrimento degli oziosi parassiti e dei rentier. Di fronte a questi cosiddetti utopisti si pone Marx che porterebbe avanti la tesi dell’irrazionale tendenza del capitalismo a non redistribuire beni e servizi nonostante che i rapporti di proprietà siano ormai divenuti obsoleti a causa dell’aumento rapido e continuo della produzione. In Marx sarebbe presente, però, anche l’idea dell’appropriazione che si presenta, in effetti, nella forma della riappropriazione a spese dei rentier parassitari. A questo rivoluzionamento seguirebbe una “divisione” e una produzione adeguata e conforme. Così in Marx il momento decisivo è rappresentato dalla “espropriazione degli espropriatori” ovvero dalla “appropriazione industriale” e dalla riconquista del possesso dei mezzi di produzione da parte della massa dei lavoratori. In maniera molto acuta Schmitt pone, poi, un problema che è stato sviluppato in maniera notevole da La Grassa nella sua rivisitazione critica del pensiero di Marx:
<<Tuttavia, tutti i sistemi economici e sociali costruiti sulla base della mera produzione contengono in sé qualcosa di utopico. Se davvero non vi sono altro che problemi di produzione e la semplice produzione dà origine ad una tale ricchezza e a possibilità di consumo così estese che né l’appropriazione né la divisione costituiscono più alcun problema, in tal caso vien meno la stessa attività economica come tale, poiché quest’ultima presuppone sempre una certa scarsità>>.
Un’ altra tesi errata già considerata dal giurista tedesco e che viene in qualche modo riproposta anche nel nostro periodo storico, in quanto caratterizzato dalla mondializzazione e dalla globalizzazione – anche se dominate in questa fase da conflitti multipolari che dimostrano la debolezza della lettura liberale e “cosmopolitica” dei fenomeni suddetti – concerne l’idea che l’”appropriazione” perda d’importanza con l’espansione globale delle relazioni capitalistiche che porterebbero, nell’ottica della retorica liberale classica, a sviluppare una “cooperazione competitiva” in un “sistema commerciale universale” . Nel marxismo questa tesi era, in certo qual modo, esemplificata negli scritti di Rosa Luxemburg ma più in generale essa appare alimentata da una visione che interpreta il conflitto per la supremazia come un effetto di relazioni estrinseche tra forze separate e irrelate che solo casualmente entrano in contrasto. Lo squilibrio incessante, come afferma La Grassa, caratterizza invece tutte le dinamiche di lotta che vengono a generarsi tra gruppi e comunità di individui, statuali o sub-statuali che siano, così che il momento del Nomos – come legittimazione ad intraprendere un azione di ostilità nei confronti dell’avversario per la supremazia economica, territoriale e politica – viene a fondersi con l’agire “politico” in quanto momento che stabilisce la distinzione tra il nemico privato (inimicus) e quello pubblico (hostis). Nel primo tipo di conflitto, quello “privato”, viene a svilupparsi una competizione per quote di mercato, in un ambito solidale di accettazione di regole (e violazione implicite delle stesse) comuni, che vede la centralizzazione dei capitali come risultato di una dinamica impersonale nella quale i soggetti giocano una partita in cui anche gli sconfitti accettano le regole del gioco. All’interno degli Stati-nazione succede però, in determinate congiunture, che quelli che erano soltanto dei nemici privati, a seguito di varie coalizioni tra loro, e successivamente all’acutizzazione di svariate tipologie di conflitti si trasformino l’uno rispetto all’altro in “nemici pubblici”, in nemici dal punto di vista “politico”. I gruppi sociali dominanti all’interno di una formazione sociale particolare difficilmente sono individuabili nelle loro interrelazioni, che implicano schieramenti potenzialmente conflittuali, sino a quando non si faccia avanti una situazione di antagonismo estremo. Solo quando si entra nella situazione in cui il contrasto diventa quasi una “guerra civile” (quella che Agamben analizza a partire dalla parola greca stasis) i gruppi e le coalizioni sociali assumono una forma e una visibilità politica e gli attori del conflitto, che prima si potevano stimare solo in “potenza”, diventano protagonisti dell’atto “politico” decisivo (per la supremazia). Riassumendo, di passaggio, alcune osservazioni tratte da una recensione al suo saggio, intitolato Stasis. La guerra civile come paradigma politico, ricordiamo che il termine stasis, secondo la lettura di Agamben, risulta all’inizio particolarmente ambiguo perché va ad indicare tanto il concetto di immobilità, stabilità e mantenimento dello status quo, quanto quello di sedizione, rivolta e infine rivolgimento politico. Nella sua prima accezione, il termine giunge fino ai nostri giorni nelle forme note di stato ed istituzione (entrambi derivando, come lo stesso termine stasis, dal radicale “–sta” del verbo greco hìstemi [N.d.R. Da internet:<>]. Agamben arguisce però che nel suo secondo senso, il lemma ricade di fatto in una forma di ambiguità concettuale, in base alla quale la guerra civile esulerebbe tanto dall’oikos (ossia dal focolare domestico), quanto dalla pòlis (ossia dalla collettività urbana). Essa sarebbe quindi la zona di indifferenza tra lo spazio impolitico della famiglia e quello politico della città: «nel sistema della politica greca, la guerra civile funziona come una soglia di politicizzazione o di depoliticizzazione, attraverso la quale la casa si eccede in città, e la città si depoliticizza in famiglia» (p.24). In definitiva, la stasis opera come un reagente che rivela l’elemento politico nel caso estremo, ossia come una soglia di politicizzazione che determina di per sé il carattere politico o impolitico di un certo essere. Schmitt comunque ribadisce che le costituzioni politiche, e quindi lo stesso potere costituente, si intrecciano e derivano dall’appropriazione in quanto fenomeno “primario” per cui lo stesso divenire storico non sarebbe altro che il progresso nei mezzi e nei metodi dell’appropriazione. Lo stesso Stato amministrativo – uno dei quattro tipi ideali di Stato secondo il pensatore tedesco – rispetto al quale lo “Stato sociale” rappresenterebbe solo una specificazione, presuppone l’appropriazione di ciò che, poi, viene redistribuito. La relazione e il legame tra il “politico” e il Nomos, intesi nel senso di cui sopra, si oppone al modello dello Stato legislativo inteso come Stato di diritto nella tradizione liberale classica. La legalità, considerata come mera procedura e forma, nel momento in cui surdetermina l’atto politico in quanto creatore ed effetto, ad un tempo, di ogni ordinamento legittimo, impedirebbe l’affermarsi della democrazia “sostanziale” la quale presuppone che il popolo-nazione si presenti come una entità omogenea. La democrazia “identitaria” così intesa, quando si “realizza”, promana da una autorità che “trascende” le singole volontà individuali – in quanto transustanziazione mistica della nazione “una” e “unica” – e tale da risultare, a tutti gli effetti, un potere legittimo che si afferma come indiscusso e indiscutibile agli occhi delle masse. Ma nell’epoca della fine della filosofia, e in particolare della filosofia politica, il politico, inteso come “guerra” per la supremazia e il potere, ha spazzato via ogni ricerca problematizzante di senso legata a considerazioni razionali sul valore dei vari regimi politici ritenuti possibili e/o auspicabili. La politica, come scienza, deve ormai partire dalla contrapposizione tra gruppi sociali alleati tra loro che rappresentano l’antagonista nella modalità del nemico “pubblico” (hostis). Il sistema globale capitalistico a predominanza Usa ha ancora bisogno, però, dell’enorme copertura ideologica in cui viene affermato come dogma la presunta congruenza e armonia prestabilita tra diritto e legge, giustizia e legalità, contenuto e procedura. Questo “corpus” dogmatico viene portato avanti dal pensiero giuridico dominante e dagli estensori e cultori del sistema internazionale dei diritti umani “sacri e inviolabili”. Per concludere e riallacciandomi alla parte iniziale di questo discorso proponiamo la tesi che la nazione – all’interno di uno Stato con gruppi sociali diversi per cultura, lingua, etnia, ecc. – si coagula e costituisce divenendo un popolo solo quando una maggioranza, formatasi storicamente, della popolazione, stabilisce che la minoranza rappresenta, rispetto a essa, il “nemico pubblico” (hostis). Il popolo diviene “nazione” nel momento in cui si identifica, per opposizione, rispetto ad una minoranza che nei casi estremi deve essere “scacciata”, “schiacciata” o comunque “esclusa”, cioè ridotta a un livello di estrema sudditanza.

GLOBALIZZAZIONE E STATI NAZIONALI_ LA NAZIONE E LO STATO: UNA GRANDE ILLUSIONE DEI POPOLI, DI LUIGI LONGO

LA NAZIONE E LO STATO: UNA GRANDE ILLUSIONE DEI POPOLI, DI LUIGI LONGO
LA ROTTURA TEORICA DEL CONFLITTO STRATEGICO. TEMPO E SPAZIO DELLA RICERCA.
Quello presente è il secondo dei quattro saggi e della introduzione presentati in un convegno a tema di metà aprile 2016 dal sito www.conflittiestrategie.it del quale hanno fatto parte sia Luigi Longo, relatore del presente saggio che il titolare di questo sito, Giuseppe Germinario. Il saggio è già apparso sul sito promotore del convegno e potrete trovarlo comodamente unitamente agli atti restanti, quando ripubblicati, nella sezione DOSSIER-GLOBALIZZAZIONE E STATI NAZIONALI in basso a destra della pagina di questo sito. Buona lettura.

Il grande principio che le moderne istituzioni debbono
favorire è quello di tenere a bada le classi povere dando
però la possibilità di farsi strada alle intelligenze superiori
che vi si trovano, ma insieme quello di assicurare la tranquil-
lità delle classi agiate.
Honorè de Balzac*

I vari momenti dell’accumulazione originaria si distribuiscono ora, più o meno in successione cronologica, specialmente fra
Spagna, Portogallo, Olanda, Francia e Inghilterra. Alla fine del
Secolo XVII quei vari momenti vengono combinati sistematicamente in Inghilterra in sistema coloniale, sistema del debito pubblico, sistema tributario e protezionistico moderni. I metodi poggiano in parte nella violenza più brutale, come per es. il sistema coloniale. Ma tutti si servono del potere dello Stato, violenza concentrata e organizzata dalla società, per fomentare artificialmente il processo di trasformazione del modo di produzione feudale in modo di produzione capitalistico e per accorciare i passaggi. La violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una società nuova. E’ essa stessa una potenza economica.
Karl Marx*

La nazione esiste.[…] Dal momento infatti che il << nazionalismo >> è stato storicamente un prodotto della costituzione delle borghesie in stato (lo stato nazionale, appunto), si è diffusa a lungo l’opinione per cui il proletariato non ha nazione, ma soltanto internazionalismo e rivoluzione.[…] Ebbe invece ragione a suo tempo Stalin, in un saggio pubblicato nel 1914 e approvato da Lenin, quando definì la nazione << una comunità umana stabile, storicamente costituita, nata sulla base di una comunanza di lingua, territorio,, vita economica e formazione psichica che si traduce in comunità culturale >>.
Costanzo Preve*

Premessa

La rottura teorica del conflitto strategico di Gianfranco La Grassa apre strade interessanti per nuovi scenari paradigmatici capaci di leggere sempre più in profondità la coda[1] (1) della realtà e di approntare, con dovute mediazioni relazionali, analisi di fase interessanti foriere di possibili pratiche politiche strategiche.
La rottura teorica, a mio avviso, si orienta in tre direzioni: 1) la eliminazione della relazione verticale tra struttura ( la base produttiva) e sovrastruttura ( relazioni sociali, politiche, ideologiche, culturali, eccetera) prevalentemente a base economica (produttiva e finanziaria) sia pure intesa come rapporto sociale [ciò non inficia completamente la validità dell’affermazione di Karl Marx << Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza >> (2) ]; 2) l’importanza degli agenti strategici dominanti sia delle diverse sfere sociali sia dell’insieme dei rapporti sociali della nazione nelle fasi di storia mondiale (monocentrica, multipolare, policentrica); 3) la concezione dello stato, inteso come luogo e strumento, interno non esterno alle relazioni sociali, ai rapporti sociali dove gli agenti dominanti egemoni realizzano le loro strategie di potere e di dominio sia a livello nazionale sia a livello mondiale.
All’interno di questo quadro interpretativo del conflitto strategico avanzerò alcune riflessioni sullo Stato; le suddette tre direzioni verranno, inoltre, trattate sinteticamente attraverso un caso di studio (che necessita di approfondimenti) su una impresa che era strategica per il nostro Paese: l’Ilva di Taranto.
A proposito di storia locale o casi di studio strategicamente individuati e studiati[2]), riporto dalla prefazione di Benedetto Croce al libro di Giuseppe Carlo Speziale (3) quanto segue: << Ecco un bel libro di storia, intelligente e vivo. E la vita e la chiarezza d’intelligenza gli vengono dal pensiero dell’autore, che tutte le vicende di Taranto, anche quelle edilizie, narra e lumeggia in relazione con l’ufficio militare e assegnato alla città dalla situazione geografica e dallo svolgimento della politica nel Mediterraneo. Si prova di frequente una sorta di diffidenza verso i libri che si chiamano di storia locale o municipale, giudicandoli di scarso o nullo interesse a causa dell’angusto campo in cui si aggirano. Senonchè non meno scarsi o privi di interesse riescono tanti volumi di storia nazionale o universale, quantunque si spazino in amplissime distese; e ciò mostra che il difetto non è già, né potrebbe essere, nella materia storica, sì invece soltanto nel modo incoerente e superficiale onde, in quei casi, è stata considerata […] appunto perché […] non è stata riportata e ricongiunta ai complessi storici a cui appartiene >> [ pp. 7-8].
Il problema diventa la priorità strategica di storia locale o casi di studio che si dà all’interno di una riflessione teorica che di volta in volta si affronta. Il mio caso di studio iniziale sull’Ilva di Taranto si inquadra nella logica del paradigma del conflitto strategico di Gianfranco La Grassa che permette di analizzare, sia nella teoria, sia nella pratica sia nella pratica politica, una situazione concreta della realtà per possibili azioni di pratiche politiche[3].

1. Cosa non sarà

Avverto subito che non sarà una ri-costruzione storica sulla nascita dello stato dalle origini fino ad oggi sia in occidente sia in oriente, cioè, una narrazione che inizia dallo Stato di Dio di Agostino il cui fondatore e sovrano è Cristo (4) allo Stato del conflitto strategico i cui fondatori e sovrani provvisori e dinamici sono gli agenti strategici dominanti (5). Né sarà una analisi sui diversi stati dei diversi capitalismi [per esempio, lo stato cinese[4] è differente da quello statunitense; nel primo ha inciso molto il peso che ha avuto la fase matriarcale e Mao Tsetung ne era molto consapevole più di Karl Marx, di Friedrich Engels e di Vladimir Il’ič Ul’janov (Lenin) (6); nel secondo ha inciso molto la peculiare forma di costituzione della nazione fondata sull’influenza della civiltà spagnola, francese, olandese e inglese (7) ]. Né sarà una analisi delle diverse concezioni dello stato nelle diverse teorie e dottrine che caratterizzano la “conoscenza” della società data [lo stato giuridico, le teorie contrattualistiche, le teorie costituzionaliste, eccetera per non parlare della concezione dello stato liberale, keynesiano e marxista]. Tutto ciò è tenuto sullo sfondo del ragionamento con la consapevolezza che occorre un lavoro immane di ri-pensamento e ri-costruzione critica che può essere svolto solo da un gruppo multidisciplinare.

2. Allora perché lo stato.

Le questioni da affrontare sono molte:
1. dalla conoscenza dei luoghi di potere e dominio allo svelamento dell’interesse generale e di un astratto luogo di potere della classe dominante;
2. dai luoghi del blocco politico e sociale dominante in costante disequilibrio agli strumenti del dominio nelle fasi unipolare, multipolare e policentrica;
 dalla costituzione del blocco politico e sociale degli agenti strategici pre e sub-dominanti come sintesi degli agenti strategici dominanti nelle diverse sfere sociali con relativo ruolo delle sfere egemoni ( fasci di luce che illuminano) alle relazioni interstatali tra le aree mondiali con i loro diversi ordinamenti statali;
1. dalle relazioni geo-politiche, geo-economiche, geo-territoriali al ruolo delle potenze mondiali con le aree di influenza (regioni, poli).
Mi interessa, però, discutere della problematica della sovranità perché in questa fase di multipolarismo da mobilità oscillante è strategicamente prioritaria.

3. Chi è lo Stato

Leggo lo Stato ( va da sé che faccio riferimento a quello italiano come modello), con le sue strutture di funzionamento ( parlamento, governo, pubblica amministrazione, organi ausiliari, magistratura) e le sue articolazioni territoriali istituzionali ( enti locali, enti intermedi, eccetera- le casematte gramsciane[5]-), come luogo e strumento di potere e di dominio per la realizzazione degli obiettivi degli agenti strategici dominanti nel conflitto strategico per l’egemonia nella società storicamente data.

4. Potere e dominio

Il potere vero quello che produce dominio è sempre ben nascosto[6]. Tant’è che lo respiriamo e non ce ne accorgiamo. Gli strumenti statali, con le loro articolazioni territoriali, diventano sempre più macchine complesse per gestire e organizzare il dominio dell’intera società. Il dominio per realizzarsi ha bisogno di emergere attraverso processi istituzionali e produrre ordine simbolico della società data: è un processo di lunga durata [vedasi i vari modelli egemonici mondiali espressi dalle potenze predominanti nelle diverse fasi della storia mondiale (8)]. A questo proposito diventa fondamentale capire quali sono gli agenti strategici dominanti. Mi permetto una digressione: non faccio distinzione tra agenti strategici dominanti nella sfera privata e quelli nella sfera pubblica, tra quelli che delinquono legalmente[7] e quelli che delinquono illegalmente[8] (9), perché l’intreccio è tale che non ha senso la distinzione. Esempi calzanti sono: il ruolo della Confindustria nella filiera del potere-dominio privato-pubblico; le funzioni degli enti locali nel programmare e gestire il potere-dominio; il ruolo della criminalità organizzata come soggetto politico (10): in quest’ultimo esempio per sottolineare la qualità del denaro come espressione e mezzo di rapporto di potere mi piace ricordare quanto detto dall’imperatore Vespasiano al figlio Tito che lo svergognava perché aveva messo una tassa persino sugli orinatoi, mise sotto il naso il primo denaro ricavato, chiedendogli se l’odore gli dava fastidio; e dopo che questi gli ebbe risposto di no, soggiunse Eppure viene dall’orina! (10*). Dicevo degli agenti strategici dominanti che producono dominio[9], attraverso il potere nelle diverse sfere sociali soprattutto quelle dominanti a seconda delle fasi storiche (monocentrica, multipolare e policentrica), sull’intera società. I gruppi di interessi particolari nazionali o mondiali producono potere non dominio. Il dominio delle potenze mondiali non viene certamente prodotto dai gruppi di potere.

5. Società, nazione, popolo, stato

La società storicamente data è la nazione con le sue specificità e peculiarità storiche, culturali, sociali, territoriali, economiche e politiche. Anche se mi rendo conto che vi è l’esigenza di ri-cercare un nuovo concetto in grado di racchiudere meglio l’idea di nazione ( per es. Paese) tenendo presente la interconnessione dei concetti ( la teoria) e del vissuto ( la pratica) nel tempo e nello spazio (11).
Intendo per nazione un popolo, una comunità ( un insieme di persone sessuate, di gruppi sociali sessuati) che vivono su un determinato territorio storicamente delimitato[10]. In essa si creano le istituzioni, le regole e gli strumenti di produzione e controllo delle stesse che chiamiamo Stato con le sue articolazioni territoriali. Non mi interessa adesso discutere chi produce e fa le regole[11] e l’influenza dei modelli sociali egemoni dei pre-dominanti mondiali (per esempio l’americanizzazione della vita italiana ed europea[12]). Mi interessa capire come si produce autonomia nazionale avendo sullo sfondo (non tanto, per adesso) le relazioni mondiali in fase di multipolarità per il configurarsi di stato-potenze in grado di mettere in discussione l’egemonia mondiale degli USA che sta perdendo la funzione di centro di coordinamento mondiale. Non solo, ma, mi interessa capire come si rapporta l’autonomia nazionale all’Europa, che è diventata, diciamo dalla seconda guerra mondiale, una espressione geografica degli USA (estendo all’intera Europa la definizione che il cancelliere di stato austriaco Klemens von Metternich diede dell’Italia). Altro che ruolo determinante tra occidente ed oriente e svolta politica verso quegli stati-potenze che lottano per una visione multipolare delle relazioni mondiali, come la Russia e la Cina! Inoltre, non discuterei, per ora, degli agenti strategici dominanti e sub-dominanti che danno le carte dei rapporti sociali; mi interessa, piuttosto, porre la seguente domanda: gli strumenti istituzionali, i luoghi istituzionali che sono fatti di violenza e consenso, che attraversano tutte le sfere della società e sono interni non esterni ai rapporti sociali, come vengono agiti, modificati, modellati per il controllo e la gestione del potere e del dominio[13] ?. Gli agenti strategici dominanti, storicamente dati, si sono costruiti questi strumenti di potere e di dominio per la loro egemonia interna (agenti pre-dominanti e sub-dominanti) ed esterna (le grandi Potenze) e sono stati così acuti da costruirsi anche istituzioni di coordinamento dei poteri per imporre e gestire la propria egemonia (i greci e i romani in questo sono stati maestri). Coordinamento non significa separazione dei poteri che è una illusione storica come ha dimostrato Louis Althusser rileggendo Montesquieu attraverso Charles Eisenmann (teorico del diritto) << …in realtà Montesquieu non aveva parlato affatto di separazione, bensì di combinazione, di fusione e di collegamento dei poteri…>> (12).

6. Potere di parte e dominio dell’insieme

Uso il termine potere per intendere una forma di rapporti di forza finalizzato all’accrescere delle proprie capacità di incidere nella società ed è limitata ai gruppi sociali che dispongono dei mezzi di produzione e di flussi finanziari (sfera economica produttiva-finanziaria), di strumenti politici ( sfera politica), di sistemi culturali e ideologici ( sfera culturale), eccetera.[ per esempio gli agenti strategici dominanti o sub-dominanti nelle singole sfere sociali[14], le èlites di potere (13) ].
Utilizzo il termine dominio per delineare una egemonia sociale (nell’accezione gramsciana, cioè consenso e coercizione) da parte degli agenti strategici dominanti o sub-dominanti costituitosi in blocco sociale come supremazia sugli agenti strategici delle diverse sfere sociali.
La filiera del potere è diversa nelle singole sfere sociali e il dominio dell’insieme sociale di una nazione è diverso, è altro dal potere delle sfere sociali.
Gli agenti dominanti egemoni (blocco sociale), una sorta di coordinamento dell’equilibrio dinamico[15] tra i diversi agenti strategici delle differenti sfere sociali, realizzano, nelle diverse articolazioni e nei diversi luoghi istituzionali dello Stato, velano le loro strategie con l’illusione dell’interesse del popolo o dell’interesse generale[16] costruendo ordine simbolico sociale.

7. Volontà di potenza

Ipotizzo che il motore del conflitto strategico sia dato dalla “volontà di potenza”, dalla relazione di potere e di dominio che trova la sua essenza primaria nella relazione tra i sessi. In particolare, dalla forma violenta della oppressione maschile su quella femminile (egregie sono le sintesi storiche di questa fase di passaggio sia nella letteratura maschile sia in quella femminile; un esempio per tutti: l’urbanista e sociologo statunitense Lewis Mumford (14) e l’archeologa inglese Margaret Ehrenberg (15).
La volontà di potenza[17] esprime la necessità del potere e del dominio (lunga è la filiera di costruzione di tale concetto da Tucidide a Macchiavelli, da Platone a Hobbes, da Shakespeare a Balzac, eccetera). Tutte le relazioni sociali storicamente date (dalle micro – la famiglia-, alle macro – lo Stato) esprimono questa volontà di potenza. Nei momenti di transizione, di passaggio da un’epoca ad un’altra, da un ordine ad un altro, è stata sempre usata violenza inaudita per la conquista del dominio. Perché? E perché, nonostante queste forme di violenza, c’è un qualcosa che salvaguarda il genere umano sessuato (non sto facendo una riflessione naturalistica, di conservazione, eccetera)?

8. Volontà di armonia

La mia ipotesi è che il pensiero deve ri-partire dalla prima forma di Stato, originatosi con la violenza, nel passaggio dalla fase matriarcale a quella patriarcale[18]; organizzazione statale che né Karl Marx né Friedrich Engels colgono quando collocano l’origine dello Stato nella necessità di proteggere la proprietà privata. E’ questo atto di violenza che ha avuto bisogno di una forma organizzata statale per esercitarsi, che ha permesso il passaggio da un fase egemonizzata dalla “volontà di armonia” (intesa come tensione e condivisione di relazioni e rapporti sociali) ad una dove domina la “volontà di potenza”. E’ nella “volontà di armonia” che va cercata la non “volontà di potenza”.
Storicamente l’uso della forza non sempre è stato il motore della storia. Vi è stato un periodo storico (sostanzialmente il neolitico) dove la prevalenza del pensiero femminile non solo è stato determinante per lo sviluppo dell’umanità ma ha segnato nel profondo l’umanità stessa senza la necessità prevalente della forza. Su questi temi sia Karl Marx sia Friedrich Engels (soprattutto) erano molto sensibili. Poi, il perché Karl Marx (soprattutto) approfondì lo studio delle relazioni sociali della produzione e non anche quello delle relazioni sociali della riproduzione (insieme sono i fattori determinanti del processo di trasformazione umana storicamente intesa) è tutta un’altra questione che interessa, a mio avviso, anche la nascente teoria del conflitto della razionalità strategica (16). Perché Karl Marx ha privilegiato l’aspetto della produzione (sia pure come rapporto sociale)? Perché grandi studiosi, acuti e intelligenti come Karl Marx ed Friedrich Engels non colgono l’aspetto della riproduzione sociale complessiva dove per forza si sarebbero imbattuti nell’altro soggetto della storia, la donna? Sfugge loro anche l’aspetto che la donna è creatrice di quell’individuo sessuato che diventa la merce per eccellenza, fondamentale per lo sviluppo della società a modo di produzione capitalistico, cioè la forza-lavoro? Perché, parafrasando il titolo di uno degli ultimi libri di Gianfranco La Grassa, non bastano centocinquant’anni per uscire da Karl Marx con Karl Marx? Svilupperò in un altro momento questa fondante questione, per il momento mi basta segnalarla.

9. Sovranità

Con la fine della seconda guerra mondiale l’Italia, insieme all’Europa intesa come sommatoria di Stati (17), perde la propria sovranità a favore della potenza egemone dell’Occidente, cioè gli USA usciti vincitori dalla guerra e sostituitisi all’egemonia mondiale inglese (18).
La sovranità perduta, una sorta di servitù volontaria a favore delle strategie dominanti degli USA che aspiravano a diventare potenza egemonica a livello mondiale (aspirazione avvenuta con l’implosione dell’ex URSS e per nostra fortuna durata più o meno un decennio), si materializza attraverso quel processo di lungo periodo che va sotto il nome di americanizzazione e che già Antonio Gramsci aveva visto nel suo “Americanismo e Fordismo”[19] (19).
Questa penetrazione del modello e della visione della società degli agenti strategici dominanti statunitensi viene esportata in tutto il mondo con strumenti di egemonia (politica, culturale, ideologica) con la creazione di agenzie di governance mondiale (Onu, Fondo monetario internazionale, Banca mondiale, eccetera) e con la coercizione per mezzo di strumenti militari (Nato, Servizi Segreti, eccetera).
Una sovranità perduta che va inquadrata nelle diverse fasi della storia mondiale (monocentrica, multipolare, policentrica) e assume aspetti diversi a seconda delle strategie di fase della potenza egemone prima nel mondo Occidentale, poi a livello mondiale con un ruolo di coordinamento, infine nell’attuale fase multipolare avviata, dove nuove nazioni- potenze mettono in discussione questa sua egemonia. Una sovranità perduta limitata nella fase monocentrica accompagnata da una fase di sviluppo e di espansione del modello di società americana che coinvolge le nazioni europee apportando crescita e sviluppo (penso, per esempio, al Piano Marshall).
Una sovranità perduta ampiamente nella attuale fase multipolare dove la strategia del caos[20] degli USA è indirizzata a bloccare il consolidarsi di nuove potenze (Russia e Cina)[21], a ritardare il proprio declino e a rilanciare nuove sfide per riaffermare l’egemonia su basi nuove.
Parafrasando Carl Schmitt (20) si può sostenere che con l’inizio della fase multipolare è giunto al culmine anche l’ammirazione e l’emulazione del modello statunitense.
Voglio dire che abbiamo strategie diverse di dominio nelle diverse fasi storiche mondiali : monocentrica, dove prevale un dominio basato sul consenso e sulla “democrazia” ( rispetto formale della Costituzione); multipolare, dove prevale un dominio basato su una forte riduzione della democrazia e si preparano nuove forme di istituzioni per l’accentramento del potere-dominio ( modifica della Costituzione); policentrica, dove prevale la forza del dominio con annullamento della democrazia attraverso varie fasi di eccezione (annullamento della Costituzione).
Le fasi multipolare e policentrica comportano una prevalenza delle sfere politica, istituzionale e militare nella direzione di un accentramento istituzionale del potere.

10. Caso di studio: Ilva di Taranto[22]

Voglio parlare brevemente della servitù volontaria italiana nell’attuale fase multipolare attraverso un caso di studio emblematico che racchiude in sé tutti gli aspetti a) subordinazione alle strategie USA, b) americanizzazione del territorio alle esigenze strategiche USA nel Mediterraneo e nel vicino Medio Oriente, c) funzione dei sub-dominanti italiani che attraverso i luoghi e le articolazioni istituzionali territoriali creano una filiera di comando in funzione dei pre-dominanti USA.
Il caso di studio è quello dell’Ilva di Taranto.

11. Un Paese subordinato alle strategie USA

La città di Taranto è diventata una città importante per la strategia USA-NATO[23]. Una città NATO. Gli agenti dominanti USA hanno bisogno della piena disponibilità del porto di Taranto, con i suoi Mar Piccolo e Mar Grande, per le loro infrastrutture militari strategiche (sommergibili nucleari, armi, sistemi di sorveglianza)[24]. E’ da un decennio (il tempo non è da leggere in maniera lineare e deterministico) che stanno lavorando a questa trasformazione che si innerva con quelle trasformazioni messe in atto in altre basi militari USA-NATO (soprattutto nelle città Nato-Usa in Italia: Napoli, Sigonella, Niscemi, Vicenza, altre) e alla trasformazione del ruolo della NATO.
Nel porto di Taranto è localizzata, dalla prima metà degli anni sessanta del secolo scorso, l’Ilva che è evidentemente incompatibile con la strategia della trasformazione delle basi NATO.
Noto una certa analogia, da prendere con cautela e calarla storicamente, con la storia industriale della più grande acciaieria di Napoli, l’Ilva di Bagnoli. Anche qui gli obiettivi erano le esigenze strategiche e territoriali della base NATO della città di Napoli (quartier generale della NATO, sede di vari comandi di unità di servizi USA, grande centro per le telecomunicazioni del Mediterraneo dell’US Navy che coordina tutta l’attività di comunicazione, comando e controllo del Mediterraneo, eccetera). In quegli anni si svolgevano fatti di importanza mondiale per il nuovo equilibrio che si andava configurando con la caduta del muro di Berlino e con la successiva implosione dell’ex URSS. Si aprivano nuovi scenari per gli USA come possibilità di un unico centro di coordinamento mondiale e un nuovo ruolo della NATO. La chiusura dell’Ilva di Napoli per le esigenze territoriali della base del quartiere generale della NATO non poteva essere detta. Tutto fu velato dietro un fumoso progetto per il risanamento e il rilancio dello sviluppo della città di Napoli che passava attraverso il conflitto tra i settori economici (industriale, edilizio, turistico) : il progetto Fiat-Partecipazioni Statali degli anni ’80, l’idea della NeoNapoli di Paolo Cirino Pomicino, la fase di Tangentopoli, le lotte di blocchi di potere per i finanziamenti della bonifica di Bagnoli, non realizzata ( dal 2003 sono stati presentati ben 6 progetti di bonifica[25]), gli indirizzi per la pianificazione urbanistica ( impianti di eccellenza per il turismo legato al sistema congressuale alberghiero, grande parco pubblico, rete di attività produttive connesse con la ricerca scientifica, eccetera).
L’Ilva di Bagnoli, una impresa in piena salute, fu chiusa e venduta ai cinesi.
Un sindaco, Antonio Bassolino, e un urbanista, Vezio De Lucia (i nomi sono l’espressione di gruppi di potere in riferimento agli agenti sub-dominanti), gestirono la fase di velamento culturale e ideologico della grande trasformazione della città di Napoli.
Anche qui occorse un decennio per preparare la trasformazione.

12. L’americanizzazione del territorio[26]

Qui torna utile una digressione che aiuta ad inquadrare meglio i processi che portano alla trasformazione da polo siderurgico a polo strategico della NATO. Non nascondo che faccio fatica ad immaginare una Europa che si autodetermina avendo sul suo territorio una miriade di basi militari NATO e NATO-USA (la Germania ne ha 70, l’Italia ne ha 111; sono dati da aggiornare ed escludono quelle che non si sanno)[27]. E’ fuori dubbio che gli USA sono egemoni nella NATO non fosse altro perchè è la potenza mondiale che spende in armamenti più della metà degli interi Stati mondiali (900 miliardi di dollari annui). Gli USA hanno chiesto e ottenuto un aumento della << […] spesa militare dei Paesi europei che fanno parte della Nato [e] aumenterà quest’anno per la prima volta dopo quasi un decennio. Non sono stati diffusi dati ufficiali ma è certo – come ha affermato il segretario generale dell’Alleanza Atlantica Jens Stoltenberg – che le tensioni, non solo economiche, con la Russia di Vladimir Putin e la crisi dei migranti stanno facendo aumentare i problemi di sicurezza in tutto il continente. «Le previsioni per il 2016, sulla base dei dati preliminari che ci hanno fornito le Nazioni alleate, mostrano che ci sarà per la prima volta, dopo molti, molti anni, un incremento delle spese tra i Paesi europei», ha detto Stoltenberg in un’intervista al Financial Times. Una svolta ancora più significativa in vista del vertice che si terrà a luglio in Polonia per decidere i movimenti delle truppe Nato ai confini con la Russia […] Nel 2015 gli alleati europei nella Nato hanno speso per la difesa 253 miliardi di dollari contro i 618 miliardi spesi dagli Stati Uniti. Per rispettare l’accordo che prevede una spesa minima pari al 2% del Pil, i Paesi europei dovrebbero aumentare di 100 miliardi il loro budget militare annuale. Il loro contributo attuale si ferma infatti all’1,43% del prodotto interno lordo >> (21).
Così come è fuori dubbio che le strategie americane di politica estera, che ricalcano il vecchio retaggio da guerra fredda che impone supremazia militare ed economica e strategie regionali tese a proteggere incondizionatamente i Paesi alleati, porteranno, mano mano che avanzerà la fase multipolare, ad una militarizzazione delle città[28] e dei territori europei che esprime capacità militare, capacità di sicurezza e di controllo, capacità economica in funzione prevalentemente anti Russia. Non è un caso che la NATO non fu abolita una volta imploso il vecchio nemico “comunista”, ma fu rifondata probabilmente per meglio prepararsi ad un cambio di politica estera fondata sugli USA come unica potenza mondiale egemone: la nazione “eccezionale” universale. Oggi, per fortuna mondiale, non è così. La fase multipolare si va delineando e le strategie di politica estera americane fanno fatica a confrontarsi con le nascenti potenze mondiali (soprattutto Russia e Cina).
Ho già trattato la infrastrutturazione del territorio europeo in funzione della Nato[29] e le città NATO ( negli scritti summenzionati). Voglio qui aggiungere una riflessione che riguarda la nuova polizia continentale con ampi poteri, l’Eurogendfor, istituita con il Trattato di Velsen (Olanda) e approvata all’unanimità dalla Camera e dal Senato all’assemblea di Montecitorio del 14 maggio 2010 (legge n.84 il “Trattato di Velsen”). Per indicare i caratteri principali del Trattato di Velsen riporterò i seguenti passi dell’articolo di Matteo Luca Andriola:<< […] la Forza di gendarmeria europea (European Gendarmerie Force), conosciuta come Eurogendfor o Egf, che viene ora a proporsi come il primo corpo poliziesco-militare dell’Unione Europea, a cui partecipano cinque nazioni, cioè l’Italia, la Francia, l’Olanda, la Spagna e il Portogallo ai quali, in seguito, si è pure aggiunta la Romania, un’istituzione, quindi, con valenza sovranazionale.[…] Fra il 2006 e il 2007 il processo di genesi dell’Eurogendfor fa passi da gigante: il 23 gennaio 2006 viene inaugurato il quartier generale a Vicenza, la stessa città dove ha sede il Camp Ederle delle truppe Usa, divenendo operativa a tutti gli effetti, mentre il 18 ottobre 2007 viene firmato il trattato di Velsen, sempre in Olanda […]All’art. 3 si legge che «la forza di polizia multinazionale a statuto militare composta dal Quartier Generale permanente multinazionale, modulare e proiettabile con sede a Vicenza (Italia). Il ruolo e la struttura del QG permanente, nonché il suo coinvolgimento nelle operazioni saranno approvati dal CIMIN – ovvero – l’Alto Comitato Interministeriale. Costituisce l’organo decisionale che governa EUROGENDFOR». Questa nuova “super-polizia” è, recita l’art. 1 del Trattato, «una Forza di Gendarmeria Europea operativa, pre-organizzata, forte e spiegabile in tempi rapidi al fine di eseguire tutti i compiti di polizia nell’ambito delle operazioni di gestione delle crisi», al servizio, non tanto dei cittadini dell’Ue o degli Stati firmatari del Trattato (le “Parti”), ma, sostiene l’art. 5, sarà «messa a disposizione dell’Unione Europea (UE), delle Nazioni Unite (ONU), dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) e di altre organizzazioni internazionali o coalizioni specifiche». Quindi un’Arma che può essere a disposizione degli Stati Uniti, dato che la Nato è, a tutt’oggi, il braccio armato di Washington in Occidente […] Colpisce, inoltre, il fatto che l’European gendarmerie force goda di una completa immunità internazionale. L’art. 4, recita che l’«EGF potrà essere utilizzato al fine di: condurre missioni di sicurezza e ordine pubblico; monitorare, svolgere consulenza, guidare e supervisionare le forze di polizia locali nello svolgimento delle loro ordinarie mansioni, ivi comprese l’attività di indagine penale; assolvere a compiti di sorveglianza pubblica, gestione del traffico, controllo delle frontiere e attività generale d’intelligence; svolgere attività investigativa in campo penale, individuare i reati, rintracciare i colpevoli e tradurli davanti alle autorità giudiziarie competenti; proteggere le persone e i beni e mantenere l’ordine in caso di disordini pubblici; formare gli operatori di polizia secondo gli standard internazionali: formare gli istruttori, in particolare attraverso programmi di cooperazione»[…] A quali casi si fa riferimento nel trattato di Velsen? A quelli inquadrati «nel quadro della dichiarazione di Petersberg». Cioè? A Petersberg, nei pressi di Bonn, si riunì il 9 giugno 1992 il Consiglio ministeriale della Ue che approvò una Dichiarazione che individuava una serie di compiti precedentemente attribuiti all’Ueo da assegnare all’Unione europea, cioè le cosiddette «missioni di Petersberg», cioè le “missioni umanitarie” o di evacuazione, missioni intese cioè al mantenimento dell’ordine pubblico, nonché operazioni costituite da forze di combattimento per la gestione di crisi, ivi comprese operazioni di ripristino della pace. Ergo, oltre all’intervento in caso di catastrofe naturale, l’Eurogendfor può intervenire per sedare delle manifestazioni in assetto da «forze di combattimento» >> (22).
Questa nuova istituzione europea di polizia continentale, che fa capo alla NATO, di controllo e sicurezza territoriale, con sede in una città NATO simbolo come Vicenza, trova comprensione in tre direzioni da approfondire: 1. Il ruolo della NATO che non è un ruolo direttamente militare (viene sempre più velato) ma economico, di sviluppo di territori, di sicurezza, di controllo, di penetrazione e di ampliamento di territori in funzione di contrasto delle potenze mondiali emergenti, soprattutto la Russia; 2. La perdita della peculiarità territoriale (di città e di territori) europea trova nel modello sociale e territoriale egemonico americano, direttamente e indirettamente tramite l’egemonia nelle istituzioni internazionali, una delle cause fondamentali del suo declino e della sua specificità storica:<< L’Europa si formò con l’emigrazione, l’America con la conquista. Per usare il linguaggio dei geologi, diremo che quella procede da alluvione e questa da azione vulcanica. E’ questo un primo tratto che differenzia la vita europea dall’americana. Eccone un altro: la civiltà dell’America fu un’opera di governo, un’impresa di Stato, un grande atto amministrativo; quella dell’Europa un’opera anonima, popolare, senza azione legislativa […] Ogni civiltà ha un’opera genuina che è la città. La città è la sintesi di una civiltà, il gesto o il ritmo che traduce la sua anima. Atene è la Grecia, come Roma è l’Impero, Firenze è il Rinascimento, Siviglia è l’anima spagnuola (New York è la modernità:” tutto ciò che è di solido, si dissolve nell’aria”, mia aggiunta) >> (23); 3.La politica di coesione e la cooperazione territoriale europea è funzionale alla strategia americana per aprire varchi ad Est risucchiando sempre più territori dalla sfera di influenza Russa ( ultimo caso: l’Ucraina).
Un esempio: si dice che << Una pluralità di questioni è associata alla coesione territoriale: il coordinamento delle politiche in regioni estese come quella del Mar Baltico, il miglioramento delle condizioni lungo le frontiere esterne orientali, la promozione di città sostenibili e competitive a livello mondiale, la lotta all’emarginazione sociale in alcune parti di regioni più ampie e nei quartieri urbani sfavoriti, il miglioramento dell’accesso all’istruzione, all’assistenza sanitaria e all’energia in regioni remote e le difficoltà di alcune regioni che presentano determinate caratteristiche geografiche.[…] Il modello di insediamento europeo è unico. In Europa sono sparse circa 5 000 città piccole e quasi 1 000 città grandi, che fungono da centri di attività economica, sociale e culturale. In questa rete urbana relativamente densa le città molto grandi sono però poche. Nell’UE solo il 7% delle persone abita in città con oltre 5 milioni di abitanti, rispetto al 25% negli USA, e solo 5 città europee sono annoverate fra le 100 più grandi città del mondo. Questo modello di insediamento contribuisce alla qualità della vita nell’UE, sia per gli abitanti delle città, che sono vicini alle zone rurali, sia per i residenti delle zone rurali, che beneficiano della prossimità dei servizi. È inoltre un modello più efficiente dal punto di vista dell’utilizzo delle risorse in quanto evita le diseconomie dei grandi agglomerati e l’elevato uso di energia e di terre che caratterizzano l’espansione urbana; tali diseconomie assumeranno dimensioni ancora più preoccupanti con il progredire dei cambiamenti climatici e l’adozione di misure per adeguarvisi o per contrastarli >> (24), questo modello così delineato cosa ha a che fare con il TTIP che è la distruzione delle aree rurali e la creazione di squilibri territoriali europei? Cosa ha a che fare con la realtà urbana e territoriale sempre più modellata su quella americana? (25).

13. Funzione dei sub-dominanti italiani

Il ruolo della magistratura. L’inizio della fine (che avrà i suoi tempi) dell’Ilva di Taranto è datato dall’azione della magistratura che il 26 luglio 2012 dispone il sequestro preventivo, senza facoltà d’uso, degli impianti dell’area a caldo dell’Ilva. L’azione è intrapresa per tutelare, con mezzo secolo di ritardo, i sacri principi costituzionali di tutela della salute dei lavoratori, della popolazione e del territorio. E’ logico pensare, considerato che la magistratura agisce sull’intero territorio nazionale, che tutti i poli siderurgici e petrolchimici abbiano lo stesso interessamento, se così non fosse rimarrebbe sempre la domanda in sospeso: perché l’Ilva di Taranto?
Se dovessimo tutelare i suddetti sacri principi costituzionali dovremmo chiudere qualsiasi impresa di produzione di merce, ma a questo punto non saremmo più nella società capitalistica. E non credo che la magistratura pensasse ad un’altra società. Infatti la sua azione sembra quella di difendere i sacri principi costituzionali elevandoli su un edificio sociale costruito con fondamenta di ingiustizie, di sperequazioni, di privilegi, di inganni, di ruberie, di pazzie e di guerre.
Giorgio Nebbia, che è un noto merceologo, ha scritto di recente che <<… la produzione dell’acciaio, come di qualsiasi altra merce, è accompagnata, inevitabilmente [corsivo mio], da scorie, rifiuti e nocività: la natura non dà niente gratis [lui essendo un merceologo si ferma alla natura e non pensa ai rapporti sociali che determinano la forma, lo sviluppo della produzione e l’uso della natura, mia critica] >> (26). Ha sostenuto un grande medico e scienziato, Giulio Maccacaro, che << …c’è un solo MAC [Massima Concentrazione Accettabile di una sostanza, mia precisazione] accettabile ed è quello zero…>> (27). Nella società a modo di produzione capitalistico non esiste un processo produttivo a MAC zero.
La magistratura sa che non ci sono le risorse finanziare per risanare e bonificare il territorio, ammesso e non concesso che ciò sia possibile!, e per questo dà la caccia al tesoro finanziario della famiglia Riva la quale metterà in campo, visto il potere che le deriva dal condurre un’impresa di livello mondiale ( il gruppo Riva nel 2011 è il primo nel settore in Italia, quarto in Europa e ventitreesimo nel mondo), tutte le sue relazioni economiche, politiche, finanziarie, istituzionali ( la grande impresa non è solo ciclo economico), per contrastare il sequestro delle sue risorse finanziarie.
La storia economica reale dei poli siderurgici e petrolchimici dimostra che c’è la privatizzazione dei benefici e la socializzazione delle perdite (umane, ambientali e territoriali).
Le risorse finanziarie che la magistratura intende confiscare alla famiglia Riva, tramite la capogruppo Riva Fire, sono pari a 8 miliardi e 100 milioni di euro. La somma stabilita equivale, secondo la magistratura, ad << …un indebito vantaggio economico all’Ilva ai danni della popolazione e dell’ambiente >> e sarebbero destinate agli interventi di risanamento e bonifica territoriale. Dalle risorse finanziarie da confiscare sono esclusi i costi per la bonifica di acqua e suolo ai parchi minerali, oltre al profitto necessario per continuare la produzione. E’ evidente che con queste condizioni l’impresa Ilva non è in grado di pianificare il piano industriale 2013-2018. Ed è evidente che il peso per contrattare a livello europeo, in una fase competitiva sempre più agguerrita [francesi, tedeschi e turchi stanno già beneficiando della crisi dell’ILVA], gli aiuti del piano siderurgico predisposto dalla Commissione Europea sarà pari a zero, per non parlare del ruolo, nella sostanza assente, dello Stato italiano. Ricordo che l’Ilva è stata decapitata del gruppo dirigente strategico e tecnico.
A Napoli fu la sfera economica, intrecciata alla sfera ideologica, la teste di ariete per la base NATO, a Taranto è la sfera della magistratura, innervata alla sfera ideologica, ad essere la testa di ariete della NATO.

Il ruolo del governo. L’Ilva, è utile ricordarlo, è una impresa di livello mondiale, con il più grande impianto siderurgico d’Europa, che produce acciaio, una merce base dell’economia italiana e mondiale. E’ un’impresa strategica per l’economia italiana. Ha una occupazione diretta di circa 12 mila lavoratori, a cui deve aggiungersi un indotto strettamente collegato sul piano verticale che porta l’occupazione diretta a oltre 15 mila unità. A questo dato devono sommarsi 9.200 unità legate all’indotto, per un totale complessivo di occupazione pari a oltre 24 mila occupati.
L’intervento del governo si concentra in tre direzioni: a) l’esproprio di una grande impresa (con la beffa del richiamo agli articoli 32, 41 e 43 della Costituzione, mai vista nella storia dell’industria italiana); b) la bonifica dell’ambiente, la tutela della salute e la salvaguardia del territorio; c) l’applicazione dell’ AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale) al processo produttivo dell’Ilva, anticipata e integrata con le migliori tecnologie disponibili da impiegare nel settore della siderurgia a livello europeo per assicurare la protezione dell’ambiente e la protezione della salute così come da decisione della Commissione Europea 2012/135/UE ( la Commissione Europea dà tempo fino 2016 per uniformarsi)[30].
La domanda viene spontanea: perché anticipare di tre anni il recepimento della suddetta decisione della Commissione UE creando uno squilibrio nel mercato della concorrenza tra le imprese del settore siderurgico (scusate il linguaggio neoclassico)? E il recepimento della suddetta decisione della Commissione Europea nell’AIA non significa non rendere competitiva l’Ilva e avviarla alla chiusura? E’ questo il modo di difendere un’industria strategica da parte del governo italiano?
Andiamo avanti nel ragionamento.
Tutto questo, ovviamente, avverrà di pari passo con la elaborazione del piano industriale per il rilancio dell’Ilva e del piano ambientale per la tutela del territorio (città, mare e territorio rurale) e della salute dei lavoratori e della popolazione.
Così ragiona il ministro dello sviluppo economico Flavio Zanonato: << Il costo di un’eventuale chiusura dell’impianto avrebbe conseguenze negative gravi sul piano economico e, comunque, determinerebbe il consolidamento di una situazione che, secondo i magistrati di Taranto, è da considerarsi di disastro ambientale. L’impatto economico negativo è stato valutato attorno ad oltre 8 miliardi di euro annui, imputabili per circa 6 miliardi alla crescita delle importazioni, per 1,2 miliardi al sostegno al reddito ed ai minori introiti per l’amministrazione pubblica e per circa 500 milioni in termini di minore capacità di spesa per il territorio direttamente interessato. In una fase di calo globale del mercato, è evidente che l’eventuale uscita dello stabilimento di Taranto sarebbe guardata con estrema soddisfazione dai maggiori competitor europei e mondiali, che vedrebbero aumentare le proprie prospettive di mercato a tutto danno del sistema produttivo italiano. Anche un’eventuale vendita ad operatori internazionali esporrebbe il nostro Paese al rischio di un forte impoverimento della capacità tecnologica e di innovazione. L’importanza strategica di questo complesso industriale non può, però, far venir meno gli obblighi di tutela ambientale da cui dipende la qualità della vita dei cittadini di Taranto. La crescita economica e la salvaguardia della salute non sono, in particolare in questo caso, due diritti contrapposti e la prima non si può certo perseguire facendo soccombere la seconda [corsivo mio]. Il Governo, quindi, tende ad adottare tutte le azioni utili a tutelare l’ambiente e la vivibilità della città di Taranto nella consapevolezza che un’interruzione della produzione peggiorerebbe ulteriormente la situazione rendendo impossibile la bonifica dei siti inquinati. La sopravvivenza dello stabilimento è, oggi, dunque, legata alla capacità dell’azienda di mettere in atto gli investimenti necessari a rendere compatibile l’impianto con le norme ambientali e di sicurezza sulla salute dei cittadini [ corsivo mio]>> (28).
La priorità del governo nella questione Ilva è tutta incentrata sulla questione ambientale, sulla tutela della salute e sul risanamento della città. Basta avere la pazienza di leggere i dibattiti parlamentari, gli atti delle Commissioni Parlamentari (VIII e X), i decreti legge, i disegni di legge di conversione dei decreti, per rendersene conto direttamente. Anche il Vice presidente della Commissione Europea, Antonio Tajani, privilegia l’aspetto ambientale della questione Ilva anche perché nel piano siderurgico dell’Unione Europea, che illustra uno scenario di grande crisi, non c’è spazio per una grande impresa come l’Ilva, tra l’altro impossibilitata ad agire perchè in fase di esproprio temporaneo, e le condizioni di rilancio del settore siderurgico previste nel suddetto piano necessitano di una forte presenza dello Stato che abbia un minimo di strategia di politica economica sovrana e che sappia difendere le sue industrie strategiche e, in una logica di sviluppo economico, sappia ridurre i costi eccessivi dell’energia che <<… pesa fino al 40% sui costi di produzione di un impianto siderurgico, per cui il settore risente fortemente del trend dei costi energetici che, in Europa, sono tra i più alti al mondo >> e rilanciare i due settori di maggior consumo di acciaio (le costruzioni e la produzione di auto) così come fanno la Germania e la Francia (29).
L’Unione Europea sta indagando sull’Ilva di Taranto e vuole sapere dal Governo italiano, dalla regione Puglia e dall’Arpa/Puglia, come si sta combattendo l’inquinamento, come si gestiscono le discariche, i rifiuti e le acque reflue. Chiede inoltre di sapere se sono stati violati il diritto alla vita e il rispetto della vita privata e familiare (articolo 2 e 7 della Carta dei diritti fondamentali della UE)[31].
Il governo italiano sta chiudendo tutte le imprese strategiche appartenenti ai settori innovativi (inutile fare l’elenco); è in forte crisi anche il tanto lodato e non strategico made in Italy; la Banca d’Italia è preoccupata per la tenuta dell’intero sistema industriale (si vedano gli ultimi bollettini economici della Banca d’Italia). Stiamo in una crisi profonda di portata epocale per la quale l’80% della popolazione non vive bene.
A chi pensate che la UE taglierà la produzione, per ridurre la propria sovraccapacità, che ammonta a 80 milioni e rappresenta oltre 1/3 della produzione complessiva?
Il governo italiano, mentre chiude le sue imprese strategiche, per assecondare gli agenti strategici americani, con grandi perdite nelle relazioni geopolitiche e geoeconomiche, diventando sempre più un territorio dove << i gabinetti stranieri [sono] a decidere la sorte della nazione >> , decide per decreto (articolo 1 del decreto legge del 3 dicembre 2012 n.207) di trasformare l’Ilva in impresa strategica ed espropriarla per affidarla alla gestione pubblica per il risanamento aziendale e territoriale per poi restituirla ai proprietari. Come se i luoghi pubblici, i luoghi dell’interesse generale, i luoghi delle istituzioni ramificate territorialmente, i luoghi dello Stato, fossero luoghi dove si espleta la politica dell’interesse generale del Paese e non invece, luoghi dove i gruppi strategicamente egemonici (pre-dominati e sub-dominanti) realizzano i loro indirizzi strategici di dominio.
Non solo, ma la difesa ambientale e la salute delle popolazioni, per cui è stata espropriata l’Ilva, è ideologica ( nell’accezione negativa del termine) e strumentale da parte del governo italiano, tant’è che all’articolo 41, comma 1, del decreto legge n.69/2013[ il cosiddetto decreto del fare (sic)], si legge <<…nei casi in cui le acque di falda contaminate determinano una situazione di rischio sanitario, oltre all’eliminazione della fonte di contaminazione ove possibile ed economicamente sostenibile…>>. E’ ovvio che l’economicamente sostenibile si riferisce alle imprese. E, allora, i tanto decantati articoli 41 e 43 della Costituzione italiana si applicano soltanto all’Ilva? Se interpreto bene il citato articolo, mi ritorna di nuovo la domanda: perché L’Ilva? E i giuslavoristi, i costituzionalisti, i difensori estremi della Costituzione non hanno niente da dire sulla incostituzionalità del citato comma?
Se fosse vivente il grande storico Carlo Maria Cipolla certamente avrebbe aggiornato il suo magnifico saggio (Allegro ma non troppo) sulle leggi fondamentali della stupidità umana.
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Il ruolo dei Commissari. Per realizzare questo grande disegno di rilancio dell’Ilva e di risanamento ambientale e territoriale vengono nominati un Commissario Straordinario, nella persona di Enrico Bondi, già amministratore delegato dell’Ilva nominato dalla famiglia Riva, e un sub Commissario all’ambiente nella persona di Edo Ronchi ( un confusionario della generazione “sessantottopersa” nel distorto benessere capitalistico, che ha scambiato una rivoluzione di costume e di consumo per una rivoluzione sociale nell’accezione marxiana e leniniana, esperto di sviluppo sostenibile, stimato dagli ambientalisti e dai radicali di sinistra, in quota nel PD). Entrambi traghetteranno, in un continuo gioco delle parti, se le cose dette hanno un minimo di sensatezza, l’Ilva alla chiusura. Sono gli esecutori, insieme ai loro gruppi di potere, degli ordini degli agenti strategici sub dominanti italiani alla mercè dei desiderata dei predominanti USA via NATO. A ciò è servito l’applicazione del citato artico 1 del D.L. n.207/2012, altro che interesse pubblico o interesse generale o bene del Paese.
Enrico Bondi, con il suo gruppo di potere di riferimento, medierà con la proprietà una chiusura dignitosa dal punto di vista economico-finanziario.
Edo Ronchi, con il suo gruppo di potere di riferimento, lavorerà ad un grande piano di risanamento dell’ambiente, della città e del territorio rendendo << … gli stabilimenti Ilva un punto di riferimento in Europa, anticipando di tre anni le migliori tecnologie disponibili (Best Available Technologies, BAT) che saranno applicate in ambito europeo a partire dal 2016. Nella consapevolezza di una situazione di assoluta emergenza, il Governo intende tuttavia giungere alla realizzazione dello stabilimento più avanzato in Europa in termini di compatibilità ambientale…>>.
Oggi la strategia è cambiata, ma la soluzione finale resta sempre la chiusura dell’Ilva: 1. Si passa dalla fase di risanamento ambientale, di applicazione di tecnologie pulite e rilancio dell’impresa con il Commissario Enrico Bondi alla fase di mercato di Pietro Gnudi che dovrebbe vendere l’Ilva di Taranto in una situazione di grave crisi di produzione, di crisi di liquidità, di crisi ambientale, con la spada di damocle della magistratura; 2. Si svende in maniera poco chiara ai privati. Sono favoriti per tutta una serie di ragioni e di combinazioni, tra interessi di impresa, politiche energetiche e strategie mondiali dei grandi gruppi dell’acciaio ( settore che attraversa una fase di crisi), il colosso Arcelor Mittal e il gruppo Marcegaglia ( l’impostazione dei bandi, le offerte presentate, il peso dei soggetti strategici in campo confermano la mia ipotesi per la joint-venture Arcelor Mittal-Mercegaglia). Questa alleanza garantisce di fatto gli affari nel breve-medio periodo ( commessa tubi TAP e quote di produzione di acciaio ) e la chiusura dell’Ilva nel medio-lungo periodo (30).
Le due fasi ipotizzate hanno come obiettivo la chiusura dell’Ilva di Taranto che interessa sia gli equilibri dinamici dei sub-sub dominanti nazionali (flusso finanziario per risanamento ambientale, riqualificazione della città, nuova progettualità portuale, eccetera); sia dei sub-dominanti europei (eliminazione di una quota di 10 milioni/annuo di acciaio dell’Ilva pari al 25% del taglio che la UE si è dato per affrontare la crisi e la concorrenza mondiale); sia dei pre-dominanti USA ( realizzazione del polo USA-Nato per le sue strategie nel Mediterraneo e nel Medio Oriente di contrasto alle potenze mondiali emergenti soprattutto la Russia.

I luoghi istituzionali. La UE, il governo italiano, la regione Puglia e il comune di Taranto sono i luoghi istituzionali dove saranno gestite le risorse finanziarie ( derogando al Patto di stabilità) per il rilancio di uno sviluppo dell’area tarantina nei settori della bonifica ambientale, del risanamento del territorio, della rigenerazione urbana della città, della smart city, del riuso del porto ( l’Autorità Portuale vede con favore la chiusura dell’Ilva per puntare a un riuso del porto e al superamento dell’attuale crisi sul modello di quello di Rotterdam: fare di Taranto, la Rotterdam del Mediterraneo), eccetera, in stretta collaborazione con le strategie di intervento che integrano la dimensione militare e quella civile della NATO.
I sindacati, i partiti convergeranno, per gestire la fase di passaggio dal polo siderurgico al polo NATO, le loro azioni per difendere il lavoro e la dignità della popolazione con i meccanismi di difesa sociale, ridotti all’osso, del fu stato sociale.
I lavoratori e le lavoratrici si chiederanno, come Vincenzo Buonocore dell’Ilva di Bagnoli, perché l’Ilva è stata chiusa?
La popolazione di Taranto continuerà a credere che nella società capitalistica è possibile un modo di produzione rispettoso della salute, dell’ambiente e del territorio e dorme tranquilla perché sa che ha come Presidente della Repubblica un garante intransigente della Costituzione italiana.
La sfera ideologica è già al lavoro.
Non è la marxiana storia che si ripete diventando farsa, ma è la lagrassiana storia che torna in maniera diversa.

Le citazioni che ho scelto come epigrafe sono tratte da:

 Honorè de Balzac, Lettres sur Paris;
 Karl Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, Einaudi, Torino, 1975, Libro primo, pp.922-923;
 Costanzo Preve, Il tempo della ricerca. Saggio sul moderno, il post-moderno e la fine della storia, Vangelista, Milano, 1993, pag.25.

NOTE

1. Gianfranco La Grassa, Sempre in coda al flusso reale, inconoscibile, www.conflittiestrategie.it, 22/12/2015; Giorgio Gaber-Romano Luporini, La realtà è un uccello, www.giorgiogaber.org, 1994.
2. Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma, 1974, pag.5.
3. Giuseppe Carlo Speziale, Storia militare di Taranto negli ultimi cinque secoli, Laterza, Bari, 1930, pp.7-8.
4. Ernst Cassirer, Il mito dello Stato, Longanesi, Milano, 1971; Carla Maria Fabiani, a cura di, L’origine dello Stato. Un percorso da Platone a Marx, www.ilgiardinodeipensieri.eu .
5. Gianfranco La Grassa, Gli strateghi del capitale. Una teoria del conflitto oltre Marx e Lenin, Manifestolibri, Roma, 2005; Gianfranco La Grassa, Finanza e poteri, Manifestolibri, Roma, 2008.
6. Julia Kristeva, Donne cinesi, Feltrinelli, Milano, 1974.
7. Raimondo Luraghi, Gli Stati Uniti, Utet, Torino, 1974, volume sedicesimo.
8. Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e l’origine del nostro tempo, il Saggiatore, Milano, 1996; Giovanni Arrighi, Caos e governo del mondo. Come cambiano le egemonie e gli equilibri planetari, Bruno Mondadori, Milano, 2003.
9. Vincenzo Ruggiero, Perché i potenti delinquono, Feltrinelli, Milano, 2015.
10. Umberto Santino, La mafia finanziaria. Accumulazione illegale del capitale e complesso finanziario industriale, www.centroimpastato.com ; Isaia Sales, Napoli e Marsiglia. Storie criminali urbane a confronto, Limes, n.4/2016, pp.47-59; Karl Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, Einaudi, Torino, 1975, libro primo, settima sezione, capitoli XXIII e XXIV, pp. 753-950.
10*. Svetonio, Vite dei Cesari, Rizzoli, Milano, 1982, volume secondo, pag.751.
11. Su questi temi si rimanda alla lettura critica di Ludovica Pellizzetti, Globalizzazione e spaesamento, www.micromega.net ( Filosofia-Il rasoio di Accam, 2016).
12. Louis Althusser, Montesquieu, la politica e la storia, Savelli, Roma, 1974, pag.94; si veda anche Carl Schmitt, Parlamentarismo e democrazia, Marco editore, LUNGRO di Cosenza, 1998, pp.21-49.
13. 13. Giorgio Sola, La teoria delle èlites, il Mulino, Bologna, 2000.
14. Lewis Mumford, La città nella storia, Bompiani, Milano, 1967, tre volumi.
15. Margaret Ehrenberg, La donna nella preistoria, Mondadori editore, Milano, 1992.
16. Per una buona sintesi introduttiva che parte dalla differenza dei sessi e, quindi, dalla soggettività femminile ( che include quello di classe e non viceversa), si rinvia a Cristina Carpinelli, Il processo “bloccato” di emancipazione femminile nella pratica sovietica, www.ecn.org, maggio 2005; Sheila Rowbothan, Donne, resistenza e rivoluzione. Una analisi storica per una discussione attuale, Einaudi, Torino, 1976; Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale, Rivolta Femminile, Milano, 1974.
17. Perry Anderson ed altri, a cura di, Storia d’Europa, Einaudi, Torino, 1993, volume primo; Ludwig Dehio, Equilibrio o egemonia. Considerazioni sopra un problema fondamentale della storia politica moderna, il Mulino, Bologna, 1988.
18. Giovanni Arrighi, Caos.., op.cit.
19. Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, Volume III, quaderno 22, Einaudi, Torino, 1975, pp.2139-2181.
20. Carl Scmitt, Terra e mare, Adelphi, Milano, 2006.
21. Luca Veronese, Nato, torna a crescere (dopo 10 anni) la spesa militare dei Paesi europei in il Sole 24 Ore del 31/5/2016.
22. Matteo Luca Andriola, Il trattato di Valsen e l’Eurogendfor, www.comunismoecomunita.org, 13 marzo 2014.
23. Giovanni B. Teràn, La nascita dell’America spagnuola in Leonardo Benevolo e Sergio Romano, a cura di, La città europea fuori d’Europa, Libri Scheiwiller, Credito Italiano, Verona, 1998, pag.79; Fernand Braudel, Le strutture del quotidiano. Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII), Einaudi, Torino, 1982, volume primo.
24. Commissione della Comunità Europee, Libro Verde sulla coesione territoriale. Fare della diversità territoriale un punto di forza, www.europa.eu, 6/10/2008, pp-3-5.
25. David Harvey, Città ribelli, il Saggiatore, Milano, 2013; Mike Davis, Il pianeta degli slums, Feltrinelli, Milano, 2006; Alessandro Petti, Arcipelaghi e enclave. Architettura dell’ordinamento spaziale contemporaneo, Bruno Mondadori, Milano, 2007.
26. Giorgio Nebbia, L’acciaieria non è un salotto, www.ecologiapolitica.org, luglio 2013.
27. Giulio Maccacaro, Per una medicina da rinnovare, scritti 1966-1976, Feltrinelli, Milano, pag. 314.
28. Intervento del Ministro dello sviluppo economico alla Camera dei Deputati del 4 giugno 2013, seduta n.28, www.camera.it
29. Antonio Tajani, Piano d’Azione Acciaio, conferenza stampa, Strasburgo, giugno 2013, www.europa.eu
30. Per una verifica quantitativa (da valutare con un approccio critico), completa della grave crisi dell’Ilva di Taranto, rimando all’articolo di impronta economicistica di Paolo Bricco (storico e giornalista del “Sole-24 Ore”), Ilva, Taranto un caso paradigmatico in “il Mulino” n.1/2016 e al modello econometrico dello Svimez, commissionato dal “Sole-24 Ore”, per valutare l’impatto della vicenda Ilva sul sistema industriale del Paese: per una sintesi in Paolo Bricco, La crisi dell’Ilva è costata 10 miliardi in “Il Sole-24 Ore” del 23/05/2016.
[1] La coda di Gianfranco La Grassa o la realtà è più avanti di Giorgio Gaber o di mia nonna, Ripalta Montano, che diceva che non voleva morire perché non aveva ancora capito tante cose della vita ( significativo perché detto da una donna che aveva attraversato due guerre mondiali. Detto senza parafrasi il senso della realtà delle donne è più avanti).
[2] I casi di studi sono da individuare all’interno delle sfere sociali ( economica, politica, militare, istituzionale, eccetera) che nelle determinate fasi storiche mondiali ( monocentrica, multipolare e policentrica) assumono un ruolo determinante in relazioni alle altre sfere sociali. Cioè sono i fasci di luce che illuminano la sfera sociale complessiva.
[3] Riporto una considerazione dello storico Carlo Maria Cipolla: il punto di vista fu sempre universale, l’occhio spaziò sempre oltre i confini della parrocchia per capire meglio il fenomeno locale nel più ampio tessuto europeo e per arricchire il fenomeno generale con l’apporto dell’esperienza locale.
D’altronde l’impostazione seguita da Karl Marx nel Capitale non coniugava la delineazione teorica della logica di sviluppo del capitale con le indagini empiriche sul modo di produzione capitalistico.
[4] […] In quanto la Cina mi sembra essere la sola grande civiltà che si è sviluppata al di fuori del pensiero europeo. Al di fuori della nostra lingua, la grande lingua indoeuropea, e allo stesso tempo al di fuori della nostra storia, almeno fino a un’epoca relativamente recente, fino al XVII secolo e addirittura, di fatto, fino al XIX secolo. Il vantaggio teorico di passare per la Cina è rappresentato dal fatto che essa offre un altrove distante dai nostri punti di vista di riferimento. Se si cerca un’esteriorità della lingua, non la si potrà infatti trovare in India, visto che il sanscrito appartiene alla famiglia delle lingue indoeuropee. Allo stesso modo, se si cerca un’esteriorità nella storia, non la si potrà rintracciare nel mondo arabo o ebraico, legati da mille fili alla storia dell’Occidente. Per chi intenda uscire dal pensiero europeo, volgendosi tuttavia verso un mondo ugualmente elaborato, civilizzato, testualizzato, come il nostro in Europa, non c’è che la Cina. [ Francois Jullien, Pensare l’efficacia in Cina e in Occidente, Laterza, Roma-Bari, 2006, pp.3-4]
[5] [ …] nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta/ struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezza e di casematte; più o meno, da Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto domandava un’accurata ricognizione di carattere nazionale[…] in Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Volume II, Einaudi, Torino, 1975, quaderno n.7, pag.866.
[6] Kevin Spacey (l’Underwood di House of Cards, gli intrighi del potere) ha affermato in una recente intervista che il suo personaggio si ispira al Riccardo III di Shakespeare ed è molto vicino alla realtà; anzi molte volte la realtà ci supera ancora. House of Cards è una serie televisiva statunitense sugli atroci meccanismi di potere nelle relazioni umane sessuate svolte principalmente nelle istituzioni USA ( Partito democratico, Camera, Congresso, eccetera). L’intervista è apparsa su “il Giornale” del 12/4/2016.
[7] E’ illuminante la scena del film ( La banda degli Onesti, 1956) nel dialogo tra Antonio (Totò) e Giuseppe (Peppino De Filippo) nel quale viene spiegato il ruolo del capitalista, del profittatore, dello speculatore, dei vari ragionieri Casoria (corrotti e prepotenti) che rasentano il codice penale ma non incappano dentro.
[8] Bertolt Brecht, L’opera da tre soldi in Teatro, Volume I, Einaudi, Torino, 1978, pp.412-513. Si veda il ruolo avuto dai derivati “tossici” nello scoppio della crisi finanziaria del 2008 e il ruolo delle società Offshore e delle strutture fiduciarie nel gioco tra legalità e illegalità in Amaru Barahona, Legalità ed illegalità economica nel capitalismo neoliberista in www.controinformazione.info del 19 aprile 2016.
[9] Il fine è il dominio non il profitto: Karl Marx la chiama “smania di dominio del capitale”.
[10] Lo spazio naturale assume valore antropologico, diventa un territorio. L’insieme degli interventi trasformativi che assicurano il passaggio dallo spazio al territorio si chiama territorializzazione. La mia definizione è: lo spazio naturale è uno spazio bianco, vuoto dove le trasformazioni territoriali sono peculiari al modo di produzione e riproduzione dei rapporti sociali dati. La società a modo di produzione capitalistico ( conscio di un significato insufficiente di questo concetto) vede e tratta il territorio come uno spazio vuoto, bianco su cui è possibile intervenire in modo illimitato e irrispettoso. Il territorio, invece, diventa quella territorialità che rispetta lo spazio dato secondo e seguendo le leggi della natura. Per rispettare le leggi della natura e le relazioni sociali, i rapporti sociali devono diventare altro.
La territorialità è l’innervamento di una cultura di una nazione e di una cultura della natura ( animata ed inanimata).
[11] Penso al processo storico di costruzione della Costituzione italiana e allo scarto con la realtà materiale dei rapporti sociali ( la farsa dei diritti e doveri tra rapporti sociali asimmetrici). Forse fu in questa fase che si preparò il lungo cammino che portò il PCI ad abbandonare il blocco dell’URSS e a portarlo nel campo occidentale ad egemonia USA. Il ruolo svolto da Giorgio Napolitano e da Enrico Berlinguer era agevolato da questo cammino storico. L’implosione dell’URSS ha permesso la visibilità di tale passaggio.
[12] Il potere-dominio definisce cos’è la democrazia che non è assolutamente la partecipazione e la decisione della maggioranza della popolazione alle scelte delle relazioni sociali e dei rapporti sociali che determinano l’insieme della vita sociale, si veda: Noam Chomsky, Capire il potere, Marco Tropea editore, 2008; Costanzo Preve, Il popolo al potere. Il problema della democrazia nei suoi aspetti storici e filosofici, Arianna editrice, Casalecchio (BO), 2006; Luciano Canfora, Intervista sul potere, Laterza editore, Bari-Roma, 2013; Anonimo ateniese, la democrazia come violenza, Sellerio editore, Palermo, 1982. Preciso che lo stesso Noam Chomsky definisce gli USA, nazione democratica per eccellenza, una nazione con una popolazione spoliticizzata, fortemente religiosa e profondamente ignorante.
[13] Lo Stato, con le sue articolazioni e i suoi luoghi, non è separato, non è uno strumento tecnico-meccanico, ma è parte del conflitto. L’ideologia lo rende separato, non la realtà. Gli agenti strategici dominanti gestiscono il dominio tramite lo Stato che è sempre difficile da svelare e destrutturare. Senza lo strumento Stato non si realizza il potere e il dominio. Il potere ha bisogno dello Stato per essere dominante ed egemonico. Sviluppa e costruisce funzioni e ruoli nei rapporti sociali. Funzioni e ruoli importanti per le strategie conflittuali tra gli agenti strategici dominanti e tra questi e i gruppi sociali, che formano la popolazione, dominati. Quindi lo Stato non è esterno ai rapporti sociali e ai conflitti tra dominanti e tra dominanti e dominati, ma è interno, è luogo per eccellenza per affermare il dominio degli agenti strategici egemonici. La trasformazione profonda dei suoi apparati, alcuni possono essere eliminati, altri creati, tutti possono essere cambiati o rivoluzionati, non significa la soppressione delle “regole del gioco”. Ho iniziato a ragionare su questa ipotesi dello Stato a partire dalla lettura del saggio di Gianfranco La Grassa, Impresa e Stato. Poli complementari della struttura capitalistica in Edoardo De Marchi, Gianfranco La Grassa, Maria Turchetto, Oltre il fordismo. Continuità e trasformazioni nel capitalismo contemporaneo, Edizioni Unicopli, Milano, 1999, pp.38-98.
[14] Le sfere sociali sono astrazioni che ci costruiamo per interpretare la realtà che sta sempre avanti. Le sfere sociali possono essere diverse a seconda delle ipotesi di ragionamento per costruire il campo di stabilità. Per esempio Gianfranco La Grassa ne utilizza tre (politica, economica, culturale) David Harvey ne utilizza sette, eccetera. Nelle sfere sociali è ipotizzabile parlare di potere non di dominio.
[15] Per analogia sulla dinamicità dell’equilibrio degli agenti strategici dominanti, riporto la descrizione del fisico Francesco Sylos Labini sull’equilibrio dei sistemi fisici << […] Da più di cinquant’anni, infatti, si conoscono e si studiano sistemi fisici complessi per i quali, anche se uno stato di equilibrio stabile esiste in teoria, esso può essere totalmente irrilevante in pratica, perché il tempo per raggiungerlo è troppo lungo. Altrimenti vi sono sistemi che sono intrinsecamente fragili rispetto all’azione di piccole perturbazioni, evolvendo in modo intermittente con un susseguirsi di epoche stabili intervallate da cambiamenti rapidi e imprevedibili. In altre parole, per molti sistemi fisici l’equilibrio stabile non è una condizione raggiunta in maniera naturale: diversi sistemi raggiungono invece una situazione di metastabilità e non un vero e proprio equilibrio, come quello di un gas in una stanza isolata o di una pallina in fondo a una valle, cioè una situazione di temporanea stazionarietà ma di potenziale instabilità, tanto che è sufficiente una piccola perturbazione per causare grandi effetti. Come succede quando, per esempio, si accumula l’energia potenziale per effetto del moto relativo di due faglie tettoniche. Questa energia, quando supera una certa soglia critica, sarà a un certo punto rilasciata sotto forma di onde sismiche e cioè ci sarà un terremoto: la dinamica dei terremoti è dunque rappresentata da periodi di apparente quiete in cui il sistema si carica e terremoti improvvisi (ciclici e non periodici) in cui l’energia accumulata è rilasciata […] >> in L’economia neoclassica? Una pseudoscienza. Conversazione con Francesco Sylos Labini a cura di Francesco Suman e Olmo Viola in www.micromega.it, 20/6/2016. Si veda anche l’interessante libro di Francesco Sylos Labini, Rischio e previsione. Cosa può dirci la scienza sulla crisi, Editori Laterza, Roma-Bari, 2016.

[16] Un esempio tratto da Honorè de Balzac ( La cugina Bette, scritto nel 1846, edito da Newton & Compton Editori, Roma,1994) per illustrare la fase di gestione del potere attraverso le istituzioni: << Il barone Hulot, braccio destro di Napoleone, invia lo zio Johann Fischer in Algeria per << Fornire i viveri della guerra, grani e foraggi; ho il vostro contratto firmato. Troverete nel paese il necessario al settanta per cento in meno del prezzo al quale vi si terrà conto…quanto alla riscossione delle imposte, la vostra probità non ne soffrirà; tutto dipende dalle autorità, e sono io che ho insediato laggiù le autorità: sono sicuro di loro…Le scorrerie, l’achour, i califfati. Vi è in Algeria ( paese poco conosciuto, anche se siamo da otto anni) una grandissima quantità di grano e di foraggi. Ora, quando queste derrate appartengono agli arabi, noi, con mille pretesti, cerchiamo di prenderle; poi quando sono nostre gli arabi tentano di riprendercele. Si combatte per il grano; ma non si sa di preciso le quantità che si sono rubate a vicenda. Non si ha il tempo, in aperta campagna di contare le staie di grano come alla Halle [ mercato coperto parigino, mia precisazione], e il fieno come in rue de l’Enfer [ mercato all’aperto, mia precisazione]. Tanto i capi arabi quando i nostri spahis [ brigate coloniali francesi montate a cavallo in Algeria, mia precisazione], preferiscono il denaro e vendono quelle derrate a un prezzo bassissimo. L’amministrazione della guerra ha dei bisogni fissi: passa i contratti a dei prezzi esorbitanti, calcolati sulla difficoltà di procurarsi i viveri e sui pericoli corsi dai trasporti. E’ un pasticcio temperato dalla bottiglia di inchiostro di una qualunque amministrazione nascente. Non potremo vederci chiaro che fra una decina d’anni, noi amministratori, ma i privati hanno buoni occhi. Dunque vi mando per farvi fortuna; vi metto, come Napoleone metteva un maresciallo povero alla testa d’un regno dove si poteva segretamente proteggere il contrabbando.>> [ pp 232-233].
[17] La volontà di potenza e volontà di dominio, con i relativi rapporti di dipendenza, sono il fine delle relazioni sociali della società data. Ciò significa che il profitto della società a modo di produzione capitalistico è un mezzo e non il fine che resta la volontà di dominio che è intrecciata alla analisi delle fonti del potere che non necessariamente hanno a che fare con la sfera economica.
[18] La civiltà occidentale e gli stati moderni nascono, ci tocca ricordarlo con Freud e Hobbes, da un patto tra uomini violenti, che si emancipano dall’autorità paterna e se ne spartiscono l’eredità escludendo le donne dalla vita pubblica e sottomettendole in quella privata. Nel corso della modernità, la libertà non è stata regalata alle donne dalla civiltà occidentale: sono le donne ad averla conquistata con le loro lotte anche contro la civiltà occidentale ( Ida Dominijanni, Speculum, l’altro uomo. 8 punti sullo spettro di Colonia in www.internazionale.it, 3 febbraio 2016.
[19] Costanzo Preve sosteneva che <<. […] Americanismo non significa assolutamente sostenere sempre servilmente tutto ciò che di volta in volta decidono di fare i governi americani. Il vero americanismo, anzi, consiste nel consigliare all’imperatore cosa dovrebbe fare per essere più amato dai sudditi, più multilaterale, meno unilaterale, ed in genere più portatore di un soft power. Il vero americanista consiglia di chiudere Guantanamo, di scoraggiare il Ku Klux Klan, di eleggere al comando il numero maggiore possibile di neri, donne, gay, eccetera. Il vero americanista vuole potersi riconoscere nella potenza imperiale che occupa il suo paese con basi militari e depositi di bombe atomiche a distanza di decenni dalla fine della seconda guerra mondiale (1945) e dalla dissoluzione di ogni patto militare “comunista” (1991). Il vero americanista vuole essere suddito di un impero buono, e pertanto gli spiace che l’impero a volte sia cattivo ed esageri. Massacrando l’Iraq l’impero non ha commesso un crimine, ma un errore. L’americanista utilizza due registri linguistici ed assiologici diversi, il codice del crimine ed il codice dell’errore. Tutti possiamo commettere errori, che diamine! Hitler, Mussolini, i giapponesi, i comunisti, Milosevic, Mugabe, la giunta militare del Myanmar, i talebani, eccetera, hanno commesso e commettono crimini. Churchill che massacra i curdi e gli indiani, Truman che getta la bomba atomica ad Hiroshima, Bush che invade l’Iraq nel 2003, commettono solo spiacevoli errori. L’americanista accusa di anti-americanismo tutti coloro che affermano che gli USA si comportano come un impero, e non dovrebbero farlo, e comportarsi invece come un normale stato-nazione, affidando il mondo ad un equilibrio fra le potenze, senza velleità messianiche imperiali. Qui l’americanista raggiunge il massimo della cialtroneria, perché accusa di anti-americanismo paradossalmente la stessa cultura americana, che afferma a chiare lettere di essere un impero, di voler essere un impero e di voler continuare ad essere un impero, e non è affatto disposta a rinunciare a questo eccezionalismo messianico […] >> in Costanzo Preve, Contro “il politicamente corretto”, www.petiteplaisance.it, 2010.
[20] Generalmente, il caos è il disordine esistente tra l’ultimo ordine di cui si è a conoscenza e l’ordine futuro ancora da realizzarsi. E’ una fase pericolosa e incerta, nella quale ogni elemento di solidità sembra sgretolarsi (Sun Tzu, L’arte della guerra, Mondadori, Milano, 2003).
[21] Claudio Mutti così analizza << Brzezinski ritiene che gli Stati Uniti debbano balcanizzare lo spazio compreso tra Nordafrica e Asia Centrale, se vogliono impedire il consolidamento della grande alleanza tra Russia, Cina e Iran, alleanza che presidierebbe il continente eurasiatico e ridimensionerebbe in maniera decisiva la potenza statunitense. Brzezinski formula la seguente ipotesi: “Se lo Spazio Centrale [“the middle space“, lo Spazio di Mezzo del continente eurasiatico] respinge l’Occidente, diventa un’unica imperiosa entità [an assertive single entity] ed acquisisce il controllo sul Sud o stabilisce un’alleanza col grande protagonista orientale [“the major Eastern actor“, ossia con la Cina], allora il primato dell’America in Eurasia crollerà in maniera drammatica. Avverrebbe la stessa cosa – aggiunge Brzezinski – se i due protagonisti orientali dovessero in qualche modo unirsi”. In altre parole: se la Federazione Russa riuscisse a respingere ed a far indietreggiare l’avanzata dell’Alleanza Atlantica e cercasse di riorganizzare lo spazio ex sovietico secondo una qualche forma di confederazione o di blocco sopranazionale, guadagnando influenza nel Vicino Oriente o stabilendo un’alleanza con la Repubblica Popolare Cinese, allora l’influenza di Washington in Eurasia verrebbe definitivamente eliminata. Ora, è chiaro che lo “Spazio Centrale”, la Russia, sta recuperando il peso geopolitico che aveva perduto col crollo dell’Unione Sovietica. Non solo, ma lo “Spazio Centrale” (la Russia) e il “Paese di Mezzo” (Zhongguo, la Cina) hanno coordinato da tempo le loro forze. Ciò è avvenuto già prima che si formasse l’Unione Eurasiatica. Alla fine degli anni Novanta la Federazione Russa e una parte dello spazio postsovietico cominciarono a stabilire con la Cina un’intesa che ha prodotto l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai e il coordinamento strategico di Pechino con Mosca al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Il grande accordo russo-cinese del gas naturale non è se non un risultato di questa alleanza fra lo “Spazio Centrale” e il “Paese di Mezzo”>>. Claudi Mutti, Eurasia o euro babele in www.eurasia-rivista.org del 5/4/2006.
[22] Qui viene esposta una sintesi aggiornata dei miei due scritti apparsi su www.conflittiestrategie.it : 1. L’Ilva di Taranto. Dalla Trappola del capitale/lavoro e capitale/ambiente al conflitto strategico (2012), 2. Taranto: da polo siderurgico a polo strategico della Nato (2013).
[23] Nelle fasi della storia mondiale (monocentrica, multipolare e policentrica) si costruiscono le nuove geografie della centralità e della marginalità in cui si collocano luoghi destinati ad emergere e altri a rimanere sullo sfondo del tumultuoso processo di “rivoluzione urbana” mondiale.
[24] Altra infrastruttura in progetto è la piastra logistica per le strategie USA-NATO di Grottaglie ( 23 km da Taranto) con l’utilizzo di Droni con una compressione di tempo e spazio impressionante: si parla di 100 minuti da Los Angeles a Roma attraverso un corridoio nella stratosfera [Programma Ente Nazionale per l’Aviazione Civile (Enac)-USA]. Gli USA-NATO hanno bisogno di piastre logistiche per favorire gli spostamenti veloci nel Mediterraneo e nel Medio Oriente in funzione anti Russia e Cina. Ufficialmente i droni servono per il trasporto di merci.
[25] Ad oggi è da svelare l’intreccio e il conflitto tra i seguenti attori: Comune, Commissario, Governo, Cassa Depositi e Prestiti (Fintecna ex Italsider) e Caltagirone per la bonifica di Bagnoli. La bonifica è il cavallo di Troia per far passare le diverse strategie di intervento che si confrontano nell’intreccio tra pubblico e privato.
[26] Per approfondimenti rinvio al mio scritto, L’americanizzazione del territorio (2014) apparso suwww.conflittiestrategie.it
[27] Sul senso del potere politico e militare dell’occupazione del territorio europeo da parte degli USA attraverso le proprie basi militari e quelle della Nato, si veda l’intervista ad Alexander Dugin, L’occupazione è occupazione, 29/01/2014, www.millennium.org.
[28] Sull’attenzione e sulle problematiche che si aprono nel considerare l’intervento dell’esercito nelle meghe città mondiali si rimanda all’articolo sul dibattito militare negli USA in Federico Petroni, L’esercito degli Stati Uniti alla sfida delle giungle urbane in Limes n.4/2016, pp.245-252.
[29] Il mio scritto,Tav, Corridoio V, Nato e USA. Dalla critica dell’economia politica al conflitto strategico,www.conflittiestrategie.it ,2012.
[30] E’ irritante l’atteggiamento delle Istituzioni europee ( Commissione UE, Consiglio d’Europa) che, formalmente emanano le direttive contro le emissioni industriali, ma di fatto garantiscono alle grandi aziende dell’acciaio la piena libertà di produzione. Aggirano con vari tecnicismi quelle stesse direttive emanate in difesa della salute delle popolazioni, dell’ambiente, delle città e del territorio. E’ evidente che le grandi aziende per utilizzare le loro strategie di aggiramento delle varie direttive europee hanno il loro peso politico, le loro alleanze strategiche, le loro protezioni statali. E, allora, si ripresenta la solita domanda: perché solo all’Ilva di Taranto le istituzioni europee impongono le loro direttive? Sul non rispetto delle direttive europee sulle emissioni industriali si veda Stefano Valentino, L’Europa dal 2012 ha autorizzato le acciaierie a “risparmiare” sui dispositivi contro le polveri sottili, www.lastampa.it, 1 luglio 2016.
[31] Ancora oggi la UE continua a pressare in questa direzione con lo strumento dell’associazionismo ambientalista e pacifista locale.

GLOBALIZZAZIONE E STATI NAZIONALI

Globalizzazione e stati nazionali, di Giuseppe Germinario

globalizzazione

PROLOGO

Questo intervento si prefigge di approfondire due tematiche: di tracciare approssimativamente le basi teoriche ed evidenziare i limiti di analisi e la sterilità dell’azione politica derivata da una di una di esse, la globalizzazione; di evidenziare, al contrario, la persistente vitalità di quello strumento e luogo di azione politica che è lo Stato e più in generale di sottolineare, forse sarebbe più corretto dire tentare di sottolineare alcune delle potenzialità offerte dalla teoria del conflitto tra agenti strategici; una chiave di lettura che consente analisi più complesse ed efficaci dei contesti e potrebbe offrire strumenti idonei a comprendere nei vari ambiti le dinamiche e le logiche di conflitto tra centri strategici e a individuare alcuni dei luoghi e delle modalità di formazione di nuovi agenti

LA GLOBALIZZAZIONE

Il tema della globalizzazione (G) comincia ad affiorare dagli ambienti accademici negli anni ’80. I progressi tecnologici, una vera e propria rivoluzione, sono i fattori scatenanti questa rappresentazione; l’implosione del sistema sovietico, il conseguente crollo del sistema bipolare e la permanenza degli Stati Uniti come unica virtuale superpotenza regolatrice ne sanciscono la primazia nel dibattito e confronto politico e nella analisi teorica. Poggia quindi su un contesto politico inedito per le dimensioni dello scenario e la profondità del processo, anche se, inteso più limitativamente come internazionalizzazione, è una situazione che in realtà si verifica ciclicamente nella storia
Il processo di G implica una azione significativa sulle dimensioni del tempo e dello spazio. Il tempo di azione necessario all’azione tende ad azzerarsi; lo spazio operativo e di influenza degli attori tende invece ad estendersi all’intero pianeta. La detenzione e la capacità politica di sviluppo e utilizzo degli strumenti tecnologici moderni sono la condizione propedeutica indispensabile ad una azione efficace nelle due dimensioni.
Il processo di G consiste in un decisivo incremento delle correlazioni, delle interrelazioni, degli scambi, dei flussi di dati, prestazioni e merci su scala planetaria e tendenzialmente, almeno nelle interpretazioni primigenie senza la limitazione di particolari zone di influenza. Le decisioni politiche strategiche tendono quindi ad avere una valenza planetaria e il multilateralismo rappresenta la modalità di azione ideale a garantire la definitiva affermazione di tale processo. Il processo di G riguarda quindi l’ambito culturale, il sistema informativo e di trasmissioni dati, l’ambito economico, la ricerca scientifica e l’applicazione tecnologica e in maniera più controversa le rappresentazioni ideologiche e l’azione politica
La rappresentazione del processo di G offre due scenari guida principali con numerose varianti e gradazioni al loro interno:
Quello di impronta liberale-liberista. Un sistema reticolare i cui punti sono in grado di connettersi potenzialmente con tutti gli altri attraverso gli snodi senza particolari gerarchie o percorsi obbligati da terzi, specie politici. Il funzionamento ottimale del sistema prevede la presenza debole del sistema politico e dei suoi decisori, limitata per lo più alla regolamentazione esterna dell’insieme; i luoghi e gli strumenti operativi sono gli istituti sovranazionali sotto la supervisione e regolamentazione dei quali i singoli attori, in particolare gli stati, possono interagire tra loro; il criterio operativo diviene appunto il multilateralismo, il quale prevede la possibilità di relazione tra gli stati non strutturati in blocchi, sfere di influenza e alleanze predefinite ma all’interno di strutture e nel rispetto delle linee guida dettate dalle istituzioni internazionali. Parte integrante dello schema liberale, con alterne fortune, attualmente però in declino è la sua variabile progressista, ancora ostinatamente radicata nella sinistra con le seguenti linee guida: il rapporto tra attività politica ed attività economica è efficace e proficuo solo se le dimensioni delle istituzioni politiche corrispondono a quelle del mercato o siano almeno tali da poterne influenzare o regolamentare le dinamiche; attualmente la divaricazione tra il mercato globale e le istituzioni politiche troppo limitate territorialmente impedirebbero il controllo e l’indirizzo dei circuiti economici nonché la formazione di una società civile corrispondente alle dimensioni del mercato in grado di costruire formazioni politiche adeguate. Si assisterebbe quindi al primato assoluto dell’economico sul politico, al meglio ad una sorta di convivenza parallela tra i due ambiti. L’obbiettivo, in realtà l’aspirazione, diventerebbe quindi la “governance” e possibilmente l’istituzione del governo mondiale. Tra gli ispiratori più in auge di tale concezione, ma con un ascendente in declino, troviamo Habermas il quale in particolare individua nella storia una chiara tendenza alla giuridificazione dei rapporti umani e politici tra i paesi a scapito dell’uso diretto della violenza; la detta giuridificazione trae alimento dal riconoscimento di legittimità fondato attraverso la formazione di un “mondo vitale” comune imperniato su un linguaggio, un patrimonio culturale e valori comprensibili e condivisi tendenzialmente da tutti; l’insieme dell’attività degli uomini, con la significativa eccezione di quella economica, categoricamente separata dall’autore, è impregnata da questa prassi discorsiva. In realtà Habermas si rende conto del carattere utopico e larvatamente totalitario, nella fase conclusiva, della propria visione proprio perché tende a ridurre al mero diritto l’intero ambito d’azione del politico e questo all’azione dello Stato. Il rischio consisterebbe nel favorire il predominio per via istituzionale di una cerchia tecnocratica analoga a quella che prevarrebbe grazie all’attuale predominio dell’economico. La “soluzione” individuata da Habermas consiste nella formazione di istituti di governo mondiale laschi fondati sui principi minimi comuni presenti nelle grandi rappresentazioni ideologiche e morali prevalenti, in particolare le religioni.
Quello di impronta sistemica. Anche questo un sistema reticolare, ma diretto ed egemonizzato da un centro di comando particolare (er i puù la grande finanza) oppure da un sistema centralizzato e pervasivo (il capitalismo). La scuola degli Annales, a partire da Braudel per arrivare a Wallerstein e tanti altri, ha inaugurato uno dei filoni originari da cui traggono alimento queste concezioni. Secondo costoro la storia si sviluppa per cicli di varia estensione a loro volta all’interno di cicli di lunga durata (cicli di Kondratief) inframezzati da fasi di transizione; ad ogni ciclo di lunga durata corrisponde l’affermazione di particolari sistemi-mondo, di sistemi interconnessi, dotati di centro e periferia con particolari regole interne di funzionamento in grado di garantire stabilità, efficacia e continuità. In passato i sistemi mondo erano costituiti da imperi e dal predominio del politico e della funzione diretta di comando, di controllo e di esercizio della forza nel conflitto. L’ultimo sistema-mondo caratterizzante l’epoca moderna, è in realtà una economia-mondo; un mercato tendenzialmente globale dominato dal capitalismo all’interno del quale la dimensione politica assume il carattere di una funzione egemonica piuttosto che di esercizio diretto di decisione e comando. La finalità del capitalismo, però, si riduce al profitto e all’accumulazione. Il capitalismo deve la propria esistenza e la propria fortuna al regime di oligopolio sui prodotti di punta coltivati nel centro del sistema e sullo sfruttamento conseguente dei prodotti concorrenziali predominanti invece nella periferia. I centri del sistema si avvicendano seguendo la capacità di detenzione dei prodotti di punta; cercano di contrastare il proprio declino ed il proprio collasso legato alla crescita dei costi di produzione attingendo dal serbatoio delle masse contadine per altro ormai in via di esaurimento e cercando di eludere i costi sociali, infrastrutturali e ambientali delle proprie attività ma con crescente difficoltà. La pretesa prioritaria del “capitalismo” rivolta al Politico è quella di alimentare quella frammentazione degli Stati tale da consentire di sfuggire al loro eventuale stretto controllo; l’impegno subordinato degli Stati consiste nel conquistare la posizione egemonica centrale garantendosi l’allocazione ed il controllo delle produzioni oligopolistiche rispetto alle posizioni periferiche e semiperiferiche, queste ultime le più impegnate nelle posizioni precarie e acute di conflitto. Come in a), anche in b) si ramificano dallo schema originario numerosi varianti (Baumann, Negri, Badie e tanti altri ancora ben inseriti nel mondo accademico anglosassone anche se in funzione ancillare rispetto alla componente ben più autorevole del “realismo politico”) le quali esercitano ancora una potente influenza sui fatui fuochi di opposizione movimentista planetaria che qua e là si accendono improvvisamente.

LE INCONGRUENZE DI QUESTE RAPPRESENTAZIONI

Più volte abbiamo denunciato la sterilità e la inadeguatezza di queste rappresentazioni. Le incongruenze di queste rappresentazioni riguardano rispettivamente il merito del processo di globalizzazione, la sua immagine sacralizzata e assolutizzata che obnubilano le diverse e diseguali dinamiche interne, l’attribuzione di una intelligenza e volontà proprie ai sistemi reticolari e alla relazione piuttosto che agli agenti operanti in quelli; ineriscono in particolare la riduzione al dominio dell’economico o al meglio degli agenti economici sugli altri ambiti delle diverse possibilità di relazione e influenza tra gli ambiti vari dell’attività umana con il ruolo connettivo e dinamico del politico secondo i vari contesti, alla separazione dell’azione politica rispetto agli altri ambiti di attività, la riduzione dell’attività politica stessa all’attività statale e nell’ambito dello stato, il disconoscimento e il travisamento della funzione dei centri strategici e delle dinamiche del conflitto e della cooperazione tra di essi. Tutti ambiti sui quali il professor La Grassa ha offerto spunti e chiavi di interpretazione tali da poter sviluppare proficuamente il lavoro di ricerca teorica ed analisi politica.

Le conseguenze di queste discrasie sono particolarmente pesanti e influiscono negativamente nell’azione politica.

Comincio dalle incongruenze:

La G non è un processo che investe uniformemente tutti gli ambiti. Vi sono settori investiti più pesantemente (parte del finanziario, trasmissione e gestione dei dati), altri con minore intensità; nemmeno investe uniformemente i territori ed i paesi; le limitazioni sono presenti spesso e volentieri anche negli stessi paesi centrali paladini della libera circolazione. La stessa intensità del processo è sovrastimata dalla ulteriore frammentazione politica del pianeta e dal cambiamento di regime economico di gran parte dei paesi del blocco sovietico, fattori che ad esempio hanno trasformato in internazionali gli scambi economici interni ai paesi originari e alle unità produttive stesse. In realtà si parte da un presupposto invece tutto da dimostrare (stati in dissolvimento e/o ridotti a mero strumento del capitale e delle sue esigenze di accumulazione e profitto), si individua l’ambito di maggior evidenza come dominus e regolatore esclusivo del sistema (finanza), capaci di autoalimentare potere e ricchezza addirittura senza rapporto con i poveri e i diseredati nella versione estrema (Baumann). La conseguenza è che il conflitto diventa planetario ma riguarda la semplice redistribuzione tra l’1% della popolazione ed il restante ridotto a plebe nella rappresentazione più estrema, tutt’al più nella versione più “novecentesca” tra capitale e sfruttati questi ultimi a loro volta uniti nella rivendicazione contestuale di diritti sociali classici e dei diritti civili ed individuali (Wallerstein). Il ruolo degli Stati non è più centrale, ridotti come sono a meri esecutori e agenti di repressione e spesso nella condizione di ostaggi del mondo finanziario. In sostanza l’aspetto e il punto di vista economico, in particolare quello distributivo e commerciale, pervadono tutti gli ambiti, da quello politico (denaro corruttore) a quello ideologico-esistenziale (consumismo, l’alienazione). Tutte chiavi di interpretazione che tanto semplificano indubbiamente le analisi quanto distorcono e rendono sterili e subordinati i propositi di opposizione riducendoli spesso a denunce moralistiche e rivendicazioni dogmatiche o fuorvianti.

La rappresentazione reticolare, nel suo aspetto più appariscente, offre una visione di flussi frenetici secondo una logica propria e autonoma, praticamente spontanea, di quella trama; al sistema e alla rete di relazioni vengono attribuite una volontà ed una intelligenza proprie dal sapore spesso deterministico. Tale rappresentazione nasconde in realtà la valenza della gerarchia degli snodi dove i flussi si incrociano, si mischiano e si scontrano e soprattutto l’elemento fondamentale che gli impulsi partono da agenti e da loro gruppi di diverso peso e composizione presenti nella trama in rapporto non univoco tra di essi

L’azione politica anziché essere pervasiva a determinate condizioni dei vari ambiti dell’azione, subisce di conseguenza una sorta di dissociazione e separazione dal contesto. Da una parte, dalle componenti politiche apertamente integrate nel sistema viene relegata negli ambienti e nelle dinamiche istituzionali, per lo più rappresentative o al meglio di solo governo ma svuotate in realtà sempre più di potere e di competenze; dall’altra assume nella sua componente radicale connotati esistenziali che investono la salvaguardia della natura umana oppure la sua mera riduzione ed alienazione ad un unico aspetto (economico, consumistico). In pratica lo scontro politico si riduce al conflitto assoluto tra bene e male, alla salvaguardia o meno dell’integrità della natura umana. I soggetti in opposizione si riducono a pletore e masse indistinte dai bisogni insoddisfatti.

COME DON CHISCIOTTE. UNO SPRECO IMMANE DI ENERGIE

Le rappresentazioni così enunciate inibiscono una comprensione adeguata del contesto, conducono ad una sottovalutazione della complessità dei sistemi, della identità, della natura e della capacità operativa e attrattiva dei decisori dominanti, delle motivazioni complesse della loro azione politica e al contrario ad una sopravvalutazione moralistica della forza degli oppositori e dei centri minori in conflitto e competizione. Con esse si tende ad ignorare la complessità delle stratificazioni sociali e geopolitiche e l’effettiva forza ed omogeneità delle forze interagenti e in contrapposizione.

In particolare:

il dominio occidentale viene assimilato al dominio capitalistico e quest’ultimo surrettiziamente al dominio finanziario. Una rappresentazione resa verosimile dalla attuale fase di approssimativo dominio unipolare pur in degrado, laddove lo strumento militare esercita soprattutto una pressione latente e la gerarchia degli stati e la progressiva disgregazione o assoggettamento di quelli autonomi più deboli può offrire una parvenza di sistema unico nel quale il dominio politico rimane in ombra e sembra concedere a forze più appariscenti, più mobili e liquide (finanza, ect) quel predominio cui contrapporre masse informi o richiedenti al meglio una costellazione di diritti. L’emergere di centri politici alternativi e progressivamente contrapposti al dominante, radicati in alcuni stati emergenti ha infatti disorientato la leadership della contestazione mondialista al dominio mondialista. Da una parte questa li assimila forzatamente ai dominanti storici denunciandone la collusione e la condivisione di interessi e di dominio. Un’altra parte di costoro investe i nuovi arrivati dell’aura di paladini della ricostruzione dell’integrità umana antitetica al nichilismo e materialismo occidentale. Assegnano loro una funzione salvifica e di creazione di un sodalizio strategico millenaristico (lotta tra impero terrestre e potenze marittime, tra spiritualità e gretto materialismo, ect). Tutti ingredienti atti a sostituire una nuova subordinazione alla precedente o a indurre al rifugio verso soluzioni localistiche e comunitaristiche.
il preteso dominio assoluto della finanza impedisce di individuare la complessità della struttura finanziaria, la stessa conflittualità presente tra i centri finanziari stessi, la funzione non solo parassitaria ma positiva ultima di drenaggio, convogliamento e destinazione delle risorse, la caratteristica prevalente di strumento politico-strategico dovuta alla sua facilità e flessibilità di utilizzo; strumento soggetto quindi alle fasi difensive e di attacco delle azioni politiche. Un preteso predominio che impedisce inoltre di vedere la finanza come un ambito particolare e consustanziale del capitalismo, inteso come un sistema di relazioni sociali in ambito economico molto più pervasivo, più potente ma meno volubile e mobile del suo particolare ambito finanziario, certamente più determinante nei tempi lunghi
il capitalismo può definirsi “assoluto” solo perché ormai pervade, come “rapporto sociale di produzione” l’intero pianeta soprattutto per le caratteristiche superiori di organizzazione e di dinamicità grazie alla sua capacità attrattiva, non perché determini in esclusiva ogni aspetto della vita umana. Questo rapporto implica anche e soprattutto il conflitto tra agenti capitalistici; implica comunque, sempre più, caratteristiche intanto di gestione politica strategica delle dinamiche interne delle sue attività; dalla gestione dei gruppi interni alle imprese, ai rapporti tra i vari ambiti e i vari agenti in conflitto e cooperazione, alla creazione e gestione di aree di influenza nella verticale della struttura di produzione e nella competizione orizzontale. Altrettanto, però, comporta dinamiche politiche esterne all’attività economica che riguardano gli altri ambiti delle attività umane nelle loro interazioni ed influenze reciproche. I suoi agenti diventano parte integrante dei centri strategici, partecipano ma sono anche costretti ed indirizzati da logiche politiche di dominio e conflitto che costringono il rapporto capitalistico stesso ad adattarsi e conformarsi dinamicamente alle diverse formazioni sociali e alle strutture politiche. I capitalismi stessi, gli agenti delle varie formazioni, hanno bisogno di essere normati, sostenuti, indirizzati formalmente ed informalmente nei rapporti interni, nella competizione interna e in quella esterna, inseriti in una base sociale sufficientemente solida che le dinamiche capitalistiche stesse contribuiscono continuamente a sconvolgere. Tutti requisiti che svelano finalmente che il conflitto politico, con il capitalismo, pervade la stessa funzione economica. Tali requisiti richiedono inoltre l’esistenza di una struttura particolare deputata ad alcune specifiche e particolari attività politiche le quali, però, hanno uno spettro e finalità di azioni diverse e più ampie e offrono una rappresentazione tendenzialmente organica degli obbiettivi e delle finalità di azione: lo Stato. Gli stessi capitalisti delle varie formazioni dette capitaliste devono tener conto, agire all’interno e il più delle volte obbedire alle indicazioni e alle esigenze dei centri strategici dello Stato anche nelle loro attività internazionali, quelle che apparentemente dovrebbero garantire maggiore autonomia di azione nelle utopie liberali e movimentistiche.

In realtà il processo di globalizzazione non fa che riconfigurare il ruolo di centri e realtà politiche comunque delimitate territorialmente e funzionalmente, accentuando spesso tali caratteristiche piuttosto che annullandole. Tale consapevolezza sembra acquisita ormai nei paesi e nelle formazioni dalla identità politica più forte. L’affermazione, tutt’altro che consolidata però, di Trump negli Stati Uniti e del Front National in Francia, il consolidamento del potere di Putin in Russia sono alcuni esempi significativi. L’annaspamento dell’Italia lo è altrettanto, ma in senso opposto.

IL RITORNO DELLO STATO (DALLA FINESTRA)

Quello che nelle rappresentazioni “creative” si è fatto uscire dalla porta, sta rientrando a volte alla chetichella dalle finestre più spesso di forza dalle entrate principali in quelle stesse rappresentazioni: lo Stato

In realtà pur in una visione economicista, specie nei paesi dominanti sono sempre rimaste bel salde, anche se in ombra sino a pochi anni fa, correnti di economisti che riconoscono un ruolo decisivo dello Stato non solo in termini di regolazione keynesiana dei cicli, ma anche di regolazione normativa, intervento diretto strategico anche nelle relazioni internazionali ma anche l’influsso dei costumi, della cultura e dell’ideologia nelle dinamiche economiche (Rodrick, Stiglitz, Aghion, Krugman, Foglietta).

A maggior ragione le correnti del realismo politico, compresa quella liberale, hanno sempre avuto un peso determinante, predominante anche se discreto, nei centri decisionali delle potenze egemoni. In Europa e nelle regioni periferiche con scarse ambizioni e capacità di autonomia politica hanno prevalso nettamente al contrario le tesi sovranazionali, del declino degli stati, della legittimità e della forza intrinseca della legge senza il corredo della forza, del potere autonomo degli organismi internazionali. Nel paese dominante ed egemone ha prevalso tutt’al più la rappresentazione falsamente egualitaria del multilateralismo tra gli stati all’ombra di organizzazioni internazionali (FMI, BM, UE, ect) senza effettivo potere diretto ma condizionate e orientate dal paese vincitore; quella stessa rappresentazione egualitaria dei ventisette paesi europei dell’ UE propinata dai paesi più eterodiretti, tra i quali ovviamente l’Italia i quali tendono ad attribuire alla Commissione e al Parlamento Europei poteri ben radicati in realtà altrove. Sarebbe sufficiente ripercorrere la genesi storica delle varie istituzione per intuire la reale fonte ed origine del loro potere. L’aura pacificatrice, democratica ed egualitaria del multilateralismo in realtà presuppone l’esistenza e l’affermazione di una potenza regolatrice indiscussa. Un modello di azione teso ad impedire o ritardare la nascita e lo sviluppo di aree di influenza alternative e potenzialmente contrapposte. Tant’è che, al sorgere di queste realtà politiche, l’iniziativa americana ha mutato registro, sta abbandonando progressivamente l’approccio multilaterale e sta concentrando le energie soprattutto alla stipula di trattati di area internazionali (TTP, TTIP, ect) con gli Stati Uniti come cerniera e baricentro tra questi gruppi. Una impresa, per altro, dall’esito non scontato; anch’essa probabilmente destinata a fallire oppure ad essere significativamente ridimensionata.

La condizione di uno Stato dipende dalla capacità di tenuta delle relazioni esterne e dal livello di controllo e dalla capacità di coesione della formazione sociale di appartenenza (Huntington: intensità ed estensione del potere). Uno Stato può quindi sorgere, fallire, rafforzarsi, indebolirsi, estendersi o ridimensionarsi. Esattamente quello che sta avvenendo in questa fase di fine del bipolarismo e di incertezza e volubilità degli schieramenti legata all’incipienza del multipolarismo; situazione che rende i centri strategici decisori di diverse formazioni sociali più esposti agli interventi esterni e più fragili rispetto alle mutazioni delle proprie formazioni sociali.

Al momento lo Stato rimane ancora l’unica istituzione e struttura organizzata in grado di pretendere e garantire in diversa misura quelle prerogative che consentono la tenuta della formazione sociale ed il confronto con e le interrelazioni esterne alla formazione: il controllo territoriale la cui estensione dipende dalle caratteristiche geografiche, dalla sedimentazione storica della popolazione, dalla capacità tecnologica e quindi in particolare dalla capacità dei centri dominanti di gestire i rapporti di cooperazione e conflitto; la pretesa di monopolio dell’uso della forza all’interno e la conseguente fondazione del diritto regolatore dei rapporti tra lo Stato e i cittadini e tra i cittadini nei suoi aspetti anche informali; la rappresentazione del bene comune, in una delle sue accezioni, fatta non solo di rappresentazioni ideologiche ma di composizione degli interessi più o meno mediati dalla dimensione del conflitto e dai retaggi culturali, indispensabile alla tenuta e alla motivazione dei vari componenti e dell’insieme della formazione sociale; aspetto importante per i fautori del conflitto strategico, la delimitazione dell’azione politica esterna allo stato negli aspetti formali ed informali, comprese le trasgressioni rispetto alle prassi e alle regole riconosciute.

Le prerogative, lo spazio e l’intensità degli interventi tendono piuttosto ad estendersi, intensificarsi e complicarsi: l’estensione delle pretese di controllo delle acque, la gestione e la manipolazione del flusso dei dati e degli snodi di transito, la relativamente nuova dimensione dello spazio aereo, la ricerca scientifica, l’integrazione delle piattaforme industriali, l’apparato militare sono tutti fattori tra gli altri che richiedono un utilizzo complesso delle strutture statali e che definiscono le gerarchie e le possibilità di sopravvivenza e autonomia decisionale degli stati. Le stesse organizzazioni internazionali sono il frutto di accordi diplomatici ed agiscono con il supporto fondamentale degli stati e della loro forza; non possono essere equiparate alla funzione degli stati stessi e quindi non si prestano a modello di superamento di essi se non nelle rappresentazioni ingannevoli. Se dovessero sorgere nuove istituzioni, non deriverebbero certamente da queste ultime; piuttosto trarrebbero ispirazione dalla loro forma più flessibile, lo Stato Democratico Rappresentativo o per meglio dire lo Stato Poliarchico (Charles Lindbloem) con la sua capacità superiore, allo stato attuale di regolare il conflitto tra centri strategici interni alla formazione sociale e il rapporto di questi con le varie componenti e i vari gruppi della formazione in continuo mutamento.

ARTICOLAZIONE DELLO STATO E AZIONE DEGLI AGENTI STRATEGICI

Ho già ribadito che una struttura, una rete, una relazione non sono un soggetto. Hanno una dinamica, ma non una volontà. Sono composte, mosse da soggetti che tutt’al più agiscono in nome e per conto.

Sono i soggetti, singoli o in gruppo che si muovono, utilizzano e mobilitano, non lo Stato. Costituiscono, mobilitano utilizzano parti di esso.

Lo Stato, campo e strumento di azione politica per eccellenza, nelle sue varie conformazioni, fondamentali nel delineare le modalità della cooperazione e del conflitto tra agenti strategici e della conformazione dei blocchi sociali, è comunque una struttura su base gerarchica. Una visione riduttiva e deterministica di questa base induce spesso a ridurre la competizione politica tra agenti in conflitto alla mera taumaturgica e semplicistica conquista del vertice e alla defenestrazione o inglobamento dell’avversario.

Non è così in quanto:

Il rapporto gerarchico non implica una semplice relazione univoca dall’alto in basso; trattandosi inoltre di più livelli nella struttura, le figure intermedie svolgono funzioni di comando e di esecuzione. La posizione gerarchica superiore ha bisogno della competenza, della capacità e della disponibilità di quella inferiore, assegnando a questa comunque un potere di azione relativo. Gli stessi ordini hanno bisogno di interpretazione nella loro esecuzione e di rapporti orizzontali ai vari livelli tra le strutture ed i centri decisionali. La biunivocità o “multiunivocità” delle relazioni sono quindi determinate anche dai rapporti informali, dalle competenze, dall’impossibilità di controllo diretto, dall’interpretazione e da tanti altri fattori
Lo Stato moderno ha sviluppato una separazione di poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario) che implica una prima divisione di strutture e un rapporto di controllo, conflitto e cooperazione tra di essi; condizioni straordinarie ed eccezionali creano strutture ad hoc difficilmente revocabili le quali una volta sedimentate duplicano e sovrappongono le competenze; la stessa complessità della macchina spinge a rapporti formali ed informali orizzontali tra i livelli tra i vari settori; le strutture diventano di per sé centri relativamente autonomi di potere; con il decentramento spesso si tendono a sovrapporre stessi livelli di competenze e sovranità tra potere centrale e periferico. Nelle situazioni di crisi e di transizione si tende a sopperire alle carenze e al mancato controllo di un settore con l’attribuzione o l’usurpazione di competenze improprie ad altri ambiti (Althusser, Poulantzas) pagando lo scotto di carenze di gestione e situazioni croniche di instabilità, di raggiungimento del tutto parziale e distorto degli obbiettivi politici, di scarso consolidamento dei risultati, di riconfigurazione nefasta dei rapporti tra centri di potere. La vicenda di “mani pulite” in Italia rappresenta un esempio emblematico di tutto ciò. Il processo può essere manipolato direttamente, indirettamente o scaturire da dinamiche incontrollate.
Gli stessi componenti dei centri strategici tendono a creare una cerchia di fedeli, anche esterni ed estranei ai posti di comando formali (“cerchio magico”) come rifugio e consulenza informale e di azione coperta o di ultima istanza nello scontro politico

La rappresentazione della classe dirigente in regnante, governante e dominante (Poulantzas) rende ancora più difficile individuare e stabilizzare le gerarchie di potere per non parlare della funzione del cosiddetto “Stato Profondo” (Chauprade)

Nell’interazione agiscono a pieno titolo importanti centri esterni allo Stato autonomi oppure strettamente collegati a settori di esso. L’azione politica dello Stato e nello Stato assume quindi forme e funzioni particolari ma è solo un aspetto del conflitto strategico tra centri presenti nei vari ambiti delle formazioni sociali (La Grassa)

Sono tutte condizioni che agevolano le trame politiche, gli spazi agibili e la provvisorietà delle situazioni non ostante la parvenza di equilibrio e di definizione dei rapporti di forza.

Condizioni che allargano lo spettro di azione e le condizioni di conflitto. Non solo! Condizioni che moltiplicano le possibilità, le tattiche e le dinamiche del confronto politico e le possibilità di disarticolazione in particolari frangenti degli apparati di potere e soprattutto i luoghi di formazione e consolidamento di potenziali centri strategici e decisionali alternativi ai centri dominanti. Le recenti lotte anticolonialiste, la rifondazione degli stati dell’Europa Orientale seguita al dissolvimento del blocco sovietico sono gli ultimi esempi delle opportunità offerte allo scontro politico da strutture di potere sempre più articolate e complicate.

Quello che si riferisce allo Stato è, per di più, riproponibile con alcune varianti essenziali all’intero spazio del conflitto strategico.

Tutto questo rende molto più problematica e complicata una analisi politica, ma renderà sicuramente l’azione politica degli eventuali centri alternativi più efficace, realistica e meno soggetta alle manipolazioni distorsive.

Purtroppo siamo ancora alla fase propedeutica alla definizione di chiavi interpretative consolidate ed efficaci; tanto più ad una “analisi concreta della situazione concreta” adeguata alle opportunità che l’attuale contingenza politica potrebbe offrire.

Il che dice tanto sull’arretratezza della nostra condizione