MACBETH D’ARABIA, di Antonio de Martini (con aggiornamento)

L’arguzia di Antonio de Martini, di chiaro stampo partenopeo, è pari alla sua competenza. Non occorrono commenti_Giuseppe Germinario

MACBETH D’ARABIA (tratto da https://www.facebook.com/antonio.demartini.589/posts/1277556099056845 )

È successo l’impensabile.
L’Arabia saudita , da sempre teocrazia autocratica, vede realizzarsi un giro di vite nel senso del rafforzamento del potere personale del principe ereditario Mohammed Ben Salman.

Quattro ministri in carica, dieci ex ministri e, sembra, anche il miliardario principe Waleed ben Talal, ( oltre a 11 principi minori) sono stati arrestati ” per corruzione” e per aver ” approfittato dl loro incarico per lucrare”.

In più, il comandante della guardia nazionale ” è stato avvicendato”.

Lettura: il trentaduenne principe ereditario ( Mohammed ben Salman) aveva già dato segni di smodata ambizione e scarso discernimento politico.

Nominato dal re suo padre, ministro della Difesa, aveva d’iniziativa mosso guerra allo Yemen rimanendoci malamente impelagato.

Aveva ottenuto la nomina “a principe ereditario del principe ereditario” in carica ( il cugino Mohammed ben Nayaf) con scelta inedita.

Approfittando dell’Alzheimer del padre – re Salman- si è accaparrato maggiori attribuzioni fino a che ha ottenuto dall’affetto e dalla malattia paterna, di sostituire il cugino nel ruolo di principe ereditario ( che in Arabia Saudita svolge il ruolo di Primo ministro, dato che il re viene eletto dal consiglio di famiglia).

Affetto dal complesso di Macbeth, ha messo il cugino – da due generazioni ministro dell’interno- agli arresti domiciliari e adesso ha arrestato i suoi amici principali.
Il” comandante della guardia nazionale” avvicendato è, guarda caso, il fratello dell’ex ministro dell’interno e concorrente-cugino.

Credo che il padre – ultra ottuagenario, plurioperato e affetto da anni di demenza senile- ormai stia morendo e poiché il crownprince NON diventa automaticamente re, il giovanotto – forte dell’approvazione dell’americano di turno che ha incassato cospicui ordini di materiale bellico grazie allo Yemen – stia apprestandosi a fare campagna elettorale in famiglia a modo suo.

Ha tagliato i rifornimenti a amici e parenti stretti del candidato-cugino e spera di intimidire gli altri parenti con la sua recente autonomina ( fatta da papà ) a presidente di un fantomatico “comitato anticorruzione” , quando la corruzione è la principale se non unica attività del paese.

Il Giovin signore ritiene di avere le carte democratiche in regola con l’Occidente per aver dato la patente alle donne e concesso una intervista a un supplemento femminile di un noto quotidiano.

Questa spaccatura in seno alla famiglia regnante saudita forte di 5.000 membri di casa reale e 11.000 principi, fragilizza ulteriormente l’Arabia Saudita in un momento drammatico.

L’Arabia Saudita si trova – col prezzo del petrolio dimezzato- con una guerra persa con la Siria, e una in via di sconfitta in Yemen, una alleanza antiterrorismo da operetta fatta con gli emirati e una serie di paesetti africani tra cui spicca per dimensioni il Burundi.

Il “blocco antiterrorismo” , che ha spaccato il Consiglio del Golfo ( equivalente emirati della UE) contro il Katar dal quale è stata sputtanata malamente in TV negli USA in una intervista in cui ha confessato la concertata cospirazione contro la Siria e il congiunto finanziamento al Daesch.
Con la spaccatura del Consiglio del Golfo, il giovanotto ha anche perso il ruolo egemone nella Lega Araba.

Per soprammercato, si trova con la crescente penetrazione iraniana in Irak e le dimissioni del primo ministro sunnita il Libano che ha confessato di temere per la sua vita.

Mohammed ben Salman minaccia la sopravvivenza della dinastia e questi sono fatti suoi, ma diventano fatti di tutti se si mette in pericolo l’approvvigionamento di petrolio al l’occidente e adesso si capisce meglio a che servivano le tonnellate di “droga del combattente” destinate alla Libia.

Con una guerra che incrudelisce in Libia, il principino sarebbe certo di non essere abbandonato al suo destino.

Ma gli USA, questa volta, hanno preferito soffiare la notizia alle autorità italiane e bloccare la merce perché forse cominciano a capire che i matti in famiglia sono due.

NOTA AGGIUNTIVA

ECCO LA LISTA DEGLI ARRESTATI IN ARABIA SAUDITA SECONDO L’AGENZIA REUTER. LA RIVOLUZIONE CALA DALL’ALTO.

A riprova che gli americani sapevano del repulisti, la REUTER ha pubblicato la lista degli arrestati.

Da questa lista si evince che il capo della guardia nazionale ( mi correggo, non è il fratello Ben Nayaf, ma cugino.) non è stato solo defenestrato, ma arrestato, assieme al fratello, entrambi figli dell’ex re Abdallah.(!) tra gli arrestati, anche il governatore della Capitale Riad e il finanziere Mohammed Al Amoudi che ha il monopolio di tutti gli uffici cambio del regno e una trentina di grandi società in Etiopia ( oltre ad interessi in Marocco ed Egitto) che spaziano dalle costruzioni al Turismo, alle miniere e alla finanza.

Ecco la lista:

Principe Al-Walid ben Talal, PDG di Kingdom Holding
– Principe Miteb bin Abdullah, ministro della guardia nazionale
– Principe Turki ben Abdullah, governatore della provincia di Riyad
– Khalid al-Tuwaijri, ex capo del cerimoniale di corte
– Adel Fakeih, ministro dell’economia.
– Ibrahim al-Assaf, ex ministro delle Finanze
– Abdullah al-Sultan, Comandante della Marina del regno.
– Bakr bin Laden, capo della Holding Ben Laden
– Mohammed al-Tobaishi, ex capo del protocollo.
– Amr al-Dabbagh, ex governatore della Saudi Arabian General Investment Authority
– Alwaleed al-Ibrahim, proprietario della catena Tv MBC
– Khalid al-Mulheim, ex direttore generale della Saudi Arabian Airways
– Saoud al-Daweesh, ex capo di Saudi Telecom
– Prince Turki ben Nasser ex capo della meteo e ambiente
– Prince Fahad ben Abdullah ex deputato ( fratello capo guardia nazionale)
– Saleh Kamel, businessman
– Mohammed al Amoudi, businessman

A giudicare dai nomi , anche fin troppo altisonanti, dell’elenco questi arresti avranno ripercussioni all’estero – ad esempio in Etiopia, in Tunisia e in Francia – e all’interno.

Mohammed ben Salman mira infatti anche a rendere la sua leadership credibile agli occhi del popolino che ormai non crede più alle parole e vuole i fatti concreti finora mai concessi. Non ha messo la polvere sotto il tappeto, ha fatto le pulizie pasquali e si è impadronito del potere politico e contemporaneamente di quello del business.

Dopo la ” DAVOS DEL DESERTO” dei giorni scorsi in cui MOHAMMED BEN SALMAN aveva presentato la sua “Vision 2030” a 2000 possibili investitori accorsi da ogni parte del mondo, il giovane, audace quasi monarca, ha capito che doveva presentare veri fatti concreti a pena di vedersi rinfacciare il libro dei sogni.

Ha colpito duro e tagliato le gambe ai figli del re predecessore oltre che al cugino-concorrente attuale e con l’occasione inferto un colpo ai Ben Laden sempre in odore di vendetta del sangue e a Al Waleed e Al Amoudi che rappresentano una enorme fortuna economica.

Adesso manca solo che perfezioni il colpo destituendo, forse con le buone, il padre.

L’ostacolo residuo è costituito dalla componente religiosa wahabita che fino a ieri era il suo bastione principale. Evidentemente pensa di convincerli a autoriformarsi o convincere gli americano che si sono autoriformati…da soli.

Finora MBS ( d’ora in poi lo chiameremo così) si è contraddistinto per l’audacia con cui ha fatto le pentole e per la sistematica mancanza dei coperchi, specie in politica estera. Ora vedremo se ha imparato a fare il lattoniere a regola d’arte.

Steve Bannon in Italia

Steve Bannon, assieme a Roger Stone, è il principale protagonista del ristretto manipolo di persone che, negli ultimi cinque anni, ha fiutato la crescente fragilità dell’imponente establishment americano dominante e portato alla vittoria presidenziale Donald Trump. Il secondo è la figura pragmatica e disincantata, apparentemente leggera, in grado di muoversi nei meandri e di cogliere a tempo le dinamiche dei centri di potere. Ha iniziato la carriera giovanissimo come assistente di Richard Nixon, guarda caso in una fase analoga di scontro acuto, anche se meno cruento, tra strategie e centri di potere ferocemente contrapposti. Bannon è invece lo stratega, capace di intercettare e orientare i movimenti di opinione e di dare respiro alle tattiche e alla contingenza politica; per questo inafferrabile, almeno sino ad ora e in grado di trasformare la propria condizione di preda in quella di predatore. Il momentaneo sospiro di sollievo dei restauratori, determinato dalla sua uscita dallo staff presidenziale, si è trasformato in inquietudine angosciosa allorquando ha ricominciato a minare, con i suoi successi alle primarie delle prossime elezioni di medio termine, le basi politiche dei neoconservatori e di quei trasformisti che non tarderanno a riaffiorare sotto nuove spoglie. La stampa e il giornalismo nazionali, con alcune rare eccezioni, si sono accontentati pigramente e beatamente di ciò che passava il convento d’oltreatlantico; ce lo hanno presentato come rozzo, razzista, approssimativo, isolazionista, retrogrado. La breve intervista, tenuta in Italia ai primi di ottobre e tradotta in italiano, farà crollare parecchi di questi stereotipi e con esso assesterà un altro colpo alla credibilità del sistema di informazione. Per approfondire sarà sufficiente rovistare nella sua testata, Breibart. Dal canto suo, Bannon appare, assieme a Stone, uno dei pochi politici americani consapevoli delle implicazioni dell’affermazione di un mondo multipolare, se non multicentrico. Uno dei pochi che vorrebbe tentare una impresa ardua, improbabile: un arretramento “ordinato” del proprio paese, in grado di preservarlo da quelle catastrofi che in altre epoche storiche più o meno recenti hanno travolto gli imperi in crisi. Non a caso la caduta dell’Impero Romano è sempre stato oggetto di attento studio negli Stati Uniti. Non è importante, al momento, comprendere se si tratta di una posizione tattica, in attesa che eventuali situazioni di conflitto aperto sempre latenti tra i paesi emergenti, ricollochi gli Stati Uniti in una condizione simile a quella della seconda guerra mondiale; oppure di una visione strategica, sino ad ora minoritaria ma storicamente pur sempre presente nel dibattito politico statunitense anche se in forme diverse, in particolare nei movimenti civici locali. Le intenzioni dei soggetti politici spesso e volentieri sono travolte e stravolte dalle dinamiche conflittuali. L’aspetto rilevante è che il prevalere o il consolidarsi di tali posizioni, non fosse che temporaneo, offre nuovi spazi ed opportunità a quelle élites nazionali che avessero intenzione di riprendere in mano il destino del proprio paese. Un proposito lungi dall’essere coltivato dalle nostre classi dirigenti, beatamente assopite. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

Lo scontro tra le diverse Europe: due Dichiarazioni, di Alessandro Visalli

Prosegue il dibattito sui due documenti pubblicati da “Italia e il Mondo” a proposito di Europa, Europe ed europeismo http://italiaeilmondo.com/2017/10/24/quale-europa-a-cura-di-giuseppe-germinario/ .  In aggiunta alla nota di Luigi Longo e all’intervento di Roberto Buffagni segue un contributo di Alessandro Visalli, tratto dal blog https://tempofertile.blogspot.it/2017/10/lo-scontro-tra-le-diverse-europe-due.html ,

cui seguirà una replica dello stesso Buffagni

 

Sulla pagina on line “Italia e il Mondo”, è uscito un articolo dal titolo “Due appelli, due Europe” del mio amico Roberto Buffagni nel quale è presente una interessante lettura di due diversi appelli, usciti negli ultimi tempi, nel campo conservatore, sul destino dell’Europa. Sono molto diversi, decisamente opposti: il primo parla di ‘progetto’, il secondo di uno scontro nel quale è in campo il ‘proprio sé’. Il primo è stato scritto da una importante istituzione che ha sede a Bruxelles e finanzia azioni politiche e culturali per la promozione della democrazia, fornendo quelli che chiama “finanziamenti veloci e flessibili”; ne fanno parte politici come Elmar Brok (CDU), Andrej Grzyb (PP), Bogdan Wenta (PPE), Cristian Preda (PPE), Pier Antonio Panzieri (PD), Alexander Lambsdorff (Partito Liberale), Elena Valenziano Martinez-Orozco (PSE), Mark Demesmaeker (conservatori e riformisti) e Tamas Meszerics (Verde ungherese). Il secondo da un gruppo di intellettuali accademici caratterizzati da una netta prevalenza dei filosofi politici e dall’essere conservatori di chiara fama.

La prima Dichiarazione chiama all’azione culturale e propagandistica (il campo del proponente) per la “democrazia”, ma intende una specifica connotazione del termine, la seconda ad una battaglia egemonica contro l’utopia di un mondo globalizzato, in cui le nazioni si dissolvano progressivamente in una utopistica unità multiculturale (ovvero, tradotto in termini realistici, siano inquadrate senza resti in un’unità imperiale). Del resto giova ricordare che la relazione tra democrazia e progetto del governo mondiale, pur avendo importanti antisegnani, è soprattutto scritta nella anglosfera di marca conservatrice (uno dei firmatari è Francis Fukuyama).

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Coalition for democratic renewal

Si potrebbe dire che si tratta di due testi molto e forse troppo lontani, ma Buffagni li connette su una linea specifica: l’inimicizia reciproca, fondata su diversi orizzonti. Cioè su prospettive diverse in modo irriducibile.

La conclusione che trae (salto molti passaggi) è che sia in corso uno scontro decisivo per la definizione dei nostri tempi, dentro il campo conservatore, tra:

  • – una destra liberale e tecnocratica, ‘progressista’,
  • – e una destra orientata sulla nazione, la cultura comune, ‘conservatrice’ e per questo schierata contro la UE.

La sinistra, invece, è secondo lui indisponibile a produrre una riflessione critica, e tanto meno un’azione politica contro la UE, e dunque si estromette automaticamente dal campo dello scontro ordinato da questa dualità. Cioè non entra nella battaglia.

La sinistra, dice Buffagni in sostanza, è ancora troppo legata alla mossa inaugurale della modernità, ed al mito della rivoluzione (in primis francese) per riconoscere il lato oscuro della ragione illuminista, la sua hybris di potere. Tentativi, per la verità, ce ne sono stati: ad esempio la prima Scuola di Francoforte, più di recente il post-strutturalismo francese, alcune componenti della cultura pragmatista americana, molti antropologi, qualche raro e coraggioso economista, ma non riescono a fare sistema. L’ancoraggio all’industrialismo ed al milieu culturale nel quale i socialismi si formarono, nella prima metà dell’ottocento, è ancora troppo forte; la sostanza della cultura della sinistra, sembra dire, è legata ad una visione fondamentalmente scientista, tardo positivista, e quindi a visioni idealiste della storia (anche se ammantate da un materialismo scolastico che ne nasconde le fattezze). Una tesi del genere la sostiene il filosofo francese radicale Michéa.

Alla fine dunque la sinistra gli appare come una variante, e magari neppure particolarmente interessante, del liberalismo illuminista, la cui versione più coerente e radicale è in fondo quella assunta nella metà del secolo scorso dai pensatori politici ed economisti che per comodità chiamiamo “liberisti”. Dunque per Buffagni mentre la sinistra è solo una versione più ipocrita della posizione della “coalizione per il rinnovamento” e del suo “Appello di Praga”, le posizioni coerentemente conservatrici, senza il peso di doversi districare nella densa tradizione rivoluzionaria, possono andare al nocciolo, espresso nella “Dichiarazione di Parigi” in modo esemplare.

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Per dialogare con questa posizione, proporrò qualche distinzione, ma prima vediamo meglio i due Appelli: sono, come è tipico del genere letterario, delle chiamate alle armi. Il primo, quello di Praga, per la “democrazia liberale”, che sarebbe sotto attacco da parte dei “populismi”. Il secondo, quello di Parigi, per la difesa della “casa” contro una idea trasversale e sbagliata. Chiamano dunque alle armi l’uno contro l’altro.

Più precisamente, l’idea sbagliata, per il secondo, è quella del progresso inevitabile, che viene riclassificato da “fede” (faith nel testo di Praga) in “superstizione”. Non, quindi, realizzazione della cesura della modernità (fatta risalire alle due rivoluzioni liberali settecentesche sulle opposte sponde dell’Atlantico), ma abbandono della casa e sua “requisizione”. Se presa sul serio, infatti, questa idea della cesura, del rasoio che separa le vecchie tradizioni dal moderno, incarnato dallo spirito della ragione, che è propria della ‘fede’ nella forza dell’individualismo illuminista, si estende necessariamente al mondo intero; con la sua forza corrosiva dei legami ascrittivi, essa ha intrinsecamente un respiro di potenza che finisce per classificare necessariamente tutti tra “liberali” e “illiberali”, in uno tra democrazie “avanzate” e “arretrate”. A leggere il primo Appello si vede che le prime si fondano infatti sulla “credenza nella dignità della persona” e quindi nei diritti umani (libertà di espressione, associazione, religione), nel pluralismo e nella competizione, nella “economia di mercato priva di corruzione e capace di offrire opportunità a tutti”, le seconde invece sulle politiche estrattive, sull’oppressione delle persone e sull’oscurantismo, appunto sul tradizionalismo. La prima posizione è cioè ‘progressista’, la seconda ‘conservatrice’.

Buffagni prende quindi da questo elenco di banalità, che spicca per la sua sicumera (potendo dare senza esitazioni patenti al mondo intero, in funzione della maggiore o minore distanza da un sé immaginato e idealizzato), la “dichiarazione di guerra totale all’Europa come realtà storica e come tradizione culturale”.

Si, perché la realtà storica dell’Europa (non del suo “progetto”) è fondata invece nella differenza delle sue profonde culture, e non nasce come un fungo dalla terra nel 1789. Senza considerare questa radice gli estensori dell’appello di Praga, che sono per lo più politici centristi, dicono in sostanza che se non si riconosce che la forma della civiltà occidentale, e per essa la forma politica della democrazia liberale nata dalle due rivoluzioni settecentesche, è superiore si è “relativisti”, e certamente c’è del vero; ma parimenti sarebbe da rimarcare che allora loro sono “assolutisti” (dato che si definisce tale chi sostiene una posizione, appunto, “assoluta”). E le forme di assolutismo hanno un sapore strano, un retrogusto imperialista (se applicate, come del caso, alla geopolitica), mentre il relativismo suona diversamente: ha curiosamente il gusto della libertà.

Questo rovesciamento dovrebbe renderci sensibili al rischio di definire una posizione assiale che non guarda alle proprie premesse, e non le mette in questione. Multiculturalismo sta ad impero, se si tenta di farne una posizione politica, mentre su questo piano il relativismo culturale si connette con l’accettazione del multipolarismo. Stiamo leggendo, ad esempio, la posizione complessa ed in movimento di un autore certamente non conservatore come l’economista egiziano e terzomondista Samir Amin, a partire dal suo “Lo sviluppo ineguale”, del 1973, e poi “Oltre la mondializzazione”, del 1999, ma anche “Per un mondo multipolare”, del 2006, che ripercorre alcuni momenti della formazione della legge del valore mondializzato, trascinata dalla logica implacabile dell’accumulazione che finisce per dominare l’intero sistema sociale. Ciò che spinge verso l’espansione mondiale, e la dissoluzione di ogni resistenza statuale, oltre che nazionale, è per lui la tendenza alla polarizzazione ed alla mobilizzazione delle risorse (tra le quali sono inclusi i portatori di forza-lavoro divenuti emigranti). L’egemonia dell’economico, posta sotto accusa anche dalla Dichiarazione di Parigi, è dunque ciò che va ricondotto a controllo; ciò che nei termini di questa va ‘risecolarizzato’ (dato che si tratta di una sorta di surrogato della religione, come dice anche Amin, cfr OM, p.57). Ovvero che va nuovamente “incastrato in un iceberg di rapporti sociali di cui la politica costituisce la parte emergente” (OM, p.102).

La tesi, che come si vede non è articolabile solo da destra, è che “la ‘mondializzazione mediante il mercato’ è un’utopia reazionaria contro la quale bisogna sviluppare teoricamente e praticamente l’alternativa del progetto umanista di una mondializzazione che si inquadri in una prospettiva socialista” (OM, p.176), ma questa forma di connessione richiede e non inibisce la costituzione di fronti “nazionali, popolari e democratici”. Ciò che bisogna separare è il nesso interno tra una certa visione lineare della storia come progresso verso un qualche telos, l’identificazione della meccanica (quando non anche del telos stesso) con un presunto svolgersi infallibile di leggi dell’economia ‘pura’ (una visione autorizzata da una lettura banalizzante di alcuni passi dello stesso Marx, ma molto più di Engels e di alcuni suoi epigoni), e il precipitare finale di tutto ciò a servizio di un progetto di potenza nascosto in bella vista nella retorica Wilsoniana di tanto in tanto riemergente.

Si tratta di un nodo di grande rilevanza.

Ma qui la “Dichiarazione di Parigi” manifesta il suo tessuto conservatore; conduce infatti la battaglia contro la “falsa” idea del progresso imperialista, dell’uniformante idea assoluta del ‘Vero’ e del ‘Giusto’, sulla base di un’enfatizzazione caratteristica della “casa”. Questa idea riecheggia in effetti dibattiti ripetuti tra le posizioni liberali e quelle variamente ricondotte a posizioni comunitarie (talvolta abbiamo sfiorato un terreno di emergenza di questo antico dibattito in autori orientati a sinistra come Sandel, MacIntyre, anche qui, Walzer, e ne riprenderemo i testi essenziali), ed è riassunta in modo molto eloquente nel primo capoverso:

  1. L’Europa ci appartiene e noi apparteniamo all’Europa.Queste terre sono la nostra casa; non ne abbiamo altra. Le ragioni per cui l’Europa ci è cara superano la nostra capacità di spiegare o di giustificare la nostra lealtà verso di essa. Sono storie, speranze e affetti condivisi. Usanze consolidate, e momenti di pathos e di dolore. Esperienze entusiasmanti di riconciliazione e la promessa di un futuro condiviso. Scenari ed eventi comuni si caricano di significato speciale: per noi, ma non per altri. La casa è un luogo dove le cose sono familiari e dove veniamo riconosciuti per quanto lontano abbiamo vagato. Questa è l’Europa vera, la nostra civiltà preziosa e insostituibile.

Riconnettendosi piuttosto chiaramente alla tradizione conservatrice (che è inaugurata in Europa dal pensiero controrivoluzionario di Burke, de Maistre, Novalis, Schlegel, poi ovviamente Nietszche, e nel novecento Heidegger, autori di cui alcuni degli estensori sono fini studiosi) il progressismo illuminista è qui accusato, in sostanza, di essere parte delle “esagerazioni e distorsioni delle autentiche virtù dell’Europa”, e cieco ai propri “vizi”. Si scivola insomma nello stesso tipo di linguaggio essenzialista che si rivede nella controparte: ci sono posizioni “autentiche” e altre “false” (le prime quindi “vere”), ci sono “distorsioni” (del “retto”). C’è dunque una “Europa falsa”, ed una “vera”, dove la prima smercia caricature e nutre pregiudizi verso il passato. Una Europa che è “orfana”, non riconosce padri, e se ci sono li uccide. Che si sente orgogliosa di questa mossa, si sente forte in essa. Si sente quindi “nobile”. Gioverebbe rileggere per fare mente locale “Filosofie del populismo” di Nicolao Merker.

Una Europa simile, che non c’è, e non ci può essere, in quanto vuota e disincarnata (direbbe Sandel), “incensa se stessa descrivendosi come l’anticipatore di una comunità universale che però non è né universale né una comunità”. Una comunità universale è, infatti, quasi per definizione impossibile. E in quanto impossibile non è universale. Quel che si ha è al massimo una comunità di élite sradicate e interconnesse con i poteri sradicanti del capitalismo di cui parla Amin.

In questo scontro tra tradizioni culturali e politiche l’attacco è assolutamente radicale:

  1. I padrini dell’Europa falsa sono stregati dalle superstizioni del progresso inevitabile. Credono che la Storia stia dalla loro parte, e questa fede li rende altezzosi e sprezzanti, incapaci di riconoscere i difetti del mondo post-nazionale e post-culturale che stanno costruendo. Per di più, ignorano quali siano le fonti vere del decoro autenticamente umano cui peraltro tengono caramente essi stessi, proprio come vi teniamo noi. Ignorano, anzi ripudiano le radici cristiane dell’Europa. Allo stesso tempo, fanno molta attenzione a non offendere i musulmani, immaginando che questi ne abbracceranno con gioia la mentalità laicista e multiculturalista. Affogata nel pregiudizio, nella superstizione e nell’ignoranza, oltre che accecata dalle prospettive vane e autogratulatorie di un futuro utopistico, per riflesso condizionato l’Europa falsa soffoca il dissenso. Tutto ovviamente in nome della libertà e della tolleranza.

Se tutto questo è fondato per gli autori della Dichiarazione, la minaccia che abbiamo davanti è “la stretta asfissiante che l’Europa falsa esercita sulla nostra capacità di immaginare prospettive”.

Scriveva Heidegger in “Lettera sull’umanismo”, nel 1949: “l’essenza dell’agire è portare a compimento [e non produrre un effetto in base alla sua mera utilità]. Portare a compimento significa dispiegare qualcosa nella pienezza della sua essenza, condurre-fuori questa pienezza, producere”. Dunque si produce, in certo senso, solo ciò che già è; precisamente è nel pensiero e nel linguaggio che “è la casa dell’essere” e nella cui dimora “abita l’uomo”. Ecco che si viene alla stessa idea che è incorporata nella densa frase della Dichiarazione: “il pensiero non si fa azione perché da esso scaturisca un effetto o una applicazione. Il pensiero agisce in quanto pensa”. Il pensiero “dell’Europa falsa” è dunque la sua vera ed essenziale azione.

Nel suo assai complesso, ed a lunghi tratti involuto, manifesto contro ‘l’umanesimo’ (dunque anche contro l’illuminismo), Heidegger lamenta la “perdita di mobilità” e contesta l’esattezza “tecnico-teoretica” degli scritti specialistici e nel farlo si esercita in un vertiginoso esercizio di distinzioni e narrazioni. Si scopre quindi che ogni umanismo si fonda su una metafisica, ovvero su una posizione che già presuppone un’interpretazione data degli enti (e quindi una loro funzionalizzazione, un apprestarli) senza porre insieme la questione “dell’essere”; anzi in effetti la impedisce.

Porre lo sviluppo storico come dispiegarsi della logica immanente della tecnica come apprestamento del mondo per l’uso (tramite l’economico), in altre parole, dimentica di riflettere sul senso. Dimentica l’essere, lasciandoci in un mero mondo di enti, di oggetti. Noi stessi fatti tali. Nel linguaggio della tradizione marxista, che ovviamente Heidegger ha di mira, è la questione della ‘reificazione’ (cfr qui).

Nell’impedirlo può porre (e lo fanno i romani per primi, dice) come autoevidente “l’essenza universale dell’uomo” (in Segnavia, p.275); ovvero dell’uomo come animale razionale. Una interpretazione dell’umano che, naturalmente, “non è falsa, ma è condizionata dalla metafisica”. Non si tratta, cioè, di abbandonarsi “all’azione dissolvente di uno scetticismo vuoto”, ma di tenere in movimento il pensiero (tramite l’interrogazione dell’essere).

La posizione del filosofo tedesco è in sostanza che l’uomo si dispiega solo a partire da un reclamo che gli viene dalla domanda dell’essere, ovvero da un abitare in qualche modo all’aperto. Nello “stare nella radura” che gli è propria (in quanto essere che veramente “vive”).

Dunque il punto non è che il discorso sui valori (universali, ovvero umanistici) sia “senza valore”, perché ciò sarebbe opporre banale al banale, ma che bisogna capire che porre una cosa come “valore” in questo senso, crea sempre un fare e con esso una oggettivazione. Cioè fa il mondo come oggetto (ovvero lo manipola).

Con le sue parole: “ogni valutazione, anche quando è una valutazione positiva, è una soggettivazione. Essa non lascia essere l’ente, ma lo fa valere solo come oggetto del proprio fare” (ivi, p. 301). Pensare “contro i valori” non significherebbe, cioè, “sbandierare l’assenza di valori e la nientità dell’essere, ma portare la radura della verità dell’essere davanti al pensiero, contro la soggettivazione dell’ente ridotto a mero oggetto”.

Con il linguaggio della Scuola di Francoforte, esercitare la critica. Uno degli esercizi più recenti ed interessanti nel lavoro in corso della Rahel Jaeggi, in “Forme di vita e capitalismo”.

Allora, tornando alla “Dichiarazione di Parigi”, da questa posizione si può rivendicare la storia concreta delle tradizioni di lealtà civica e le battaglie condotte per fare “i propri sistemi politici più aperti alla partecipazione popolare”, talora “con modi ribelli”, e la storia di condivisione ed unità, che ci consente di guardarci gli uni con gli altri come prossimi; come insieme responsabili.

Non siamo soggetti passivi sottoposto al dominio di poteri dispotici, sacrali o laici. E non ci prostriamo davanti all’implacabilità di forze storiche. Essere europei significa possedere la facoltà di agire nella politica e nella storia. Siamo noi gli autori del destino che ci accomuna.

Ne consegue che non si tratta di accettare od opporsi ad un astratto umanesimo, o a “Valori” universalmente preordinati a fare del molteplice l’uno. Si tratta di avere, o di essere nelle radure dell’essere (come direbbe Heidegger), riconoscendo che “l’Europa vera è una comunità di nazioni”. Si tratta di esercitare la critica partendo da ciò che si è, dalla Europa ‘vera’: lingue, tradizioni, confini.

Qui il testo raggiunge probabilmente il suo punto più profondo:

  1. Una comunità nazionale è fiera di governarsi a modo proprio, spesso si vanta dei grandi traguardi raggiunti nelle arti e nelle scienze, e compete con gli altri Paesi, a volte anche sul campo di battaglia. Tutto ciò ha ferito l’Europa, talvolta gravemente, ma non ne ha mai compromesso l’unità culturale. Di fatto è accaduto semmai il contrario. Man mano che gli Stati-nazione dell’Europa sono venuti radicandosi e precisandosi, si è rafforzata una identità europea comune. A seguito del terribile bagno di sangue causato dalle guerre mondiali nella prima metà del secolo XX, ci siamo rialzati ancora più risoluti a onorare quell’eredità comune. Ciò testimonia quale profondità e quale potenza abbia l’Europa come civiltà cosmopolita nel senso più appropriato. Noi non cerchiamo l’unità imposta e forzata di un impero. Piuttosto, il cosmopolitismo europeo riconosce che l’amore patriottico e la lealtà civica aprono a un mondo più vasto.

Uno strano “cosmopolitismo” vi viene enunciato: un cosmopolitismo concreto.

E viene enunciata una connessione tra il venir meno del collante cristiano e lo sforzo di un sostituto funzionale (ma quanto più povero) nell’universalismo economico, nella sorta di impero regolatorio e monetario. In una sorta di universalismo pseudoreligioso.

Ci sono anche momenti di espressa polemica con l’altra Dichiarazione, come questo:

L’Europa non è iniziata con l’Illuminismo. La nostra amata casa non troverà realizzazione di sé nell’Unione Europea. L’Europa vera è, e sempre sarà, una comunità di nazioni a volte chiuse, e talvolta ostinatamente tali, eppure unite da un’eredità spirituale che, assieme, discutiamo, sviluppiamo, condividiamo e sì, amiamo.

E dunque questo “spirito”, che è propriamente europeo, implica una fiducia (non una fede), gli uni negli altri, e una responsabilità verso il futuro. Quindi implica una forma di libertà che non è individuale ma collettiva, è una responsabilità verso se stessi e la forza di non prostrarsi; neppure davanti “all’implacabilità di forze storiche”.

Un europeo, insomma, si sente autore del suo destino. E sente questa forza e responsabilità attraverso le forme politiche che hanno prevalso, lo stato-nazione, tratto caratteristico della civiltà europea.

Altri tratti caratteristici che sono richiamati nella Dichiarazione, anche in questo radicalmente estranea al liberalismo (sia classico sia contemporaneo), sono le tradizioni religiose (con “virtù nobili” come “l’equità, la compassione, la misericordia, il perdono, l’operare per la pace, la carità”) e lo spirito del dono, ma anche quelle classiche, l’eccellenza, il dominio di sé, la vita civica. Dunque il futuro non è da considerare connesso con un universalismo disincarnato che dimentica il sé e perde la memoria, ma nella lealtà alle tradizioni migliori. Nella ripresa dell’antico lessico delle ‘virtù’ nel quale, come insegna MacIntyre riposava la tradizione greco-romana che la modernità ha interrotto.

Su questa via il progetto europeo, tracciato sulla via del cosmopolitismo liberale e della dissoluzione delle solidarietà nazionali, è designato come nemico.

E con essa è designato, con aspra franchezza, come nemico anche il movimento di liberazione dei costumi e antiautoritario che ha attraversato l’occidente al finire degli anni sessanta. Un movimento che viene connesso sia con la riduzione delle autorità, sia con l’esplosione dei consumi e di uno stile di vita edonista e individualista. Ovvero è denunciato come fattore di disgregazione sociale.

  1. L’Europa falsa si gloria di un impegno senza precedenti a favore della libertà umana. Questa libertà, però, è assolutamente a senso unico. Viene veduta come la liberazione da ogni freno: libertà sessuale, libertà di espressione di sé, libertà di “essere se stessi”. La generazione del 1968 considera queste libertà come vittorie preziose su quello che un tempo era un regime culturale onnipotente e oppressivo. I sessantottini si considerano grandi liberatori, e le loro trasgressioni vengono acclamate come nobili conquiste morali per le quali il mondo intero dovrebbe essere loro grato.

Una disgregazione che è invece per gli estensori dello “statement” fonte di anomia, di perdita di senso, e del “vuoto conformismo” di una cultura ormai guidata da media e dai consumi. Una generazione, quella del 1968, che ha distrutto insomma forme di vita e valori storici ma non li ha sostituiti con altri; che ha, secondo gli autori, solo creato un vuoto.

Quel vuoto intravisto anche dal nostro Pasolini, che si riempie quindi di surrogati: i social media, il turismo di massa, la pornografia.

La Dichiarazione continua attaccando quindi direttamente il multiculturalismo, che nega le radici cristiane:

L’impegno egualitario, ci è stato detto, impone che noi abiuriamo anche la più piccola pretesa di ritenere superiore la nostra cultura. Paradossalmente, l’impresa multiculturale europea, che nega le radici cristiane dell’Europa, vive in modo esagerato e insopportabile alle spalle dell’ideale cristiano di carità universale. Dai popoli europei pretende un grado di abnegazione da santi. Denunciamo quindi il tentativo di fare della completa colonizzazione delle nostre patrie e della rovina della nostra cultura il traguardo glorioso dell’Europa nel secolo XXI, da raggiungere attraverso il sacrificio collettivo di sé in nome di una nuova comunità globale di pace e di prosperità che sta per nascere.

E quindi ovviamente la globalizzazione: la promozione di istituzioni sovranazionali il cui vero scopo è di tenere sotto controllo la sovranità popolare, riportando tutto allo stato di necessità, all’assenza di alternativa.

Ciò che propone è di “risecolarizzare la vita politica”, riconoscendo che la “fede” proclamata nella Dichiarazione di Praga è solo una superstizione, e che non abbiamo affatto bisogno di surrogati della religione (anche se il capitalismo stesso è una sua forma, come scrisse Benjamin).

Abbiamo bisogno, invece, di una nuova politica:

  1. Rompere l’incantesimo dell’Europa falsa e della sua utopistica crociata pseudo-religiosa votata a costruire un mondo senza confini significa incoraggiare una nuova arte del governo e un nuovo tipo di uomini di governo. Un uomo politico di valore salvaguarda il bene comune di un determinato popolo. Un valido uomo di governo considera la nostra comune eredità europea e le nostre specifiche tradizioni nazionali doni magnifici e vivificanti, ma al contempo fragili. Quindi né le ricusa né rischia di smarrirle per inseguire sogni utopici. Gli uomini politici così desiderano sinceramente gli onori conferiti loro dalle proprie genti, non bramano l’approvazione di quella “comunità internazionale” che di fatto è solo la cerchia di relazioni pubbliche di una oligarchia.

Ciò significa anche affrontare con prudenza e ragionevolezza il tema dell’immigrazione, puntando su una corretta integrazione ed assimilazione degli immigrati, non alla coesistenza di culture non integrate senza comune unità civica e solidale.

Ma c’è di più:

In verità, la questione dell’immigrazione è solo uno degli aspetti di un processo di disfacimento sociale più generale che dev’essere invertito. Dobbiamo ripristinare la dignità sociale che hanno i ruoli specifici. I genitori, gl’insegnanti e i professori hanno il dovere di formare coloro che sono affidati alle loro cure. Dobbiamo resistere al culto della competenza che s’impone a spese della sapienza, del garbo e della ricerca di una vita colta. L’Europa non conoscerà alcun rinnovamento senza il rifiuto deciso dell’egualitarismo esagerato e della riduzione del sapere a conoscenza tecnica. Noi abbracciamo con favore le conquiste politiche dell’età moderna. Ogni uomo e ogni donna debbono avere parità di voto. I diritti fondamentali debbono essere protetti. Ma una democrazia sana esige gerarchie sociali e culturali che incoraggino il perseguimento dell’eccellenza e che rendano onore a coloro che servono il bene comune. Dobbiamo restaurare il senso della grandezza spirituale e onorarlo in modo che la nostra civiltà possa contrastare il potere crescente della mera ricchezza da un lato e dell’intrattenimento triviale dall’altro.

Non si può dire che la Dichiarazione non sia dotata di coraggio nello sfidare apertamente il senso comune che è largamente condiviso nel nostro tempo. Lo spirito libertario nel quale per lo più siamo stati formati, nel quale io sono stato formato.

Qui comincia a divergere quindi la mia sensibilità: pur comprendendole, parole come “gerarchie sociali e culturali” e “senso della grandezza spirituale”, riverberano troppo da vicino il grande tema dei privilegi di rango, la società divisa in caste e ordini, quella che De Benoist in “Identità e comunità” chiama “l’identità di filiazione” della società tradizionale. Una società nella quale prevale la lealtà sull’interiorità e l’emancipazione. Ovvero una concezione troppo essenzialistica dell’identità, che non valuta abbastanza la sua natura dinamica, certamente dialogica, insieme individuale e collettiva. La paura dell’anomia, pur giustificata, non può dirigere nella direzione di una simmetrica indeterminazione dell’io, sciolto nell’appartenenza.

Lo scopo è comunque enunciato con grande chiarezza: “l’Europa deve riorganizzare il consenso intorno alla cultura morale in modo che la gente possa essere guidata all’obiettivo di una vita virtuosa”.

E qui si trae direttamente la più netta delle scelte:

Non possiamo consentire che una falsa idea di libertà impedisca l’uso prudente del diritto per scoraggiare il vizio. Dobbiamo perdonare la debolezza umana, ma l’Europa non può prosperare senza restaurare l’aspirazione comune alla rettitudine e all’eccellenza umana. La cultura della dignità sgorga dal decoro e dall’adempimento dei doveri che competono al nostro stato sociale. Dobbiamo ricuperare il rispetto reciproco fra le classi sociali che caratterizza una società che dà valore ai contributi di tutti.

Una scelta che proprio non posso condividere. Usare concetti come “i doveri che competono allo stato”, e “rispetto tra le classi sociali”, appena seminascosto dal riverbero dell’ideale classico della eguaglianza come dare l’eguale all’eguale, nella formula “dare valore ai contributi di tutti”, significa andare molto oltre la giustificata critica del lato dispotico della ragione. Implica sposare direttamente l’ideale di restaurazione che fu della linea genealogica prima richiamata.

Anche se mi pare giusto “resistere alle ideologie che cercano di rendere totalizzante la logica del mercato”, e che mette “tutto in vendita”, il rispetto reciproco spetta in ultima istanza agli individui e spetta a tutti in quanto esseri umani, non a questi in quanto parte di classi (né cambia il rispetto al salire da una classe all’altra, o scendere). Ci sono certo doveri, e vanno rispettati, ma non competono allo stato in cui ci si trova, competono al nostro reciproco doverci. Qui, insomma, per me si passa il segno. Un umanesimo è necessario.

Ciò non impedisce che sia necessario i mercati siano orientati a fini sociali, e incorporati in beni non economici e non disponibili.

Gli autori sono:

  • Philippe Bénéton (France), 71 anni, politologo, professore all’Università di Renne e all’Istituto Cattolico di Studi Superiori, studioso del conservatorismo, Machiavelli, Erasmo e Thomas More.
  • Rémi Brague (France), 70 anni, filosofo, medievalista e studioso del pensiero arabo di fama mondiale, conservatore e studioso influenzato da Heidegger, Strauss, ha ricevuto il Premio Ratzinger.
  • Chantal Delsol (France), 70 anni, filosofa conservatrice e allieva di Julien Freund.
  • Roman Joch (Česko), 47 anni, politico.
  • Lánczi András (Magyarország), 61 anni, filosofo conservatore e politologo dell’università di Budapest.
  • Ryszard Legutko (Polska), 67 anni, filosofo polacco e traduttore di Platone
  • Pierre Manent (France), 68 anni, politologo conservatore, studioso di Alexis de Tocqueville, Raymond Aron, Leo Strauss, Allan Bloom.
  • Dalmacio Negro Pavón (España), 85 anni, politologo e studioso di Carl Schmitt.
  • Roger Scruton (United Kingdom), 73 anni, filosofo conservatore ed occidentalista.
  • Robert Spaemann (Deutschland), 90 anni, filosofo conservatore e teologo.
  • Bart Jan Spruyt (Nederland), 53 anni, storico conservatore, cofondatore della Edmund Burke Foundation.
  • Matthias Storme (België), 58 anni, giurista conservatore.

Di certo non si può dire che non sia una importante compagine, come non si può dire non sia caratterizzata da una specifica parte.

Ciò che dobbiamo, io credo, ricercare è la costruzione di una “comunità di tutti quelli che lavorano e lottano in un dato territorio” (Formenti, “La variante populista”, p.9) che indirizzi una tensione aperta ed inclusiva a fare “Nazione”, nel pieno rispetto della vocazione e del diritto eguale delle altre (ovvero in direzione di un autentico multipolarismo plurale). Ciò significa anche coltivare e dare piena legittimità ad una forma di “patriottismo”, cioè di amore e rispetto, verso tutti coloro che si orientano allo “spirito oggettivo” delle migliori istituzioni e della forma di vita che ci crea come individualità collettiva. Una forma di vita nella quale siamo socializzati o che accettiamo volontariamente. Un patriottismo che può essere aperto e universalista, senza sconnettersi, anzi proprio collegandosi, con le tradizioni costituzionali e la storia di libertà e determinazione ad essere esempio nei momenti più alti in cui ci siamo costituiti. Ciò non è affatto incompatibile con gli obblighi che intendiamo auto assumerci nei confronti dell’umanità in generale, ma li sostanzia: la causa dell’umanità si sostiene, infatti, difendendola entro di noi e nelle istituzioni con le quali abbiamo a che fare; compiendo la “buona gara” di renderle ognuna esempio per l’altra.

La conclusione della Dichiarazione è la seguente:

  1. In questo momento, chiediamo a tutti gli europei di unirsi a noi per respingere le fantasie utopistiche di un mondo multiculturale senza frontiere. Amiamo a buon diritto le nostre patrie e cerchiamo di trasmettere ai nostri figli ogni elemento nobile che noi stessi abbiamo ricevuto in dote. Da europei, condividiamo anche una eredità comune e questa eredità ci chiede di vivere assieme in pace in una Europa delle nazioni. Ripristiniamo la sovranità nazionale e ricuperiamo la dignità di una responsabilità politica condivisa per il futuro dell’Europa.

 

Questa la condivido.

 

L’IMPORTANZA DI DIFENDERE LA NAZIONE, (a cura di) Luigi Longo

 

Propongo due letture: una di Manlio Dinucci (Bipartisan il riarmo USA anti Russia) apparsa sul il Manifesto il 18/10/17, l’altra una dichiarazione di diversi studiosi (Una Europa in cui possiamo credere) pubblicata sul sito https://thetrueeurope.eu/uneuropa-in-cui-possiamo-credere/, ottobre 2017.

Le due letture apparentemente non sono connesse, ma riflettendo più a fondo ci si accorge che sono innervate su due questioni fondamentali che interessano la fase attuale del multicentrismo: la prima riguarda la sfera militare per l’aumento sempre più vistoso della spesa per gli armamenti e per l’importanza dello spazio italiano per le strategie statunitensi in funzione anti Russia (lo spettro dei decisori USA);

la seconda concerne il recupero di una Europa delle nazioni e l’importanza che assume in questa fase la sovranità nazionale, sia per contrastare l’Europa delle regioni sia per un’Europa protagonista tra Occidente e Oriente, per costruire una relazione tra i popoli rispettosa delle differenze.

 

BIPARTISAN IL RIARMO USA ANTI-RUSSIA

di Manlio Dinucci

I Democratici, che ogni giorno attaccano il repubblicano Trump per le sue dichiarazioni bellicose, hanno votato al Senato insieme ai Repubblicani per aumentare nel 2018 il budget del Pentagono a 700 miliardi di dollari, 60 miliardi in più di quanto richiesto dallo stesso Trump. Aggiungendo i 186 miliardi annui per i militari a riposo e altre voci, la spesa militare complessiva degli Stati uniti sale a circa 1000 miliardi, ossia a un quarto del bilancio federale. Decisivo il voto all’unanimità del Comitato sui servizi armati, formato da 14 senatori repubblicani e 13 democratici.

Il Comitato sottolinea che «gli Stati uniti devono rafforzare la deterrenza all’aggressione russa: la Russia continua ad occupare la Crimea, a destabilizzare l’Ucraina, a minacciare i nostri alleati Nato, a violare il Trattato Inf del 1987 sulle forze nucleari a raggio intermedio, e a sostenere il regime di Assad in Siria». Accusa inoltre la Russia di condurre «un attacco senza precedenti ai nostri interessi e valori fondamentali», in particolare attraverso «una campagna diretta a minare la democrazia americana». Una vera e propria dichiarazione di guerra, con cui lo schieramento bipartisan motiva il potenziamento dell’intera macchina bellica statunitense.

Queste alcune delle voci di spesa nell’anno fiscale 2018 (iniziato il 1° ottobre 2017):
10,6 miliardi di dollari per acquistare 94 caccia F-35, 24 in più di quanti richiesti dall’amministrazione Trump;
17 miliardi per lo «scudo anti-missili» e le attività militari spaziali, 1,5 in più della cifra richiesta dall’amministrazione;
25 miliardi per costruire altre 13 navi da guerra, 5 in più di quante richieste dall’amministrazione.

Dei 700 miliardi del budget 2018, 640 servono principalmente all’acquisto di nuovi armamenti e al mantenimento del personale militare, le cui paghe vengono aumentate portando il costo annuo a 141 miliardi; 60 miliardi servono alle operazioni belliche in Siria, Iraq, Afghanistan e altrove. Vengono inoltre destinati 1,8 miliardi all’addestramento e l’equipaggiamento di formazioni armate sotto comando Usa in Siria e Iraq, e 4,9 miliardi al «Fondo per le forze di sicurezza afghane».

Alla «Iniziativa di rassicurazione dell’Europa», lanciata nel 2014 dall’amministrazione Obama dopo «l’aggressione revanscista russa all’Ucraina», vengono destinati nel 2018 4,6 miliardi: essi servono ad accrescere la presenza di forze corazzate statunitensi e il «preposizionamento strategico» di armamenti Usa in Europa. Vengono inoltre stanziati 500 milioni di dollari per fornire «assistenza letale» (ossia armamenti) all’Ucraina.

L’aumento del budget del Pentagono traina quelli degli altri membri della Nato sotto comando Usa, compresa l’Italia la cui spesa militare, dagli attuali 70 milioni di euro al giorno, dovrà salire verso i 100.

Allo stesso tempo il budget del Pentagono prospetta che cosa si prepara per l’Italia.

Tra le voci di spesa minori, ma non per questo meno importanti, vi sono 27 milioni di dollari per la base di Aviano, a riprova che continua il suo potenziamento in vista dell’installazione delle nuove bombe nucleari B61-12, e 65 milioni per il programma di ricerca e sviluppo di «un nuovo missile con base a terra a raggio intermedio per cominciare a ridurre il divario di capacità provocato dalla violazione russa del Trattato Inf».

In altre parole, gli Stati uniti hanno in programma di schierare in Europa missili nucleari analoghi ai Pershing 2 e ai Cruise degli anni Ottanta, questi ultimi installati allora anche in Italia a Comiso. Ce lo annuncia dal Senato degli Stati uniti, con il suo unanime voto bipartisan, il Comitato sui servizi armati.

LA DICHIARAZIONE DI PARIGI

UN’EUROPA IN CUI POSSIAMO CREDERE

1. L’Europa ci appartiene e noi apparteniamo all’Europa. Queste terre sono la nostra casa; non ne abbiamo altra. Le ragioni per cui l’Europa ci è cara superano la nostra capacità di spiegare o di giustificare la nostra lealtà verso di essa. Sono storie, speranze e affetti condivisi. Usanze consolidate, e momenti di pathos e di dolore. Esperienze entusiasmanti di riconciliazione e la promessa di un futuro condiviso. Scenari ed eventi comuni si caricano di significato speciale: per noi, ma non per altri. La casa è un luogo dove le cose sono familiari e dove veniamo riconosciuti per quanto lontano abbiamo vagato. Questa è l’Europa vera, la nostra civiltà preziosa e insostituibile.

L’Europa è nostra casa.

2. L’Europa, in tutta la sua ricchezza e la sua grandezza, è minacciata da un falsa concezione di se stessa. Questa Europa falsa immagina di essere la realizzazione della nostra civiltà, ma in verità sta requisendo la nostra casa. Si appella alle esagerazioni e alle distorsioni delle autentiche virtù dell’Europa, e resta cieca di fronte ai propri vizi. Smerciando con condiscendenza caricature a senso unico della nostra storia, questa Europa falsa nutre un pregiudizio invincibile contro il passato. I suoi fautori sono orfani per scelta e danno per scontato che essere orfani ‒ senza casa ‒ sia una conquista nobile. In questo modo, l’Europa falsa incensa se stessa descrivendosi come l’anticipatrice di una comunità universale che però non è né universale né una comunità.

Una falsa Europa ci minaccia.

3. I padrini dell’Europa falsa sono stregati dalle superstizioni del progresso inevitabile. Credono che la Storia stia dalla loro parte, e questa fede li rende altezzosi e sprezzanti, incapaci di riconoscere i difetti del mondo post-nazionale e post-culturale che stanno costruendo. Per di più, ignorano quali siano le fonti vere del decoro autenticamente umano cui peraltro tengono caramente essi stessi, proprio come vi teniamo noi. Ignorano, anzi ripudiano le radici cristiane dell’Europa. Allo stesso tempo, fanno molta attenzione a non offendere i musulmani, immaginando che questi ne abbracceranno con gioia la mentalità laicista e multiculturalista. Affogata nel pregiudizio, nella superstizione e nell’ignoranza, oltre che accecata dalle prospettive vane e autogratulatorie di un futuro utopistico, per riflesso condizionato l’Europa falsa soffoca il dissenso. Tutto ovviamente in nome della libertà e della tolleranza.

La falsa Europa è utopica e tirannica.

4. Siamo in un vicolo cieco. La minaccia maggiore per il futuro dell’Europa non sono né l’avventurismo russo né l’immigrazione musulmana. L’Europa vera è a rischio a causa della stretta asfissiante che l’Europa falsa esercita sulla nostra capacità d’immaginare prospettive. I nostri Paesi e la cultura che condividiamo vengono svuotati da illusioni e autoinganni su ciò che l’Europa è e deve essere. Noi c’impegniamo dunque a resistere a questa minaccia diretta contro il nostro futuro. Noi difenderemo, sosterremmo e promuoveremo l’Europa vera, l’Europa a cui in verità noi tutti apparteniamo.

Dobbiamo difendere la Europa vera.

5. L’Europa vera si aspetta e incoraggia la partecipazione attiva al progetto di una vita politica e culturale comuni. Quello europeo è un ideale di solidarietà basato sull’assenso a un corpo di leggi che si applica a tutti, ma che è limitato nelle pretese. Questo assenso non ha sempre assunto la forma della democrazia rappresentativa. Ma le nostre tradizioni di lealtà civica riflettono un assenso fondamentale alle nostre tradizioni politiche e culturali, quali che ne siano le forme. Nel passato, gli europei hanno combattuto per rendere i propri sistemi politici più aperti alla partecipazione popolare e di questa storia andiamo giustamente orgogliosi. Pur facendolo, talora con modi apertamente ribelli, hanno vigorosamente affermato che, malgrado le ingiustizie e le mancanze, le tradizioni dei popoli di questo continente sono le nostre. Questo zelo riformatore rende l’Europa un luogo alla costante ricerca di una giustizia sempre maggiore. Questo spirito di progresso è nato dall’amore e dalla lealtà verso le nostre patrie.

La solidarietà e la lealtà civica incoraggiano la partecipazione attiva.

6. È uno spirito europeo di unità che ci permette di fidarci pubblicamente gli uni degli altri, anche tra stranieri. Sono i parchi pubblici, le piazze centrali e i grandi viali delle città e dei borghi europei a esprimere lo spirito politico europeo: noi condividiamo una vita e una res publica comuni. Riteniamo nostro dovere assumerci la responsabilità del futuro delle nostre società. Non siamo soggetti passivi sottoposto al dominio di poteri dispotici, sacrali o laici. E non ci prostriamo davanti all’implacabilità di forze storiche. Essere europei significa possedere la facoltà di agire nella politica e nella storia. Siamo noi gli autori del destino che ci accomuna.

Non siamo soggetti passivi.

7. L’Europa vera è una comunità di nazioni. Abbiamo lingue, tradizioni e confini propri. Eppure ci siamo sempre riconosciuti affini, anche quando siamo arrivati al contrasto, o persino alla guerra. A noi questa unità nella diversità sembra naturale. Tuttavia è una realtà notevole e preziosa poiché non è né naturale né inevitabile. La forma politica più comune di questa unità nella diversità è l’impero, che i re guerrieri europei hanno cercato di ricreare per secoli dopo la caduta dell’impero romano. L’attrattiva esercitata dal modello imperiale è perdurata, ma ha prevalso lo Stato-nazione, la forma politica che unisce l’essere popolo alla sovranità. Lo Stato-nazione è quindi diventato il tratto caratteristico della civiltà europea.

Lo Stato-nazione è un segno distintivo dell’Europa.

8. Una comunità nazionale è fiera di governarsi a modo proprio, spesso si vanta dei grandi traguardi raggiunti nelle arti e nelle scienze, e compete con gli altri Paesi, a volte anche sul campo di battaglia. Tutto ciò ha ferito l’Europa, talvolta gravemente, ma non ne ha mai compromesso l’unità culturale. Di fatto è accaduto semmai il contrario. Man mano che gli Stati-nazione dell’Europa sono venuti radicandosi e precisandosi, si è rafforzata una identità europea comune. A seguito del terribile bagno di sangue causato dalle guerre mondiali nella prima metà del secolo XX, ci siamo rialzati ancora più risoluti a onorare quell’eredità comune. Ciò testimonia quale profondità e quale potenza abbia l’Europa come civiltà cosmopolita nel senso più appropriato. Noi non cerchiamo l’unità imposta e forzata di un impero. Piuttosto, il cosmopolitismo europeo riconosce che l’amore patriottico e la lealtà civica aprono a un mondo più vasto.

Noi non sosteniamo un’unione imposta o forzata.

9. L’Europa vera è stata segnata dal cristianesimo. L’impero spirituale universale della Chiesa ha portato l’unità culturale all’Europa, ma lo ha fatto senza un impero politico. Questo ha permesso che entro una cultura europea condivisa fiorissero lealtà civiche particolari. L’autonomia di ciò che chiamiamo società civile è dunque diventata una peculiarità della vita europea. Inoltre, il Vangelo cristiano non consegna all’uomo una legge divina esaustiva da applicare alla società, e questo rende possibile affermare e onorare la varietà delle legislazioni positive delle diverse nazioni senza recare minaccia alla nostra unità europea. Non è un caso che il declino della fede cristiana in Europa sia stato accompagnato da sforzi sempre maggiori per raggiugerne l’unità politica: ovvero l’impero monetario e regolatorio, ammantato dai sentimenti di universalismo pseudoreligioso, che l’Unione Europea sta costruendo.

Il cristianesimo incoraggiava l’unità culturale.

10. L’Europa vera afferma la pari dignità di qualsiasi persona, senza fare differenze di sesso, di rango o di razza. Anche questo proviene dalle nostre radici cristiane. Le nostre virtù nobili hanno un’ascendenza inequivocabilmente cristiana: l’equità, la compassione, la misericordia, il perdono, l’operare per la pace, la carità. Il cristianesimo ha rivoluzionato le relazioni tra gli uomini e le donne, dando valore all’amore e alla fedeltà reciproca come mai era stato fatto prima. Il legame del matrimonio consente sia agli uomini sia alle donne di prosperare in comunione. La maggior parte dei sacrifici che compiamo sono a vantaggio dei nostri coniugi e dei nostri figli. Anche questo spirito di donazione di sé è un altro contributo cristiano all’Europa che amiamo.

Le radici cristiane nutrono l’Europa.

11. L’Europa vera trae ispirazione altresì dalla tradizione classica. Noi ci riconosciamo nella letteratura della Grecia e di Roma antiche. Da europei, ci sforziamo per raggiungere la magnificenza, gemma sulla corona delle virtù classiche. A volte questo ha condotto alla competizione violenta per la supremazia. Ma al suo meglio è l’aspirazione all’eccellenza che ispira gli uomini e le donne dell’Europa a creare opere musicali e artistiche d’ineguagliata bellezza o a compiere svolte straordinarie nella scienza e nella tecnologia. Le virtù profonde dei Romani che sapevano come dominare se stessi, nonché l’orgoglio nel partecipare alla vita civica e lo spirito dell’indagine filosofica dei Greci non sono mai stati dimenticati nell’Europa vera. Anche queste eredità sono nostre.

Le radici classiche incoraggiano l’eccellenza.

12. L’Europa vera non è mai stata perfetta. I fautori dell’Europa falsa non sbagliano nel proporre sviluppi e riforme, e tra il 1945 e il 1989 molte di apprezzabile e di onorevole è stato fatto. La nostra vita condivisa è un progetto che continua, non un’eredità sclerotizzata. Ma il futuro dell’Europa riposa in una lealtà rinnovata verso le nostre tradizioni migliori, non un universalismo spurio che impone la perdita della memoria e il ripudio di sé. L’Europa non è iniziata con l’Illuminismo. La nostra amata casa non troverà realizzazione di sé nell’Unione Europea. L’Europa vera è, e sempre sarà, una comunità di nazioni a volte chiuse, e talvolta ostinatamente tali, eppure unite da un’eredità spirituale che, assieme, discutiamo, sviluppiamo, condividiamo e sì, amiamo.

L’Europa è un progetto condiviso.

13. L’Europa vera è a rischio. I risultati ottenuti dalla sovranità popolare, dalla resistenza all’impero, dal cosmopolitismo capace di amore civico, il retaggio cristiano di una vita autenticamente umana e dignitosa, l’impegno vivo nei confronti della nostra eredità classica stanno tutti scemando. I padrini dell’Europa falsa costruiscono la loro fasulla Cristianità di diritti umani universali e noi perdiamo la nostra casa.

Stiamo perdendo la nostra casa.

14. L’Europa falsa si gloria di un impegno senza precedenti a favore della libertà umana. Questa libertà, però, è assolutamente a senso unico. Viene veduta come la liberazione da ogni freno: libertà sessuale, libertà di espressione di sé, libertà di “essere se stessi”. La generazione del 1968 considera queste libertà come vittorie preziose su quello che un tempo era un regime culturale onnipotente e oppressivo. I sessantottini si considerano grandi liberatori, e le loro trasgressioni vengono acclamate come nobili conquiste morali per le quali il mondo intero dovrebbe essere loro grato.

Sta prevalendo una libertà falsa.

15. Per le generazioni europee più giovani, invece, la realtà è molto meno dorata. L’edonismo libertino conduce spesso alla noia e a un profondo senso d’inutilità. Il vincolo matrimoniale si è indebolito. Nel mare torbido della libertà sessuale, il desiderio profondo dei giovani di sposarsi e di formare famiglie viene spesso frustrato. Una libertà che frustra le ambizioni più profonde del nostro cuore diventa una maledizione. Sembra che le nostre società stiano cadendo nell’individualismo, nell’isolamento e nell’inanità. Al posto della libertà, siamo condannati al vuoto conformismo di una cultura guidata dai consumi e dai media. È quindi nostro dovere dire la verità: la generazione del 1968 ha distrutto, ma non ha costruito. Ha creato un vuoto ora riempito dai social media, dal turismo di massa e dalla pornografia.

L’individualismo, l’isolamento e l’astuzia sono diffusi.

16. E mentre ascoltiamo i vanti di questa libertà senza precedenti, la vita dell’Europa si fa sempre più globalmente regolamentata. Ci sono regole ‒ spesso predisposte da tecnocrati senza volto legati a interessi forti ‒ che governano le nostre relazioni professionali, le nostre decisioni nel campo degli affari, i nostri titoli di studio, i nostri mezzi d’informazione e d’intrattenimento, la nostra stampa. E ora l’Europa cerca di restringere ancora di più la libertà di parola, una libertà che è stata europea sin dal principio e che equivale alla manifestazione della libertà di coscienza. Ma gli obiettivi di queste restrizioni non sono l’oscenità e le altre aggressioni alla decenza nella vita pubblica. Al contrario, la classe dirigente europea vuole manifestamente restringere la libertà di parola. Gli esponenti politici che danno voce a certe verità sconvenienti sull’islam e sull’immigrazione vengono trascinati in tribunale. La correttezza politica impone tabù così forti da squalificare in partenza qualsiasi tentativo di sfidare lo status quo. In realtà, l’Europa falsa non incoraggia la cultura della libertà. Promuove una cultura dell’omogeneità guidata da criteri mercantili e della conformità imposta da logiche politiche.

Siamo regolati e gestiti.

17. L’Europa falsa si vanta pure di un impegno senza precedenti a favore dell’eguaglianza. Pretende di promuovere la non-discriminazione e l’inclusione di tutte le razze, di tutte le religioni e di tutte le identità. In questo campo sono stati effettivamente compiuti progressi veri, ma il distacco utopistico dalla realtà ha preso il sopravvento. Negli ultimi decenni, l’Europa ha perseguito un grandioso progetto multiculturalista. Chiedere o figuriamoci promuovere l’assimilazione dei nuovi arrivati musulmani alle nostre usanze e ai nostri costumi, peggio ancora alla nostra religione, è stata giudicata un’ingiustizia triviale. L’impegno egualitario, ci è stato detto, impone che noi abiuriamo anche la più piccola pretesa di ritenere superiore la nostra cultura. Paradossalmente, l’impresa multiculturale europea, che nega le radici cristiane dell’Europa, vive in modo esagerato e insopportabile alle spalle dell’ideale cristiano di carità universale. Dai popoli europei pretende un grado di abnegazione da santi. Denunciamo quindi il tentativo di fare della completa colonizzazione delle nostre patrie e della rovina della nostra cultura il traguardo glorioso dell’Europa nel secolo XXI, da raggiungere attraverso il sacrificio collettivo di sé in nome di una nuova comunità globale di pace e di prosperità che sta per nascere.

Il multiculturalismo è impraticabile.

18. In quest’idea c’è una grande misura di malafede. La maggior parte degli esponenti dei nostri mondi politici è senza dubbio convinta che la cultura europea sia superiore, ma non lo può dire in pubblico perché offenderebbe gl’immigrati. Stante questa superiorità, pensano che l’assimilazione avverrà in modo naturale e rapido. Riecheggiando ironicamente l’antica idea imperialista, le classi dirigenti europee presumono infatti che, in qualche modo, in obbedienza alle leggi della natura o della storia, “loro” diventeranno necessariamente come “noi”; e non concepiscono che possa accadere invece l’inverso. Nel frattempo, s’impiega la dottrina multiculturalista ufficiale come strumento terapeutico per gestire le incresciose ma “temporanee” tensioni culturali.

Cresce la fede falsa.

19. Ma vi è una malafede ancora maggiore, di un genere più oscuro. Negli ultimi decenni, una parte sempre più ampia della nostra classe dirigente ha riposto i propri interessi nell’accelerazione della globalizzazione. I suoi esponenti mirano a dar vita a istituzioni sovranazionali che possano controllare senza l’inconveniente della sovranità popolare. È sempre più chiaro che il “deficit di democrazia” di cui soffre l’Unione Europea non è solo un problema tecnico che si può risolvere con mezzi tecnici, ma un impegno basilare difeso con zelo. Legittimati da presunte necessità economiche o attraverso l’elaborazione autonoma di una nuova legislazione internazionale dei diritti umani, i mandarini sovranazionali delle istituzioni comunitarie europee confiscano la vita politica dell’Europa, rispondendo alle sfide in modo tecnocratico: non esiste alternativa. È questa la tirannia morbida ma concreta che abbiamo oggi di fronte.

Aumenta la tirannia tecnologica.

20. Nonostante i migliori sforzi profusi dai suoi partigiani per cercare di tenere in piedi un castello d’illusioni confortanti, l’arroganza dell’Europa falsa sta però ora diventando del tutto evidente. Soprattutto, l’Europa falsa si sta rivelando più debole di quanto chiunque avrebbe mai immaginato. L’intrattenimento popolare e il consumo materiale non alimentano la vita civica. Depauperate d’ideali nobili e inibite dall’ideologia multiculturalista a esprimere orgoglio patriottico, le nostre società hanno difficoltà a trovare la volontà di difendersi. In più, non sono certo la retorica dell’inclusione o l’impersonalità di un sistema economico dominato da gigantesche società internazionali per azioni a poter ridare vigore al senso civico e alla coesione sociale. Dobbiamo essere franchi ancora una volta: le società europee si stanno sfilacciando malamente. Se non apriremo gli occhi, assisteremo a un uso sempre maggiore del potere statalista, dell’ingegneria sociale e dell’indottrinamento culturale. Non è solo il terrorismo islamico a portare soldati pesantemente armati nelle nostre strade. Per domare le contestazioni antisistema e persino le folle ubriache dei tifosi di calcio oggi sono necessari poliziotti in tenuta antisommossa. Il fanatismo delle tifoserie sportive è un segno disperato nel bisogno profondamente umano di solidarietà, un bisogno che d’altra parte l’Europa falsa disattende.

La Europa falsa è fragile e impotente.

21. In Europa, i ceti intellettuali sono, purtroppo, fra i principali partigiani ideologici della boria dell’Europa falsa. Senza dubbio, le nostre università sono una delle glorie della civiltà europea. Ma laddove un tempo esse cercavano di trasmettere a ogni nuova generazione la sapienza delle epoche passate, oggi per i più il pensiero critico equivale alla semplicistica ricusazione del passato. La stella polare dello spirito europeo è stata la rigorosa disciplina dell’onestà e dell’obiettività intellettuali. Ma da due generazioni questo nobile ideale è stato trasformato. L’ascetismo che un tempo cercava di liberare la mente dalla tirannia dell’opinione dominante si è mutata in un’animosità spesso compiaciuta e irriflessiva contro tutto ciò che ci appartiene. Questo atteggiamento di ripudio culturale è un modo semplice e a buon mercato per atteggiarsi a “critici”. Negli ultimi decenni, è stato sperimentato nelle sale da convegno, diventando una dottrina, un dogma. E l’unirsi a questo credo viene preso come segno di elezione spirituale da “illuminati”. Di conseguenza, le nostre università sono diventate agenti attivi della distruzione culturale.

Si è sviluppata una cultura del ripudio.

22. Le nostri classi dirigenti promuovono i diritti umani. Combattono i cambiamenti climatici. Progettano una economia di mercato più globalmente integrata e l’armonizzazione delle politiche fiscali. Supervisionano i passi compiuti verso l’eguaglianza di genere. Fanno così tanto per noi! Che importa dunque dei meccanismi con cui sono arrivati ai loro posti? Che importa se i popoli europei sono sempre più scettici delle loro gestioni?

Le èlite esibiscono in modo arrogante le loro virtù.

23. Lo scetticismo crescente è pienamente giustificato. Oggi l’Europa è dominata da un materialismo privo di obiettivi incapace di motivare gli uomini e le donne a generare figli e a formare famiglie. La cultura del ripudio defrauda le generazioni future del senso d’identità. In alcuni dei nostri Paesi vi sono zone intere in cui i musulmani vivono informalmente autonomi rispetto alle leggi vigenti, quasi fossero dei coloni invece che dei nostri connazionali. L’individualismo ci isola gli uni dagli altri. La globalizzazione trasforma le prospettive di vita di milioni di persone. Quando le si sfida, le nostre classi dirigenti dicono che la loro è semplicemente la gestione dell’inevitabile e la sistemazione delle necessità più impellenti. Nessun’altra strada è possibile, e resistere è irrazionale. Le cose non possono andare altrimenti. Chi si oppone, soffre di nostalgia, e per questo merita di essere moralmente condannato come razzista e fascista. Man mano che le divisioni sociali e la sfiducia civica si fanno evidenti, la vita pubblica europea diviene più rabbiosa, più rancorosa, e nessuno sa dove questo potrà condurre. Dobbiamo smettere di camminare lungo questa strada. Dobbiamo liberarci della tirannia dell’Europa falsa. Un’alternativa c’è.

Un’alternativa c’è.

24. L’opera di rinnovamento inizia con l’autocoscienza teologica. Le pretese universaliste e multiculturaliste dell’Europa falsa si rivelano essere surrogati della religione, con tanto di impegni di fede e pure di anatemi. È l’oppio potente che paralizza politicamente l’Europa. Noi dobbiamo quindi sottolineare che le aspirazioni religiose appartengono al mondo della religione, non a quello della politica, meno ancora a quello dell’amministrazione burocratica. Per ricuperare la nostra capacità di agire nella politica e nella storia, è imperativo risecolarizzare la vita politica dell’Europa.

Dobbiamo rifiutare i surrogati della religione.

25. Quest’impresa esigerà che ognuno di noi rinunci al linguaggio bugiardo che evita le responsabilità e che favorisce la manipolazione ideologica. I discorsi sulla diversità, sull’inclusione e sul multiculturalismo sono vuoti. Spesso è un linguaggio utilizzato per travestire i nostri fallimenti da conquiste: la dissoluzione della solidarietà sociale viene “in realtà” presa come un segnale di benvenuto, di tolleranza e d’inclusione. Ma questo è linguaggio da marketing, inteso a oscurare la realtà invece che a illuminarla. Dobbiamo allora ricuperare il rispetto profondo per la realtà. Il linguaggio è uno strumento delicato, e usandolo come un randello lo si degrada. Dobbiamo farci fautori del decoro linguistico. Il ricorso alla denuncia è il segno della decadenza che ha aggredito il nostro tempo. Non dobbiamo tollerare l’intimidazione verbale, men che meno le minacce di morte. Dobbiamo proteggere chi parla in modo ragionevole anche quando pensiamo che sbagli. Il futuro dell’Europa dev’essere liberale nel senso migliore del termine, ovvero garante di discussioni pubbliche appassionate, libere da ogni minaccia di violenza e di coercizione.

Dobbiamo ripristinare un vero e proprio liberalismo.

26. Rompere l’incantesimo dell’Europa falsa e della sua utopistica crociata pseudo-religiosa votata a costruire un mondo senza confini significa incoraggiare una nuova arte del governo e un nuovo tipo di uomini di governo. Un uomo politico di valore salvaguarda il bene comune di un determinato popolo. Un valido uomo di governo considera la nostra comune eredità europea e le nostre specifiche tradizioni nazionali doni magnifici e vivificanti, ma al contempo fragili. Quindi né le ricusa né rischia di smarrirle per inseguire sogni utopici. Gli uomini politici così desiderano sinceramente gli onori conferiti loro dalle proprie genti, non bramano l’approvazione di quella “comunità internazionale” che di fatto è solo la cerchia di relazioni pubbliche di una oligarchia.

Abbiamo bisogno di statisti responsabili.

27. Riconoscendo il carattere particolare dei Paesi europei, e la loro impronta cristiana, non dobbiamo lasciarci confondere dalle affermazioni pretestuose dei multiculturalisti. L’immigrazione senza l’assimilazione è solo una colonizzazione, e dev’essere respinta. Ci attendiamo giustamente che chi migra nelle nostre terre divenga parte dei nostri Paesi, adottando le nostre usanze. Quest’aspettativa deve però essere sostenuta da una politica solida. Il linguaggio del multiculturalismo è stato importato dagli Stati Uniti d’America. Ma l’età d’oro dell’immigrazione negli Stati Uniti è stata all’inizio del secolo XX, un periodo di crescita economica notevolmente rapida in un Paese sostanzialmente privo di Welfare State e caratterizzato da un forte senso d’identità nazionale che ci si attendeva gl’immigrati assimilassero. Dopo avere accolto numeri enormi d’immigrati, gli Stati Uniti hanno poi praticamente sigillato le porte per due generazioni. L’Europa deve imparare da quell’esperienza americana invece che adottare le ideologie americane contemporanee. Quell’esperienza dice che il lavoro è un potente forza di assimilazione, che un Welfare State indulgente può invece impedire l’assimilazione e che a volte la prudenza politica impone di ridurre le cifre dell’immigrazione, anche in modo drastico. Non dobbiamo permettere che l’ideologia multiculturalista deformi la nostra capacità di valutare in sede politica quale sia il modo migliore per servire il bene comune, cosa che peraltro esige che comunità nazionali sufficientemente unite e solidali considerino il proprio bene come comune.

Dobbiamo rinnovare l’unità nazionale e la solidarietà.

28. Dopo la Seconda guerra mondiale, l’Europa Occidentale ha saputo far crescere sistemi democratici vitali. Dopo il crollo dell’impero sovietico, i Paesi dell’Europa Centrale hanno ricuperato la propria vitalità civica. Sono due delle conquiste più preziose cui l’Europa sia mai giunta. Ma andranno perdute se non affrontiamo il nodo dell’immigrazione e dei cambiamenti demografici in atto nei nostri Paesi. Solo gl’imperi possono essere multiculturali, ed è esattamente un impero ciò che l’Unione Europea diventerà se non riusciremo a fare di una nuova unità civica solidale il criterio per valutare le politiche sull’immigrazione e le strategie per l’assimilazione.

Solo gli imperi sono multiculturali.

29. Molti pensano erroneamente che l’Europa sia scossa solo dalle controversie sull’immigrazione. In verità, la questione dell’immigrazione è solo uno degli aspetti di un processo di disfacimento sociale più generale che dev’essere invertito. Dobbiamo ripristinare la dignità sociale che hanno i ruoli specifici. I genitori, gl’insegnanti e i professori hanno il dovere di formare coloro che sono affidati alle loro cure. Dobbiamo resistere al culto della competenza che s’impone a spese della sapienza, del garbo e della ricerca di una vita colta. L’Europa non conoscerà alcun rinnovamento senza il rifiuto deciso dell’egualitarismo esagerato e della riduzione del sapere a conoscenza tecnica. Noi abbracciamo con favore le conquiste politiche dell’età moderna. Ogni uomo e ogni donna debbono avere parità di voto. I diritti fondamentali debbono essere protetti. Ma una democrazia sana esige gerarchie sociali e culturali che incoraggino il perseguimento dell’eccellenza e che rendano onore a coloro che servono il bene comune. Dobbiamo restaurare il senso della grandezza spirituale e onorarlo in modo che la nostra civiltà possa contrastare il potere crescente della mera ricchezza da un lato e dell’intrattenimento triviale dall’altro.

Una giusta gerarchia nutre il benessere sociale.

30. La dignità umana è più del diritto a essere lasciati in pace e le dottrine dei diritti umani internazionali non esauriscono la sete di giustizia, meno ancora la sete del bene. L’Europa deve riorganizzare il consenso attorno alla cultura morale di modo che le gente possa essere guidata all’obiettivo di una vita virtuosa. Non possiamo consentire che una falsa idea di libertà impedisca l’uso prudente del diritto per scoraggiare il vizio. Dobbiamo perdonare la debolezza umana, ma l’Europa non può prosperare senza restaurare l’aspirazione comune alla rettitudine e all’eccellenza umana. La cultura della dignità sgorga dal decoro e dall’adempimento dei doveri che competono al nostro stato sociale. Dobbiamo ricuperare il rispetto reciproco fra le classi sociali che caratterizza una società che dà valore ai contributi di tutti.

Dobbiamo ripristinare la cultura morale.

31. Mentre riconosciamo gli aspetti positivi delle economie di libero mercato, dobbiamo resistere alle ideologie che cercano di rendere totalizzante la logica del mercato. Non possiamo permettere che tutto sia in vendita. I mercati che funzionano bene esigono che sia il diritto a precedere e a presiedere (rule of law) e il nostro diritto che tutto precede e presiede deve puntare più in alto della mera efficienza economica. Del resto i mercati funzionano meglio quando sono inseriti in istituzioni sociali forti organizzate sui princìpi autonomi non mercantili. La crescita economica, benché benefica, non è il bene sommo. I mercati debbono essere orientati a fini sociali. Oggi il gigantismo aziendale minaccia persino la sovranità politica. I Paesi debbono cooperare per dominare l’arroganza e l’irragionevolezza delle forze economiche globali. Noi ci riconosciamo quindi in un uso prudente del potere esercitato dai governi per sostenere beni sociali non economici.

I mercati devono essere ordinati verso fini sociali.

32. Noi crediamo che l’Europa abbia una storia e una cultura degne di essere difese. Troppo spesso, però, le nostre università tradiscono la nostra eredità culturale. Dobbiamo riformare i programmi scolastici per incoraggiare la trasmissione della nostra cultura comune invece che indottrinare i giovani con una cultura del ripudio. Gl’insegnanti e i mentori di ogni livello hanno il dovere della memoria. Dovrebbero essere orgogliosi del ruolo di ponte fra le generazioni passate e future che hanno. Dobbiamo ricuperare anche il senso della cultura europea alta, usando il bello e il sublime come norma comune e rigettando la degradazione delle arti a una fattispecie della propaganda politica. Questo esigerà che si allevi una nuova generazione di mecenati. Le società per azioni e le burocrazie si sono rivelate essere custodi davvero poveri delle arti.

L’istruzione deve essere riformata.

33. Il matrimonio è il fondamento della società civile e la base dell’armonia fra gli uomini e le donne. È il legame intimo tra un uomo e una donna che si organizza per il sostentamento della famiglia e per la crescita dei figli. Noi affermiamo che i ruoli più fondamentali che abbiamo sia nella società sia in quanto esseri umani sono quelli di padri e di madri. Il matrimonio e i figli sono parte integrante di qualsiasi prospettiva di prosperità umana. A coloro che li hanno generati al mondo i figli richiedono sacrificio. È un sacrificio nobile cui deve essere reso onore. Noi pertanto auspichiamo politiche sociali prudenti che incoraggino e rafforzino il matrimonio, la maternità e l’educazione dei figli. Una società che non accoglie i figli non ha futuro.

Il matrimonio e la famiglia sono essenziali.

34. L’Europa di oggi è attraversato da grande preoccupazione per il sorgere di quello che viene chiamato “populismo”, anche se il significato del termine non viene mai definito ed è usato per lo più solo come invettiva. Sul tema abbiamo le nostre riserve. L’Europa deve attingere alla sapienza profonda delle proprie tradizioni piuttosto che affidarsi a slogan semplicistici e a richiami emotivi divisivi. Eppure ci rendiamo conto che molti elementi di questo nuovo fenomeno politico possono rappresentare una sana ribellione contro la tirannia dell’Europa falsa, che etichetta come “antidemocratica” qualsiasi realtà ne minacci il monopolio della legittimità morale. Il cosiddetto “populismo” sfida la dittatura dello status quo, il “fanatismo del centro”, e lo fa giustamente. È un segno che persino nel mezzo della nostra cultura politica degradata e impoverita è possibile ridare vita all’agire storico dei popoli europei.

Il populismo dovrebbe essere combattuto.

35. Rifiutiamo perché falsa la pretesa di dire che non esiste alternativa responsabile alla solidarietà artificiale e senz’anima di un mercato unificato, di una burocrazia transnazionale e di un intrattenimento dozzinale. L’alternativa responsabile è l’Europa vera.

Il nostro futuro è la Europa vera.

36. In questo momento, chiediamo a tutti gli europei di unirsi a noi per respingere le fantasie utopistiche di un mondo multiculturale senza frontiere. Amiamo a buon diritto le nostre patrie e cerchiamo di trasmettere ai nostri figli ogni elemento nobile che noi stessi abbiamo ricevuto in dote. Da europei, condividiamo anche una eredità comune e questa eredità ci chiede di vivere assieme in pace in una Europa delle nazioni. Ripristiniamo la sovranità nazionale e ricuperiamo la dignità di una responsabilità politica condivisa per il futuro dell’Europa.

Dobbiamo assumerci la responsabilità.

Philippe Bénéton – Università di Rennes-(Francia)

Rémi Brague – Università di Parigi I Pantheon – Sorbonne– (Francia) Chantal Delsol – Istituto di ricerca Hannah Arend, Accademia delle Scieze morali e politiche – (Francia)

Roman Joch – Università di Praga – (Repubblica Ceca)

Lánczi András – Università Corvinus di Budapest – (Ungheria)

Ryszard Legutko – Università Jagiellonian di Cracovia (Polonia)

Roger Scruton – Università di Buckingham – (Regno Unito)

Robert Spaemann – Università di Monaco – (Germania)

Bart Jan Spruyt – Fondazione Edmund Burke – L’Aia – (Olanda)

Matthias Storme – Università cattolica di Leuven – (Belgio)

DUE APPELLI, DUE EUROPE. Di Roberto Buffagni

Un primo contributo, seguito alla pubblicazione di due primi documenti a firma collettiva http://italiaeilmondo.com/2017/10/24/quale-europa-a-cura-di-giuseppe-germinario/ , alla discussione sulle basi culturali, teoriche e politiche dell’europeismo e sulle basi politiche per modalità alternative di costruzione di relazioni tra stati europei

Nello scorso maggio, l’European Endowment  for Democracy,[1] un’importante istituzione europea con sede a Bruxelles che ha lo scopo di finanziare “gli attori locali del cambiamento democratico in Europa e altrove”, ha promosso, nell’ambito del forum 2000 riunito a Praga, un Appello per il rinnovamento democratico[2]. Tra i molti primi firmatari, lo storico britannico Timothy Garton Ash, il filosofo francese Bernard Henri Levy, il politologo americano Francis Fukuyama, l’attore USA Richard Gere, il politico francese Bernard Kouchner, e il presidente ceco dello EEfD.

L’appello di Praga esordisce così: “La liberal-democrazia è minacciata, e tutti coloro che l’hanno a cuore devono accorrere in sua difesa”.

Caratteristiche salienti dell’appello:

1) E’ scritto in inglese, non esiste versione in altre lingue.

2) E’ scritto in una lingua di legno burocratico-giornalistica che arranca penosamente da un cliché all’altro, anche se tra i firmatari, gente che sa scrivere ce n’è, per esempio Timothy Garton Ash che oltre ad essere un madrelingua inglese ha una penna brillante. L’estensore del testo è, evidentemente, un burocrate.

3) E’ rivolto al mondo intero, e forse anche all’universo infinito. Mittente: Europa, destinatario: Universo.

4) Il livello dell’analisi è di una superficialità strabiliante, lo sforzo di definire i concetti e il lessico nullo. “La democrazia è minacciata dall’esterno da regimi dispotici come Russia e Cina”, ma anche dall’interno. “La fede [sic, il documento impiega la parola “faith” e non “trust”, fede e non fiducia; la democrazia come articolo di fede religiosa] nelle istituzioni democratiche declina da qualche tempo, perché i governi sembrano incapaci di rispondere alle sfide della globalizzazione, i processi politici appaiono sempre più sclerotici e disfunzionali, e le burocrazie che gestiscono le istituzioni nazionali e sovrannazionali lontane e autoritarie.” E concluso questo alato paragrafo, si va a timbrare il cartellino.

5) L’obiettivo è così definito: “Il punto di partenza di questa nuova campagna per la democrazia è la riaffermazione dei principi fondamentali che hanno ispirato l’espansione della democrazia moderna sin dalla sua nascita, più di due secoli fa.”

Non riassumo oltre, perché non c’è molto da riassumere e l’appello è brevissimo, un paio di paginette. Il contenuto è intellettualmente nullo, ma è molto indicativo proprio per quel che omette di nominare, e per il destinatario cui si rivolge. Il destinatario cui si rivolge è l’universo mondo democratizzabile e democratizzando, dunque il mittente – l’Europa – non è una realtà storicamente già esistente ma un progetto in corso d’opera che si compirà soltanto nella democrazia mondiale. Quel che omette di dire è tutto quel che precede “la nascita della democrazia moderna” o non coincide al millimetro con essa. Damnatio memoriae non solo per la tradizione ellenica, romana e cristiana, ma persino per tutta la tradizione del liberalismo classico inglese, dalla Magna Charta alla Glorious Revolution. Dunque, liberal-democrazia = Illuminismo, Progressismo, Rivoluzione francese & Basta. Oltre a questi confini temporali, intellettuali e politici c’è il Nulla e/o i Nemici della democrazia, una religione nata due secoli fa nella quale si deve avere “fede”.

Conclusione: questo non è un appello per la democrazia, questa è una dichiarazione di guerra totale all’Europa come realtà storica e come tradizione culturale.

***

Devono averla sentita così anche gli estensori di un altro appello, la Dichiarazione di Parigi[3], intitolata Un’Europa in cui possiamo credere. Qualcosa mi dice, infatti, che prima di riunirsi a Parigi nel maggio di quest’anno per discutere l’iniziativa e fissarne i punti principali, i firmatari dell’appello abbiano ricevuto e letto l’Appello per il rinnovamento democratico, che certo i promotori avranno fatto circolare nella rete accademica. La Dichiarazione di Parigi non è stata promossa da alcuna istituzione, e, infatti, è stata pubblicata soltanto il 10 ottobre scorso. Nei sei mesi tra maggio e ottobre, gli estensori hanno elaborato il testo, che è lungo e complesso, e ne hanno eseguito o fatto eseguire le traduzioni in tutte le lingue europee. Io l’ho letto in inglese e italiano. La traduzione italiana è corretta, ma non vola; suggerisco di leggerlo in inglese, che probabilmente è la lingua della stesura originale.

Prima di esporre le caratteristiche principali della Dichiarazione di Parigi, una premessa: la cultura politica e non solo politica che la ispira è anche la mia, e posso sottoscrivere per intero, con qualche inevitabile riserva e dissenso parziale, i contenuti dell’appello (infatti, l’ho firmato). Il lettore faccia dunque la tara al mio pregiudizio favorevole.

Caratteristiche principali della Dichiarazione di Parigi:

1) La stesura originale è (probabilmente) in inglese, la lingua che tutti gli estensori hanno in comune. E’ però tradotto in tutte le lingue europee.

2) E’ rivolto agli europei, non al mondo intero.

3) Gli estensori sono tutti europei, e tutti studiosi di alto livello. Ci sono tre studiosi di fama mondiale: Rémi Brague[4], il massimo studioso delle filosofie antiche cristiana, islamica ed ebraica; Robert Spaemann[5], il maggiore teologo cattolico tedesco; Sir Roger Scruton[6], il più importante filosofo conservatore dell’anglosfera. Due studiosi di fama europea: Ryszard Legutko[7], filosofo polacco, ex dirigente di Solidarnosc, ex parlamentare europeo e Ministro dell’Istruzione; Chantal Delsol[8], filosofa della politica, allieva di Julien Freund[9] – il massimo interprete contemporaneo del realismo politico – fondatrice dell’Institut Hannah Arendt[10]. Philippe Bénéton[11] è un filosofo della politica dell’Università di Rennes e dell’Institut Catholique d’Études Supérieures[12]. András Lánczi è filosofo della politica, rettore dell’Università Corvinus di Budapest e stretto collaboratore di Viktor Orbàn. Bart Jan Spruyt[13] è uno studioso e giornalista conservatore olandese, cofondatore della Edmund Burke Foundation[14], che nel 2004 è stato consigliere di Geert Wilders, per poi allontanarsene in seguito a dissensi sulla linea politica. Roman Joch, ceco, tra il 1994 e il 1996 è stato Ministro degli Esteri, oggi è il direttore del Civic Institute di Praga[15]. Matthias Storme[16] è un importante giurista conservatore belga.

4) Gli autori sono tutti studiosi conservatori. Cinque sono cattolici confessionali, gli altri sono agnostici, culturalmente cristiani nel senso che all’espressione conferiva Ernest Renan, dicendo che l’Europa è Grecia, Roma e cristianesimo. Tra gli autori della Dichiarazione di Parigi non ci sono italiani, spagnoli, portoghesi, scandinavi, irlandesi, anche se sono stato informato che tra i successivi firmatari della dichiarazione c’è uno studioso di grande valore come lo spagnolo Dalmacio Negro. Non so se dipenda dal carattere artigianale dell’iniziativa (gli autori si conoscono personalmente tra di loro, non è stata promossa da alcuna istituzione). Per quanto riguarda l’Italia, studiosi di fama europea che potrebbero condividere il contenuto dell’appello ce ne sarebbero, per esempio Claudio Magris; o Ernesto Galli della Loggia, noto in ambito nazionale. Non so se non siano stati interpellati per mancanza di contatti personali, o se siano stati interpellati e abbiano declinato per evitare polemiche e conseguenze spiacevoli: non saprei se si continua a scrivere sul “Corriere della Sera”, dopo aver collaborato alla stesura di un manifesto come questo; domani forse sì, oggi non credo.

5) La qualità del documento è quella che ci si può attendere da autori di alto livello, sia nella perspicuità della scrittura, sia nella profondità e nell’articolazione dell’analisi; va letto attentamente per intero. Segnalo di seguito i punti essenziali. Le sottolineature sono sempre mie.

5.1 “L’Europa è la nostra casa”.  Scenari ed eventi comuni si caricano di significato speciale: per noi, ma non per altri. La casa è un luogo dove le cose sono familiari e dove veniamo riconosciuti per quanto lontano abbiamo vagato. Questa è l’Europa vera, la nostra civiltà preziosa e insostituibile”. L’Europa è una casa, non un progetto mondiale in corso d’opera, e non ha un significato speciale per tutti ma solo per chi vi abita o vi viene accolto. Se questa è l’Europa vera, l’altra Europa, l’Europa dell’Appello per il rinnovamento democratico e l’Unione Europea che l’ha promosso è la falsa Europa.

5.2 Infatti, “una falsa Europa ci minaccia”… I suoi fautori sono orfani per scelta e danno per scontato che essere orfani ‒ senza casa ‒ sia una conquista nobile. In questo modo, l’Europa falsa incensa se stessa descrivendosi come l’anticipatrice di una comunità universale che però non è né universale né una comunità.

5.3 Ecco indicato con la massima chiarezza il nemico: “I padrini dell’Europa falsa sono stregati dalle superstizioni del progresso inevitabile. Credono che la Storia stia dalla loro parte, e questa fede li rende altezzosi e sprezzanti, incapaci di riconoscere i difetti del mondo post-nazionale e post-culturale che stanno costruendo.” Il nemico è la falsa religione del progressismo mondialista, incarnato nella “falsa Europa”.

5.4 E l’appello a combatterlo: “La minaccia maggiore per il futuro dell’Europa non sono né l’avventurismo russo né l’immigrazione musulmana. L’Europa vera è a rischio a causa della stretta asfissiante che l’Europa falsa esercita sulla nostra capacità d’immaginare prospettive….” Europa vera contro Europa falsa, Europa casa contro Europa cantiere mondiale. Presumo che la menzione dell’“avventurismo” russo sia un cortese omaggio agli autori dell’Europa orientale, in particolare il polacco.

5.5 Che cos’è l’Europa vera, oltre ad essere la casa comune? “L’Europa vera è una comunità di nazioni Noi non cerchiamo l’unità imposta e forzata di un impero. L’Europa vera è stata segnata dal cristianesimoNon è un caso che il declino della fede cristiana in Europa sia stato accompagnato da sforzi sempre maggiori per raggiugerne l’unità politica: ovvero l’impero monetario e regolatorio, ammantato dai sentimenti di universalismo pseudoreligioso, che l’Unione Europea sta costruendo… L’Europa vera trae ispirazione altresì dalla tradizione classica Noi ci riconosciamo nella letteratura della Grecia e di Roma antiche”.

5.6  Qui, un attacco diretto al nocciolo dell’ Appello per il rinnovamento democratico, e della cultura UE: “Ma il futuro dell’Europa riposa in una lealtà rinnovata verso le nostre tradizioni migliori, non un universalismo spurio che impone la perdita della memoria e il ripudio di sé. L’Europa non è iniziata con l’Illuminismo. La nostra amata casa non troverà realizzazione di sé nell’Unione Europea... I padrini dell’Europa falsa costruiscono la loro fasulla Cristianità di diritti umani universali e noi perdiamo la nostra casa.”

5.7 Sull’immigrazione di massa: “Riecheggiando ironicamente l’antica idea imperialista, le classi dirigenti europee presumono infatti che, in qualche modo, in obbedienza alle leggi della natura o della storia, ‘loro’ diventeranno necessariamente come ’noi’; e non concepiscono che possa accadere invece l’inverso”

5.8 Sulla (mancanza di) legittimazione della UE: “Negli ultimi decenni, una parte sempre più ampia della nostra classe dirigente ha riposto i propri interessi nell’accelerazione della globalizzazione. I suoi esponenti mirano a dar vita a istituzioni sovranazionali che possano controllare senza l’inconveniente della sovranità popolare. È sempre più chiaro che il ‘deficit di democrazia’ di cui soffre l’Unione Europea non è solo un problema tecnico che si può risolvere con mezzi tecnici, ma un impegno basilare difeso con zelo.”

5.9 Quanto è forte il nemico? “l’Europa falsa si sta rivelando più debole di quanto chiunque avrebbe mai immaginato…le società europee si stanno sfilacciando malamente. Se non apriremo gli occhi, assisteremo a un uso sempre maggiore del potere statalista, dell’ingegneria sociale e dell’indottrinamento culturale.”

5.10 Come combatterlo? “Lo scetticismo crescente è pienamente giustificato… Chi si oppone, soffre di nostalgia, e per questo merita di essere moralmente condannato come razzista e fascista…Un’alternativa c’è.” Ometto i punti relativi alla battaglia culturale, che vanno letti per intero, nella loro complessità e nelle loro sfumature, e segnalo i punti direttamente politici: “L’immigrazione senza l’assimilazione è solo una colonizzazione, e dev’essere respinta…dobbiamo resistere alle ideologie che cercano di rendere totalizzante la logica del mercato… La crescita economica, benché benefica, non è il bene sommo. I mercati debbono essere orientati a fini sociali… L’Europa di oggi è attraversato da grande preoccupazione per il sorgere di quello che viene chiamato “populismo”, anche se il significato del termine non viene mai definito ed è usato per lo più solo come invettiva. Sul tema abbiamo le nostre riserve… Eppure ci rendiamo conto che molti elementi di questo nuovo fenomeno politico possono rappresentare una sana ribellione contro la tirannia dell’Europa falsa, che etichetta come “antidemocratica” qualsiasi realtà ne minacci il monopolio della legittimità morale. Il cosiddetto “populismo” sfida la dittatura dello status quo, il “fanatismo del centro”, e lo fa giustamente.”

 

* * *

 Mi fermo qui. Il manifesto, come ho detto, va letto per intero. Non affronto, in questo breve commento, l’aspetto e il significato più propriamente culturali del testo, per esempio come s’inserisca nella tradizione del pensiero cristiano e conservatore europeo, quali aspetti ne privilegi, in che rapporti stia con il liberalismo classico, in particolare quello che, secondo l’indicazione di Benedetto Croce, vuole distinguere liberalismo da liberismo economico. Toccherò invece il significato direttamente politico del manifesto: perché questo è anzitutto un manifesto politico. Lo è perché designa chiaramente, per nome e cognome, un nemico: l’Europa falsa, identificata in Unione Europea e progressismo mondialista, e invita espressamente a schierarsi per combatterlo. Tutti gli autori del manifesto appartengono a una cultura politica conservatrice e realistica, e dunque sanno benissimo che cosa stanno facendo, quando designano un nemico: compiono l’atto politico primordiale, quello che definisce la dimensione stessa del Politico.

Sul piano politico, il manifesto riveste un’importanza che mi par difficile sopravvalutare, perché:

1) Parte da un gruppo d’intellettuali che appartengono, al massimo livello, delle istituzioni accademiche, scientifiche, in alcuni casi politiche europee.

2) E’ sintomo di una rottura, anzitutto in seno a queste istituzioni, e in generale nelle élites europee, e si propone di ufficializzare e allargare questa frattura, promuovendo lo schieramento in campi avversi.

3) Pur rilevandone i limiti, legittima e appoggia, senza giri di parole, i “populismi” europei.

4) Identifica il proprio campo con quello degli Stati nazionali. L’orizzonte indicato è quello del ripristino delle sovranità nazionali che si congiungono e armonizzano nella comune appartenenza alla civiltà europea, e politicamente possono collaborare, eventualmente confederarsi, ma non disciogliersi in un’istituzione sovrannazionale.

5) La cultura politica alla quale si riferisce il manifesto è quella del conservatorismo europeo, e si situa dunque, nello spettro parlamentare, al centro-destra. Il centro-destra è e sempre più sarà, nei prossimi tempi, lo spazio politico decisivo per l’azione dei nemici dell’Unione Europea. Le esperienze degli ultimi anni mi paiono aver dimostrato due cose: a) che un’alleanza tra destra e sinistra in funzione anti UE è impossibile b) che “i populismi” che designano senza ambagi la UE come proprio nemico si situano tutti a destra, e però non riescono, da soli, né a vincere né soprattutto a convincere, cioè a guadagnare fiducia e consenso sia dell’elettorato, sia di settori di ceto dirigente abbastanza ampi da consentire di tenere il potere, dopo averlo conquistato.

6) Da quanto detto al punto precedente, consegue che la sola forza in grado di affrontare con speranza di successo le forze pro UE, è quella che può nascere da un’alleanza culturale, politica e sociale tra forze di centrodestra e forze di destra. Quest’ alleanza è possibile solo se le forze di centrodestra si spaccano lungo la linea di frattura che il manifesto indica con la massima chiarezza (o, sul piano strettamente politico-partitico, se aggiustano la rotta in quella direzione).

7) “Quante divisioni ha” il conservatorismo europeo? Da solo, molto poche. In compenso, ha una risorsa indispensabile e preziosissima: la capacità di ispirare fiducia e consenso con la maturità e la moderazione delle sue posizioni, e di uomini come gli Autori del manifesto. I populismi anti UE scontano, infatti, tutti, la diffidenza dei popoli e dei corpi elettorali nei riguardi di formazioni ritenute, a torto o a ragione, estremiste e inesperte, che invitano i cittadini a seguirli in un vero e proprio salto di paradigma politico; il proverbiale “salto nel buio”. Se si forma un’alleanza tra forze conservatrici moderate e competenti e populismi, il salto di paradigma non spaventerà più, o molto meno.

8) Last but not least, una collaborazione tra conservatori e populisti può sventare un pericolo molto grave: la polarizzazione radicale delle posizioni politiche e culturali, specialmente sul tema decisivo dell’immigrazione. La identity politics perseguita da decenni dalle forze progressiste di tutto il mondo occidentale, e imposta ossessivamente nel linguaggio dispotico del politically correct, negli Stati Uniti ha già prodotto un contraccolpo eguale e contrario, e alimentato la formazione di una cultura politica di destra radicale, la Alt-Right, nella quale, insieme a posizioni accettabili e anzi interessanti, si sono già cristallizzate posizioni di vero e proprio razzismo su base scientistica, affatto inammissibili ed estremamente pericolose. Indicare un capro espiatorio, facile da identificare perché la pelle è anche la sua bandiera, è un’arma molto efficace nella lotta politica; e un’arma che promette un facile successo immediato sarà spesso impiegata senza badare alle conseguenze future, che in questo caso sono veramente terribili: in sostanza, una “israelizzazione” della società, con l’istituzione di una apartheid informale, e una guerra civile a bassa intensità come condizione permanente. La presenza significativa di forze conservatrici, che si rifanno alla civiltà europea e alla cultura cristiana, nell’alleanza anti UE, diminuisce di molto i rischi di una deriva razzistica e tribale del campo in cui ci situiamo.

Qui concludo, scusandomi per la lunghezza, ringraziando il lettore dell’attenzione e invitandolo a replicare con obiezioni, critiche, commenti e suggerimenti.

[1] https://www.democracyendowment.eu/about-eed/ . “ The European Endowment for Democracy (EED) is a grant-giving organisation that supports local actors of democratic change in the European Neighbourhood and beyond”.

[2] The Prague Appeal for Democratic Renewal, https://www.forum2000.cz/en/coalition-for-democratic-renewal-2017-event-coalition-for-democratic-renewal

[3] https://thetrueeurope.eu/uneuropa-in-cui-possiamo-credere/

[4] https://fr.wikipedia.org/wiki/R%C3%A9mi_Brague

[5] https://en.wikipedia.org/wiki/Robert_Spaemann

[6] https://en.wikipedia.org/wiki/Roger_Scruton

[7] https://en.wikipedia.org/wiki/Ryszard_Legutko

[8] https://fr.wikipedia.org/wiki/Chantal_Delsol

[9] https://fr.wikipedia.org/wiki/Julien_Freund

[10] http://lipha-pe.u-pem.fr/

[11] https://fr.wikipedia.org/wiki/Philippe_B%C3%A9n%C3%A9ton

[12] https://ices.fr/

[13] https://en.wikipedia.org/wiki/Bart_Jan_Spruyt

[14] https://en.wikipedia.org/wiki/Edmund_Burke_Foundation

[15] http://www.obcinst.cz/en/people-in-ci/

[16] https://en.wikipedia.org/wiki/Matthias_Storme

BATTERI GEOPOLITICI, di Gianfranco Campa

Le notizie ( https://www.popsci.com/antibiotic-resistance-meat-farming-tax ) https://www.popsci.com/antibiotic-resistance-meat-farming-tax che arrivano dalla comunità medico-scientifica sono estremamente preoccupanti. In un recente incontro gli scienziati biomedici della Società Americana per la Microbiologia hanno rivelato che un gene chiamato MRC-1, presente nei batteri, conferisce agli stessi una resistenza a tutti gli antibiotici, inclusa la Colistina. La Colistina, conosciuta anche col nome di polimixina, è un farmaco di vecchia data creato da un ricercatore giapponese nel 1949. L’effetto collaterale più deleterio della Colistina è la pesante nefrotossicità e per questo motivo non è stata più utilizzata come antibiotico dalla comunità medica; questo fino a qualche anno fa, quando l’ascesa di microbi resistenti agli antibiotici tradizionali ha forzato la comunità scientifica a riesumare dagli armadi la Colistina per usarla come “arma di ultima speranza” per aver ragione di quelle infezioni resistenti ormai a tutti gli altri antibiotici. Ebbene, l’avvento dell’MRC-1 ha rivelato che anche quest’ultima arma è antiquata e quindi non rimane niente a disposizione della comunità medica da contrapporre ai superbatteri.

La scoperta del MRC-1 è relativamente nuova, avvenuta in Cina poco più di due anni fa. Gli scienziati trovarono un gene che permette ai batteri di diventare resistenti ad una classe di antibiotici conosciuti come polimine, comunemente utilizzati per combattere i superbatteri resistenti agli antibiotici più tradizionali. Contro MCR-1 anche le polimine erano diventate superflue eccetto in un primo momento, appunto, la Colistina; le ultime notizie sono preoccupanti poiché ci dicono che ora anche la Colistina è diventata inefficace. In altre parole l’MRC-1 rende invincibili i batteri, rendendo nuovamente mortali malattie precedentemente trattabili come per esempio la Polmonite. L’altra notizia è che la presenza dei batteri contenenti l’MRC-1, due anni fa, era circoscritta alla sola Cina; ora questi si stanno diffondendo anche nel resto del mondo. Molti scienziati hanno descritto questo avvenimento come una drammatica svolta epocale, un evento apocalittico, immune da contromisure adeguate. Tra qualche anno torneremo all’era pre-antibiotici, quando la gente moriva o si ammalava gravemente semplicemente per un’infezione più o meno banale, come detto prima la Polmonite, ma anche la Clamidia, la Gonorrea, la Tubercolosi, la Cistite, la Salmonellosi e così via. Insomma uno scenario appunto apocalittico. Attualmente 700.000 persone all’anno muoiono per infezioni resistenti ai farmaci. Secondo gli esperti nei prossimi tre decenni intorno ai 10 milioni di persone moriranno ogni anno per infezioni ormai intrattabili con gli attuali farmaci. Sul Guardian, Jonathan Pearce, l’immunolo del British Medical Research Council, ha detto che “ La Chirurgia in generale, i parti cesarei e la stessa chemioterapia, i quali devono il loro successo all’uso concomitante degli antibiotici, diverranno operazioni ad alto rischio”. Torneremo insomma all’era pre-antibiotici. Consideriamo questi cambiamenti potenzialmente catastrofici per la Medicina e l’umanità in generale.

Gli scienziati e le varie organizzazioni mondiali sulla salute hanno cominciato a proporre piani concreti, idee e soluzioni da proporre per allontanare questo incombente, catastrofico scenario.

Tra le varie opzioni, la riduzione drastica degli usi di antibiotici particolarmente nell’ambito degli allevamenti intensivi dove praticamente il loro abuso, negli allevamenti di animali da macello, ha contribuito a creare lo scenario apocalittico cui stiamo andando incontro. Non è un caso che l’MRC-1 sia stato individuato per la prima volta in Cina, paese in cui si fa uso indiscriminato di antibiotici per scongiurare il rischio di infezioni negli allevamenti intensivi, in particolare quelli dei maiali, dove si ritrovano a stretto contatto un numero elevato di animali. Gli allevatori Cinesi usando gli antibiotici anche per aumentare velocemente il peso e la massa muscolare degli animali. Qualcuno dirà vabbè, ma quelli sono i cinesi; noi italiani siamo più sensibili ai problemi di salute e ambientali. Nulla di più falso! Uno studio condotto l’anno scorso dall’associazione CIWF Italia ha rivelato che gli allevatori locali fanno uso massiccio degli antibiotici; il doppio rispetto all’utilizzo medio nella Comunità Europea. Secondo questo studio, il 71% degli antibiotici venduti in Italia finisce negli allevamenti. In Europa solo la Spagna e Cipro stanno peggio di noi. Negli Stati Uniti l’80% degli antibiotici viene usato negli animali in salute, non in quelli malati. Una stima mondiale rivela che 131.000 tonnellate di antibiotici vengono usati tutti gli anni negli allevamenti. Secondo il CDC Americano, il Centro per il Controllo e Prevenzione delle Malattie, due milioni di Americani vengono annualmente a contatto con infezioni resistenti agli antibiotici. Nel 2016 le Nazioni Unite hanno indetto un’assemblea straordinaria sul tema della resistenza dei microbi agli antibiotici. Da questa riunione sono venuti fuori dei programmi per cercare di fermare questa minaccia. La prima, ripeto, quella di bandire l’uso di antibiotici negli allevamenti. Questa soluzione è però ormai tardiva; sarebbe come chiudere la stalla con i buoi ormai scappati. L’altra soluzione sarebbe di cercare di coinvolgere più attivamente le grandi industrie farmaceutiche nella ricerca di un farmaco che possa risolvere il problema; questa sarebbe la soluzione forse più logica.

Ci sono poi altre soluzioni dalle significative implicazioni politiche e geopolitiche.

Di certo non sono un esperto in Biologia/ Medicina; non mi azzardo, quindi, a fare analisi sulle proposte prettamente scientifiche per risolvere questa crisi incombente. Vorrei piuttosto soffermarmi un attimo sull’aspetto prettamente politico delle proposte fatte.

Come diceva Rahm Emanuel, sindaco di Chicago ed ex Chief of Staff di Obama; “Non lasciare mai che una grave crisi vada sprecata. Queste congiunture ci offrono la possibilità di fare cose che non si potevano fare prima”; così ci è voluto poco per i soliti ignoti (noti) per arrivare a proporre soluzioni dalle pesanti implicazioni politiche e geopolitiche. La più interessante è quella che, al bando degli antibiotici negli allevamenti (cosa buona e giusta), si accompagna la proposta di ridurre il consumo di carne attraverso un pesante sistema di tassazione. In un articolo uscito sul Popular Science, l’Epidemiologo dell’Istituto di Biologia Integrativa di Zurigo, il Dottor Thomas Van Boeckel e i suoi colleghi hanno calcolato che si dovrebbe ridurre il consumo di antibiotici negli animali di almeno il 60 % entro l’anno 2030. Questo viene ottenuto riducendo l’uso di agenti antimicrobici intorno ai 50 mg per chilogrammo di prodotto animale. Questo specifico approccio comporta una serie di regolamentazioni, di sorveglianza e monitoraggio da erigere a livello mondiale. La Cina e il paese che fa più uso di antibiotici, pari a 318 milligrammi per chilogrammo di prodotto animale contro, per esempio, gli 8mg della Norvegia. Come si può indurre la Cina e a loro volta gli allevatori Cinesi ad allinearsi ad un eventuale trattato internazionale visto che la Cina non fa neanche parte dell’OECD? Per Van Boeckel la soluzione deve andare di pari passo con la riduzione di consumo di carne a livello mondiale. In altre parole bisognerà ridurre drasticamente il consumo di carne. In questa ottica hanno calcolato che, limitando il consumo quotidiano di carne a 40 grammi, si ridurrebbe del 66 % il consumo globale di carne. Secondo i ricercatori la riduzione delle razioni di carne porterebbe anche significativi benefici ambientali.

A parte la necessità di nuovi trattati e di conseguenti sistemi di monitoraggio, come pensano esattamente i nostri geni al lavoro di risolvere il problema di implementare la cosiddetta riduzione del consumo di carne? La soluzione consisterebbe nella proposta di imporre una tassa del 50 % sul costo attuale della carne. In altre parole, al un costo verosimile per chilo di vitello di venti euro, bisognerebbe aggiungere il 50% di tassa (chiamiamola anti-carne). Il costo finale sarebbe quindi di 30 euro. Un’altra soluzione sarebbe la tassazione delle aziende farmaceutiche, imponendo una imposta sui prodotti antibiotici fatturati, destinati all’impiego animale. La proposta comporterebbe due problemi: primo, l’aumento della tassazione su antibiotici ad uso animale comprometterebbe anche le cure legittime di gatti, cani e tutti gli animali domestici soggetti a malattie e cure del veterinario. Il secondo, una tariffa o meglio una tassa sugli antibiotici colpirebbe anche le stesse case farmaceutiche che investono nella ricerca scientifica di questi prodotti; colpirebbe, in altre parole, quella stessa industria che potrebbe trovare la soluzione contro i superbatteri.

Ci sono inoltre delle considerazioni importanti da fare a livello geopolitico. Pare che questo catastrofico evento possa dar vita a nuove occasioni per creare ulteriori trattati internazionali e imporre nuovi strumenti di controllo, monitoraggio e regole associate ad un aumento di tasse e/o di tariffe. Insomma assisteremmo alla nascita di nuove entità sovranazionali usate come strumento di oppressione della sovranità. In realtà potrebbe però esserci anche una risposta diametralmente opposta a quella descritta sopra; una crisi sanitaria su scala mondiale potrebbe invece incoraggiare la chiusura di frontiere, frenare l’immigrazione e bandire prodotti da vari paesi mettendo a rischio i meccanismi di scambio economici, un ritorno quindi al sovranismo nazionale come tentativo di controllare e gestire la crisi incombente. D’altronde è indubbio che c’è una diretta concomitanza fra l’avvento degli antibiotici, un’apertura graduale alla globalizzazione e la decadenza del concetto Stato-Nazione. Gli anni ‘50 e ‘60 con l’arrivo degli antibiotici e dei vaccini hanno visto di pari passo una graduale caduta di barriere fra i vari stati. Comunque sia, in mancanza di un rimedio veloce ed efficace all’incombente crisi sanitaria su scala planetaria, i sistemi e i meccanismi geopolitici ed economici mondiali sarebbero stravolti pesantemente. Non vorrei apparire troppo pessimista, ma inquietanti nubi nere si stanno accumulando all’orizzonte; segno che la tempesta è in arrivo.

Meglio essere preparati.

CONTRO L’EUROPA DELLE REGIONI PER L’EUROPA FEDERATA DELLE NAZIONI SOVRANE E PROTAGONISTA NELLA FASE MULTICENTRICA, di Luigi Longo

E PENSARE CHE C’ERA IL PENSIERO

 

Il secolo che sta morendo è un secolo piuttosto avaro
nel senso della produzione di pensiero.

Dovunque c’è un grande sfoggio di opinioni
piene di svariate affermazioni
che ci fanno bene e siam contenti

Un mare di parole un mare di parole
ma parlan più che altro i deficienti.

Il secolo che sta morendo
diventa sempre più allarmante
a causa della gran pigrizia della mente.

E l’uomo che non ha più il gusto del mistero
che non ha passione per il vero
che non è cosciente del suo stato

Un mare di parole un mare di parole
è come un animale ben pasciuto.

E pensare che c’era il pensiero
che riempiva anche nostro malgrado
le teste un po’ vuote.

Ora inerti e assopiti aspettiamo
un qualsiasi futuro
con quel tenero e vago sapore
di cose oramai perdute.

Va’ pensiero sull’ali dorate
va’ pensiero sull’ali dorate.

Nel secolo che sta morendo
s’inventano demagogie
e questa confusione è il mondo delle idee.

A questo punto si può anche immaginare
che potrebbe dire o reinventare
un Cartesio nuovo e un po’ ribelle

Un mare di parole un mare di parole
io penso dunque sono un imbecille.

Il secolo che sta morendo
appare a chi non guarda bene
il secolo del gran trionfo dell’azione

Nel senso di una situazione molto urgente
dove non succede proprio niente
dove si rimanda ogni problema

Un mare di parole un mare di parole
e anch’io sono più stupido di prima.

E pensare che c’era il pensiero
era un po’ che sembrava malato
ma ormai sta morendo.

In un tempo che tutto rovescia
si parte da zero.
E si senton le note dolenti di un coro
che sta cantando

(sull’aria di va pensiero)
Vieni azione coi piedi di piombo
Vieni azione coi piedi di piombo

Giorgio Gaber*

  1. Avanzerò alcune riflessioni a partire dalla richiesta di indipendenza della Catalogna, una delle 17 Comunità autonome della Spagna con una popolazione di 7.522.596 pari al 16.2% che, insieme alle tre grandi Comunità dell’ Andalusia (con 8.370.368 abitanti, pari al 18%), di Madrid (con 6.377.634 abitanti, pari al 13,7%) e della Valenciana (con 4.935.010 abitanti, pari al 10,6%), costituisce il 58.5% dell’intera popolazione spagnola che è di 46.468.102. La Catalogna è una delle Comunità autonome più industrializzate.

confronto spagna catalogna

Questa regione ha un livello di autonomia più vicino al concetto di federazione ( tra le regioni della Spagna), per dirla con Emilia Giuron Reguera ( docente di diritto costituzionale dell’Università di Cadice in Andalusia):<< […] Il decentramento spagnolo si colloca oggi in una posizione intermedia tra regionalismo e vero e proprio federalismo. […] Gli elementi peculiari di alcune Comunitá Autonome, chiamati fatti differenziali, trovano riconoscimento negli Statuti di Autonomia e perfino nella Costituzione, come segni di autoidentificazione. La Costituzione del 1978 è la prima ed unica costituzione spagnola che riconosce i fatti differenziali. Cinque sono le situazioni di differenziazione sono il regime di diritto civile forale, il pluralismo linguistico, un livello di governo intermedio diverso alle Province chiamati “Diputaciones Forali” in Paesi Baschi e “Cabildos” in Isole Canarie e Baleari, proprie forze di policia e il sistema di finanziamento.

In particolare, l’elenco dei fatti differenziali per Comunità Autonoma è il seguente:

  1. Paesi Baschi: territori forali (Alava, Guipùzcoa e Vizcaya), lingua, diritto civile forale, polizia propria e sistema di finanziamento speciale.
  2. Catalogna: lingua, diritto civile speciale e polizia propria.
  3. Galicia: lingua e diritto civile forale.
  4. Navarra: diritto civile forale, polizia propria, sistema di finanziamento speciale (“convenio economico”), ed euskera (cioè, la lingua basca) nel area bascoparlante.
  5. Canarie: “Cabildos” e particolare regime economico e fiscale, giustificato nell’insularità.
  6. Le Baleari: Lingua, “consigli insulari”, diritto civile speciale.
  7. Comunità Valenciana: lingua e diritto civile.
  8. Aragona, soltanto il diritto civile.>> (1).

spagna comunità

 

Si pone, quindi, la domanda: perché i decisori della Catalogna dichiarano lo status di indipendenza ben sapendo della sfida impari (2) sia in relazione alla Spagna ( intesa come nazione e come stato, chiarirò dopo cosa intendo) sia in relazione all’Unione Europea? Cosa cela questa mossa apparentemente rischiosa che non ha niente a che vedere con l’autodeterminazione nè con la democrazia, mentre molto ha a che fare con la frattura sociale e territoriale di una nazione e con il disegno dell’Europa delle regioni (3) portata avanti dal 1957 dai servi decisori europei nel quadro delle strategie USA? Cercherò di avanzare delle ipotesi per cercare di rispondere a queste domande, e questo, a prescindere da come evolverà o involverà la situazione in Catalogna, mi auguro la meno triste per la popolazione.

 

  1. La definizione di nazione data da Iosif Stalin, in un saggio pubblicato nel 1914 e approvato da Vladimir Lenin, è la seguente:<< una comunità umana stabile, storicamente costituita, nata sulla base di una comunanza di lingua, territorio, vita economica e formazione psichica che si traduce in comunità culturale >> (4).

E’ una definizione nell’essenziale ancora valida. Le radici territoriali dell’individuo sessuato sono fondamentali per la sua crescita, benessere, sicurezza, formazione e cultura. La specie umana sessuata è l’unica specie che può vivere solo in comunità ( a prescindere dalla qualità della comunità) anche se si è data assurde organizzazioni territoriali quali sono le grandi città ( metropoli, megalopoli) dove i concetti di autodeterminazione e di democrazia sono aleatori perché sfuggono al concetto di limite nell’accezione dei classici greci (5). La questione delle regioni e dei loro equilibri economici, sociali, territoriali vanno inquadrati nell’insieme dello sviluppo della nazione. Le regioni con più sviluppo vanno viste nella logica dello sviluppo ineguale del sistema sociale capitalistico nazionale. Quindi lo sviluppo di alcune regioni a scapito di altre è da leggere nella realizzazione delle strategie dei decisori egemoni nelle diverse fasi storiche dello sviluppo del Paese. E’ demagogia da furfanti sostenere che le regioni ricche devono gestire in maniera autonoma le risorse (soprattutto finanziarie) senza riferimento al sistema Paese; significa la rottura della solidarietà, dell’anima di una nazione: è la barbarie! Altro sarebbe, invece, rivedere le strategie di sviluppo delle regioni, configurate diversamente, quali macro-regioni dell’intero sistema nazionale (come alcune università italiane stanno facendo da tempo con i loro decisori di riferimento). E’ nella dialettica dei rapporti sociali tra dominanti (con il loro conflitto interno) e dominati (con la loro lotta interna) che va affrontata la questione nazione e non la questione regione.

Per questo non ho mai capito l’internazionalismo, non quello solidale e politico, ma quello senza nazioni, senza conoscenza del territorio (quanti comunisti non conoscevano l’ambiente dove vivevano, però erano internazionalisti), senza relazione, sessuata, con la natura, eccetera (6). Così come non ho capito, in nome della mondializzazione, la confusione tra circolazione di merci, di capitale e di persone e la perdita delle radici territoriali di appartenenza che è altro dal confronto tra popoli diversi per storia e cultura. Questa questione è stata e continua ad essere una grande lacuna, soprattutto di origine marxiana, che è quella che a me interessa con i vari ripensamenti, rifondazioni e abbandoni.

Le nazioni, sia in Occidente sia in Oriente, hanno diverse configurazioni territoriali peculiari, perché diverse e peculiari sono la natura, i paesaggi, la storia dei popoli; ma hanno in comune una cosa: la concezione del potere-dominio che viene realizzata attraverso le proprie architetture istituzionali che sono espressione dei rapporti sociali storicamente dati. Per me, infatti, lo stato non è altro che l’articolazione territoriale delle architetture istituzionali ( le casematte gramsciane) dove si svolge e si decanta il conflitto strategico (inteso nell’accezione lagrassiana) e si egemonizzano, in una situazione di equilibrio dinamico del dominio di volta in volta egemone, la nazione, i continenti, il mondo (7).

 

  1. Parlare di autodeterminazione (dei decisori in nome del popolo), di democrazia ( di una minoranza in nome del popolo) e di fine della nazione è fuorviante perché non si coglie l’essenza del problema che è quello di una accelerazione della fase dell’Europa delle regioni che, attraverso la frammentazione dei territori nazionali, renderà l’Europa uno spazio funzionale alle nuove strategie di dominio mondiale monocentrico degli Stati Uniti che, distruggendo le nazioni, invalideranno qualsiasi possibilità di fondazione di politica autonoma dell’Europa quale protagonista tra l’Occidente e l’Oriente, quantomeno per ritardare la fase policentrica ( che comporta la guerra come scontro finale tra schieramenti delineati di potenze mondiali- anche se nutro forti dubbi sulla sopravvivenza complessiva delle stesse, considerati gli arsenali nucleari a disposizione).

Con l’Europa delle regioni l’Europa non sarà più un soggetto politico attivo nella fase multicentrica (avviata con andamento sempre più accelerato) così come lo fu nelle precedenti fasi multicentriche dei secoli passati a partire, per dirla con Giovanni Arrighi, dal primo ciclo sistemico di accumulazione, quello genovese-iberico, dal XV secolo agli inizi del XVII (8).

Si smantellano le nazioni, dopo un lungo processo iniziato tra la fine del 1700 e quasi tutto il 1800, per costruire una Europa di macro regioni a servizio degli interessi statunitensi, per meglio controllare e indirizzare sia l’orientamento politico europeo, sia per utilizzare lo spazio europeo per le loro strategie nel Mediterraneo, nell’Africa e nel Medio Oriente, contro le potenze mondiali emergenti (Russia e Cina con la loro visione di sviluppo e le loro aree di influenza ), così da impedire la relazione euroasiatica fortemente temuta dagli USA.

Non vedremo più la cartografia dell’Europa che rappresenta il simbolico delle nazioni asservite agli interessi della potenza mondiale egemone degli USA.

europa

Ma, a partire dalla cartografia dell’Europa independentista, dovremo immaginare una Europa delle regioni formata da macro aree ancora una volta (il tutto torna ma in maniera diversa) definite o ri-definite dal disegno degli agenti strategici pre-dominanti statunitensi e sub-dominanti europei (9) per la ri-affermazione monocentrica del dominio mondiale (10) [tutti i programmi di cooperazione territoriale europea (Interreg, Espon, SSSE, eccetera) hanno già in parte delineato alcune macroregioni].

Tutto quanto fin qui evidenziato è a prescindere dal conflitto strategico interno agli USA che si sta definitivamente orientando verso la strategia di potenza mondiale basata sulla forza e sulla violenza perché altrimenti incapace di ri-lanciare la propria egemonia a partire da un nuovo modello di sviluppo, una nuova visione, una nuova idea di società. L’illusione del cosiddetto trumpismo è finita. E’ stata una ideologia negativa basata sul multicentrismo (soprattutto l’apertura con la Russia), sul rilancio dell’economia reale con più equilibrio tra i settori economici (soprattutto la politica del re-investimento interno), eccetera. E’ stata una operazione dei decisori priva di qualsiasi base strutturale radicata nella società e senza alcun controllo delle casematte istituzionali, importanti del potere.

 

europa indipendentista

 

 

Si configura un triste immaginario di frammentazione e dissoluzione delle relazioni sociali e territoriali delle nazioni, con drammi umani inenarrabili; la storia recente lo sta a dimostrare soprattutto in Europa, nell’Africa settentrionale e nel Medio Oriente; inutile aggiungere l’elenco delle nazioni distrutte.

Qui sta l’importanza di difendere la nazione: i decisori partendo dagli interessi della propria nazione possono sviluppare un progetto di Europa federata e sovrana. Se non si è sovrani, si è servi delle potenze mondiali egemoni di turno.

Il conflitto strategico all’interno delle nazioni deve avere come obiettivo la sovranità per ridare la possibilità all’Europa di essere un soggetto protagonista nella fase multicentrica. Certo il degrado sociale europeo è grave, il secolo iniziato è un secolo piuttosto avaro nel senso della produzione di pensiero e nell’immaginare prìncipi gramsciani all’altezza dei tempi.

La Catalogna è l’inizio simbolico della fase di regionalizzazione dell’Europa: è il laboratorio per realizzare il processo di regionalizzazione e verificare le relative reazioni dei popoli. Questo processo, comunque, è iniziato con l’implosione dell’ex URSS (1990-1991) e con il processo di integrazione europeo attraverso le regioni [ avviato con il preambolo del Trattato di Roma del 1957 (CEE) e proseguito con lo Schema di Sviluppo dello Spazio Europeo (SSSE) della Unione Europea della prima metà degli anni novanta del secolo scorso].

Ogni nazione europea ha la sua Catalogna in pectore e si prevedono in Europa scenari cupi (11).

 

 

La citazione scelta come epigrafe è tratta da: Giorgio Gaber, Pensare che c’era il pensiero, www.giorgiogaber.it, 1995-1996.

 

 

NOTE

 

 

  1. Emilia Giron Reguera, Esperienza e prospettive del regionalismo in Spagna, www.crdc.unige.it, anno?, pp.12-13 e pag.19.
  2. Alberto Magnani, Quanto costerebbe alla Catalogna il divorzio dalla Spagna ( e dalla UE) in Il Sole 24 Ore del 5/10/2017; Comidad, Prove tecniche di euro-destabilizzazione, www.comidad.org, 28/9/2017; Federico Dezzani, “Lo Stato nazionale è superato”: perché Bruxelles tifa per la secessione della Catalogna, www.federicodezzani.altervista.org, 20/9/2017.
  3. Con la definizione di Europa delle regioni non intendo riferirmi ai teorici dell’ascesa delle regioni e del tramonto delle nazioni, per una sintesi rinvio a Mario Caciagli, Le regioni nell’Unione Europea in Quaderni di Sociologia n.55/2011.

Con una lettura critica sul ruolo delle politiche regionali dell’Unione Europea rimando a: Maria Rosaria Prisco, Spazio, luoghi, territorio: ripensare la spazialità delle politiche di coesione territoriale in www.mensotef.uniroma1.itsites/dipartimento/…/Maria Rosaria Prisco_67-84.pdf; Marco Cremaschi, L’Europa delle città. Accessibilità, partnership e policentrismo nelle politiche comunitarie per il territorio, Alinea editrice, Firenze, 2005; Commissione Europea, Sull’attuazione delle strategie macroregionali dell’UE,www.ec.europea.eu/regional…strategy/pdf/report_implem_macro_region_strategy_it.pdf, 16/12/2016.

  1. La citazione di Iosif Stalin è tratta da Costanzo Preve, Il tempo delle ricerca. Saggio sul moderno, il post-moderno e la fine della storia, Vangelista, Milano, 1993, pag.25.
  2. Per questi temi rimando a Lewis Mumford, La città nella storia, Bompiani, Milano, 1967, Volumi I, II, III.
  3. Maura Del Serra, Dialogo di Natura e Anima, Editrice C.R.T., Pistoia, 1999.
  4. Credo che sarebbe utile avviare una ricerca sull’intreccio tra l’intuizione gramsciana delle casematte e il conflitto strategico lagrassiano: Antonio Gramsci, Quaderni del Carcere, Einaudi, Torino, 1975, quaderno 7, Volume II; Gianfranco La Grassa, Gli strateghi del capitale, Manifestolibri, Roma, 2005.
  5. Giovanni Arrighi, Capitalismo e (dis)ordine mondiale, a cura di Giorgio Cesarale e Mario Pianta, Manifestolibri, Roma, 2010, pp. 143-179.
  6. E’ utile mantenere la concezione servo-padrone nell’accezione di La Boètie ( la servitù volontaria), invece di quella hegeliana della Fenomenologia dello Spirito (la coscienza servile).
  7. Per una riflessione sulle trasformazioni territoriali mondiali nella fase multicentrica, si rinvia a Pierluigi Fagan, Lo spazio politico nel mondo multipolare. Nuovi stati, secessioni, sovranità, www.pierluigifagan.com, 4/10/2017.
  8. Si veda l’intervista, da me non condivisa, a Franco Cardini, “L’Italia unita un pateracchio. Presto una crisi cambierà il volto dell’Europa”, www.liberoquotidiano.it, 10/10/2017.

L’autunno della Fronda, di Roberto Buffagni

La vicenda catalana, che con l’odierna dichiarazione di indipendenza in standby tocca un vertice di comicità ineguagliato a memoria d’uomo, ci parla però di qualcosa di molto, molto serio. Ci parla della nuova fase in cui è entrata la Rivoluzione (con la Maiuscola) che da cinque secoli trascina con sé, non si sa dove, la civiltà europea e occidentale, e dunque il mondo. Pare follia impiegare questi paroloni per un’avventura politica di Peppa Pig® qual è l’indipendentismo catalano, come andare a caccia di tordi con i missili terra-aria. Ma «On a remarqué, avec grande raison, que la révolution …. mène les hommes plus que les hommes la mènent. Cette observation est de la plus grande justesse… […] Les scélérats mêmes qui paraissent conduire la révolution, n’y entrent que comme de simples instruments; et dès qu’ils ont la prétention de la dominer, ils tombent ignoblement.» (De Maistre, Considérations sur la Révolution, 1796).

La vicenda catalana ci parla infatti di una crisi che non è soltanto la crisi politica degli Stati nazionali, che si rivelano fragili, disuniti, disfunzionali: è la crisi del simbolo politico, del cosmion1 che ordina(va) e illumina(va) di significato la forma di civiltà assunta dall’Europa dopo la fine delle guerre di religione. Come tutti i simboli, un cosmion entra in crisi quando non ci parla più. Un simbolo può ammutolire per infiniti motivi; ma trattandosi di un simbolo politico, di solito la sua voce si fa fioca per l’azione congiunta di un abuso di autorità e di una contestazione di autorità. Se il dissenso in merito all’ordine non può essere ricomposto, entra in campo la nuda violenza politica, e il clamore delle armi copre la voce del simbolo.

La forma primaverile di questa lotta fra le autonomie e gli Stati sono le guerre della Fronda, che vedono lo Stato assoluto nascente opporsi agli “stati”, nel senso che questa parola assume nell’antica istituzione francese degli “Stati generali”: la forma politica che rivestono le autonomie sociali, allora rappresentate dai grandi signori e dai Parlamenti2. Lo scontro tra stati e Stato nasce dalla crisi di un altro grande cosmion: la cristianità medievale, frantumato e ammutolito dalle guerre di religione; e si svolge contemporaneamente in Inghilterra (Cromwell contro gli Stuart) e in Francia (de Retz e Condé contro Mazzarino e Turenne). In Inghilterra vincono gli stati, in Francia lo Stato3.

Oggi assistiamo (e volenti o nolenti partecipiamo) alla forma autunnale della lotta fra autonomie sociali o stati e lo Stato nazionale. Autunnale, per due ordini di ragioni. Anzitutto, lo Stato nazionale europeo non basta più a se stesso – non può autolegittimarsi – almeno da quando, entrato in crisi lo Stato liberale, sono sorti gli Stati nazionali totalitari fascista e nazista, sconfitti sul campo nella Seconda Guerra Mondiale. Lo Stato nazionale europeo è stato poi arruolato, insieme al cristianesimo, nella gigantomachia tra USA e URSS. Conclusa quella, la potenza imperiale egemone ha trattato gli Stati nazionali europei come un residuo o un ostacolo, come dimostrano sia l’appoggio americano all’Unione Europea, che agli Stati nazionali risucchia autorità e potenza, sia il disinvolto intervento nella guerre civili jugoslave, con la promozione delle indipendenze e la creazione dello Stato fantoccio del Kosovo. Ma ecco il secondo ordine di ragioni: questa Fronda 2.0 è autunnale cioè decadente perché entrambe le forze che la combattono, stati e Stato nazionale, sono in via di esaurimento, e alle loro spalle si stagliano forze imperiali nascenti: anzitutto la neocristianità russa, ma anche la Cina neoconfuciana. Questi, infatti, paiono essere i nuovi cosmion, i nuovi simboli politici che sorgono per rispondere alla sfida culturale e politica dell’impero statunitense. Dove l’insorgere, con Trump, di una nostalgia di Stato nazionale declinata in forma di isolazionismo pasticcione, illustra la crisi della potenza egemone mondiale in seguito ai terribili errori strategici, frutto di arroganza e avidità, commessi dopo il crollo del suo nemico storico, l’URSS.

Per trarre una conclusione provvisoria, potremmo dunque dire che la vicenda catalana ci insegna, per ora, questo: che lo Stato nazionale è un simbolo politico morente, che sopravvive come monumento storico-turistico, come nostalgia di un ordine perento, rifugio provvisorio di chi si sente debole e minacciato, psicofarmaco contro l’angoscia di un futuro che si profila caotico e minaccioso. E che gli stati che lo attaccano, come le iene e gli sciacalli attaccano il leone ferito, letteralmente non sanno quello che fanno, neppure che al leone ferito basta ancora una zampata per disperderli. Per finire, ci insegna di nuovo che l’Unione Europea non sarà mai un simbolo politico vitale. Non è un impero. Non è uno Stato nazionale. E’ un fascio di stati, un insieme arlecchinesco di forze economiche, sociali e politiche incapaci di legittimarsi e di fiorire in un ordine simbolico, che quando le cose si fanno serie – quando la crisi culturale e politica lo tocca da vicino – è costretto puntellare ipocritamente lo Stato nazionale del quale continua a minare le basi.

1 “Cosmion” è un’espressione che prima Adolf Stohr e poi Eric Voegelin impiegano per definire il simbolismo politico, pensato in analogia con il cosmo, che conferisce senso a una forma di civiltà e ne costituisce l’ordine politico. C’è dunque il cosmion imperiale ellenistico o romano, ma anche il cosmion dello Stato nazionale assoluto, etc.

2 I Parlamenti francesi dell’ancien régime sono istituzioni giuridiche con il compito di registrare gli atti del potere regale. Sono anche e soprattutto le istituzioni nelle quali siedono i rappresentanti delle 40.000 famiglie che detengono la ricchezze commerciale e industriale del regno di Francia, mentre i grandi signori frondisti sono i detentori di una larga quota delle terre, e, naturalmente, sono professionisti della guerra.

3 Le ragioni del diverso esito sono molteplici. Non secondaria la diversa statura dei contendenti, re Giacomo commette gravi errori politici e sul campo non si dimostra all’altezza di Cromwell, mentre Mazzarino e Turenne sono più che validi avversari di un politico geniale come Retz e di un grande soldato come Condé. Il risultato determina la diversità storica di cultura politica, che permane tuttora, tra l’anglosfera e il continente europeo: nei paesi anglosassoni lo Stato nazionale non assumerà mai il valore simbolico e la forza politica che invece prende nell’Europa continentale (la direzione politica del Regno Unito non deve la sua efficacia a uno Stato nazionale razionalmente strutturato, ma alla permanenza di un nucleo dirigente che si riproduce per cooptazione ed è l’erede diretto dell’alleanza tra alta aristocrazia e grande commercio che con la guida di Cromwell sconfisse re Giacomo) . In seguito alla sconfitta patita dall’Europa continentale nelle due guerre civili europee e all’egemonia dell’anglosfera, la cultura politica anglosassone, che privilegia sullo Stato nazionale la “società civile” ovvero, nell’accezione contemporanea, le autonomie sociali, ha egemonizzato anche l’Europa continentale: come ognuno vede.

MASSIMO MORIGI A PROPOSITO di CRISTIANESIMO, TOLLERANZA E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO. NOTE A MARGINE A TACCUINO FRANCESE! CHE COSA CI INSEGNA LA CRISI DEL FRONT NATIONAL? DI ROBERTO BUFFAGNI

15 Haec cum audisset quidam de simul discumbentibus, dixit illi: “Beatus, qui manducabit panem in regno Dei”.  16 At ipse dixit ei: “Homo quidam fecit cenam magnam et vocavit multos; 17 et misit servum suum hora cenae dicere invitatis: “Venite, quia iam paratum est”. 18 Et coeperunt simul omnes excusare. Primus dixit ei: “Villam emi et necesse habeo exire et videre illam; rogo te, habe me excusatum”. 19 Et alter dixit: “Iuga boum emi quinque et eo probare illa; rogo te, habe me excusatum”. 20 Et alius dixit: “Uxorem duxi et ideo non possum venire”. 21 Et reversus servus nuntiavit haec domino suo. Tunc iratus pater familias dixit servo suo: “Exi cito in plateas et vicos civitatis et pauperes ac debiles et caecos et claudos introduc huc”. 22 Et ait servus: “Domine, factum est, ut imperasti, et adhuc locus est”. 23 Et ait dominus servo: “Exi in vias et saepes, et compelle intrare, ut impleatur domus mea. 24 Dico autem vobis, quod nemo virorum illorum, qui vocati sunt, gustabit cenam meam” ”

 Evangeliun Secundum Lucam 14: 15-24

 

Facendo i più vivi complimenti all’analisi politica svolta per “L’Italia e il Mondo” da Roberto Buffagni in “Taccuino francese! Che cosa ci insegna la crisi del Front National?”, (1) un’analisi dove la puntuale conoscenza delle forze politiche che si scontrano sullo scenario transalpino viene eccellentemente unita ad una visione in profondità degli ultimi due secoli di storia francese, tale che vista l’importanza di questa nazione per la modernità politica occidentale, il “Taccuino francese!” può veramente aspirare ad essere una prima ricognizione non solo dei nostri problemi italiani (ed auspicabili soluzioni, posto, non mi stancherò mai di ripetere che in storia e nella vita delle società non si danno soluzioni come in matematica ma, semmai, nuovi problemi, dialetticamente connessi con quelli che li hanno preceduti) ma anche di quelli di tutte le odierne c.d. “democrazie”, è proprio sull’aspetto definito nell’analisi di Buffagni “metapolitico” (cioè della Weltanschauung e della politica culturale che dovrebbero connotare le consapevoli e più culturalmente attrezzate attuali forze antisistema) che si pone la necessità di una ulteriore puntualizzazione e messa a fuoco del problema. Una ulteriore puntualizzazione e messa a fuoco del problema che non può assolutamente sfuggire all’impostazione “culturalistica” datane da Antonio Gramsci quando nei suoi Quaderni del Carcere a livello di strategia politica preconizzava la graduale ed inesorabile conquista attraverso una lunga e paziente guerra di posizione delle “casematte” politico-culturali del nemico (dal suo punto di vista di comunista queste casematte erano occupate dalla borghesia e il movimento rivoluzionario non solo avrebbe dovuto battere il nemico di classe ma anche insignorirsi dei migliori valori di questa classe, in modo che non solo questi valori passassero al proletariato ma anche che i migliori rappresentanti della classe egemone ora sconfitta passassero dalla parte del proletariato) e formulava, con mentalità molto sorelliana, il mito del “moderno principe”, che non si riassumeva certo nell’ingannevole figura del classico “uomo forte”ma che rappresentava, piuttosto, la sintesi dialettica, incarnata in un movimento politico che sapesse fondere il momento più politico con quello di cultura politica – Buffagni lo definisce metapolitico – , fra le spinte dal basso politiche e culturali provenienti dal proletariato e le migliori istanze della borghesia che pur doveva venire sconfitta tramite la predetta guerra di posizione all’interno della società. Insomma, per Gramsci la cultura “nazionalpopolare” non era solo uno strumento per comprendere la società italiana del suo tempo ma era, soprattutto, un progetto rivoluzionario “in fieri” che doveva preludere alla rivoluzionaria vittoria del proletariato. E veniamo quindi ora ai punti “metapolitici” dell’articolo di Buffagni. Per farla breve, ed anche perché questo a mio giudizio è il cuore di tutto il ragionamento di Buffagni, cito direttamente il punto 3 che afferma: “L’opposizione al mondialismo è costretta ad essere, volens nolens, opposizione all’illuminismo e all’universalismo”. Ora, a parte il fatto che il termine ‘mondialismo’ dice troppo o troppo poco (ma si tratta di intendersi, tutti, compresi lo scrivente, soffrono della mancanza, dopo il fallimento storico delle esperienze e categorie marxiste, di un adeguato lessico rivoluzionario e ‘mondialismo’ – preso cum grano salis e con la consapevolezza della sua natura di strumento provvisorio da sostituire quanto prima con ben altre e più ficcanti terminologie, e il Repubblicanesimo Geopolitico è anche, se non soprattutto, impegnato nella formulazione di queste nuove “categorie del politico – può ben indicare la retoricizzazione a scopi di dominio politico interno e di proiezione imperialistica degli ideali democratici e dei c.d. diritti umani), è sull’opposizione totale e totalitaria all’illuminismo e all’universalismo che è necessario spendere qualche ulteriore riflessione (e diciamolo chiaramente anche qualche critica). Questo per due fondamentali motivi. Punto numero uno. Proprio perché come già affermato nelle vicende storiche e sociali non si danno mai soluzioni ma semmai nuovi problemi od assetti dialetticamente legati agli stati precedenti e che magari soddisfano, almeno parzialmente e per brevi periodi, coloro che li hanno generati ma che, in nessun modo, possono essere chiamati soluzioni alla stregua delle soluzioni matematiche, non ha dal punto di vista prettamente teorico alcun senso affermare che si è contro o a favore di una determinata situazione o periodo storico. O per essere ancora più radicali – ed anche apparentemente auto contraddittori – la teoresi politica e culturale è allo stesso tempo dialetticamente contro tutta la realtà che l’ha preceduta ma è anche attratta inesorabilmente da questa stessa realtà. Questo per il molto semplice e banale motivo che senza polarità di attrazione-repulsione della realtà che gli si pone di fronte, non solo non è possibile modificare la realtà stessa ma non esisterebbe nemmeno, a meno che non si voglia cadere nella “storia monumentale” di nietzschiana memoria, la teoresi stessa. E questa dialettica di attrazione-repulsione della teoresi verso la realtà non è altro, se ci si pensa bene, che la trasposizione su un piano prettamente teorico della dinamica del confronto-scontro strategico che avviene negli altri livelli della realtà, dalla evoluzione delle istituzioni e consuetudine umane all’evoluzione degli organismi in natura. Ma su questo fondamentale aspetto non mi voglio ora dilungare oltre, atteso che tutti i lettori sono a conoscenza della hegeliana dialettica servo-padrone ed anche perché – si parva licet componere magnis – è un aspetto che ho già precedentemente trattato e che troverà una ulteriore sistemazione nelle mie prossime Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico. Secondo – ed ultimo – fondamentale motivo per cui il punto 3 dell’articolo di Buffagni necessita di una ulteriore messa a fuoco: è vero noi siamo tutti, tanto per intenderci su un piano di praticità operativa e retorica e in attesa anche di più scaltrite categorie politiche – contro l’universalismo ed il mundialismo ma – e qui ritorna in campo l’impostazione culturalistica di Gramsci – non dobbiamo assolutamente dimenticare (e Buffagni nei suoi punti assolutamente non dimentica) che universalismo e una delle sue degenerazioni che chiamiamo per comodità operativa mondialismo, sono l’ultimo anello di una catena che parte dal mondialismo (e mondializzazione altrimenti detta globalizzazione) occidentale iniziata coll’impero romano, proseguita dal cristianesimo e sfociata per ultimo in epoca moderna nelle grandi illusioni illuministe prima e marxistiche in finale di partita: tutto ciò per dire che ragionando con procedure dialettiche e gramsciane sembra veramente difficile che possa avere vita e forza politica, come invece sembra voler indicare Buffagni, una cultura nazionalpopolare che inglobi al suo interno una prospettiva cristiana ma rifiutandone ab imis l’universalismo relegandola ad una sorta di astratto momento ma disgiunto dall’azione vera e propria. In esergo a queste brevi considerazioni ho posto la parabola del convito dal Vangelo secondo Luca. Il padrone dice ai servi, costringete la gente ad entrare nel banchetto (compelle intrare: Luca 14:23). Nella tradizione della Chiesa, da Agostino a S. Tommaso d’Aquino, questa parabola è sempre stata citata per giustificare la persecuzione e la conversione forzata degli atei e degli infedeli. Se il lascito del cristianesimo riguardo ai rapporti col diverso fosse solo l’universalistico e mondialistico compelle intrare non ho nessuna remora ad affermare, nonostante tutti gli sforzi di sintesi dialettica che si debbono compiere in sede di teoresi, che non avrei proprio nessuna difficoltà a schierarmi toto corde contro cristianesimo, illuminismo e – ovviamente ça va sans dire – contro l’universalismo retorico e contro la sua ulteriore ed imperialistica estensione del mondialismo. Ma il cristianesimo non è stato solo questo, è stato, anche se perseguitato, spesso il suo contrario, e dal punto di vista storico e quindi della teoresi non è forse del tutto inutile ricordare che il concetto di tolleranza, ancor prima di assumere le modalità liberali di individualismo metodologico come infine sono state elaborate prima auroralmente e contraddittoriamente da Hobbes (libertà di coscienza ma solo nel foro interno e decisionismo sovrano che prevale nella società esterna schiacciando il sorgere pubblico di sette e divisioni all’interno della stessa), poi da Spinoza e infine definitivamente compiute in Locke, fu nella modernità occidentale elaborato dalle sette ereticali sorte in seguito alla Riforma, sette ereticali che, in polemica con la riforma stessa, affermavano, in buona sostanza, che l’amore universalistico che deve unire tutti gli uomini impedisce senza possibilità di alcun dubbio che qualcuno sia costretto ad entrare, sia cioè costretto a convertirsi. E queste sette e movimenti ereticali che fecero della tolleranza il loro maggiore lascito religioso, politico e culturale (gli eroici nomi delle loro guide spirituali: Sebastiano Castellione, (2) Bernardino Ochino, i Sozzini) erano gli eredi culturali del miglior e più scaltrito umanesimo italiano (il suo principale ed archetipo esponente, Lorenzo Valla) che tramite la loro critica filologica avevano ben capito che il compelle intrare ed altri luoghi comuni testuali, compormentali e culturali del cristianesimo o erano stati mal interpretati allo scopo di politiche di puro potere o, comunque, come tutti le umane imprese che nascono e muoiono nella storia, andavano debitamente contestualizzati tenendo sempre presente come stella polare l’universalismo dell’amore – e quindi della tolleranza – che giudicavano come il vero cuore pulsante del cristianesimo. Penso che una Kultur che avversi l’universalismo liberista e l’imperialista mondialismo e che partendo dalla storia della modernità occidentale sia sempre più radicata fino a diventare nazionale popolare (e quindi politicamente efficace) debba tenere ben presente anche questi elementi e del cristianesimo (3) e di questo aspetto di storia della religione che si sono manifestati proprio con estremo rigore e vigore in Italia. Concludo con una situazione estranea al bell’articolo di Buffagni ma che, anche se con una battuta, ci consente e di stigmatizzare il falso mondialismo democratico e di mostrare che l’ epifania strategica del Repubblicanesimo Geopolitico (progetto che fu anche di Gramsci, anche se con categorie per ora smentite dalla storia, ma avendo ben presente che si doveva dare origine ad un movimento politico-culturale “nazionalpopolare” e quindi radicato nella storia storia) non significa la falsa visione, portata a livello di massa, di un mondo intrinsecamente violento ma la consapevolezza molto strategica ma non necessariamente violenta che, esprimendoci con Alexander Werndt “anarchy is what states make of it”. (4) La bestiale repressione in Catalogna – e tanti saluti alla democrazia e ai diritti politici universalistici del mondo liberal-liberista falsamente propagandati dall’UE – ha fatto sì che, in piena tradizione esegetica cristiana mainstream di Luca 14: 15-24, si sia passati dal compelle intrare al compelle legnare. (5) Si tratta, in senso terroristico e con una versione della Kultur occidentale che noi avversiamo (contraddizione: non avevo appena detto che non si fanno i processi alla storia?) assieme ad una ulteriore conferma del detto wendtiano – ma in negativo, cioè della capacità umana, anziché di essere artefice del suo destino come indica la citazione wendtiana, di compiere il male – anche, attraverso la sua totale e speculare antitesi, dell’indicazione su cosa si deve intendere per ‘epifania strategica’. Una epifania strategica ed un senso delle più profonde e migliori radici della Kultur occidentale (6) che è del tutto assente nella mente e negli occhi spenti di questa attuale brutale Europa politica liberal-liberista e – usiamo ancora una volta questo termine sicuri che sappiamo capirci – mondialista.

Massimo Morigi – 4 ottobre 2017

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NOTE

1 Agli URL http://italiaeilmondo.com/2017/09/29/taccuino-francese-che-cosa-ci-insegna-la-crisi-del-front-national-di-roberto-buffagni/, http://www.webcitation.org/6tvriCfRo e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2017%2F09%2F29%2Ftaccuino-francese-che-cosa-ci-insegna-la-crisi-del-front-national-di-roberto-buffagni%2F&date=2017-10-03 .

2 Nell’ottobre 1553 venne messo al rogo a Ginevra l’antitrinitrario Michele Serveto (Michel Servet, Villanueva de Sigena, 19 settembre 1511 – Ginevra, 27 ottobre 1553). L’anno successivo stigmatizzando la decisione di Calvino di mettere a morte Serveto, Sebastiano Castellione (Sébastien Castellion, o Chatellion o Châteillon, in italiano Sebastiano Castellione, Saint-Martin-du-Frêne, 1515 – Basilea, 29 dicembre 1563) con lo pseudonimo di Martin Bellius pubblica il “De haereticis an sint persequendi” dove attraverso citazioni di diversi autori fra cui Martin Lutero, Erasmo da Rotterdam, Sebastian Frank e lo stesso Castellione, Castellione mostra l’insensatezza dell’intolleranza vista l’assoluta soggettività delle opinioni umane e, soprattutto, nella consapevolezza che il vero può essere avvicinato solo con una libera ricerca. Celebre la sua frase sul rogo di Serveto “Tuer un homme ce n’est pas défendre une doctrine, c’est tuer un homme. Quand les Genevois ont fait périr Servet, ils ne défendaient pas une doctrine, ils tuaient un être humain : on ne prouve pas sa foi en brûlant un homme mais en se faisant brûler pour elle” che consegna l’ “uccidere un uomo non è difendere una dottrina, è uccidere un uomo” come una delle massime pietre miliari non solo della cultura occidentale ma anche (e ci sia concesso per un attimo il peccato dell’universalismo) di tutte le culture dell’uomo.

3 Altro tratto del cristianesimo fondamentale per il Repubblicanesimo Geopolitico per un’ulteriore sviluppo di una Kultur realmente alternativa alle attuali scemenze liberal-liberiste, e cioè il tormentato rapporto del cristianesimo di S. Paolo con la legge civile, è stato affrontato nel nostro “Repubblicanesimo Geopolitico e Katargēsis Messianica” , che è stato pubblicato originariamente per “L’Italia e il Mondo” all’URL http://italiaeilmondo.com/2017/07/29/perche-la-chiesa-cattolica-viene-attaccata-dallonu-di-massimo-morigi/ (WebCite: http://www.webcitation.org/6sMcGBjay e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2017%2F07%2F29%2Fperche-la-chiesa-cattolica-viene-attaccata-dallonu-di-massimo-morigi%2F&date=2017-07-31) e che poi è stato anche caricato autonomamente su Internet ed ora è quindi consultabile, oltre che su altre piattaforme, agli URL di Internet Archive https://archive.org/details/RepubblicanesimoGeopoliticoEKatargsisMessianica_637 e https://ia600809.us.archive.org/25/items/RepubblicanesimoGeopoliticoEKatargsisMessianica_637/RepubblicanesimoGeopoliticoEKatargsisMessianica.pdf .

4 “Anarchy is what States Make of it: The Social Construction of Power Politics” è il titolo di un articolo di Alexander Wendt comparso nel 1992 sulla rivista “International Organization” (Alexander Wendt, “Anarchy is what States Make of it: The Social Construction of Power Politics” in “International Organization”, Vol. 46, No. 2. (Spring, 1992), pp. 391-425), articolo nel quale viene esemplarmente esposto quell’approccio costruttivista che ha rivoluzionato la dottrina delle relazioni internazionali e che ha profonde affinità con l’impostazione dialettico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico. L’articolo è ora anche consultabile su Internet, oltre altre piattaforme, all’URL https://people.ucsc.edu/~rlipsch/migrated/Pol272/Wendt.Anarch.pdf , mentre per l’importanza per il Repubblicanesimo Geopolitico del costruttivismo di Alexander Wendt, oltre a vedere “Repubblicanesimo Geopolitico. Alcune delucidazioni preliminari”, pubblicato prima sul “Corriere della Collera” all’ URL https://corrieredellacollera.com/2013/11/23/alla-ricerca-dellidentita-italiana-di-massimo-morigi/ e ora anche sull’ “Italia e il Mondo” all’ URL http://italiaeilmondo.com/2017/03/16/repubblicanesimo-geopolitico-3a-parte-alcune-delucidazioni-preliminari-di-massimo-morigi/ (WebCite: http://www.webcitation.org/6t4eGt59y e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2017%2F03%2F16%2Frepubblicanesimo-geopolitico-3a-parte-alcune-delucidazioni-preliminari-di-massimo-morigi%2F&date=2017-08-29), si rinvia, more solito, per la “dialettizzazione” del costruttivismo wendtiano alle prossime “Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico”.

5 Proseguendo con gli ignobili giochi di parole, ma per certe situazioni e certi uomini non si può sprecare troppa intelligenza, dopo l’indegno discorso di re Filippo VI di Spagna in seguito alla brutale e bestiale repressione in Catalogna per un referendum definito incostituzionale (ma ammesso e non concesso che lo fosse, sarebbe bastato non riconoscerne il risultato, cercando di non farlo svolgere si denuncia la propria coda di paglia e, comunque, ne viene posto, de facto, un sigillo di legittimità se non giuridica certamente politica), ora per le vicende di Spagna al “compelle legnare” bisogna anche associare un “compelle regnare” (o, con (in)felice sintesi “per regnare compelle legnare”: comunque, non si sa bene ancora per quanto, visto che la giustificazione di un’istituzione anacronistica come la monarchia nei regimi a c.d. democrazia rappresentativa si giustifica proprio per essere una voce , in ragione della sua natura non elettiva e quindi non sottoposta ad alcuna spinta elettoralistica, volta unicamente alla concordia del popolo, al di sopra delle fazioni e contro ogni demagogia – e nel caso della Spagna – delle bestialità autoritarie di leader politici – e degli agenti strategici politico-militari nostalgici del franchismo – che devono rispondere ai peggiori istinti totalitari del loro elettorato …).

6 Il Repubblicanesimo Geopolitico è debitore a Walter Benjamin, oltre alla elaborazione delle “categorie del politico” dell’ ‘iperdecisionismo’ e dello ‘stato di eccezione permanente’ che animano le “Tesi di filosofia della storia” (cfr. sull’argomento i nostri Massimo Morigi, “La Democrazia che sognò le fate (Stato di Eccezione, Teoria dell’Alieno del Terrorista e Repubblicanesimo Geopolitico”) e Id.,Walter Benjamin, Iperdecisionismo e Repubblicanesimo Geopolitico. Lo Stato di Eccezione in cui Viviamo è la Regola”, entrambi lavori pubblicati sull’ “Italia e il Mondo” e consultabili anche su varie piattaforme Web), anche del suo particolare messianismo, non rivolto verso un imprecisato futuro ma inteso a salvare quanto nel passato era stato cacciato ai margini della storia ed oppresso. A questo proposito Benjamin creò la metafora del “balzo di tigre nel passato”. Nella Weltanschauung del Repubblicanesimo Geopolitico, questo messianico “balzo di tigre nel passato” si tramuta in un’ epifania strategica che per realizzarsi si pone l’obiettivo di una Kultur non statica ma sempre in fieri , attraverso la quale vengano recuperate e rese strategicamente operative e vincenti tutte quelle situazioni e (fallite) soluzioni che nel passato appartennero agli agenti omega-strategici: «La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è costituito dal tempo omogeneo e vuoto, ma da quello riempito dall’adesso. Così per Robespierre l’antica Roma era un passato carico di adesso, che egli estraeva a forza dal continuum della storia. La rivoluzione francese pretendeva di essere una Roma ritornata. Essa citava l’antica Roma esattamente come la moda cita un abito d’altri tempi. La moda ha buon fiuto per ciò che è attuale, dovunque esso si muova nel folto dei tempi lontani. Essa è il balzo di tigre nel passato. Solo che ha luogo in un’arena in cui comanda la classe dominante. Lo stesso salto, sotto il cielo libero della storia, è il salto dialettico, e come tale Marx ha concepito la rivoluzione.»: Walter Benjamin, tesi n. 14 di “Tesi di filosofia della storia”.

TRE POST DI ANTONIO de MARTINI sulla SIRIA

  1. Hammoudé Sabbagh, il nuovo presidente del Parlamento siriano. Avvocato, 58 anni. Nato a Hassaké, in area curda. È cristiano di rito siriaco ed è una novità assoluta.
    Non mi sembra un soggetto tanto pericoloso al punto da non doverne parlare sui media per non registrare questo nuovo passo avanti verso il pluralismo che mi pare ben più significativo del permesso di guida alle donne saudite.
  2. LA SUPERIORITÀ SIRIANA SUGLI USA È SOPRATUTTO INTELLETTUALE E POLITICA. VEDASI IL CASO KURDO.

il ministro degli esteri siriano Mouallem, ha rilasciato una dichiarazione sul rapporto coi curdi di Siria, riconoscendo che – una volta battuto il DAESCH di Baghdadi – apre ” ai nostri figli curdi” la prospettiva di una autonomia in ambito federale.

I tre distretti curdi di Afrine, Kobane et Jazira, hanno recentissimamente svolto le elezioni municipali ( e di fatto si auto amministrano) in attesa di fare quelle più politiche a gennaio 2018 nel quadro della nuova costituzione siriana.

In pratica, viene riconosciuta autonomia territoriale, ma non etnica, alle esigenze curde.

Con questa mossa la Siria si distanzia dai curdi di Barzani ( curdi iracheni che lunedì hanno fatto il referendum sulla “indipendenza” ) e in contemporanea rappresenta una minaccia per la Turchia di Erdogan che vede come l’inferno la prospettiva che il virus autonomista siriano si trasmetta ai curdi di Turchia che rappresentano il 15% degli abitanti dell’Anatolia.

A parte ogni considerazione geopolitica, la mancata inclusione dei curdi nell’orbita neo ottomana della nuova Turchia, rappresenterebbe il crollo del presupposto ideologico dell’AKP di Erdogan.

I sunniti ( curdi-siriani) si accordano con gli sciiti di Siria ( e Iran ) e combattono contro sunniti-turchi che si vogliono inclusivi di ogni minoranza come il vecchio impero ottomano! Sarebbe la fine di Erdogan e del suo collante ideologico.

Questa scelta di autonomia territoriale , tacitamente accettata dai curdi di Siria che non vogliono perdere gli aiuti USA con un accordo plateale, poggia sulle intese politiche raggiunte fin dal 2012 con il PYD di Salih Muslim , il partito curdo-siriano che a sua volta è collegato con l’YDP ( suo braccio militare che dal 2014 combatte contro il DAESCH di fatto assieme ai governativi siriani) e che ha solidi collegamenti col PKK di Ocalan che combatte contro i turchi sul proprio territorio in Turchia.

Tutti litigano coi curdi tranne i siriani che hanno trasformato questa sfida in una vincente opportunità politica e militare.
Quale altro esempio di superiorità intellettuale e politica serve agli USA per smetterla con le politiche aggressive verso il paese più civile del Levante ?

3. IL SEGRETO DELLA VITTORIA SIRIANA CONTRO LA SUPERCOALIZIONE NATO È STATO LA….PARTECIPAZIONE POPOLARE.

mentre l’Occidente ha accumulato convegni e chiacchiere e promesse di investimenti in caso di resa, il governo baasista siriano, pur impegnato su quasi 70 diversi fronti ( che hanno fatto emergere nuovi comandanti) con un esercito ridotto a 140.000 uomini, ha varato una serie di riforme e concluso accordi precisi anche con componenti potenzialmente avversi.

Quando i ribelli torneranno in Patria, troveranno che il mondo che volevano cambiare, in questi sei anni è cambiato. In loro assenza e in meglio.

a) kurdi di Siria: fin dal maggio 2011 il governo siriano ha permesso il rientro in Siria dall’esilio iracheno, a Salih Muslim , capo del PYD – l’ala politica del PKK- e ordinato all’esercito di evacuare la fascia frontaliera con la Turchia abitata in prevalenza da curdi ( Kamishla e dintorni). Qualche caserma ha anche “dimenticato”, ritirandosi, di svuotare l’armeria.

Scommessa vinta.
I curdi invece che coi siriani, si sono antagonizzati coi turchi che usavano l’area frontaliera per rifornire DAESCH, ed hanno iniziato trattative coi siriani per uno stato federale.
Ai Turchi e al DAESCH, schioppettate per difendere le loro case ( e , al contempo, i confini siriani).

b) invece di difendere il territorio palmo a palmo, l’esercito si è arroccato sul 30% più popoloso che gli ha permesso il controllo del 70% degli abitanti, assicurando legge e ordine. La maggioranza dei sunniti scelse la protezione governativa delegittimando di fatto i ribelli che si rifacevano al sunnismo.

c) un decreto presidenziale – agosto 2011- ha ripristinato il sistema dei partiti e si sono tenute elezioni con più liste che ora siedono in Parlamento. A febbraio 2012 una riforma costituzionale ha garantito il cambiamento.

Non tutti gli effetti ” democratici” si sono potuti esplicare, , ma il processo è in marcia da cinque anni e continua. Le ami istit si sono susseguite e gli amnistiati sono tornati a casa.

d) la Sharia è stata ammessa come fonte di diritto e la Costituzione – confermata da referendum- adesso parla di ” benessere individuale” e “rispetto per ogni comunità religiosa” annacquando così il laicismo rabbioso tipico del baas che parlava di ” libertà religiosa” e basta.

e) Damasco in cinque anni ha quintuplicato gli abitanti, Lattakie da città alauita è diventata a maggioranza sunnita, l’esercito ha perso sul campo circa 50.000 uomini, ma il tessuto sociale ha retto grazie a disciplinati quadri del partito, all’appoggio di tutte le altre fazioni religiose che hanno contribuito allo sforzo politico e miliare. L’America è riuscita nel miracolo di unire i siriani!

f) gli sciiti di Hezbollah dal Libano hanno contribuito con diecimila uomini perdendone in media una dozzina al giorno, ma liberando la comunicazione con Damasco ( e i monti Kalamun che dominano il passaggio) ; gli istruttori iraniani del comandante della ” Forza Quds”, Soleimani, hanno addestrato le nuove reclute e i volontari e hanno combattuto con loro. I cristiani e gli armeni hanno mandato duemila uomini.
Insomma, dopo il referendum politico, c’è stato quello armato e del sangue.

Tutto il Levante ha scelto Assad e lo ha portato alla vittoria, se preferite, come male minore, ma lo ha scelto contro una coalizione di sette tra gli Stati più potenti e ricchi della terra. L’intervento aereo russo, dopo le minacce di intervento USA, ha chiuso definitivamente la partita è reso vani gli oltre cento attacchi aerei israeliani in appoggio ai ribelli.

La Brookings Institution ( 30.000 collaboratori) nei suoi lussuosi uffici yankee da cui aveva luciferinamente previsto la vittoria dei suoi diletti ” insurgents” ha smesso di studiare gli scenari bellici e adesso studia come rallentare la ricostruzione, mentre cerca di spiegare ai committenti come mai non ha azzeccato nessuna previsione nella sua guerra contro un oculista londinese.

Ora comandanti e gregari che hanno dato il loro sangue sanno che non saranno più sudditi, ma cittadini consapevoli del loro valore. Hanno vinto la guerra. Aiutiamoli a vincere la pace e la riconciliazione tenendo gli anglosassoni lontani il più possibile.

 

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