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L’economia statunitense si trova a un bivio cruciale nel 2025. Dopo anni di volatilità caratterizzati da una pandemia globale, tensioni geopolitiche e una storica guerra commerciale, gli economisti sono nettamente divisi nelle loro previsioni. Molti prevedevano una recessione o addirittura un periodo di stagflazione, mentre l’economia reale ha mostrato una sorprendente resilienza. Mentre gli Stati Uniti si orientano verso l’aumento delle esportazioni, la riduzione delle importazioni e la riorganizzazione della propria base industriale, il divario tra le previsioni degli esperti e i dati attuali è diventato un elemento centrale del dibattito economico.
Previsioni negative: stagflazione, recessione e incertezza
Nel corso del 2024 e del 2025, i principali economisti hanno espresso preoccupazione per diversi rischi chiave:
Allarme stagflazione: Torsten Sløk, capo economista di Apollo Global Management, ha lanciato l’allarme: gli Stati Uniti potrebbero trovarsi ad affrontare una situazione di stagflazione, una combinazione di crescita lenta e inflazione persistente. Ha attribuito gran parte di questo rischio ai dazi dell’amministrazione Trump, che ha descritto come “shock stagflazionistici” che rallentano la crescita e spingono i prezzi al rialzo. Sløk ha previsto che la crescita del PIL potrebbe scendere ad appena l’1,2% nel 2025, con un’inflazione intorno al 3% e una disoccupazione in aumento dal 4,2% a un potenziale 5% o superiore entro il 2026.
Rischio di recessione: la probabilità di una recessione è stata stimata da alcuni analisti al 25%, soprattutto perché il PIL si è contratto dello 0,3% nel primo trimestre del 2025, il primo calo dal 2022.
Incertezza politica: l’economista capo di JPMorgan, Michael Feroli, ha descritto le prospettive come “più nebulose del normale”, con l’economia che si trova ad affrontare un potenziale boom dovuto ai tagli fiscali e alla deregolamentazione, o una crisi stagflazionistica se prevarranno l’incertezza politica e le restrizioni commerciali.
Sentimento pubblico: nonostante la precedente crescita, solo il 23% degli americani aveva una visione positiva dell’economia alla fine del 2024, riflettendo un diffuso scetticismo sulle prospettive future.
La situazione attuale: contraddire i pessimisti
Nonostante questi avvertimenti, l’economia statunitense ha sfidato le previsioni più negative in diversi modi:
Le esportazioni accelerano, le importazioni diminuiscono: sulla scia delle nuove politiche commerciali e dei dazi, le esportazioni statunitensi sono aumentate mentre le importazioni sono diminuite. Questo cambiamento è in parte dovuto a misure politiche mirate volte a ridurre il deficit commerciale e a incoraggiare la produzione interna.
Contrazione del PIL, ma non crollo: sebbene il PIL si sia contratto nel primo trimestre del 2025, il calo è stato modesto , pari allo 0,3%. Molti analisti si aspettavano una flessione molto più marcata. La contrazione è ampiamente considerata una correzione dopo un periodo di crescita superiore al trend, piuttosto che l’inizio di una recessione prolungata .
L’inflazione si stabilizza: contrariamente ai timori di un’inflazione galoppante, gli aumenti dei prezzi sono rimasti relativamente stabili. La maggior parte delle previsioni prevede ora che l’inflazione si attesti intorno al 3% alla fine del 2025, un livello superiore a quello pre-pandemico, ma non ai livelli di crisi.
Il mercato del lavoro regge: la disoccupazione è leggermente aumentata, ma resta storicamente bassa, con previsioni che suggeriscono un aumento al 4,4% nel 2025 e forse al 5% nel 2026, comunque ben al di sotto dei picchi delle precedenti recessioni.
Investimenti e produttività delle imprese: la riduzione delle tariffe doganali e i nuovi accordi commerciali hanno stimolato gli investimenti delle imprese, soprattutto ora che l’inflazione è in calo e la Federal Reserve adotta una posizione più accomodante, tagliando gradualmente i tassi nel corso del 2025 e del 2026 1 .
Cambiamenti politici: reindustrializzazione e crescita trainata dalle esportazioni
L’agenda economica dell’attuale amministrazione è chiara: allontanare gli Stati Uniti da un modello dipendente dalle importazioni e orientarli verso un’economia basata sulle esportazioni e sulla produzione manifatturiera. I pilastri principali includono:
Rilancio della produzione statunitense: un rinnovato focus sulla produzione nazionale è fondamentale. Le politiche includono incentivi per il reshoring delle catene di approvvigionamento, investimenti in settori chiave e sostegno all’innovazione tecnologica.
Riorganizzazione della politica commerciale: rinegoziando gli accordi commerciali e imponendo tariffe mirate, l’amministrazione mira a ridurre la dipendenza dalle importazioni, soprattutto da parte dei rivali strategici, e ad aprire nuovi mercati per i prodotti americani.
L’immigrazione come leva economica: gli sforzi dell’amministrazione per contenere e riformare l’immigrazione mirano a rafforzare il mercato del lavoro e la crescita salariale. Nel tempo, un sistema di immigrazione più controllato potrebbe anche apportare benefici ai paesi limitrofi, incoraggiando investimenti e sviluppo nelle loro economie, riducendo potenzialmente la pressione migratoria.
Le prospettive: scenari e implicazioni strategiche
Le prospettive economiche per gli Stati Uniti nel 2025 e oltre sono caratterizzate da una netta divergenza tra potenziali scenari di espansione e di contrazione:
Scenario
Autisti
Rischi/Sfide
Probabilità
Boom della produttività
Tagli alle tasse, deregolamentazione, guadagni di produttività guidati dall’intelligenza artificiale
Esecuzione delle politiche, domanda globale, clima degli investimenti
Moderare
Stagflazione
Restrizioni commerciali, tariffe persistenti, deriva politica
Inflazione, crescita lenta, aumento della disoccupazione
Moderare
Crescita moderata
Politica equilibrata, tagli graduali dei tassi, inflazione stabile
Shock esterni, instabilità politica
Più probabilmente
Scenario di boom: se i tagli fiscali e la deregolamentazione avranno successo e se gli investimenti delle imprese continueranno ad aumentare, alimentati dall’intelligenza artificiale e dai progressi tecnologici, gli Stati Uniti potrebbero assistere a una nuova ondata di crescita della produttività e di espansione del PIL.
Rischio di stagflazione: se le tensioni commerciali dovessero intensificarsi e l’incertezza politica persistesse, il rischio di stagflazione persisterebbe. Ciò significherebbe crescita lenta, inflazione stagnante e aumento della disoccupazione, uno scenario che metterebbe alla prova sia le imprese che i decisori politici.
Crescita di base/moderata: la maggior parte delle previsioni più diffuse, comprese quelle di RSM e Deloitte, prevede una crescita degli Stati Uniti del 2-2,5% nel 2025, con un’inflazione che si stabilizzerà intorno al 2,5-3% e una disoccupazione in aumento solo modesto. Questo scenario presuppone un equilibrio tra sostegno politico e rischi esterni.
Cambiamenti strutturali e prospettive a lungo termine
Sono in atto diversi cambiamenti strutturali che potrebbero rimodellare l’economia statunitense negli anni a venire:
Fine dei tassi ultra-bassi: l’era dei tassi di interesse prossimi allo zero è finita. Si prevede che la Fed taglierà i tassi lentamente, ma la nuova normalità sarà rappresentata da costi di finanziamento più elevati, che potrebbero sostenere i risparmiatori e ridurre le bolle speculative.
Risultati della politica industriale: gli Stati Uniti stanno investendo massicciamente in settori cruciali: semiconduttori, energia verde (anche se la situazione potrebbe cambiare con una nuova leadership) e manifattura avanzata. Ciò potrebbe rendere l’economia più resiliente agli shock globali.
Afflussi di capitali esteri: gli Stati Uniti continuano a esercitare un’attrazione per i capitali globali, contribuendo a finanziare gli investimenti e a sostenere il ruolo del dollaro come valuta di riserva mondiale.
Evoluzione del mercato del lavoro: la riforma dell’immigrazione e le tendenze demografiche influenzeranno la forza lavoro. Controlli più severi sull’immigrazione potrebbero aumentare i salari nel breve termine, ma potrebbero anche creare carenze di manodopera in settori chiave se non gestiti con attenzione.
Conclusione: resilienza nell’incertezza
L’economia statunitense nel 2025 presenta un paradosso. Mentre molti economisti mettevano in guardia contro la stagnazione e la recessione, la realtà è stata più sfumata. Le esportazioni sono in aumento, le importazioni in calo, l’inflazione è stabile e il mercato del lavoro rimane solido. L’attenzione dell’amministrazione sulla reindustrializzazione e sulla crescita trainata dalle esportazioni segna un cambiamento significativo rispetto al passato, e il contenimento dell’immigrazione mira a rafforzare queste tendenze.
Tuttavia, permangono rischi significativi. Errori politici, rinnovate tensioni commerciali o shock globali potrebbero ancora ostacolare la ripresa. Il prossimo anno sarà un banco di prova per verificare se gli Stati Uniti riusciranno a transitare con successo verso un modello economico più equilibrato e resiliente, che sfrutti i propri punti di forza in termini di innovazione, capitale e produzione, gestendo al contempo le sfide di un mondo in rapida evoluzione.
L’esito finale dipenderà dall’interazione tra le scelte politiche, le condizioni globali e la capacità di adattamento delle imprese e dei lavoratori americani. Per ora, l’economia sta reggendo meglio di quanto molti temessero, il che offre un cauto ottimismo per il futuro.
Per chi non lo sapesse , la famosa direttiva “ Hannibal” non è un nome in codice Pop Hollywoodista. I collegamenti con quel film dove una nana un po’ lolita un po’ suora si innamora di gran signore educatissimo e galante che mangia la gente con stile, purtroppo non esistono . Sopratutto di serie e su Netflix. Accattivante ammettiamolo , ma la direttiva prende il nome da quelle cose che personaggi da molti interessi un po’ , pippa , pippa , pippone come mi chiamava affettuosamente una mia ex .
Ognuno ha le sue passioni; le pratichiamo ossessivamente , al posto di seguire la Juve ( sarebbe gravissimo ) o acquistare una multiproprietà ad Ostuni , rigorosamente sprovvista di vista mare . Insomma , pur pensando troppo , appena sentiamo parlare di Agenzia a differenza dei comuni mortali l’argomento non concerne nessun rogito e F24 da pagare entro giorni 7. Il nome è decisamente Intelligence in ebraico “נוהל חניבעל”, nota anche come Procedura o Protocollo Annibale . Giuro mai stato secchione . Si parla di Annibale Barca, il celebre generale cartaginese che scelse di togliersi la vita (avvelenandosi) per non cadere prigioniero dei Romani nel 181 a.C. Questo gesto estremo richiama il principio della direttiva stessa, cioè impedire “ad ogni costo” la cattura di soldati israeliani da parte del nemico, anche a rischio della loro stessa vita. Tuttavia c’è di più , e la dissonanza per chi già l’ha colta , è occultata proprio nell’origine semantica di un protocollo così delicato. Il fatto è che non abbia riferimenti messianici “standard” riconducibili alla tradizione identitaria del popolo della tribù di Abramo. Sia “Rising Lion” che “I Carri di Gedone “ rientrano perfettamente nelle assonanze teologiche , ma perché invece “ il protocollo Annibale” è così smaccatamente dissonante ? Un piccolo ripasso delle Operazioni più emblematiche a riguardo: •Ira di Dio – diretto richiamo all’onnipotenza e al giudizio divino, usato in passato e ripreso per missioni con forte carica simbolica. •Freccia di Bashan – Bashan è una storica regione biblica; il nome evoca potenza e conquista tipiche delle narrazioni veterotestamentarie. •Pilastro di Nuvole – richiama l’episodio dell’Esodo, quando Dio guidava il popolo ebraico nel deserto con una colonna di nuvola di giorno e di fuoco di notte. Simboleggia protezione e guida divina. •La Fionda di David (David’s Sling) – riferimento diretto a Davide contro Golia, simbolo della lotta del “piccolo” contro il “gigante” grazie all’aiuto divino. •Vangelo – anche se meno frequente, è stato usato per identificare sistemi o azioni, rimandando direttamente alla sacralità e alla dimensione messianica .
Questi nomi non solo evocano la Bibbia, ma sono scelti per rafforzare nell’immaginario collettivo l’idea .
•Ira di Dio – diretto richiamo all’onnipotenza e al giudizio divino, usato in passato e ripreso per missioni con forte carica simbolica.
•Freccia di Bashan – Bashan è una storica regione biblica; il nome evoca potenza e conquista tipiche delle narrazioni veterotestamentarie.
•Pilastro di Nuvole – richiama l’episodio dell’Esodo, quando Dio guidava il popolo ebraico nel deserto con una colonna di nuvola di giorno e di fuoco di notte. Simboleggia protezione e guida divina.
•La Fionda di David (David’s Sling) – riferimento diretto a Davide contro Golia, simbolo della lotta del “piccolo” contro il “gigante” grazie all’aiuto divino.
•Vangelo – anche se meno frequente, è stato usato per identificare sistemi o azioni, rimandando direttamente alla sacralità e alla dimensione messianica di annuncio e salvezza. Questi nomi non solo evocano la Bibbia, ma sono scelti per rafforzare nell’immaginario collettivo l’idea di una missione storica e spirituale che si rinnova nella difesa di Israele.
La chiave simbolica celata nella “Direttiva Hannibal”
La direttiva è un messaggio racchiuso proprio in quella tradizione “esoterica “ di confine e ha un inquietante ruolo di soglia. Annibale simbolicamente è l’attivatore che attraverso un azzardo , frutto del suo genio militare (Guderian e Napoleone seguono ma distaccati ) , Sun Tzu e Machiavelli pontificavano , Annibale , era sia stratega , intellettuale e guidava i suoi in battaglia senza risparmiarsi. Lo stesso Spartaco circa 100 anni dopo si ispirò al mito del condottiero Cartaginese , replicandone le tattiche innovative . Su questo argomento troverete un excursus nella parte 3 sotto
. In due parole : Genio assoluto.
Terminato il mio endorsement per le primarie dell’All of name dei Tesla della storia militare , ritorniamo al Cuore Nerissimo di questo articolo . Annibale , è stato scelto per dare il nome all’operazione non per le sue skills , tantomeno perché le sue imprese hanno riecheggiato nella storia . Il generale Cartaginese , viene associato alla direttiva perché rappresenta appieno, immergendosi nel contesto militar-teocratico tipico della destra religiosa israeliana un concetto specifico: L’archetipo è attivatore della vendetta di Roma che portò a piallare Cartagine/Gaza. Bingo .
Quindi di rimando la storia del piano Sansone è un esempio di come rifiutando la complessità , si fa All In , veicolando ipotesi “ Nucleari “ che lo stesso mandante dell’operazione , che non sta né a Tel Aviv né al Pentagono , vuole mistificare , abituato com’è al pushing forward sul telecomando predittivo e ad avere l’ultimo verbo e il controllo del vento divino . Il mandante è probabilmente apolide e sfuggente , sembra stia nascosto in un Caveau , probabilmente in Svizzera . Una camera mitologica dentro probabile trovereste sia il tesoro dello Stato Confederato , quello Napoleonico e anche un Terzo . Ma il terzo prelude al quarto , sennò che tesoro è.
3 is a magic number .
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Un aspetto sottovalutato del conflitto israelo-iraniano è stato il modo in cui ha galvanizzato gli integralisti iraniani, con alcuni che ritengono che abbia effettivamente accentrato il potere intorno alla fazione dei falchi militari, piuttosto che fomentare la discordia e il disordine come l’Occidente aveva sperato.
L’Economist ha recentemente approfondito l’argomento:
Abbiamo visto che durante il conflitto, il Grande Ayatollah Khamenei ha delegato le decisioni di guerra a un consiglio dell’IRGC shura , permettendo loro di prendere tutte le risposte militari necessarie senza la sua immediata supervisione.
Ora l’Economist scrive come gli attacchi israeliani, e quelli americani precedenti, abbiano in realtà contribuito a spazzare via i “moderati” e a installare una classe di comandanti militari molto più agguerriti:
Come l’IRGC guadagna il controllo, la sua élite viene trasformata rapidamente dagli assassinii di Israele. Sono scomparsi i comandanti veterani che per anni hanno perseguito la “pazienza strategica”, limitando il fuoco quando il loro leader totemico, Qassem Soleimani, è stato assassinato nel 2020, e mantenendolo quando Israele ha colpito i loro proxy, Hamas e Hizbullah, nel 2024. Ora una nuova generazione, impaziente e più dogmatica, ha preso il loro posto ed è intenzionata a riscattare l’orgoglio nazionale.“La posizione massimalista è stata rafforzata”, afferma un accademico vicino al campo riformista. Egli sostiene che i decisori in carica prima della guerra stavano discutendo se abbandonare la loro posizione anti-Israele. Ma “ora sono tutti integralisti”.
Dichiarano addirittura che, per la prima volta dalla rivoluzione del 1979, i militari hanno acquisito la supremazia sui “chierici”, il che potrebbe spiegare perché Khamenei si è assentato durante la seconda metà della breve guerra.
Ma a medio termine potrebbe segnalare che il regime diventa più estremo, non più pragmatico, sotto la pressione di una campagna militare devastante.
Inoltre, le élite iraniane sembrano “coalizzarsi”, mentre un anno fa c’erano grandi lotte intestine e disaccordi sulla direzione del Paese rispetto alle pressioni internazionali; ora la fazione “moderata” è messa a tacere a favore degli audaci patrioti. Questo è simile al processo di selezione naturale che ha avuto luogo nei circoli dell’élite russa all’epoca dell’OMU. Ciò si è visto soprattutto quando il Majlis ha dichiarato la sua unanimità per la chiusura dello Stretto di Hormuz, di cui parleremo tra poco.
La cosa più sorprendente è stata l’ammissione dell’Economist che gli attacchi di Israele contro obiettivi civili sono serviti in realtà a unire la società iraniana. Questo fatto è in contrasto con le narrazioni quotidiane che ci vengono propinate sul fatto che l’Iran è a pezzi e che i cittadini disillusi aspettano a braccia aperte che Reza Pahlavi deponga il “regime teocratico”. Si suppone che i cittadini iraniani non abbiano apprezzato particolarmente scene come questa, pubblicata oggi per la prima volta, che mostra un attacco israeliano al centro di Teheran durante gli attentati del mese scorso:
Dall’articolo:
L’iniziale ammirazione per l’abilità militare di Israele si è trasformata in indignazione quando i suoi obiettivi si sono ampliati e il bilancio delle vittime è aumentato. Il disprezzo per l’impotenza dell’IRGC si è trasformato in orgoglio per la velocità con cui si è ricostituito. Gli iraniani che sono fuggiti dalla capitale stanno tornando.Quelli che un tempo sostenevano Israele ora consegnano alla polizia sospetti agenti israeliani. Le donne prigioniere politiche, le madri dei manifestanti giustiziati e le pop star iraniane in esilio hanno lanciato appelli per mobilitarsi in difesa dell’Iran. “Si è ritorto contro Bibi”, dice un ex funzionario diventato dissidente…
Le fonti dell’Economist sono convinte che gli attacchi israeliani abbiano reso certo che l’Iran ora “correrà” per ottenere la bomba- e perché non dovrebbe?
Basta confrontare il nuovo Capo di Stato Maggiore iraniano, il Maggiore Generale Mousavi (a sinistra), con il suo predecessore Mohammad Bagheri (a destra), ucciso negli attacchi israeliani:
“Se dovesse essere necessaria una risposta militare, questa sarà più forte e più schiacciante di prima”.
– Il nuovo Capo di Stato Maggiore iraniano, il Maggior Generale Mousavi
Ora è emerso che il possibile reale motivo per cui gli Stati Uniti hanno deciso di staccare la spina alla missione Iran così velocemente è stato perché dopo il voto parlamentare di conferma, l’Iran ha effettivamente iniziato a caricare navi con mine navali per chiudere lo Stretto di Hormuz.
Gli Stati Uniti erano seriamente preoccupati per un potenziale blocco dello Stretto di Hormuz, riferisce Reuters, citando fonti. In seguito al primo attacco missilistico di Israele del 13 giugno, l’Iran avrebbe caricato mine navali sulle navi nel Golfo Persico.
Il blocco di questa importante rotta marittima mondiale avrebbe potuto infliggere un duro colpo al commercio internazionale e far salire i prezzi dell’energia, dato che circa il 20% delle forniture mondiali di petrolio e gas passa attraverso lo stretto.
Tuttavia, i funzionari statunitensi hanno riconosciuto che potrebbe essersi trattato di un bluff iraniano.
Certo, conosciamo la scusa prevalente secondo cui solo l’11% del petrolio statunitense passa per Hormuz, e un tale blocco avrebbe colpito maggiormente la Cina e le sue sfere. Si tratta di una proiezione semplicistica, poiché gli effetti secondari sui mercati globali avrebbero comunque comportato importanti ripercussioni per l’economia statunitense attraverso interruzioni della catena di approvvigionamento, impennate dei costi di produzione, massicce pressioni politiche e la percezione di una debolezza delle capacità degli Stati Uniti come esecutori regionali, ecc.
Mentre i diplomatici fanno il loro lavoro, la posizione dell’Iran si irrigidisce a vista d’occhio dopo l’attacco aereo statunitense. Trump ha mal valutato l’umore e la psiche nazionale dell’Iran. Broujerdi, un politico & molto influente; diplomatico veterano [sta] articolando l’opinione della maggioranza nel Majlis.
Gli Stati Uniti sembrano in rotta di collisione/confronto/conflitto con l’Iran, dopo aver giocato tutte le loro carte diplomatiche. Politico, New York Times riportano che gli Stati Uniti stanno trattenendo le forniture di munizioni, difesa aerea, ecc. per l’Ucraina, poiché le scorte del Pentagono si stanno esaurendo; Israele ha la priorità.
Si riferisce al deputato iraniano e membro del Comitato per la sicurezza nazionale Broujerdi, il quale afferma che l’Iran arricchirà l’uranio a qualsiasi livello ritenga opportuno, compreso il 90%:
L’Iran ha continuato a sfidare la criminale AIEA, sospendendo la cooperazione con essa e bandendo il direttore Rafael Grossi dai suoi siti nucleari. Sembra che l’Iran sia sicuro della deterrenza acquisita grazie ai danni subiti da Israele con i suoi attacchi e non sia disposto a piegarsi o inginocchiarsi a ulteriori pressioni.
È interessante notare che ora ci sono notizie non verificate che affermano che Israele sta segretamente sollecitando la Russia a intervenire:
-Israele sta tenendo colloqui silenziosi ad alto livello con la Russia per perseguire una soluzione diplomatica sull’Iran e la Siria, mentre il cessate il fuoco con l’Iran rimane in vigore” – Israeli Broadcasting Corporation.
Israele ha delineato il suo desiderio di uno status quo in cui può semplicemente bombardare l’Iran a suo piacimento, in qualsiasi momento, per “far rispettare” le regole inventate che finge di imporre all’Iran; cioè lo stesso status quo ora accettato come normale per quanto riguarda il Libano, la Siria, lo Yemen e la Palestina – dove Israele può bombardare a suo capriccio.
Leggete questa nuova sorprendente rivelazione del giornale israeliano Ma’ariv:
JUST IN:
L’IAF ha sganciato su Gaza le munizioni di intercettazione rimaste, prima su base volontaria poi come politica.
Durante la guerra di 12 giorni di Israele contro l’Iran, i piloti dell’aeronautica israeliana di ritorno dalle missioni di intercettazione che trasportavano ancora munizioni inutilizzate chiesero di sganciarle su Gaza invece di atterrare a pieno carico.
Questa iniziativa è nata come “iniziativa locale”, ma è diventata rapidamente una routine. I piloti hanno sganciato le bombe in avanzo a Gaza per “sostenere le forze di terra a Khan Younis e nel nord di Gaza”. Il comandante dell’aeronautica Tomer Bar ha approvato l’estensione della pratica a tutti gli squadroni. Di conseguenza, Gaza è stata colpita quotidianamente da attacchi aerei intensivi, con decine di jet che hanno sganciato centinaia di munizioni sui palestinesi senza bisogno di ulteriori dispiegamenti. Un funzionario militare ha dichiarato che questa strategia ha aumentato l’efficienza dell’aeronautica militare, risparmiando risorse e aumentando la potenza di fuoco su più fronti.
Fonte: Ebraico Maariv.
Il problema è che ogni volta che lo farà, l’Iran risponderà probabilmente con un’altra serie di colpi schiaccianti sulle città israeliane, che non andranno a genio alla popolazione.
Sarà politicamente disastroso, perché la popolazione vedrà le “inutili” provocazioni del governo nei confronti dell’Iran come un grande pericolo per loro, senza alcun beneficio tangibile.
Allo stato attuale delle cose, l’Iran – tramite il Ministro della Difesa Araghchi – esige una qualche garanzia che qualsiasi negoziato futuro non venga usato come un altro stratagemma per attaccare l’Iran, come è stato appena fatto per due volte di seguito da Trump. Ma a questo punto, chi può fidarsi della parola degli Stati Uniti?
Gli Stati Uniti sembrano agire per un maggiore senso di disperazione nel riavviare i colloqui, piuttosto che l’Iran, che non ha fretta:
L’articolo del London Times con data di Washington, apparentemente di buona fonte, afferma che Witkoff sta comunicando “freneticamente” con i funzionari iraniani “attraverso canali diretti e indiretti” per far ripartire i colloqui; la “corsa è aperta” per ottenere urgentemente un accordo sul nucleare, nonostante l’insistenza di Trump nel dire il contrario; Witkoff può offrire un alleggerimento delle sanzioni come incentivo all’Iran per negoziare e “firmare un accordo a lungo termine per sostituire” il JCPOA del 2015, che scade a ottobre.
Anche nel momento in cui scriviamo gli aerei del governo iraniano sono tornati dall’Oman, il che indica possibili colloqui con le controparti statunitensi. Possiamo solo sperare che, dietro le spacconate di Trump, gli Stati Uniti abbiano un po’ di buon senso e riescano a trovare un compromesso per un accordo più ampio con il Medio Oriente.
–
Come corollario, ecco la CNN stupita dagli ultimi sondaggi che mostrano il cambiamento di percezione dei Democratici nei confronti di Israele:
Questa è una delle ragioni principali per cui Israele si trova in una situazione così difficile: la prossima generazione di americani non sosterrà più il dominio di Israele sul Congresso degli Stati Uniti. Israele non avrà altra scelta che escogitare nuovi metodi inventivi o false flag per tenere in riga gli americani, perché senza il sostegno degli Stati Uniti, Israele cesserà di essere una nazione in Medio Oriente.
Ma gli integralisti israeliani lo sanno ed è uno dei motivi per cui hanno scelto di distruggere o disgregare l’Iran ora, prima che sia troppo tardi.
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Una sequenza a tre stadi può descrivere la scomparsa della matrice religiosa dalle nostre società: religione attiva (credenza e pratica regolari), religione zombie (incredulità con sopravvivenza di valori morali e sociali), religione zero (non rimane nulla). Ho applicato questa sequenza dapprima al cristianesimo, nelle sue diverse varianti – cattolica, protestante, ortodossa. In seguito l’ho estesa ai due monoteismi genitori, l’ebraismo e l’islam, e più specificamente alla sua componente sciita. Per la Scandinavia, ad esempio, possiamo descrivere una sequenza di “protestantesimo attivo, protestantesimo zombie, protestantesimo zero”. Per l’Iran, avremmo la stessa sequenza, ma incompleta: “sciismo attivo, sciismo zombie”, senza escludere la possibilità di uno “sciismo zero” in futuro. Per Israele, possiamo già descrivere una sequenza completa: “ebraismo attivo, ebraismo zombie, ebraismo zero”.
Il caso di Israele, come quello degli Stati Uniti, ci obbliga a spingere più in là l’analisi storica perché in questi due Paesi sono apparse nuove religioni: l’evangelismo pazzoide negli Stati Uniti, l’ebraismo ultraortodosso in Israele. Si tratta certamente di religioni, ma di innovazioni, post-cristiane in un caso, post-ebraiche nell’altro. Mai prima d’ora nella storia del protestantesimo avevamo visto un dio così freddo, che dispensava gratificazioni monetarie in assenza di moralità; mai prima d’ora nella storia ebraica avevamo visto la crescita esponenziale di un gruppo di fannulloni che vivevano di sussidi statali e del lavoro delle loro mogli per girare in tondo nella Torah. Ciò che accomuna queste due nuove religioni è il rifiuto dell’etica del lavoro del protestantesimo o dell’ebraismo. Queste due innovazioni, tuttavia, non sono le più importanti se cerchiamo di cogliere il fenomeno religioso dopo il cristianesimo o dopo l’ebraismo.
L’ho detto in La sconfitta dell’Occidente : il vuoto che succede al cristianesimo produce una deificazione del vuoto, quel nichilismo che vuole la distruzione delle cose, degli uomini e della realtà. Il nichilismo è la matrice delle nuove religioni. Ma la vera nuova religione di massa è il culto della guerra. Paradossalmente, o logicamente, questa innovazione ci riporta a prima del monoteismo. La storia dell’umanità ha elencato infinite religioni di guerra, o almeno di dei e dee della guerra. Ares e Atena tra i greci, Indra tra gli indo-ariani, Ningirsu a Sumer, Sekhmet in Egitto, senza dimenticare quello che conosciamo meglio, grazie ad Asterix, Toutatis, il dio celtico della guerra. I nostri antenati galli erano semplicemente dei tagliatori di teste .
Huitzilopochtli (Codice Telleriano-Remensis)
Sul canale Fréquence populaire, discutendo con Diane Lagrange dell’ultimo assalto americano-israeliano all’Iran, avevo citato, un po’ improvvisamente, il dio azteco della guerra Huitzilopochtli come possibile candidato per la nuova religione americano-israeliana. Grazie al Pentagono, possiamo fare di meglio. Il nome dell’operazione di bombardamento dei siti nucleari iraniani, Martello notturno, ci indica il dio ideale. Il “martello” è lo strumento e l’emblema di Thor, il dio scandinavo (e più in generale germanico) della guerra. Si tratta di un martello a manico corto che, dopo essere stato colpito, torna nella mano del suo padrone. All’inizio del terzo millennio, Thor è il dio dei neonazisti. Il suo mondo scandinavo originario è ora il luogo di un impressionante revival guerrafondaio. Propongo quindi di chiamare il culto di Thor la nuova religione della guerra che sta succedendo, nei Paesi protestanti o ebraici, al monoteismo e alla sua morale.
Avremo bisogno di immagini per fissare questo concetto. Perché non sostituire le stelle a cinque o sei punte delle bandiere americana e israeliana con il martello di Thor? Cinquantuno mini martelli di Thor, tutti bianchi, nell’angolo sinistro della bandiera dell’Unione; un unico martello di Thor, tutto blu, al centro della bandiera israeliana. Thor è il vero dio dell’America e di Israele.
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Devo scusarmi ancora una volta per aver ripreso a parlare di politica statunitense anziché di affari cinesi (forse dovrei rinominare questa newsletter), ma credo che l’ultimo articolo del professor Diao valga la pena di essere condiviso.
In questo articolo, classifica le politiche di Trump in programmi radicali “realistici” e “irrealistici”. La sua analisi rivela il metodo dietro quella che molti percepiscono come follia, in particolare le tattiche negoziali di Trump che sfruttano pressioni estreme come leva per ottenere guadagni più modesti, e il suo sistematico sfruttamento di lacune legali e debolezze istituzionali.
Ciò che rende questa analisi particolarmente preziosa è la finestra che offre sul pensiero strategico cinese. Comprendendo come gli ambienti accademici e politici cinesi percepiscono lo stile negoziale e i modelli decisionali di Trump, otteniamo informazioni cruciali sull’evoluzione della strategia di risposta di Pechino, dalla reazione al “Giorno della Liberazione” ai recenti negoziati pragmatici sui materiali delle terre rare. Questa prospettiva aiuta a spiegare le motivazioni alla base dei cambiamenti tattici della Cina nei rapporti con l’amministrazione Trump.
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Il 30 aprile 2025, il presidente Donald J. Trump ha completato i primi cento giorni del suo secondo mandato. Durante questo periodo, Trump ha lanciato una raffica di iniziative politiche radicali, sia sul fronte interno che internazionale, che hanno lasciato gli osservatori sconcertati, scioccati e a volte increduli. Solo nel giorno del suo insediamento, Trump ha firmato ben 26 ordini esecutivi, un numero record, non solo ribaltando numerose politiche chiave dell’amministrazione Biden, ma anche istituendo il cosiddetto “Dipartimento per l’Efficienza del Governo” (DOGE), progettato per tagliare le dimensioni, la spesa e i programmi del governo federale. Di fronte alla sua sconcertante serie di mosse di politica interna ed estera, gli osservatori sollevano naturalmente domande fondamentali: in che modo i programmi radicali di Trump differiscono da quelli del suo primo mandato? Quali caratteristiche distintive presentano? Come è riuscito Trump a promuovere politiche così estreme? Quale impatto potrebbero avere queste azioni e cosa ci aspetta in futuro? Basandosi su un’analisi preliminare dei programmi radicali di Trump, sia in ambito interno che estero, durante il suo secondo mandato, questo articolo cerca di rispondere a queste urgenti domande.
I. I programmi radicali di Trump e le loro caratteristiche distintive
Le attuali iniziative radicali di Trump in politica interna ed estera non solo si discostano radicalmente dagli approcci convenzionali dei precedenti presidenti americani, ma superano persino gli sforzi compiuti nel suo primo mandato. Per “agenda radicale” intendiamo iniziative politiche che si discostano radicalmente dal pensiero convenzionale e dalle prassi standard. La loro natura radicale si manifesta principalmente in due dimensioni: i mezzi impiegati e gli obiettivi perseguiti.
Queste due dimensioni danno origine a due distinte categorie di programmi radicali. La prima categoria persegue obiettivi razionali e raggiungibili – obiettivi già raggiunti e dimostratisi tali – ma impiega mezzi convenzionali spinti fino ai limiti assoluti o misure decisamente estreme. La seconda propone obiettivi senza precedenti, non dimostrati e potenzialmente irraggiungibili, con metodi di attuazione che rimangono deliberatamente vaghi, senza tuttavia escludere misure estreme. In altre parole, la prima rappresenta “programmi radicali pragmatici” che impiegano mezzi non convenzionali ed estremi per raggiungere obiettivi convenzionali e realistici, come il ritiro dalle organizzazioni internazionali, l’imposizione di tariffe mirate su specifici partner commerciali o prodotti e la sospensione degli aiuti esteri. Quest’ultima costituisce “agende radicali utopiche” che impiegano tutti i mezzi disponibili, compresi quelli estremi, per perseguire obiettivi irrealistici e irrazionali mai raggiunti prima, come l’eliminazione della cittadinanza per diritto di nascita, l’obbligo per i dipendenti federali di dimettersi senza una legge, la sospensione dell’USAID senza l’approvazione del Congresso, lo smantellamento del Dipartimento dell’Istruzione tramite decreto esecutivo, l’annessione del Canada, la richiesta a Panama di “restituire” i diritti di gestione del canale, l’acquisto della Groenlandia, l’occupazione di Gaza e l’attuazione di “tariffe reciproche” complete.
Visto da questa prospettiva, il primo mandato di Trump ha portato avanti principalmente programmi radicali e pragmatici, accompagnati da occasionali iniziative utopiche. Al contrario, mentre il suo secondo mandato presenta ancora misure radicali e pragmatiche come dazi e ritiri dai trattati, ha introdotto un numero molto maggiore di programmi radicali e utopici. Questo cambiamento spiega perché il secondo mandato di Trump appaia agli osservatori nettamente più imprevedibile e potenzialmente rivoluzionario. Ciononostante, nonostante l’evidente aumento di elementi irrealistici o irrazionali, i programmi radicali di Trump, sia in patria che all’estero, compresi quelli utopici, condividono diverse caratteristiche distintive.
(1) Sfruttare ambiguità giuridiche e lacune istituzionali. I programmi radicali di Trump sfruttano sistematicamente lacune e ambiguità nei quadri giuridici e nelle strutture istituzionali, evitando accuratamente il confronto diretto con disposizioni esplicite del diritto americano o internazionale per eludere sanzioni immediate, creando così una parvenza di “legittimità” temporanea. A livello nazionale, il suo attacco alla cittadinanza per diritto di nascita pretende di offrire una “interpretazione correttiva” del XIV Emendamento, con la pretesa di difendere il “vero” significato della cittadinanza americana. In materia di applicazione delle leggi sull’immigrazione, Trump ha ampliato l’autorità esecutiva posizionandosi come un “presidente di crisi” che difende la “sicurezza nazionale” da presunte “invasioni straniere”, autorizzando persino il supporto militare alle operazioni di immigrazione. Quando prende di mira agenzie federali, personale e programmi che ricadono sotto la giurisdizione del Congresso, Trump ha escogitato soluzioni alternative creative. Ad esempio, ha nominato il Segretario di Stato Marco Rubio come Amministratore facente funzioni di USAID, ottenendo di fatto la fusione di USAID con l’Ufficio di Stato – una riorganizzazione che normalmente richiederebbe l’approvazione del Congresso. Allo stesso modo, Trump ha fatto in modo che il Segretario al Tesoro Scott Bessent e il Direttore dell’OMB Russell Vought assumessero successivamente la carica di direttori ad interim del Consumer Financial Protection Bureau, un altro obiettivo da eliminare. Nel frattempo, Trump e il suo DOGE portano avanti il loro programma attraverso azioni esecutive: impartendo ultimatum “a un bivio” ai dipendenti federali, offrendo riscatti entro tempi specifici, e prendendo di mira specificamente quasi 200.000 nuovi assunti ancora in periodo di prova per il licenziamento – tattiche progettate per ridurre al minimo i ricorsi legali e le sanzioni.
A livello internazionale, sebbene Trump abbia annunciato o minacciato il ritiro da diverse organizzazioni internazionali, gli Stati Uniti continuano a seguire le procedure e le tempistiche di ritiro prescritte. Per quanto riguarda le rivendicazioni territoriali, i diritti giurisdizionali o il controllo delle risorse su altre nazioni, le proposte di Trump – sebbene sembrino violare la sovranità e l’integrità territoriale – enfatizzano metodi “pacifici” che richiedono il “consenso” delle nazioni interessate, come “l’acquisto” o il “trasferimento”, pur mantenendo una studiata ambiguità sul potenziale uso della forza. Le dichiarazioni deliberatamente vaghe e contraddittorie di Trump sulle opzioni militari si muovono ai margini del diritto internazionale, aiutandolo a evitare di diventare un paria nella comunità internazionale.
(2) Garantire il sostegno di base neutralizzando l’opposizione chiave. Il principio fondamentale alla base dei programmi radicali di Trump è quello di mantenere il sostegno – o almeno di evitare l’opposizione – dei suoi elettori interni critici. Le sue restrizioni sulla cittadinanza per diritto di nascita e sull’immigrazione riflettono le preferenze estetiche del movimento MAGA all’interno del Partito Repubblicano, soddisfacendo al contempo le richieste conservatrici di lunga data. I tagli alle agenzie federali, al personale e ai programmi non solo sono in linea con l’ideologia conservatrice del “governo limitato”, ma potrebbero persino piacere ad alcuni Democratici, attingendo al contempo alla profonda sfiducia degli americani nei confronti della burocrazia federale. A livello internazionale, la riduzione degli impegni globali soddisfa l’agenda consolidata del MAGA; i dazi mirati rispondono direttamente alle industrie nazionali interessate e agli elettori operai; l’espansione dell’influenza geografica americana soddisfa le aspirazioni politiche conservatrici e alcuni interessi industriali alla ricerca di nuovi mercati.
L’opposizione a questi programmi radicali proviene principalmente dalle fila dei Democratici e dai dipendenti pubblici direttamente interessati. I primi si oppongono di riflesso a causa della polarizzazione partitica; i secondi, nonostante le loro rimostranze, non hanno il capitale politico e la forza organizzativa per organizzare una resistenza efficace. La mobilitazione della società civile – come dimostrano le proteste nazionali del 5 aprile contro Trump ed Elon Musk – non ha necessariamente eroso il sostegno fondamentale a Trump. I sondaggi di metà aprile 2025, a quasi tre mesi dall’inizio del suo mandato, mostrano che Trump mantiene il 44% di consensi contro il 53% di disapprovazione, leggermente migliore rispetto ai dati del suo primo mandato (41% e 53%). Altri sondaggi indicano che la percentuale di americani che crede che il Paese stia andando nella giusta direzione è salita dal 33% al 42%, mentre il sentimento di sfiducia è sceso dal 67% al 58%. Questi numeri suggeriscono che i programmi radicali di Trump non hanno ancora generato una reazione politica incontrollabile.
L’iniziativa dei “dazi reciproci” – un programma radicale e utopico – merita una menzione speciale per aver innescato la volatilità del mercato e aver modificato l’opinione pubblica interna. Un sondaggio condotto dal 3 al 7 aprile 2025, subito dopo l’annuncio, ha rilevato che il 72% degli intervistati riteneva che avrebbe danneggiato l’economia a breve termine, contro il 22% che si aspettava benefici, mentre il 53% prevedeva danni a lungo termine e il 41% che si aspettava guadagni. Tra i repubblicani, il rapporto benefici/danni a breve termine era del 46%/44%, mentre quello a lungo termine dell’87%/10%. Un altro sondaggio condotto dal 4 al 6 aprile ha rilevato un 39% di sostegno contro il 57% di opposizione complessiva, ma un 73% di sostegno contro il 24% di opposizione tra i repubblicani. Sebbene questi numeri confermino la costante lealtà repubblicana, stanno emergendo segnali d’allarme. In concomitanza con le turbolenze del mercato e le pressioni dei donatori, Trump ha rapidamente annunciato delle modifiche – rinvii di 90 giorni per la maggior parte dei paesi ed esenzioni per l’elettronica – nel tentativo di rafforzare il sostegno e minimizzare l’opposizione.
(3) Agende nascoste dietro le dichiarazioni pubbliche. Le agende radicali di Trump spesso perseguono obiettivi ben diversi da quelli pubblicamente proclamati, esibendo spesso caratteristiche gradualiste o transazionali. Come consiglia l’antica saggezza, “giudica dai fatti, non dalle parole” (听其言,观其行) – gli obiettivi politici dichiarati pubblicamente da Trump potrebbero mascherare le sue vere intenzioni. Il suo stile negoziale favorisce “il partire da posizioni oltraggiose prima di passare alla contrattazione e al compromesso”. Per usare le parole di Trump: “Punto molto in alto, e poi continuo a spingere, spingere e spingere per ottenere ciò che voglio. A volte mi accontento di meno di quanto desiderassi, ma nella maggior parte dei casi finisco comunque con ciò che voglio… Bisogna comunque pensare, quindi perché non pensare in grande?… Un po’ di iperbole non guasta mai”. Spesso, quando lancia iniziative radicali, Trump potrebbe non aver valutato appieno gli obiettivi finali, procedendo invece in modo sperimentale: “Non mi affeziono mai troppo a un accordo o a un approccio… Tengo molte palle in aria, perché la maggior parte degli accordi fallisce, non importa quanto promettenti possano sembrare all’inizio”.
Le politiche di Trump probabilmente perseguono due scopi principali. In primo luogo, alcuni programmi radicali, una volta attuati, producono effetti cumulativi irreversibili. Trump cerca di massimizzarne la durata e la portata, ritardando al contempo i meccanismi correttivi, consentendo una trasformazione graduale attraverso cambiamenti incrementali accumulati. In secondo luogo, per i programmi radicali utopici, Trump probabilmente ne riconosce la natura irrealistica, ma li impiega strategicamente, creando una pressione senza precedenti per costringere gli avversari ad accettare esiti “di secondo piano” per evitare scenari “peggiori”, garantendo così obiettivi transazionali con investimenti americani minimi e il massimo rendimento. Che siano graduali o transazionali, questi rappresentano “frutti a portata di mano” che la disruption di Trump rende disponibili per la raccolta a costi minimi.
(4) Prendere di mira i punti critici interni mobilitando le forze esterne. I programmi radicali interni di Trump prendono strategicamente di mira i punti critici controversi per generare “effetti agghiaccianti” a cascata. La cittadinanza per nascita, ad esempio, è da tempo un elemento fondamentale nei dibattiti sull’immigrazione. Rappresenta sia la trasformazione demografica che i sostenitori del MAGA deplorano, sia una questione su cui le posizioni di parte sono saldamente radicate, garantendo a Trump un solido sostegno di base. Analogamente, prendere di mira l’USAID persegue molteplici scopi simbolici: incarna gli eccessivi impegni esteri a cui il MAGA si oppone; soffre di una persistente percezione negativa da parte dell’opinione pubblica (i sondaggi mostrano che il 60% degli americani ritiene che il governo spenda troppo poco a livello nazionale e troppo in aiuti esteri, sovrastimando grossolanamente gli importi effettivi); e non ha forti elettori interni, il che lo rende vulnerabile ad attacchi di parte senza significative reazioni negative.
La creazione di DOGE rappresenta il colpo da maestro di Trump nel mobilitare forze esterne contro la resistenza interna. Reclutando innovatori del settore tecnologico per sfidare l’ortodossia governativa, Trump inquadra il suo attacco alla burocrazia federale come modernizzazione attraverso l’efficienza aziendale, i big data e l’intelligenza artificiale. In sostanza, DOGE e iniziative simili rappresentano la contro-istituzione di Trump, che crea un proprio “stato profondo” per combattere quello tradizionale.
(5) Impegno bilaterale con collegamento multi-tema. In linea con il suo primo mandato, i programmi esteri radicali di Trump, pur coinvolgendo molteplici Paesi e questioni, creano arene bilaterali per transazioni complesse e multi-tematiche. Questo approccio garantisce che l’America negozi sempre da una posizione di forza schiacciante, collegando al contempo questioni disparate, sia internazionali che nazionali, per massimizzare la leva finanziaria. Trump intreccia problemi autentici e di lunga data con crisi artificialmente create per creare fitte reti di negoziati interconnessi.
Si consideri il Messico: sebbene i dazi sembrino essere lo strumento principale, in realtà servono da leva per negoziati globali che includono commercio, immigrazione, droga e l’accordo USMCA. Con l’Europa, l’ambito transazionale di Trump abbraccia la crisi ucraina, le risorse ucraine, le relazioni commerciali, l’acquisizione della Groenlandia e i futuri obblighi di difesa dell’Europa. L’iniziativa dei “dazi reciproci” funge di per sé da preposizionamento per i negoziati futuri, creando pressione e merce di scambio.
II. I fattori interni e internazionali dei programmi radicali di Trump
Le iniziative radicali di Trump derivano da complessi fattori interni e internazionali. Oggettivamente, la configurazione del potere interno e la posizione internazionale degli Stati Uniti forniscono sia fondamento che spazio operativo, consentendo persino l’erosione dei tradizionali sistemi di pesi e contrappesi. Soggettivamente, le caratteristiche del secondo mandato di Trump amplificano le sue tendenze preesistenti, spingendolo verso posizioni sempre più estreme.
(1) L’incessante espansione del potere presidenziale. Il potere presidenziale americano ha conosciuto un’espansione pressoché continua sin dalla sua fondazione. I padri fondatori della Costituzione, temendo la tirannia monarchica, enumerarono meticolosamente i poteri del Congresso nell’Articolo I, mentre nell’Articolo II concedevano al presidente solo un “potere esecutivo” generale. L’evoluzione storica ha invertito questo equilibrio: il Congresso rimane limitato da poteri enumerati sempre più obsoleti, mentre i presidenti ridefiniscono continuamente l’autorità esecutiva. Questa architettura costituzionale favorisce naturalmente l’esaltazione presidenziale, mentre lo sviluppo nazionale e il ruolo globale dell’America creano urgenti richieste di una leadership centralizzata e reattiva, dando origine alla “presidenza imperiale”.
Le crisi accelerano in modo particolare questa dinamica: Lincoln durante la Guerra Civile, Roosevelt che affronta la Depressione e la Seconda Guerra Mondiale, Nixon durante il Vietnam, Reagan durante le tensioni della Guerra Fredda. Dopo l’11 settembre, la “teoria dell’esecutivo unitario” ha ulteriormente rafforzato sia Bush che Obama. Ogni presidente mette alla prova i limiti del potere; in assenza di una resistenza del Congresso o dell’opinione pubblica, le prerogative imperiali vengono normalizzate. Anche di fronte a vincoli istituzionali, i presidenti invocano la necessità dell’esecutivo per giustificare interpretazioni espansive di ordini esecutivi, poteri di emergenza, condoni e privilegi. Sebbene i tribunali possano eventualmente intervenire, la natura retrospettiva del controllo giurisdizionale consente alle politiche di creare fatti irreversibili sul campo. La natura caso per caso della correzione giudiziaria consente ai presidenti di avviare molteplici iniziative più rapidamente di quanto i tribunali possano rispondere.
In politica estera, il predominio presidenziale è ancora più pronunciato. Sebbene la Costituzione conferisca specifici poteri in politica estera, il primato presidenziale si è evoluto attraverso la pratica e le circostanze, piuttosto che attraverso un mandato costituzionale. Nonostante i vincoli post-Vietnam e la crescente assertività del Congresso, i presidenti continuano a dominare l’attuazione della politica estera, nonostante l’attuale competizione tra grandi potenze. L’autorità tariffaria esemplifica questa evoluzione: sebbene la Costituzione assegni al Congresso il potere impositivo, la legislazione del XX secolo – il Reciprocal Trade Agreements Act del 1934, il Trade Expansion Act del 1962, il Trade Act del 1974 e l’International Emergency Economic Powers Act del 1977 – ha progressivamente trasferito l’autorità commerciale per migliorare l’efficienza e la flessibilità negoziale. Le misure volte a snellire i negoziati commerciali hanno invece creato squilibri fondamentali, garantendo ai presidenti un controllo quasi monopolistico sulle principali politiche economiche.
(2) Il continuo “dominio” relativo dell’America sulla scena internazionale. Proprio come il presidente americano è “dominante” nel potere interno ed estero, anche l’America, sotto la guida presidenziale, rimane in uno stato di “dominio” relativo sulla scena internazionale. Nell’attuale struttura del potere internazionale, se la comunità internazionale sia in grado di fornire le necessarie limitazioni e correzioni efficaci a un’America che persegue programmi estremisti è una sfida e un banco di prova. Sebbene l’ordine mondiale continui a subire enormi cambiamenti e la forza nazionale e lo status internazionale dell’America siano relativamente diminuiti rispetto ad altri paesi, essa conserva ancora i vantaggi differenziali e comparativi relativi di uno stato unipolare. La questione potrebbe essere meno se l’America possa guidare, piuttosto se scelga di farlo.
Trump ha risposto con decisione, accelerando lo smantellamento della leadership americana e massimizzando la pressione su tutte le nazioni, compresi gli alleati. Le risposte internazionali si scontrano con limiti intrinseci: le nazioni occidentali con profondi legami economici faticano a sostenere una resistenza globale; le grandi potenze, dando priorità al proprio sviluppo e alla stabilità strategica, evitano risposte escalation; le nazioni più piccole, incapaci di coordinare un’azione collettiva, non riescono a organizzare un’opposizione unitaria. Questo contesto di risposta vincolata incoraggia i continui test di confine di Trump.
(3) La particolarità di Trump nel suo secondo mandato. Oltre ai fattori strutturali, Trump stesso mostra caratteristiche distintive del suo secondo mandato che massimizzano il suo sfruttamento dei poteri presidenziali estesi e del primato americano. In primo luogo, Trump ha ottenuto un controllo senza precedenti sul Partito Repubblicano, trasformandolo ideologicamente e dal punto di vista del personale in un veicolo “trumpizzato” incapace di una resistenza significativa. In secondo luogo, le preoccupazioni legate al passato ora dominano la psicologia di Trump, spingendolo verso risultati “storici” a prescindere dalla loro fattibilità. In terzo luogo, i limiti di mandato eliminano i vincoli elettorali, rimuovendo le inibizioni contro l’espansione del potere. Il disprezzo costituzionale e il disprezzo per la tradizione di Trump facilitano ulteriormente le deviazioni radicali. In quarto luogo, il team di politica estera di Trump si è trasformato da “partner” del primo mandato ad “assistenti” del secondo mandato.
L’episodio della “conquista di Gaza” illustra questa dinamica. Il 4 febbraio 2025, Trump annunciò spontaneamente, durante la visita di Netanyahu, che l’America avrebbe “conquistato” Gaza – una proposta mai discussa all’interno del suo team, pura improvvisazione presidenziale che riflette l’istinto senza filtri di Trump che ora guida la politica estera americana.
III. Impatto e prospettive delle agende estreme di Trump
Sebbene i programmi radicali in evoluzione di Trump sfuggano a una valutazione completa, combinando l’esperienza del primo mandato con gli sviluppi attuali è possibile fare proiezioni caute.
A livello nazionale, le iniziative radicali di Trump aprono la strada a graduali vittorie politiche conservatrici. In primo luogo, contestare la cittadinanza per diritto di nascita e questioni divisive simili mette alla prova l’opinione pubblica e al contempo avvia procedimenti giudiziari. Sebbene i tribunali possano bloccare questi ordini, essi rivelano un sostegno latente, avviando battaglie legali che potrebbero portare a vittorie alla Corte Suprema. A metà marzo 2025, tre tribunali distrettuali federali avevano bloccato l’ordine di Trump sulla cittadinanza per diritto di nascita, spingendo la Corte Suprema a presentare ricorso diretto per ottenere un precedente rivoluzionario.
In secondo luogo, le iniziative di ridimensionamento governativo potrebbero produrre effetti “sperimentali”. La limitata portata iniziale riduce al minimo la resistenza, ma poiché il DOGE prende di mira dipartimenti chiave e interessi consolidati, le sfide giudiziarie si intensificheranno. L’aggiramento completo del Congresso sembra impossibile: persino la Corte Roberts, conservatrice, non abbandonerà la separazione dei poteri. Riconoscendo ciò, Trump persegue la paralisi dell’agenzia anziché l’eliminazione. Dimostrando che l’America funziona senza Dipartimenti dell’Istruzione attivi o USAID, Trump coltiva l’accettazione pubblica di un’eventuale abolizione. Questo approccio sperimentale, profondamente radicato nella cultura politica americana, modifica gradualmente l’opinione pubblica, creando future finestre per un’effettiva eliminazione.
In terzo luogo, sebbene il potenziale di taglio di DOGE sia limitato, qualsiasi riduzione ottenuta potrebbe rivelarsi ardua. Musk aveva inizialmente promesso tagli per 1-2 trilioni di dollari entro il 250° anniversario dell’America. DOGE dichiara tagli per 155 miliardi di dollari entro metà aprile 2025, sebbene queste cifre siano oggetto di scetticismo. Con un bilancio di 7,27 trilioni di dollari per l’anno fiscale 2025, solo 1,88 trilioni di dollari di spesa discrezionale offrono un potenziale di aggiustamento dopo aver protetto i diritti e il servizio del debito. I tagli dichiarati da DOGE rappresentano solo l’8,2% della spesa discrezionale, il che suggerisce ampi obiettivi rimanenti. Tuttavia, la spesa militare assorbe il 47% dei fondi discrezionali, mentre le somme rimanenti sostengono le operazioni essenziali. Il margine di taglio reale è minimo e politicamente teso. Eppure, qualsiasi riduzione ottenuta, una volta incorporata nelle risoluzioni e negli stanziamenti di bilancio, diventa difficile da invertire in assenza di un boom economico o di un’impennata delle entrate: l’inerzia fiscale protegge i cambiamenti di Trump.
Per quanto riguarda l’impatto estero, i programmi radicali di Trump potrebbero in parte produrre effetti transazionali. In primo luogo, le nazioni economicamente dipendenti dagli Stati Uniti finiranno per negoziare nonostante la resistenza iniziale. Sebbene Trump probabilmente non ricorrerà alla forza militare, alleati e vicini non possono resistere a una pressione economica prolungata. Nonostante l’incostanza di Trump, i calcoli schiaccianti sui tassi d’interesse portano a ripetuti compromessi.
In secondo luogo, le nazioni che affrontano sfide territoriali o di sovranità faranno concessioni concrete per evitare esiti peggiori. Pur mantenendo ferme posizioni retoriche, si impegneranno in negoziati asimmetrici, accettando le richieste realistiche di Trump per prevenire quelle irrealistiche. Anche se la Groenlandia rimanesse danese, aspettatevi il massimo controllo pratico americano.
In terzo luogo, i concorrenti strategici designati considerano il confronto americano una realtà permanente. Difenderanno interessi legittimi attraverso risposte proporzionate, pur rimanendo aperti a un dialogo reciprocamente rispettoso che porti a soluzioni accettabili.
In quarto luogo, i dazi potrebbero ristrutturare radicalmente le entrate federali, normalizzando il protezionismo. Il primo mandato di Trump ha visto le entrate doganali salire da 41,3 miliardi di dollari (anno fiscale 2018) a 71 miliardi di dollari (anno fiscale 2019), raggiungendo i 100 miliardi di dollari entro l’anno fiscale 2022. Al netto dell’inflazione, i dazi sono cresciuti dall’1% a un costante 2% delle entrate federali. La continua escalation tariffaria aumenterà ulteriormente sia gli importi assoluti che la quota di entrate. Con deficit e debito crescenti, le amministrazioni successive potrebbero preservare questi flussi di entrate anziché ridurre i dazi, soprattutto se l’impatto economico rimane gestibile.
Inoltre, le agende utopiche e radicali mettono alla prova la lealtà del team. L’episodio di Gaza ne è un esempio: nonostante la successiva esitazione di Trump, i membri del team hanno approvato all’unanimità la sua proposta spontanea, con Rubio che l’ha attivamente promossa durante le visite in Medio Oriente. Episodi simili confermano la sottomissione del team ai capricci presidenziali.
Sebbene i programmi radicali di Trump generino diversi impatti, le loro prospettive a lungo termine appaiono più distruttive che costruttive. In primo luogo, la limitazione della cittadinanza per diritto di nascita e le deportazioni di massa intensificheranno la polarizzazione e la frammentazione sociale. Dopo la sconfitta del 2024, i Democratici si trovano ad affrontare dibattiti interni sull’abbandono della politica identitaria in favore del populismo economico. L’agenda nazionalista bianca di Trump potrebbe intrappolare i Democratici in una continua opposizione incentrata sull’identità, ritardando il riallineamento politico.
In secondo luogo, governare attraverso il DOGE non è sostenibile. Interrompere le operazioni federali mina le funzioni essenziali di regolamentazione e di servizio, rischiando di innescare crisi pubbliche che generano reazioni negative. Inoltre, il DOGE – che apparentemente promuove l’efficienza razionale attraverso la governance algoritmica – funge in realtà da arma anti-establishment di Trump. Quando il DOGE finirà per minacciare gli interessi di Trump, anch’esso verrà abbandonato.
In terzo luogo, lo sfruttamento massimo del potere presidenziale da parte di Trump crea pericolosi precedenti. I futuri presidenti democratici potrebbero rispondere con misure altrettanto estreme, creando cicli di “autoritarismo competitivo” che erodono le fondamenta costituzionali e accelerano il declino americano.
A livello internazionale, i programmi radicali di Trump accelerano l’aggiustamento egemonico americano, catalizzando al contempo la trasformazione dell’ordine globale. A differenza del suo primo mandato, Trump ora enfatizza l’ottenimento del massimo beneficio dagli alleati, sottraendosi alle responsabilità. Queste crescenti lamentele all’interno del sistema guidato dagli americani ne accelerano la dissoluzione. Come ha riconosciuto Rubio parlando di “ritorno alla multipolarità”, Trump immagina che l’America continui a godere dei benefici del primato senza corrispondenti obblighi: una giungla che favorisce solo gli interessi americani, antitetica alle aspirazioni della comunità internazionale.
Inoltre, l’attenzione di Trump per l’emisfero occidentale nel suo secondo mandato – perseguendo un’espansione territoriale che ricorda il regionalismo di fine Ottocento – rappresenta una regressione storica. Quel periodo vide l’America diventare la più grande economia mondiale, pur mantenendo dazi doganali elevati e un’espansione regionale senza responsabilità globali – la “gloria imperiale” che Trump associa a William McKinley e al “Making America Great Again”. Il tentativo di Trump di ricreare questa visione anacronistica, facendo regredire l’ordine mondiale di 130 anni, non può ottenere il consenso internazionale.
IV. Conclusion
I programmi radicali di Trump rivelano traiettorie distinte per il secondo mandato. A livello nazionale, rappresentano un governo di piccole dimensioni guidato da una “presidenza imperiale” che combina populismo economico e conservatorismo culturale. A livello internazionale, manifestano un unilateralismo transazionale che mescola la Dottrina Monroe con il pensiero della Guerra Fredda, contraendosi nelle dimensioni intangibili (leadership, istituzioni) ed espandendosi in quelle tangibili (territorio, risorse).
Queste traiettorie riflettono la comprensione evoluta di Trump. Ora riconosce che i problemi dell’America sono principalmente interni: “bonificare la palude” ha la precedenza sulla ricerca di capri espiatori esterni. Allo stesso tempo, riconoscendo l’ambiziosa tempistica del MAGA, persegue una graduale trasformazione interna e guadagni transazionali all’estero, massimizzando la creazione di un’eredità.
I programmi radicali di Trump promettono certamente un cambiamento trasformativo. Eppure, storicamente, le trasformazioni americane richiedono crisi esistenziali – guerre, depressioni o conflitti civili – che forgino il consenso a partire da interessi frammentati. In assenza di tali catalizzatori, Trump riuscirà a generare uno slancio trasformativo? Più probabilmente, i programmi radicali di Trump non trasformeranno l’America, ma la resistenza ad essi potrebbe. La vera trasformazione potrebbe emergere non dalle interruzioni di Trump, ma dalle riflessioni che queste suscitano sul futuro della democrazia americana.
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Politico ha rivelato che gli Stati Uniti stanno fornendo all’Ucraina sistemi di armamento critici perché le loro scorte sono scese a livelli record.
Il Pentagono ha interrotto le spedizioni di alcuni missili per la difesa aerea e di altre munizioni di precisione all’Ucraina a causa delle preoccupazioni che le scorte di armi statunitensi siano scese troppo in basso .
La decisione è stata presa dal capo delle politiche del Pentagono, Elbridge Colby, ed è stata presa dopo una revisione delle scorte di munizioni del Pentagono, che ha portato a temere che il numero totale di proiettili di artiglieria, missili di difesa aerea e munizioni di precisione stesse diminuendo, secondo tre persone che hanno familiarità con la questione.
L’improvvisa riduzione è particolarmente sorprendente se si considera che Trump, solo due giorni fa, ha dichiarato ai giornalisti che potrebbe prendere in considerazione la fornitura di altri Patriot all’Ucraina. Ora, i Patriot sono uno dei principali sistemi in fase di taglio:
Tra gli elementi ritirati ci sono i missili per i sistemi di difesa aerea Patriot, i proiettili di artiglieria di precisione, gli Hellfire e altri missili che l’Ucraina lancia dai suoi caccia F-16 e dai suoi droni.
Si noti che le munizioni GMLRS per l’HIMARS e i proiettili d’artiglieria da 155 mm sono tra i sistemi chiave inclusi, anche se per ora non ho trovato altre fonti che convalidino queste specifiche affermazioni – piuttosto, tutte menzionano “sistemi d’arma” in modo più ambiguo.
Questo arriva sulla scia di un’altra notizia scioccante.
Ricordiamo che è stato lo scorso maggio che le linee di produzione dell’esercito americano per i proiettili da 155 mm hanno dichiarato di aver finalmente raggiunto i 38.000 al mese:
Hanno rilasciato una proiezione piuttosto ambiziosa, sostenendo che avrebbero raggiunto 100.000 conchiglie mensili virtualmente entro la fine del 2025:
Sono stato uno dei pochi scettici che ha ripetutamente affermato che non c’è modo di raggiungere nemmeno una frazione di queste cifre fasulle. Ebbene, è emerso che avevo di nuovo ragione.
Vedete, alla fine del 2024 il Sottosegretario alla Difesa William Laplante annunciò che gli Stati Uniti avevano presumibilmente raggiunto i 50.000 proiettili al mese, un discreto aumento rispetto ai 36.000 precedenti.
Ora, però, relazioni giornalistiche affermano che gli Stati Uniti sono discesi di nuovo ad appena 40k al mese a causa di enormi problemi di produzione:
L’esercito ha recentemente dichiarato al Congresso che la produzione di 155 mm è attualmente di 40.000 unità al mese. Si tratta, ovviamente, di una diminuzione rispetto ai 50.000 mm dichiarati da LaPlante l’anno scorso.
Ora abbiamo una probabile spiegazione del perché del calo. Il nuovo impianto di produzione di scocche a Mesquite, TX, è in forte ritardo. Le prime due delle tre linee di produzione non sono ancora del tutto completate, e la terza probabilmente non raggiungerà la data prevista.
L’Esercito ha formalmente notificato alla General Dynamics Ordnance and Tactical Systems che la loro gestione dell’impianto è in fase di revisione per violazione del contratto.Hanno tempo fino al 10 luglio per specificare come potrebbero essere in grado di rimettere le cose in carreggiata.
Di conseguenza, la capacità di carico, assemblaggio e imballaggio dell’esercito supera la capacità di produrre le parti metalliche dei proiettili. In precedenza c’era una scorta di corpi di proiettile che veniva utilizzata dagli impianti LAP, ma deve essere stata esaurita, per cui la produzione di proiettili è ora scesa a 40.000 che è quanto possono produrre gli altri impianti di parti metalliche. Le 3 linee di Mesquite dovrebbero produrre 10.000 bossoli ciascuna..
In un magazzino sulla Lyndon B. Johnson Freeway, in un’area industriale fuori Dallas, il futuro della produzione di munizioni militari americane sta entrando in funzione .
Qui, nel primo nuovo grande impianto di armamenti costruito dal Pentagono dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, operai turchi con elmetti arancioni sono impegnati a disimballare casse di legno con il nome della Repkon, un’azienda di difesa con sede a Istanbul, e ad assemblare robot e torni controllati dal computer.
L’unica domanda è: la fabbrica ha mai prodotto i 50.000 pezzi al mese dichiarati, o era una bugia dell’amministrazione Biden? Il rapporto originale afferma che stavano attingendo alle scorte di bossoli che ora sono esaurite:
In precedenza c’era una scorta di bossoli che veniva utilizzata dagli impianti LAP, ma deve essersi esaurita, quindi la produzione di proiettili è ora scesa a 40.000.
In ogni caso, si è ora verificato – ancora una volta, come previsto da tempo – che né le lontane promesse europee di una produzione di massa di munizioni né quelle americane, leggermente più credibili, si sono rivelate valide. E per di più in cima, qualunque sia la misera quantità prodotta dagli Stati Uniti, ora presumibilmente verrà ulteriormente ridotta in base ai presunti rapporti odierni della Casa Bianca e del Pentagono. La Russia, nel frattempo, continua a pompare una quantità stimata di 250-350.000 proiettili al mese, con altri provenienti dalla Corea del Nord.
Naturalmente, gli integralisti filo-ucraini sosterranno che l’artiglieria non conta più: ora il gioco è fatto dai droni; staremo a vedere. Rimanete sintonizzati per un prossimo rapporto premium che approfondirà molto di più le nuove scoperte sulle capacità produttive russe che contrastano con le precedenti stime occidentali; per ora va oltre lo scopo di questo piccolo aggiornamento.
Ora diamo ancora una volta uno sguardo alla situazione attuale del campo di battaglia.
Le truppe russe hanno catturato la altra Malinovka vicino a Gulaipole sul fronte di Zaporozhye:
Poco a nord-est si è espanso il territorio intorno a Komar (cerchiato in rosso). Anche se non appare ancora sulle mappe, i canali ucraini affermano che le truppe russe hanno già raggiunto sia Piddubne che Voskresenka:
Nel cerchio verde c’è Zirka, recentemente conquistata, di cui abbiamo alcuni filmati:
Il gruppo Vostok ha liberato Chervonna Zirka. Altri filmati delle battaglie per l’insediamento
Uno di essi mostra la situazione in questo modo:
Un’altra vista mostra che le truppe russe stanno creando un grande accerchiamento qui:
A pochi chilometri a est di Zirka, è stato recentemente liberato anche l’insediamento di Dachne, che si afferma essere il primo insediamento liberato dell’oblast’ di Dnipropetrovsk. L’assalto è stato condotto dalla 114a Brigata della RPD:
Video della liberazione del primo insediamento nell’Oblast’ di Dnipropetrovsk
La 114ª Brigata espone la bandiera a Dachne liberata!
Geolocalizzazione: 48.047796,36.818479
Ci sono stati molti altri piccoli progressi e guadagni territoriali tra qui e Pokrovsk più a nord-est – troppi da elencare, quindi per ora ci limitiamo alle catture degli insediamenti più grandi.
A nord-est di Mirnograd, sulla linea di Pokrovsk, le truppe russe stanno spingendo oltre Koptjeve, catturata di recente, verso la strada di rifornimento posteriore che alimenta l’intero agglomerato:
Il cappio si sta lentamente stringendo su questo grande agglomerato di Pokrovsk-Mirnograd, anche se la Russia non ha fretta di gettarsi a capofitto nelle sue difese temprate. Nel frattempo sta lentamente conquistando territorio su tutte le linee più deboli adiacenti a questa linea del fronte.
Da fonti ucraine:
Il nemico si lamenta del fatto che a giugno le Forze armate russe hanno battuto il record di maggio per la liberazione del territorio e hanno ottenuto i maggiori successi dal novembre 2024. Questo in risposta alle dichiarazioni del Fuhrer cocainomane sui “successi” nel fermare l’offensiva russa.
La dinamica dell’avanzata delle Forze Armate russe indica esattamente il contrario.
L’offensiva primavera-estate continua. C’è motivo di credere che luglio sarà ancora più difficile per il nemico.
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Infine, il Ministro della Cultura russo Olga Lyubimova e altri funzionari sono stati ospitati in Corea del Nord, dove un concerto speciale ha reso omaggio ai comandanti e alle truppe della Repubblica Democratica Popolare di Corea che hanno combattuto a Kursk, sotto gli occhi di un commosso Kim Jong Un. Ecco i momenti salienti della commemorazione del Kursk:
Ma per chi fosse interessato, ecco il video completo che contiene molte altre esibizioni interessanti:
Si può davvero intravedere l’impareggiabile vicinanza e fiducia tra la Russia e la Corea del Nord. È difficile pensare a un esempio globale: Israele e gli Stati Uniti sono un paragone allettante, ma sappiamo che è una strada a senso unico, la colonia parassita non ha alcun rispetto per la cultura americana, al di là della messa in scena per ottenere più donazioni e “aiuti”.
No, il legame tra Russia e Corea del Nord è forgiato in un crocere storico reale e tangibile: quello della resistenza reciproca e della sovranità esistenziale, piuttosto che della colonizzazione globale parassitaria. È un livello di rispetto e di vera amicizia che gli Stati Uniti e i loro vassalli non conosceranno mai: governano solo attraverso la paura e la coercizione, i loro contorti governanti fantoccio scambiano il servilismo per fiducia e cameratismo; è una casa costruita con legno fragile e senza fondamenta.
Il percorso di Teheran verso la “bomba” un Totem Occidentale
La narrazione sul rischio nucleare iraniano resta un grande classico da conferenza stampa, ma nei fatti si riduce ormai a un totem retorico più che a una minaccia concreta. Perché? Il percorso di Teheran verso la “bomba” è ostacolato da pressioni internazionali, da variabili politiche interne e, soprattutto, dalla consapevolezza condivisa delle conseguenze catastrofiche di un eventuale impiego reale dell’arma nucleare. Il vero incubo strategico, per chi pianifica la difesa israeliana e americana, è invece la crescente incertezza su dove, come, e con quali capacità avanzate l’Iran produca i suoi vettori balistici—missili ipersonici inclusi—contro cui oggi non esiste uno scudo affidabile. La realtà sul campo: tra THAAD e l’illusione della sicurezza Tolgiamo ogni suspense: il celebre sistema americano THAAD, ora schierato anche in Israele, promette sulla carta miracoli grazie a radar potentissimi, lanciatori mobili e intercettori “hit-to-kill”. Peccato che nella pratica, come emerso da test, propaganda industriale e soprattutto dalle recenti evidenze operative, la sua efficacia contro vettori manovranti ipersonici resta più una voce di bilancio per Lockheed Martin che una garanzia per chi si illude di dormire sereno sotto la sua “copertura” in stile Avengers. Quando i missili veri piovono davvero, le criticità esplodono. Nei report RAND e delle commissioni Difesa consultabili online, emerge come il THAAD stia sperimentando da almeno una dozzina d’anni una versione dotata di “on-board laser” per intercetto ICBM, ma siamo lontani da risultati concreti—più un atto di fede che una soluzione verificata e dispiegabile. I vettori iraniani: tra deterrenza e salto tecnologico L’Iran possiede un arsenale di missili avanzati: dal Soumar, con raggio fino a 2.500 km e capacità di volare a basse quote per aggirare le difese, al Ra’ad, leggero e ottimale per attacchi rapidi e a sorpresa. L’approccio di Teheran si è evoluto: non più solo quantità, ma qualità e precisione. Gli ultimi attacchi verso Israele hanno visto l’impiego di missili avanzati e droni Shahed 136, capaci di eludere le difese multistrato (THAAD, Patriot, Arrow 2/3, David’s Sling, Iron Dome) e colpire centri nevralgici come l’aeroporto Ben Gurion e installazioni militari sensibili. Le nuove “Città dei Missili” La rete iraniana di basi missilistiche sotterranee, le cosiddette “Missile Cities”, conta silos profondi e diffusi in più province, da Khorramabad a Kermanshah, con basi costiere attivate di recente. Gli UAV iraniani sono studiati anche per potenziali impieghi CBRN (chimici/biologici), aumentando ulteriormente il livello di minaccia . La disfatta della supremazia tecnologica israeliana Israele non esce “con le ossa rotte” solo da un esame dei danni diretti, ma soprattutto per l’immagine di invulnerabilità tecnologica smascherata. In meno di un mese, Tel Aviv è stata messa in difficoltà proprio da quei vettori un tempo liquidati come “ferraglia orientale” dai media occidentali—dimostrando che la supremazia percepita era anche frutto di una narrazione manipolata e autocelebrativa. La deterrenza Oggi la deterrenza non si fonda più sulla paura dell’atomica, ma sulla consapevolezza che nuove minacce si muovono sotto la soglia della visibilità e delle contromisure tradizionali. L’incertezza industriale, più della minaccia nucleare, sta ridefinendo le priorità strategiche e l’immagine della supremazia tecnologica regionale. Non serve essere un esperto del Mossad per notare le contraddizioni e il “fall out” logico che attraversa il sistema israeliano post-7 ottobre: la stessa struttura capace di operazioni chirurgiche in Libano e Teheran si rivela vulnerabile di fronte a una guerra di attrito e saturazione missilistica, conoscendo bene il nemico, ma non abbastanza le sue nuove armi e tattiche.
Questa fornitura serve per eliminare quel che rimane di Gaza
Nelle ultime ore, il Dipartimento di Stato americano ha ufficializzato un maxi-contratto da 510 milioni di dollari per la fornitura di 3.845 kit JDAM per bombe BLU-109 e 3.280 kit JDAM per bombe MK-82 alle forze israeliane. Questi kit trasformano comuni bombe a caduta libera in ordigni guidati di precisione, aumentando l’efficacia ed estendendo il raggio d’azione grazie alla capacità di “glide” (planata). Con molta probabilità questa fornitura appare pensata esclusivamente per il contesto di Gaza, dove la supremazia aerea di Israele è assoluta e le difese avversarie inesistenti .
Perché questi kit non sono destinati all’Iran
Il comunicato del Dipartimento di Stato specifica come la fornitura riguardi i soli kit JDAM, senza bombe stand-alone né missili a lunga gittata. Tali ordigni, una volta assemblati su bombe MK-82 o BLU-109, sono impiegabili solo da piattaforme aeree come F-16, F-15 o, residuale, F-4: caccia solidi e versatili, ma di quarta generazione, privi delle capacità stealth avanzate necessarie per operazioni contro Paesi dotati di difese aeree moderne come l’Iran.
Un’eventuale operazione aerea israeliana contro l’Iran costringerebbe infatti questi velivoli a penetrare in profondità nello spazio aereo della Repubblica Islamica: si stima che almeno il 30% degli aerei coinvolti in un attacco simile verrebbe abbattuto dai sistemi S-300/S-400 e dalla rete di missili terra-aria iraniani.
Gli F-16I Sufa, pur essendo tra i Falcon più avanzati al mondo, non hanno la bassa osservabilità radar degli F-35 e combattono in modo “classico”, senza accesso pieno alla guerra elettronica di ultima generazione. Nell’eventualità di una difesa iraniana in allerta – con radar attivi, network avanzati e profondità di interdizione – le perdite potrebbero superare abbondantemente il 30%, e a quel punto più che un raid avremmo una sessione pratica di smaltimento RAEE in territorio persiano.
Il Sufa, nei cieli di Teheran, rischia di passare dagli annali della leggendaria resilienza israeliana a quelli, meno gloriosi, della “sindrome del trapano Makita”: prodotti robusti, longevi, ma quando finisce la batteria restano solo i pezzi sparsi qua e là, in attesa di essere raccolti. Del resto, come direbbe qualcuno, affidarsi agli F-16 contro Teheran oggi è una scelta tanto razionale paragonabile ad attraversare il deserto in Panda 750 ( no Fire 4×4 ) dopo aver lasciato l’aria condizionata a Mario Draghin.
O scommetti tutto sulla fortuna, o sai già che tornerai a piedi, rimpiangendo le Jeep SPA sahariane di Graziani armate di un avveniristico fucilone contro carro Solothurn.
La vera destinazione è Gaza
In questo quadro, la consegna di migliaia di kit per bombe di precisione risponde chiaramente alle esigenze operative israeliane in Gaza, dove si cerca di colpire bersagli con una maggiore accuratezza — o almeno rivendicata come tale — e ridurre i rischi per le proprie forze. Non si tratta di un’escalation diretta contro Teheran, bensì di un rafforzamento quantitativo e qualitativo del potenziale offensivo nei giorni di negoziati difficili.
Il tempismo della scelta statunitense — con la visita di Dermer e le pressioni sulla gestione delle armi fornite — mostra come le dinamiche israelo-americane siano ancora legate , ma non lotte di centri decisionali trasversali non riducibili alle sole entità statali .
Il pacchetto JDAM, per caratteristiche tecniche e piattaforme coinvolte, non rappresenta un immediato rischio di ampliamento del conflitto a Iran o altri contesti ad alta intensità, ma segnala la volontà Usa di continuare il sostegno materiale a Israele sul fronte di Gaza, pur tra le pressioni e le richieste (di bandiera, ma spesso formali) per una soluzione negoziale.
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Implicazioni geopolitiche del confine tra Stati Uniti e Messico
SINTESI
Il confine tra Stati Uniti e Messico, oltre ad essere una linea geografica che separa due nazioni, rappresenta un nodo cruciale nell’intreccio delle identità nazionali di entrambi i paesi. Questo articolo si propone di condurre un’analisi approfondita di come la definizione e la gestione di questo confine abbiano influenzato la politica interna ed estera degli Stati Uniti, plasmando la sua identità nazionale nel corso del tempo.
Partendo dal presupposto che i confini non sono semplici delimitazioni territoriali, ma piuttosto costrutti sociali e politici che riflettono diverse relazioni di potere, culture, economie e storie, l’analisi si concentrerà sulle seguenti questioni: l’evoluzione storica del confine, il suo impatto sulle politiche interne, la costruzione dell’identità nazionale, la cooperazione economica (NAFTA, USMCA e prospettive future), le relazioni bilaterali e la geopolitica. Verranno esaminate le implicazioni geopolitiche della gestione del confine, evidenziando come le tensioni e la cooperazione tra i due paesi abbiano influenzato le relazioni con altri attori internazionali e plasmato la politica estera degli Stati Uniti. Verrà adottata la categoria analitica di “area di influenza”.
L’articolo cerca di fornire una comprensione più profonda e sfumata del ruolo centrale che il confine con il Messico ha svolto nella costruzione dell’identità nazionale statunitense. Si sostiene che la definizione e la gestione di questo confine non sono mere questioni tecniche o giuridiche, ma rappresentano una sfida continua per conciliare le diverse identità che compongono la società statunitense e definire il ruolo degli Stati Uniti nel mondo e la dimensione della loro area di influenza.
1. Introduzione
Il confine tra Stati Uniti e Messico è molto più di una linea geografica che divide due nazioni. È uno spazio dinamico e conteso in cui convergono potere politico, identità culturali e interdipendenza economica. Storicamente, questo confine è stato un simbolo sia di separazione che di connessione, riflettendo le tensioni più ampie all’interno e tra i due paesi. Dal Trattato di Guadalupe Hidalgo1 ai dibattiti contemporanei sull’immigrazione e la sicurezza delle frontiere, il confine tra Stati Uniti e Messico ha svolto un ruolo fondamentale nel plasmare il panorama politico e sociale di entrambe le nazioni.
Questo saggio mira ad analizzare come la definizione e la gestione del confine tra Stati Uniti e Messico abbiano influenzato le politiche interne ed estere degli Stati Uniti, plasmando in ultima analisi la loro identità nazionale. Partendo dalla prospettiva che i confini non sono solo delimitazioni territoriali, ma anche costrutti sociali e politici, l’analisi approfondirà aree chiave quali l’evoluzione storica del confine, il suo impatto sulla politica interna, il suo ruolo nella formazione dell’identità nazionale e le implicazioni della cooperazione economica e delle relazioni bilaterali.
Particolare attenzione sarà dedicata al significato geopolitico del confine, esplorando come l’interazione tra cooperazione e tensione abbia influenzato le relazioni degli Stati Uniti con altri attori internazionali e definito la sua area di influenza nell’emisfero occidentale. Esaminando questi aspetti, il saggio cerca di fornire una comprensione sfumata del ruolo centrale che il confine tra Stati Uniti e Messico ha svolto nel plasmare non solo l’identità degli Stati Uniti, ma anche il loro posizionamento globale.
In definitiva, il confine non è solo una questione legale o tecnica, ma una sfida complessa e in evoluzione, che riflette la necessità di conciliare identità diverse all’interno della società statunitense e di definire il suo ruolo sulla scena globale. Attraverso questa analisi, il saggio sostiene che il confine tra Stati Uniti e Messico è un fattore chiave per comprendere le dinamiche interne e le ambizioni esterne degli Stati Uniti2.
2. Quadro teorico e concetti chiave
Il confine tra Stati Uniti e Messico non è solo un confine territoriale3, ma è una costruzione dinamica che racchiude dimensioni politiche, sociali e culturali. Per comprenderne appieno le implicazioni, è essenziale esplorare i quadri teorici e i concetti che informano l’analisi dei confini e il loro ruolo nel plasmare l’identità nazionale e le strategie geopolitiche.
I confini come costruzioni sociali e politiche
I confini sono spesso percepiti come linee geografiche fisse; tuttavia, è meglio intenderli come spazi socialmente e politicamente costruiti che riflettono e rafforzano le dinamiche di potere, le identità culturali e il retaggio storico. Il confine tra Stati Uniti e Messico esemplifica questa complessità, fungendo contemporaneamente da luogo di divisione e di connessione. La sua definizione e gestione sono plasmate da politiche, percezioni sociali ed eventi storici che sottolineano l’interazione tra inclusione ed esclusione all’interno delle nazioni e tra di esse.
Area di influenza
Il concetto di “area di influenza”6 è particolarmente rilevante per analizzare il significato geopolitico del confine tra Stati Uniti e Messico. Questo quadro considera il modo in cui le nazioni potenti, come gli Stati Uniti, proiettano la loro autorità e il loro controllo all’interno delle regioni immediate e oltre. Il confine funge da punto critico in cui gli Stati Uniti affermano la loro influenza sulla migrazione, il commercio e la sicurezza, negoziando al contempo le loro relazioni con il Messico e la più ampia regione latinoamericana.
Formazione dell’identità nazionale
I confini svolgono un ruolo cruciale nella formazione delle identità nazionali, fungendo da indicatori di sovranità e distinzione culturale. Nel contesto statunitense, il confine con il Messico è diventato un punto focale per i dibattiti sul significato di “essere americani”, spesso legati a questioni di immigrazione, diversità e sicurezza. Questi dibattiti rivelano tensioni più profonde all’interno della società statunitense riguardo alla sua identità multiculturale e alle narrazioni contrastanti di inclusione ed esclusione.
Basando l’analisi su questi quadri di riferimento, il saggio esaminerà il confine tra Stati Uniti e Messico non come un’entità statica, ma come uno spazio dinamico e conteso. Questa prospettiva consentirà un’esplorazione più completa della sua evoluzione storica, della sua influenza sulle politiche statunitensi e delle sue più ampie implicazioni geopolitiche e culturali.
3. Evoluzione storica del confine
Il confine tra Stati Uniti e Messico ha subito trasformazioni significative dalla sua istituzione, riflettendo i mutamenti delle dinamiche di potere, gli accordi politici7 e l’evoluzione delle esigenze sociali. Comprendere il suo sviluppo storico è essenziale per cogliere le implicazioni contemporanee di questo confine per entrambe le nazioni.
Istituzione del confine
Il confine tra Stati Uniti e Messico è stato formalmente definito dal Trattato di Guadalupe Hidalgo del 18488, che ha concluso la guerra messicano-statunitense. Questo trattato ha portato alla cessione da parte del Messico di vasti territori, tra cui l’attuale California, Arizona e New Mexico, agli Stati Uniti. Il successivo Acquisto di Gadsden nel 1854 ha ulteriormente definito il confine, sottolineandone l’importanza strategica per i trasporti e il commercio.
Questi accordi segnarono l’inizio di un confine che simboleggiava sia la divisione che le opportunità9.
La gestione iniziale del confine
Nei suoi primi anni, il confine era regolato in modo approssimativo, con infrastrutture e controlli minimi. Le comunità su entrambi i lati erano impegnate in scambi commerciali e sociali transfrontalieri, favorendo un senso di identità regionale condivisa nonostante i confini nazionali. Tuttavia, con la crescita degli interessi economici e politici, aumentò anche la necessità di un controllo più definito del confine.
Le trasformazioni nel XX secolo
Il XX secolo ha portato cambiamenti significativi al confine tra Stati Uniti e Messico. La rivoluzione messicana (1910-1920) e il periodo del proibizionismo negli Stati Uniti (1920-1933) hanno visto un aumento dell’attività al confine, tra cui migrazione, contrabbando e applicazione della legge. L’istituzione della Polizia di Frontiera degli Stati Uniti nel 192410 ha segnato una svolta nella gestione delle frontiere, riflettendo le crescenti preoccupazioni in materia di immigrazione e sicurezza nazionale.
La seconda guerra mondiale ha ulteriormente plasmato il confine attraverso programmi come il Bracero Program (1942-1964), che consentiva ai lavoratori messicani di lavorare temporaneamente negli Stati Uniti. Questo periodo ha sottolineato l’interdipendenza economica delle due nazioni, mettendo in evidenza anche le disuguaglianze e le tensioni.
Il confine moderno
La seconda metà del XX secolo e l’inizio del XXI secolo hanno visto il confine tra Stati Uniti e Messico diventare un punto focale per i dibattiti sull’immigrazione, il traffico di droga e la sicurezza nazionale. L’Accordo di libero scambio nordamericano (NAFTA) del 1994 ha trasformato il confine in un hub fondamentale per il commercio, aumentando l’integrazione economica ma esacerbando le disparità tra le due nazioni.
Le preoccupazioni per la sicurezza dopo l’11 settembre hanno portato alla militarizzazione11 del confine, con un aumento della sorveglianza, delle recinzioni e del personale. La costruzione del muro di confine è diventata un simbolo controverso di divisione, riflettendo i più ampi dibattiti sulla politica di immigrazione e sull’identità nazionale.
Simbolismo ed eredità
L’evoluzione storica del confine tra Stati Uniti e Messico rivela il suo duplice ruolo di luogo di connessione e separazione. È stato plasmato da trattati, guerre e accordi economici, riflettendo le più ampie relazioni tra gli Stati Uniti e il Messico. Questa eredità continua a influenzare il modo in cui il confine è percepito e gestito oggi, costituendo un fattore chiave nella politica interna e internazionale.
Esaminando questo contesto storico, possiamo comprendere meglio le complessità del confine tra Stati Uniti e Messico e il suo ruolo centrale nel plasmare le identità e le politiche di entrambe le nazioni.
4. Impatto sulle politiche interne degli Stati Uniti
Il confine tra Stati Uniti e Messico ha avuto effetti profondi e duraturi sulle politiche interne degli Stati Uniti, in particolare in settori quali l’immigrazione, la sicurezza e la politica identitaria. La gestione di questo confine è diventata una questione politica centrale, che influenza i dibattiti a livello locale, statale e federale.
Immigrazione e sicurezza delle frontiere
La politica sull’immigrazione12 è uno degli aspetti più controversi della politica interna degli Stati Uniti e il confine tra Stati Uniti e Messico è al centro di questo dibattito. Nel corso degli anni, il confine è diventato un punto focale per affrontare le preoccupazioni relative all’immigrazione clandestina, portando all’attuazione di misure di controllo rigorose.
• Legislazione e politica: Politiche come l’Immigration and Nationality Act (INA) del 1965, l’Immigration Reform and Control Act (IRCA) del 1986 e i più recenti ordini esecutivi hanno plasmato l’approccio degli Stati Uniti alla sicurezza delle frontiere e all’immigrazione.
• Militarizzazione della frontiera: Dagli anni ’90 si è registrato un notevole aumento della militarizzazione della frontiera, con iniziative come l’Operazione Gatekeeper e il Secure Fence Act del 2006 incentrate sulla costruzione di barriere fisiche e sull’impiego di tecnologie di sorveglianza avanzate.
Polarizzazione politica
Il confine tra Stati Uniti e Messico è diventato una questione polarizzante, con i partiti politici che adottano approcci nettamente diversi.
• Politiche repubblicane: spesso enfatizzano controlli più severi alle frontiere, aumento delle espulsioni e barriere fisiche, simboleggiate dalla spinta dell’amministrazione Trump alla costruzione di un muro di confine.
• Politiche democratiche: in genere sostengono una riforma globale dell’immigrazione, concentrandosi sui percorsi di cittadinanza per gli immigrati privi di documenti e sul trattamento umano dei migranti.
Questi dibattiti riflettono più ampie divisioni sociali su identità, sicurezza nazionale e opportunità economiche.
Impatto sugli Stati di confine
Gli Stati di confine come il Texas, la California, l’Arizona e il New Mexico svolgono un ruolo unico nel plasmare le politiche interne.
• Interdipendenza economica: Questi Stati traggono vantaggio dal commercio e dagli scambi transfrontalieri, in particolare in settori come l’agricoltura, l’industria manifatturiera e il turismo.
• Sfide locali: Le comunità di confine spesso devono affrontare sfide uniche, tra cui la pressione sui servizi pubblici dovuta alla migrazione e all’aumento problemi di sicurezza.
Politica identitaria e divisioni sociali
Il confine è al centro del dibattito sull’identità nazionale e il multiculturalismo negli Stati Uniti.
• Immigrazione e identità: l’afflusso di immigrati ha arricchito la cultura statunitense, ma ha anche scatenato dibattiti sull’assimilazione, la conservazione culturale e la definizione dell’identità “americana”.
• Tensioni razziali ed etniche: il sentimento anti-immigrati e le politiche sono spesso legati alle divisioni razziali ed etniche, con il confine che funge da simbolo di esclusione per alcuni gruppi.
Percezione pubblica e influenza dei media
L’opinione pubblica sulle politiche di confine è influenzata in modo significativo dalla rappresentazione del confine da parte dei media. Spesso prevalgono narrazioni di crisi e insicurezza, che influenzano il discorso politico e le priorità degli elettori. Queste percezioni, accurate o esagerate che siano, hanno un impatto diretto sulle decisioni politiche e sui risultati elettorali.
Una questione interna determinante
Il confine tra Stati Uniti e Messico non è solo un confine fisico, ma anche un potente simbolo all’interno della politica interna degli Stati Uniti. La sua gestione riflette sfide sociali più ampie, dall’equilibrio tra sicurezza e umanitarismo alla questione dell’integrazione economica e culturale. Comprendere questa dinamica è fondamentale per sviluppare politiche che concilino la sicurezza nazionale con i valori dell’inclusività e delle opportunità.
5. Costruzione dell’identità nazionale statunitense
Il confine tra Stati Uniti e Messico non è solo una divisione geografica, ma anche uno spazio culturale e simbolico che ha profondamente influenzato la costruzione dell’identità nazionale negli Stati Uniti13. È un luogo in cui si negoziano continuamente idee di inclusione, esclusione e “americanità”, rivelando le narrazioni complesse e spesso contrastanti che danno forma alla nazione.
Il confine come simbolo culturale e politico
Il confine tra Stati Uniti e Messico ha un forte significato simbolico nella coscienza americana.
• Simbolo di sovranità e sicurezza: per molti, il confine rappresenta il diritto degli Stati Uniti di controllare il proprio territorio, regolare l’immigrazione e proteggere i propri cittadini da minacce esterne percepite.
• Porta delle opportunità: al contrario, per i migranti e le comunità di confine, simboleggia la speranza, le opportunità economiche e la fusione delle culture.
Questa dualità evidenzia la tensione tra la visione del confine come linea di divisione e quella come spazio di connessione e integrazione.
Dibattiti sull’immigrazione e l’identità
L’immigrazione dal Messico e da altre parti dell’America Latina ha svolto un ruolo centrale nel plasmare l’identità degli Stati Uniti.
• Narrative di inclusione ed esclusione: gli Stati Uniti si sono storicamente descritti come una “nazione di immigrati”, ma le politiche e la retorica che circondano il confine tra Stati Uniti e Messico spesso mettono in discussione questo ideale, enfatizzando l’esclusione e il controllo.
• L’esperienza degli immigrati: gli immigrati provenienti dal Messico hanno arricchito la cultura e la società statunitense14, contribuendo alla cucina, alla musica, alla lingua e al lavoro. Tuttavia, le loro esperienze sono state anche segnate dalla discriminazione e dalle difficoltà di integrazione.
Multiculturalismo e unità nazionale
Il confine tra Stati Uniti e Messico ha portato alla ribalta le questioni relative al multiculturalismo.
• Scambio culturale: le regioni di confine sono ricche di fusioni culturali, dove si intrecciano tradizioni, lingue ed economie di entrambe le parti.
Città come San Diego-Tijuana ed El Paso-Ciudad Juárez sono un esempio di questa interconnessione.
• Sfide all’unità: La crescente popolazione latina negli Stati Uniti, spinta in parte dall’immigrazione, ha alimentato il dibattito sull’equilibrio tra la conservazione della diversità culturale e la promozione di un’identità nazionale coesa.
Il ruolo dei media e del dibattito pubblico
I media svolgono un ruolo significativo nel definire l’immagine del confine nell’immaginario nazionale.
• Raffigurazioni della crisi: I notiziari spesso descrivono il confine come un luogo di caos, sottolineando questioni come l’immigrazione clandestina, il traffico di droga e le minacce alla sicurezza.
• Narrative positive: al contrario, le storie che mettono in evidenza il contributo economico e culturale delle comunità di confine offrono una prospettiva più inclusiva.
Queste narrative contrastanti plasmano la percezione pubblica del confine e, per estensione, l’identità nazionale degli Stati Uniti.
Conflitti di identità nella politica e nelle politiche
Il confine mette in evidenza le tensioni nel modo in cui gli Stati Uniti definiscono se stessi come nazione.
• Identità esclusiva: politiche come la costruzione di un muro di confine e l’applicazione rigorosa delle leggi sull’immigrazione riflettono una visione degli Stati Uniti come nazione che privilegia la sicurezza e la sovranità rispetto all’apertura.
• Identità inclusiva: i sostenitori della riforma dell’immigrazione e dell’integrazione culturale sostengono una visione più inclusiva e multiculturale dell’identità americana.
L’eredità del confine nella formazione dell’identità
Il confine tra Stati Uniti e Messico rimane una caratteristica distintiva dell’identità nazionale degli Stati Uniti. È sia un confine che un ponte, che racchiude le complessità della sovranità, della diversità e dell’inclusione. Mentre gli Stati Uniti continuano a lottare con la propria identità in un mondo sempre più interconnesso, il confine funge da microcosmo delle sfide e delle opportunità più ampie che la nazione deve affrontare.
Esaminando il significato culturale e simbolico del confine, possiamo comprendere meglio il dibattito in corso su cosa significhi essere americani nel XXI secolo.
6. Cooperazione economica e sfide
Il confine tra Stati Uniti e Messico è un nodo economico vitale che collega due nazioni con economie profondamente interconnesse. Il commercio, la manodopera e gli investimenti attraversano il confine, stimolando la crescita e lo sviluppo su entrambi i lati. Tuttavia, la cooperazione economica comporta anche delle sfide, in particolare per quanto riguarda le disparità di ricchezza, le pratiche lavorative e lo sviluppo regionale. Questa sezione esplora le dimensioni economiche del confine tra Stati Uniti e Messico, concentrandosi sugli accordi commerciali, le economie transfrontaliere e le complessità dell’interdipendenza economica.
Accordi commerciali: dal NAFTA all’USMCA
L’integrazione economica tra gli Stati Uniti e il Messico è stata formalizzata attraverso importanti accordi commerciali.
• NAFTA (1994-2020): L’Accordo di libero scambio nordamericano ha ridotto le barriere commerciali tra Stati Uniti, Messico e Canada, creando una delle più grandi zone di libero scambio al mondo. Il confine è diventato un hub fondamentale per lo scambio di beni, servizi e investimenti15.
• USMCA (2020-oggi): L’Accordo tra Stati Uniti, Messico e Canada ha sostituito il NAFTA, aggiornando le disposizioni in materia di diritti dei lavoratori, tutela dell’ambiente e commercio digitale. L’obiettivo è quello di creare relazioni commerciali più equilibrate, affrontando al contempo alcune delle carenze del NAFTA16.
Questi accordi hanno favorito la crescita economica17, ma hanno anche accentuato le disparità economiche, in particolare nelle regioni di confine messicane.
Economie transfrontaliere
L’economia di confine è caratterizzata da un alto grado di interdipendenza, in particolare in settori quali l’industria manifatturiera, l’agricoltura e il commercio al dettaglio.
• Maquiladoras: L’ascesa delle fabbriche maquiladoras lungo il confine messicano, dove vengono assemblati beni destinati all’esportazione negli Stati Uniti, ha alimentato l’attività economica, ma ha anche sollevato preoccupazioni in merito allo sfruttamento del lavoro e al degrado ambientale18.
• Commercio agricolo: il confine facilita lo scambio di prodotti agricoli, con il Messico che funge da importante fornitore di frutta e verdura per gli Stati Uniti e importa macchinari e altri beni.
• Turismo e commercio al dettaglio: le città di confine come Tijuana ed El Paso traggono vantaggio dal turismo e dallo shopping transfrontaliero, che danno impulso alle economie locali.
Disparità economiche
Nonostante i vantaggi economici della cooperazione, permangono disparità significative.
• Differenze salariali: i lavoratori delle città messicane di confine spesso guadagnano molto meno dei loro omologhi nelle città statunitensi di confine, perpetuando la disuguaglianza economica.
• Squilibri infrastrutturali: le infrastrutture di confine degli Stati Uniti sono generalmente più sviluppate di quelle messicane, creando difficoltà per il commercio e gli investimenti equi.
• Disuguaglianza regionale: mentre alcune regioni di confine prosperano, altre devono affrontare povertà, accesso limitato alle risorse e sviluppo disomogeneo.
Sfide dell’interdipendenza economica
L’integrazione economica ha anche creato vulnerabilità e tensioni.
• Diritti dei lavoratori: il ricorso a manodopera a basso costo nelle fabbriche messicane ha portato a critiche per le pratiche di sfruttamento e a richieste di una maggiore tutela dei lavoratori.
• Preoccupazioni ambientali: l’attività industriale lungo il confine ha contribuito all’inquinamento e al degrado ambientale, sollevando interrogativi sullo sviluppo sostenibile.
• Interruzioni della catena di approvvigionamento: il commercio transfrontaliero è vulnerabile alle interruzioni causate da cambiamenti politici, misure di sicurezza alle frontiere e mutamenti dell’economia globale.
Prospettive future
In prospettiva, la cooperazione economica tra Stati Uniti e Messico continuerà probabilmente ad evolversi.
• Integrazione regionale: gli sforzi volti ad approfondire i legami economici, ad esempio attraverso catene di approvvigionamento regionali, potrebbero rafforzare la competitività sul mercato globale.
• Sviluppo sostenibile: affrontare le sfide ambientali e lavorative sarà essenziale per creare un’economia di confine più equa e sostenibile
.
• Innovazione e tecnologia: gli investimenti nelle infrastrutture digitali e nella tecnologia potrebbero creare nuove opportunità di collaborazione transfrontaliera, in particolare in settori come le energie rinnovabili e la produzione avanzata.
Una relazione economica complessa
Il confine tra Stati Uniti e Messico è un esempio della complessità dell’interdipendenza economica. Pur fungendo da porta d’accesso per il commercio e la crescita, esso mette in evidenza le sfide legate alla disuguaglianza e alla sostenibilità. Affrontando queste sfide, gli Stati Uniti e il Messico possono promuovere un partenariato economico più equilibrato e reciprocamente vantaggioso, garantendo che il confine rimanga una fonte di opportunità per entrambe le nazioni.
7. Relazioni bilaterali e implicazioni geopolitiche
Il confine tra Stati Uniti e Messico è un microcosmo delle relazioni più ampie tra le due nazioni, influenzando e riflettendo le loro dinamiche geopolitiche. La cooperazione e il conflitto al confine hanno plasmato il modo in cui gli Stati Uniti e il Messico interagiscono su questioni che vanno dalla migrazione e la sicurezza al commercio e la diplomazia internazionale. Questa sezione esamina le relazioni bilaterali attraverso la lente della gestione delle frontiere ed esplora le sue più ampie implicazioni geopolitiche19.
Cooperazione nella gestione delle frontiere
Gli Stati Uniti e il Messico hanno storicamente collaborato alla gestione del confine comune, bilanciando l’integrazione economica e le preoccupazioni in materia di sicurezza.
• Sforzi congiunti in materia di sicurezza: iniziative come l’Iniziativa Mérida (2008)20 hanno favorito la cooperazione nella lotta alla criminalità organizzata, al traffico di droga e al traffico di esseri umani. Questi sforzi sottolineano l’interesse comune a garantire la sicurezza delle frontiere.
• Accordi in materia di migrazione: accordi bilaterali, come i Protezione dei Migranti 21 (MPP), hanno cercato di gestire i flussi migratori, anche se rimangono molto controversi a causa delle preoccupazioni umanitarie.
• Commercio e infrastrutture: La collaborazione su progetti infrastrutturali, tra cui i valichi di frontiera e le reti di trasporto, facilita il flusso efficiente di merci e persone, rafforzando al contempo i legami economici.
Tensioni e sfide
Nonostante le aree di cooperazione, le relazioni tra Stati Uniti e Messico hanno dovuto affrontare tensioni significative, spesso radicate in priorità diverse e pressioni interne.
• Politiche sull’immigrazione: le misure di controllo dell’immigrazione adottate dagli Stati Uniti, quali la separazione delle famiglie e le espulsioni, hanno messo a dura prova le relazioni, in particolare quando hanno colpito in modo sproporzionato i cittadini messicani.
• Preoccupazioni relative alla sovranità: i leader messicani hanno occasionalmente criticato le politiche statunitensi che ritengono lesive della sovranità del Messico, in particolare per quanto riguarda l’immigrazione e il controllo delle frontiere.
• Dinamiche di potere asimmetriche: lo squilibrio economico e politico tra le due nazioni spesso complica i negoziati, con il Messico che si adatta frequentemente alle richieste degli Stati Uniti per mantenere le relazioni commerciali e diplomatiche.
Significato geopolitico del confine
Il confine tra Stati Uniti e Messico è un punto focale per strategie geopolitiche più ampie, che vanno oltre le relazioni bilaterali.
• Influenza regionale: gli Stati Uniti utilizzano il confine per proiettare influenza in tutta l’America Latina, sfruttando il proprio potere economico e politico per plasmare le politiche regionali in materia di migrazione e commercio.
• Preoccupazioni per la sicurezza globale: il confine è fondamentale per gli sforzi degli Stati Uniti volti a combattere le minacce transnazionali, tra cui il traffico di droga e il traffico di esseri umani, che spesso coinvolgono reti criminali internazionali.
• Relazioni con altre nazioni: le politiche di confine degli Stati Uniti hanno un impatto anche sulle relazioni con i paesi al di fuori del Messico, in particolare quelli dell’America centrale i cui cittadini migrano attraverso il Messico per raggiungere gli Stati Uniti.
Il ruolo delle organizzazioni internazionali
Il confine tra Stati Uniti e Messico è sempre più intrecciato con le strutture di governance globale.
• Nazioni Unite e migrazione: organismi internazionali come le Nazioni Unite hanno sostenuto un trattamento umano dei migranti e dei rifugiati, influenzando le politiche bilaterali.
• Organizzazioni commerciali: in qualità di membri di organizzazioni come l’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), entrambi i paesi devono navigare tra le norme commerciali globali che influenzano il commercio di frontiera.
Prospettive future: equilibrio tra cooperazione e sovranità
Il futuro delle relazioni tra Stati Uniti e Messico dipenderà dalla capacità di entrambi i paesi di affrontare le sfide comuni nel rispetto della reciproca sovranità.
• Maggiore cooperazione: il rafforzamento degli sforzi congiunti in settori quali il cambiamento climatico, le energie rinnovabili e l’innovazione tecnologica potrebbe approfondire il partenariato.
• Affrontare le questioni umanitarie: l’adozione di approcci più umani alla migrazione e al controllo delle frontiere potrebbe migliorare le relazioni bilaterali e rafforzare la reputazione globale di entrambe le nazioni.
• Contesto globale: l’importanza geopolitica del confine crescerà con la globalizzazione di questioni quali la migrazione climatica, le controversie commerciali e le reti criminali internazionali
.
Una relazione dinamica
Il confine tra Stati Uniti e Messico è un elemento determinante delle relazioni bilaterali, che riflette sia la cooperazione che il conflitto. La sua gestione ha implicazioni di vasta portata, non solo per le due nazioni, ma anche per il più ampio panorama geopolitico. Promuovendo la collaborazione e affrontando le sfide comuni, gli Stati Uniti e il Messico possono costruire un partenariato più forte a vantaggio di entrambi i paesi, contribuendo al contempo alla stabilità regionale e globale.
8. Implicazioni geopolitiche per la politica estera degli Stati Uniti
Il confine tra Stati Uniti e Messico svolge un ruolo fondamentale nel plasmare la politica estera degli Stati Uniti, con implicazioni che vanno oltre le relazioni bilaterali immediate. La gestione del confine, in particolare nel contesto della sicurezza, dell’immigrazione e del commercio, influenza il modo in cui gli Stati Uniti interagiscono con le altre nazioni delle Americhe e oltre. Questa sezione esplora le più ampie implicazioni geopolitiche del confine tra Stati Uniti e Messico per la politica estera americana, comprese le sue priorità strategiche, l’influenza regionale e i partenariati internazionali.
Influenza nell’emisfero occidentale
Gli Stati Uniti considerano da tempo il Messico un partner fondamentale per il mantenimento della stabilità nell’emisfero occidentale e il confine è un punto centrale di questa relazione.
• Preoccupazioni per la sicurezza regionale: la politica estera degli Stati Uniti nei confronti del Messico è profondamente influenzata dalle preoccupazioni relative alla criminalità organizzata, al traffico di droga e alla sicurezza delle frontiere. Queste questioni non riguardano solo il Messico, ma hanno implicazioni più ampie per la sicurezza regionale in America centrale e Caraibi. Gli Stati Uniti hanno collaborato con il Messico e altri partner regionali per contrastare le organizzazioni criminali transnazionali (TCO) e ridurre il flusso di droghe e armi illegali.
• Migrazione e crisi dei rifugiati: La gestione dei flussi migratori provenienti dall’America centrale e dal Messico è diventata un elemento significativo della politica estera degli Stati Uniti. Gli Stati Uniti sono impegnati ad affrontare le cause profonde della migrazione, tra cui la violenza, la povertà e l’instabilità politica in paesi come El Salvador, Honduras e Guatemala. Attraverso iniziative diplomatiche, aiuti umanitari e programmi di sviluppo, gli Stati Uniti cercano di ridurre la pressione migratoria al confine.
Influenza sul commercio globale
Il confine tra Stati Uniti e Messico è un punto strategico per il commercio globale, soprattutto alla luce dell’integrazione economica favorita da accordi commerciali come il NAFTA e l’USMCA.
• Commercio e catene di approvvigionamento: gli Stati Uniti dipendono dall’efficiente flusso di merci attraverso il confine e le interruzioni possono avere effetti di vasta portata sulle catene di approvvigionamento e sui mercati globali. Di conseguenza, la politica estera degli Stati Uniti dà priorità al mantenimento di un commercio transfrontaliero fluido, proteggendo al contempo le industrie statunitensi da pratiche commerciali sleali o squilibri.
• Diplomazia commerciale: gli Stati Uniti utilizzano il confine per rafforzare le relazioni commerciali non solo con il Messico, ma anche con altri paesi del continente americano, compreso il Canada, attraverso il quadro di accordi regionali.
Le politiche relative al confine sono spesso una componente fondamentale di strategie diplomatiche più ampie volte a promuovere la crescita economica e la stabilità nell’emisfero occidentale.
Impegno con le alleanze di sicurezza globali
Il confine tra Stati Uniti e Messico è strettamente legato al coinvolgimento degli Stati Uniti nelle alleanze di sicurezza globali e nei partenariati internazionali.
• Contro il terrorismo e cooperazione in materia di sicurezza: gli Stati Uniti utilizzano il confine con il Messico come elemento chiave della loro più ampia strategia antiterrorismo e di sicurezza. La cooperazione con il Messico nella lotta al narcotraffico, nelle misure antiterrorismo e nella condivisione di informazioni è fondamentale per salvaguardare gli interessi di sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Il confine si interseca anche con gli impegni degli Stati Uniti nei confronti di organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite, dove gli Stati Uniti svolgono un ruolo centrale nella promozione della pace e della sicurezza in America Latina.
• Impegno militare regionale: gli Stati Uniti mantengono una forte presenza militare nell’emisfero occidentale e la gestione del confine tra Stati Uniti e Messico è una parte cruciale del panorama della sicurezza della regione.
Ciò include esercitazioni militari congiunte, condivisione di informazioni di intelligence e altre forme di cooperazione in materia di difesa con il Messico.
Relazioni degli Stati Uniti con altre potenze globali
Il confine tra Stati Uniti e Messico svolge anche un ruolo nelle relazioni degli Stati Uniti con altre potenze globali, in particolare Cina e Russia22.
• La crescente influenza della Cina in America Latina: I crescenti investimenti della Cina in America Latina, compresi i progetti infrastrutturali e gli accordi commerciali, hanno modificato il panorama geopolitico. Gli Stati Uniti vedono con preoccupazione la crescente presenza della Cina nella regione, in quanto potrebbe sfidare l’influenza degli Stati Uniti e alterare l’equilibrio strategico nelle Americhe. Il confine tra Stati Uniti e Messico costituisce un punto critico per contrastare l’influenza della Cina, rafforzando i legami economici con il Messico e garantendo che la regione rimanga allineata agli interessi degli Stati Uniti.
• L’influenza russa nelle Americhe: Sebbene meno diretto, l’impegno della Russia nell’emisfero occidentale, comprese le sue relazioni con paesi come Venezuela e Cuba, è motivo di preoccupazione per la politica estera degli Stati Uniti. Il confine tra Stati Uniti e Messico rimane un fattore importante nelle strategie più ampie volte a limitare l’influenza russa in America Latina e a mantenere il dominio degli Stati Uniti nella regione.
Diplomazia ambientale e climatica
Le questioni ambientali al confine tra Stati Uniti e Messico hanno implicazioni significative per la politica estera degli Stati Uniti.
• Cooperazione ambientale: la regione di confine è vulnerabile al degrado ambientale, con problemi quali la scarsità d’acqua, l’inquinamento atmosferico e la distruzione degli habitat che hanno un impatto su entrambi i lati. Gli Stati Uniti e il Messico hanno collaborato attraverso accordi ambientali per affrontare queste sfide. Iniziative come il programma Border 2020 mirano a ridurre l’inquinamento, gestire le risorse naturali e proteggere gli ecosistemi lungo il confine, allineando la politica estera degli Stati Uniti con più ampi obiettivi ambientali globali.
• Cambiamenti climatici e migrazione: si prevede che i cambiamenti climatici aumenteranno la pressione migratoria al confine tra Stati Uniti e Messico, poiché eventi meteorologici estremi e siccità costringeranno le persone a spostarsi in cerca di condizioni di vita migliori.
La politica estera degli Stati Uniti si concentra sempre più sull’adattamento al clima e sulla resilienza, collaborando con il Messico e altri paesi dell’America Latina per affrontare la migrazione indotta dal clima e ridurre gli effetti dei cambiamenti climatici sulle popolazioni vulnerabili.
Il ruolo del confine nel posizionamento globale degli Stati Uniti
Il confine tra Stati Uniti e Messico rappresenta un punto chiave nel posizionamento globale degli Stati Uniti, riflettendo le priorità della nazione in termini di sicurezza, commercio e diplomazia.
• Proiezione di potere: gli Stati Uniti utilizzano le loro relazioni con il Messico, e per estensione il confine, come mezzo per proiettare il proprio potere nell’emisfero occidentale23. Questa proiezione coinvolge l’impegno militare, diplomatico ed economico volto a mantenere la stabilità e promuovere i valori democratici in America Latina.
• Influenza globale attraverso il soft power: al di là delle considerazioni militari ed economiche,
gli Stati Uniti utilizzano anche il soft power – scambi culturali, istruzione e assistenza umanitaria – per mantenere la propria influenza nella regione. Il confine tra Stati Uniti e Messico, in quanto luogo di scambi culturali e cooperazione, svolge un ruolo fondamentale nel rafforzare questo aspetto della politica estera americana.
Conclusione
Il confine tra Stati Uniti e Messico è più di una semplice linea di separazione tra due paesi; è un luogo di importanza geopolitica fondamentale per la politica estera degli Stati Uniti. La sua influenza si estende al commercio globale, alla sicurezza, alla cooperazione ambientale e alla diplomazia regionale. Gestendo con attenzione il confine e le questioni ad esso correlate, gli Stati Uniti possono mantenere i propri interessi strategici nelle Americhe e oltre, affrontando al contempo le complesse sfide della migrazione, del commercio e delle relazioni internazionali. Il ruolo del confine nella politica estera degli Stati Uniti sottolinea l’interconnessione tra la dimensione nazionale e globale
Bibliography
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Autori Vari, La Storia del Mondo, Editore Laterza, Bari, 2019;
Claudio Cerretti, Matteo Marconi, Paolo Sellari, Spazii e poteri. Geografia politica,
geografia economica, geopolitica.Editore Laterza, Bari, 2024;
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George Friedman, The next 100 Years. A forecast for 21th century, Allison
https://www.state.gov/u-s-relations-with-mexico/ “Il Messico rimane uno dei partner più stretti e preziosi degli Stati Uniti, con un confine comune lungo 2.000 miglia che comprende
47 valichi di frontiera attivi e una storia condivisa che ha instaurato profondi legami culturali e
interpersonali nel corso di 200 anni di relazioni diplomatiche. Queste relazioni bilaterali
hanno un impatto diretto sulla vita e sul sostentamento di milioni di americani in settori diversi
come il commercio e lo sviluppo economico, gli scambi culturali, la sicurezza dei cittadini, il controllo della droga, la
migrazione, la tratta di esseri umani, l’imprenditorialità, l’innovazione, la protezione dell’ambiente, il
cambiamento climatico e la salute pubblica. L’ampia portata delle relazioni tra gli Stati Uniti
e il Messico va oltre le relazioni ufficiali tra i governi e comprende
intensi scambi commerciali, culturali ed educativi quotidiani. Ogni giorno, centinaia
di migliaia di persone attraversano legalmente il confine per lavorare, vivere o visitare i propri cari
o
2 https://www.state.gov/u-s-relations-with-mexico/ “Il Messico rimane uno dei partner più stretti e preziosi degli Stati Uniti, con un confine comune lungo 2.000 miglia che comprende
47 valichi di frontiera attivi e una storia condivisa che ha instaurato profondi legami culturali e
interpersonali nel corso di 200 anni di relazioni diplomatiche. Queste relazioni bilaterali
hanno un impatto diretto sulla vita e sul sostentamento di milioni di americani in settori diversi
come il commercio e lo sviluppo economico, gli scambi culturali, la sicurezza dei cittadini, il controllo della droga, la
migrazione, la tratta di esseri umani, l’imprenditorialità, l’innovazione, la protezione dell’ambiente, il
cambiamento climatico e la salute pubblica. L’ampia portata delle relazioni tra gli Stati Uniti
e il Messico va oltre le relazioni ufficiali tra i governi e comprende
intensi scambi commerciali, culturali ed educativi quotidiani. Ogni giorno, centinaia
di migliaia di persone attraversano legalmente il confine per lavorare, vivere o visitare parenti e amici. Inoltre, si stima che 1,6 milioni di cittadini statunitensi vivano in Messico
e che il Messico sia la prima destinazione estera per i viaggiatori statunitensi.
3 Claudio Cerretti, Matteo Marconi, Paolo Sellari, Spazii e poteri. Geografia politica,
geografia economica, geopolitica. Editore Laterza, Bari, 2024, p.15-28
5 https://www.iai.it/en/pubblicazioni/c05/borders-geo-historical-analysis-human-construct “Un confine è – per usare il termine di Michel Foucault – un dispositivo spaziale che regola e ordina il rapporto tra interno ed esterno, inclusione ed esclusione.”
Dario Gentili, “Hic sunt leones. Confine/Frontiera. Genealogia politica di una disposizione
spaziale”, in Wolfgang Müller-Funk (a cura di), Confini d’Europa, Roma, Istituto Italiano
9 Robert Kaplan, La vendetta della geografia, Random House, New York, 2013, p. 337
“L’immigrazione messicana sta portando alla riconquista demografica dell’area che gli americani hanno sottratto con la forza al Messico negli anni ’30 e ’40 dell’Ottocento, rendendola messicana in modo
simile, anche se diverso, alla cubanizzazione che ha avuto luogo nel sud della
Florida. Sta inoltre rendendo più labile il confine tra Messico e Stati Uniti, introducendo una cultura molto
11 https://nacla.org/nearshoring-and-militarization-us-mexicoborder#:~:text=Early%20forms%20of%20what%20we,for%20immigration%20enforcement%20and%20surveillance “Mentre i promotori delle grandi aziende spingono per spostare le catene di approvvigionamento dalla
Cina al Messico settentrionale, l’espansione militare nelle zone di confine garantisce
zone di produzione per il capitale transnazionale”.
13 Samuel Huntington, Chi siamo? Le sfide all’identità nazionale americana,
Simon&Schuster, New York, 2004; La sfida più imponente per l’America, secondo
Huntington, è il problema dell’immigrazione messicana e la conseguente “ispanizzazione” delle regioni degli Stati Uniti adiacenti al Messico e acquisite da quest’ultimo. Egli
teme che il risultato dell’immigrazione messicana possa essere un’America “biforcuta”. Huntington
sostiene che l’immigrazione messicana differisce dalle precedenti ondate migratorie per diversi
aspetti fondamentali. L’America è l’unico paese del Primo Mondo al mondo a condividere un lungo confine non difeso con un paese del Terzo Mondo, rendendo l’attraversamento facile e
allettante per i messicani. L’immigrazione messicana rappresenta il 25% di tutta l’immigrazione legale,
molto più consistente dell’afflusso di immigrati irlandesi o tedeschi all’inizio della storia americana.
Si stima che quasi mezzo milione di messicani immigreranno negli Stati Uniti
ogni anno fino al 2030, culminando in quasi mezzo secolo di forte immigrazione da un
unico paese. [Nessun altro gruppo di immigrati nella storia americana ha rivendicato o è stato
in grado di rivendicare un diritto storico sul territorio americano. I messicani e i messicano-americani
possono rivendicare questo diritto e lo fanno. Circa 8-10 milioni di immigrati illegali si trovavano negli
Stati Uniti, il 58% dei quali erano messicani. Non solo l’immigrazione messicana differisce da
quelle precedenti per questi aspetti, ma Huntington sostiene che i messicani sono in ritardo rispetto agli altri
immigrati nella loro assimilazione nella società americana per diversi motivi. A differenza
degli altri immigrati, gli immigrati ispanici sottolineano la necessità che i loro figli
parlino correntemente lo spagnolo. Gli immigrati messicani e i loro figli generalmente si definiscono
prima messicani e poi americani. Tuttavia, circa un quarto degli ispanici
si converte al protestantesimo, un fatto che Huntington attribuisce all’assimilazione della cultura americana,
dato che molti ispanici provengono da una tradizione cattolica.
14 Robert D. Kaplan, The Revenge of Geography, Ramdom House, New York, 2013,
p. 338 “I messicani arrivano negli Stati Uniti, si stabiliscono nelle zone del Paese che un tempo
facevano parte della loro patria e godono così di un senso di appartenenza che altri
Due articoli importanti per inquadrare le dinamiche che purtroppo stanno avvolgendo ed esponendo gli stati e le popolazioni europee in un ruolo da protagonisti per conto terzi nella contrapposizione ostile e bellicista alla Russia e in second’ordine, almeno per il momento, alla Cina. Una dinamica foriera di tragedie e di degrado drammatico delle condizioni di vita delle popolazioni europee e di isolamento suicida e ostile in aree crucialiper la sopravvivenza del nostro tessuto economico, quali l’Africa, il vicino e medio oriente.
Il carattere meschino e miserabile del ceto politico e delle élites che si sono assunti questo compito infame è sempre più evidente. Il recente vertice della NATO ne è un esempio preclaro. Ancora sotto traccia viaggia quello “barbarico”, con tutto il rispetto verso il senso di comunità tribale che i barbari comunque tendono a conservare. Non barbari, ma bararie. I primi segnali di questa peculiare caratteristica che sta assumendo lo scontro politico in Europa cominciano però ad emergere. La strana morte, frettolosamente classificata come suicidio, seguita per altro ad altre tre morti sospette nel giro di un anno, di Eric Denécé, grande analista politico, direttore del CF2R, con il quale il sito stava per altro avviando una prima collaborazione, lascia intravedere la direzione repentina dello scontro che vede come protagonisti di scena nuovi e vecchi personaggi politici, in prima fila il tedesco Merz, e, come artefici subdoli, centri decisori ed apparati tutt’altro che “oscuri” . L’attuale feroce scontro politico negli Stati Uniti li ha fatti emergere alla luce del sole e la componente europea è ormai in prima linea a sostenerne le direttive. Qui sotto, in appendice ai due articoli principali proposti, l’amaro e inquietante commento di Aymeric Chauprade alle esequie di Denécé eun articolo del Courrier des Stratèges_Giuseppe Germinario:
Il leader del gruppo conservatore del Bundestag, Jens Spahn, suscita un acceso dibattito chiedendo che la Germania svolga un ruolo di primo piano nella creazione di uno scudo nucleare europeo. Ma l’iniziativa di Spahn è perfettamente in linea con quella di Friedrich Merz: gli interessi strategici degli Stati Uniti devono essere garantiti, con il sostegno della Germania! Se il Pentagono vuole completare lo scudo nucleare americano in Europa, le potenze nucleari Francia e Germania devono essere messe alle strette. Ed è proprio questo il ruolo che Friedrich Merz vuole svolgere.
In un’intervista di questo fine settimana, Jens Spahn ha affermato che è necessario un dibattito su uno scudo nucleare europeo indipendente, ma che questo sarà possibile solo sotto la guida tedesca. Secondo Spahn, coloro che non sono in grado di dissuadere con la forza nucleare diventano i giocattoli della politica mondiale! Allo stesso tempo, si è espresso a favore della partecipazione tedesca all’arsenale nucleare francese e britannico, perché “l’aggressione russa è una minaccia completamente nuova !”.
Le critiche volano soprattutto dal partner socialdemocratico della coalizione, mentre la sinistra parla di “megalomania” e l’AfD guarda con favore al programma nucleare tedesco. Alcuni critici accusano l’ex ministro della Sanità di voler distogliere l’attenzione dai suoi problemi di politica interna affrontando il tema delle armi nucleari: attualmente è criticato per aver acquistato maschere protettive a prezzi eccessivi durante la pandemia di Covid-19.
Interessi americani
Ma chi conosce il funzionamento dell’Unione (CDU/CSU) sa che non si tratta di una tattica diversiva. Tanto più che Friedrich Merz si era già espresso in tal senso a febbraio, due giorni dopo le elezioni federali. Ancora provato dalle aspre critiche mosse dal Segretario di Stato americano JD Vance alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, Merz aveva allora chiesto “il graduale rafforzamento dell’Europa per raggiungere l’indipendenza dagli Stati Uniti“. aprendo il dibattito su uno scudo nucleare comune. Questa dichiarazione ha persino fatto guadagnare a Merz la reputazione di reincarnazione tedesca di Charles de Gaulle, a cui nessuno crede seriamente dopo la profonda reverenza del Cancelliere tedesco per la Casa Bianca. A maggio, Friedrich Merz parlava solo di voler discutere con le potenze nucleari Francia e Gran Bretagna di un deterrente comune per integrare lo scudo nucleare statunitense.
Si potrebbe giudicare frettolosamente Friedrich Merz come volubile, ma è vero il contrario. Più si osserva l’ex lobbista di BlackRock, più diventa chiaro che egli rappresenta essenzialmente gli interessi americani in Europa. Dopo il vertice della NATO della scorsa settimana, è chiaro che il cancelliere tedesco deve mettere alle strette i partner europei della NATO, in particolare le due potenze nucleari Francia e Gran Bretagna.
A differenza del suo predecessore, il socialdemocratico Olaf Scholz, il conservatore Friedrich Merz sta quindi inviando segnali positivi a Parigi e Londra. Ricordate: due anni fa, Olaf Scholz lasciò ostentatamente la sala quando Emmanuel Macron propose ai tedeschi un dialogo strategico sulle questioni nucleari alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco.
E con l’arrivo di Friedrich Merz come Cancelliere, si moltiplicano i segnali che anche il popolo tedesco deve essere gradualmente preparato a questo tema: secondo un recente sondaggio, il 64% dei tedeschi sarebbe favorevole a uno scudo nucleare europeo, con punteggi particolarmente alti tra gli elettori del partito del Cancelliere e dei Verdi. Inoltre, sono sempre più numerose le analisi e i commenti che trattano la questione dell’armamento nucleare della Germania.
Un gioco rischioso
Tuttavia, l’argomento è estremamente delicato in Germania. In quanto firmataria del Trattato di non proliferazione, la Germania è obbligata dal diritto internazionale a non sviluppare armi nucleari proprie. Si è inoltre impegnata a rinunciare alle armi nucleari nel Trattato 2+4 del 1990. Tuttavia, le armi nucleari dell’alleato transatlantico sono conservate in depositi speciali, come la base aerea di Büchel nell’Eifel, che ospita circa 20 bombe B61 ad uso dell’esercito tedesco. Inoltre, in quanto parte della NATO, la Germania partecipa alla condivisione nucleare, il che significa che gli aerei tedeschi sono addestrati a utilizzare le armi nucleari americane.
Friedrich Merz è in carica da poco tempo e ha già provocato forti irritazioni in diverse occasioni: in primo luogo, ancor prima di essere eletto Cancelliere, ha allentato il freno al debito con una mossa molto discutibile, permettendo alla Germania di accollarsi circa 900 miliardi di debito aggiuntivo. In secondo luogo, vuole fare della Germania il allievo modello della NATO e punta a un obiettivo di spesa militare del 5% entro pochi anni. Inoltre, sembra che ora voglia mettere le potenze nucleari Francia e Gran Bretagna “sotto il comando tedesco”.
Non si sottolineerà mai abbastanza che la politica estera del Cancelliere Friedrich Merz sta danneggiando notevolmente il suo Paese. Non si farà amici in Europa. Dividerà il popolo tedesco. Senza contare che rovinerà completamente le relazioni diplomatiche con la Russia.
Dal punto di vista degli interessi francesi, il vertice NATO dell’Aia è un disastro. Innanzitutto, bisogna capire che strutture come la NATO e l’Unione Europea non possono che portare alla capitolazione dei leader francesi che le frequentano. In secondo luogo, va notato che, a prescindere dalle rodomontate dei vari partiti, l’Unione Europea finisce sempre per sottomettersi al Presidente americano al potere. Da queste osservazioni è possibile trarre degli insegnamenti per la Francia, per consentirle di ritrovare la propria indipendenza, la capacità di difendere i propri interessi e l’influenza sugli affari mondiali.
Vorrei tornare al vertice dell’Aia. Ieri ho fatto notare che la parola Europa non compare nel comunicato finale. L’Eliseo si è lasciato sfuggire che solo la Francia aveva cercato di imporre la parola….Sarebbe stato meglio non dire nulla, tanto questo sottolinea l’impotenza dei nostri attuali leader – di fatto guidati.
Traiamo alcune conclusioni – e risoluzioni – da questo disastro.
Perché la sottomissione dei leader francesi è inevitabile nelle strutture sovranazionali
La prima osservazione è implacabile. I leader francesi finiscono per sottomettersi completamente a una struttura come la NATO o l’Unione Europea.
In effetti, è facile capire perché, visto il modo in cui operano le nostre élite. Quando Charles Maurras disse, maliziosamente, ” La Repubblica è la Corte senza il Re “, aveva colto uno dei problemi fondamentali delle élite dopo la Rivoluzione francese. La Rivoluzione ha ucciso il re, ma non la società di corte, con tutti i suoi mimetismi.
Chateaubriand riferisce, nei Mémoires d’Outre-Tombe, che alla vigilia della Rivoluzione era chic essere ” inglesi a corte, americani in città e prussiani nell’esercito “. È facile capire i meccanismi che vengono messi in atto in Francia quando non c’è più un re o un imperatore o un presidente forte come Charles de Gaulle a dettare la linea. La società di corte che è la classe dirigente francese cerca altrove un re. Vale anche la pena di notare che, anche se imitare gli inglesi è un po’ fuori moda, la nostra classe dirigente continua a pensare che Germania e Stati Uniti siano quelli da seguire.
Per molto tempo c’è stato il “modello tedesco”. Tutto ciò che facevano i tedeschi era necessariamente migliore di ciò che facevano i francesi e il risultato è stato che siamo stati bloccati in una struttura europea modellata sulle istituzioni della Repubblica Federale Tedesca. La Francia era destinata ad essere solo un “Land” nella nuova entità federale europea.
Negli ultimi dieci anni, nell’Unione Europea è stato di moda attaccare Donald Trump. I leader francesi hanno seguito l’esempio. Ora l’Unione Europea si sta sottomettendo a Trump al punto da abdicare a qualsiasi volontà propria. Non stiamo nemmeno più facendo finta. Scommettiamo che Macron & Co. alla fine si adegueranno.
L’importante è capire che il mimetismo permanente che caratterizza la società di corte è ciò che condanna i nostri leader a essere semplici seguaci non appena abbandonano la richiesta di sovranità che caratterizza la nostra storia.
La sottomissione dell’UE a Trump e agli Stati Uniti
Tutti hanno promesso a papà: tutti hanno un salvadanaio, un maialino con un elmetto chiodato, e tutti ci metteranno i loro piccoli risparmi. Non facciamo più nemmeno finta di credere in una “difesa europea”. Questo è essenziale da cogliere se consideriamo la Germania e le sue dichiarazioni. Friedrich Merz vuole dotare la Germania del “primo esercito d’Europa”. Ma, come vi ha spiegato Ulrike Reisner qualche giorno fa, alla Casa Bianca, ” Fritz ” ha promesso la sua fedeltà.
Possiamo ben immaginare che la politica di Fritz diventi pericolosa, dal punto di vista francese, perché sconvolge l’equilibrio europeo. Tuttavia, tutto dipenderà dalla volontà del Presidente americano. Un Obama o un Biden lascerebbero campo libero a Fritz. Un Trump lo controllerebbe.
Il tema, tuttavia, ci porta oltre. La Francia deve affrontare i reali rapporti di forza. E volgerli a proprio vantaggio.
Alcune differenze tra gli Stati Uniti di Trump e l’Unione Europea
Nell’Occidente indebolito, l’Unione Europea è sia uno dei rifugi del globalismo sia una struttura che serve a soffocare la voce dei popoli. È una struttura che crede solo nella forza. Hanno sostenuto la guerra contro la Russia perché convinti, per arroganza e mancanza di cultura, che la Russia fosse debole. Ora che Donald Trump minaccia di lasciare gli europei al loro destino di fronte all’orso russo, corriamo da papà: “Non lasciarci soli!
L’Unione Europea è anche un organismo in cui si intende utilizzare l’1,5% destinato alla sicurezza (del 5% promesso a papà) per controllare la popolazione. È anche un luogo dove non solo vengono approvate leggi che distruggono la libertà, ma anche le cosiddette leggi sociali che equivalgono a una sorta di nazismo soft (vedi l’eutanasia ribattezzata “fine vita”). Infine, questo è un continente in cui i cittadini hanno le maggiori difficoltà a ottenere candidati politici che si presentino alle elezioni per difendere i loro interessi.
D’altra parte, gli Stati Uniti di Trump hanno molti difetti, ma negli ultimi dieci anni il Paese ha dimostrato una vera vitalità politica: eleggendo due volte Trump; facendo pendere la Corte Suprema dalla parte dei conservatori; mostrando una resistenza alle costrizioni covidiste che non ha equivalenti nelle società euro-mediterranee, ecc….
Posso vedere i difetti: Trump è sia il candidato del popolo che di una parte dell’oligarchia post-globalista. Il suo piano, con l’annessione della Groenlandia, del Canada e del Canale di Panama, almeno teoricamente, è un piano per un piccolo impero americano che si ritiene più capace di difendere gli interessi americani rispetto al globalismo su tutti i fronti. E poi c’è l’indifferenza di Trump nei confronti dei palestinesi massacrati a Gaza, il modo in cui sta portando avanti gli interessi delle aziende tecnologiche che si sono schierate dietro di lui, come Palantir, con l’instaurazione del capitalismo della sorveglianza ecc….
Sì, ma guardate come Trump ha bilanciato la sua posizione sulla guerra in Iran, cogliendo tutti di sorpresa con attacchi troppo ovvi per essere seri. Il Presidente americano ha trovato una linea di frattura tra i suoi sostenitori più favorevoli a Netanyahu e la sua base MAGA. La protesta all’interno del partito repubblicano è stata troppo forte perché lui potesse ignorarla e abbandonare le sue promesse di pace. Nessuno conosce l’esito del cessate il fuoco. Ma va notato che, a differenza dell’UE, gli Stati Uniti non sono più bloccati in una politica senza alternative.
Cosa deve fare una Francia che si prende in mano?
Mi sembra quindi che ci siano tre conclusioni e raccomandazioni per il nostro Paese.
Conosco bene le obiezioni di alcuni lettori, che dicono: purtroppo non c’è nessuno che possa attuare la politica che lei raccomanda. Io propongo di invertire i fattori e di diffondere una mentalità che dimostri che esistono politiche alternative. Le nostre idee devono diventare mainstream. Come nel caso del trumpismo – che è stato preceduto dal lungo lavoro di base del Tea Party – quando arriverà il momento, un membro dell’élite francese lo coglierà. Ma perché ciò accada, la battaglia delle idee deve essere vinta.
A mio avviso, ecco cosa dovrebbe fare un governo francese degno di questo nome dopo il vertice dell’Aia:
+ Prima di tutto, dobbiamo recuperare con urgenza la nostra indipendenza. L’ho ripetuto spesso ultimamente: non dobbiamo essere sovranisti, ma indipendenti. La Francia deve rinnovare il suo legame con il generale de Gaulle uscendo dal comando integrato della NATO, ad esempio cogliendo l’opportunità di una crisi con gli Stati Uniti sulla Groenlandia. E per cominciare deve prepararsi a un’uscita parziale dall’Unione Europea.
+ Semplicemente, la Francia deve dare priorità alle minacce che deve affrontare. La minaccia più grande viene dall’Unione Europea. È l’UE che le impedisce di dispiegare il suo potenziale nucleare civile; sono i meccanismi dell’UE che hanno permesso ai nostri leader, per convenienza, di bloccarci in un debito enorme; l’UE sta contribuendo in modo determinante alla mancata risoluzione del conflitto in Ucraina; l’UE ha sostenuto il genocidio a Gaza ecc….
È urgente mettere in atto un piano di ritiro, a partire da un ritiro parziale, dall’Unione Europea. A partire dalla denuncia delle direttive di politica energetica e dei meccanismi del mercato elettrico dell’entità.
Questo è uno dei principali progetti che Le Courrier avvierà: costruire un piano realistico di uscita graduale dall’Unione Europea. La valutazione dettagliata detterà il giusto equilibrio.
+ D’altra parte, a condizione che la Francia si comporti come uno Stato sovrano, gli Stati Uniti, nella loro ritirata geopolitica sul continente americano, rappresentano per noi una minaccia minore rispetto all’UE. Nel complesso gioco geopolitico che hanno intrapreso, potrebbero persino aver bisogno del nostro sostegno su questioni specifiche.
In effetti, l’idea di base mi sembra abbastanza semplice: finché recuperiamo la nostra indipendenza, è possibile dialogare e guadagnarsi il rispetto della democrazia sovrana che gli Stati Uniti restano, nonostante tutti i loro difetti. D’altro canto, dobbiamo allentare, laddove necessario, la morsa dell’UE, tanto che per la Francia è una macchina per soffocare i nostri cittadini ma, fattore aggravante nel nostro caso, incoraggia i nostri leader a sottrarsi alle loro responsabilità.
Come vedete, ci aspetta un grande programma di lavoro per definire i contorni di una nuova politica di indipendenza francese!
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