Geopolitica della Russia_da Geopolitical Future

Un saggio senza dubbio interessante, ma con alcuni punti da chiarire:

  • la relativa debolezza della Russia rispetto alla relativa forza degli Stati Uniti e la compatezza e forza dei diversi sistemi di alleanza e cooperazione in via di formazione
  • la postura globale o prevalentemente locale della visione geopolitica russa rispetto a quella occidentale
  • la constatazione che comunque la Russia è una potenza nucleare di prim’ordine con un potere grandissimo di deterrenza
  • le alternative geopolitiche e geoeconomiche possibili della Russia rispetto a quelle del mondo occidentale.

Buona lettura, Giuseppe Germinario

Il presidente russo Vladimir Putin ha descritto il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991 come “la più grande catastrofe politica” del XX secolo. A quelli fuori dalla Russia può suonare come un’iperbole, ma per chi ci ha vissuto è una storia diversa. In breve tempo, hanno assistito al loro governo a Mosca, una potenza alla pari con gli Stati Uniti per quasi cinque decenni, perdere l’equilibrio e non riprendersi mai completamente. La Russia divenne indigente, persino senza scopo.
Il crollo dell’Unione è stato così traumatico che continua a definire l’identità della Russia di oggi.
E anche se il paese è rimasto formidabile nel suo vicino estero, è meno capace di una volta nel garantire i suoi interessi nazionali più lontani. Per capire perché è così, dobbiamo iniziare guardando una mappa.

Geografia, o i pericoli dell’Occidente

In effetti, la sfida più fondamentale e strategica della Russia – nelle sue due dimensioni internazionali e domestiche – deriva dalla geografia del paese. La gran parte del territorio russo si trova tra i 50 gradi e 70 gradi di latitudine. Per comparazione, la latitudine di Londra è di circa 51 gradi, quella di Berlino ha 52 gradi e quello di Ottawa 45. Il clima della Russia è generalmente fresco, e la vegetazione e l’uomo nel loro ciclo vitale tendono ad abitare aree che sono al di sotto dei 60 gradi di latitudine. Il cuore dell’agricoltura russa si trova a sud-ovest, lungo i suoi confini
con Ucraina, Caucaso e Kazakistan. Il clima e l’agricoltura spiegano molto dei motivi per i quali tre quarti della popolazione vive nella zona tra il confine della Russia con l’Europa e gli Urali. Le città più cruciali del paese, tra cui la sede del suo governo, inoltre, sono tutte vicine all’Europa. La Russia ha pochi fiumi, e quelli che ha fluiscono principalmente verso ovest, rendendo difficoltoso trasportare merci lungo il territorio nazionale.
La Russia compensa questi svantaggi naturali affidandosi alle ferrovie, che ulteriormente evidenziano l’importanza dell’occidente e delle regioni meridionali. Ed è così che la Russia è sproporzionatamente preoccupata – e in pericolo – per i suoi tratti occidentali.
In quanto potenza terrestre, la Russia è intrinsecamente vulnerabile.
Il suo confine con l’Europa è estremamente suscettibile all’invasione, situata com’è sulla pianura nord europea. Questa distesa piatta di terra inizia in Germania e, appena ad est dei Carpazi, ruota verso sud, aprendo proprio alle porte della Russia. Storicamente, è stata un’importante arteria di invasione militare occidentale. Poiché i nemici della Russia lo hanno fatto così spesso utilizzando questa rotta di invasione, Mosca ha provato a rendere più difficile per gli invasori raggiungere il suo territorio spingendo i confini della Russia il

più a ovest possibile. Quando i confini nazionali non potevano essere estesi, Mosca ha stabilito zone cuscinetto tra il nucleo della Russia e il resto della Europa. Al culmine dell’Unione Sovietica, Mosca ha goduto di un ampio zona-cuscinetto che si estendeva bene nell’Europa centrale.
Con il crollo dell’Unione Sovietica, però, la Russia ha perso la maggior parte di questi territori
e da allora è sulla difensiva. Considera che nel 1989 San Pietroburgo era a circa 1.000 miglia dalle truppe NATO. Adesso quella distanza è di circa 200 miglia.

UNA CONCENTRAZIONE DI RICCHEZZA

La geografia russa presenta una sfida si troppo evidente: chi governa il Paese deve gestire il paese più grande del mondo, che comprende popoli molto diversi, clima, risorse naturali e reti di infrastrutture. la Federazione Russa è composta da 85 soggetti federali che consistono amministrativamente in strutture che vanno da regioni autonome e repubbliche alle singole città. Di conseguenza, la Russia ospita economie altamente regionalizzate in cui ricchezza e prosperità sono distribuite in modo non uniforme.
La ricchezza è concentrata in Occidente, in particolare a Mosca e nel Distretto Federale Centrale.
In tempi di prosperità, la disparità economica può essere rappezzata e la pressione nei distretti ad alto reddito si allevia abbastanza facilmente.
Ma in tempi di costrizione economica, come è successo quando i prezzi del petrolio sono scesi alla fine del 2014, il governo centrale deve far fronte alla pressione sociale dei distretti più poveri dell’interno.
Non c’è da meravigliarsi, quindi, che lo sviluppo economico della Russia sia stato dalla fine della Guerra Fredda così irregolare. Gli anni ’90 erano dedicati alla sopravvivenza, non alla crescita economica. Le riforme del decennio erano finalizzate a una cosa: prevenire il ritorno della Russia al regime comunista.
La maggior parte dei russi viveva in condizioni di povertà o quasi; la maggior parte delle imprese statali sono state privatizzate – in offerta. La crisi finanziaria russa del 1998 e le proteste associate hanno portato a un grande cambiamento. Le persone erano pronte ad accettare un governo forte e così ha accolto con favore un sovrano più forte.
Entra in campo Vladimir Putin, che ha cercato di aggiustare l’economia e poi ricostruire il governo.
Da allora, lo sviluppo della Russia è stato basato sulle esportazioni di energia, che a loro volta hanno alimentato il bilancio della spesa e dei consumi.

Questo ha funzionato abbastanza bene quando i prezzi dell’energia erano alti. Ma quando cadono, cadono anche le entrate russe. Questo porta inevitabilmente a periodiche recessioni economiche. Dal 2015 al 2017, per esempio, i cittadini hanno protestato contro la disoccupazione, i salari bloccati, i tagli ai programmi di governo, salari reali più bassi, fallimento e frustrazione generale con standard di vita ridotti. Le proteste erano limitate, ma potevano minacciare Putin a lungo termine. Adesso tocca alle sanzioni occidentali minacciare l’economia russa e una volta, ancora una volta, Putin non deve solo mantenere il controllo ma mostrare anche alle persone che sta rispondendo ai loro bisogni.
Il modo in cui lo ha fatto è erigere un doppio livello del sistema economico. Controlla un livello attraverso la sua “cerchia ristretta”, che sono le aziende di proprietà statale, mentre l’altro livello è soggetto alle leggi del libero mercato. Quelle gestite dallo stato costituiscono circa un quinto della economia russa. Il popolo russo ancora sostiene Putin – e potrebbero anche fidarsi di lui – ma considerano oligarchi e amministratori regionali come persone corrotte. Il presidente deve contemperare i bisogni del suo popolo e i bisogni delle aziende che sostengono l’economia. Nel 2001 si è schierato con il popolo, ha condotto una campagna contro gli oligarchi per poi prendere il controllo dei media e delle aziende energia energetiche.

Ha anche riorganizzato parte dello stato e le agenzie di sicurezza che aiutano a mantenere l’ordine.
Ha istituito la Guardia Nazionale, che unifica diverse forze di sicurezza interna sotto il controllo diretto del presidente.
Lo scopo dichiarato delle truppe è quello di proteggere l’ordine pubblico, combattere l’estremismo, proteggere le figure e le strutture del governo, aiutare a proteggere il
confine e controllare il commercio di armi. Ha inoltre ins
ediato funzionari fedeli al suo governo
in luoghi importanti. Ad esempio, tra
il 2017 e il 2018, ha rimosso 16 generali dai loro incarichi presso il Ministero della Protezione Civile, le Emergenze ed eliminazione delle conseguenze
dei disastri nazionali; un corpo responsabile della risposta alla protezione civile,
ai disordini pubblici e proteste, all’interno del Ministero, sostituendoli con funzionari selezionati personalmente. I licenziamenti in primis hanno colpito il Caucaso, l’Estremo Oriente e città alla portata di Mosca – città dove, fino alla fine del 2017, era stato segnalato un aumento dei disordini.

Tutta la politica è locale

Politicamente, il governo russo sotto Putin ha consolidato il suo potere abbastanza presto.
Sotto la sua amministrazione, i partiti politici sono relativamente poco importanti; il sistema favorisce i partiti filo-Cremlino. Partiti che non supportano il governo hanno poche possibilità di ottenere seggi alla Duma, la camera bassa del parlamento. Nel 2000, a breve dopo aver assunto la sua prima presidenza, Putin in realtà ha ridotto il numero dei partiti rappresentati alla Duma. Nel 2012, l’allora Presidente Dmitri Medvedev sembrava fare marcia indietro su questa mossa approvando una legge che semplificava le procedure di registrazione per i partiti politici. Sulla carta, la nuova normativa intendeva aprire il sistema dei partiti a gruppi di interesse alternativi. In pratica, il sistema è rimasto chiuso.
Cinque partiti politici, tutti filogovernativi in una certa misura, attualmente dominano la Duma. Russia Unita, il partito di Putin, detiene 323 seggi su 450, facendo quello che dice Putin di fare. Il Partito Comunista (57), il Partito Democratico Liberale(23), Una Russia Giusta(27) e New People Party (14) detengono i posti rimanenti. Gli ultimi quattro partiti non sono visti come partiti ufficiali filo-governativi e quindi rappresentano almeno in parte l’opposizione. In particolare, il termine “opposizione” è usato liberamente; i rappresentanti raramente sfidano le iniziative guidate da Putin.

Voti espressi dai funzionari di questi partiti riflette un disaccordo con Russia unita e la burocrazia allo stesso tempo rimane fedele al presidente e al sistema. Hanno una certa distanza dal regime, ma non vi si oppone apertamente.
Putin ha anche consolidato il potere politico con l’epurazione dei governatori russi: un aspetto importante, considerando il rapporto tra governatori e membri del governo nazionale.
Spesso lavorano insieme, dipendono l’uno dall’altro e hanno cura degli interessi reciproci. Sono state reintrodotte le elezioni governative nel 2012, ma mentre la legge da reintrodurre si stava facendo strada nel sistema, più di 20 governatori erano riconfermati dal Cremlino, ritardando le elezioni in queste località fino al 2017. Poi, nel 2013 Putin ha firmato una legge regionale che ha permesso elezioni per decidere tra l’elezione diretta dei governatori o avere l’elezione regionale con seleziona e nomina di un governatore da una breve lista stilata da Putin.
I governatori regionali, a loro volta, svolgono un ruolo nel nominare membri del Consiglio della Federazione Russa, la camera alta del parlamento.
Il consiglio è composto da due rappresentanti eletti da ciascuna delle 83 entità federali della Russia. Un rappresentante è scelto dal legislatore regionale
e uno è selezionato dal governatore della regione. La lunghezza del mandato varia con l’entità federale. Costruito dentro questo sistema è un livello di reciprocità tra
governatore e presidente, abilitando ulteriormente Putin nell’esercizio di influenza. È in grado di garantire che un candidato ottenga una carica di governatore,e in cambio, il governatore può
nominare un membro pro-Cremlino al consiglio.

Questa relazione diventa ancora più importante considerando che il consiglio approva i decreti presidenziali di legge marziale, dichiara lo stato di emergenza, schiera truppe all’estero, sovrintende alla nomina presidenziale del procuratore generale e decide l’impeachment e i verdetti.
Putin ha dedicato gran parte della sua politica, di capitali e risorse per consolidare il suo potere attraverso le riforme inel governo dei vari organi di sicurezza. Ricostruendo il suo cerchio interno e rinnovando la struttura del potere, Putin ha dimostrato che ha bisogno di estendere la sua rete per garantire che decreti e politiche siano attuati correttamente e che i dissidenti restino messi a tacere.

Il fulcro della sua politica estera

Gran parte delle macchinazioni politiche di Putin, tuttavia, hanno lo scopo di perpetuare un mito all’estero. Il mito che la Russia sia forte quanto sembra. Senza la capacità di agire in modo altrettanto deciso come poteva fare durante la Guerra Fredda, in Russia è relegato a concentrarsi sul proprio cortile.
Le vulnerabilità lungo il suo confine occidentale costringono la Russia a mantenere un forte punto d’appoggio in Ucraina e Bielorussia. La Russia ha bisogno di questi due paesi per isolarlo dalle minacce esterne. Anche se la Bielorussia è rimasta saldamente all’interno della sfera di influenza della Russia nell’era post-sovietica, l’Ucraina no. Dopo che i sostenitori filo-occidentali hanno rovesciato il governo amico della Russia a Kiev, Mosca non aveva altra scelta che rispondere con forza. Sin dall’inizio del 2014 ha conquistato la penisola di Crimea e ha inviato truppe e rifornimenti ai ribelli pro-Russia che combattono nell’Ucraina orientale.
La Crimea è stata annessa in parte per garantire un punto d’appoggio in Ucraina e in parte per mettere in sicurezza il porto di Sebastopoli, sede della flotta del Mar Nero.
La marina russa è composta principalmente da quattro principali flotte – il Nord, il Baltico, il Mar Nero e Pacifico. I primi tre sono tutti basati sulla parte europea della Russia e sono vincolati da importanti strozzature che ne limitano l’accesso alle acque aperte. Dal momento che gran parte della Russia è senza sbocco sul mare, la perdita o la compromissione dei porti e del quartier generale per ognuno di queste flotte ridurrebbero gravemente il potere della flotta russa e incidono negativamente sul commercio marittimo.

Dal Mar Nero, attraverso il Bosforo, la Russia ottiene l’accesso al Mediterraneo e da lì l’Atlantico.
Nonostante tutto, l’Ucraina è rimasta la priorità assoluta della Russia e il fulcro della sua politica estera. La Russia post-sovietica non aveva nessuno né le risorse né i mezzi per riprendere l’Ucraina. Il potere ridotto della Russia ha forzato Mosca per adottare una strategia di disgregazione globale che mirava principalmente agli Stati Uniti. (La loro rivalità è un elemento dell’era della Guerra Fredda che rimane intatta.) Mosca lo ha fatto in modo più visibile in Siria, dove ha funzionato per sfruttare la sua influenza nella risoluzione del conflitto con un risultato più vantaggioso verso gli Stati Uniti che sull’Ucraina, anche se è stata parte attiva anche in Venezuela e Corea del Nord.
Ad esempio, a metà del 2013 si è inserita la Russia stessa nella crisi internazionale negoziando un accordo per distruggere il programma siriano di armi chimiche. Nello stesso anno, le proteste dell’Euromaidan in Ucraina hanno estromesso il Governo favorevole alla Russia a Kiev e sostituito esso con uno che ha favorito l’Occidente. In una posizione molto più debole di quella di pochi mesi prima, la Russia si rivolse ancora una volta al conflitto in Siria. Dopo aver rimodellato le percezioni del potere russo, rafforzando la posizione delle forze e dei suggerimenti di Assad nei negoziati con gli Stati Uniti, il limitato intervento siriano limitato ha ampiamente soddisfatto lo scopo strategico della Russia.
Recentemente la Russia ha deviato dalla globale strategia di interdizione e ha invaso l’Ucraina.
La mossa ha rivitalizzato la NATO e in generale la relazione USA-Europa. Mentre l’Occidente non si è impegnato direttamente in un’azione militare con la Russia in Ucraina, ha però fornito significativo supporto logistico e militare all’Ucraina.

In aggiunta l’Occidente ha applicato severe sanzioni contro la Russia, isolando il Paese da gran parte dell’economia globale. La Nato ha anche aumentato le rotazioni delle sue truppe, incrementato difesa e dispiegamento di sistemi d’arma lungo il fianco orientale della NATO. Per la Russia, l’aumento della presenza della NATO – e in particolare quella degli Stati Uniti – nel suo cortile costituisce una grave minaccia.

È una minaccia che non può gestire completamente. A più di 30 anni dal crollo dell’Unione Sovietica, la Russia sta ancora cercando di trovare la sua strada. Nella vita delle nazioni, 30 anni non sono così lunghi nel tempo, e la caduta degli imperi tende a risuonare per anni dopo. Inoltre, l’economia Russa dopo la pandemia ora deve affrontare gli ulteriori vincoli di sanzioni di vasta portata
Ciò è particolarmente problematico in una regione complessa e pericolosa come quella russa; una regione in cui apparire debole può essere una minaccia altrettanto grande che essere debole. La Russia deve contemporaneamente cercare di apparire più potente di quel che è e gestire meticolosamente la potenza che ha. Ma il vero potere è durevole. Le illusioni sono effimere. Azioni intraprese dalle nazioni deboli, progettate per farle apparire più forti quasi sempre falliscono nel lungo periodo.

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SANZIONI ED ETEROGENESI DEI FINI, di Teodoro Klitsche de la Grange

Dall’inizio del conflitto russo-ucraino i mass-media mainstream (ossia la grande maggioranza) esaltano l’efficacia delle sanzioni decise – in particolare quelle dell’U.E..

Questo toccandone ogni possibile aspetto e conseguenza. Si legge con piglio giustizial-populista, che sono sequestrati i panfili degli oligarchi. Ma come ciò possa danneggiare il tenore di vita della stragrande maggioranza dei russi che quei panfili li hanno visti solo in cartolina, non si comprende; e ancor meno come, da ciò, possa diminuire il consenso popolare a Putin. Piuttosto potrebbe farlo – e probabilmente lo può – l’aumento delle perdite umane provocate dal proseguire della guerra. Parimenti non è chiaro se il divieto di vendere mocassini, prosecco e parmigiano ai russi possa creare problemi a Putin; casomai li crea ai produttori italiani.

Certo sanzionare le importazioni di petrolio e gas problemi seri allo Zar li può provocare: solo che perché la minaccia diventi efficace occorrono anni. Nel frattempo Putin concluderà la guerra e le sanzioni saranno inutili.

D’altra parte nel secolo scorso l’efficacia delle sanzioni economiche per dissuadere dall’aggressione o comunque coartare la volontà del sanzionato è stata – per lo più – minima.

A partire da quelle applicate all’Italia perla guerra d’Etiopia, fino al caso della piccola Cuba che ha resistito per diversi decenni alle misure economiche degli U.S.A., e conservato il proprio regime nemico degli Yanquis; permettendosi anche qualche intervento all’estero (a dispetto degli americani, e, ovviamente sollecitato dai sovietici). Se ci si chiede il perché, data la sproporzione dei mezzi (tra sanzionanti e sanzionati) i risultati siano stati così modesti, occorre, principalmente, rifarsi a due ragioni.

La prima: che la guerra reale è condizionata, limitata ad un obiettivo politico. Vince chi lo consegue, perde chi non lo raggiunge. Occorre pertanto che per dissuadere l’aggressore le sanzioni siano efficaci nel lasso di tempo decorrente tra inizio e conclusione della guerra. Nel caso ad esempio della guerra di Etiopia, le sanzioni all’Italia durarono poco più di sette mesi e furono revocate due mesi dopo la caduta di Addis Abeba. Ma non avevano né influito sulle operazioni né distolto Mussolini dall’obiettivo politico (la conquista dell’Etiopia). Conseguito il quale diventavano inutili.

La seconda: per essere efficaci le sanzioni devono essere applicate da quanti più soggetti, di guisa da non lasciare alternativa al sanzionato. Quelle per la guerra d’Etiopia furono inefficaci perché, per diverse ragioni, Germania, U.S.A. e perfino alcuni Stati che le avevano deliberate non le applicarono o lo fecero parzialmente e distrattamente. Lo zucchero cubano, nell’altro caso ricordato, trovò un acquirente interessato nell’Unione sovietica e Stati satelliti.

Al contrario l’embargo deciso da U.S.A., Gran Bretagna e Olanda contro il Giappone nel luglio del 1941 era estremamente efficace, perché il Giappone non poteva trovare delle possibili sostituzioni alle materie prime che venivano a mancare, petrolio in primo luogo.

I militari giapponesi stimavano che il petrolio accumulato o comunque disponibile non sarebbe durato più di due anni: entro quel termine avrebbero dovuto cessare l’aggressione alla Cina e l’occupazione dell’Indocina. La guerra scoppiò meno di sei mesi dopo. Il principale (se non unico) caso di sanzioni efficaci nel secolo scorso ebbe il risultato di dar inizio ad una guerra nuova, e non di concludere quella in corso. Cioè raggiunse l’obiettivo opposto alle intenzioni proclamate: costituendo così caso da manuale di eterogenesi dei fini (esternati).

Cambiando angolo visuale sopravvalutare l’effetto delle sanzioni è un errore di valutazione che consegue alla sopravvalutazione dell’elemento economico in un ambito essenzialmente politico com’è la guerra. Il discorso relativo è di un’ampiezza da non poter essere contenuto in un articolo. Sta di fatto che l’esito della guerra – salvo il “caso” ricordato da Clausewitz – dipende da una serie di fattori, fattori di potenza. Ossia idonei a far prevalere la propria volontà su altri, o, all’inverso, di non far prevalere quella degli altri sulla propria. Ambedue condizionate dall’obiettivo politico della guerra (o della pace). Nel caso più frequente alle volte conseguirlo esige di vincere (sul piano militare) la guerra, in altri di non perderla. Allo scopo i fattori di potenza (economico, militare, organizzativo, anche costituzionale) non è solo il primo. Anzi possono essere compensati da altri. Nella guerra dei sette anni, la Prussia, piccola ma dotata di un grande esercito guidato dal miglior generale dell’epoca – ed alleata ed aiutata dalla Gran Bretagna – riuscì a realizzare l’obiettivo di non soccombere ai tre più potenti Stati continentali dell’epoca: Francia, Austria e Russia, dotati di risorse economiche, finanziarie e demografiche superiori di circa 20 volte a quelle di Federico II. Nel XX secolo le guerre rivoluzionarie di liberazione – asimmetriche in sé – hanno mostrato come popoli colonizzati, poveri ed arretrati hanno raggiunto l’indipendenza dagli Stati colonizzatori, malgrado la disparità anche nei mezzi militari. Questo essenzialmente per il loro obiettivo politico (l’indipendenza), la determinazione nel perseguirlo nonostante danni e perdite, e la coesione realizzata allo scopo. Dalla parte dei colonizzatori, dove l’interesse economico era prevalente e richiedeva il controllo del territorio coloniale, il costo delle guerre si rivelò superiore ai benefici dell’occupazione (onde preferirono concedere l’indipendenza). Cioè opera in senso inverso alla logica economicistica e quantitativa. Logica che avrebbe avuto un ruolo sicuramente più ampio e di “successo”, in stato di pace. Per cui, dati i risultati delle sanzioni efficaci (cioè Pearl Harbour) c’è da augurarsi che, ai fini della pace, quelli delle sanzioni U.E. lo siano il meno possibile.

Teodoro Klitsche de la Grange

Media russi oggi, 25 aprile 2022, di gilbert doctorow

Come ho notato in precedenza, c’è una barriera tra ciò che i principali media occidentali riportano quotidianamente sulla situazione nella guerra Russia-Ucraina e più in generale sulla Russia rispetto a ciò che si vede alla televisione di stato russa e si legge nelle agenzie di stampa russe. Su consiglio di un collega a Washington, ora, con l’occasione che richiede, pubblico gli sviluppi delle notizie dalla Russia che il pubblico occidentale altrimenti non riceve, nonostante la loro importanza come indicatori di dove sono dirette le relazioni est-ovest e se è probabile che tutti noi sopravviviamo alla settimana prossima ventura.

La principale notizia di questo tipo in Russia oggi è la cattura riuscita da parte dell’agenzia di intelligence statale russa FSB di una banda di aspiranti assassini con sede a Mosca e che agisce agli ordini di Kiev di uccidere il principale conduttore di talk show russo Vladimir Solovyov, di cui io ho hanno scritto in queste ultime settimane. E la loro “lista delle vittime” ha continuato a coinvolgere altre personalità di spicco della televisione di stato russa: Dmitry Kiselyov (direttore di tutti i notiziari televisivi russi), Yevgeny Popov, Olga Skabeyeva e Margarita Simonian (direttore di RT).

La banda, che sembra essere composta da White Power e altri elementi neonazisti, è stata interrogata prima che le videocamere e i video fossero pubblicati su Internet russo dalla TASS e da altre agenzie di stampa statali.

Come ci si poteva aspettare, i media russi sono stati adeguatamente scossi da questa notizia. Ho colto la discussione sull’edizione pomeridiana di “The Great Game” di Vyacheslav Nikonov. I suoi relatori hanno visto questo “terrorismo” come una nuova fase nella guerra ibrida ucraina che viene gestita da Washington. I relatori hanno sottolineato che fino ad ora l’Occidente è stato molto fortunato che il presidente della Russia, Vladimir Putin, abbia mostrato grande tolleranza non rispondendo in modo gentile alla feroce guerra condotta da Washington, che rimane sempre un passo indietro rispetto alla guerra cinetica nell’errore convinzione che questi tipi di aggressioni siano a prova di acqua e si escludano a vicenda. I relatori hanno sottolineato che a un certo punto Putin risponderà davvero e la risposta sarà cinetica. Il messaggio è stato indirizzato ai signori Blinken e Austin, i quali, dopo l’incontro con Zelensky, ha affermato in una conferenza stampa al confine polacco-ucraino, che l’obiettivo degli Stati Uniti nell’intera questione della guerra ucraino-russa è quello di indebolire così tanto la Russia da renderla incapace di azioni simili in futuro. In un inglese semplice, quello che stanno dicendo è che l’ambizione degli Stati Uniti è quella di distruggere la Russia. Le mascherine sono state abbandonate.

Un altro elemento nelle notizie russe di ieri e oggi è stata la proiezione più volte al giorno di video girati negli Stati Uniti durante gli ultimi viaggi di Joe Biden attraverso il paese per vendere la sua narrativa sui travagli economici che l’America sta vivendo. Due discorsi separati si concludono con il voltarsi di Biden dal leggio e cercare di stringere la mano a qualcuno quando in realtà non c’è nessuno intorno a lui. Biden poi sembra perso e si ritira triste dal palco. 

Nikonov ha osservato che questi video non sono stati trasmessi dalle principali televisioni statunitensi, non sono stati riportati sulla stampa tradizionale. Il mio amico a Washington conferma che è così. Nel frattempo, il fatto del palese disorientamento di Biden è stato denunciato da Donald Trump un giorno fa – così almeno ha visto i video che i russi considerano indicativi della degenerazione mentale del presidente degli Stati Uniti e un segno della degenerazione dell’intera politica statunitense classe. Trump ha commentato che il disorientamento di Biden è qualcosa che il Paese non ha mai visto prima e che l’amministrazione Biden ha messo gli Stati Uniti sulla strada dell’inferno.

Dove finirà tutto questo? Non è diretto in una buona direzione

©Gilbert Doctorow, 2022

https://gilbertdoctorow.com/2022/04/25/russian-media-today-25-april-2022/

DAL PUNTO DI VISTA DI ZELENSKY, di Pierluigi Fagan

Considerazioni ed annotazioni come al solito valide e molto opportune. E’ sempre importante cogliere le determinanti dinamiche interne ad un paese; offrono gli spazi alle dinamiche geopolitiche e alle intrusioni esterne. Una chiave interpretativa essenziale che evita la comoda tentazione di attribuire sempre agli agenti esterni la responsabilità principale, se non esclusiva, di quanto avviene. Nella gran parte dei casi le élites interne hanno una capacità, una funzione ed una responsabilità essenziale che spesso e volentieri si elude, precludendo l’efficacia dell’azione politica. Buona lettura, Giuseppe Germinario
DAL PUNTO DI VISTA DI ZELENSKY. [Questo post è piuttosto lungo per i già lunghi nostri standard, ma è frutto di ricerche effettuate negli ultimi tempi, non è un post “teorico” è basato su diversi fatti. Se a qualcosa serve, potrebbe servire a saperne di più per capire di più.]
Avrete notato forse che Zelensky ha un preciso entourage e sono tutti mediamente giovani. Molti hanno studiato o lavorato in Gran Bretagna, qualcuno in America. Alcuni di loro zampillano dalle nostre reti televisive o in video on line e sono tutti dotati di capacità argomentativa non banale, sono molto decisi e cosa più importante, sono coordinati nel senso che sembrano usciti da una riunione di briefing in cui hanno condiviso tutti una unica linea. Si può ipotizzare esista una sorta di Zelensky & Partners, un gruppo coeso ed omogeneo di persone che condividono una precisa strategia politica per tenere il potere in Ucraina al fine di …?
Isoliamo questo soggetto collettivo, dimentichiamoci chi ha intorno come partner interessato (USA, UK, una parte dell’Europa orientale e dei vertici della burocrazia euro-unionista, l’oligarca Kolomoyskyi) concentriamoci sulle sue proprie ipotetiche intenzioni. Come forse saprete, questo gruppo è diventato un partito poco prima finisse la terza stagione della serie televisiva che vedeva Zelensky come protagonista. Si è presentato alle elezioni del 2019 e secondo quanto scriveva the Guardian tre anni fa quando ancora non eravamo arruolati (1) : … con “poche informazioni sulle sue politiche o sui piani per la presidenza, basandosi su video virali, concerti di cabaret e battute al posto della tradizionale campagna elettorale” ottenendo un insperato 30%.
La geografia del voto di questo primo turno, lo collocava al “centro”, sia geografico che politico. Ad ovest i nazionalismi di Poroshenko-Timoshenko, ad est i filo-russi confezionati in partiti apparentemente più di “sinistra”. Un gruppo di giovani ben intenzionati, con tecniche di marketing e comunicazione mediatica molto “occidentali” ha incarnato una possibile speranza. Sappiamo che questa speranza stava scemando prima del 24 febbraio, gli indici di gradimento della Zelensky e Partners (Z&P) erano in discesa e la rielezione fra due anni era data come improbabile.
Non credo si possa pensare che la Z&P fosse solo una associazione di potere ovvero un gruppo che ha tentato e vinto il vertice della tribolata nazione. Come detto sono “giovani” e rampanti e sembrano animati da ideali forti, giusti o sbagliati che siano, sembrano un gruppo di giovani europei occidentali e filo-anglosassoni che si sono paracadutati in un complicato e declinante paese ex sovietico. Per fare cosa?
L’UCRAINA PRIMA DELLA GUERRA: Prima dell’inizio della guerra, l’Ucraina era il 133° paese al mondo (quindi su 190 e poco più Stati) per pil pro-capite. In pratica, tra Guatemala ed El Salvador. Il peggior Paese dell’UE in questa classifica è la Bulgaria, 84°. Il risultato non cambia molto se usate il Pil PPP. A queste condizioni, l’Ucraina non sarebbe praticamente mai potuta entrare nell’UE. L’ammissione poi non avrebbe solo avuto a parametro questi indicatori quantitativi e su quelli qualitativi come trasparenza, corruzione, sostenibilità e prospettive, le cose sarebbero andate -se possibile- anche peggio.
Dal 2000 al 2021, l’Ucraina ha perso il 15% della sua popolazione per migrazioni, scarsa fertilità (la più bassa d’Europa) ed elevata mortalità tra gli anziani. È dal 1994 che l’Ucraina perde popolazione. Hanno anche perso la Crimea e forse potremmo metterci anche le due repubbliche popolari, sempre che non si debbano aggiungere abitanti dei vari territori che gli ucraini hanno già perso e continueranno a perdere nel proseguo del conflitto. L’ultimo censimento è ancora al 2000 e dichiarava 42 milioni di abitanti, ma altre stime più aggiornate (fatte dagli ucraini stessi) scendono fino a 32 milioni. Gli attuali 6 milioni di profughi, da vedere poi quanti di questi rimarranno fuori o rifluiranno verso casa, sarebbero ad occhio un altro -15% di popolazione in soli due mesi e sempre che si fermino qui.
Hanno anche la più alta percentuale di popolazione femminile in Europa dopo la Lituania e il secondo posto per tasso di mortalità dopo i bulgari. Molte donne quindi ma anche penosi indici di diseguaglianza di genere, 88° posto su 189 paesi secondo l’ONU . L’alto tasso di mortalità è dovuto alla congiura di diversi fattori quali l’inquinamento atmosferico dove c’è industria pesante, alcol, tabagismo, cattiva alimentazione, cattiva qualità del sistema sanitario nazionale.
Come saprete, la composizione etnica è mista con due poli, pienamente ucraina e tendenzialmente di cultura balto-slava europea all’estremo occidente, più russofona-fila all’estremo oriente. Il fiume Dnepr taglia in due il continuum ucraino e funge da separatore tra due diverse composizioni socio-demo su molti item.
A livello di criminalità, l’Ucraina è storicamente attiva la tratta di giovani donne avviate alla prostituzione in Europa mentre dai tempi della grande svendita degli asset militari sovietici dopo il 1991, è altrettanto attivo il traffico d’armi. Global Organized Crime Index nel rapporto 2021, quotava l’Ucraina come “il” o “uno dei principali” mercati d’armi in Europa, soprattutto piccoli e medi calibri e relative munizioni derivate dall’incessante flusso di armamenti proveniente dagli Stati Uniti da almeno venti anni. Armi ridistribuite al terrorismo e criminalità di mezzo mondo. È chiaro che l’attuale flusso proveniente soprattutto dall’Europa restia ad impegnarsi su armi di maggior peso, darà altro impulso al traffico. Quanto alla prostituzione e la tratta di esseri umani il problema è così vasto e profondo da meritare addirittura due specifiche pagine di Wikipedia.
Il rapporto 2013 del Dipartimento di Stato americano INCSR (International Narcotics Control Strategy Report) classifica l’Ucraina come uno degli hub chiave per il traffico di droga internazionale ed il primo hub per l’entrata in Europa di cocaina ed eroina tramite i porti di Odessa e Mariupol. La mafia ucraina è in solidi affari (armi, droga, donne) specie con la ‘ndrangheta calabrese.
Due anni di Covid con uno dei bassi indici assoluti di vaccinazione, hanno prodotto statistiche severe e gravi impatti sulla già claudicante economia e relativa organizzazione sociale.
Come segnalammo qualche post fa, l’Ucraina non era ritenuta un paese democratico dal the Economist nella sua speciale classifica condotta dal 2006. L’Ucraina era ritenuto il paese all’ 86° posto del Democracy Index, tra le Fiji ed il Senegal, qualificato come “regime ibrido” . Dal 2020, il Governo ha intrapreso una serrata lotta con la Corte costituzionale che ne limitava l’azione volta a porre leggi più rigide e severe, saltando però le cautele costituzionali. Complice la guerra, ha potuto arrestare e far sparire molta gente scomoda, silenziando i media non conformisti, mettendo fuori legge partiti nemici. La legge marziale è oggi prorogata almeno fino a fine maggio.
La diagnosi problematica è che l’Ucraina era sostanzialmente un paese fallito. Troppo grande, troppo poco popolato, troppo etnicamente disomogeno, troppo asimmetrico nei generi, troppo povero, strutturalmente troppo agro-industriale quando l’Occidente invece si è sviluppato nei servizi, troppo influito dai minacciosi vicini russi. Con troppi interessi di mezzo come nel sistema degli oligarchi tra cui un congruo numero di veri e propri delinquenti dediti al traffico di donne, armi e droga, tra l’altro spesso proprietari di vari mezzi di informazione. Un sistema del genere non aveva alcun futuro possibile e senz’altro nulla che potesse interessare il gruppo dei giovani Zelensky & Partners. Decennale e molto improbabile il processo necessario a riformarsi per entrare nell’UE. Che fare?
L’UCRAINA DOPO LA GUERRA? L’obiettivo strategico di Zelensky è stato dichiarato ai primi di aprile. Z. ha dichiarato l’obiettivo di far dell’Ucraina una “Grande Israele” (2) . Lasciate perdere il lato religioso del riferimento e concentratevi su quello geopolitico e strategico-economico. Israele è un paese non in pace, permanentemente all’erta contro nemici di circondario. Questo è un ottimo ordinatore interno perché semplifica la vita politica, quantomeno tutti gli israeliani sono uniti nell’idea di doversi difendere da vari nemici di circondario. La pratica dell’obiettivo prevede una militarizzazione importante della vita civile e soprattutto una chiara direzione di sviluppo dell’attività economica.
Questo ha fatto di Israele quello che un fortunato saggio americano del 2009 definì una “Start up Nation”. I primati tecnologici, di brevetto e sviluppo, di Israele nelle nuove tecnologie è universalmente riconosciuto e si ricordi che se queste attività partono da strategie militari, le ricadute civili sono anche importanti.
La stessa questione poco chiara dei bio-laboratori in conto terzi che già affollerebbero l’Ucraina disegna una possibilità di ospitare le forme di ricerca più avanzate ma anche più rischiose, ad esempio sull’A.I., un po’ come hanno tentato di fare i sauditi in cerca anche loro di un futuro, nel loro caso post-petrolifero. La ricerca avanzata in questi campi rischiosi da parte di USA, UK, Francia, Germania, ha bisogno di de-localizzare i rischi che non si possono correre nel proprio paese.
Gli investimenti militari e una mentalità orientata all’efficienza digitale, necessaria per qualunque guerra, potrebbero rappresentare lo stesso motore di innovazione per l’Ucraina, che già può contare su quattro “unicorni” – GitLab, Bitfury, People.ai e Grammarly – e su un ecosistema che è cresciuto di dieci volte negli ultimi cinque anni, passando a un valore complessivo di oltre 600 milioni di dollari e 146mila brevetti. Unit.city a Kiev è già oggi il più importante parco tecnologico dell’Europa orientale. Si tenga conto che questo posizionamento, è lo stesso occupato da dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia dalle tre repubbliche baltiche che, tra l’altro, son quelle che hanno registrato gli indici di crescita economica più importanti in Europa, negli ultimi decenni. Ma, come nel caso israeliano o delle repubbliche baltiche, questo tipo di sviluppo economico centrato sull’ICT, può reggere solo una demografia più giovane e contenuta di quella precedente.
L’UCRAINA IN GUERRA. La guerra, si sa, è un acceleratore. Nelle complesse transizioni storiche, la guerra ha svolto sempre il ruolo di “distruzione creatrice”, concentrare dinamiche disordinanti in poco tempo pagando con morti e distruzione materiale, una sorta di necessaria operazione senza anestesia, dolorosa ma necessaria.
Z&P si sono immediatamente mostrati pronti al conflitto e lo hanno gestito, certo anche aiutati, in modo davvero abile. Z&P avevano ed hanno bisogno della guerra per fare o far fare ai russi, operazioni di semplificazione dell’Ucraina. Rimpicciolire un territorio ingestibile e irriformabile. Chiarirne la composizione etnica rendendola omogenea. Diminuire la popolazione accettando la perdita di numeri per cessione territori ai russi e profughi scappati da tutte le parti. Servire la causa anglosassone sia di messa in profondo stress della Russia, sia della sua attuale dirigenza (Putin), sia di fargli usare la “tragedia ucraina” come perno per i regolamenti di conti nella battaglia di grande strategia tra bipolarismo e multipolarismo ottenendo in cambio protezione, gratitudine ed investimenti futuri per fare della martoriata Ucraina un caso di “futuro vincente” il che presuppone vari, futuri, piani Marshall. Ottenere in contropartita anche la necessaria spinta da parte americana verso la recalcitrante Europa, ad abbracciarne la causa al punto da comprimere i complessi passaggi per la piena entrata nella sfera europea che è l’obiettivo primario. Assorbire nel progetto i nazionalisti occidentali, distruggere l’ordito economico-sociale precedente, fare perno su una nuova classe militare forgiata in una guerra di resistenza e quindi potenziata in armi, logistica e potere.
Tutto ciò presuppone due cose sul campo. La prima è che gli ucraini sanno benissimo che perderanno formalmente la guerra coi russi al di là dei proclami, come si è lasciato sfuggire il noto gaffeur Boris Johnson rilevando quello che i suoi servizi e militari gli hanno spiegato a telecamere spente. Non è in discussione che l’Ucraina perderà o il sud-est o la parte ad est del Dnepr, si tratta solo di vedere come ed in che tempi. La seconda è che una guerra persa secondo i canoni normali di conteggio di territori persi, ordine perso, morti e distruzioni, può esser una guerra vinta se l’obiettivo è avere una Ucraina semplificata, compattata, assunta nell’alveo occidentale, velocemente, senza se e senza ma.
Non solo quindi la guerra sarà lunga, il tempo necessario a far pagare ai russi prezzi su prezzi sempre più alti come desiderato dagli sponsor anglosassoni, ma non finirà mai formalmente. La Nuova Ucraina in rampa di lancio per una modernizzazione 2.0 accelerata, avrà bisogno sia di ritenersi in “conflitto permanente”, sia di tenere attorno a sé i suoi preziosi alleati, sia internamente sospendere le normali convenzioni socio-politiche per procedere a tappe forzate verso la transizione di fase alla nuova terra promessa, la “Grande Israele”.
Mi rendo conto che questa è solo una articolata ipotesi, la questione -come vedete- è molto complessa, è sempre una questione di numero di variabili di cui tener conto e di come queste giocano assieme in un dato contesto di cui non si governano tutte le dinamiche, un gioco rischioso. Ma dietro ogni conflitto ci sono nodi e bisogno di scioglierli. Conosciamo forse la visione dei nodi dal punto di vista russo ed anglo-americano, da quello degli europei orientali e delle non perfettamente allineate tra loro élite di Bruxelles (Michel, von der Leyen, Borrell) e dei paesi europei occidentali, Francia e Germania in testa.
Ma sul campo giocano coi morti solo russi ed ucraini, capire la strategia di questi ultimi è indispensabile per capire meglio cosa succede e poter ipotizzare cosa succederà.

Grammatica del costituzionalismo, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

A.A.V.V., Grammatica del costituzionalismo, a cura di C. Caruso e C. Valentini, Il Mulino, Bologna 2021, pp. 338, € 24,00.

Occorre una premessa: il costituzionalismo di cui tratta questa raccolta di saggi non è una dottrina della costituzione quale connotato necessario dello Stato, cioè indipendentemente dalla natura del regime politico, come scrivevano tanti pensatori, a partire da de Bonald per arrivare a Santi Romano. Secondo i quali ogni Stato per il solo fatto di esistere è una costituzione; e se non l’avesse non verrebbe neanche ad esistenza. Ogni Stato così non ha ma è un ordinamento giuridico (Santi Romano).

Come chiariscono gli autori, se “tutti i paesi del mondo hanno una Costituzione, e cioè un regime politico ispirato a taluni principi fondamentali, solo alcuni di essi hanno norme giuridiche fondamentali che riproducono i valori del costituzionalismo”. E quindi un costituzionalismo “ideologico” basato sull’art. 16 della Dichiarazione “dei diritti dell’uomo e del cittadino, secondo cui «la società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata né la separazione dei poteri stabilita, non ha una costituzione» o, meglio, non ha una Costituzione ispirata alle idee e ai principi del costituzionalismo liberaldemocratico”.

Questo era stato rilevato da Carl Schmitt nella Verfassungslehre, che lo riconduceva al concetto ideale di Costituzione, in particolare allo Stato borghese onde “Nello sviluppo storico della costituzione moderna si è affermato un particolare concetto ideale con tale successo che dal XVIII secolo sono indicate come costituzioni solo quelle costituzioni che corrispondono alle richieste della libertà borghese e contengono determinate garanzie di questa libertà”. I principi fondamentali dello Stato borghese di diritto sono la tutela della libertà individuale e dei diritti conseguenti; la distinzione dei poteri – nel senso di Montesquieu – quale principio di organizzazione dello Stato. Questo non esaurisce il “contenuto” dello Stato di diritto: la preminenza della legge (e del principio di legalità); lo stesso concetto di legge come regola generale, astratta o misurabile; l’indipendenza dei giudici, il sindacato del Giudice sugli atti amministrativi, ne sono i corollari fondamentali.

L’insieme dei principi (e corollari) crea l’architettura costituzionale avente il comune denominatore e scopo nell’istituire dei limiti al potere. Distinzione dei poteri, controllo giurisdizionale, indipendenza dei Giudici, concetto borghese di legge sono i pilastri (e i tramezzi) che danno forma alla limitazione del potere pubblico, pur riconoscendone la necessità ed insostituibilità.

Ciò stante il lavoro degli autori del volume, così attento ed apprezzabile, appare implementabile nella trattazione dei suddetti pilastri e tramezzi. In particolare in relazione alla giustizia amministrativa, alla “parità” delle parti pubblica e privata, all’indipendenza delle Corti.

Nell’auspicio che sia seguito da un’edizione arricchita, se ne consiglia la lettura.

Teodoro Klitsche de la Grange

COME SI SVOLGERA’ LA FASE TRE DELLE OSTILITA’ IN UCRAINA?_di Roberto Buffagni

COME SI SVOLGERA’ LA FASE TRE DELLE OSTILITA’ IN UCRAINA?

 

Boris Johnson al “Financial Times”: “La Russia può vincere, mandiamo tank in Polonia”.

In vista del probabile successo della prossima offensiva russa e della conseguente neutralizzazione delle FFAA ucraine, i britannici, che hanno un ruolo di primissimo piano nella gestione delle ostilità, preparano la fase tre della guerra: finiti gli ucraini, facciamo entrare in campo i polacchi e i baltici.

La fase tre della guerra in Ucraina tra Russia, USA e NATO, si svolgerebbe così.

  1. La prossima offensiva, in cui la Russia impiega la sua superiore potenza di fuoco, neutralizza il grosso delle FFAA ucraine oggi fortificate nel Donbass. L’Ucraina non è più in grado di resistere efficacemente. Termina la fase due delle ostilità.
  2. Inizio della fase tre. Su richiesta di aiuto militare del governo ucraino (eventualmente rifugiato in esilio) al governo polacco e ai governi baltici, entrano in Ucraina truppe regolari polacche e baltiche, e un contingente di mercenari finti e veri. I mercenari veri sono forniti dalle aziende che forniscono contractors. I mercenari finti sono militari di paesi NATO che si dimettono dalle loro FFAA per non coinvolgere giuridicamente come belligeranti i propri paesi, e vanno a combattere senza mostrine. In Polonia si sta già raccogliendo un contingente che da quanto mi risulta conta già circa 120.000 uomini. Ingenti aiuti finanziari e materiali stanno affluendo in Polonia da USA e NATO.
  3. Il contingente polacco-baltico combatte i russi in Ucraina. I russi possono rispondere sul territorio ucraino, ma non possono colpire i centri di comando e logistici del contingente, situati in Polonia e nei paesi baltici, per non entrare in un conflitto diretto con la NATO.
  4. Le ostilità in Ucraina tra USA, NATO e Russia, combattute tra FFAA polacche e baltiche e FFAA russe, diverrebbero così interminabili, perché l’afflusso di truppe in Ucraina potrebbe continuare per anni, e la Russia non potrebbe colpirne la sorgente senza entrare in conflitto diretto con l’intera NATO.
  5. Lo scopo della fase tre delle ostilità sarebbe: aprire una ferita immedicabile nel fianco della Russia + isolarla politicamente + sfinirla economicamente con il costo delle ostilità che si aggiunge alle sanzioni. In sintesi: dissanguamento della Russia in vista della sua disgregazione politica.

La strategia occidentale sarebbe dunque provocare in Russia:

  1. Sfiducia della popolazione nei suoi governanti per l’alto costo umano e materiale della guerra, e l’assenza di una prospettiva credibile di sua conclusione favorevole.
  2. Crescenti dissensi all’interno del ceto dirigente russo, cristallizzarsi di una fazione capace di rovesciare l’attuale governo
  3. Risveglio e attivazione di forze centrifughe nelle repubbliche che costituiscono lo Stato federale russo, forze sempre latenti in una compagine multietnica, multireligiosa, multiculturale come la Federazione russa.
  4. “Regime change”. Rovesciamento del governo attuale, sostituito da un governo debole, incapace di opporsi con fermezza al processo di caotica disgregazione politica della Federazione russa, arrestandolo (v. punti precedenti).
  5. Disgregazione politica della Russia, che cessa di essere una grande potenza e viene così neutralizzata come nemico dell’Occidente.

Mi limito a sottolineare i più evidenti rischi di un eventuale SUCCESSO di questa strategia di frammentazione politica della Russia: chi si impadronirebbe dell’arsenale nucleare strategico russo? Quali paesi entrerebbero a occupare l’enorme vuoto geopolitico che si creerebbe? La Cina, per esempio, avrebbe l’assoluta necessità di garantire la sicurezza dei 4.500 km di frontiera con la Russia, e l’evidente interesse di appropriarsi delle ricchezze siberiane.

Ovviamente, l’attuazione di questa strategia, coronata o meno da successo, implicherebbe la riduzione dell’Ucraina a campo di battaglia permanente, con l’annichilimento della sua economia, il dilagare dell’anarchia e della criminalità, e un deflusso imponente di milioni di profughi. L’Ucraina diverrebbe una espressione geografica abitata dal caos.

Da quel che sono riuscito a capire dalle varie fonti primarie e secondarie consultate, il governo russo è persuaso che la strategia politico-militare occidentale sia questa che ho appena delineato: in sostanza, la replica ai danni della Russia del processo che condusse alla disgregazione politica della Jugoslavia. Penso che anche la popolazione russa se ne stia persuadendo, sia per l’effetto della propaganda governativa russa, sia, soprattutto, per la sconsiderata demonizzazione del popolo e dell’intera cultura russa messa in atto dai paesi occidentali, il cui evidente sottotesto è “voi russi siete disumani e meritate solo di essere distrutti e rieducati”.

Se questo è vero come credo, per la Russia la posta in gioco è letteralmente la sopravvivenza. Sopravvivenza dell’integrità politica e territoriale della Federazione russa, sopravvivenza della continuità storica e culturale della Russia, e, per finire, sopravvivenza personale dei componenti l’attuale governo e dei suoi sostenitori che non lo tradiscano. Ne consegue che la Russia si difenderà impiegando tutte le sue risorse materiali e morali: dichiarazione formale di guerra all’Ucraina, legge marziale, mobilitazione dei riservisti e coscrizione di massa, economia di guerra, se necessario impiego dell’arsenale atomico tattico e strategico; disponibilità a rispondere a un allargamento del conflitto alla NATO e agli Stati Uniti, eventualmente a provocarlo se costrettivi dalle necessità militari.

La prospettiva che ho delineato non è una certezza: è una possibilità, ma una possibilità nient’affatto improbabile coeteris paribus, ossia se non intervengono fattori di mutamento significativi nella situazione politico-militare: ad esempio, un fallimento dell’offensiva russa così completo da indurre il governo russo a cessare le ostilità, o una rottura del fonte politico occidentale.

Ritengo estremamente improbabile che la Russia incontri un fallimento militare così catastrofico da indurla a cessare le ostilità: sia per le risorse di cui dispone, sia per l’entità della posta politica in gioco: la cessazione delle ostilità in seguito a sconfitta sul campo destabilizzerebbe il governo russo, probabilmente provocandone la sostituzione con un governo revanscista.

Il fronte politico occidentale può essere rotto solo da un paese europeo importante, come Francia, Germania o Italia. Se uno di questi paesi adottasse, nel proprio interesse nazionale e nell’interesse dell’Europa tutta, la linea scelta dall’Ungheria di Orbàn, sarebbe estremamente difficile, per non dire impossibile, attuare la strategia di destabilizzazione e disgregazione politica della Russia.

Avverrà?

Le probabilità sono scarse, ma la possibilità c’è. Già ora Francia e Germania cominciano ad accorgersi del danno devastante che subirebbero applicando alla lettera le sanzioni che hanno pur votato. La Germania si rifiuta di inviare “armi offensive” all’Ucraina, per evitare la classificazione di “cobelligerante” (il diritto internazionale permette di inviare “armi difensive” senza divenire cobelligeranti del paese destinatario). Nelle Cancellerie europee, insomma, qualcuno comincia a riflettere sulle decisioni sconsideratamente prese nell’immediato, senza valutarne le gravi e anche gravissime conseguenze, sotto la pressione americana e per un riflesso condizionato del moralismo ideologico ufficiale condiviso dalle classi dirigenti UE.

Speriamo.

 

https://t.me/intelslava/26477

 

 

GUERRA EUROPEA. PROSSIMA FERMATA: SARAJEVO_di Antonio de Martini

Lo stiamo anticipando da oltre un anno. Buona lettura, Giuseppe Germinario

COME SI FA A FAR MONTARE LA TENSIONE SPERANDO IN UNA NUOVA GUERRA: DUE STUPIDI E UN PRETESTO

Certo, serve un mascalzone come innesco, ma é presto trovato nell’ex diplomatico ( alla Di Maio) e ” professore” di Scienze politiche NEDZMA DZANANOVIC che ha dichiarato ” Questa crisi può essere l’occasione per la UE di liberarsi della influenza russa in Bosnia”.

C’é stata tensione in Bosnia il 6 aprile scorso , trentesimo anniversario dell’inizio della guerra e scontri – per ora verbali- tra le opposte fazioni.

La materia del contendere é risibile : il leader nazionalista serbo-croato Milorad Dodic ha però gettato benzina sul braciere minacciando la secessione.

A sinistra Milorad Dodic sopra Valentin Inzko.

Gli accordi di Dayton del 1995 – Clinton consule- hanno infatti diviso il paese in due entità federali , una

Repubblica Srpska e la Federazione Croato-bosniaca collegate da una amministrazione centrale, ma non da una comune memoria degli eventi. Lo scopo sarebbe quello di ” armonizzare” le tre comunità presenti sul territorio: I Croati ( Cattolici), i Bosniaci mussulmani e i Serbi, ortodossi.

Avevano convissuto sotto la guida del Maresciallo Tito ( Josip Broz) per mezzo secolo fino a che la segretaria di Stato USA Madeleine Allbright– nelle sue memorie dice che fu per vendicare il padre, diplomatico- non seminò zizzania fino allo scoppio del conflitto.

Il secondo stupido é, manco a dirlo, l’alto commissario internazionale della UE Valentin Inzko che per dipanare la matassa delle liti tra ex combattenti delle due parti, a luglio scorso, ha emanato un decreto ( in forza dei poteri discrezionali conferitigli dall’”accordo” di Dayton) che proibisce di negare l’olocausto di Szebrenica ( ottomila maschi morti é un crimine orrendo, ma chiamarlo olocausto può essere considerata una forzatura).

Il nuovo Alto rappresentante – Christian Schmidt– sta sottovalutando la possibilità che, in vista delle elezioni di ottobre, la minaccia secessionista serba crei un nuovo focolaio di guerra.

Ricordo , solo per inciso che in loco, a protezione della minoranza serba e dei numerosi monumenti della cristianità ortodossa ( che sono l’area costituente della nazionalità serba affermatasi nei secoli dopo la battaglia di Kosovo celebrata da D’Annunzio) giacciono di sentinella oltre duemila militari italiani e che, fino al 24 febbraio scorso, gli esperti sostenevano che anche in Ucraina non sarebbe successo niente.

Intanto, ammaestrati dall’esperienza ucraina, gli abitanti della Bosnia Erzegovina, quale che sia la loro religione, fanno la fila agli sportelli di cambio per trasformare i loro marchi ( moneta locale) in Euro e , se possono prendono la via dell’esilio preventivo.

https://corrieredellacollera.com/2022/04/21/guerra-europea-prossima-fermata-sarajevo/

 

L’energia non è una merce, ma una infrastruttura pubblica_di Davide Gionco

L’energia non è una merce, ma una infrastruttura pubblica
Tutti i danni che subiamo dalle privatizzazioni nel mercato dell’energia
Davide Gionco
21.04.2022

L’acqua, le infrastrutture pubbliche e l’energia
Nel 2011 gli italiani votarono a larga maggioranza (95,8%) a favore del referendum per il mantenimento del controllo pubblico sui servizi idrici.
La maggioranza degli italiani aveva capito che l’acqua è un bene comune fondamentale, senza del quale non possiamo vivere, la cui disponibilità non può dipendere dagli interessi economici di soggetti privati.
Senza acqua non possiamo sopravvivere come esseri umani e non possiamo produrre il cibo che mangiamo. Senza acqua molte aziende dovrebbero fermare la loro produzione, non avremmo il turismo, non avremmo i servizi pubblici. Senza acqua non potremmo neppure produrre energia elettrica tramite la combustione di gas, idrocarburi o carbone.
Se venisse a mancare l’acqua in un certo territorio del paese, quel territorio si spopolerebbe in brevissimo tempo, obbligando gli abitanti ad emigrare verso altri territori.
La disponibilità di acqua è un bene comune, una infrastruttura fondamentale da cui dipende la vivibilità e la sostenibilità economica del nostro Paese.

Analogamente alla disponibilità di acqua, un paese moderno non può sussistere senza disporre dell’accesso comune, a prezzi abbordabili, ai prodotti alimentari fondamentali, ad una rete stradale, ai servizi sanitari, all’istruzione di base, alle telecomunicazioni.
L’accessibilità ai servizi energetici, intesi come disponibilità di energia elettrica e come disponibilità di combustibile per produzione di energia termica, è con ogni evidenza una questione fondamentale per la sussistenza del nostro paese.
Senza energia, infatti, non possiamo garantire livelli di comfort accettabili nelle abitazioni, ma soprattutto non possiamo garantire la produzione di beni e servizi di cui abbiamo bisogno per vivere, dalla produzione di cibo, ai servizi sanitari, alla scuola, alla sicurezza, alle costruzioni, ecc.

La lungimiranza dei politici della Prima Repubblica
La classe politica che guidò l’Italia nel secondo dopoguerra, portandola dalle rovine della guerra al miracoloso boom degli anni ’60-’70, aveva le idee molto chiare riguardo al ruolo fondamentale delle infrastrutture pubbliche nello sviluppo del Paese.
A titolo esemplificativo richiamiamo le motivazioni espresse nel 1962 (“Nota aggiuntiva”) da Ugo La Malfa riguardo alla creazione dell’ENEL (Ente Nazionale per l’Energia Elettrica), tramite la nazionalizzazione di 11 aziende private del settore.
Il problema di fondo da risolvere era in primo luogo che le 11 aziende private miravano unicamente a realizzare i propri profitti, per cui tendevano a creare degli oligopoli o addirittura dei monopoli, per poi massimizzare i prezzi di vendita, non avendo gli acquirenti privati delle alternative. E questo fattore risultava penalizzante per la competitività delle aziende che si trovavano obbligate a pagare prezzi troppo elevati per l’energia elettrica.
In secondo luogo quelle aziende private del settore elettrico non avrebbero mai esteso il servizio alle zone più arretrate del Paese, in quanto non redditizio per i loro bilanci. Ma nessuno sviluppo economico delle aree arretrate del Paese sarebbe mai stato possibile senza avere accesso alla rete elettrica.

La soluzione ovvia, per la lungimirante classe politica del tempo, fu l’acquisizione di quelle aziende private e la loro nazionalizzazione. Dopo di che vi fu un piano nazionale di investimenti, con la realizzazione delle linee ad alta tensione, dei collegamenti con le nazioni estere e, infine, la decisione del 1967 di mettere l’ENEL sotto la sorveglianza diretta del CIPE (Comitato Interministeriale di Programmazione Economica), di concerto con il Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato.

Era chiaro a tutta la classe dirigente del tempo che l’energia elettrica non era una merce come tante altre, che poche aziende private potevano vendere per realizzare i propri profitti. Tali profitti, infatti, sarebbero stati ben poca cosa rispetto ai danni economici per mancata crescita causati all’intero Paese.
Il fatto di garantire a tutti, su tutto il territorio ed ad un prezzo “politico”, uguale per tutti e non esposto alle (inevitabili) manovre speculative dei rivenditori privati era un requisito fondamentale affinché decine di migliaia di imprese private potessero sviluppare la loro capacità di produrre beni e servizi di ogni genere.
La decisione del 1962 fu probabilmente fra le più determinanti per innescare l’incredibile boom economico italiano degli anni 1960.

Per ragioni del tutto analogo Enrico Mattei rifondò l’ENI stringendo tutta una serie di accordi internazionali, che consentirono all’Italia di approvvigionarsi di petrolio in modo continuo ed a prezzi controllati, senza essere esposti alle azioni speculative delle famose “sette sorelle” del petrolio (Exxon, Mobil, Texaco, Socal, Gulf, Shell, BP). Con molta probabilità questa azione fu la causa principale della morte in dinamiche mai chiarite dello stesso Mattei. Con la stessa logica i successori di Mattei alla guida dell’ENI stipularono accordi per la fornitura di gas con la Russia, con l’Algeria e con la Libia. L’obiettivo era sempre lo stesso: assicurare all’Italia un adeguato approvvigionamento di energia a prezzi abbordabili.

Il fondamento teorico di questa visione politica furono con ogni probabilità le pubblicazioni dell’economista Paolo Sylos Labini, il quale nel suo libro del 1956 “Oligopolio e progresso tecnico” spiegava come l’esistenza di poche imprese oligopoliste su fattori produttivi chiave, come ad esempio la distribuzione di energia, potesse di fatto impedire lo sviluppo di molte altre aziende. La soluzione proposta è che fosse lo Stato a prendere il controllo delle aziende distributrici di energia, in modo da eliminare l’obiettivo del massimo profitto e finalizzandole a garantire a tutti la fornitura di base dell’energia.

Non il prezzo più basso, ma prezzi stabili e approvvigionamento certo
Siccome il mercato internazionale dell’energia, in particolare del petrolio (dato che l’Italia decise presto di svincolarsi dal carbone) è sempre stato soggetto a speculazioni e fluttuazioni in conseguenza di cambiamenti geopolitici, ENEL ed ENI avevano il mandato di operare, per quanto possibile, per garantire prima di tutto l’approvvigionamento certo di energia, fondamentale per non rischiare l’arresto delle attività produttive. Il secondo obiettivo, per quanto possibile, era quello di garantire prezzi il più possibile stabili. Tale obiettivo era importante, perché anche le eccessive fluttuazioni dei prezzi dell’energia possono creare dei problemi al settore produttivo. Infatti l’eccessiva fluttuazione del costo dell’energie rende difficile la determinazione dei costi di produzione e, quindi, anche la pianificazione industriale.
Questo significa che, a livello politico-economico, è meglio per le industrie avere un prezzo dell’energia mediamente un po’ più altro, ma stabile, piuttosto che un prezzo dell’energia fortemente altalenante, anche se mediamente inferiore.
Per questo motivo l’ENI, che si occupava dell’approvvigionamento di energia primaria, tendeva a stipulare con i soggetti esteri dei contratti di fornitura di 20-30 anni, a prezzi concordati.
Questo tipo di contratti, peraltro, risultavano convenienti anche per i fornitori esteri, i quali potevano essere certi di ammortizzare i loro investimenti, come ad esempio quelli necessari per realizzare un gasdotto di 4000 km dalla Siberia settentrionale all’Italia.

I geni dell’Unione Europea e le liberalizzazioni
Fatte salve le eccezioni del 1974 (crisi energetica causata dalla guerra del Kippur) e del 1979-80 (crisi energetica causata dalla rivoluzione in Iran e poi dalla guerra Iran-Irak), nelle quali le oscillazioni dei prezzi dell’energia furono inevitabilmente scaricate sugli utilizzatori, il meccanismo dell’energia pubblica a prezzo controllato ha dimostrato di funzionare bene per diversi decenni.

Dopo di che, nel 1992, l’Italia sottoscrive il Trattato di Maastricht di istituzione dell’Unione Europea ed i successivi trattati che hanno via via ceduto sempre più poteri alle istituzioni europee.
Le prime richieste, già degli anni ’90, messe in atto convintamente da personaggi dal nome di Romano Prodi e Mario Draghi, furono quelle di privatizzare le grandi compagnie energetiche nazionali.
Tutto questo senza grandi analisi economiche, ma sulla base dell’assioma neoliberista per cui “privato è più efficiente e costa meno”.
Da quel momento ENI ed ENEL pensarono sempre di meno a garantire energia a prezzo controllato a cittadini e imprese in Italia e sempre di più a realizzare utili per i propri azionisti, come tutte le altre multinazionali del mondo.

Non stiamo dicendo che, quando ENI ed ENEL erano pubbliche, non ci fossero sprechi ed inefficienze. Ma stiamo dicendo che, come la storia ha dimostrato, gli obiettivi “statutari” di garantire l’approvvigionamento di energia a tutti gli italiani ed a prezzi controllati venivano assicurati, senza ridurre sul lastrico delle famiglie e senza portare alla chiusura le fabbriche a causa di un eccessivo aumento dei costi dell’energia.

L’aumentare del grado di privatizzazione nel settore dell’energia ha portato dapprima alla moltiplicazione del numero di rivenditori, portando in Italia non alla riduzione dei prezzi, ma soprattutto ad una riduzione della trasparenza nel settore, con la moltiplicazione di truffe e dei contratti-capestro venduti telefonicamente ad ignari consumatori e responsabili di piccole imprese, che non potevano essere specialisti di contratti energetici.

Il livello di privatizzazioni ha raggiunto il suo culmine la scorsa estate 2021, con l’attualizzazione della finanziarizzazione del mercato europeo del gas naturale.
Da allora il prezzo di vendita al dettaglio del gas non viene più determinato dai prezzi dei contratti di fornitura a lungo termine sottoscritti dall’ENI (o società omologhe di altre nazioni) con Russia, Algeria & c., ma dalle contrattazioni giornaliere presso la borsa TTF (Title Transfer Facility) di Amsterdam, dove centinaia di soggetti privati scambiano quantitativi virtuali di gas, con liquidazione attuale o differita (futures).

Il risultato di queste “riforme” non è stata la diminuzione del prezzo del gas in Europa, ma è stato un aumento medio del prezzo unito a fortissime oscillazioni del prezzo.

Le conseguenze del provvedimento europeo, dopo un anno di “liberalizzazioni”, dovrebbe portare immediatamente a fare retromarcia, essendo evidente che le dinamiche della finanza speculativa si adattano molto male ad un mercato fatto di rigidità strutturali come quello del gas naturale.
Ma non lo faranno, perché probabilmente l’obiettivo delle lobbies finanziarie che la fanno da padrone negli uffici di Bruxelles era proprio l’aumento delle rendite finanziarie nel settore dell’energia. Le rendite finanziarie vengono garantite sia dagli alti prezzi, sia dalle frequenti fluttuazioni dei prezzi.
Per questi soggetti l’energia è una merce come tante altre, mentre per cittadini ed imprese è quasi come l’aria che respiriamo, di cui non possiamo fare a meno.

I contratti oil-link e gas-to-gas
Per spiegare le ragioni delle disfunzionalità delle liberalizzazioni europee nel mercato dell’energia, in particolare del gas naturale, dobbiamo prima di tutto comprendere le tipologie di contratti di acquisto del gas naturale.
Siccome oltre il 40% dell’energia elettrica prodotta in Italia è generata dalla combustione di gas naturale, il prezzo del gas naturale incide direttamente sul prezzo dell’energia termica (riscaldamento, produzione industriale), sia indirettamente, causando un aumento del prezzo dell’energia elettrica.

La quasi totalità del gas naturale importato in Italia è acquistato all’ingrosso da 3 operatori: ENI, Enel ed Edison. Questi operatori hanno stipulati dei contratti a lungo termine (durata 20-30) per grandi quantitativi di gas. Vengono definiti “oil-link” in quanto generalmente il prezzo di acquisto del gas è modulato in funzione dell’andamento del prezzo del petrolio (oil in inglese).
La caratteristica più importante di questi contratti non è solo la relativa stabilità del prezzo, ma è il fatto che gli ordinativi di grandi quantità di gas vengono fatti tenendo conto delle previsioni di consumo dell’Italia (famiglie, imprese e produzione di energia elettrica) e tenendo conto delle possibilità di stoccaggio del gas in Italia. I fornitori esteri, per il fatto di utilizzare condotte del gas di un certo diametro, hanno una capacità di punta di consegna del gas limitata, quindi prevedono la consegna anticipata del gas durante i periodi a bassa domanda (primavera, estate, autunno) in modo da fare fronte alla domanda di picco invernale. Un’altra caratteristica di questi contratti è il “take or pay” ovvero che il gas ordinato deve essere pagato, anche se poi non ne viene richiesta la consegna, per il fatto che il fornitore non può garantire di essere in grado di consegnare la stessa quantità in seguito, a causa dei limiti di capacità dei gasdotti.
Il concetto di fondo di questi contratti è la pianificazione, la quale consente di ottimizzare l’uso degli impianti sia lato paese fornitore, sia lato paese consumatore, nonché di tenere abbastanza sotto controllo i prezzi.
Pianificazione è ciò che è necessario per assicurare ad un paese di 60 milioni di abitanti, famiglie e industrie, il necessario approvvigionamento di energia.

Questo tipo di contratti sono stati la norma dagli anni ’70, con le prime forniture di gas dall’estero, fino allo scorso anno 2021. Dopo di che l’Unione Europea ha “liberalizzato” il mercato del gas naturale, consentendo a molti piccoli soggetti di stipulare dei “mini-contratti” di acquisto di gas, con il prezzo di acquisto slegato dal prezzo del petrolio e per questo denominati “gas-to-gas”.
Il prezzo di acquisto del gas viene quindi stabilito dal fornitore sulla base degli ordinativi che riceve.
Il prezzo di vendita del gas sul mercato europeo viene deciso dalle contrattazioni giornaliere presso la sopra citata borsa TTF di Amsterdam, con il meccanismo del prezzo marginale.
In sostanza, nelle regole di incontro fra domanda e offerta, i prezzi di vendita del gas vengono gradualmente aumentati fino a soddisfare tutta la domanda di gas, dopo di che il prezzo della “quota finale” di gas venduta per soddisfare la richiesta degli ultimi acquirenti di gas viene utilizzato come prezzo di vendita di tutto il gas.
Facciamo un esempio per spiegare meglio: se il 50% del gas viene acquistato dai venditori a 25 €/MWh e poi un altro 45% al prezzo di 50 €/MWh e infine il restante 5% viene acquistato al prezzo di 75 €/MWh, tutto il gas messo in vendita viene prezzato a 75 €/MWh, consentendo grandi utili a chi lo ha acquistato a 50 €/MWh e ancora di più per chi lo ha acquistato a 25 €/MWh.
Fra i venditori di gas non ci sono soltanto i produttori (Gazprom & c.), ma ci sono anche tutti gli investitori che hanno acquistato precedentemente gas ad un prezzo inferiore che ora lo rivendono ad un prezzo superiore.
Così come fra gli acquirenti di gas non ci sono soltanto coloro che poi lo distribuiscono a famiglie e imprese, ma ci sono anche coloro che lo acquistano oggi, per poi rivenderlo a domani ad un prezzo superiore.
E, come sempre avviene nei mercati finanziari, ci sono coloro che guadagnano sulle vendite allo scoperto e sui futures, scommettendo sulle variazioni future dei prezzi del gas.

Data la possibilità di realizzare grandi utili finanziari, la domanda di gas verso i pochi produttori di gas reale è stata “drogata” dalla stipula di moltissimi contratti a breve termine, definiti contratti “spot”, della durata di poche settimane o addirittura di un solo giorno.
Lo scopo di questi contratti non è garantire l’effettiva consegna di gas agli utenti finali, ma unicamente realizzare dei profitti finanziari.
Quindi, senza la minima pianificazione, i produttori di gas hanno ricevuto dei contratti di acquisto di gas “spot” che non tenevano per nulla conto della capacità di consegna fisica del prodotto.
Di conseguenza hanno fissato dei prezzi di vendita molto elevati, sia per fare maggiori utili, sia per scoraggiare questo tipo di contratti totalmente disfunzionali per il loro mercato.
Anche perché in questi contratti di breve termine “gas-to-gas” non esiste l’impegnativa al ritiro della merce, se non viene pagata.
Il risultato è stato che questi prezzi “marginali” relativi a contratti di ordinativi di gas “teorici”, gas che in molti casi non è mai stato né pagato né consegnato, hanno determinato il prezzo marginale del gas naturale nella borsa di Amsterdam e, quindi, il prezzo di vendita del gas a livelli mai visti sul mercato europeo.
Naturalmente le incertezze sulle future forniture di gas, a causa del conflitto in Ucraina e delle sanzioni europee alla Russia, hanno ulteriormente esasperato queste dinamiche che erano in atto già a partire dalla scorsa estate.

Per chi fosse interessato ad approfondire ulteriormente la questione consigliamo la lettura di questo articolo.

I danni causati all’economia italiana
Queste disfunzionalità derivanti dal cambiamento dei metodi di quotazione del gas in Europa hanno già causato e stanno causando danni immensi all’economia italiana.
Stiamo parlando di un “furto”, tutt’ora in corso, del valore di alcune decine di miliardi di euro a carico delle nostre famiglie e delle nostre imprese.
Alcune imprese particolarmente energivore (acciaierie, fonderie, vetrerie, ceramica, cemento, legno e carta) hanno già ridotto o addirittura arrestato la produzione, in quanto con questi prezzi dell’energia non sono in grado di produrre a prezzi che i loro clienti possano sopportare.
Questo ci costa fin d’ora un aumento della disoccupazione.

Il rincaro del gas naturale e dell’energia elettrica (prodotta bruciando gas) ha già portato ad un aumento considerevole dei prezzi al consumo, così come alla riduzione dei margini di guadagno di moltissime imprese.
Non essendoci le condizioni per un aumento dei salari, questo porterà ad un aumento della povertà in Italia (oltre agi attuali 5 milioni di poveri assoluti).

Ma i danni peggiori ci arriveranno dalla mancanza di pianificazione.
Stanti gli attuali alti prezzi di acquisto del gas e stante la perdita di quote di mercato da parte dei grandi distributori storici, come ENI, in questo momento nessuno ha interesse ad acquistare gas a prezzi elevati per immagazzinarlo in vista del prossimo inverno.
Il rischio reale è che il prossimo inverno ci ritroviamo con scorte insufficienti di gas, perché non ce ne sarà abbastanza per soddisfare la domanda di punta del prossimo inverno.
A quel punto Mario Draghi, per coprire il misfatto, ci dirà che “abbiamo deciso” di applicare delle sanzioni alla Russia per la guerra in Ucraina, per cui dovremo “fare sacrifici” e rinunciare ad una parte rilevante (20-25%) delle forniture di gas, per “punire Putin”.
Questo mentre in realtà la vera causa della carenza di gas del prossimo inverno saranno le dinamiche speculative e prive di pianificazione del mercato del gas europeo.

Il risultato, inevitabile, sarà un ulteriore aumento dei prezzi del gas in Italia, questa volta a causa della scarsa disponibilità di fronte alla domanda. Il tutto unito al razionamento del gas, per cui molte imprese dovranno forzatamente ridurre la propria produzione e licenziare del personale.
Lo stesso avverrà con l’energia elettrica, dato che con la scarsa disponibilità di gas sarà necessario razionare anche l’energia elettrica (prepariamoci a delle interruzioni periodiche), oltre al fatto che la pagheremo a prezzi mai visti.

Tutto questo lo scriviamo ora, che siamo ancora in tempo a cambiare le regole di determinazione dei prezzi e per reintrodurre dei criteri di pianificazione nelle forniture di gas.
Che qualcuno intervenga, prima del disastro nel nostro Paese, a preservare l’infrastruttura pubblica che è l’energia.
Le autorities dell’energia o  la Magistratura.

UCRAINA. LA GENESI DI UNA POLITICA DI AGGRESSIONE E I SUOI IDEATORI_ di Antonio de Martini

UCRAINA. LA GENESI DI UNA POLITICA DI AGGRESSIONE E I SUOI IDEATORI.

I DUE UOMINI CHE HANNO DIFESO L’IMPERO BRITANNICO ORA SONO I SUGGERITORI DELLA POLITICA USA.

La parte dell’opinione pubblica mondiale più sensibile alla propaganda si chiede perché mai l’Ucraina sia stata brutalmente attaccata dalla Russia. La parte più critica dell’opinione si chiede come mai sia successo.

Ventimila, forse, persone al mondo fanno risalire l’iniziativa agli Stati Uniti e di queste non più di diecimila conoscono le ragioni che hanno indotto il governo Usa ad un gesto tanto intriso di disperata audacia e probabilmente meno di duemila, non addetti ai lavori, conoscono quale meccanismo sia stato usato come intelaiatura dell’aggressione. Meno ancora ne conoscono la storia, che inizia nel 1898 con un uomo che Churchill definì “a man of no illusions”: Alfred Milner; e continua con un ammiraglio, capo dell’SIS ( secret intelligence service), l’ammiraglio Hugh Sinclair , morto il 4 novembre 1939 nome in codice Quex.

Naturalmente in questa, come in ogni mia descrizione, non offro considerazioni di carattere etico, prassi alla quale credo sempre meno e invito chi abbia a cuore la morale nei rapporti tra stati a passare oltre.

IL PRIMO

Alfred Milner, di padre inglese, nacque e studiò in Germania fino all’università. Gli rimase per tutta la vita un accento tedesco che lo spinse a mostrarsi più patriota degli altri e divenne un ” public servant”. Diventato giovanissimo governatore del Sud Africa britannico quando l’impero inglese, perse le speranze di assorbire pacificamente le due repubbliche boere ( Stato libero di Orange e la Repubblica del Sud Africa) che possedevano il Transvaal, (l’oltrefiume Vaal) che aveva avuto la ventura di avere nelle sue viscere la più grande vena aurifera mai trovata nel continente, nel 1867, decise l’aggressione.

Falliti i tentativi di assorbimento ” con le buone” , immigrazione massiccia inclusa, gli inglesi sarebbero passati alle maniere forti immediatamente, ma un forte movimento pacifista in patria, era di ostacolo, dato che la pubblica opinione capiva la “missione civilizzatrice” del’Inghilterra coi neri, ma i boeri erano bianchi e olandesi di origine e assalirli fu considerato un crimine e provocò polemiche violentissime pro e contro Paul Kruger, rustico presidente dei boeri, descritto come un macellaio.

Il giovane governatore si chiese se il movimento pacifista ( capitanato dalla sorella di un ufficiale destinato a diventare il comandante delle truppe inglesi in Francia nella prima guerra mondiale) avrebbe cambiato atteggiamento se i boeri avessero sparato il primo colpo e decise di giocarsi la carriera su questa carta.

In un messaggio ” Very secret” chiese ai suoi capi in Inghilterra ” Will not the arrival of more ( British ndr) troops so frighten the Boers that they will take the first step and rush part of our territory?”

Facendo questo, ” they would put themselves in the wrong and become the aggressors“.

Londra approvò e spedì di rinforzo oltre a un paio di battaglioni, nientemeno che il più famoso bardo dell’epoca Rudyard Kipling che per l’occasione, coi suoi reportages convinse l’opinione pubblica e coniando espressioni rimaste nella storia e nella letteratura, come ” il fardello dell’uomo bianco” ( che poverino deve amministrare gli incapaci..) e ” a est di Suez” espressione storica globale anch’essa.

I due battaglioni furono fatti sfilare minacciosamente alle frontiere più e più volte, fino a che il rustico Presidente Kruger abboccò vedendo il verme ma non l’amo, e attaccò.

Per vincere la guerra Milner si inventò anche i campi di concentramento, per facilitarsi il controllo dei civili boeri ( a volte dimenticando di nutrirli) e i Boy scout ( idea trovata buona dalla religione cristiana e diffusa in tutto il pianeta) che furono i primi bambini-soldato al mondo anche se addetti prevalentemente alla messaggistica e ai collegamenti.

Nessuna meraviglia se la prima guerra mondiale lo troverà a capo di gabinetto del premier e amante della di lui nuora.

l’Inghilterra aveva imparato a schivare l’ira dei pacifisti e a trasformarla in energia patriottica. Lo Zar di Russia, inviò un corpo di volontari a difesa dei Boeri e questa non é – come vedete- la sola somiglianza tra la campagna d’Africa di Milner e la guerra in atto in Ucraina.

IL SECONDO

L’Ammniraglio Hugh Sinclair era a capo del Secret Intelligence Service dal 1923, quando, prima dell’incontro di Monaco e un anno prima di morire fu chiamato da Neville Chamberlain , all’epoca era il primo ministro, ” asking Admiral Sinclair for a paper on what Britain should or could do to restrain Hitler without war”.

Nella foto accanto: il frontespizio di uno studio della Rand Corporation datato gennaio 2020 opera delle signore Stephanie Pezard e Ashley L. Rhoades della Rand Corporation , di 27 pagine che riecheggia fin dal titolo quanto meno lo spirito documento SINCLAIR britannico.

Della serie , come diceva Salvador Dalì, che ” tutto ciò che non é tradizione é plagio”.

Il documento, dal titolo ” What we should do” fu recapitato a Chamberlain il 18 settembre ( undici giorni prima dell’incontro di Monaco con Hitler).Il documento, fu redatto Da Sinclair, il suo vice, Menzies ( che doveva succedergli due mesi dopo la dichiarazione di guerra, il maggiore Malcom L Woollcombe ( capo della sezione politica)e forse il suo vice David Footman ( che risultò poi amico intimo di Guy Burgess , spia del KGB e quindi potrebbe essere stato trafugato. Perciò nel dopoguerra lo divulgarono eccezionalmente agli studiosi).

Inutile elencare tutto il documento, ma vale forse la pena di citare qualche briciola. Ad esempio sull’Italia: La Gran Bretagna “could never rely in an Emergency on the fickle ( incostante) and unscroupolous italiana. Italy would never be a stable factor in any defensive front, even if such were desirable” ma ” we can at least always work to keep them on the right side, treating them , above all, as equals, playing up to their pride, and always being quick to remove any suspicions which they may entertain as to our motives, at the same time never relaxing our vigilance on them”.

Sui paesi oggetto delle mire egemoniche tedesche, ( “L’Europa centrale e del sud est”, quindi non l’Italia) ” we should inject resisting power“, ” helping them financially” e ” making them realize that we and the French are strong and united.”

Se a questo si aggiunge la voce ” Turchia” giudicata ” powerful factor in Balkan resistance” e ” a bulwark in the Middle East”, avrete sotto i vostri occhi lo stesso identico quadro completo di oggi, mettendo la Russia al posto della Germania.

Notevole che non si faccia cenno alla instabilità psicologica di Hitler che invece si é fatta nella propaganda, così come si é fatta con Putin.

L’obbiettivo era assicurare la pace per dodici mesi per consentire al ministero dell’aeronautica di mettere in linea cinquantadue ” fast eight-gun Spitfire fighter into squadron service”.

Per avere la pace necessaria alla preparazione, suggeriva di abbandonare la Cecoslovacchia al suo destino.

I generali tedeschi che davano per scontata una resistenza da parte inglese ( che aveva garantito l’integrità cecoslovacca), vista la situazione desistettero dai piani del generale Beck e dell’ammiraglio Canaris che volevano defenestrare Hitler ( e lo aveva detto agli inglesi tramite Canaris) e si allontanarono dai congiurati.

La seconda occasione di liberarsi di Hitler si presentò cinque anni dopo con lo sbarco di Normandia e fu anche questa un fallimento. Gli inglesi , che prepararono la bomba, non sapevano che il Fuhrer lavorasse in una baracca con tenui pareti che crollarono senza provocare lo spostamento d’aria necessario alla uccisione degli abitanti.

E come da previsioni di Beck, la Germania perse la guerra e cinque milioni e mezzo di uomini.

Questa descrizione storica ( di Antony Cave Brown ) assomiglia come una goccia d’acqua alla situazione attuale con la Russia al posto della Germania e la Cina al posto della Russia.

Da queste descrizioni storiche, ( di Hochshield per Milner , Cave Brown per l’intesa coi vertici militari avversari e con gli inglesi sostituiti dagli USA) si può dedurre il modus operandi anglosassone ormai consolidato e la situazione Ucraina in cui

a) sono stati gli USA a provocare lo scontro e Putin ad abboccare come un contadinotto boero

b) esiste un canale di comunicazione tra gli alleati e vertici russi pronti a sostituire Putin ai primi cenni di sconfitta, ma non prima.

c) l’assunzione da parte inglese del ruolo di brillante secondo detenuto dai francesi nel 39.

d) la strategia é quella immaginata dal conte Schulemburg ( ex ambasciatore a Mosca)nel 1941/42 per la Russia occupata dalla wehrmacht: ” trasformare la guerra in guerra civile tra russi, altrimenti sono imbattibili.”

L’unica incognita é rappresentata dalle elezioni francesi di domenica che potrebbero , con Macron, rifiutarsi di rifornire con armi ( che comunque non giungerebbero mai integre al fronte, stante la superiorità aerea russa) come ha fatto la Germania e attorno a questi due renitenti si creerebbe una nuova Europa meno succuba degli USA, con una Italia giudicata inaffidabile da tutti.

https://corrieredellacollera.com/2022/04/21/ucraina-la-genesi-di-una-politica-di-aggressione-e-i-suoi-ideatori/

PACE E GUERRA IN UCRAINA, di Teodoro Klitsche de la Grange

PACE E GUERRA IN UCRAINA

Quanto si legge e si vede sulla “liceità” della guerra in Ucraina presenta quasi sempre lo schema argomentativo seguente:

  1. a) si prende un manuale di diritto internazionale e se ne ricavano le norme ed i concetti applicabili (sovranità, guerra, aggressione)
  2. b) li si applica alla situazione concreta
  3. c) e ne consegue inevitabilmente la condanna della Russia aggressore e trasgressore del diritto internazionale

Questo nei casi meno bellicosi; negli altri, in cui la condanna dell’aggressore è caricata di valori i quali incrementano il sentimento d’ostilità, il nemico diviene criminale, macellaio, genocida ecc. ecc.

Nulla da obiettare per la prima categoria: è chiaro che la Russia è aggressore e la ricorrenza di circostanze attenuanti (come gli scontri pluriennali nel Donbass – quasi, a leggere certi “pezzi”, una guerra a bassa intensità) non vale ad escludere l’aggressione.

Tuttavia tale ragionamento, esclusivamente giuridico non esaurisce la riflessione politica (e filosofica) sulla “giustificazione” della guerra. Se sostituiamo all’armamentario lessicale e concettuale giuridico quello politico e filosofico e alla coppia lecito/illecito (o legale/illegale) quella opportuno/inopportuno (e quanto ne consegue) il risultato è diverso.

In effetti da secoli il contrasto tra ciò che è lecito e ciò che è opportuno (tra “dovere” ed “essere”) è uno dei temi ricorrenti del diritto pubblico, non solo internazionale. Il prezzo da pagare per rispettare il diritto può consistere perfino nella distruzione dell’esistenza politica (e financo fisica) di una comunità; e nessun governante (che sia tale) è disposto a pagarlo, non foss’altro perché il principio del rapporto tra politico e giuridico è proprio l’inverso: salus rei publicae suprema lex.

Il che ha comportato una diversa valutazione della condotta. Ad esempio la guerra di aggressione. L’opinione dei teologi-giuristi della seconda Scolastica (e non solo) è che bellum defensivum semper licitum. Che lo fosse anche quello d’aggressione, non dipendeva solo dall’essere gli Stati sovrani titolari dello jus belli, ma anche da avere delle fondate ragioni per iniziare guerre scegliendo tempi e modi: guerre per lo più preventive.

Come scriveva Montesquieu (tra tanti) il diritto di difendersi comporta talvolta la necessità di attaccare, laddove indispensabile a salvare la comunità, (De l’ésprit des lois, X, 2). Ciò riprendeva le considerazioni di Suarez che “anche la guerra d’aggressione non è sempre di per se illecita (malum) ma può essere onesta e necessaria”. E al concetto di justa causa belli (cioè di giusta causa) va ricondotto il diritto di contrastare/reprimere i torti (iniuriae), dato che tra gli Stati non c’è un’autorità che possa decidere sul diritto né eseguire le decisioni, come all’interno delle unità politiche.

Diritto, esistenza, potenza (più gli ultimi che il primo) sono i criteri per l’esercizio legittimo del diritto di (muovere) guerra. La questione si complica poi, quando l’ostilità non assume la forme classiche  dell’invasione, del blocco navale, dell’interdizione di vie di comunicazione, ma quelle più sfumate, fino ad arrivare al c.d. soft power. Peraltro chiamato in causa spesso nella vicenda ucraina, quale causa dell’aggressione russa, attribuendo a Putin il terrore che un’Ucraina democratica, rispettosa dei “diritti comuni” ecc. ecc. avrebbe potuto indurre i russi a sbarazzarsi del regime autocratico del (nuovo) zar.

Ma chi lo sostiene non ha pensato che la convinta adesione alla NATO ed all’ “area” occidentale di ex satelliti sovietici come Ungheria e Polonia non ha affatto impedito agli stessi di essere assai critici nei confronti dell’U.E., di cui fanno parte e di cui criticano proprio il concetto di “Stato di diritto”, un po’ ristretto e molto strabico nel pensiero della nomenklatura europea. D’altra parte polacchi e ungheresi sono per motivi assai più seri – perché suffragati dalla storia – i più ostili alle pretese russe (un tempo sovietiche) di egemonia nell’Europa orientale. Tra chi avanza titolo di essere considerato difensore della libertà per il sangue versato nelle rivolte e guerre antisovietiche del XX secolo o in quelle anti-russe di quello precedente e chi predica i “diritti umani” chi è più credibile? I popoli che hanno pagato col sangue l’amore per l’indipendenza e la loro (scomoda) situazione geografica o chi sculetta nei gay-pride?

Pertanto appare secondario sia il (preteso) timore di Putin per l’appetibilità della democrazia liberale versione Bruxelles sia, ancor di più, la capacità attrattiva della suddetta versione.

Piuttosto, guardando una cartina geografica, e ricordando quanto capitò sessant’anni fa durante la crisi di Cuba – a parti invertite – è comprensibile che Putin, come  a suo tempo Kennedy – non voglia al proprio confine meridionale uno Stato aderente ad una alleanza potenzialmente avversa, esteso dalla Moldavia al Kuban e il cui confine settentrionale è a circa seicento chilometri da Mosca. Distanza non indifferente, ma ricordiamo che la Wermacht con i mezzi e la situazione di allora assai più propizie alla difesa, fu in grado di percorrerla in un paio di settimane. E senza ricordare che l’Ucraina – o almeno la parte orientale – fa parte della “civiltà” russa (Toynbee e Hungtinton). Ragioni che appaiono assai più rilevanti dell’attrattiva resistibilissima degli ideali U.E.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 95 96 97 98 99 180