A proposito de “IL MONDO È DI CHI FA PROGETTI “di Pierluigi Fagan e Roberto Buffagni

In margine a questo post su Facebook di Pierluigi Fagan del 1 ottobre, l’Autore e Roberto Buffagni hanno intrecciato una bella discussione, da punti di vista diversi, che pensiamo valga la pena di leggere. Nella forma concisa e semplificata di scambi come questo, vi si trovano molti spunti di riflessione sui quali noi tutti dovremo ritornare, in futuro. Ci scusiamo con gli altri interlocutori, molti dei quali sono intervenuti con commenti interessanti e pertinenti. Per coerenza e semplicità di lettura, riportiamo qui soltanto il dialogo a due tra Fagan e Buffagni.

Buona lettura.

 

IL MONDO È DI CHI FA PROGETTI (quindi non è nostro). Pochi mesi dopo l’inizio del conflitto russo ucraino, postai articoli con dichiarazioni molto ben argomentate di Zelensky, nei quali il nostro dichiarava che l’Ucraina sarebbe diventata “l’Israele d’Europa”.

Si riferiva all’idea che, finito il conflitto (era da poco iniziato, ma lui pensava già al “dopo”), Kiev sarebbe diventata un polo tecnologico grazie ad investimenti esteri (occidentali), lanciando così una Ucraina 2.0 nel futuro dell’info-digitale-globale. Per la verità già c’era una storia poco illuminata di fabbriche di biotecnologie soprattutto americane (con dietro storie ancora più oscure in cui si diceva coinvolto il figlio di Biden) dislocate nel paese che, prima della guerra, era noto per essere fuori dal novero dei paesi civili e democratici, come sancito dal Democracy Index del the Economist da qualche anno.

Lo stesso “inner circle” di Zelensky, di cui alcuni rappresentanti abbiamo apprezzato nei talk italici, era composto da giovani rampanti, anglofoni, poco più che trentenni, allevati nelle università anglo-americane. Giovanotti e giovanotte perfettamente in linea culturale con questa idea di una Nuova Ucraina che tramite il bagno di sangue, sarebbe transitata da “stato fallito” a punta di lancia info-tecnica dell’Occidente intero. Tanto al fronte mica ci andavano loro.

La cosa aveva senso non solo in termini di contenuto, ma anche di forma in quanto una Ucraina così importante dal punto di vista della ricerca, sviluppo e produzione strategica per l’intera Europa, sarebbe stata di fatto nell’UE e nella NATO a prescindere da quanto tempo concreto si sarebbe impiegato per ratificarlo. In un altro post, poco tempo dopo l’inizio della guerra, riferivo del noto gruppo di interesse che collettava la galassia atlantista stabilitisi a Kiev da tempo che, già ai tempi dell’elezione di Zelensky, interveniva pubblicamente dicendogli cosa doveva e non doveva fare. Zelensky è stato eletto nel 2019, ma questa gente operava massicciamente in Ucraina da anni.

Tutte cose a suo tempo del tutto note a chi segue le questioni geopolitiche non serietà ovvero non chi si sveglia la mattina e si mette a commentare fatti (o meglio articoli di giornali che danno una certa versione dei fatti) come se questi sorgessero improvvisi dal cappello magico del Mago Epifenomeno.

Per altro, occorre lettori e lettrici comprendano che chi scrive non è un giornalista ed ha poco o nulla interesse a far da cane di caccia di questi dietro le quinte. Come studioso, so perfettamente che ci sono i dietro le quinte, è nella storia, come lo sanno tutti quelli che trattano questi argomenti. Basta quindi approcciare il fenomeno del mondo facendosi le domande giuste, basta una intervista a Zelensky, basta capire cosa sta dicendo dietro ciò che sta dicendo, unirlo ad altre info e si ha il quadro senza passare la vita a scavare nella fogna degli eventi che scorre sotto le nostre strade pulite, resilienti, inclusive, innovative, sfidanti, futuro-promettenti e quanto alla galassia dei “valori” con cui si baloccano le menti ignare della realtà pensando di vivere nel migliore dei mondi possibili.

Non solo gli studiosi, anche i poeti sanno queste cose come ad esempio T.S.Eliot per il quale era noto che “Il genere umano non può sopportare troppa realtà”. Cosa arcinota anche ad ogni potere che riveste le scabrose vicende proprie di ogni potere di confezioni profumate, colorate, morbide ed attraenti ovvero ideologie, passioni, valori, identità, manifesti etici. Chi li vota e chi si sottomette al loro comando, avrebbe uno choc nello scoprire quanto è disgustosa la faccenda.

Molti studiosi abboccano anche loro alla versione parolaia delle realtà, debbono campare quindi lo fanno per lavoro o per debolezza psico-cognitiva. Altri sopportano il male del mondo, c’è, che ci vuoi fare, almeno cerchiamo di capire come funziona, magari troviamo il modo per diminuirlo un po’. I poeti, invece, poverini, ne escono con l’anima maciullata visto che di impostazione sono persone che vivono coltivando la sensibilità umana. Per questo tra i poeti c’è il più alto tasso di suicidi.

Ad ogni modo, eccoci all’approdo odierno di cotanta storia. Copio + incollo da Repubblica di stamane:

«L’Ucraina diventerà l’Israele d’Europa». Gli analisti militari più esperti usano questa immagine per spiegare il senso della cosiddetta Alleanza delle industrie della difesa, l’iniziativa lanciata dal presidente Zelensky davanti a 252 produttori di armamenti ed equipaggiamento giunti a Kiev da trenta Paesi per partecipare al primo forum internazionale del settore organizzato a conflitto in corso. «L’Ucraina nel futuro prossimo vuole essere insieme hub della tecnologia bellica occidentale più avanzata e prima utilizzatrice delle forniture realizzate nel suo stesso territorio», concordano gli analisti. Non più solo consumatrice di sistemi d’arma, quindi, ma anche produttrice ed eventualmente esportatrice. «È lo scenario più plausibile, che ricorda appunto la situazione in cui si trova Israele». C’è da apprezzare il buonsenso dell’idea, da consumatore e produttore, razionalità economica e strategica in un colpo solo.

“Zelensky ha anche un secondo scopo, però: attrarre investimenti e creare partnership con l’industria internazionale della difesa, sia pubblica che privata, finalizzando joint venture che portino alla delocalizzazione, cioè alla produzione delle armi Nato direttamente in Ucraina. “ dice Rep. Ucraina bene comune dell’Occidente ed hot spot governato da una banda di oligarchi trafficanti d’armi che è poi esattamente quello che facevano anche prima della guerra, assieme a corpi di giovani donne e traffico di droga e continuano a fare “per finanziare la propria eroica resistenza”, certificato dal rapporto 2013 del Dipartimento di Stato americano INCSR (International Narcotics Control Strategy Report che elegge lo sfortunato paese, hub internazionale di primo livello nel black-business). Oddio “per finanziare la propria eroica resistenza” magari è un po’ esagerato visto che è abbondantemente finanziata da noi e dagli americani.

Deliziosa la chiusura dell’articolo del giornale di Molinari: “Dietro la mossa di Zelensky, dietro l’Alleanza offerta all’industria della guerra (concordata con Washington assicura il giornale e sponsorizzata dall’industria delle armi britannica e tedesca che poveretti, ora hanno problemi con la loro industria metallurgica visto che gli hanno tagliato il gas), c’è anzitutto un’esigenza. Impellente e decisiva. Kiev ha percepito che l’aiuto degli alleati non sarà per sempre e non sarà per sempre a costo zero. Glielo ha ricordato, ancora due giorni fa, il ministro della Difesa francese Lecornu. «Gli arsenali francesi si stanno svuotando. La fornitura gratuita di armi deve diventare l’eccezione, la regola dev’essere la partnership industriale». Che, tradotto, significa che l’Ucraina, nel medio termine, dovrà mettere in conto di dover pagare per veder arrivare le armi che le stanno consentendo di resistere alla Russia.”. Eh cribbio, mica vorremmo passare la vita a dare soldi agli ucraini per le armi no? Che se le producano loro!

Grandioso, e con quali soldi gli ucraini dovrebbe far investimenti per diventare la Nuova Israele? Ma che sciocchini che siete, coi nostri e con quelli di tutto il complesso finanziar-militar-industrial-commerciale che è la vera punta di lancia dell’Industria 4.0 con cui gli americani sperano di evitare il tramonto occidentale con qualche app ed un po’ di intelligenza artificiale attorno.

Passano gli anni, i decenni, ma l’essenza occidentale non fa un passo avanti, amiamo le tradizioni. Sì, va be’ c’è qualche maschio che si traveste da femmina, siamo per una nuova etica con cui trattare gli animali (Nussbaum), andiamo dallo psicologo perché non sopportiamo il peso della consapevolezza della sesta estinzione di massa che avanza a grandi passi, però al fondo amiamo la nostra essenza eterna: à la guerre comme à la guerre!

Così chi può, ha deciso che affronteremo l’era complessa, meno cultura, mono-informazione, più lavoro a meno costo e diritti, democrazia di nome mai ormai non più di minimo fatto, grandi ondate di indignazione contro il Male del mondo autocratico, arabo, africano, cattivo, insensibile, infame, discriminatorio.

Il mondo è di chi fa progetti, questo è il progetto per il nostro Occidente, pensato e composto da decenni, preparato, guidato, tessuto con perizia e pazienza mentre voi vi dedicate alle pesche. Se poi qualcuno ha l’ardire di farvelo notare, sarà sicuramente un complottista, va tutto bene. L’importante è che non vi venga neanche per l’anticamera del cervello il dubbio che il mondo va, più o meno, per come qualcuno l’ha progettato, le strategie non esistono, tutto accade come lo vedete, a caso, azione-reazione.

Un tizio maligno dopo venti anni di proscenio mondiale, accorpato addirittura nei G8, con cui abbiamo fatto lingua in bocca per anni ed anni, una mattina si sveglia e si ricorda che lui è l’erede di Pietro il Grande, invade l’Ucraina e noi ci alziamo come un sol uomo al grido di “Libertà, Liberta!”. Da qui alla Nuova Israele è un attimo, segue Armageddon. Valore dei classici…

[Non so se l’articolo è a pagamento, l’essenziale però l’ho riportato nel virgolettato] Il noto gruppo di interesse citato nell’articolo è questo, 2019, avvertimento al neoeletto Zelensky (in realtà eletto anche dai russofoni, con mire anticorruzione e favorevole a gli accordi di Minsk. Dopo aver letto “Foreign Policy Issues” (ripeto 2019!), andare su About UCMC e scrollare a Donors: https://uacrisis.org/…/71966-joint-appeal-of-civil…#

 

ROBERTO BUFFAGNI Grazie Pierluigi. Il mondo è di chi fa progetti e ci indovina. Gli ucraini non ci hanno indovinato, e infatti il loro progetto finirà nel buco nero in cui stanno trasformando il loro paese.

PIERLUIGI FAGAN Roberto, il progetto non è ucraino. Attenzione a ridurre il conflitto alle mappe militari, quello è solo un aspetto e neanche il più importante.

ROBERTO BUFFAGNI Certo, hai ragione. Guarda però che a mio avviso, il progetto statunitense è sbagliato perché hanno errato l’analisi della correlazione di forze in tutti i campi dove conta: militare, economico e politico. Poi, sempre secondo me, il confronto militare, specialmente il confronto militare quasi diretto (speriamo non diretto senza quasi) tra grandi potenze come questo NATO-Russia lo è, la cosa più decisiva, perché una sconfitta umiliante fa perdere prestigio, deterrenza, influenza a chi la subisce. Qui chi perde in Ucraina ne esce seccamente ridimensionato se gli sconfitti sono gli USA, destabilizzato e forse distrutto se è la Russia. Perché perda la Russia ci vuole una serie di miracoli. Io in Dio ci credo ma una sfilza di miracoli così non mi è nota.

PIERLUIGI FAGAN C’è un altro piano del discorso. Portare il conflitto ad un livello in cui può succedere l’irreparabile. Tante cose che ci sembravano assurde due anni fa, oggi sono normali. Il conflitto non è stato programmato per avere fine, ma per salire gradini di una scala che chissà dove arriva. Oggi Vincenzo Costa scriveva un post sullo sdoganamento del nazionalismo, bestia che se fai uscire dalla gabbia non la riprendi più. Russia ed Europa sono sulla stessa zolla di terra, gli USA no.

ROBERTO BUFFAGNI Il conflitto è GIA’ su un piano in cui può succedere l’irreparabile. In caso di conflitto convenzionale NATO-Russia lo U.S. Army War college prevede 100.000 perdite/mese, un livello inaccettabile politicamente in Occidente, di modo che si giungerebbe rapidamente all’impiego dell’arma nucleare, prima tattica e poi nessuno sa che cosa succede perché non esistono precedenti e la pressione psicologica sui decisori farebbe fondere il granito. I russi hanno già detto che a loro un mondo senza la Russia non interessa, e io ci credo perché questo grado di determinazione assoluta sta nel loro patrimonio storico plurisecolare (qui quello che per ora, sottolineo “per ora” è stato fatto uscire dalla gabbia è il patriottismo russo, un animale che mette soggezione, ma non è il nazionalismo russo che è la mutazione genetica del patriottismo, e che uscirebbe senz’altro se il conflitto NATO-Russia si fa diretto). Siccome l’elemento più affidabile per indovinare il comportamento futuro è il comportamento passato, se uno pensa che i russi cedano prima di vincere alle loro condizioni quando ritengono sia in ballo l’esistenza della patria si sbaglia, secondo me. Per ora sono estremamente cauti e prudenti, e speriamo che continuino ad esserlo (tanti auguri di lunga vita e buona salute a Putin, statista moderato e saggio). Aggiungo per concludere che gli oceani non proteggono più come prima gli Stati Uniti, per l’evoluzione della tecnologia militare anche convenzionale.

PIERLUIGI FAGAN Sì, sì concordo ovvio, ma non stavamo facendo previsioni di chi vince (troppe variabili aperte e dinamiche non lineari), stavamo facendo analisi su cosa hanno pensato quelli che hanno varato questa strategia. Non so come hanno immaginato il finale. L’idea che qualcuno espone (secondo me per rincuorarsi) di una banda di cialtroni che agiscono alla come viene, non credo sia realistica. Ed al di là del finale più o meno cruento, pensare a cosa sarà la realtà politica, economica, sociale qui in Europa dopo questo lungo trattamento, m’inquieta. Un meeting di 252 armaioli stante che non c’è solo l’Ucraina, o in futuro l’Artico o il Centro-Asia o il Mar cinese, dà il segno dei tempi. Molto brutti, ma non solo per ucraini o russi. Se i “consumatori” diventano “produttori”, anche noi spettatori potremmo diventare attori alle giuste condizioni, condizioni che ci sembrano assurde oggi, ma potrebbero non esserlo più domani. Ritorna al 1914.

ROBERTO BUFFAGNI “cosa hanno pensato quelli che hanno varato questa strategia” è una bellissima domanda alla quale è estremamente difficile rispondere. Secondo me la tua risposta è perfetta se modifichiamo leggermente la domanda: “che cosa HANNO CREDUTO di pensare quelli che hanno varato questa strategia”. Essi NON sono né erano una banda di cialtroni, erano però, a mio avviso a) ubriachi di potenza e di certezza dell’impunità dopo il crollo dell’URSS b) drogati ideologicamente da una prospettiva sul mondo e sull’uomo radicalmente sbagliata che sta producendo la sua maestosa eterogenesi dei fini. Commessi i primi errori strategici di fondo (anzitutto l’integrazione della Cina nel sistema mondo a guida USA e lo sfruttamento senza riguardi della Russia) ne stanno facendo altri, a catena, in un circolo vizioso di correzioni dell’errore che sono altri errori che esigono altre correzioni che sono altri errori e così via fino al BLAM finale che non si sa in che forma e quando arriverà.

PIERLUIGI FAGAN Secondo te non hanno calcolato che i russi sono quattro volte gli ucraini e con 5000 testate nucleari? Ho letto delle analisi di generali americani da te pubblicati. I generali sono come gli economisti, leggono il mondo con una sola lente polarizzata, ma il mondo è l’insieme dei fatti ed a molti, la complessità di questo “insieme” sfugge. Non credo sfugga a chi governa il potere americano, possono sbagliare, possono non aver scelta ed infilarsi in un cul de sac, hanno però consapevolezza dell’intreccio di quell’insieme a differenza di molti altri.

ROBERTO BUFFAGNI Secondo me hanno calcolato a) che i russi fossero militarmente deboli, e che le FFAA ucraine, nel 2022 il secondo esercito NATO dopo gli USA le cui truppe per tradizione storica combattono con molta determinazione, fossero in grado di infliggere loro una sconfitta decisiva IN UCRAINA b) hanno creduto che le sanzioni destabilizzassero l’economia russa e aprissero crepe nella classe dirigente c) non hanno calcolato le capacità di generazione delle forze dell’industria militare russa d) hanno calcolato male la capacità della Russia di formare alleanze politiche. In sintesi hanno creduto che fosse possibile indebolire la Russia abbastanza da a) confinare il conflitto in Ucraina, e qui sconfiggere rapidamente le forze russe disponibili b) destabilizzare la Russia economicamente e politicamente, suscitando le spinte centrifughe sempre latenti in Russia. Per farla corta, hanno creduto che non fosse necessario infliggere una sconfitta militare decisiva a TUTTA la Federazione russa, facendola capitolare, come in realtà sarebbe necessario perché la NATO ottenesse una vittoria, ma bastasse una sconfitta parziale della Russia in Ucraina in combo con l’indebolimento sociale ed economico. Ovviamente quanto precede è una mia ipotesi, non mi ha telefonato Milley. Le ragioni dell’errore sono, in pillola, esposte nel commento precedente. Liofilizzando hanno sottovalutato gravemente la Russia e sopravvalutato gravemente se stessi. Aggiungo che “le analisi dei generali americani da me pubblicate”, che penso sia lo studio dei colonnelli dell’U.S. Army War College, dimostrano una cosa certo vera, ossia che ci sono ottimi professionisti nelle FFAA americane, ma costoro NON fanno parte dei circolo dei decisori, e anzi devono dire quel che dicono in punta di piedi e con mille eufemismi e circonlocuzioni, perché negli USA si verifica quel che si verifica anche qui, cioè la degenerazione delle classi dirigenti, la chiusura del pluralismo delle opinioni, vedi Mearsheimer che deve fare il dissidente sui social come te e me, insomma l’assenza di circolazione delle élites (v. Pareto). In breve chi prende le decisioni e detta l’agenda NON è chi dovrebbe farlo perché è il più bravo. Tutto qui ma è tanta roba.

Aggiunta. La previsione militare degli americani si è dimostrata errata, ma non era folle, perché (sempre secondo me, lo dico una volta sola) i russi, con l’intervento di febbraio, hanno fatto un capolavoro strategico e operativo. In inferiorità numerica 1:3, con una grande manovra diversiva hanno occupato il Donbass e protetto la Crimea. È probabile che l’intervento sia stato deciso in quel momento perché i russi, dalle informazioni che avevano e dall’interpretazione che davano delle intenzioni NATO, hanno prevenuto un attacco in forze ucraino nel Donbass che avrebbe minacciato direttamente la Crimea, e che sarebbe stato impossibile contrastare con le forze russe allora disponibili. Se il piano NATO-Ucraina era quello, in caso di riuscita i russi avrebbero subito una grave sconfitta militare, per reagire alla quale avrebbero dovuto mobilitare centinaia di migliaia di uomini, nell’ordine del milione, e affrontare una guerra estremamente difficile e costosa. Con la spinta di una crisi economica provocata dalle sanzioni, la destabilizzazione della Russia sarebbe stata possibile. Secondo me il progetto NATO-Ucraina era questo, a grandissime linee.

PIERLUIGI FAGAN Io e te abbiamo una visione radicalmente diversa. Tu pensi che la guerra in Ucraina l’abbiano promossa pensando solo alla Russia, io penso che l’abbiano promossa per più ragioni in cui c’è anche quello che dici, ma c’è anche (soprattutto) la piena e veloce cattura egemonica dell’Europa per riquadrare l’Occidente in vista del conflitto multipolare (fatto e non era affatto scontato), oltreché come citava Dado Derrick il vecchio caro keynesismo di guerra che oltretutto mobilita fondi, ricerche e sviluppi con ampie ricadute tecno-commerciali (lo stanno facendo) per economie occidentali sempre più alla frutta (e non solo alla “pesche”  ). Chi decide fa sintesi del sistema, ha responsabilità di sistema e la sintesi sfugge a molti studiosi che sono specializzati in un campo alla volta ed a cui sfugge irrimediabilmente il “sistema”.

ROBERTO BUFFAGNI C’è sicuramente anche questo, Pierluigi. Secondo me la cattura dell’Europa era un contorno, diciamo, e non il piatto forte. Il piatto forte era: sconfiggere la Russia e contenere la Cina. È poi vero che il mio punto di vista può esser distorto perché parziale, vedo meglio le dinamiche militari delle altre così che cerco le chiavi dove per me c’è luce, diciamo.

PIERLUIGI FAGAN Contorno? Pensa che quello che per te è un “contorno” per me è il tacchino del Thanksgiving in chiave di conflitto multipolare. Prima fai la squadra, poi giochi, immagina il conflitto multipolare con Germania, Francia ed Italia che flirtano con russi, cinesi e resto del mondo, entrano nei BRICS e nella Via della Seta e campano col gas siberiano, non ti reggono sponda all’ONU (e conseguenti), commerciano liberamente “col nemico”. Pensa solo se gli olandesi non avessero messo il ban alla Cina per le stampanti di sfoglie di chip ultima generazione. Questo conflitto non è solo multi-polare è multi-dimensionale, come ebbe a notare Qiao Ling in “Conflitto senza limiti” (LEG Edizioni, consiglio vivamente se sfuggito). In più, in termini di soft power, ti tolgono pure la legittimità di agire in nome alla “civiltà occidentale” come capitò a Bush in Iraq. Abbiamo forme del mentale molto diverse, è evidente, ne nascono analisi e giudizi diversi, ovvio. Le guerre era cose solo militari tanto tempo fa oggi sono “la continuazione della politica con tutti i mezzi”.

 

ROBERTO BUFFAGNI Ho pensato alla tua constatazione, indubbiamente corretta, che tu ed io “Abbiamo forme del mentale molto diverse, è evidente, ne nascono analisi e giudizi diversi, ovvio” e ho cercato di capire perché. Credo che la ragione sia l’impostazione teorica: per me, nella logica di potenza la priorità numero 1 degli attori è la sicurezza, la condizione necessaria (benché non sufficiente) per perseguire tutti gli altri obiettivi che si propongono. Di conseguenza, quando il conflitto diviene aperto cioè militare, questo dominio assume l’importanza numero 1, e la gerarchia di tutti gli altri domini si disegna in conformità alla relazione necessaria che intrattengono con esso. Non ho capito bene se anche nella tua impostazione teorica c’è una priorità numero 1.

PIERLUIGI FAGAN Dal punto di vista americano che questa guerra ha preparato, voluto ed apparecchiato? Mantenere quanta più potenza possibile nella pur inevitabile transizione multipolare. Molti hanno scoperto questo concetto del “multipolare” di recente, ma sono almeno due decenni che se ne discute nelle “alte sfere teoriche” di politica, IR (come chiamano l’argomento che noi chiamiamo “geopolitica” gli americani, in genere), geoeconomia e geofinanza, think tank vari. Non c’entra niente la sicurezza, che problema di sicurezza vuoi che abbiamo gli americani in mezzo a due oceani, ma poi chi li minaccerebbe davvero? Catturare integralmente l’Europa, cercar di imporre il “o di qui o di lì” al resto del mondo, apparecchiare la nuova guerra fatta di varie guerre e conflitti che non si sa se fredda o calda, abbassare la potenza militare russa anche in previsione di altri conflitti e sfere di egemonia (Artico, Centro Asia? Africa, Medio Oriente), disturbare in tutti i modi la crescita cinese e provare a fargli terra bruciata attorno. In tutto ciò, usare il militare con ricerca e produzioni annesse (pensa alla corsa per lo spazio) potenziate dallo sviluppo delle tecnologie NBIC, per sostenere un minimo l’economia con un keynesismo bellico di fatto (ci hanno inventato Internet, il GPS e molto altro, partendo da sviluppi militari, è stata la norma in Occidente, sin dal calcolo delle parabole dei proiettili di cannone al tempo di Galileo e tutta la rivoluzione artigianale e meccanica del XV e XVI secolo). Quanto ai russi nello specifico, l’obiettivo è tenerli occupati per lungo tempo ed infatti Putin sta conducendo sin dall’inizio un conflitto basato sul lungo tempo. Sa perfettamente che l’unica strategia americana che in qualche modo ha funzionato nel dopoguerra è stata impegnare l’URSS in decenni di conflitto usando risorse per il militare e non per il sociale. E’ come a poker. Se hai un contro in banca dieci volte il tuo avversario, alzi continuamente la posta, prima o poi lui non reggerà più. La vedo così, per come ho formato la mia interpretazione mentale, in maniera sistemica, credo ragionino in termini strategico sistemici, anzi ne sono certo. Più che leggere i grandi critici del loro sistema, a volte mi dedico a leggere i loro “intellettuali”, cerco di capire che ragionamenti si scambiano nel loro ambito. Si imparano un sacco di cose. Impari più cose da Kagan che da Hudson. Se non l’hai fatto, leggiti Qiao Liang, i cinesi sanno cose quando si tratta di “strategia”. Quel testo fece molto rumore negli USA ed è del 1999!

ROBERTO BUFFAGNI Grazie della bella replica. Ho letto Qiao Liang, anche Kagan e gli altri che citi o a cui alludi. Concordo con te che si debba ragionare in termini sistemici, e che così ragionino i decisori, americani e non solo. Cerco di farlo anche io. La differenza di prospettiva tra noi è che a mio avviso, il sistema si incardina intorno al problema sicurezza, il nucleo e la condizione di possibilità della potenza. Non ritengo più vero che gli Stati Uniti siano protetti dallo scudo oceanico come lo erano fino a qualche anno fa, perché a) l’evoluzione della tecnologia militare convenzionale mette a rischio il territorio statunitense + rende obsolete le flotte di superficie + rende estremamente difficile e costosa la proiezione di forza contro un nemico alla pari + rende vulnerabili le loro molte (troppe) basi estere. Per farla molto corta, gli USA sono overextended. Cercheranno sicuramente di sovraestendere la Russia con la partita a poker che descrivi (è il piano RAND di qualche tempo fa), però a) la guerra in Ucraina fa diventare la Russia PIU’, non MENO potente, perché a) sviluppa il dispositivo militare, tecnologia ed esperienza comprese, e l’economia industriale russa nel suo complesso in quanto potenza latente b) incoraggia una trasformazione complessiva della formazione sociale russa, che ritorna alla sua “forma ideale” che è imperiale, con le forze armate al primo posto e un patto tra lo Stato cesaristico e il popolo minuto (che deve combattere) + si forma una aristocrazia guerriera che innerverà la classe dirigente legittimandosi con la più antica forma di legittimazione, la guida in battaglia + vengono esclusi o marginalizzati dalla classe dirigente gli occidentalisti russi c) sintesi, in questo poker non c’è un giocatore con un C/C centuplo dell’altro, che può rilanciare fino al cielo ed escludere dal tavolo di gioco l’avversario. Ci sono due giocatori, il più forte dei quali ha la classe dirigente nella parabola discendente del ciclo, e il meno forte che ha la classe dirigente nella parabola ascendente. Poi ovviamente c’è il terzo giocatore, la Cina, che anch’essa ha la classe dirigente nella parabola ascendente, ha fondi quasi illimitati, ed è costretto ad allearsi con il giocatore russo perché a) se la Russia viene sconfitta sa di essere il primo della lista b) ha bisogno dell’esperienza militare russa perché la Cina ha le forze armate, ma non fa guerre da troppo tempo e le ultime che ha fatto le ha perdute. Per farla molto corta, a mio avviso gli Stati Uniti stanno facendo il passo molto più lungo della gamba, e mettono a rischio la propria sicurezza, anche la sicurezza del loro territorio nazionale perché i rischi di estensione della guerra in Ucraina sono reali, e implicano una possibilità, per ora piccola che può crescere fino a divenire una seria probabilità, di coinvolgimento del territorio americano. Questo rischio che si stanno prendendo è senz’altro volto a conservare il dominio egemonico che hanno conquistato dopo il crollo dell’URSS, ma andrebbe rammentato che non si può difendere tutto: chi difende tutto non difende nulla. La scelta strategica con un migliore rapporto rischi/benefici non era questa (era il rovesciamento delle alleanze dopo l’implosione dell’URSS, amicizia con la Russia e ostilità verso la Cina) ma una volta adottata la linea diventa estremamente difficile, quasi impossibile cambiarla, e ogni tentativo di correzione parziale implica nuovi errori, e così via in un circolo vizioso molto pericoloso (per tutti noi, non solo per loro).

PIERLUIGI FAGAN Molto bene, bella discussione. Quello che dici alla fine, sai che è quanto pensano più o meno quasi tutti gli strateghi a parte il gruppo degli invasati neocon ovvero dividere il nemico. Non sono certo io a difendere l’altra strategia, mi limito ad analizzarla. E’ piuttosto complicato capire meglio perché hanno scelto questa idea di lasciare l’avversario con due teste invece che provare a dividerlo in due come pensava Trump (e come pensano dai sacri testi di strategia ad un po’ tutti). Forse hanno visto questioni di legittimità, forse la Russia si presta a far keynesismo bellico visto che la Cina certo non abbocca più di tanto a tensioni come quelle di Taiwan, forse dovevano creare il muro tra Europa e Russia, forse -più semplicemente- il grosso del deep state ci metterà qualche generazione prima di non ritenere la Russia il problema dei problemi anche nell’immaginario. Ad ogni modo, per me il punto che hanno in testa è da qui a trenta anni o forse anche meno, in fondo sanno anche loro che ogni quattro-otto anni cambiano squadra, è il come difendere la proprie condizioni di possibilità economico-finanziarie che gli permettono di fare il 20% del Pil mondiale con solo il 4,5% della popolazione mondiale. Quell’eccesso di ricchezza (che poi si ridistribuiscono internamente alla ca@@o) dipende ovviamente molto da quanta porzione di mondo controllano. Quello che infine io credo semmai dovessi far loro una strategia è che forse non c’è una strategia per quell’obiettivo, stanno andando contro la storia, dovrebbero riorganizzarsi internamente fino a che sono ancora grossi e potenti. Ma del fallimento delle élite sorte in un momento storico ed incapaci di cambiare strada riconoscendo in tempo la profondità del cambiamento storico, è piena la storia. Non c’è e non c’è a nessun livello negli Stati Uniti, una discussione anche di nicchia sul “chi siamo? dove andiamo? Come possiamo andarci?”, anche fuori delle élite. E’ proprio che non sono in grado di realisticamente resettarsi, anche solo mentalmente.

ROBERTO BUFFAGNI Sì, bella discussione di cui ti ringrazio. Ecco, uno dei problemi più seri dell’Occidente e delle sue classi dirigenti è che tacita e rende impossibili queste “belle discussioni”, c’era più pluralismo nell’Impero spagnolo che perlomeno consentiva la pubblicazione delle analisi degli “arbitristas” (poi non è bastato, in effetti solitamente le classi dirigenti in decadenza non ascoltano nessuno e vanno a sbattere). Concordo con te che gli USA “dovrebbero riorganizzarsi internamente fino a che sono ancora grossi e potenti”, in sintesi la strategia più prudente ed efficace sarebbe un isolazionismo temperato, rafforzare la propria egemonia sull’emisfero occidentale, rafforzare la coesione in patria redistribuendo meglio la ricchezza, reindustrializzarsi, in sintesi rafforzare la propria base di potenza in vista dei conflitti futuri. Ma è un vaste programme che gli USA non vorranno e potranno seguire perché va contropelo a tutta la loro cultura, alla quale personalmente addebito il 75% della responsabilità degli errori strategici commessi dopo il 1991.

PIERLUIGI FAGAN Temo che il “ripensamento” della nostra condizioni di possibilità, quelle che permettono l’odine relativo delle nostre vite, sia un problema più ampio che riguarda anche noi europei ed italiani. E’ la mancanza di una seria e realistica diagnosi del mondo che inquieta di più. I più non hanno capito in che epoca son capitati. Giusto, ovvio, umano addossare le colpe alle nostre élite direttive. Tuttavia le forme di vita associata collassano tutte intere, élite con popolo appresso.

ROBERTO BUFFAGNI E su questo punto concordiamo al 371%. La responsabilità etica è anzitutto delle classi dirigenti, ma la responsabilità politica è delle intere comunità, che ne pagano il prezzo, spesso in proporzione inversa alla responsabilità etica.

PIERLUIGI FAGAN …da qui la mia invocazione per la ripresa dei modi democratici. Non è ideologica è del tutto e semplicemente funzionale. Tutto l’insieme di cambiamenti cui dovremmo sottoporci per avere una qualche speranza di trovare un modo adattativo al nuovo mondo, non potranno esser gestiti, accettati, condotti se la maggior parte delle persone non partecipa del problema e dei vari tentativi per affrontarlo. E’ come quando la famiglia (impresa/squadra di calcio etc.) è alle prese con problemi gravi, si fa consiglio, si spiega bene a tutti il problema, si sente cosa hanno da dire tutti gli altri, poi si decide e si fa accettando gli sbagli, gli intoppi, le difficoltà in comune. Non c’è una via facile per risolvere il nostro problema adattativo, forse molti non hanno ben presente realistiche diagnosi e prognosi cosa comportano.

ROBERTO BUFFAGNI E’ un’ipotesi di soluzione, spero che venga adottata ma diciamo che non ci scommetterei tanti soldi Pierluigi  Fuor di scherzo la tua ipotesi richiede, per cominciare, che ci sia un padre molto forte, saggio e autorevole, sennò la discussione in famiglia finisce nel chiacchiericcio o nella lite. Nella storia questo padre si chiama re, imperatore, zar, presidente, vedi tu, va bene anche Paperino, l’etichetta conta poco, conta il contenuto.

PIERLUIGI FAGAN A be’, neanche io. Tuttavia sarebbe già di conforto condividerne l’illusoria speranza. Mostrerebbe almeno senso adulto di responsabilità. Vedo molti che ancora pensano che il problema sia il motivetto da far suonare all’orchestra del Titanic. Ci rivediamo tutti di notte nella acque gelide…allora sì che forse si capirà quanto certe discussioni sono surreali.

ROBERTO BUFFAGNI E anche qui concordiamo al 371%. La lezione arriva, sarebbe meglio se arrivasse PRIMA dell’iceberg.

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IL MONDO È DI CHI FA PROGETTI, di Pierluigi Fagan

IL MONDO È DI CHI FA PROGETTI (quindi non è nostro). Pochi mesi dopo l’inizio del conflitto russo ucraino, postai articoli con dichiarazioni molto ben argomentate di Zelensky, nei quali il nostro dichiarava che l’Ucraina sarebbe diventata “l’Israele d’Europa”.
Si riferiva all’idea che, finito il conflitto (era da poco iniziato, ma lui pensava già al “dopo”), Kiev sarebbe diventata un polo tecnologico grazie ad investimenti esteri (occidentali), lanciando così una Ucraina 2.0 nel futuro dell’info-digitale-globale. Per la verità già c’era una storia poco illuminata di fabbriche di biotecnologie soprattutto americane (con dietro storie ancora più oscure in cui si diceva coinvolto il figlio di Biden) dislocate nel paese che, prima della guerra, era noto per essere fuori dal novero dei paesi civili e democratici, come sancito dal Democracy Index del the Economist da qualche anno.
Lo stesso “inner circle” di Zelensky, di cui alcuni rappresentanti abbiamo apprezzato nei talk italici, era composto da giovani rampanti, anglofoni, poco più che trentenni, allevati nelle università anglo-americane. Giovanotti e giovanotte perfettamente in linea culturale con questa idea di una Nuova Ucraina che tramite il bagno di sangue, sarebbe transitata da “stato fallito” a punta di lancia info-tecnica dell’Occidente intero. Tanto al fronte mica ci andavano loro.
La cosa aveva senso non solo in termini di contenuto, ma anche di forma in quanto una Ucraina così importante dal punto di vista della ricerca, sviluppo e produzione strategica per l’intera Europa, sarebbe stata di fatto nell’UE e nella NATO a prescindere da quanto tempo concreto si sarebbe impiegato per ratificarlo. In un altro post, poco tempo dopo l’inizio della guerra, riferivo del noto gruppo di interesse che collettava la galassia atlantista stabilitisi a Kiev da tempo che, già ai tempi dell’elezione di Zelensky, interveniva pubblicamente dicendogli cosa doveva e non doveva fare. Zelensky è stato eletto nel 2019, ma questa gente operava massicciamente in Ucraina da anni.
Tutte cose a suo tempo del tutto note a chi segue le questioni geopolitiche non serietà ovvero non chi si sveglia la mattina e si mette a commentare fatti (o meglio articoli di giornali che danno una certa versione dei fatti) come se questi sorgessero improvvisi dal cappello magico del Mago Epifenomeno.
Per altro, occorre lettori e lettrici comprendano che chi scrive non è un giornalista ed ha poco o nulla interesse a far da cane di caccia di questi dietro le quinte. Come studioso, so perfettamente che ci sono i dietro le quinte, è nella storia, come lo sanno tutti quelli che trattano questi argomenti. Basta quindi approcciare il fenomeno del mondo facendosi le domande giuste, basta una intervista a Zelensky, basta capire cosa sta dicendo dietro ciò che sta dicendo, unirlo ad altre info e si ha il quadro senza passare la vita a scavare nella fogna degli eventi che scorre sotto le nostre strade pulite, resilienti, inclusive, innovative, sfidanti, futuro-promettenti e quanto alla galassia dei “valori” con cui si baloccano le menti ignare della realtà pensando di vivere nel migliore dei mondi possibili.
Non solo gli studiosi, anche i poeti sanno queste cose come ad esempio T.S.Eliot per il quale era noto che “Il genere umano non può sopportare troppa realtà”. Cosa arcinota anche ad ogni potere che riveste le scabrose vicende proprie di ogni potere di confezioni profumate, colorate, morbide ed attraenti ovvero ideologie, passioni, valori, identità, manifesti etici. Chi li vota e chi si sottomette al loro comando, avrebbe uno choc nello scoprire quanto è disgustosa la faccenda.
Molti studiosi abboccano anche loro alla versione parolaia delle realtà, debbono campare quindi lo fanno per lavoro o per debolezza psico-cognitiva. Altri sopportano il male del mondo, c’è, che ci vuoi fare, almeno cerchiamo di capire come funziona, magari troviamo il modo per diminuirlo un po’. I poeti, invece, poverini, ne escono con l’anima maciullata visto che di impostazione sono persone che vivono coltivando la sensibilità umana. Per questo tra i poeti c’è il più alto tasso di suicidi.
Ad ogni modo, eccoci all’approdo odierno di cotanta storia. Copio + incollo da Repubblica di stamane:
«L’Ucraina diventerà l’Israele d’Europa». Gli analisti militari più esperti usano questa immagine per spiegare il senso della cosiddetta Alleanza delle industrie della difesa, l’iniziativa lanciata dal presidente Zelensky davanti a 252 produttori di armamenti ed equipaggiamento giunti a Kiev da trenta Paesi per partecipare al primo forum internazionale del settore organizzato a conflitto in corso. «L’Ucraina nel futuro prossimo vuole essere insieme hub della tecnologia bellica occidentale più avanzata e prima utilizzatrice delle forniture realizzate nel suo stesso territorio», concordano gli analisti. Non più solo consumatrice di sistemi d’arma, quindi, ma anche produttrice ed eventualmente esportatrice. «È lo scenario più plausibile, che ricorda appunto la situazione in cui si trova Israele». C’è da apprezzare il buonsenso dell’idea, da consumatore e produttore, razionalità economica e strategica in un colpo solo.
“Zelensky ha anche un secondo scopo, però: attrarre investimenti e creare partnership con l’industria internazionale della difesa, sia pubblica che privata, finalizzando joint venture che portino alla delocalizzazione, cioè alla produzione delle armi Nato direttamente in Ucraina. “ dice Rep. Ucraina bene comune dell’Occidente ed hot spot governato da una banda di oligarchi trafficanti d’armi che è poi esattamente quello che facevano anche prima della guerra, assieme a corpi di giovani donne e traffico di droga e continuano a fare “per finanziare la propria eroica resistenza”, certificato dal rapporto 2013 del Dipartimento di Stato americano INCSR (International Narcotics Control Strategy Report che elegge lo sfortunato paese, hub internazionale di primo livello nel black-business). Oddio “per finanziare la propria eroica resistenza” magari è un po’ esagerato visto che è abbondantemente finanziata da noi e dagli americani.
Deliziosa la chiusura dell’articolo del giornale di Molinari: “Dietro la mossa di Zelensky, dietro l’Alleanza offerta all’industria della guerra (concordata con Washington assicura il giornale e sponsorizzata dall’industria delle armi britannica e tedesca che poveretti, ora hanno problemi con la loro industria metallurgica visto che gli hanno tagliato il gas), c’è anzitutto un’esigenza. Impellente e decisiva. Kiev ha percepito che l’aiuto degli alleati non sarà per sempre e non sarà per sempre a costo zero. Glielo ha ricordato, ancora due giorni fa, il ministro della Difesa francese Lecornu. «Gli arsenali francesi si stanno svuotando. La fornitura gratuita di armi deve diventare l’eccezione, la regola dev’essere la partnership industriale». Che, tradotto, significa che l’Ucraina, nel medio termine, dovrà mettere in conto di dover pagare per veder arrivare le armi che le stanno consentendo di resistere alla Russia.”. Eh cribbio, mica vorremmo passare la vita a dare soldi agli ucraini per le armi no? Che se le producano loro!
Grandioso, e con quali soldi gli ucraini dovrebbe far investimenti per diventare la Nuova Israele? Ma che sciocchini che siete, coi nostri e con quelli di tutto il complesso finanziar-militar-industrial-commerciale che è la vera punta di lancia dell’Industria 4.0 con cui gli americani sperano di evitare il tramonto occidentale con qualche app ed un po’ di intelligenza artificiale attorno.
Passano gli anni, i decenni, ma l’essenza occidentale non fa un passo avanti, amiamo le tradizioni. Sì, va be’ c’è qualche maschio che si traveste da femmina, siamo per una nuova etica con cui trattare gli animali (Nussbaum), andiamo dallo psicologo perché non sopportiamo il peso della consapevolezza della sesta estinzione di massa che avanza a grandi passi, però al fondo amiamo la nostra essenza eterna: à la guerre comme à la guerre!
Così chi può, ha deciso che affronteremo l’era complessa, meno cultura, mono-informazione, più lavoro a meno costo e diritti, democrazia di nome mai ormai non più di minimo fatto, grandi ondate di indignazione contro il Male del mondo autocratico, arabo, africano, cattivo, insensibile, infame, discriminatorio.
Il mondo è di chi fa progetti, questo è il progetto per il nostro Occidente, pensato e composto da decenni, preparato, guidato, tessuto con perizia e pazienza mentre voi vi dedicate alle pesche. Se poi qualcuno ha l’ardire di farvelo notare, sarà sicuramente un complottista, va tutto bene. L’importante è che non vi venga neanche per l’anticamera del cervello il dubbio che il mondo va, più o meno, per come qualcuno l’ha progettato, le strategie non esistono, tutto accade come lo vedete, a caso, azione-reazione.
Un tizio maligno dopo venti anni di proscenio mondiale, accorpato addirittura nei G8, con cui abbiamo fatto lingua in bocca per anni ed anni, una mattina si sveglia e si ricorda che lui è l’erede di Pietro il Grande, invade l’Ucraina e noi ci alziamo come un sol uomo al grido di “Libertà, Liberta!”. Da qui alla Nuova Israele è un attimo, segue Armageddon. Valore dei classici…
[Non so se l’articolo è a pagamento, l’essenziale però l’ho riportato nel virgolettato] Il noto gruppo di interesse citato nell’articolo è questo, 2019, avvertimento al neoeletto Zelensky (in realtà eletto anche dai russofoni, con mire anticorruzione e favorevole a gli accordi di Minsk. Dopo aver letto “Foreign Policy Issues” (ripeto 2019!), andare su About UCMC e scrollare a Donors: https://uacrisis.org/…/71966-joint-appeal-of-civil…#
ll sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate: postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704 oppure iban IT30D3608105138261529861559 oppure
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la Russia, l’Ucraina e il rovesciamento dottrinale della NATO, di Big Serge_a cura di Roberto Buffagni

Traduco un’acuta, concisa e perspicua analisi tecnico-storica di “Big Serge”, probabilmente il miglior commentatore delle operazioni militari in Ucraina. È stata pubblicata il 4 ottobre in forma di thread su Twitter, account @witte_sergei.

L’Autore identifica le forti somiglianze tra la condotta delle operazioni russe in Ucraina e la dottrina NATO della “Airland Battle”, elaborata al culmine della Guerra Fredda per contrastare un attacco delle forze terrestri sovietiche, nettamente superiori per uomini e mezzi disponibili, e avvantaggiate dalla prossimità logistica al campo di battaglia. La dottrina della “Airland Battle” fu elaborata sotto il diretto influsso del più grande teorico militare statunitense, il colonnello John Boyd. L’analisi di “Big Serge” termina con queste parole: “Questo dovrebbe far riflettere i vertici militari occidentali. Piuttosto che liquidare i russi come un prodotto della forza bruta, dovrebbero considerare che questo esercito russo potrebbe essere un discepolo di John Boyd – un pensiero davvero preoccupante.”

È molto significativo che lo stesso, identico richiamo a John Boyd si ritrovi nell’illuminante studio in due parti sulle prime settimane di guerra che “Marinus” – probabilmente, il Ten. Gen. (a riposo) Paul Van Riper, Corpo dei Marines– ha pubblicato nel mese di giugno e agosto del 2022 sulla “Marine Corps Gazette”, e che a distanza di un anno e mezzo si rivela non soltanto di eccellente qualità, ma preveggente. Li ho tradotti[1] e approfonditamente commentati[2] su italiaeilmondo.com. La seconda parte dello studio termina così: “L’invasione russa dell’Ucraina potrebbe segnare l’inizio di una nuova guerra fredda, una “lunga lotta nel crepuscolo” paragonabile a quella che si è conclusa con il crollo dell’impero sovietico più di tre decenni fa. Se così è, allora ci troveremo di fronte a un avversario che, pur attingendo molto dal valore della tradizione militare sovietica, si è affrancato sia dalla brutalità insita nell’eredità di Lenin, sia dai paraocchi imposti dal marxismo. Ancor peggio, potremmo trovarci a combattere dei discepoli di John R. Boyd.

Buona lettura.

Roberto Buffagni

 

 

 

Thread: la Russia, l’Ucraina e il rovesciamento dottrinale della NATO

 

Da quando gli ucraini hanno iniziato la loro controffensiva nel sud del paese, è emerso un tema: i russi stanno combattendo in modo molto simile a quello dettato dalla dottrina della NATO della fine della guerra fredda.

(1)

Thread: Russia, Ukraine, and NATO's doctrinal reversal Ever since the Ukrainians began their counteroffensive in the south, a theme has emerged; namely, that the Russians are fighting in a manner eerily similar to that dictated by NATO's late cold-war doctrine. (1)

Cominciamo tornando ad alcune nozioni di base molto rudimentali. In guerra esistono due tipi di mezzi di combattimento: gli elementi della manovra e il fuoco. Coordinare l’interazione tra i vari mezzi di manovra e il fuoco a distanza è il compito fondamentale delle operazioni militari.

(2)

Let's start by going back to some very rudimentary basics. In warfare, there are really two types of combat assets: maneuver elements and fires. Coordinating the interplay of various maneuver assets and ranged fires is the foundational task of military operations. (2)

I mezzi di manovra sono quelli che forniscono potenza di combattimento sulla linea di contatto e determinano il controllo della posizione – carri armati, fanteria, veicoli blindati, ecc. I sistemi di fuoco a distanza sono quelli che forniscono potenza di fuoco a distanza dalla linea di contatto: artiglieria, razzi, droni, aerei, ecc.

(3)

Maneuver assets are those that deliver fighting power at the contact line and determine positional control - tanks, infantry, armored vehicles, etc. Ranged fires are systems that deliver firepower remotely from the contact line - artillery, rockets, drones, aircraft, etc. (3)

Al culmine della guerra fredda, i pianificatori militari occidentali si trovarono di fronte a un problema molto semplice: come si poteva organizzare una difesa efficace contro le forze del Patto di Varsavia/Armata Rossa che possedevano un enorme vantaggio in termini di mezzi di manovra? Qual è il piano di battaglia per una forza in inferiorità numerica?

(4)

During the height of the cold war, western military planners faced a very simple problem: how could an effective defense be waged against Warsaw Pact/Red Army forces which possessed an enormous advantage in maneuver assets? What is the plan of battle for an outnumbered force? (4)

I primi tentativi teorici di risolvere questo problema sono stati scoraggianti. Un’idea era quella di adottare una postura difensiva proattiva, concentrando la potenza di combattimento sulla linea di contatto più avanzata.

(5)

Early theoretical attempts to solve this problem were discouraging. One idea was to adopt a proactive defensive posture, concentrating fighting power at the most forward line of contact. (5)

Il problema di questo concetto era la dottrina sovietica delle operazioni sequenziali – pacchetti aggiuntivi di forze di riserva fresche per rafforzare l’attacco. Anche se le forze della NATO fossero riuscite a sconfiggere l’assalto iniziale sovietico, avrebbero avuto scarse possibilità di contrastare il secondo e il terzo assalto.

(6)

The problem with this concept was the Soviet doctrine of sequential operations - additional packages of fresh reserve forces to reinforce the attack. Even if NATO forces managed to defeat the initial Soviet onslaught, they had poor odds against the second and third assaults. (6)

Un’alternativa era la “Difesa in profondità”: più strati di linee difensive progettate per assorbire e attutire l’attacco nemico. Questa soluzione fu ritenuta politicamente problematica, perché implicava che gran parte della Germania occidentale potesse essere invasa e occupata prima che i sovietici esaurissero la loro forza.

(7)

An alternative was "Defense in Depth" - multiple layers of defensive lines designed to absorb and attrit the enemy attack. This was deemed politically problematic, because it implied that much of West Germany might be overrun and occupied before the Soviets ran out of steam. (7)

In definitiva, si trattava di un problema abbastanza semplice da capire, ma molto difficile da risolvere. Le forze sovietiche potevano contare su un vantaggio del 60% in carri armati e veicoli corazzati e su un vantaggio simile in termini di truppe.

(8)

Ultimately, this was a problem that was fairly straightforward to understand, but very hard to solve. Soviet forces could count on something like a 60% advantage in tanks and armored vehicles and a similar manpower advantage. (8)

Inoltre, l’URSS era molto più vicina al potenziale campo di battaglia (la Germania) rispetto agli Stati Uniti, il che significava che sarebbe stato molto più facile per i sovietici alimentare forze e rifornimenti aggiuntivi. Questo problema è cresciuto dopo il Vietnam, con la fine della leva in America.

(9)

Furthermore, the USSR was much closer to the potential battlefield (Germany) than the United States, which meant it would be much easier for the Soviets to feed in additional forces and supplies. This problem grew post-Vietnam with the end of the draft in America. (9)

La soluzione – fortemente influenzata dal più grande teorico militare americano, John Boyd – consisteva nel bloccare un’offensiva sovietica utilizzando una combinazione di fuoco a distanza potente e preciso e di sciami di contrattacchi da parte di mezzi di manovra a terra. Esaminiamone con ordine gli elementi.

(10)

The solution - influenced heavily by America's greatest military theorist, John Boyd - was to stymie a Soviet offensive using a combination of powerful and precise ranged fires and swarming counterattacks by maneuver assets on the ground. Let's review the elements in turn. (10)

Il vantaggio sovietico in termini di potenza di combattimento si basava su un massiccio sistema di alimentazione logistica. Dovevano sia alimentare forze aggiuntive in battaglia (scaglioni) sia spostare continuamente enormi quantità di carburante, munizioni e materiali al fronte.

(11)

The Soviet combat power advantage relied on a massive sustainment system. They needed to both feed additional forces into battle (echelons) and continually move enormous quantities of fuel, munitions, and material to the front. (11)

La superiorità del fuoco di precisione americano – in particolare i sistemi missilistici basati a terra (HIMARS) e quelli lanciati dall’aria – offriva il potenziale per interrompere il sistema di sostentamento sovietico, fornendo potenza di fuoco in profondità nelle retrovie dello spazio di battaglia.

America's superior precision fires - particularly ground based rocketry (HIMARS) and air launched systems - offered the potential to disrupt the Soviet sustainment system by delivering firepower deep into the rear of the battlespace. (12)

Si prevedeva che la capacità di colpire con continuità e potenza avrebbe strangolato la potenza di combattimento sovietica, costringendola a nascondere e distribuire le risorse, impedendole di concentrare le forze di riserva, di spostarle rapidamente al fronte o di rifornirle.

. (13)

It was anticipated that a sustained and powerful strike capability would choke off Soviet fighting power by forcing them to hide and distribute assets, preventing them from concentrating reserve forces, moving them quickly to the front, or supplying them. (13)

Saturando le retrovie sovietiche di attacchi, si sperava che la potenza di combattimento sovietica potesse essere fortemente ridimensionata, impedendo all’Armata Rossa di concentrare i suoi mezzi di terra superiori, e rallentando il loro arrivo sulla linea di contatto.

(14)

By saturating the Soviet rear area with strikes, it was hoped that Soviet fighting power could be severely blunted by preventing the Red Army from concentrating its superior assets on the ground and slowing their arrival at the line of contact. (14)

Inoltre, il col. John Boyd suggerì quello che chiamò “counter blitzing”, una dottrina di vivaci contrattacchi su tutto il fronte nemico. Ciò avrebbe creato una situazione operativa ambigua e avrebbe impedito al nemico di concentrare le sue forze.

(15)

Furthermore, Col. John Boyd suggested what he called "counter blitzing" - a doctrine of lively counterattacking all over the enemy front. This would create an ambiguous operational situation and further prevent the enemy from concentrating his forces. (15)

In sostanza, queste dottrine sinergiche – attacchi di precisione in profondità e una postura di contrattacco frenetica e aggressiva – avrebbero esteso lo spazio di battaglia in tutte le direzioni, diluito la potenza di combattimento dei sovietici, e impedito loro di concentrare le forze per un assalto decisivo.

(16)

In essence, these synergistic doctrines - precision strikes in depth and a frenetic and aggressive counterattacking posture - would stretch the battlespace out in all directions, dilute Soviet fighting power, and prevent them from concentrating forces for a decisive assault. (16)

Nel complesso, questa dottrina era nota come “Airland Battle” (battaglia aereo-terrestre) e la sua qualità distintiva era la difesa in contrattacco e l’uso del fuoco di precisione per distruggere le forze nemiche di retroguardia e degradare il sostentamento del nemico.

(17)

Collectively, this doctrine was popularly known as "Airland Battle", and its defining quality was a counterattacking defense and the use of precision fires to attrit rear echelon enemy forces and degrade the enemy's sustainment. (17)

Ebbene, cosa vediamo in Ucraina? Qualcosa di piuttosto simile alla “Airland Battle”, alla battaglia aereo-terrestre, a quanto pare. La difesa russa dalla controffensiva ucraina ha visto sia una postura di contrattacco altamente proattiva, sia una crescita esponenziale delle capacità di attacco russe.

(18)

Well, what do we have in Ukraine? Something rather similar to Airland Battle, it would seem. The Russian defense against the Ukrainian Counteroffensive has seen both a highly proactive counterattacking posture and an exponential growth in Russian strike capabilities. (18)

Mentre la NATO si è impegnata a riattrezzare le forze meccanizzate dell’Ucraina (soprattutto mezzi di manovra di grosso calibro), la maggior parte delle nuove capacità della Russia si presentano sotto forma di fuochi di sbarramento come il Lancet, il Geran, l’UMPK e gli sciami di droni FPV che affliggono le truppe ucraine.

(19)

While NATO labored to retool Ukraine's mechanized force (mainly big ticket maneuver assets), most of Russia's new capabilities come in the form of standoff fires like the Lancet, Geran, UMPK, and the swarms of FPV drones that plague Ukrainian troops. (19)

Mentre gli ucraini vogliono concentrare il loro pacchetto meccanizzato a sud, i russi hanno sferrato attacchi opportunistici su tutto il fronte, attirando le riserve ucraine e creando un’estrema ambiguità operativa. Il col. John Boyd approverebbe.

(20)

While the Ukrainians want to concentrate their mechanized package in the south, the Russians have conducted opportunistic attacks all around the front, drawing in Ukrainian reserves and creating extreme operational ambiguity. Col. John Boyd would approve. (20)

Nel frattempo, i mezzi d’attacco russi continuano a martellare le aree di sosta, i depositi di munizioni e i posti di comando nel teatro meridionale. Hanno colpito treni e punti di assemblaggio, e tempestano le forze ucraine con i droni.

(21)

Meanwhile, Russian strike assets continue to hammer staging areas, ammunition dumps, and command posts in the southern theater. They've hit trains and assembly points, and they harry Ukrainian forces with drones. (21)

Tutto questo rende quasi impossibile per l’Ucraina concentrare i mezzi di manovra per attaccare, e rallenta il rafforzamento dei loro attacchi. In queste condizioni, è quasi impossibile attaccare con successo. Il fuoco viene sfruttato per disperdere e dissipare i mezzi di manovra del nemico.

(22)

All of this works to make it nearly impossible for Ukraine to concentrate maneuver assets to attack, and slow to reinforce their efforts. Under these conditions, its nearly impossible to attack successfully. Fires are leveraged to dissipate the enemy's maneuver assets. (22)

Ovviamente, la dottrina militare russa attinge al suo profondo pozzo di elaborazioni teoriche – il punto qui non è suggerire che abbiano rubato la “Airland Battle”. Forse, invece, dovremmo dire che il piano “Airland Battle” aveva identificato le verità fondamentali del campo di battaglia e delle operazioni.

(23)

Obviously, Russian military doctrine is its own deep well of thinking - the point here is not to suggest that they ripped off Airland Battle. Maybe instead, we should say that Airland Battle had identified fundamental truths of the battlefield and operations. (23)

Quando il nemico ha bisogno di concentrare le sue forze per attaccare con successo, la risposta logica è estendere lo spazio di battaglia sia orizzontalmente (contrattaccando freneticamente) che verticalmente (colpendo le sue infrastrutture di supporto e le sue riserve), costringendolo a disperdersi.

(24)

When the enemy needs to concentrate his forces to attack successfully, the logical response is to stretch the battlespace both horizontally (counterattacking frenetically) and vertically (striking his sustainment infrastructure and reserves), forcing him to disperse. (24)

Questo dovrebbe far riflettere i vertici militari occidentali. Piuttosto che liquidare i russi come un prodotto della forza bruta, dovrebbero considerare che questo esercito russo potrebbe essere un discepolo di John Boyd – un pensiero davvero preoccupante.

(25)

This should give western military leadership pause. Rather than dismissing the Russians as a product of brute force, they ought to consider that this Russian Army might just be a disciple of John Boyd - a sobering thought indeed. (25)

 

 

[1] https://italiaeilmondo.com/2022/08/29/linvasione-russa-dellucraina-parte-i-e-ii-di-marinus_a-cura-di-roberto-buffagni/

[2] http://italiaeilmondo.com/2022/08/31/sulle-implicazioni-dello-studio-sullinvasione-russa-dellucraina-pubblicato-dalla-marine-corps-gazette-di-roberto-buffagni/

Perché il multilateralismo è ancora importante, di Leslie Vinjamuri

U.S. Secretary of State Antony Blinken in New York City, September 2023
U.S. Secretary of State Antony Blinken in New York City, September 2023
Zak Bennett / Reuters

Nel settembre del 2022, quando i leader mondiali si riunirono a New York per la precedente edizione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, gran parte della settimana fu dominata dagli sforzi dei funzionari occidentali per conquistare i cosiddetti swing states, Paesi tra cui l’India e il Sudafrica, che erano seduti sulla soglia della guerra in Ucraina. Ma molti di questi Paesi non si sono accontentati di far parte di un ordine occidentale non riformato guidato dagli Stati Uniti. Si sono rifiutati di dare il loro pieno sostegno a Kiev, o anche di appoggiare una risoluzione che condannasse la Russia per la sua violazione dell’integrità territoriale dell’Ucraina. Hanno invece favorito un’agenda che bilanciasse i propri interessi e principi nazionali.

Un anno dopo, l’ambizione era in gran parte la stessa, ma il copione era cambiato. All’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 2023, i funzionari occidentali hanno nuovamente lanciato appelli ai Paesi leader del Sud globale. Questa volta, però, questi funzionari hanno calcolato che il modo per ottenere il sostegno e l’appoggio di questi Paesi sull’Ucraina era quello di sostenere nuovi approcci al multilateralismo e ai partenariati per lo sviluppo. Parte di questa campagna è stata guidata da una maggiore consapevolezza delle difficoltà economiche di questi Stati, ma anche la crescente rivalità di Washington con Pechino, che sta cercando di guidare il Sud globale, è una forza trainante. Il braccio di ferro per la guida del Sud globale si è svolto in altre sedi, tra cui i recenti incontri del G-20, dell’ASEAN e dei BRICS.

Gli Stati Uniti e la Cina non sono i soli a tentare di mettere d’accordo questo grande e importante gruppo di Paesi. Alcuni dei principali swing states, in particolare India e Brasile, stanno cercando di guidare questo blocco. Anche il Kenya si sta facendo avanti, almeno per guidare l’Africa, e ha lanciato i suoi appelli all’Assemblea generale delle Nazioni Unite di quest’anno, corteggiando gli Stati Uniti con l’offerta di inviare forze di pace ad Haiti, affascinando gli europei con un vertice sul clima in Africa e tenendo la porta aperta sia alla Cina che alla Russia. La leadership del Sud globale, e la leadership del Sud globale, è arrivata a dominare la diplomazia dei vertici internazionali.

Ma tutti questi contendenti devono affrontare realtà politiche interne che compromettono le loro prospettive di conquistare i Paesi in via di sviluppo. La politica populista e i sentimenti isolazionisti vincolano molti leader occidentali. La crescita lenta, anche in Cina, non fa che esacerbare questi vincoli. Nel frattempo, i tentativi dei Paesi leader del Sud globale di creare nuovi accordi internazionali propri hanno avuto un impatto limitato e gli aspiranti leader di Brasilia e Nuova Delhi devono affrontare le proprie pressioni interne.

Al momento non è probabile che emerga un unico leader del Sud globale. Ma dare ai suoi principali membri un posto al tavolo più alto, in un accordo multilaterale più inclusivo, rimane più urgente che mai.

GIOCARE AL RIALZO
La spinta della Cina a fornire infrastrutture a molti Paesi in via di sviluppo ha contribuito a indebolire l’influenza dell’Occidente sul Sud globale. Per gran parte dello scorso decennio, le nazioni occidentali hanno osservato la Cina lanciare la sua Belt and Road Initiative (BRI) da 1.000 miliardi di dollari, e l’interesse si è trasformato in preoccupazione quando Pechino ha firmato accordi infrastrutturali con quasi 150 Paesi. In risposta, le potenze occidentali si sono sentite obbligate ad agire, ma si sono mosse lentamente per formulare fonti alternative di finanziamento delle infrastrutture che promuovessero i valori liberali.

Nel 2019, Australia, Giappone e Stati Uniti hanno lanciato il Blue Dot Network, per guidare gli investimenti verso infrastrutture di alta qualità. Washington voleva portare il piano al G-7 del 2020, ma il vertice è stato annullato a causa della pandemia e i progressi si sono arenati. La percepita mancanza di leadership occidentale è stata poi aggravata dall’incapacità di guidare la fornitura di vaccini nei Paesi in via di sviluppo e di sviluppare una risposta adeguata alla crescente necessità di ridurre il debito.

Lo sforzo del Presidente degli Stati Uniti Joe Biden di ripristinare l’immagine internazionale degli Stati Uniti dopo il suo insediamento nel 2021 ha incluso anche un rinnovato impegno a migliorare il funzionamento del G7. Al vertice del 2021 in Cornovaglia, il G-7 ha lanciato l’iniziativa Build Back Better World (B3W). La B3W è stata concepita per far fronte a una carenza di infrastrutture globali stimata in 40.000 miliardi di dollari, utilizzando i fondi governativi per mobilitare il capitale privato. L’iniziativa doveva essere di portata globale, con un’attenzione particolare ai Paesi a basso e medio reddito. A differenza della Cina, che si è concentrata su porti, ferrovie e strade, la B3W ha ampliato la definizione di infrastruttura per includere il clima, la salute e la sicurezza sanitaria, la tecnologia digitale e l’equità e la parità di genere.

Un anno dopo, in seguito all’invasione dell’Ucraina e al ridimensionamento del piano Build Back Better di Biden in patria, il G-7 si è riunito in Germania e ha ribattezzato il B3W come Partnership for Global Infrastructure and Investment (PGII). L’ambizione è rimasta quella di sbloccare capitali pubblici e privati per investimenti in infrastrutture con particolare attenzione all’energia, al digitale, alla salute e al clima, allineati agli standard occidentali. Gli Stati Uniti intendono investire 200 miliardi di dollari, oltre a un obiettivo generale del G-7 di 600 miliardi di dollari per gli investimenti infrastrutturali nel Sud globale.

APRIRE I RUBINETTI
Dal suo lancio, il PGII ha compiuto lenti progressi, proprio mentre è cresciuta l’ambizione di Washington di ampliare e approfondire il proprio appeal nei confronti del Sud globale. Finora gli Stati Uniti hanno mobilitato solo 30 miliardi di dollari della quota prevista di 200 miliardi.

Rispondendo alle richieste dei Paesi del Sud globale di riformare le strutture delle istituzioni multilaterali create all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, il governo statunitense ha accolto le richieste di ampliare il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e di renderlo più responsabile nei confronti dell’Assemblea Generale. L’anno scorso, il Presidente Biden ha dichiarato all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che gli Stati Uniti avrebbero sostenuto lo sforzo di espandere il numero di seggi permanenti e non permanenti nel Consiglio di Sicurezza. L’amministrazione Biden ha poi appoggiato la decisione del G-20, presa a settembre, di concedere all’Unione Africana un posto al tavolo. Washington sta ora chiedendo al Congresso di aumentare i finanziamenti alla Banca Mondiale di 25 miliardi di dollari.

L’amministrazione Biden sta anche creando partenariati regionali con i Paesi del Sud globale. A margine dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite di quest’anno, il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha presieduto un evento che ha lanciato un nuovo partenariato per la cooperazione atlantica. Questo nuovo forum riunisce 32 Paesi – tutti, è stato annunciato, “accomunati dall’impegno per una regione atlantica pacifica, prospera, aperta e cooperativa” – e si concentra sul potenziamento della cooperazione in campo scientifico, tecnologico, della protezione ambientale e dello sviluppo. L’amministrazione sta inoltre lavorando in tutta l’area indo-pacifica per costruire partenariati agili e flessibili, tra cui il Quadrilatero, o Quadrilateral Security Dialogue, con Australia, India e Giappone.

Ma gli Stati Uniti non sono l’unico Paese a farsi avanti. Nel dicembre 2021, l’Unione Europea ha lanciato il Global Gateway, la propria offerta di leadership e influenza tra i Paesi in via di sviluppo. Nell’ambito di questa iniziativa, la Commissione europea attinge ai fondi di sviluppo esistenti dei suoi Stati membri per mobilitare investimenti pubblici e privati per circa 315 miliardi di dollari in infrastrutture entro il 2027, nel tentativo di migliorare i collegamenti con il Sud globale. L’UE mira a costruire partenariati piuttosto che la dipendenza che il BRI ha creato. Ma l’offerta europea, per quanto impressionante, è su scala minore rispetto a quella cinese, e si applicano tutte le regole e gli standard abituali dell’UE, il che crea un’asticella molto più alta da superare per i Paesi beneficiari.

Nel Pacifico, nel tentativo di gestire l’assertività della Cina, il Giappone ha usato la sua leadership del G-7 per corteggiare potenziali partner durante la riunione del gruppo a Hiroshima in maggio. I leader di alcuni Paesi che non fanno parte del G-7 – Australia, Comore, Isole Cook, Brasile, India, Indonesia, Corea del Sud e Vietnam – sono stati comunque invitati a partecipare.

FUORI DALLA FOLLA
Gli sforzi dell’Occidente potrebbero rivelarsi troppo pochi e tardivi per conquistare il Sud globale. Molti di questi Paesi stanno già cercando un proprio ruolo di leadership. La Cina, con il suo programma BRI, spicca. In qualità di maggior creditore ufficiale del mondo e di maggior partner commerciale dell’Africa e del Sud America, ha già fatto le maggiori incursioni, ma anche altri Paesi sono in lizza e utilizzano i vertici globali per promuovere le proprie ambizioni. Ad agosto, i Paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) hanno deciso di invitare sei nuovi membri: Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. È stato un tentativo, da parte della Cina in particolare, di formare un rivale del G7.

Al di là di questi vertici internazionali, alcuni Paesi stanno cercando di affermare le proprie speranze di leadership. All’Assemblea generale delle Nazioni Unite di quest’anno, ad esempio, il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva ha lanciato il suo tentativo di guidare il mondo in via di sviluppo dando al Sud globale una maggiore partecipazione alla governance internazionale e sottolineando il ruolo del Brasile come leader del clima. Ha cercato di posizionare il suo Paese come campione dell’inclusione sociale e si è rifiutato di prendere le parti della Cina o degli Stati Uniti.

Quest’anno, tuttavia, l’India si è distinta e ha perseguito un ruolo sempre più assertivo sulla scena internazionale. A seguito delle crescenti pressioni su Nuova Delhi affinché scegliesse da che parte stare nella guerra in Ucraina, l’India ha invece scelto di giocare il campo e di costruire partnership con diverse grandi potenze e Paesi in via di sviluppo. Quest’anno ha approfondito le sue relazioni strategiche con gli Stati Uniti e ha confermato il suo ruolo centrale nel Quad e nei BRICS.

Ma è la leadership indiana del G-20, durata un anno, che ha rappresentato il suo principale strumento organizzativo, in patria e all’estero. Nuova Delhi ha sfruttato il G-20 per mettere in risalto le sue credenziali di leader dei Paesi in via di sviluppo e di partner delle grandi potenze. Il G-20 è stato messo in scena come un road show composto da centinaia di eventi che si sono svolti nel corso dell’anno e la segnaletica è stata diffusa in tutto il Paese. Gli obiettivi del G-20 sono stati concepiti per essere incentrati sulle persone e sull’inclusione, in settori quali le infrastrutture pubbliche digitali e gli investimenti nella parità di genere. La Dichiarazione dei leader di Nuova Delhi ha chiesto riforme importanti per rimodellare l’ordine multilaterale esistente, in particolare le istituzioni come la Banca Mondiale e il FMI. La dichiarazione è ambiziosa e ha delineato piani audaci per collegare l’India alla Grecia e all’Europa continentale attraverso una rotta ferroviaria e marittima che attraversa il Medio Oriente.

TUTTA LA POLITICA È LOCALE
Il numero di appelli globali rivolti al Sud del mondo è impressionante. Ma questi appelli sono arrivati in ritardo e il divario tra ambizioni e risultati è grande. La politica interna dell’Occidente sta frenando l’istinto al globalismo, così come la stanchezza da vertice. I limiti delle ambizioni occidentali di leadership sono stati particolarmente evidenti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite di quest’anno, dove i leader di Francia e Regno Unito non si sono presentati. E nemmeno quelli di Cina e Russia. Biden era l’unico leader di uno Stato del Consiglio di Sicurezza presente. Il gruppo di ministri e personale di supporto ha fatto ben poco per coprire la clamorosa assenza dei leader delle potenze che esercitano il diritto di veto.

Nel suo discorso all’Assemblea Generale, Biden ha espresso l’ambizione di costruire nuove partnership in grado di affrontare le principali sfide globali. Ma la sua capacità di creare un legame chiaro tra la sua politica estera per la classe media e il sostegno degli Stati Uniti al multilateralismo rimane tenue. Le forze economiche, tra cui il recente sciopero dei lavoratori dell’auto, e le pressioni politiche, che potrebbero portare alla chiusura del governo americano, minacciano la sua capacità di leadership internazionale. Le reazioni dei repubblicani al Congresso potrebbero ostacolare gli sforzi del Presidente per ottenere un maggiore sostegno all’Ucraina. Inoltre, il desiderio di Biden di mantenere contatti diplomatici e di cooperare con Pechino per affrontare il problema del cambiamento climatico lo rende suscettibile di attacchi per essere morbido nei confronti della Cina. L’Europa e gran parte del resto del mondo sono sempre più nervosi per il fatto che l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump potrebbe vincere le elezioni presidenziali americane del 2024 e sconvolgere il periodo di multilateralismo che è stato rafforzato sotto Biden. In questo contesto, la prospettiva che gli Stati Uniti realizzino un’agenda ambiziosa per il Sud globale sembra remota.

Gli appelli rivolti al Sud globale sono arrivati in ritardo e il divario tra ambizioni e risultati è grande.

Gli Stati Uniti non sono i soli a dover affrontare forti pressioni interne. L’Europa è alle prese con le conseguenze della guerra in Ucraina e con il crescente sostegno ai partiti di estrema destra, il che non fa presagire un impegno nei confronti del Sud globale. Il Regno Unito, reduce da un’estate di scioperi e che quest’anno dovrebbe avere la peggiore inflazione del G-7, ha ampiamente abdicato al suo ruolo di leadership tra i Paesi in via di sviluppo, tagliando il suo bilancio per lo sviluppo e abolendo il Dipartimento per lo Sviluppo Internazionale. Anche la Cina è in difficoltà a causa della crescente stagnazione economica. L’India è continuamente assediata da una politica interna divisiva e, sebbene abbia fatto progressi nella riduzione della povertà, non è riuscita a creare una politica più inclusiva o a superare le divisioni basate sull’identità. Il Brasile, dopo un’elezione polarizzata e una transizione turbolenta, è uscito solo di recente da un periodo di leadership altamente divisiva.

Di fronte ai vincoli interni di questi Paesi, la cooperazione internazionale è difficile e ancora più essenziale. Tuttavia, nessuna singola istituzione si pone al di sopra di tutte le altre. Le istituzioni multilaterali nate dal desiderio di respingere l’Occidente hanno mostrato pochi segni di essere in grado di costruire un consenso o una serie di priorità per il Sud globale. L’espansione dei BRICS, ad esempio, manca di credibilità come forum alternativo per la leadership, dal momento che i suoi due membri più potenti, India e Cina, difficilmente la pensano allo stesso modo. La dichiarazione dei leader del G20 a Nuova Delhi, incentrata su un multilateralismo riformato, è certamente ambiziosa, ma è meno chiaro se questi accordi potranno essere attuati. E il Brasile, il prossimo Paese ospitante, avrà bisogno di costruire lo slancio. Il G-20 potrebbe essere più importante per consentire un dialogo attivo e sostenuto che per ottenere risultati.

È anche difficile immaginare il G-7 come un serio contendente per la leadership del Sud globale. L’affiatamento del forum e la sua coesione basata sui valori sono impressionanti, così come lo sforzo di integrare un secondo livello di partner alle sue riunioni. Ma il resto del mondo è stato escluso e si sta muovendo. Forse non esiste più un’unica istituzione che possa essere una panacea. Ma in assenza di un’alternativa valida, sarà necessario uno sforzo sostenuto per riformare le istituzioni multilaterali esistenti. Ciò significa aggiornare i membri e fornire le risorse finanziarie che possono consentire alle istituzioni di realizzare le loro ambizioni. Queste istituzioni devono essere sostenute da un gruppo di istituzioni più piccole e agili, in grado di muoversi rapidamente per risolvere una serie di problemi sempre più complessi e diversificati. In ultima analisi, tuttavia, l’impegno a costruire un multilateralismo efficace dovrà essere forgiato in patria.

  • LESLIE VINJAMURI is Director of the U.S. and the Americas Program at Chatham House and Professor of International Relations at SOAS University of London.
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Giorgia nel paese delle meraviglie_Con Augusto Sinagra

La postura assunta dal nostro Presidente del Consiglio cerca di rivestirsi di una solennità e di una autorevolezza che, però, fatica a corrispondere con la realtà e le immagini che ci vengono trasmesse. La collocazione politica del Governo nell’agone mondiale è nettissima. Mostra un asse sempre più stretto con la Gran Bretagna e la attuale leadership statunitense nei contenuti del quale non appaiono chiare contropartite ed evidenti vantaggi per il nostro paese. L’Italia si sta trovando disarmata ed inconsapevole nel guado di relazioni europee dal sapore sempre più conflittuale e trascinata per inerzia ed affinità culturale del proprio capo di governo nelle logiche delle componenti più avventuriste ed oltranziste sulle quali poggiano le forzature statunitensi. All’interno del paese i proclami sbandierati di recupero della sovranità economica e del produttivismo industriale si stanno traformando inopinatamente in una manciata di assistenzialismo compassionevole che non lascia presagire nessun cambiamento serio delle dinamiche socio-economiche se non in peggio. La critica al dilettantismo dei Governi Conte sono il pretesto per una tabula rasa senza alternative. L’abbaglio delle luci della vita di corte sta facendo il resto. Buon ascolto, Giuseppe Germinario
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La Cina può davvero costruire un nuovo ordine mondiale?_Nicholas Bequelin

Una domanda mal posta, almeno al momento, semplicemente perché la dirigenza cinese non cerca il predominio ma interlocutori in grado di contrastare l’egemonismo avventurista statunitense; addirittura cerca di esorcizzare la formazione di un mondo multipolare con un sistema di relazioni multilaterale nel medio periodo in realtà velleitario. E’ proprio l’oltranzismo statunitense a spingere verso coalizioni nettamente contrapposte propedeutiche alla formazione di un contesto multipolare. E’ l’onda che per inerzia o per scelta tutti saranno costretti a seguire in maniera accelerata. Giuseppe Germinario

La Cina può davvero costruire un nuovo ordine mondiale?

Se si considera l’attuale politica estera di Pechino, il risultato più probabile della sua spinta a rimodellare la governance globale è il disordine, non un nuovo ordine mondiale cinese.

La Cina può davvero costruire un nuovo ordine mondiale?
Il presidente cinese Xi Jinping interviene al dibattito generale della 70a sessione dell’Assemblea generale, 28 settembre 2015.Credit: UN Photo/Cia Pak
Non passa giorno senza che vengano pronunciate nuove dichiarazioni sull’intenzione della Cina di rimodellare l’ordine mondiale.“La Cina è l’unico paese che ha sia l’intento di rimodellare l’ordine internazionale sia il potere per farlo”, ha avvertito il segretario di Stato americano Antony Blinken . L'”obiettivo chiaro di Pechino è un cambiamento sistemico dell’ordine internazionale con la Cina al centro”, gli ha fatto eco Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea. “Insieme”, Cina e Brasile possono “ cambiare la governance mondiale ”, ha promesso il presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva.Ogni mossa di Pechino viene letta come un tentativo di promuovere il “progetto cinese per un ordine mondiale alternativo”, come ha intitolato un recente articolo il Financial Times , e di costruire “Il mondo secondo Xi” – una recente copertina dell’Economist . Non passa settimana senza che eminenti studiosi di relazioni internazionali o un ex leader mondiale si pronuncino su cosa si dovrebbe fare per preservare il cosiddetto “ordine basato sulle regole” minacciato da una Cina revisionista.Le prove raccolte spaziano dalle dichiarazioni della Cina stessa sulla sua ambizione di inaugurare un “ nuovo tipo di relazioni internazionali ”, alla sua influenza economica sulla maggior parte del mondo in via di sviluppo, ai suoi risultati nell’allargamento di gruppi incentrati sulla Cina come i BRICS o l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai ( SCO), il suo indiscutibile superamento di ex potenze pari come Russia e India, il successo di nuove iniziative diplomatiche come l’ accordo Iran-Arabia Saudita e il generale declino del potere e del prestigio dell’Occidente.

La virtù principale di questa narrazione risiede nella sua semplicità: la Cina è diventata una delle maggiori potenze mondiali, si dice, e quindi vuole che le sue preferenze e i suoi valori si riflettano nell’ordine internazionale, più o meno allo stesso modo in cui gli Stati Uniti hanno imposto la sua impronta sulle istituzioni del dopoguerra. Questo è vero. Ma la vera domanda è quanto Pechino riuscirà davvero a costruire un nuovo ordine, invece di intaccare quello vecchio.

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Non si può negare che la Cina abbia notevolmente rafforzato la sua ambizione di far sentire la propria voce sulla scena internazionale. Da settembre 2021, Pechino ha presentato non meno di tre “ Iniziative globali ”, rispettivamente su sviluppo, sicurezza e civiltà. del presidente Xi Jinping Insieme alla Belt and Road Initiative (BRI), questi costituiscono ora i quattro pilastri dell’iniziativa “ Comunità per un futuro condiviso ” , salutata da Pechino come un piano per “la pace e la stabilità mondiale” e “una forte forza trainante per lo sviluppo globale”. .”

Né è discutibile il crescente peso della Cina all’interno delle Nazioni Unite. Pechino è il secondo maggiore contribuente al bilancio delle Nazioni Unite e gestisce un proprio “ Fondo fiduciario per la pace e lo sviluppo ” separato da 200 milioni di dollari direttamente sotto il segretario generale. I cittadini cinesi costituiscono il personale dei vertici più alti delle organizzazioni, con incarichi come sottosegretario generale per gli affari economici e sociali (ECOSOC) e direttore generale dell’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO). Al Consiglio di Sicurezza, Pechino non è più timida nell’esercitare il suo potere di veto e nel modellare la direzione dei dibattiti minacciando di usarlo. Ed è sempre più in grado di mobilitare altri Stati membri a sostegno delle sue posizioni: l’anno scorso ha respinto una proposta di risoluzione al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite per esaminare le accuse secondo cui crimini contro l’umanità . nello Xinjiang venivano commessi

Tuttavia, l’idea che la Cina stia perseguendo con determinazione una strategia coerente non potrebbe essere più lontana dalla verità. Perché? Perché vista da vicino, la diplomazia cinese è in pratica lacerata da contraddizioni, incoerenze e confusione.

A cominciare dal ruolo delle Nazioni Unite. Una settimana prima dell’apertura dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, all’inizio di questo mese, la Cina ha presentato una “Proposta sulla riforma e lo sviluppo della governance globale”, che delineava un programma ambizioso per attuare il “vero multilateralismo” sostenendo le Nazioni Unite “nel giocare un ruolo centrale”. ruolo negli affari internazionali” e “dare voce ai paesi in via di sviluppo”. Ma all’Assemblea Generale stessa, Pechino ha scelto di inviare solo un funzionario di terzo grado , mentre il suo capo diplomatico Wang Yi era impegnato in un viaggio di alto profilo in Russia durante il quale ha incontrato Vladimir Putin.

L’atteggiamento della Cina nei confronti dei BRICS , un gruppo inizialmente composto da Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa che ora rappresenta oltre il 40% del PIL mondiale, appare altrettanto incoerente. Il mese scorso, su iniziativa di Pechino, il gruppo ha aggiunto sei membri (Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti), in quella che l’agenzia di stampa Reuters ha prevedibilmente definito “una mossa volta ad accelerare la spinta [della Cina] verso riorganizzare l’ordine mondiale”.

Xi ha partecipato di persona al vertice dei BRICS a Johannesburg, in Sud Africa, pronunciando un importante discorso durante il quale ha assicurato che la Cina è “pronta a lavorare con i BRICS e ad approfondire la cooperazione a tutti i livelli”.

“Non importa come cambia la situazione internazionale”, ha promesso, “il nostro impegno di cooperazione sin dall’inizio e la nostra aspirazione comune non cambieranno”.

Eppure, poche settimane dopo, Xi ha deliberatamente snobbato il vertice del G-20 ospitato dall’India, nonostante i membri BRICS rappresentassero oltre un terzo dei membri del G-20 e un programma del vertice che rifletteva molte delle loro preoccupazioni.

È altrettanto difficile dare un senso alla tanto decantata auto-rappresentazione della Cina come paladina del Sud del mondo. Da un lato Pechino ha indubbiamente investito notevoli capitali diplomatici ed economici con i paesi in via di sviluppo di tutto il mondo, e non perde occasione per riaffermare che la Cina stessa è un paese in via di sviluppo.

“La Cina è la più grande nazione in via di sviluppo del mondo e un membro naturale del Sud del mondo”, ha detto Li Xi, rappresentante personale di Xi Jinping, in una riunione del Gruppo dei 77, una coalizione di 135 paesi in via di sviluppo che si è incontrata a Cuba durante la Assemblea Generale delle Nazioni Unite. “Non importa quale stadio di sviluppo raggiungerà”, ha aggiunto, “la Cina farà sempre parte del mondo in via di sviluppo”.

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Ma cosa dovrebbero pensare allora i membri del Sud del mondo della visione di Xi Jinping di una partnership sempre più stretta con la Russia? “In questo momento ci sono cambiamenti che non vedevamo da 100 anni”, ha detto in modo memorabile alla sua controparte russa mentre si trovava sui gradini del Cremlino al termine della sua visita di Stato nel marzo 2023. “Quando siamo insieme, possiamo guidare questi cambiamenti”. Questa enfasi su un leader degli affari globali come coppia sino-russa appare nettamente in contrasto con le promesse di costruire un “vero multilateralismo” con il Sud del mondo e con le denunce di come “ unilateralismo ed egemonismo stiano diventando dilaganti”.

E mentre l’economia cinese ha beneficiato generosamente dell’aumento degli scambi con la Russia, ed essendo il principale importatore di grano dall’Ucraina nell’ambito del programma “Iniziativa del Mar Nero” sostenuto dalle Nazioni Unite, i paesi in via di sviluppo con i quali Pechino si impegna a solidarizzare sono stati colpiti dall’insicurezza alimentare e da una forte crisi deterioramento delle condizioni economiche a seguito dell’invasione di Mosca.

Uno sguardo attento alla condotta della Cina sulla scena diplomatica rivela numerose contraddizioni e incoerenze simili. La Cina ha bisogno di presentare un volto “ amabile ” al mondo, ha esortato Xi Jinping, ma la sua politica estera rimane dominata dalla “ guerriero lupo diplomazia del ”, una combinazione di spavalderia, disinformazione e invettive, inizialmente limitata ai social media ma ora comune in ambito diplomatico. anche le impostazioni.

più Lo status di peso massimo della Francia in Europa ha garantito la scenografia meticolosa per la visita del presidente Emmanuel Macron in Cina. Ma il diplomatico cinese più rumoroso e universalmente detestato , Lu Shaye, è stato scelto da Pechino per l’ambasciatore a Parigi.

Xi Jinping scelse Qin Gang come ministro degli Esteri, una posizione per la quale era stato preparato attraverso un incarico come ambasciatore negli Stati Uniti. Sette mesi dopo, Qin cadde in disgrazia e inspiegabilmente svanì , lasciando i diplomatici stranieri a grattarsi la testa. L’elenco potrebbe continuare.

Eppure tutte queste incoerenze impallidiscono rispetto alla contraddizione fondamentale che ora ha raggiunto il cuore della politica estera cinese: il suo attaccamento, precedentemente sacrosanto, ai principi di sovranità e integrità territoriale. Fin dalla sua fondazione nel 1949, la Repubblica popolare cinese (RPC) ha sempre fatto di questi principi la pietra angolare della sua diplomazia, in parte come riflesso dell’amara storia della Cina come vittima delle invasioni imperialiste occidentali e giapponesi nel XIX e XX secolo.

“La sovranità, l’indipendenza e l’integrità territoriale di tutti i paesi dovrebbero essere rispettate e salvaguardate. Questa è una norma fondamentale delle relazioni internazionali che incarna gli scopi della Carta delle Nazioni Unite. È anche la posizione coerente e di principio della Cina”, ha sottolineato il ministro degli Esteri Wang Yi il 19 febbraio 2022, mentre le truppe russe si ammassavano lungo il confine dell’Ucraina. “E questo vale anche per l’Ucraina”.

Ciononostante, la settimana successiva Pechino ha rinunciato alla preminenza di questi principi e ha difeso le azioni di Mosca, in nome di “legittime preoccupazioni per la sicurezza” – un termine che non ha alcuna base nel diritto internazionale o nella Carta delle Nazioni Unite. L’intenzione iniziale di Pechino era chiara: condannare le alleanze di sicurezza occidentali che sia Mosca che Pechino vedono come una minaccia alla loro sicurezza e, nel caso della Cina, alle sue ambizioni su Taiwan. Ma ciò è avvenuto a scapito della posizione di lunga data della Cina riguardo all’ordine internazionale.

La Cina ha ora di fatto postulato l’esistenza di “legittime preoccupazioni per la sicurezza” (合理安全关切, in realtà meglio tradotto come “ragionevoli preoccupazioni per la sicurezza”) come valide eccezioni ai principi di sovranità e integrità territoriale in tutta la sua diplomazia, dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a la sua Iniziativa per la Sicurezza Globale . E questo senza fornire alcuna indicazione su cosa si qualifichi esattamente come una “legittima preoccupazione per la sicurezza”. Chi deve decidere cosa è “legittimo”? Secondo quali criteri? Su quale base giuridica? A chiunque presti attenzione, il modo goffo con cui la Cina ha scelto di giustificare l’aggressione di Mosca ha aperto un vaso di Pandora pieno di importanti problemi di sicurezza collettiva.

In effetti, è difficile immaginare come un paese scambierebbe la relativa sicurezza del sistema della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale con un ordine mondiale cinese in cui la sua sovranità territoriale sarebbe limitata da non specificate “legittime preoccupazioni di sicurezza” che qualsiasi altro paese potrebbe avere. In altre parole, la Cina può provare a convincere i paesi a sostenere le sue posizioni sulla governance globale, come afferma con crescente forza, oppure può spingere per una visione di un nuovo regime internazionale di sovranità territoriale ridotta. Promuovere entrambi allo stesso tempo, come sta facendo attualmente la Cina, è chiaramente incoerente.

“Ciò che stiamo vivendo ora è più di una prova dell’ordine post-Guerra Fredda”, ha avvertito il Segretario di Stato americano Antony Blinken prima dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite di quest’anno. “È la fine.” Questa è un’esagerazione. Pechino è certamente determinata a indebolire alcuni dei suoi principi, in modo da rendere il sistema internazionale ancora più accomodante nei confronti dei regimi non democratici. Ma se si considera l’attuale politica estera della Cina, il risultato più probabile è il disordine, piuttosto che un nuovo ordine mondiale cinese. Non importa quanto possa sembrare difficile sistemare il sistema multilaterale esistente, si tratta pur sempre della migliore offerta sul tavolo.

Autori
Autore ospite

Nicola Bequelin

Nicholas Bequelin è membro senior del Centro Paul Tsai sulla Cina della Yale Law School ed ex direttore regionale per l’Asia-Pacifico di Amnesty International.

L’invasione russa è stata un atto razionale È nell’interesse dell’Occidente prendere Putin sul serio DI JOHN MEARSHEIMER E SEBASTIAN ROSATO

L’invasione russa è stata un atto razionale
È nell’interesse dell’Occidente prendere Putin sul serio
DI JOHN MEARSHEIMER E SEBASTIAN ROSATO

È opinione diffusa in Occidente che la decisione del presidente russo Vladimir Putin di invadere l’Ucraina non sia stata un atto razionale. Alla vigilia dell’invasione, l’allora primo ministro britannico Boris Johnson suggerì che forse gli Stati Uniti e i loro alleati non avevano fatto “abbastanza per scoraggiare un attore irrazionale e dobbiamo accettare al momento che Vladimir Putin forse sta pensando in modo illogico e non vede il disastro che lo attende”. Il senatore statunitense Mitt Romney ha fatto un ragionamento simile dopo l’inizio della guerra, osservando che “invadendo l’Ucraina, Putin ha già dimostrato di essere capace di decisioni illogiche e autolesioniste”. L’assunto alla base di entrambe le affermazioni è che i leader razionali iniziano le guerre solo se hanno la probabilità di vincere. Iniziando una guerra che era destinato a perdere, Putin ha dimostrato la sua non razionalità.

Altri critici sostengono che Putin non era razionale perché ha violato una norma internazionale fondamentale. Secondo questa visione, l’unica ragione moralmente accettabile per entrare in guerra è l’autodifesa, mentre l’invasione dell’Ucraina è stata una guerra di conquista. L’esperta di Russia Nina Khrushcheva ha affermato che “con il suo assalto non provocato, Putin si unisce a una lunga serie di tiranni irrazionali” e sembra “aver ceduto alla sua ossessione guidata dall’ego di ripristinare lo status della Russia come grande potenza con una propria sfera di influenza chiaramente definita”. Bess Levin di Vanity Fair ha descritto il presidente russo come “un megalomane assetato di potere”; l’ex ambasciatore britannico a Mosca Tony Brenton ha suggerito che la sua invasione è la prova che egli è un “autocrate squilibrato” piuttosto che l'”attore razionale” che era un tempo.

Queste affermazioni si basano tutte su una concezione comune della razionalità che è intuitivamente plausibile, ma in definitiva difettosa. Contrariamente a quanto molti pensano, non possiamo equiparare la razionalità al successo e la non razionalità al fallimento. La razionalità non riguarda i risultati. Gli attori razionali spesso non riescono a raggiungere i loro obiettivi, non a causa di un pensiero insensato, ma a causa di fattori che non possono né prevedere né controllare. C’è anche una forte tendenza a equiparare la razionalità alla moralità, poiché si pensa che entrambe le qualità siano caratteristiche del pensiero illuminato. Ma anche questo è un errore. Le politiche razionali possono violare standard di condotta ampiamente accettati e possono persino essere mortalmente ingiuste.

Che cos’è dunque la “razionalità” nella politica internazionale? Sorprendentemente, la letteratura scientifica non fornisce una buona definizione. Per noi, la razionalità consiste nel dare un senso al mondo – cioè capire come funziona e perché – per decidere come raggiungere determinati obiettivi. Ha una dimensione sia individuale che collettiva. I politici razionali sono guidati dalla teoria, sono homo theoreticus. Hanno teorie credibili – spiegazioni logiche basate su ipotesi realistiche e supportate da prove sostanziali – sul funzionamento del sistema internazionale, e le utilizzano per comprendere la loro situazione e determinare il modo migliore per affrontarla. Gli Stati razionali aggregano le opinioni dei principali responsabili politici attraverso un processo deliberativo, caratterizzato da un dibattito robusto e disinibito.

Tutto ciò significa che la decisione della Russia di invadere l’Ucraina è stata razionale. Si consideri che i leader russi si sono basati su una teoria credibile. La maggior parte dei commentatori contesta questa affermazione, sostenendo che Putin era intenzionato a conquistare l’Ucraina e altri Paesi dell’Europa orientale per creare un grande impero russo, qualcosa che avrebbe soddisfatto un desiderio nostalgico dei russi ma che non ha alcun senso strategico nel mondo moderno. Il presidente Joe Biden sostiene che Putin aspira “a essere il leader della Russia che ha unito tutti i russofoni”. Voglio dire… penso che sia irrazionale”. L’ex consigliere per la sicurezza nazionale H. R. McMaster sostiene che: “Non credo che sia un attore razionale perché ha paura, giusto? Quello che vuole fare più di ogni altra cosa è riportare la Russia alla grandezza nazionale. È guidato da questo”.

Ma ci sono prove concrete che Putin e i suoi consiglieri pensassero in termini di teoria dell’equilibrio di potenza, considerando gli sforzi dell’Occidente per fare dell’Ucraina un baluardo al confine con la Russia come una minaccia esistenziale che non poteva essere lasciata in piedi. Il presidente russo ha esposto questa logica in un discorso che spiega la sua decisione di entrare in guerra: “Con l’espansione della Nato verso est, la situazione per la Russia diventa ogni anno più grave e pericolosa… Non possiamo rimanere inattivi e osservare passivamente questi sviluppi. Sarebbe una cosa assolutamente irresponsabile per noi”. Ha poi aggiunto che: “Non è solo una minaccia molto reale ai nostri interessi, ma all’esistenza stessa del nostro Stato e alla sua sovranità. È la linea rossa di cui abbiamo parlato in numerose occasioni. Loro l’hanno superata”.

In altre parole, per Putin si trattava di una guerra di autodifesa volta a prevenire uno spostamento negativo dell’equilibrio di potere. Non aveva intenzione di conquistare tutta l’Ucraina e di annetterla a una grande Russia. Infatti, anche se nel suo noto resoconto storico delle relazioni tra Russia e Ucraina ha affermato che “russi e ucraini erano un unico popolo – un unico insieme”, ha anche dichiarato: “Rispettiamo il desiderio degli ucraini di vedere il loro Paese libero, sicuro e prospero… E ciò che l’Ucraina sarà, spetta ai suoi cittadini deciderlo”. Tutto ciò non significa negare che i suoi obiettivi si siano chiaramente ampliati dall’inizio della guerra, ma questo non è insolito quando le guerre si sviluppano e le circostanze cambiano.

Vale la pena notare che Mosca ha cercato di affrontare la crescente minaccia ai suoi confini attraverso una diplomazia aggressiva, ma gli Stati Uniti e i loro alleati non erano disposti ad accogliere le preoccupazioni della Russia in materia di sicurezza. Il 17 dicembre 2021, la Russia ha avanzato una proposta per risolvere la crescente crisi che prevedeva un’Ucraina neutrale e il ritiro delle forze della Nato dall’Europa orientale alle loro posizioni del 1997. Ma gli Stati Uniti l’hanno respinta a priori.

In questo caso, Putin ha optato per la guerra, che secondo gli analisti avrebbe portato al dominio dell’Ucraina da parte dell’esercito russo. Descrivendo l’opinione dei funzionari statunitensi poco prima dell’invasione, David Ignatius del Washington Post ha scritto che la Russia avrebbe “vinto rapidamente la fase iniziale e tattica di questa guerra, se ci sarà. Il vasto esercito che la Russia ha schierato lungo i confini dell’Ucraina potrebbe probabilmente conquistare la capitale Kiev in diversi giorni e controllare il Paese in poco più di una settimana”. In effetti, la comunità dei servizi segreti “ha detto alla Casa Bianca che la Russia avrebbe vinto in pochi giorni travolgendo rapidamente l’esercito ucraino”. Naturalmente queste valutazioni si sono rivelate errate, ma anche i politici razionali a volte sbagliano i calcoli, perché operano in un mondo incerto.

La decisione russa di invadere è stata anche il prodotto di un processo deliberativo, non una reazione impulsiva di un lupo solitario. Anche in questo caso, molti osservatori contestano questo punto, sostenendo che Putin ha operato senza un serio input da parte di consiglieri civili e militari, che avrebbero sconsigliato la sua avventata corsa all’impero. Come ha detto il senatore Mark Warner, presidente della Commissione Intelligence del Senato: “Non ha avuto molte persone che hanno avuto contatti diretti con lui. Siamo quindi preoccupati che questo individuo isolato [sia] diventato un megalomane in termini di idea di essere l’unica figura storica in grado di ricostruire la vecchia Russia o di ricreare la nozione di sfera sovietica”. Altrove, l’ex ambasciatore a Mosca Michael McFaul ha suggerito che un elemento della non razionalità della Russia è che Putin è “profondamente isolato, circondato solo da yes men che lo hanno tagliato fuori da una conoscenza accurata”.

Ma ciò che sappiamo della cerchia di Putin e del suo pensiero sull’Ucraina rivela una storia diversa: I subordinati di Putin condividevano il suo punto di vista sulla natura della minaccia che la Russia stava affrontando e lui si è consultato con loro prima di decidere la guerra. Il consenso tra i leader russi sui pericoli insiti nelle relazioni dell’Ucraina con l’Occidente si riflette chiaramente in un memorandum del 2008 dell’allora ambasciatore in Russia William Burns, in cui si avverte che “l’ingresso dell’Ucraina nella Nato è la più brillante di tutte le linee rosse per l’élite russa (non solo per Putin)”. In più di due anni e mezzo di conversazioni con i principali attori russi, dai gorilla annidati nei recessi oscuri del Cremlino ai più acuti critici liberali di Putin, non ho ancora trovato nessuno che veda l’Ucraina nella Nato come qualcosa di diverso da una sfida diretta agli interessi russi… Non riesco a concepire nessuna confezione regalo che permetta ai russi di ingoiare questa pillola tranquillamente”.

Né sembra che Putin abbia preso la decisione di entrare in guerra da solo, come si dice che abbia complottato in un confino indotto da Covid. Alla domanda se il presidente russo si fosse consultato con i suoi principali consiglieri, il ministro degli Esteri Sergei Lavrov ha risposto: “Ogni Paese ha un meccanismo decisionale. In questo caso, il meccanismo esistente nella Federazione Russa è stato pienamente utilizzato”. Sembra chiaro che Putin si sia affidato solo a una manciata di confidenti che la pensano come lui per prendere la decisione finale di invadere, ma questo non è insolito quando i politici si trovano di fronte a una crisi. Tutto questo per dire che la decisione russa di invadere è molto probabilmente emersa da un processo deliberativo, con alleati politici che condividevano le sue convinzioni e preoccupazioni principali sull’Ucraina.

Inoltre, la decisione della Russia di invadere l’Ucraina non solo è stata razionale, ma anche non anomala. Si dice che molte grandi potenze abbiano agito in modo non razionale quando in realtà hanno agito in modo razionale. L’elenco comprende la Germania negli anni precedenti la prima guerra mondiale e durante la crisi di luglio, nonché il Giappone negli anni Trenta e durante la preparazione di Pearl Harbor. In entrambi i casi, i principali responsabili politici si sono basati su teorie credibili di politica internazionale e hanno deliberato tra di loro per formulare strategie per affrontare i vari problemi.

LETTURA SUGGERITA
La guerra in Ucraina non è complicata
DI DOMINIC SANDBROOK
Questo non significa che gli Stati siano sempre razionali. La decisione britannica di non schierarsi contro la Germania nazista nel 1938 fu dettata dall’avversione emotiva del Primo Ministro Neville Chamberlain nei confronti di un’altra guerra terrestre europea e dal suo successo nel bloccare una deliberazione significativa. Nel frattempo, la decisione americana di invadere l’Iraq nel 2003 si è basata su teorie non credibili ed è emersa da un processo decisionale non deliberativo. Ma questi casi rappresentano delle eccezioni. Contro l’opinione sempre più diffusa tra gli studiosi di politica internazionale, secondo cui gli Stati sono spesso non razionali, noi sosteniamo che la maggior parte degli Stati sono razionali per la maggior parte del tempo.

Questo argomento ha profonde implicazioni sia per lo studio che per la pratica della politica internazionale. Nessuna delle due può essere coerente in un mondo in cui prevale la non razionalità. All’interno dell’accademia, la nostra argomentazione afferma l’ipotesi dell’attore razionale, che è stata a lungo un elemento fondamentale per la comprensione della politica mondiale, anche se recentemente è stata messa sotto accusa. Se la non razionalità è la norma, il comportamento degli Stati non può essere né compreso né previsto e lo studio della politica internazionale è un’impresa inutile. Solo se gli altri Stati sono attori razionali, i professionisti possono prevedere come amici e nemici si comporteranno in una determinata situazione e quindi formulare politiche che promuovano gli interessi del proprio Stato.

Tutto questo per dire che i politici occidentali farebbero bene a non dare automaticamente per scontato che la Russia o qualsiasi altro avversario sia non razionale, come spesso fanno. Questo serve solo a minare la loro capacità di capire come pensano gli altri Stati e di elaborare politiche intelligenti per affrontarli. Data l’enorme posta in gioco nella guerra in Ucraina, questo aspetto non sarà mai sottolineato abbastanza.

This is an edited extract from How States Think: The Rationality of Foreign Policy by John Mearsheimer and Sebastian Rosato

Blinken: eccezionalismo USA, scontro fra grandi potenze, e guerra a oltranza in Ucraina, di Roberto Iannuzzi

Già nell’ottobre scorso il sito di Italia e il mondo aveva sottolineato le novità presenti nel piano strategico NSS presentato da Biden e nelle conferenze di Sullivan. Roberto Iannuzzi offre il suo contributo di approfondimento sul tema mettendo a nudo soprattutto l’ipocrisia, le rimozioni sottese e l’istigazione al caos consapevole, presenti nel discorso di Blinken, in questo cambio di paradigma. Una critica più cogente delle scelte dell’attuale leadership statunitense avrebbe bisogno di ulteriori puntualizzazioni:

  • non si tratta di un confronto tra “deregolamentazione” e regolamentazione dell’ordine globale, quanto di diversi modelli di ordinamento e minore arbitrarietà di applicazione di questi
  • il problema fondamentale degli Stati Uniti è quello di mantenere all’interno del proprio sistema di alleanze l’esclusiva dei rapporti di conflitto e cooperazione con le potenze rivali ed avversarie. Attraverso questa chiave andrebbero lette le recenti perorazioni della Yellen, la sua flessibilità nella costruzione dei rapporti con la Cina e l’estremo rigore che al contrario si pretende dai paesi europei.
  • contrariamente a quanto sosterrebbe Blinken nel suo intervento e sulla falsa riga delle tesi del NSS, lo stesso tema della democrazia non sarebbe più il discrimine fondamentale nel determinare la natura dei rapporti internazionali e gli schieramenti, quanto piuttosto l’adesione al proprio sistema di regolamentazione delle relazioni economiche e politiche. Un approccio che stride platealmente con la attribuzione agli avversari e competitori esterni di quella visione totalitaria che si sta cercando di introdurre surrettiziamente al proprio interno. Una caratteristica che indebolisce la vena polemica e la motivazione infusa nel discorso di Blinken

Sta di fatto che l’attuale leadership sta iniziando a porsi il problema di una ricostruzione delle proprie relazioni e dei propri sistemi di alleanze all’interno di una visione bipolare che vede nel binomio sino-russo il polo avversario designato; come pure appare consapevole della necessità di ricostruire in qualche maniera al proprio interno un modello di coesione sociale che garantisca energia necessaria ai propri propositi e all’esterno una ridefinizione della divisione del lavoro circoscritta al proprio polo. Nelle more su questo si segna il destino di paesi come la Germania e l’Italia, ma anche del Giappone; all’interno di questo disegno si deve inquadrare l’azione del Governo Meloni e lo stretto sodalizio che sta costruendo con la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Tornando ai centri decisori statunitensi, li attende un compito immane, difficilmente raggiungibile; ma non va sottovalutata la forza e la capacità di cui ancora dispongono. Lo stesso fatto che si pongano pur tardivamente questi termini porterà ad una ennesima scomposizione e ricomposizione degli schieramenti politici statunitensi, impossibili al momento da prevedere nelle dinamiche e nei contenuti concreti.

La vera ossessione che turba l’attuale leadership è quella di impedire il multipolarismo, il vero incubo di questa amministrazione, ma anche il tema per vari motivi sino ad ora eluso nello scacchiere geopolitico dalle forze emergenti, impegnate a perorare un sistema di regole concordate e non imposte tra i vari attori e un multilateralismo che rifugge da vere e proprie alleanze politiche stabilmente definite, se non contrapposte. Come una delle tante nemesi che avvolgono la storia, è proprio il perdurare dell’oltranzismo e dell’avventurismo statunitense a creare le condizioni del suo avvento o di una sua accelerazione contro tutto e contro tutti. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Blinken: eccezionalismo USA, scontro fra grandi potenze, e guerra a oltranza in Ucraina

Col tramonto dell’egemonia unipolare americana, il manicheismo di Washington richiede un mondo diviso, e un conflitto armato di lunga durata che perpetui questa divisione.

29 set 2023
Il segretario di Stato USA Antony Blinken (2021) (Public Domain)

“Ciò che stiamo vivendo oggi è ben più di una messa alla prova dell’ordine mondiale post-Guerra Fredda, è la sua fine”.

A pronunciare queste parole è stato il segretario di Stato USA Antony Blinken, in un discorso tenuto il 13 settembre alla Johns Hopkins School of Advanced International Studies (SAIS), uno dei “templi” del pensiero strategico americano.

La SAIS fu fondata nel 1943 da Paul Nitze, considerato uno degli architetti della politica di difesa americana durante la Guerra Fredda. Nitze fu il principale autore dell’NSC 68, un documento del Consiglio per la Sicurezza Nazionale che pose le basi per la militarizzazione della Guerra Fredda dal 1950 in poi, con l’espansione del bilancio del Pentagono, lo sviluppo della bomba all’idrogeno e l’incremento degli aiuti militari agli alleati di Washington.

Settantatré anni dopo, Blinken ci pone di fronte alla prospettiva di una nuova, e forse più pericolosa, guerra fredda contro non una, ma due potenze nucleari: Russia e Cina.

Quella di Blinken non è una visione personale, ma riflette quanto già affermato nella Strategia di Sicurezza Nazionale formulata dall’amministrazione Biden nell’ottobre del 2022.

Una crisi senza cause apparenti

Di fronte alla platea della SAIS, Blinken ha decretato la fine dell’era unipolare americana, e l’inizio di una cupa fase di conflitto.

Secondo il segretario di Stato, la fine della Guerra Fredda aveva “portato con sé la promessa di una marcia inesorabile verso una maggiore pace e stabilità, cooperazione internazionale, interdipendenza economica, liberalizzazione politica, e diritti umani”.

Tuttavia, “decenni di relativa stabilità geopolitica hanno lasciato il posto a una crescente competizione con potenze autoritarie e revisioniste”.

Blinken non spiega come ciò sia accaduto, e non fa alcuna autocritica.

Trent’anni di globalizzazione all’insegna della deregolamentazione dei mercati, di ortodossia neoliberista che ha tagliato le tasse alle grandi imprese e favorito le classi più ricche, di delocalizzazione della produzione e conseguente deindustrializzazione che ha duramente colpito la classe lavoratrice, non vengono neanche marginalmente considerati nel discorso di Blinken.

La continua erosione dei salari, della produttività e della partecipazione della forza lavoro, l’aumento esponenziale delle disuguaglianze, la promozione di un’economia di consumo di massa fondata in ultima analisi sul crescente indebitamento degli USA, sono elementi che il segretario di Stato tralascia completamente.

Trent’anni di avventurismo militare, dall’Iraq, ai Balcani, all’Afghanistan, e di interventi diretti o indiretti in Libia, Siria, Yemen, hanno avuto un ruolo determinante nel delegittimare lo status di potenza egemone, e di “leader del mondo libero”, che gli Stati Uniti si attribuivano.

Blinken non fa alcuna menzione di questi fattori che hanno contribuito ad accelerare il tramonto della supremazia unipolare americana.

La sua spiegazione è molto più semplice: “Una manciata di governi che hanno utilizzato sussidi al di fuori delle regole, proprietà intellettuale trafugata, ed altre pratiche distorsive del mercato per ottenere un vantaggio sleale in settori chiave” sono citati fra i responsabili della progressiva perdita di fiducia nell’ordine economico internazionale.

Altri elementi vengono citati da Blinken – le trasformazioni tecnologiche, le disuguaglianze – ma senza in alcun modo indagarne le cause. Si ha la sensazione che si tratti di eventi ineluttabili che è superfluo approfondire.

La “minaccia delle autocrazie”

Per il segretario di Stato americano, le democrazie “sono minacciate” – non dalle scelte compiute dalle élite politiche che le hanno governate in questi decenni, dalla corruzione del processo democratico, e dalla progressiva limitazione dei diritti sotto la spinta di continue ‘emergenze’ terroristiche, economiche, e di altra natura – ma da leader “che sfruttano risentimenti e alimentano paure, erodono magistrature e media indipendenti, arricchiscono reti clientelari, reprimono la società civile e l’opposizione politica”.

Inoltre le democrazie sono minacciate dall’esterno “da autocrati che diffondono disinformazione, usano la corruzione come arma, interferiscono nelle elezioni”.

Fra questi attori, Blinken individua immediatamente i due principali responsabili:

“La guerra di aggressione della Russia in Ucraina rappresenta la minaccia più immediata e più acuta all’ordine internazionale sancito dalla Carta delle Nazioni Unite e dai suoi principi fondamentali di sovranità, integrità territoriale e indipendenza per le nazioni, e diritti umani universali e indivisibili per gli individui”.

“Nel frattempo, la Repubblica popolare cinese rappresenta la più significativa sfida a lungo termine perché non solo aspira a rimodellare l’ordine internazionale, ma sempre più dispone del potere economico, diplomatico, militare e tecnologico per far proprio questo”.

Il 2 aprile 1917, il presidente Woodrow Wilson si rivolse a una sessione congiunta del Congresso americano per chiedere una dichiarazione di guerra contro la Germania, allo scopo di “rendere il mondo sicuro per la democrazia” (secondo quello che in realtà era uno slogan creato da Edward Bernays, esperto di marketing e nipote di Freud, considerato il padre delle “pubbliche relazioni”, e uno degli ideatori della propaganda americana durante il primo conflitto mondiale).

Blinken capovolge lo slogan di Wilson e Bernays, affermando che “Pechino e Mosca stanno lavorando insieme per rendere il mondo sicuro per l’autocrazia attraverso la loro ‘partnership senza limiti’”.

“Ci troviamo quindi in quello che il presidente Biden chiama un punto di svolta. Un’era sta finendo, ne sta iniziando una nuova, e le decisioni che prendiamo ora plasmeranno il futuro per decenni a venire”.

La missione “eccezionale” degli USA

Nella visione manichea del segretario di Stato USA, di fronte a questa sfida non vi è altra strada che quella della contrapposizione.

Non avendo compiuto alcuna analisi sulle ragioni della crisi americana, Blinken non ha difficoltà ad affermare che in questa sfida gli Stati Uniti partono da una “posizione di forza”.

Aderendo pienamente ai principi dell’eccezionalismo USA, egli afferma che “abbiamo dimostrato più e più volte che quando l’America si unisce, possiamo fare qualsiasi cosa”,  e che “nessuna nazione sulla Terra ha una maggiore capacità di mobilitare le altre per una causa comune”.

Tale causa consiste nella promozione di un mondo capitalistico idealizzato:

“Un mondo in cui gli individui sono liberi nella vita quotidiana e possono plasmare il proprio futuro, le proprie comunità, i propri paesi”.

“Un mondo in cui ogni nazione può scegliere la propria strada e i propri partner”.

“Un mondo in cui beni, idee, e individui possono circolare liberamente e legalmente per terra, mare, cielo, e cyberspazio, dove la tecnologia viene utilizzata per conferire potere alle persone, non per dividerle, sorvegliarle e reprimerle”.

“Un mondo in cui l’economia globale è definita da concorrenza leale, apertura, trasparenza, e dove la prosperità non si misura solo secondo il livello di crescita delle economie dei paesi, ma secondo il numero di persone che beneficiano di tale crescita”.

“Un mondo che genera una corsa verso l’alto negli standard lavorativi e ambientali, nella sanità, nell’istruzione, nelle infrastrutture, nella tecnologia, nella sicurezza e nelle opportunità”.

“Un mondo in cui il diritto internazionale e i principi fondamentali della Carta delle Nazioni Unite siano osservati, e in cui i diritti umani universali siano rispettati”.

Che le politiche americane in questi decenni abbiano perseguito e raggiunto obiettivi spesso opposti alla visione idilliaca prospettata da Blinken non è questione che il segretario di Stato ha ritenuto utile affrontare nel suo discorso.

In questa visione in bianco e nero, gli avversari di Washington hanno naturalmente concezioni totalmente contrapposte:

“Essi vedono un mondo definito da un unico imperativo: preservazione e arricchimento del regime. Un mondo in cui gli autoritari sono liberi di controllare, costringere e schiacciare la propria gente, i propri vicini, e chiunque altro ostacoli questo obiettivo totalizzante”.

La visione americana ha valore universale. Chi la contraddice, contraddice principi assoluti:

“I nostri competitori affermano che l’ordine esistente è un’imposizione occidentale, quando in realtà le norme e i valori che lo definiscono hanno un’aspirazione universale – e sono sanciti dal diritto internazionale a cui essi hanno aderito. Costoro affermano che ciò che i governi fanno all’interno dei propri confini è di loro esclusiva competenza, e che i diritti umani sono valori soggettivi che variano da una società all’altra. Essi ritengono che i grandi paesi abbiano diritto a sfere di influenza – che il potere e la vicinanza diano loro la prerogativa di dettare le proprie scelte agli altri”.

Riaffermare il primato di Washington

Una volta appurato che sostanzialmente non vi è dialogo né mediazione possibile con gli avversari dell’America, Blinken passa ad enunciare il piano volto a far prevalere gli Stati Uniti in questa nuova competizione fra grandi potenze.

Nel far ciò, egli elabora ulteriormente i principi enunciati da due suoi colleghi all’interno dell’amministrazione Biden, il segretario al Tesoro Janet Yellen, e il Consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan.

La prima aveva parlato di una forma attenuata di “disaccoppiamento” dalla Cina denominata “de-risking”, ovvero la riduzione dei rischi derivanti da una sovraesposizione delle catene di fornitura occidentali alla Cina.

Il secondo aveva per la prima volta messo in discussione alcuni dogmi neoliberisti del “Washington Consensus”, puntando a “rinnovare la leadership economica americana” attraverso l’introduzione di dazi e sussidi, ed altre misure di politiche industriale (senza tuttavia accennare ad alcuna politica sociale minimamente in grado di affrontare lo squilibrio fra capitale e lavoro in patria).

Partendo da queste basi, Blinken enuncia una strategia volta in primo luogo a rafforzare gli USA al proprio interno, attraverso le già citate misure di protezionismo e politica industriale, a cui affiancare provvedimenti finalizzati al reshoring (ritorno in patria della produzione manifatturiera) e friend-shoring (ridefinizione delle catene di fornitura in modo da riportarle nell’alveo delle alleanze americane).

A questa politica di rafforzamento interno è inscindibilmente legata una strategia di consolidamento delle alleanze all’estero (in primo luogo con gli amici storici di Washington in Europa e nel Pacifico), e di tessitura di nuovi legami con i paesi del Sud del mondo, per sottrarli all’influenza russo-cinese, ed assicurarsi le materie prime necessarie a garantire le catene di fornitura occidentali, la transizione energetica, e gli altri traguardi tecnologici della cosiddetta “quarta rivoluzione industriale”.

Strategia “a geometria variabile”

In questo quadro di rafforzamento delle alleanze, secondo Blinken gli USA devono puntare in primo luogo a rinvigorire la NATO (operazione nella quale il conflitto ucraino gioca un ruolo chiave), il G7 (da egli definito “il comitato direttivo delle democrazie più avanzate al mondo”), e l’UE, oltre a rinsaldare alcune alleanze bilaterali – in particolare con Giappone, Corea del Sud, Israele, Australia, Filippine, India, Vietnam.

In tale sforzo, gli USA devono basarsi su una diplomazia “a geometria variabile” che, nelle parole di Blinken, può essere riassunta così: “per ogni problema, stiamo mettendo insieme una coalizione adatta allo scopo”.

Per il segretario di Stato, più di 50 paesi stanno cooperando per sostenere la difesa dell’Ucraina e costruire un esercito ucraino sufficientemente forte da scoraggiare futuri attacchi.

“Abbiamo coordinato il G7, l’Unione Europea e decine di altri paesi per sostenere l’economia dell’Ucraina e ricostruire la sua rete energetica, più della metà della quale è stata distrutta dalla Russia”.

“Nel frattempo, i paesi europei, il Canada, e altri, si sono uniti ai nostri alleati e partner in Asia per affinare i loro strumenti volti a contrastare la coercizione economica della Repubblica popolare cinese. E gli alleati e i partner degli Stati Uniti in ogni regione stanno lavorando urgentemente per costruire catene di fornitura resilienti, in particolare riguardo alle tecnologie chiave ed ai materiali cruciali per realizzarle”.

Cardine di questa diplomazia a geometria variabile sono i cosiddetti “minilaterals”, accordi “minilaterali” che riuniscono pochi paesi per perseguire obiettivi limitati.

Molti di questi accordi sono in realtà intesi come strumenti che, pur operando distintamente, sono volti nel loro insieme a contenere la Cina, nell’impossibilità di costruire un unico fronte anticinese esteso.

Fra essi spiccano l’AUKUS (patto di sicurezza fra USA, Regno Unito ed Australia volto a far acquisire a quest’ultima sottomarini nucleari), il Quad (partnership diplomatica e militare fra Australia, India, Giappone e USA), e la recente intesa trilaterale fra USA, Corea del Sud e Giappone.

A questi mini-accordi si affiancano partnership più estese come la Partnership of Global Infrastructure and Investment (PGII), il Lobito Corridor in Africa, e l’IMEC, corridoio economico fra India, Medio Oriente ed Europa recentemente lanciato da Wahington al G20.

Tali collaborazioni hanno l’aspirazione di contrastare la Belt and Road Initiative (BRI) cinese, pur non avendone la portata né un equiparabile volume di finanziamenti.

La guerra ucraina come “cardine” del nuovo scontro mondiale

Cerniera essenziale di questa nuova “guerra fredda”, che (sebbene in maniera ancora confusa) vede l’emergere di un’inedita contrapposizione fra blocchi, è il conflitto ucraino.

Nelle già citate parole di Blinken, “la guerra di aggressione della Russia in Ucraina rappresenta la minaccia più immediata e acuta all’ordine internazionale sancito dalla Carta delle Nazioni Unite”.

Egli sottolinea il valore “globale” di tale conflitto, affermando che “l’invasione della Russia ha messo in chiaro che un attacco all’ordine internazionale danneggerà i popoli ovunque”.

E, per certi versi, egli riconosce che, senza questa guerra, gli USA non sarebbero stati in grado di mobilitare i propri alleati nella nuova competizione fra grandi potenze: “Abbiamo sfruttato questa presa di coscienza per riunire i nostri alleati transatlantici e dell’Indo-Pacifico nella difesa della nostra sicurezza, prosperità e libertà condivise”.

Secondo la narrazione di Blinken, “la guerra di Putin continua ad essere un fallimento strategico per la Russia”, anche grazie “al notevole coraggio e alla resilienza del popolo ucraino, e al nostro sostegno”.

La guerra ucraina ha dunque assunto un valore cruciale nella nuova narrazione di Washington.

Avendo l’amministrazione Biden annunciato un inedito scontro globale fra l’Occidente e le potenze “autocratiche e revisioniste” di Russia e Cina, una sconfitta in Ucraina rappresenterebbe un colpo durissimo per la traballante reputazione degli Stati Uniti in questa sfida appena lanciata.

Come ho scritto in un recente articolo,

gli USA hanno a tal punto investito la loro credibilità in questo conflitto, lasciandosi coinvolgere militarmente oltre ogni ragionevole cautela, che un’eventuale vittoria della Russia in Ucraina sarà devastante per il prestigio di Washington e per la coesione del fronte occidentale e della NATO.

Irruzione della realtà

Tuttavia, in Ucraina sono proprio gli eventi sul terreno a non evolvere come Washington si augurava. Pur rifiutando ogni soluzione negoziale, la Casa Bianca non ha una chiara visione di come portare avanti il conflitto.

La controffensiva ucraina estiva ha ottenuto conquiste territoriali minime a fronte di enormi perdite in termini di uomini e mezzi, in massima parte infrangendosi contro l’impressionante sistema di strutture difensive costruito da Mosca.

Se Kiev è ormai drammaticamente a corto di nuove reclute da mandare al fronte, i paesi occidentali che sostengono l’Ucraina stanno seriamente intaccando i propri arsenali, mentre i ritmi di produzione della loro industria bellica non sono al momento in grado di competere con quella russa.

Di fronte a questa realtà, i diversi esponenti dell’amministrazione Biden, da Blinken allo stesso presidente e ad altri, continuano a ripetere il medesimo vago ritornello: gli USA appoggeranno l’Ucraina “per tutto il tempo necessario”.

Dietro l’ostentata sicurezza, vi è tuttavia la crescente (seppur tardiva) presa di coscienza che le tattiche fin qui adottate non hanno funzionato, e che è necessario un cambio di strategia.

La carenza di proiettili di artiglieria e di altri tipi di munizionamento, così come la penuria di uomini, impediranno nei prossimi mesi un’offensiva su vasta scala come quella tentata quest’estate.

Le limitate disponibilità degli arsenali occidentali, e una serie di appuntamenti elettorali che culmineranno con le presidenziali americane del novembre 2024, probabilmente ridimensioneranno il flusso di aiuti militari occidentali diretti a Kiev.

Necessariamente si tornerà ad una guerra di logoramento, nella quale gli ucraini saranno costretti più a difendersi che ad attaccare. Gli strateghi americani stanno già estendendo l’orizzonte temporale del conflitto nelle loro previsioni.

Impasse strategica e rischi di escalation

Allo stesso tempo, l’attenzione dei vertici militari occidentali si sta spostando sugli attacchi con missili a lungo raggio, come gli Storm Shadow britannici, in grado di colpire le retrovie russe e scompaginare le linee di rifornimento di Mosca.

Ciò sta già avvenendo in Crimea. Simili attacchi, tuttavia, non solo vengono effettuati con armi NATO, ma con supporto logistico e di intelligence occidentale, segnando un ulteriore grado di coinvolgimento degli USA e dei loro alleati nel conflitto.

Come ha scritto Hal Brands, docente presso la stessa SAIS dove Blinken ha pronunciato il suo recente discorso, un’intensificazione degli attacchi a lungo raggio, accompagnata dalla prospettiva di una guerra a più lungo termine, comporta l’accettazione di maggiori rischi di escalation.

Tale cambio di strategia, peraltro, molto difficilmente muterà le sorti dello scontro armato. Dopo il fallimento dell’offensiva di quest’estate, Kiev vede crollare le possibilità di riconquistare i territori perduti e si avvia verso una lunga guerra difensiva, che continuerà a prosciugare le sue risorse.

Gli attacchi in profondità in Crimea e in territorio russo, a prescindere dal rischio di escalation che comportano, non altereranno in maniera significativa l’andamento di un conflitto che sta volgendo al peggio per l’Ucraina.

La guerra a oltranza che Washington vuole sostenere nel paese porterà nuove tragedie e un fardello sempre più insostenibile per Kiev, ulteriori rischi di estensione del conflitto, e un progressivo deterioramento del clima internazionale, senza tirar fuori gli USA dal vicolo cieco strategico in cui si sono cacciati.

SECONDO AGGIORNAMENTO SULLA CRISI DEL NIGER: CONTINUA LO STALLO TRA L’ECOWAS E LA GIUNTA NIGERINA, di CHIMA

SECONDO AGGIORNAMENTO SULLA CRISI DEL NIGER: CONTINUA LO STALLO TRA L’ECOWAS E LA GIUNTA NIGERINA

13 AGO 2023

Punti salienti:

  • In Nigeria permane un’opposizione interna che Tinubu avrebbe difficoltà a ignorare.Il presidente della Commissione ECOWAS, che è gambiano, sollecita l’intervento militare in Niger.In linea con i desideri degli Stati membri più piccoli, il comunicato finale emesso dall’ECOWAS sollecita l’intervento militare per ripristinare l’ordine costituzionale in Niger, citando la recalcitranza della nuova giunta militare.

    In linea con i desideri di Tinubu, in fondo al comunicato dell’ECOWAS è stata inserita una riga apparentemente contraddittoria, in cui si afferma che l’ordine costituzionale in Niger sarà ripristinato con mezzi pacifici.

    L’Unione Africana approva il comunicato dell’ECOWAS sulla situazione in Niger.

    Una discussione sfumata sul ruolo di Stati Uniti, Francia, Regno Unito e Unione Europea nell’attuale situazione politica in Niger e nella più ampia subregione dell’Africa occidentale.

    Discussione sul ruolo del Niger nella produzione mondiale di uranio e sull’impatto del divieto della giunta militare di vendere uranio alla Francia.

OPPOSIZIONE INTERNA ALL’INTERVENTO IN NIGERIA

#1.

L’opposizione interna alla Nigeria per un eventuale intervento nella Repubblica del Niger continua a crescere, soprattutto nella Nigeria settentrionale, che è etnicamente simile al Niger meridionale. Anche la Conferenza episcopale cattolica della Nigeria ha espresso la propria opposizione. Un’organizzazione non governativa nigeriana si sta addirittura rivolgendo al tribunale per bloccare qualsiasi intervento nella Repubblica del Niger da parte dell’ECOWAS guidata da Tinubu, adducendo il timore di una crisi di rifugiati in caso di uso della forza militare. Alcune manifestazioni contro l’intervento si sono svolte nella città settentrionale nigeriana di Kano. I manifestanti del Nord della Nigeria sono di etnia Hausas, proprio come quelli che si trovano oltre il confine nel Sud del Niger.

Consider candidates' track record, Catholic bishops urge Nigerians
Conferenza episcopale della Nigeria durante la visita all’allora presidente Mohammed Buhari nel 2018. Buhari si è ritirato dalla presidenza nigeriana il 29 maggio 2022.
#2.La Nigeria ha creato l’ECOWAS con il Trattato di Lagos nel 1975 per integrare le economie delle nazioni dell’Africa occidentale. Tuttavia, nel corso degli anni, l’organizzazione è stata utilizzata anche per attuare gli interessi di sicurezza nazionale e regionale della Nigeria. Quindi, se il Presidente Tinubu sta sviluppando una certa freddezza a causa dell’opposizione interna alla Nigeria, l’ECOWAS non può fare molto per la situazione politica in Niger.
ECOWAS
La Guinea, il Mali e il Burkina Faso sono stati sospesi dall’ECOWAS a causa di colpi di stato militari nei loro territori. Proprio come l’Unione Africana (UA), i colpi di stato militari sono stati anatemizzati dall’ECOWAS, poiché i colpi di stato sono generalmente visti come la fonte di instabilità politica nel continente.
#3.L’opposizione all’interno della Nigeria non ha nulla a che vedere con la simpatia per i leader golpisti. Il dibattito all’interno della Nigeria non ruota attorno a questa prospettiva di “anti-imperialismo”, sempre presente su alcuni media alternativi del mondo occidentale. La questione è se l’intervento militare sia il modo migliore per affrontare il colpo di Stato militare. C’è chi pensa che l’intervento nigeriano in Niger creerà più problemi di quanti ne risolva.#4.

Al momento, il Senato nigeriano continua ad approvare misure punitive come il blocco economico in corso e la privazione dell’elettricità gratuita al Niger. Poiché la Nigeria contribuisce al 70% dell’energia elettrica utilizzata in Niger, in quel povero e arido Paese si verificano ampi blackout. Anche in Nigeria alcuni cittadini si sono opposti a queste misure punitive. Ma per ora queste voci non sono ancora diventate schiaccianti.

Il Senato nigeriano ha rifiutato di dare il consenso a Tinubu per utilizzare l’esercito e l’aviazione nazionale per intervenire militarmente nella Repubblica del Niger.
#5.I funzionari governativi in pensione del Niger hanno scritto una lettera al Presidente nigeriano Bola Tinubu, chiedendogli di ripristinare la fornitura gratuita di elettricità e di porre fine al blocco economico imposto al loro Paese. Dubito che Tinubu presterà attenzione a questa lettera. L’unica cosa che può far cambiare idea a Tinubu è che l’opposizione interna alla Nigeria al blocco e al ritiro dell’elettricità diventi massiccia. Molti nigeriani possono non sostenere il colpo di Stato, ma non sono a loro agio con le sanzioni punitive imposte al Niger, che stanno danneggiando la gente comune.SITUAZIONE NELLA REPUBBLICA DEL NIGER

#6.

Si dice che il Presidente Bazoum sia ridotto a mangiare riso essiccato datogli in pasto dai leader del colpo di Stato. Ci sono affermazioni non verificate secondo cui i leader del colpo di Stato avrebbero minacciato di ucciderlo se l’ECOWAS fosse intervenuta militarmente.

#7.

La giunta militare nigerina non sta facendo nulla per allentare le tensioni. Nemmeno le solite promesse di indire nuove elezioni entro un anno, che in passato hanno pacificato l’ECOWAS e impedito interventi militari. Invece la giunta militare ha nominato un primo ministro e alcuni altri funzionari di gabinetto nel tentativo di creare una sorta di “governo” che consolidi il loro colpo di stato militare.

L’ex capo di Stato nigeriano Abdulsalami Abubakar e il sultano di Sokoto, Muhammad Sa’ad Abubakar III, hanno visitato i membri della giunta militare nigerina per un dialogo pacifico, ma sono stati respinti. Entrambi gli emissari del presidente Tinubu sono rispettati leader della Nigeria settentrionale che condividono l’etnia, la lingua madre e la cultura dei golpisti nigerini.
I capi tradizionali della Nigeria settentrionale, guidati dall’economista e governatore della Banca Centrale nigeriana in pensione Sanusi Lamido Sanusi, hanno fatto visita al nuovo sovrano militare del Niger, il generale Abdourahamane Tiani. L’uomo vestito con abiti blu, rossi e bianchi è Sanusi, che da allora è diventato la guida spirituale dell’ordine sufi Tijaniyyah, che conta 30 milioni di fedeli musulmani sunniti, molti dei quali nella Repubblica del Niger.
Nessuno dei dignitari nigeriani del Nord giunti nella Repubblica del Niger ha scalfito l’atteggiamento dei leader golpisti del Niger. L’elenco dei dignitari comprende l’ex capo di Stato nigeriano Abdulsalami Abubakar, il sultano di Sokoto Mohammed Sa’ad Abubakar III e l’economista trasformato in leader spirituale Sanusi Lamido Sanusi (noto anche con il suo nome di battesimo, Muhammadu Sanusi II, in quanto ex emiro di Kano).I leader del Niger hanno spostato le truppe nella capitale in vista di un possibile intervento dell’ECOWAS a guida nigeriana. Ma francamente, le loro forze armate sono troppo piccole e non così ben addestrate. Quindi è dubbio che sarebbero in grado di resistere alla potenza di fuoco nigeriana, se questa dovesse arrivare contro di loro.#8.

Nel mio primo articolo ho accennato al fatto che il presidente spodestato Bazoum proviene dalla storica regione settentrionale del Niger, dove la maggior parte degli abitanti sono minoranze etniche di origine mista africana e araba. Bazoum è la prima persona appartenente alla minoranza araba Diffa a essere eletta Presidente del Niger. Come altre etnie del Nord del Niger, gli arabi di Diffa si sentono discriminati. Nel 2006 c’è stato un tentativo di espulsione dal Niger, con conseguenti proteste.

Molti cittadini del Nord del Niger di varie etnie hanno sostenuto Bazoum e hanno manifestato contro il suo colpo di Stato, ma sono stati dispersi dalla polizia. I video mostrati sui social media di persone che festeggiano il colpo di Stato sono solo quelli di cittadini del Niger meridionale nella capitale Niamey. È evidente dalla loro pelle scura e dall’Hausa che viene parlato in questi video. Gli abitanti del Nord del Niger tendono ad avere la pelle più chiara, come mostrato di seguito:

Agali Alambo e Abta Hamidine sono due esempi di leader ribelli del Nord del Niger che hanno combattuto sporadicamente i governi successivi nel corso dei decenni. Le minoranze etniche del Nord del Niger si sentono emarginate e discriminate dallo Stato nazionale del Niger, dominato dalla popolazione del Sud del Paese.
Fino a pochi anni fa, un conflitto a bassa intensità infuriava tra i ribelli del Niger settentrionale e il governo del Niger dominato dalle élite dominanti del Niger meridionale di lingua hausa. Il conflitto è stato in qualche modo congelato dopo i colloqui di pace mediati dall’ECOWAS e dall’Unione Africana. Ora uno degli ex leader dei ribelli, Agali Alambo, sta iniziando a parlare di ripresa del conflitto se l’ECOWAS non interverrà per ripristinare Bazoum, che ha la sua base di appoggio nel Nord. Naturalmente, l’ex leader dei ribelli potrebbe bluffare.Per inciso, Agali Alambo è stato uno dei numerosi leader ribelli del Nord del Niger che hanno ricevuto sostegno finanziario e militare dall’ex capo di Stato libico Muammar Gheddafi nella loro lotta contro i vari governi del Niger.#9.

Alcuni account di social media su Telegram e Twitter stanno diffondendo vecchi video del 2006, che mostrano un jet di linea russo che atterra nella capitale del Niger, Niamey, e cercano di farlo passare per mercenari wagneriani che volano in soccorso della giunta militare nigerina.

Il video è ovviamente falso, ma ciò non significa che i mercenari di Prigozhin non possano essersi introdotti in Niger passando dal Mali. Tuttavia, devo dire che il confine tra Mali e Niger è troppo lontano dal potenziale teatro di qualsiasi conflitto a cui la Nigeria potrebbe prepararsi. Detto questo, non c’è alcuna prova che Wagner sia entrato in Niger.

LA DISPOSIZIONE DI MALI, BURKINA FASO E ALGERIA

#10.

È falso che l’Algeria abbia dichiarato di voler intervenire in difesa della giunta militare nigerina. La posizione dell’Algeria è di non sostenere il colpo di Stato in Niger. Tuttavia, l’intervento della Nigeria/ECOWAS potrebbe destabilizzare la regione e l’Algeria lo ritiene inaccettabile. In realtà, se la Nigeria/ECOWAS procedesse con l’intervento, l’Algeria non interverrebbe perché non l’ha mai fatto in passato.

Il Niger è uno Stato dell’ECOWAS e un interesse fondamentale della Nigeria. L’Algeria sa che le regole dell’ECOWAS consentono all’organizzazione di intervenire negli Stati membri in crisi politica. L’Algeria non fa parte dell’ECOWAS, ma collabora con la Nigeria nella gestione delle risorse idriche e nella sicurezza regionale in quanto membro della Commissione del Bacino del Lago Ciad, controllata dalla Nigeria. Inoltre, Algeria e Nigeria stanno costruendo insieme il gasdotto Trans-Sahara.

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Nel novembre 2022, l’allora Presidente nigeriano Buhari convocò un vertice degli otto Stati membri della Commissione del Bacino del Lago Ciad per discutere i rapporti di intelligence secondo cui le armi della guerra russo-ucraina sarebbero state contrabbandate nell’area del bacino del Ciad. Il Presidente Buhari, ora in pensione, è il terzo da sinistra nella foto qui sopra.
#11.I regimi militari del Mali e del Burkina Faso hanno dichiarato che interverranno per aiutare la giunta militare del Niger ad evitare l’invasione della Nigeria e dell’ECOWAS. Il problema è che entrambi i Paesi non pattugliano nemmeno i propri confini o non hanno la capacità di farlo. Sia il Mali che il Burkina Faso hanno ampie porzioni di territorio sotto l’occupazione dei terroristi jihadisti. I mercenari Wagner sono quelli che impediscono agli insorti terroristi di invadere entrambi i Paesi. Nessuno di loro è in grado di inviare un aiuto significativo ai leader del colpo di stato nigerino nel caso in cui le forze armate nigeriane decidessero di attraversare il confine.SECONDO VERTICE ECOWAS AD ABUJA, NIGERIA

#12.

Il presidente nigeriano Bola Tinubu ha convocato un secondo vertice dell’ECOWAS sulla crisi del Niger nella capitale Abuja giovedì 10 agosto 2023. Durante la riunione, molto partecipata, il presidente della Commissione ECOWAS Omar Alieu Touray, ex diplomatico del Gambia, ha chiesto alla forza militare di riserva dell’organizzazione di essere pronta a entrare in Niger.

Il secondo vertice dell’ECOWAS sulla Repubblica del Niger si è svolto il 10 agosto 2023, dopo che la giunta militare nigerina ha sfidato l’ultimatum di sette giorni per riportare in carica il presidente nigerino Bazoum, che era stato spodestato.
Come ho già spiegato in precedenza, l’ECOWAS ha smesso di essere un’organizzazione puramente economica nel 1990, quando ha creato una forza militare dominata dalla Nigeria per intervenire nella prima guerra civile liberiana (1989-1997). Da allora, questa forza militare di riserva è intervenuta più volte in vari conflitti in tutta l’Africa occidentale.Dal 6 agosto 2023, l’aviazione nigeriana pattuglia i cieli appena fuori dallo spazio aereo del Niger e truppe dell’esercito nigeriano sono al confine. Queste sono le “forze di riserva dell’ECOWAS” a cui Omar Touray si riferiva obliquamente.Nel frattempo, i capi militari dei Paesi appartenenti all’ECOWAS si sono riuniti nella capitale ghanese di Accra per il loro incontro:

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#13.

Ho l’impressione che Tinubu si stia facendo prendere dalla paura, mentre altri Stati più piccoli dell’Africa occidentale, come il Senegal, il Gambia e il Benin, chiedono l’intervento militare dell’ECOWAS per ristabilire l’ordine costituzionale – un modo indiretto per dire alla Nigeria di inviare l’esercito e l’aviazione oltre il confine.

Ho letto attentamente il comunicato dell’ECOWAS. La posizione dura degli Stati membri più piccoli è stata pienamente accolta. Il comunicato sollecita la continuazione delle sanzioni dell’ECOWAS contro il Niger, che equivalgono al blocco economico della Nigeria e al ritiro dell’elettricità gratuita. La dichiarazione sollecita l’intervento militare per ripristinare l’ordine costituzionale. Ma questo è in qualche modo contraddetto dalla riga successiva, che dice che l’ECOWAS rimane impegnata a ripristinare l’ordine costituzionale con mezzi pacifici.

Credo che l’ultima riga sull’uso di mezzi pacifici per ripristinare il presidente Bazoum sia stata probabilmente inserita su insistenza di Bola Tinubu, che sta affrontando l’opposizione interna in Nigeria e sta diventando sempre più esitante sull’uso della forza militare per risolvere la crisi politica del Niger.

Di seguito il video del presidente dell’ECOWAS Omar Alieu Touray che legge alcune parti del comunicato in diretta televisiva:

 

#14.

L’Unione Africana (UA) ha rilasciato una dichiarazione in cui sostiene il comunicato dell’ECOWAS e sollecita la comunità internazionale a contribuire a salvare la vita del Presidente Mohammed Bazoum. L’UA ha pubblicato la dichiarazione completa sul suo sito ufficiale. La versione inglese della dichiarazione è disponibile cliccando qui, mentre la versione francese è accessibile cliccando qui.

L’Unione Africana – a differenza del suo predecessore, l’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA) – ha adottato una posizione dura nei confronti dei colpi di stato militari, che sono stati identificati come una delle fonti dell’instabilità politica che ha afflitto il continente negli anni Sessanta, Settanta, Ottanta e Novanta.

Storicamente, i colpi di Stato militari nel continente si sono spesso verificati a causa di spaccature politiche interne a uno Stato africano o per l’ingerenza esterna di Paesi potenti come gli Stati Uniti o la Francia. In ogni caso, tra le istituzioni panafricane sta crescendo l’ostilità all’idea di colpi di Stato militari, che in passato erano comuni e avevano scatenato guerre civili in alcuni Paesi.

In altre parole, i leader dei golpe in vari Paesi africani che invocano l'”anti-imperialismo” come scusa per prendere il potere non riceveranno probabilmente ascolto da organizzazioni come l’UA, la SADC o l’ECOWAS.

La ragione di questo profondo cinismo è piuttosto semplice: la storia africana è piena di leader militari golpisti che affermano con insincerità di aver rovesciato i loro predecessori eletti per salvare i loro Paesi dalla “corruzione” e dalle “ingerenze esterne”. Il più delle volte, questi golpisti si sono rivelati peggiori dei loro predecessori. Solo due esempi, tra i tanti, sono Idi Amin in Uganda e Sani Abacha in Nigeria.

Naturalmente, non tutti i leader golpisti erano insinceri. Thomas Sankara del Burkina Faso fece il suo colpo di Stato nel 1983 per porre fine alla corruzione, all’indebitamento del FMI e all’ingerenza francese nel suo Paese. Ma si trattava per lo più di un’eccezione piuttosto che della regola.

RUOLO DI FRANCIA, UE E USA NELLA CRISI DEL NIGER

#15.

Su questo punto molti commentatori dei media alternativi, soprattutto quelli che non si trovano in Africa occidentale, sono completamente sprovveduti. Inizierò ripetendo ciò che ho detto in un articolo precedente:

La Nigeria ha una storia di interventi militari nella subregione dell’Africa occidentale. Se non fosse per l’attuale clima geopolitico, l’ultimo intervento della Nigeria sarebbe passato in gran parte inosservato da molti commentatori al di fuori della subregione, proprio come è accaduto quando la Nigeria è intervenuta in Liberia (1990, 2003), Sierra Leone (1997), Guinea-Bissau (1999, 2012, 2022) e Gambia (2017).
Molti dei commentatori nello spazio mediatico alternativo del mondo occidentale possono desiderare il meglio per il continente africano, ma, il più delle volte, non sono in grado di comprendere le sfumature insite nella complessa rete di relazioni e interessi che esistono tra i vari Stati africani.

Attraverso il loro ristretto campo visivo, questi commentatori vedono solo la lotta tra Francia, Stati Uniti, Regno Unito, Russia e Cina per l’influenza in Africa e interpretano tutte le mosse degli Stati africani come a favore dell’asse Russia-Cina o dell’asse USA-Francia.

A questi commentatori non viene mai in mente che un Paese enorme come la Nigeria possa avere interessi fondamentali di sicurezza nazionale in Niger, separati dalle manovre geopolitiche di Stati Uniti e Francia, entrambi semplici intrusi e non nativi del paesaggio. Noto spesso che molti di questi commentatori hanno a malapena sentito parlare delle tre organizzazioni che la Nigeria finanzia e controlla diligentemente per garantire i propri interessi regionali e nazionali. Mi riferisco all’ECOWAS, alla Commissione del Bacino del Lago Ciad e alla Multinational Joint Task Force (MNJTF).

Il comandante della MNJTF, il maggiore generale nigeriano Ibrahim Sallau, ispeziona le truppe ciadiane. Il Ciad è uno Stato dell’Africa centrale e quindi non fa parte dell’ECOWAS, ma confina con la Nigeria. Oltre alla MNTJF, il Ciad è anche membro della Commissione del Bacino del Lago Ciad, controllata dalla Nigeria.
C’è un’iper concentrazione su Tinubu (che è senza dubbio un uomo corrotto) come se fosse l’unico decisore all’interno della Nigeria. Non è così. C’è la legislatura nazionale, i gruppi della società civile, i media locali, i capi tradizionali rispettati e molti politici influenti le cui opinioni sull’intervento militare devono essere prese in considerazione da Tinubu.Se Tinubu fosse l’unico decisore e un burattino americano-francese, allora l’intervento dell’ECOWAS guidato dalla Nigeria in Niger sarebbe già iniziato come Tony Blinken, Vicky Nuland ed Emmanuel Macron hanno ferventemente richiesto.

Invece di un intervento militare immediato, Tinubu ha lanciato un ultimatum di sette giorni, convincendo gli Stati membri più piccoli dell’ECOWAS ad assecondarlo. Poi, Tinubu ha inviato rispettabili emissari della Nigeria settentrionale alla ricerca infruttuosa di una conclusione pacifica della crisi. I leader del colpo di stato hanno respinto tutte le proposte degli emissari e la scadenza è passata senza che venisse intrapresa alcuna azione.

Visto il suo bluff, Tinubu convocò una nuova riunione dell’ECOWAS, dove gli Stati membri più piccoli insistettero sulla forza militare per ripristinare l’ordine costituzionale in Niger e si assicurarono che le loro opinioni più dure fossero scritte nel comunicato finale.

Non volendo essere spinto dagli Stati membri più piccoli a un confronto militare su cui ora stava ripensando, Tinubu ha fatto aggiungere in calce una frase contraddittoria in cui si afferma che l’ECOWAS rimane impegnata a ripristinare l’ordine costituzionale con mezzi pacifici.

Non c’è dubbio che la Francia, l’Unione Europea e gli Stati Uniti siano incredibilmente frustrati dalla mancanza di fermezza di Tinubu, ma egli non è assolutamente un loro burattino. A Nuland o a Macron può non importare nulla di una possibile crisi di rifugiati in Niger a seguito di un intervento militare, ma a Tinubu sì. Non perché sia un umanitario, ma perché ciò danneggerebbe la sua posizione politica in Nigeria, soprattutto tra i nigeriani del Nord che costituiscono una formidabile base di sostegno per il suo partito politico, l’All Progressives Congress.

A meno che Tinubu non riesca a trovare un modo per neutralizzare l’opposizione interna, non è certo che sia disposto a ordinare all’aviazione nigeriana di sorvolare i cieli e alle truppe dell’esercito nigeriano di entrare in Niger. È così semplice.

I funzionari di Francia, UE e Stati Uniti si sono ridotti a seguire i meandri del sistema politico nigeriano invece di prendere le decisioni.

#16.

Parliamo ora della produzione mondiale di uranio e del posto che occupa il Niger…

Secondo i dati dell’Associazione nucleare mondiale, nel 2022 il Niger è stato responsabile di appena il 4,1% della quantità totale di uranio prodotto nel mondo. Ci sono produttori di uranio più grandi al mondo, come il Kazakistan (43,4%), il Canada (15,0%), la Namibia (11,5%), l’Australia (8,4%), l’Uzbekistan (6,7%), la Russia (5,1%).

Per decenni, la Francia ha importato uranio principalmente da tre Paesi per il funzionamento delle sue centrali nucleari: Kazakistan (27%), Niger (20%) e Uzbekistan (19%).

Dall’anno scorso, la Francia ha ampliato il numero dei suoi fornitori includendo altri Paesi. L’uranio russo non è stato sanzionato e quindi una parte di esso è arrivata in Francia, con grande disappunto degli attivisti di Greenpeace. A seguito di questa diversificazione in Francia, le forniture del Niger erano già scese al 15% del totale prima del colpo di Stato.

I leader del colpo di Stato in Niger hanno vietato la fornitura di uranio alla Francia, ma questo non rappresenta un pericolo immediato, poiché la Francia ha scorte di uranio già acquistate nel corso degli anni. E la fornitura di uranio del Niger può essere sostituita semplicemente acquistandone altro da Kazakistan, Canada, Namibia, Australia e Uzbekistan. E in circostanze estreme, Macron potrebbe riaprire le miniere di uranio esaurite all’interno della Francia, chiuse nel 2001 perché era molto più economico rifornirsi all’estero che produrre in loco. Ma non sarà nemmeno necessario, perché nel mondo ci sono produttori di uranio molto più grandi disposti a vendere alla Francia.

Una miniera di uranio a cielo aperto nella regione di Agadez, nel Niger centro-settentrionale.
In conclusione, la Francia può fare a meno dell’uranio del Niger. Ciò che allarma il governo Macron per il colpo di stato militare in Niger non sono le forniture di uranio, ma l’ennesimo colpo all’influenza francese in un Paese africano francofono e lo spettro umiliante di un’influenza della Russia, per la quale il Cremlino non ha mai lavorato.Le truppe statunitensi nella Repubblica del Niger risalgono all’epoca della cosiddetta “guerra governativa al terrorismo” (GWOT). Mentre erano in carica, il presidente George Bush Jr. e, successivamente, il presidente Barack Obama, hanno ripetutamente offerto truppe americane per “aiutare” la Nigeria nella lotta contro i terroristi jihadisti transfrontalieri. Ogni volta, la Nigeria ha rifiutato gentilmente l'”aiuto”, preferendo utilizzare le proprie forze armate e la Multinational Joint Task Force.

Alla fine, le truppe americane non richieste, inizialmente offerte alla Nigeria, sono finite nella vicina Repubblica del Niger con l’apparente compito di “addestrare i soldati nigerini a combattere il terrorismo”.

Ai funzionari del governo statunitense non interessa il Niger, né in un senso né nell’altro. Non vedono necessariamente l’arido Paese come una risorsa strategica. Il Niger è un produttore secondario di uranio e la sua quota nella produzione mondiale supera di poco il 4%. Due terzi della produzione mondiale di uranio estratto provengono da Kazakistan, Canada e Australia.

L’unica cosa che attualmente preoccupa i funzionari americani è che la Repubblica del Niger cada sotto l’influenza della Russia. Sarebbe umiliante per loro.

Se i leader del colpo di Stato fossero percepiti come ostili sia alla Russia che alla Francia, gli americani accetterebbero volentieri la giunta militare in Niger. Ciò che la Francia vuole o di cui ha bisogno è lontano dalla mente di Tony Blinken, Jake Sullivan e Victoria Nuland. Per questi funzionari americani, tutto ruota intorno alla Russia. Non gliene può fregare di meno dei lamenti di Macron sul disfacimento della Francafrique.

#17.

Non c’è dubbio che Francia e Stati Uniti vogliano disperatamente che l’ECOWAS intervenga in Niger. Entrambi i Paesi sono frustrati e delusi dal fatto che un intervento militare non sia già iniziato. Ma il fatto è che la decisione finale di intervenire non spetta a questi Paesi della NATO. Un intervento effettivo dell’ECOWAS dipenderebbe molto dalla situazione politica interna sia in Nigeria che nella Repubblica del Niger. Fino ad allora, Nuland, Blinken, Sullivan e Macron dovranno leggere le foglie di tè come tutti gli altri.

Può sembrare controintuitivo per alcuni lettori, ma grandi Stati africani come la Nigeria, il Sudafrica e l’Egitto hanno in realtà detto “no” diverse volte ai governi statunitensi che si sono succeduti nel corso degli anni.

Nei primi anni 2000, la Nigeria ha respinto il tentativo del presidente George Walker Bush di collocare il quartier generale del Comando militare africano (AFRICOM) in qualsiasi parte dell’Africa occidentale. Quando la Liberia si disse disposta a ospitare il quartier generale, la Nigeria inviò un’immediata nota al governo liberiano, che all’epoca dipendeva dalla polizia e dall’esercito nigeriani per mantenere l’ordine pubblico nel suo territorio.

Allo stesso modo, il Sudafrica ha bloccato qualsiasi tentativo di collocare AFRICOM all’interno della più ampia subregione dell’Africa meridionale. Anche l’Egitto, l’Algeria e la Libia si sono opposti alla collocazione del quartier generale della formazione militare statunitense in Nord Africa.

Di conseguenza, AFRICOM è ancora nella sua sede “temporanea” di Stoccarda, in Germania, quasi due decenni dopo il rifiuto del continente africano.

Nel 2012, durante la presidenza Obama, gli Stati Uniti hanno esercitato forti pressioni affinché la Nigeria inviasse truppe in Somalia per combattere i terroristi di Al-Shabaab. Il governo nigeriano rifiutò perché la Nigeria non ha interessi di sicurezza in Somalia, se non quello di assicurarsi che le sue navi commerciali non vengano dirottate dai pirati del mare. Ma nello stesso anno, la Nigeria ha organizzato l’intervento delle truppe dell’ECOWAS in Guinea-Bissau, dove ha reali interessi di sicurezza regionale.

Con grande costernazione dei francesi e degli americani, la Nigeria si è anche rifiutata di usare l’ECOWAS per intervenire in Mali e Burkina Faso dopo i loro colpi di Stato militari, perché nessuno di questi Paesi condivide un confine terrestre con la Nigeria, in quanto i militari nigeriani ritenevano che sarebbe stato più destabilizzante entrare in due Paesi altamente instabili, che avevano già perso ampie porzioni di territorio a favore degli insorti jihadisti. Ad esempio, il regime militare di Traoré che governa il Burkina Faso ha il pieno controllo di appena il 60% del territorio del Paese, mentre il resto è stato reso ingovernabile dagli insorti jihadisti che attraversano il confine internazionale a malapena pattugliato che il Burkina Faso condivide con il Mali.

LA FRANCIA, GLI USA O ENTRAMBI POSSONO INTRAPRENDERE UN’AZIONE MILITARE DIRETTA CONTRO LA GIUNTA NIGERINA?

#18.

Gli Stati Uniti non hanno una storia di interventi militari diretti per rimuovere governi in Stati africani. La sua storia è il solito uso occulto di agenti della Central Intelligence Agency (CIA) per sovvertire i governi e farli rimuovere. Questo può avvenire sotto forma di sponsorizzazione di combattenti ribelli per innescare e mantenere una guerra civile, come è accaduto nelle nazioni filo-sovietiche dell’Angola e del Mozambico. Oppure potrebbe essere la vecchia strategia dell’assassinio, come è accaduto al Primo Ministro Patrice Lumumba della Repubblica Democratica del Congo nei primi anni Sessanta. Qualunque sia il metodo di sovversione scelto dagli americani, spesso può essere minuzioso e può richiedere mesi o addirittura anni per avere effetto.

Mentre la Francia ha commesso la sua buona dose di assassinii di politici nazionalisti e comunisti dell’Africa francofona negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, utilizzando il suo ormai defunto servizio segreto, lo SDECE, il metodo principale per trattare con i leader africani ostili alla Francia è stato semplicemente l’invio di truppe francesi domiciliate nelle locali basi militari francesi per rovesciarli.

Una processione di veicoli militari francesi attraversa la capitale ivoriana di Abidjan verso la residenza del professor Laurent Gbagbo, all’epoca presidente della Costa d’Avorio.
L’ultima volta che la Francia ha rimosso un leader africano è stato nel 2011, quando il governo ivoriano del presidente Laurent Gbagbo è stato rovesciato dalle truppe francesi che hanno fatto irruzione dalle loro basi militari in Costa d’Avorio e hanno raggiunto in lunghe colonne di veicoli blindati la residenza presidenziale dell’ex professore di storia per rimuoverlo dal potere nel mezzo di una guerra civile. La Francia non ha nemmeno aspettato l’ECOWAS, che aveva il diritto di intervenire, se lo desiderava, perché la Costa d’Avorio è uno Stato membro.Dopo il suo rovesciamento e l’arresto dell’11 aprile 2011, il professor Gbagbo è stato trasportato all’Aia, nei Paesi Bassi. Lì è stato processato dalla Corte penale internazionale (CPI) e poi rilasciato nel febbraio 2020 dopo che i giudici della CPI hanno respinto le accuse di “crimini contro l’umanità” mosse contro di lui.

Gbagbo è stato il primo ex capo di Stato a essere preso in custodia dalla Corte penale internazionale.

Il presidente ivoriano spodestato Laurent Gbagbo durante il suo umiliante arresto da parte delle truppe francesi l’11 aprile 2011. In seguito sarebbe stato trasportato all’Aia dove le accuse di “crimini contro l’umanità” sarebbero state ascoltate e respinte dai giudici della Corte penale internazionale.
La Francia sarebbe in grado di fare qualcosa di così sfacciato ai leader golpisti del Niger nell’anno 2023? La risposta è “no”. La Francia non è più la grande potenza di un tempo in Africa. L’ultimo presidente francese che ha avuto il potere di compiere un attacco così audace all’interno dei confini di uno Stato africano è stato Nicolas Sarkozy.Proprio come i funzionari americani Vicky Nuland e Tony Blinken, il leader francese Emmanuel Macron non oserebbe intraprendere un’azione militare diretta in Niger perché sarebbe politicamente difficile e non c’è alcuna garanzia che l’azione militare possa funzionare. La Francia non ha vere e proprie basi militari nella Repubblica del Niger. Il numero di truppe francesi attualmente presenti in Niger non è sufficiente per organizzare un’azione militare adeguata. Allo stesso modo, anche le truppe americane non sono sufficienti.

L’ECOWAS INTERVERREBBE COMUNQUE MILITARMENTE IN NIGER?

#19.

Sì, è possibile. Come detto in precedenza, l’esercito e l’aviazione della Nigeria sono già pronti a intervenire in nome dell’ECOWAS. L’unica ragione per cui non è ancora successo è che Tinubu sta affrontando pressioni interne alla Nigeria per non entrare in Niger. Ancora una volta, non è perché ci sia una simpatia diffusa per i leader del colpo di Stato.

Al contrario, molti nigeriani comuni ne sono inorriditi perché ricorda un’epoca lontana in cui la Nigeria stessa era sotto gli stivali di governanti militari cleptocratici che rubavano il Paese alla cieca e imprigionavano o uccidevano gli oppositori politici, il tutto fingendo di essere i salvatori del Paese.

L’ultima dittatura militare della storia nigeriana (1993-1998) è stata guidata dallo psicopatico generale Sani Abacha, che rubava, imprigionava e uccideva anche mentre si poneva come acerrimo oppositore del governo statunitense del presidente Bill Clinton. Gli stranieri in visita – come il controverso leader nero americano Louis Farrakhan – hanno ripetutamente difeso Abacha perché credevano alle sue affermazioni di “anti-imperialismo”.

Attualmente, i servizi di sicurezza e l’esercito nigeriano si preoccupano principalmente della sicurezza dei confini e temono che il successo della spinta dei terroristi Boko Haram, allineati all’ISIS, verso le frange più settentrionali del Paese possa essere vanificato dall’instabilità politica della Repubblica del Niger, che condivide un confine di 1.600 chilometri soggetto a infiltrazioni jihadiste.

I servizi di sicurezza e i militari nigeriani sono quelli che hanno indirizzato Tinubu verso l’intervento per eliminare la giunta militare in Niger. Gli americani, i francesi e i burocrati dell’UE si sono semplicemente aggiunti alle pressioni già esercitate su Tinubu dagli organi di sicurezza e militari della Nigeria.

Tuttavia, Tinubu è un politico civile e deve quindi considerare i sentimenti della base elettorale del Nord della Nigeria del suo partito politico prima di autorizzare qualsiasi carica militare oltre confine.

#20.

L’ECOWAS ha già emesso il suo comunicato, che presenta alcune contraddizioni al suo interno. Ma è chiaro che molti degli Stati membri più piccoli vogliono che la Nigeria intervenga al più presto in Niger.

Tinubu probabilmente interverrebbe solo se la situazione politica in Niger dovesse improvvisamente degenerare in modo tale da neutralizzare l’opposizione interna alla Nigeria.

Ad esempio, se i ribelli del Nord del Niger dovessero scatenare una ripresa dell’insurrezione congelata, ciò potrebbe mettere a tacere i critici interni dell’intervento militare in Nigeria e permettere a Tinubu di agire.

Naturalmente, se i leader del colpo di Stato seguissero la traiettoria standard della storia del Niger e lottassero tra loro per il potere, allora ciò potrebbe anche causare un’instabilità politica sufficiente in Niger per neutralizzare l’opposizione interna alla Nigeria e permettere a Tinubu di intervenire militarmente.

Se la giunta militare nigerina mette in atto la sua minaccia e uccide il presidente Bazoum, l’indignazione in Nigeria potrebbe anche disinnescare l’opposizione interna e consentire a Tinubu di intervenire e riportare al potere elementi del governo rovesciato di Bazoum.

#21.

Un’altra possibilità potrebbe essere quella che la Nigeria ceda il proprio equipaggiamento militare agli Stati membri più piccoli dell’ECOWAS che desiderano un intervento militare. La Nigeria potrebbe fornire il suo equipaggiamento militare a Senegal, Ghana, Togo e Benin. L’aviazione nigeriana potrebbe trasportare le truppe senegalesi, togolesi, ghanesi e beninesi al confine tra Nigeria e Niger e lasciarle entrare. Ma questo mi sembra un azzardo. Senza il coinvolgimento della Nigeria, l’intervento militare dell’ECOWAS potrebbe non riuscire a sradicare la giunta nigerina.

#22.

Vorrei concludere il mio articolo ripercorrendo il viale dei ricordi. Nel 2016, l’ECOWAS era alle prese con una crisi costituzionale che aveva travolto il Gambia dopo le elezioni presidenziali. Il colonnello Yahaya Jammeh, da lungo tempo governatore militare del Gambia, si era candidato contro il suo avversario civile, Adama Barrow, e aveva perso le elezioni presidenziali del 1° dicembre 2016.

Inizialmente, Jammeh aveva accettato i risultati e ammesso la sconfitta. Questo fino a quando Barrow non ha pronunciato un discorso infuocato affermando che, una volta preso il potere, avrebbe perseguito Jammeh per violazione dei diritti umani. Dopo aver ascoltato il discorso di Barrow, Jammeh ha rifiutato i risultati delle elezioni e ha fatto affermazioni vaghe sulle “irregolarità del voto”. Nel frattempo, Barrow è fuggito in Senegal per evitare di essere arrestato dal governo di Jammeh.

L’ECOWAS, l’Unione Africana e il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite hanno condannato il tentativo di Jammeh di rimanere al potere dopo aver ammesso inizialmente di aver perso le elezioni presidenziali.

La Nigeria ha lanciato l’ultimatum standard a Yahaya Jammeh affinché si dimetta e lasci che Barrow prenda il potere. Jammeh ha ignorato l’ultimatum e ha rilasciato dichiarazioni di sfida. Sono stati tentati colloqui di pace, ma non hanno portato a nulla. L’ultimatum è scaduto e il 2016 si è concluso senza che l’ECOWAS abbia dato seguito alle sue minacce.

All’inizio di gennaio 2017, sembrava che la Nigeria/ECOWAS stessero semplicemente bluffando e che non avrebbero fatto nulla. Poi, di punto in bianco, il 19 gennaio 2017 sono entrate in Gambia forze di terra dell’ECOWAS guidate dalla Nigeria, che comprendevano soldati senegalesi, ghanesi, maliani e togolesi. La Marina nigeriana ha iniziato a pattugliare le acque costiere del Gambia, mentre l’aviazione nigeriana è entrata nello spazio aereo gambiano.

La Marina del Gambia si è arresa senza combattere. L’esercito gambiano si è diviso. Alcuni sono rimasti fedeli a Jammeh. Gli altri si sono arresi alle truppe dell’ECOWAS guidate dalla Nigeria.

Alla fine, Yahaya Jammeh ha accettato di rinunciare al potere statale in Gambia e l’ECOWAS ha fatto in modo che andasse immediatamente in esilio permanente in Guinea Equatoriale, dove rimane tuttora. Le truppe dell’ECOWAS sono ancora di stanza in Gambia anche nel momento in cui scrivo.

Potrebbe accadere la stessa cosa ai leader golpisti del Niger? Solo il tempo potrà dirlo.

In Niger, signor Presidente della Repubblica, non è Trafalgar, ma Fachoda più la Berezina. Ancora una volta, complimenti a chi vi consiglia!_di Bernard Lugan

Devo ammettere un errore. Nel mio comunicato stampa del 15 agosto sul fiasco dell’Eliseo in Niger, ho scritto “oggi Trafalgar, domani Fachoda”. La realtà è diversa: in realtà è “Fachoda più Berezina”.

Fachoda appunto, perché i nostri ottimi alleati e fedeli amici laici, gli Stati Uniti, si sono ancora una volta totalmente dissociati dalla Francia. E, come sempre in questi casi con i nostri affidabili e infallibili partner anglosassoni, questi ultimi hanno “giocato d’anticipo”. Hanno negoziato alle spalle di Parigi con la giunta nigerina per mantenere la loro base ad Agadès! Di conseguenza, noi siamo stati sputati quando ce ne siamo andati, ma loro sono rimasti con i loro dollari!

È una Berezina anche perché l’arroganza, la compiacenza, l’ingenuità e soprattutto l’incompetenza dei ballerini di tip tap che consigliano l’Eliseo hanno messo il contingente francese in Niger in una situazione tale che il ritiro assumerà automaticamente la forma di una ritirata. Ora, essendo il Niger un Paese senza sbocco sul mare, ci sono due possibili opzioni, che di fatto equivalgono a una nuova Bérézina… ma senza il Corpo dei Pontonniers… :

1) Verso il Ciad. Questo comporterebbe lunghi e pesanti convogli che attraversano tutto il Niger sotto l’attacco di civili spinti sui nostri convogli per costringere le nostre forze ad aprire il fuoco, con tutte le conseguenze mediatiche che possiamo immaginare… A meno che, naturalmente, non paghiamo alla giunta un riscatto molto alto… Per non parlare del fatto che il Ciad è un vicolo cieco dove, inoltre, si pongono gli stessi problemi di base del Niger e del Mali… e poi, quando questo Paese esploderà, perché prima o poi esploderà, dove evacueranno le nostre forze? Una mappa è istruttiva a questo proposito…

2) Verso il Benin e il mare. Fortunatamente il Benin ha un confine di 266 chilometri con il Niger, una distanza relativamente breve dalle nostre basi nella regione di Niamey. Ma Cotonou dovrebbe comunque acconsentire al transito, cosa che probabilmente avverrà, ancora una volta in cambio di “denaro contante” e vari altri vantaggi…

In ogni caso, il prestigio della Francia non esiste più, quindi bisognerà pensare a ridefinire una politica africana, tema che sarà al centro del numero di ottobre de L’Afrique Réelle, che gli abbonati riceveranno il 1° ottobre.

Ma per il momento la realtà impone che i nostri futuri orientamenti strategici in Africa prevedano un ritiro dal Sahel, dove ci sono solo assi nella manica – e dove la Francia non ha interessi, come dimostra lo stesso numero di ottobre de L’Afrique Réelle – e un ritorno alla tradizione marittima del XVIII secolo, cioè facendo delle coste le nostre basi d’azione.
E, soprattutto, facendo scoprire a chi non ha ancora “bruciato le ali” le sottigliezze politiche, economiche, etniche e demografiche dell’interno di un continente che Stanley ha definito “misterioso”…

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