LO STATO DELLE COSE DELLA GEOPOLITICA, di Massimo Morigi _ 10a di 11 parti

AVVERTENZA

La seguente è la decima di undici parti di un saggio di Massimo Morigi. Nella prima parte è pubblicata in calce l’introduzione e nel file allegato il testo di Morigi; nella sua decima parte è disponibile la prosecuzione a partire da pagina 130. L’introduzione è identica per ognuna delle undici parti e verrà ripetuta solo nelle prime righe a partire dalla seconda parte.

PRESENTAZIONE DI QUARANTA, TRENTA, VENT’ANNI DOPO A LE
RELAZIONI FRA L’ITALIA E IL PORTOGALLO DURANTE IL PERIODO
FASCISTA: NASCITA ESTETICO-EMOTIVA DEL PARADIGMA
OLISTICO-DIALETTICO-ESPRESSIVO-STRATEGICO-CONFLITTUALE DEL
REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO ORIGINANDO DALL’ ETEROTOPIA
POETICA, CULTURALE E POLITICA DEL PORTOGALLO*

*Le relazioni fra l’Italia e il Portogallo durante il periodo fascista ora presentate sono
pubblicate dall’ “Italia e il Mondo” in undici puntate. La puntata che ora viene
pubblicata è la prima e segue immediatamente questa presentazione, e questa prima
puntata (come tutte le altre che seguiranno) è preceduta dall’introduzione alla stessa di
Giuseppe Germinario. Pubblicando l’introduzione originale delle Relazioni fra l’Italia
e il Portogallo durante il periodo fascista come prima puntata e che, come da indice,
non è numerata, la numerazione delle puntate alla fine di questa presentazione non
segue la numerazione ordinale originale in indice delle parti del saggio, che è stata
quindi mantenuta immutata, quando questa presente.

DECIMA PUNTATA STATO DELLE COSE

6 MESI – LO STATO FANTASMA e un ENIGMA NON MODERNO, di Daniele Lanza

6 MESI – LO STATO FANTASMA.
(bilanci)
Dunque, non mi occupo più di alcun bollettino di conflitto dalla fine di aprile in realtà e non intendo certo recuperare puntate passate.
Mi ritrovo non ad analizzare propriamente – che mi mancano troppi dati – ma a riflettere come tanti altri commentatori e analisti sul primo semestre della crisi militare che investe il quadrante orientale d’Europa : a giudicare dalle mappe delle operazioni in corso la situazione è apparentemente cristallizzata oramai da mesi (apparentemente, poichè le forze russe in realtà guadagnano gradualmente terreno) come mostra la mappa allegata al post.
Come interpretare ? Che significa ? Molte cose.
Emerge quel quadro di logoramento che non ricorda tanto i blitzkrieg del secondo conflitto mondiale quanto piuttosto le trincee del primo (si fa per dire), come già notato un migliaio di volte sin dagli esordi a marzo, nulla da aggiungere.
Il presidente di Russia a prescindere dal grado di difficoltà incontrato in questa metà di anno NON ha (e non lo farà) ordinato la mobilitazione generale : dopotutto la patria non è in pericolo….da una prospettiva globale del Cremlino si tratta di un’operazione ai suoi confini e tale operazione non può e non deve assorbire più di quanto lo stato russo non sia in grado di sostenere : i vertici e il loro leader non sono sprovveduti, pur nell’azzardo, e non impegnano più risorse (economiche e umane) di quanto lo stato non possa sopportare. Questo significa che la campagna, da parte russa, continuerà a proseguire con le risorse che gli sono state destinate dall’inizio sino ad oggi (con un preciso limite) : si va avanti nella misura in cui si può farlo entro il margine di quel limite di spesa, finchè non accade qualcosa.
Salvo pertanto capovolgimenti di fronte o altri casi eccezionali la campagna prosegue con le risorse previste per una “operazione” e non di più : il fatto è che pur soltanto con risorse limitate, bilanciate per la taglia di una operazione di confine/incursione (diciamo), si è riusciti ad occupare quasi 1/4 del paese (un paese di dimensioni maggiori alla Francia) (…).
Questo comporta che allo stato attuale ci si ritrovi in una situazione di vero “non ritorno” da parte di tutte le forze in gioco, ognuna delle quali ha commesso uno sbaglio nella valutazione. Vediamo come andando in ordine alfabetico :
A – Il punto di vista russo. Pleonastico : il Cremlino non può più ritirarsi in nessun caso (chi riesce a mettersi nei loro panni, lo comprende in pochissimo). Le forze russe in questi 6 mesi hanno incassato le loro perdite , unite allo stigma planetario che lo stato russo soffre a livello di immagine, sufficiente a ridefinire la demarcazione del globo in blocchi (l’occidente euroatlantico sanzionatorio da un lato e i paesi emergenti, meno intransigenti con la Russia, dall’altro). La Russia è talmente compromessa nell’azione in corso che anche le conseguenze materiali di una prosecuzione del conflitto -per quanto difficili – sono comunque preferibili rispetto a quelle che avrebbe una RESA ufficiale da parte di Mosca (si tratterebbe, arrivati a questo punto, di una sconfitta storica, che – aprirebbe le porte ad un declino rapido della leadership attuale e ,sul lungo termine, una ripresa del processo di disgregazione territoriale dello stato russo sostenuta da agenti esteri. Se la fine del XX secolo ha visto la disintegrazione dell’Unione Sovietica….la prima metà del XXI vedrebbe la fine della Federazione Russa. Seconda catastrofe in successione a distanza di una generazione).
Il Cremlino ha sbagliato nel valutare la testardaggine della leadership ucraina : una dirigenza moderata avrebbe (forse) acconsentito a scendere ad una qualche trattativa, ma una dirigenza nazionalista come quella attuale NO (si è sbagliato il calcolo nel valutare la misura – amplissima – del sostegno dato da Washington ai segmenti più nazionalisti della società e nell’aprirgli dunque la strada alle sfere della politica, sino al vertice, negli ultimi 20 anni. Ci si è sbagliati nel valutare l’effetto rassicurante dato dalle promesse di sostegno economico/militare garantito da Washington e Nato – poi in effetti prestato – a Kiev come ad altri stati di area est europea. Promesse in parte impossibili, ma che sortiscono l’effetto di alimentare la sicurezza dei governanti a Kiev nel proseguire una resistenza a oltranza).
B – il punto di vista ucraino è il più enigmatico, in quanto la situazione – nella prospettiva di Kiev – è la più aberrante : lo stato ucraino di per sé ha GIA’ cessato di esistere a rigor di logica (leggere bene quanto segue).
In primissimo luogo, anche se si dovesse arrivare ad una trattativa, ormai lo si farebbe dovendo rinunciare a tutti i territori conquistati col sangue dalla parte avversa (quasi ¼ dell’intero paese : come se la repubblica italiana rinunciasse a isole e mezzo sud della penisola) : soluzione non accettabile per l’ordine interno ucraino (qualsiasi stato, dopo una sconfitta che comporta la perdita di quasi ¼ della superficie nazionale, perde ogni vestigia di legittimità e credibilità agli occhi della propria società di riferimento, nelle cui istituzioni dovrebbe rispecchiarsi). In secondo luogo le perdite ucraine sono oramai pari a 70’000/80’000 elementi. In terzo luogo – ma alla pari col primo – in 6 mesi di conflitto KIEV ha accumulato un debito economico nei confronti dei suoi benefattori statunitensi che non è oggettivamente in grado di saldare (considerata l’economia ucraina è qualcosa di materialmente infattibile se non in un lasso di tempo sul mezzo secolo). Se ne ricava che la leadership ucraina ha commesso un errore con DUE conseguenze :
1) Anziché aprire le trattative da subito – dalle prime settimane – ha optato per una resistenza ad oltranza, facendo degenerare il confronto armato senza aver la reale possibilità per vincerlo (tramutando cioè quello che probabilmente doveva essere un’incursione a scopo deterrente – cioè per disarmare Kiev e basta – ad una lotta sanguinosa sul territorio : anziché accettare da subito un trattato col Cremlino, per quanto umiliante, ha preferito combattere una guerra di vecchio stile con conseguente perdita di intere regioni che non torneranno più al paese. La leadership ucraina è in un certo senso corresponsabile nell’aver trasformato l’”operazione speciale” di Putin in un conflitto che ricorda le campagne delle guerra mondiali nevecentesche……).
2) La resistenza ad oltranza descritta sopra, è possibile solo con ingentissimo aiuto estero (che non è un regalo) : il governo ucraino sta sostanzialmente portando avanti la sua resistenza grazie agli aiuti stanziati da Washington…….le somme che arrivano da oltreoceano sono inimmaginabili per il budget destinato alla difesa dal governo di Kiev. L’Ucraina è tenuta militarmente in vita artificialmente da questa macchina per l’ossigeno (…). Il debito cumulato è tale (unito ad altri debiti contratti sin dal 2014, dopo la perdita delle produttive regioni del Donbass) da rendere lo stato ucraino in tutto e per tutto dipendente dall’occidente atlantico, quale che sia l’esito. Anche se si dovesse prevalere in qualche modo (ipotesi assai remota), l’”Ucraina vincitrice” con l’aureola della vittoria sarebbe uno stato eterodiretto da Washington nella stessa misura in cui lo erano alcuni stati dell’Africa occidentale dalla Francia post-coloniale, non è esagerazione. Senza tale polmone, le forze armate ucraine capitolano per assenza oggettiva di mezzi in pochi mesi, quindi non possono privarsene nemmeno volendo.
Da queste considerazioni in alto si arriva alla conclusione che l’Ucraina – in qualità di stato indipendente – ha GIA’ cessato di esistere. L’Ucraina sul piano geopolitico NON esiste più già da adesso (tantomeno come i propri nazionalisti al potere la vorrebbero : proprio costoro nel disperato tentativo di difenderla da un aggressore….la vendono letteralmente ad un altro, senza accorgersene).
In nessun quadro ipotetico figura un’Ucraina che vince il conflitto (se anche fosse sarebbe una marionetta che esulta). Lo STATO FANTASMA del titolo di questo post è dedicato allo stato ucraino.
C – punto di vista atlantico/occidentale : hanno investito un’enormità in Ucraina…e se si ritirassero ora perderebbero tutto l’investimento fatto, senza un ritorno. Per rientrare dell’investimento si ha bisogno di un’Ucraina che VINCE e allora si continua il finanziamento nell’attesa non tanto di una vittoria sul campo (ipotesi remota), ma aspettando l’esaurimento materiale dell’opponente. Washington punta ad una vittoria per abbandono (cioè che la Russia, a corto di fiato, si ritiri da sola dal ring per spossatezza. Le guerre in effetti si vincono anche in questo modo).
In questa ultima previsione si colloca probabilmente l’errore atlantico/occidentale, che troppo semplicisticamente paragona il caso ucraino del 2022 a quello afgano del 1980. I decisori d’oltreoceano, distaccati dal vecchio continente non danno peso alla storia……..l’Ucraina per il Cremlino, non è l’Afghanistan. Non è solo una questione di potere o influenza internazionale….non è una guerra coloniale del XIX secolo. La questione ucraina – non veramente affrontata come si sarebbe dovuto, negli anni 90 – è parte dell’identità russa e slavo orientale stessa.
(CONTINUA)
6 MESI – ENIGMA NON MODERNO*
(bilanci)
Il modo in cui ho concluso la mia riflessione sui primi 6 mesi di conflitto, ci riporta alla premessa ASSOLUTA, già menzionata in passato, che non concerne il dato tecnico, ma quello psicologico e morale e che influenza la terminologia comunemente in uso : quello in corso da oramai sei mesi non è un confronto tra due stati (sebbene per il mero diritto internazionale sia descritta così, ovvero “de jure” e tale sia considerato ovunque nel mondo occidentale), bensì coincide maggiormente con la definizione di “GUERRA CIVILE”, se si considera il peso totale della storia di lungo corso (quella dei secoli) che riguarda le due entità coinvolte.
Russia ed Ucraina – sono (come ricordato innumerevoli volte), a tutti gli effetti parti complementari della medesima civilizzazione, segmenti autonomi, dello stesso continuum culturale……….autonomi sì, ma non al punto da poter essere completamente indipendenti l’un l’altro quanto lo sarebbero due stati nazionali del tutto estranei : lo sfumarsi poi del confine politico-amministrativo tra i due contendenti nel frangente attuale (linea di demarcazione al momento polverizzata, decomposta, possiamo dire) non fa che espandere la coltre di ambiguità che pervade il campo di battaglia. A giudicare dalla mappa delle operazioni correnti – unita all’ultimo proclama del presidente di Russia – le regioni sotto controllo di Mosca, punteggiate in rosso, verranno assorbite dalla Federazione…..il mainstream occidentale lo chiamerà “annessione” alla stregua del caso crimeano di 8 anni orsono, mentre dal Cremlino si parlerà di “riunificazione”, mentre riemergono carte dell’antica Novorossiya ekateriniana del XVIII° secolo, onde sottolinearne la quasi perfetta sovrapposizione geografica (…). Esiste anche la possibilità che le cose non si fermino qui del resto : l’errore iniziale della leadership di Kiev, in cui si indulge tuttora, oltre ad aver fatto perdere le regioni che si vedono, può potenzialmente fargliene perdere ALTRE. Il confronto prosegue lentamente, ma prosegue e sempre a vantaggio russo ed ogni metro preso di certo non sarà mai più restituito : se ad oggi Kiev ha perso quasi ¼ del paese, potrebbe arrivare anche a perderne 1/3 o addirittura l’intero 50% di questo passo…annullando a quel punto lo stesso senso dello stato ucraino in sé (mentre ai finanziatori d’oltreoceano non importa davvero nulla delle regioni ucraine perse o riprese, dato che dalla prospettiva di Washington altro non si tratta che di pedine sullo scacchiere – utili ad indebolire il più possibile l’opponente (Mosca) – prima di un’inevitabile capitolazione. Sì, perché da Washington non sta a cuore la salvezza di Kiev, ma solo sfiancare l’apparato industrial/militare di Mosca, per cui il vasto territorio ucraino è alla stregua di un corpo morto da sfruttare il più possibile contro il “nemico”).
Il paradosso che va delineandosi consiste quindi nel fatto che più il governo di Kiev si impunta per salvaguardare il proprio onore, più DANNEGGIA la medesima causa patriottica determinando un allungarsi del conflitto con conseguente perdita progressiva (e permanente) di altre provincie e regioni : in parole altre, la resistenza ad oltranza per difendere il concetto di Ucraina sul piano morale, determina una scomparsa graduale di quest’ultima sul piano MATERIALE (!). In questo, per l’appunto complici gli alleati occidentali, i “salvatori”, che nel finanziare una resistenza impossibile fino all’ultimo in nome dell’indipendenza ucraina, ne favoriscono all’opposto una maggiore disgregazione (cosa che tuttavia è secondaria, dalla prospettiva washingtoniana, già detto).
Ma poi, dopo tante parole, COSA è poi la sagoma che chiamiamo “Ucraina” ? Dove finisce e dove inizia ? Chi lo stabilisce in ultima istanza ? Ingiusto stabilirlo con le armi in mano diranno molti….e allora è più giusto che a stabilirlo sia l’opinione pubblica che segue gli avvenimenti dallo schermo Tv, senza cognizione alcuna ?
Dove si colloca la verità ? Questo non lo stabilisce né il sottoscritto né alcun altro, per fortuna. Più che altro, più che voler stabilire un’impossibile verità con una specifica sentenza – mi verrebbe, per l’ennesima volta, da sottolineare un problema di fondo, di natura assai più generale che concerne la moderna concezione di organizzazione del territorio.
Forse il nodo non dicibile del problema – cioè quanto molti non colgono – è “l’insufficienza dello stato nazionale, in quanto struttura, nel soddisfare i bisogni della società e della storia” (definizione coniata da me, assai ambigua lo riconosco, me ne assumo paternità e responsabilità) nel senso che il concetto di stato-nazione (pur alla base del diritto internazionale ed universalmente condiviso nel discorso sia scientifico che comune) si rivela inadeguato ad affrontare situazioni a casi come quello in questione.
Per spiegarsi meglio, lo “stato-nazione” in sè – entità che si vorrebbe lineare idealmente, dai confini definiti, dal carattere omogeneo – può essere anch’esso ricondotto, a suo modo, al canone razionalizzante/standardizzante del pensiero moderno, quando si stabilì in onore al metodo scientifico che ogni aspetto dello scibile umano doveva essere messo al proprio posto, classificato, sezionato, incasellato in sterminati sistemi linneiani (la politologia non ne fu immune). Tale sistema è disgraziatamente inadeguato a interpretare correttamente un processo di lunghissimo corso come quello che da vita alla SIMBIOSI russo-ucraina : quest’ultima è il risultato dell’evoluzione di un millennio, è a tutti gli effetti un equilibrio di origine pre-moderna che poco si presta alle molte semplicistiche riflessioni odierne (…). Nell’estrema essenza si può dire che buona parte delle riflessioni (soprattutto occidentali) sul tema non riescono a cogliere il cuore del problema per una ragione elementare : si cerca di risolvere un enigma ANTICO (premoderno) con strumenti e mentalità CONTEMPORANEI. Come voler comprendere a fondo la Commedia dantesca ragionando esclusivamente sul piano odierno, e senza immedesimarsi nella forma mentis di un uomo del XIV secolo.
In conclusione : il corso della situazione – la sua tempistica soprattutto – rimane imprevedibile, tuttavia in nessun caso potrà terminare come un Afganistan o come un Vietnam. Non è materialmente possibile (semmai tale visione riflette per la precisione i desideri della dirigenza statunitense e Nato, ossia che tale prova militare abbia sul Cremlino i medesimi effetti che ebbe l’Afganistan…adoperandosi adeguatamente per ottenere tale effetto).
Mi fermo qui, ma proseguirò su questa pista, c’è molto altro da dire e da analizzare (se qualcuno è interessato). Comparare dinamiche analoghe nella storia passata (1917 e dopo) o in altre aree (ex-Jugoslavia ad esempio)

 

LIBERTA’ SI’, MA SENZA IL LIBERATORE (…?)_di Daniele Lanza

LIBERTA’ SI’, MA SENZA IL LIBERATORE (…?)
(da leggere come “il paradosso della nazione lettone”)
Tripudio e gaudio dalle istituzioni dell’indipendente repubblica di Lettonia ! Dal cuore della capitale – RIGA – vengono abbattuti, rimossi, quasi 80 metri di obelisco….quello dedicato alla vittoria dell’armata rossa (magniloquente memoriale sovietico edificato alla metà degli anni ottante per il quarantennale della vittoria).
Il governo di RIGA aveva annunciato la misura sin da maggio e la porta a termine adesso a fine estate : lo scopo, questo è chiaro, è quello di estirpare simbolicamente il 1945 stesso, dalla memoria, dal tessuto del paese.
Ci si libera di un ospite sgradito, si eradica la memoria di quel liberatore non percepito come tale dagli autoctoni lettoni, e ancor più dalle sue nazionaliste rappresentanze governative, le quali quindi si disfano del fardello.
Come metterla ? Provo a dirla così : che un popolo possa liberamente, in base alla propria sensibilità decidere chi sia o meno amico e chi sia o meno “liberatore” (termine che certamente ha del relativo) lo ritengo del tutto LECITO. Il nodo – perlomeno in una prospettiva etica – è che tale imprescindibile facoltà di scelta, dovrebbe accompagnarsi ad un altrettanto imprescindibile coerenza generale : in parole elementari, se l’armata rossa staliniana non avesse prevalso, allora sarebbe stata la Wehrmacht hitleriana a prevalere (….).
Ora, io mi astengo dal fare paragoni o bilanci morali tra i due contendenti sopra : sottolineo semplicemente che l'”indomabile” Lettonia in un modo o in un altro…….sarebbe stata COMUNQUE sotto qualcuno. O russi o tedeschi). L’entità lettone, tra due universi culturali e militari di grande spessore come quello slavo e quello germanico, non avrebbe mai avuto la possibilità di formarsi come ha fatto.
L’emergere dello stato Lettone – come altri analoghi – nell’ultimo centinaio di anni è stato dovuto più che non alla capacità organizzativa dei propri popoli, alla debolezza del contenitore in cui erano : il collasso della casa zarista prima e quello della casa sovietica dopo. Poco altro oltre questo (senza offesa per l’identità lettone).
La zona, assolutamente minuscola, era “destinata” nel gioco amorale della geopolitica a divenire parte di qualcuno o qualcosa in ogni caso (sarebbe stata satellite dello stato kaiseriano se quest’ultimo non si fosse eclissato nel 1918, così come di quello nazista non si fosse disintegrato nel 1945).
Con quanto affermato sopra vado al punto essenziale : la Lettonia trova la sua libertà non tanto per moto interno interno…..quanto per il venire meno, contemporaneamente, delle due entità che potremmo sintetizzare come occidentale ed orientale (“orientale” sta per Russia naturalmente……….mentre “occidentale” sta per Prussia – o Germania in senso tradizionale se preferite – ossia non occidentale in senso atlantico e anglosassone come lo concepiamo oggi).
Identità ed indipendenza lettoni – con tutto il rispetto per l’autodeterminazione dei popoli – sono frutto del decesso naturale dei propri “sovra-ordinati” su un piano geostrategico (tali da svariati secoli, ma venuti momentaneamente meno nella finestra contemporanea).
E’ un discorso molto difficile e non condivisibile da molti (lo posso intendere), ma è un fatto su cui riflettere. La libertà lettone è basata più su un….”vuoto”, sull'”assenza” che non su una “presenza”. Ed abbattere il memoriale della vittoria sovietico non fa che incrementare il problema.
Fa specie ricordare che un buon 1/4 degli abitanti della Lettonia sono etnicamente russi e all’incirca 1/3 parlano correntemente la lingua come idioma madre. Nella capitale poi, la proporzione sale al 50% : buona parte di costoro nemmeno ha la cittadinanza.
Io direi, a questo punto perchè non sbarazzarsi anche di costoro e costringerli ad un esodo di massa ?!? (per carità le istituzioni lettoni questo lo pensano e pianificano già da anni pur senza poter utilizzare metodi che non sarebbero passabili nell’opinione pubblica internazionale delle democrazie odierne)
Mi viene in mente la tragicomica metafora di un popolo che volendo liberarsi di qualsiasi cosa gli avevano lasciato gli invasori passati per ritrovare sè stesso…….si ritrovò col NULLA in mano (nemmeno i suoi abitanti).
Tratto da facebook

 

Una nuova fase nella guerra economica globale, di Antonia Colibasanu

Quando la Russia ha invaso l’Ucraina a febbraio, non ha solo iniziato una guerra di terra in Europa, ma ha aperto quella che sarebbe diventata una guerra economica mondiale che coinvolge quasi tutte le maggiori potenze. L’Occidente ha risposto all’invasione imponendo sanzioni e usando il sistema finanziario internazionale contro la Russia, sperando di sanguinare abbastanza Mosca economicamente da venire a patti. Invece, la Russia ha puntato i piedi, raddoppiando la strategia decennale di armare le sue vendite di energia in Europa mentre cercava nuovi alleati e acquirenti. Naturalmente, la rimozione dell’energia russa ha provocato shock in tutta l’economia globale.

Quasi sei mesi dopo, il mondo è entrato in una nuova fase della guerra economica. Anche le grandi potenze devono affrontare l’aumento dell’inflazione, una pandemia in corso, la carenza di energia e una potenziale crisi alimentare. Le elevate temperature elevate in tutta Europa hanno aumentato la domanda di energia per i consumatori che cercano di rimanere calmi, poiché l’industria tenta di aumentare la produzione come parte di una lunga ripresa economica. E questo per non parlare del prossimo inverno, della siccità in entrambi gli emisferi, dell’inquinamento, dell’interruzione della catena di approvvigionamento e delle continue devastazioni alle terre fertili in Ucraina, tutto ciò aggraverà i problemi economici globali.

Mentre l’inflazione significa prezzi più alti per tutti, le conseguenze della guerra economica vanno oltre le preoccupazioni sui prezzi. Il settore marittimo, ad esempio, è stato colpito in modo sproporzionato. Dopo l’iniziale invasione russa, la preoccupazione principale dell’industria era risolvere i problemi relativi alla zona di guerra, ad esempio portare le navi fuori dalla sponda settentrionale del Mar Nero, prima di affrontare costi operativi più elevati. L’industria marittima russa, in particolare, è tutt’altro che ferma. Sebbene rappresenti solo l’1% del trasporto marittimo globale, i russi stessi rappresentano quasi l’11% della forza lavoro marittima; Gli ucraini rappresentano quasi il 5%, quindi la guerra ha creato una carenza di manodopera nel settore. Nel frattempo,

Il settore assicurativo è stato il prossimo ad adattarsi al nuovo contesto imprenditoriale. La prima sfida per gli assicuratori è stata quella di sviluppare procedure che consentissero di controllare l’esposizione istituzionale alle sanzioni man mano che arrivavano (a un ritmo senza precedenti, non meno). Garantire una conformità efficace in un panorama in rapida evoluzione non è solo costoso ma anche rischioso, considerando le potenziali perdite aziendali. Il ritmo del cambiamento con cui l’attuazione delle sanzioni imposte ha reso le aziende incapaci di assicurare una persona sanzionata o riassicurare un assicuratore sanzionato, indipendentemente dal tipo di attività. Tenere sotto controllo le sanzioni, ormai come al solito, continua ad aumentare i costi operativi e a gonfiare i premi pagati dalle imprese in tutto il mondo, tutti inclusi nel prezzo finale al consumo.

Per tutti questi motivi, le rivalità continueranno a crescere mentre le nazioni determinano ciò che è meglio per se stesse. Dovranno adattare le loro politiche all’enorme accumulo di shock minori e maggiori che derivano dall’elevata incertezza che i produttori ei consumatori stanno affrontando. Questi includeranno esportazioni limitate, soglie di stoccaggio più elevate, misure a sostegno dell’aumento della produzione interna o addirittura il razionamento. Ciò alla fine si tradurrà in conseguenze non intenzionali e imprevedibili che saranno più difficili da gestire per tutti gli stati, con alcuni che subiranno il colpo più di altri.

Caso di studio: Francia e Germania

Il regolatore francese dell’energia nucleare ha annunciato l’8 agosto di aver esteso le deroghe temporanee per consentire a cinque centrali elettriche di continuare a scaricare acqua calda nei fiumi mentre il paese deve affrontare una delle più gravi siccità degli ultimi decenni. L’acqua fredda è essenziale per mantenere in funzione i reattori delle centrali nucleari. Ma anche se la Francia è uno dei principali produttori ed esportatori europei di energia nucleare, le condizioni meteorologiche hanno reso difficile il suo proseguimento delle operazioni. La scorsa settimana, Electricite de France ha affermato che deve ridurre la produzione di energia nucleare in altri due impianti a causa delle condizioni meteorologiche.

Questo è altrettanto un problema per la Germania, che sperava di importare parte della produzione francese di elettricità per cercare di ridurre la sua dipendenza energetica dalla Russia. Di fronte all’elevata inflazione e in previsione di una carenza di energia nei prossimi mesi, i legislatori tedeschi stanno esplorando misure per risparmiare energia. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha riconosciuto che i crescenti costi energetici sono una potenziale fonte di disagio sociale e instabilità. Nel frattempo, la stessa siccità sta colpendo l’economia tedesca. Il ministro dei trasporti tedesco ha affermato che i bassi livelli dell’acqua sul Reno potrebbero causare problemi di navigazione e ha chiesto un piano di dragaggio urgente per mantenere al sicuro l’economia tedesca. In parole povere, nulla sembra rassicurante per la potenza economica europea. E se la Russia deciderà di tagliare le forniture di gas naturale, la situazione peggiorerà.

Caso di studio: Odessa

Tutti questi problemi sono evidenti anche nel modo in cui l’accordo di esportazione di grano recentemente negoziato è stato attuato nel porto di Odessa. L’accordo avrebbe dovuto garantire che il grano ucraino potesse raggiungere l’Africa e altre parti del mondo, scongiurando una crisi alimentare e portando sollievo ai mercati cerealicoli globali. Ore dopo la firma dell’accordo, tuttavia, due missili russi hanno colpito il porto. Inoltre, gli operatori portuali, come il settore marittimo, si trovano ad affrontare una carenza di manodopera. E abbondano le questioni legali sull’applicazione delle sanzioni; fonti locali menzionano problemi con le pratiche burocratiche e i processi di approvazione.

La Russia è uno dei principali esportatori della maggior parte delle materie prime, quindi naturalmente le sanzioni sollevano questioni simili nei porti di tutto il mondo. Fatta eccezione per gli Stati Uniti, che sono in gran parte autosufficienti, la maggior parte dei produttori industriali mondiali, in particolare la Cina, dipendono dalle importazioni di materie prime. La Cina dipende anche dagli Stati Uniti per acquistare le sue esportazioni. Considerando i suoi crescenti problemi socioeconomici, Pechino farà tutto il possibile per evitare di essere coinvolta nella guerra economica tra Occidente e Russia, a meno che gli eventi intorno a Taiwan non la costringano a farlo. Per il mondo degli affari, ciò si traduce in maggiori spese operative e maggiori rischi della catena di approvvigionamento, il che contribuisce all’adozione accelerata dell’onshoring o del reshoring .

Per le aziende occidentali, tuttavia, l’onshoring comporta dei rischi: l’inflazione, prima di tutto. Le aziende americane devono considerare un aumento dei prezzi dell’energia, ma gli europei stanno affrontando l’incertezza sulla sicurezza dell’approvvigionamento stesso. Anche se la Russia non taglia l’approvvigionamento di gas dell’Europa, gli europei dovranno utilizzare i rubli per gli acquisti, indebolendo l’euro e facendo salire l’inflazione. Allo stesso tempo, l’Occidente, in particolare l’Europa, deve aiutare a mantenere a galla l’economia ucraina. Tutta questa incertezza rende l’Europa una destinazione meno attraente per gli investimenti delle imprese, per non parlare dell’onshoring.

I problemi della Russia

Le sfide del Cremlino sono simili, se non peggiori. Le sanzioni e il caos nella catena di approvvigionamento stanno riducendo ciò che arriva ai produttori russi e, quando le cose arrivano, sono più costose di prima. Il governo ha rassicurato la popolazione sulle misure anti-sanzioni, ma le sue imprese stanno soffrendo. Una misura richiede alle aziende russe di vendere una percentuale della loro valuta estera alla banca centrale in cambio di rubli, contribuendo a sostenere la valuta nazionale. Questa percentuale è notevolmente diminuita dall’inizio della guerra, ma continua uno stretto monitoraggio finanziario, così come l’incertezza degli affari.

Il Cremlino era consapevole di questi rischi prima di invadere l’Ucraina, ma ha fatto un calcolo politico. Putin ha posto la strategia di sicurezza della Russia al di sopra della sua prosperità, sapendo che la controparte occidentale aveva limiti severi. Tanto per cominciare, la prospettiva di una Russia armata di armi nucleari debole e instabile non è molto allettante per l’Europa o gli Stati Uniti. Tuttavia, il Cremlino sapeva anche che senza la tecnologia occidentale, l’economia russa avrebbe lottato per mantenere il precedente ritmo di sviluppo. Le sanzioni hanno iniziato a intaccare la produzione energetica russa e ci sono indicazioni che la più ampia produzione manifatturiera stia soffrendo. Anche se la Russia beneficia dell’aumento dei prezzi delle materie prime, le restrizioni tecnologiche in particolare inizieranno a farsi sentire e potrebbero trasformarsi in problemi socioeconomici.

Il Cremlino crede che i russi sopporteranno queste difficoltà finché riusciranno a vendere una storia plausibile che la Russia sta vincendo la guerra. Come parte di questo sforzo, Mosca beneficia dell’opportunità di fornire notizie positive a casa sui nuovi amici in Africa che la sostengono contro l’Occidente. Anche se non è chiaro quanto possano aiutare gli alleati africani, per il Cremlino il supporto morale potrebbe essere sufficiente. Allo stesso tempo, non è chiaro quale effetto stia avendo la guerra sulla forza lavoro russa dopo i danni causati dalla pandemia.

La guerra è l’ultimo distruttore. Il rischio di una destabilizzazione economica globale cresce a ogni passo, offensivo o difensivo, nella guerra economica, e man mano che le decisioni dei dirigenti aziendali si riversano nella catena di approvvigionamento. Insieme, questo accelera il processo di frammentazione già in corso a causa della pandemia.

L’Europa e la Russia saranno le prime ad essere maggiormente colpite. Un inverno difficile sta arrivando per entrambi. La dipendenza energetica dell’Europa dalla Russia è una sfida enorme, soprattutto durante la peggiore siccità del continente da decenni. Per la Russia, anche se riesce a trovare nuovi mercati in cui vendere, il flusso di tecnologie chiave nel paese si sta esaurendo. Le cose peggioreranno verso la fine dell’anno, soprattutto se si tiene conto dell’incertezza del mercato del lavoro. L’insistenza di Mosca sul fatto che le cose vadano bene è preoccupante. Sia per la Russia che per l’economia globale, chiaramente non lo sono.

https://geopoliticalfutures.com/a-new-phase-in-the-global-economic-war/

Ostilità in Ucraina: non se ne parla quasi più, ma i rischi di escalation aumentano, di Roberto Buffagni

 

Ostilità in Ucraina: non se ne parla quasi più, ma i rischi di escalation aumentano

Sui media, e nel dibattito elettorale italiano, non si parla quasi più delle ostilità in Ucraina: ma i rischi di una escalation che può sfuggire al controllo dei contendenti stanno aumentando. Il 17 agosto, l’articolo di John Mearsheimer su “Foreign Affairs”, Giocare con il fuoco in Ucraina/I rischi sottovalutati di una escalation catastrofica[1] disegna un quadro esauriente delle molteplici possibilità, più o meno probabili, di escalation, anche calamitosa, delle ostilità.

Di seguito, prendendo spunto dall’articolo di Mearsheimer, propongo una lettura più ravvicinata della situazione attuale.

  1. Dopo l’incontro trilaterale a Leopoli, Erdogan si dice pronto a ospitare colloqui per il cessate il fuoco. E perfino Mosca apre a un incontro Putin-Zelensky. Ma Zelensky chiude: ‘Niente pace senza ritiro dei russi’. Dagli Usa altri 775 milioni di dollari di aiuti a Kiev.[2] [mia sintesi dalle agenzie di stampa]
  2. Ovviamente, esigere il “ritiro dei russi” come presupposto per l’apertura di una trattativa significa rifiutare ogni possibile trattativa, oggi, domani o mai. I russi “si ritirerebbero” dai territori del Donbass che hanno conquistato, e dalla Crimea che hanno già annesso, solo in seguito a una sconfitta militare e politica devastante, che non solo rovesciasse l’attuale governo russo ma rendesse impossibile alla Federazione russa proseguire la guerra. In buona sostanza, i russi si ritirerebbero solo se gli Stati Uniti raggiungessero il formidabile obiettivo politico che hanno ufficialmente dichiarato di perseguire, ossia indebolire la Russia “al punto che non le sia più possibile fare il tipo di cose che ha fatto invadendo l’Ucraina” (Segretario alla Difesa USA, aprile 2022), in altre parole, espellerla dal novero delle grandi potenze, probabilmente frammentandola.
  3. Usualmente, impone una condizione così dura per l’apertura di una trattativa diplomatica solo chi sia certo d’essere sul punto di ottenere una vittoria militare decisiva, sappia che il nemico ne è consapevole, e in caso di rifiuto si disponga a conseguirla per esigere, poi, la resa incondizionata.
  4. È questa, la situazione militare in Ucraina? L’Ucraina e i suoi alleati occidentali sono sul punto di ottenere una vittoria decisiva sulla Russia? No. Stando a quanto è dato di comprendere, leggendola con prudenza e con l’ausilio di esperti commentatori[3], è vero l’esatto contrario. Anche senza ricorrere alla mobilitazione generale, la Russia ha, già oggi, la possibilità di sferrare un’offensiva volta all’annientamento delle residue FFAA ucraine. La Russia sta impegnando nei combattimenti soltanto le milizie delle Repubbliche del Donbass, e i mercenari dell’Orchestra Wagner. Le truppe russe sono adibite al martellamento d’artiglieria delle posizioni fortificate ucraine, e non entrano in combattimento se non occasionalmente, in formazioni ridotte. Esse hanno avuto tutto il tempo di riposarsi, ricostituirsi, riorganizzarsi, e sono insomma più che pronte all’impiego. Le migliori truppe ucraine hanno subito perdite incapacitanti, nessun territorio ucraino preso dai russi è mai stato riconquistato stabilmente. La controffensiva annunciata dagli ucraini resta un annuncio, probabilmente perché di fatto impossibile: le migliori truppe ucraine hanno subito perdite gravissime, le nuove formazioni sono raccogliticce, mal addestrate, e scontano un incolmabile divario sia nella direzione operativa, sia nelle capacità combattive, sia nell’armamento a disposizione, nonostante gli aiuti occidentali.
  5. Dunque, per quale motivo Zelensky, e l’Amministrazione americana che lo sostiene e lo guida, rifiutano ogni trattativa con la Russia? Avanzo alcune ipotesi.
  6. Ipotesi 1: l’Amministrazione americana interpreta diversamente, ed erroneamente, la situazione sul campo. Essa, cioè, interpreta l’attuale stallo nei combattimenti come il sintomo dell’incapacità russa di affondare il colpo e ottenere una vittoria decisiva, e ritiene che il tempo lavori contro i russi, logorandoli. Ripete così il probabile errore di lettura commesso al principio delle ostilità: “Inizialmente, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno appoggiato l’Ucraina per impedire una vittoria russa e negoziare da posizione favorevole la fine dei combattimenti. Ma non appena l’esercito ucraino ha iniziato a martellare le forze russe, specialmente intorno a Kiev, l’amministrazione Biden ha cambiato rotta e si è impegnata ad aiutare l’Ucraina a vincere la guerra contro la Russia.”[4] Che questa lettura fosse erronea lo argomenta l’analisi di “Marinus”[5], coincidente con l’analisi del gen. Fabio Mini. Gli statunitensi hanno creduto che le sconfitte tattiche subite dai russi intorno a Kiev segnalassero le scarse capacità delle FFAA russe, mentre le sconfitte tattiche erano un “sacrificio di pedone” previsto e volontario, nell’ambito di una complessa manovra diversiva russa volta a fissare le truppe ucraine nel Nordovest, mentre il grosso delle forze russe si posizionava nel Sudest; una diversione ben riuscita che ha condotto all’attuale situazione sul campo, nettamente favorevole alla Russia. Errori di lettura sono sempre possibili; e si tenga presente che i consiglieri militari dell’Amministrazione americana hanno un forte incentivo a leggere la situazione sul campo in modo da non contraddire frontalmente la linea politica ufficiale. Vi sono certo qualificate voci dissenzienti, ma chi ha il vizio di dire troppo spesso verità sgradevoli raramente giunge in vetta nel suo campo: e chi consiglia Presidente, Segretario di Stato e alla Difesa, è chi ha saputo giungervi. Se davvero, come pare, “Marinus” è il tenente generale in congedo Paul Van Riper, Corpo dei Marines, egli è un caso esemplare di tecnico di grande valore capace di dire verità sgradite ai superiori e di costringerli a sbatterci il muso. Si veda come agì, guastando la festa agli organizzatori, al comando delle forze “rosse” nel “Millennium Challenge 2002”, un enorme wargame statunitense[6].
  7. Ipotesi 2: l’Amministrazione statunitense è motivata principalmente da esigenze politiche interne. Si avvicinano le elezioni di midterm, e l’Amministrazione americana non può permettersi di ammettere che non tutto va come previsto, in Ucraina. Questa considerazione fa passare in secondo piano le valutazioni strategiche, e le mette “on the backburner”, le tiene in caldo per il dopo novembre, quando saranno più chiari i rapporti di forza interni. Ciò ovviamente accresce gli incentivi a presentare un quadro militare positivo, per i consiglieri della Presidenza; e per i decisori politici, gli incentivi a ignorare le voci dissenzienti[7] che pure si moltiplicano, e provengono da fonti qualificatissime, interne all’ufficialità.
  8. Ipotesi 3: l’Amministrazione statunitense sta decidendo, o ha già deciso, di allargare il conflitto. Un allargamento possibile del conflitto potrebbe essere la discesa in campo, in Ucraina, di forze polacche e baltiche, previa richiesta di aiuto militare del governo ucraino ai governi polacco e baltici; che dal punto di vista giuridico non implicherebbe il coinvolgimento diretto della NATO nei combattimenti. Un altro allargamento possibile del conflitto è una importante manovra diversiva in Serbia e Kosovo, con un’accensione militare delle presenti tensioni tra Kosovo e Serbia, tale da costringere la Russia a fornire aiuto militare al governo serbo. Questi (o altri) allargamenti possibili del conflitto consentirebbero all’Amministrazione americana di guadagnare il tempo (mesi, probabilmente più di un anno) necessario a costituire e organizzare logisticamente, su territorio europeo, una forza convenzionale NATO, comprensiva di un forte contingente americano, sufficiente a contenere la Russia ed eventualmente in grado di affrontarla sul campo in uno scontro convenzionale diretto Russia-Nato. In questo caso, la Russia potrebbe ostacolare seriamente la proiezione della forza statunitense sul territorio europeo, specie nel passaggio più delicato del trasporto truppe, soltanto attaccando direttamente il naviglio degli Stati Uniti, e dunque innescando un conflitto diretto tra le due grandi potenze nucleari.
  9. È ovviamente possibile, anzi credo probabile, che tutte e tre le ipotesi che ho avanzato si combinino. Cioè, che gli USA sottovalutino le capacità militari russe, sopravvalutino le proprie, e leggano erroneamente la situazione sul campo in Ucraina; che vi siano incentivati da esigenze politiche interne, e che stiano studiando, o forse abbiano già deciso, di allargare un conflitto che l’Ucraina, nonostante i massicci aiuti occidentali, non è in grado di condurre a buon fine. Se le mie ipotesi si avvicinano al vero, ciò significa che gli Stati Uniti sono rimasti staffati agli obiettivi politici formidabili che hanno dichiarato di voler perseguire e su cui hanno impegnato il prestigio della nazione, e sono dunque costretti, ancor più che disposti, a escalare il conflitto con la Russia.
  10. A mio avviso, se oggi la Russia si dichiara disponibile all’apertura di una trattativa con il governo ucraino, e se non sferra già ora un attacco decisivo per annientare le FFAA ucraine, probabilmente è per due ragioni: a) non far perdere la faccia agli Stati Uniti, provocandone una reazione estrema con l’escalation di ritorsioni a cui condurrebbe b) attendere sia le elezioni statunitensi di midterm, sia le reazioni dei governi europei alla crisi energetica che si annuncia per l’inverno, con le gravi conseguenze politiche e sociali che innescherà. Se questa mia lettura della disponibilità diplomatica e dell’inazione russa è corretta, ciò significa che la dirigenza russa cerca di prevenire una escalation e un allargamento del conflitto, che possono condurla allo scontro diretto con gli Stati Uniti a un passo dai propri confini, e a una possibile, calamitosa escalation nucleare.
  11. In questo quadro, le nazioni europee sono “between a rock and a hard place”, vasi di coccio tra due vasi di ferro. Che cosa succede a un vaso di coccio tra due vasi di ferro ce lo mostra chiaramente il destino dell’Ucraina, una nazione che sta precipitando in un baratro di violenza bellica, miseria, criminalità, e non ne ha ancora toccato il fondo. In questo baratro l’hanno gettata i suoi dirigenti con scelte politiche sciagurate. Il baratro della guerra e della rovina economica e sociale è molto grande: c’è posto anche per le nazioni d’Europa, anche per l’Italia. Non lasciamo che i nostri dirigenti politici spingano nel baratro anche il nostro Paese.

 

 

 

 

 

 

[1] Qui tradotto e introdotto da me:  http://italiaeilmondo.com/2022/08/18/12533/

[2] https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2022/08/18/ucraina-zelensky-la-visita-di-erdogan-e-un-potente-messaggio-di-sostegno-_6487b5f7-06f9-4c4f-b54d-5746c6af9e0d.html

[3] Si vedano le molteplici analisi del col. Markus Reisner dell’Accademia Militare Teresiana di Vienna, facilmente reperibili in rete, e di recente l’analisi approfondita di “Marinus” (probabilmente, il ten.gen. Paul Van Riper, Corpo dei Marines) pubblicata su “Maneuverist Papers n. 22”, vedi: http://italiaeilmondo.com/2022/08/14/il-modo-rivoluzionario-in-cui-la-russia-ha-combattuto-la-sua-guerra-in-ucraina-di-leon-tressell/

[4] Mearsheimer, “Foreign Affairs”, cit. in nota 1

[5] V. nota 3

[6] https://warontherocks.com/2015/11/millennium-challenge-the-real-story-of-a-corrupted-military-exercise-and-its-legacy/?fbclid=IwAR33DF9g8s0OEbY2ivRnh6PdWPnHJDHieUhAWemwL-MjTwBvWHM1EYM71bU

[7] V. Oltre all’articolo di John Mearsheimer cit. in nota 1, v. il recente intervento di Henry Kissinger sul “Wall Street Journal”, https://www.wsj.com/articles/henry-kissinger-is-worried-about-disequilibrium-11660325251?no_redirect=true  e la videointervista di George Beebe, Director for Grand Strategy del Quincy Institute for Responsible Statecraft, ex consigliere per la sicurezza del Vicepresidente Dick Cheney, https://youtu.be/YDuNilTd1fo

Perché l’America preferisce un’Europa debole e pacifica, di Samo Burja Matt Ellison

Stato di minorità perpetua e bene imposto dal grande padre. Quando occorre, anche con la mano pesante _Giuseppe Germinario

Questo fu il punto dell’estensione della sua sfera di influenza da parte di Washington dopo la seconda guerra mondiale.

Gli Stati Uniti hanno un esercito molto grande: il loro budget è quasi quattro volte superiore a quello della Cina (sebbene la Cina sia quattro volte più popolosa e mantenga quasi il doppio del personale attivo). Il budget militare degli Stati Uniti è quasi due volte e mezzo maggiore di quello di tutti i paesi dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico messi insieme. Il budget per la difesa di Washington è maggiore dei budget per la difesa combinati di Cina, Arabia Saudita, Russia, Regno Unito, India, Francia e Giappone. Inoltre, molti dei soldati di questo enorme esercito sono di stanza al di fuori della patria americana.

L’esercito americano mantiene oltre ottocento basi in paesi stranieri, il numero più grande di qualsiasi altro paese al mondo. Alcuni furono ereditati da precedenti possedimenti di imperi europei come Spagna e Gran Bretagna. Altri sono stati acquisiti nel corso delle guerre combattute dagli Stati Uniti. Alcuni altri sono stati raggiunti tramite negoziati con un governo ospitante come parte di un’alleanza o in cambio di garanzie di sicurezza americane.

Questa presenza militare globale è normalmente spiegata con la seguente narrazione: le democrazie pacifiche in tutto il mondo, non inclini a minacciarsi a vicenda, hanno rinunciato a risolvere i loro problemi attraverso la violenza. Non desiderano più costruire e mantenere temibili militari. Invece, l’America fornisce loro benevolmente un ombrello di sicurezza all’interno del quale prosperano e che, a sua volta, assicura la stabilità dell’economia globale e dell’ordine mondiale.

Un esempio di ciò può essere visto nella storia relativamente pacifica dell’Europa dal 1945. Il ritornello comune è che la cultura europea, un tempo eccezionalmente bellicosa e combattiva, è cambiata a causa della seconda guerra mondiale. In preda alla morte e alla distruzione della seconda guerra mondiale, le ex potenze imperiali hanno sostenuto l’istituzione di nuove istituzioni, come l’Unione Europea e la NATO, al fine di prevenire lo scoppio di un’altra guerra nel continente. Gli ultimi settantacinque anni di pace europea, per la maggior parte, si spiegano così con questo ricordo della devastazione di metà secolo e dell’avvento di nuove istituzioni politiche.

Se questa spiegazione fosse vera, allora perché gli Stati Uniti stanno sovvenzionando la sicurezza europea? Come ha detto il presidente degli Stati Uniti Donald Trump degli alleati americani della NATO: “Non stanno pagando la loro giusta quota”. E il punto di Trump, qualunque sia il suo stesso ragionamento, deriverebbe logicamente dalla narrativa comune. Nel frattempo, molti a sinistra insistono affinché il budget militare venga ridotto per consentire una maggiore spesa per le preoccupazioni interne. Mentre molti, sia a destra che a sinistra, si oppongono a un aumento della presenza e della spesa militare degli Stati Uniti, la narrativa fondamentale rimane e le sue ipotesi spesso rimangono incontrastate.

Ma senza dubbio accettare questa narrativa comune significa interpretare male la storia della pace europea del dopoguerra. Significa anche fraintendere le dinamiche geopolitiche che spingono nella direzione della guerra o rendono più probabile una convivenza pacifica. Invece di essere il prodotto di nuove istituzioni, o il risultato di una memoria collettiva della guerra, la pace europea ha una spiegazione più semplice: disarmo effettivo e subordinazione alla sfera di influenza americana.

Questa non è semplicemente una dinamica finanziaria di quid pro quo, in cui la spesa o l’accumulo militare tedesco (come potrebbe benissimo diventare il caso) potrebbe sostituire la sicurezza e la stabilità fornite dalla spesa e dalla presenza americana. Non è un caso che un terzo del personale militare statunitense schierato tra il 1950 e il 2000 sia stato inviato in Germania, che da sola ha ospitato più di dieci milioni di americani in questo periodo di tempo. Se le élite e l’opinione pubblica vogliono comprendere perché l’Europa è stata così pacifica negli ultimi sette decenni, devono iniziare a capire come il disarmo e la sfera di influenza americana abbiano contribuito a questa pace.

Gli stati europei sono ora in gran parte incapaci di intraprendere un’azione militare unilaterale, l’uno contro l’altro o contro chiunque altro. Non solo, ma l’America agisce in Europa come garante della sicurezza dell’ultima e, potenzialmente, stazione nucleare. La NATO ha spinto gli stati membri (meno l’America) a specializzare i loro eserciti. Il Regno Unito e la Francia hanno persino discusso di condividere le loro portaerei. Le ragioni dichiarate, vale a dire i vincoli di bilancio e “interoperabilità”, non spiegano completamente la necessità di specializzare un esercito. I budget limitati richiedono che un paese specializzi le sue forze armate solo quando l’obiettivo è ridurre le capacità che sono duplicate tra esso e un alleato. Un esercito specializzato è una forza senza tutte le caratteristiche necessarie per un’azione militare indipendente, o addirittura per l’indipendenza militare.

Dalla fine della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno bloccato l’azione militare indipendente degli alleati. Durante la crisi di Suez del 1956, il governo egiziano ha nazionalizzato il Canale di Suez. In risposta, Gran Bretagna, Francia e Israele hanno invaso il paese. Piuttosto che sostenere i loro alleati, gli Stati Uniti si unirono al loro rivale, l’Unione Sovietica, nel esercitare pressioni diplomatiche e finanziarie sugli intrusi fino al loro ritiro. Quando questo ebbe successo, i tre paesi furono umiliati, il Regno Unito in particolare. La crisi di Suez può essere considerata l’ultimo chiodo nella bara dell’Impero britannico: ha dimostrato che anche se la Gran Bretagna avesse capacità militari indipendenti, non sarebbe in grado di schierarle contro i desideri americani.

In Francia, troviamo un esempio di un paese che ha cercato di invertire questa tendenza, ci è riuscito per un po’, ma alla fine è tornato nel caloroso abbraccio dello zio Sam. Il presidente francese Charles de Gaulle era uno statista di talento e testardo e voleva mantenere lo status della Francia come potenza mondiale indipendente contro la crescente influenza americana e sovietica. Dopo dodici anni di pensionamento, tornò in politica nel 1958, poco dopo che la crisi di Suez aveva dimostrato che la Gran Bretagna era subordinata all’America. Ha intrapreso una serie di sforzi per rafforzare ed espandere la sfera di influenza della Francia, incluso un ritiro dalla NATO. Nel 1967, de Gaulle cacciò l’esercito americano da circa dodici basi aeree in Francia. Sebbene gli sforzi di Le Général siano falliti a lungo termine – la Francia è rientrata a pieno titolo nella NATO nel 2009 – il paese mantiene ancora un’efficace capacità di intervenire unilateralmente nell’Africa occidentale, un frammento del suo ex impero coloniale. Ad oggi, la Francia è l’unico grande paese dell’Europa occidentale senza una base militare americana.

Il caso della geopolitica russa abrade anche la narrativa comune della pace europea. Sebbene la Russia abbia avuto una storia politica molto diversa dopo la seconda guerra mondiale rispetto alla maggior parte dei paesi europei, ha subito un’immensa devastazione in quella “Grande Guerra Patriottica”, senza pari in termini di vittime assolute, paragonabile in termini relativi solo alla Polonia e forse alla Germania. Eppure il ricordo di questa devastazione alimenta il militarismo nazionalista piuttosto che un senso di “mai più” o il desiderio di una maggiore integrazione politica in Europa. Sotto il presidente Vladimir Putin, la Russia ha mantenuto il suo status al di fuori della sfera americana. Putin è orgoglioso della sua capacità di agire in modo indipendente su quelli che vede come interessi di sicurezza russi. La Russia, di tutti i paesi europei,

Washington esercita il suo dominio militare in tutto il mondo. Ciò ha mantenuto il sistema internazionale favorevole agli interessi economici e ideologici americani. Ha semplificato un mondo di molti stati militarizzati e indipendenti capaci di azioni unilaterali (e molto mortali) in uno in cui gli Stati Uniti hanno un’immensa sfera di influenza e solo una manciata di concorrenti globali, come Cina e Russia, sono capaci di azione. La maggior parte degli stati della sfera americana si affida agli Stati Uniti come massimo garante della sicurezza. Pertanto, possono “esternalizzare” la sicurezza in America; disarmandosi efficacemente e diventando incapaci di intraprendere un’azione militare indipendente.

Il risultato di questo disarmo de facto degli stati all’interno della sfera americana ha anche teso a mitigare e prevenire i conflitti regionali. In Europa, dove le guerre regolari erano state un evento naturale per secoli, la pace ora è la norma. Il termine “conflitto congelato” è usato regolarmente per descrivere la strategia russa di stazionare truppe in stati precedentemente in guerra, come la Moldova o la Georgia, per “congelare” le tensioni. Ma l’America ha perfezionato questa strategia decenni fa: Gran Bretagna e Francia, o Francia e Germania, non entrano più in guerra tra loro, in netto contrasto con la loro lunga storia di farlo.

La maggior parte dei paesi europei con basi militari americane dipendono semplicemente dagli Stati Uniti per la potenza militare, ma alcuni non esisterebbero affatto senza l’intervento e la presenza continua delle truppe americane. Bosnia e Kosovo sono due esempi di tali paesi. L’intervento americano nei Balcani negli anni ’90 ha impedito alla Serbia e, in misura minore, alla Croazia, di occupare e integrare la Bosnia e il Kosovo.

Quando Belgrado era la capitale della Jugoslavia, il paese era sull’orlo della viabilità come potenza militare indipendente e neutrale. Sotto la guida di Josip Broz Tito, era persino praticabile come mecenate per altri stati clienti. La Jugoslavia di Tito è stata un organizzatore chiave del Movimento dei Paesi non allineati e ha fornito armamenti ad attori anticoloniali come il Fronte di liberazione nazionale algerino e il governo etiope negli anni ’50. Ora, Belgrado è solo la capitale della Serbia. Altre ex repubbliche jugoslave, come la Croazia e la Slovenia, sono state completamente integrate militarmente nella NATO, e altre come la Bosnia e la Macedonia sono a buon punto. Il Montenegro e il Kosovo facevano parte della Repubblica jugoslava di Serbia, ma il Montenegro si è separato dalla Serbia e recentemente è entrato a far parte della NATO, mentre il Kosovo ha dichiarato l’indipendenza, ancora contesa dalla Serbia, e ospita gli Stati Uniti.

Alcuni piccoli paesi devono la loro esistenza agli Stati Uniti. Il rovescio della medaglia è che la potenza militare degli Stati Uniti ha assicurato la frammentazione e l’isolamento di potenziali poteri militari. Frammentare e neutralizzare il potenziale potere militare indipendente, specialmente all’interno della sua sfera di influenza, è una strategia che gli Stati Uniti hanno persino perseguito contro la Russia. Le “rivoluzioni colorate” sostenute dagli Stati Uniti nelle ex repubbliche sovietiche hanno portato con successo stati precedentemente allineati alla Russia nella sfera di influenza americana. La Russia ha cercato di minare questo tentativo di espandere la sfera americana attraverso le proprie azioni militari in Georgia e Ucraina.

La Pax Romana fu il periodo di relativa pace nel Mediterraneo. La regione era dominata dall’Impero Romano, i cui eserciti imbattibili soppressero il conflitto all’interno dei suoi territori e stati clienti per quasi due secoli. Allo stesso modo, l’attuale pace europea non è certo opera di istituzioni paneuropee come l’Unione Europea, ma un risultato chiave della Pax Americana.

Samo Burja è il fondatore di Bismarck Analysis, una società di consulenza sul rischio politico. Puoi seguirlo su Twitter @SamoBurja .

Matt Ellison è ricercatore associato presso la Hoover Institution. Ha studiato politica internazionale alla Edmund A. Walsh School of Foreign Service di Georgetown. Puoi seguirlo su Twitter @MGellison .

https://nationalinterest.org/feature/why-america-prefers-weak-and-peaceful-europe-64826?fbclid=IwAR2idN7mRue3EYeXxylK7TiHu27DFEExiDQKO6TQol0KkAB2_Cj44u7Q9xw

Giocare con il fuoco in Ucraina, di John J. Mearsheimer (a cura di Roberto Buffagni)

Questo articolo di John Mearsheimer, apparso il 17 agosto su “Foreign Affairs”, ha grande importanza, e va letto e valutato con la massima attenzione, sia per il suo contenuto, sia per il significato politico che assume. Le ragioni sono le seguenti:

  1.   è, probabilmente, il maggiore studioso al mondo della logica di potenza. Si è diplomato a West Point, ha fatto parte dell’Esercito e dell’Aviazione degli Stati Uniti. Ha insegnato per quarant’anni all’Università di Chicago. I suoi testi sono letture obbligatorie in tutti i corsi di International Relations almeno occidentali, e nelle Accademie militari di tutto il mondo. Non ha mai cercato o accettato impegni nell’amministrazione politica degli Stati Uniti per conservare la sua indipendenza di pensiero e la sua obiettività di studioso.
  2. “Foreign Affairs” è il più importante periodico specializzato statunitense in materia di politica internazionale, e viene letto da tutta l’ufficialità politica ed economica americana ed europea. Esso non solo pubblica l’articolo di Mearsheimer, ma lo pubblica in forma gratuita, accessibile a tutti, in modo da garantirgli la massima diffusione possibile; ciò che probabilmente implica una forma di convalida ufficiosa della posizione di Mearsheimer, o quanto meno la volontà del board di “Foreign Affairs” che l’articolo di Mearsheimer – un severo monito sui rischi della guerra in Ucraina, e implicitamente un preoccupato appello per un cambio di strategia – venga letto e preso in considerazione dai policymakers americani ed europei, e dall’opinione pubblica occidentale tutta.
  3. L’articolo di Mearsheimer dunque si inserisce nel tentativo di forze statunitensi, tutt’altro che trascurabili, di favorire un mutamento nella strategia americana contro la Russia; come il recente intervento di Henry Kissinger sul “Wall Street Journal”[1], o la videointervista di George Beebe, Director for Grand Strategy del Quincy Institute for Responsible Statecraft[2], ex consigliere per la sicurezza del Vicepresidente Dick Cheney.
  4. Il contenuto dell’articolo non ha bisogno di chiarimenti. Come gli è solito, Mearsheimer espone con limpidezza e semplicità argomenti strettamente concatenati. Mi limito a sottolineare alcuni punti.
  5. La guerra è imprevedibile, e chi ritenga di poterla prevedere e controllare con certezza è in errore. L’imprevedibilità della guerra è una premessa teorica, esposta con la massima perspicuità da Clausewitz; e un fatto empirico illustrato da mille esempi. Ad esempio, nella IIGM i tedeschi attaccarono l’Unione Sovietica perché certi di poterla sconfiggere. Concordavano con questa previsione tutti, ripeto TUTTI gli Stati Maggiori del mondo: salvo miracoli, l’Unione Sovietica sarebbe stata sconfitta. Poi l’Unione Sovietica, dopo sei mesi di sconfitte tremende, ha fatto il miracolo e ha inflitto alla Germania una sconfitta devastante.
  6. L’interpretazione della volontà del nemico, e l’interpretazione dei fatti militari sul campo, sono sempre dubbie, soggette all’errore, e provocano reazioni, sviluppi, conseguenze imprevedibili e molto difficili da controllare. Esempio: nell’articolo, Mearsheimer correttamente individua l’origine del cambio di strategia statunitense nell’interpretazione americana degli eventi bellici: “Inizialmente, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno appoggiato l’Ucraina per impedire una vittoria russa e negoziare da posizione favorevole la fine dei combattimenti. Ma non appena l’esercito ucraino ha iniziato a martellare le forze russe, specialmente intorno a Kiev, l’amministrazione Biden ha cambiato rotta e si è impegnata ad aiutare l’Ucraina a vincere la guerra contro la Russia.” Se è corretta l’interpretazione dell’operazione militare speciale russa proposta da “Marinus” (probabilmente il gen. Paul Van Riper, Corpo dei Marines) su “Maneuverist Papers n.22”[3], l’Amministrazione presidenziale e i suoi consulenti militari hanno sbagliato l’interpretazione della fase iniziale dell’invasione russa: hanno creduto che le sconfitte tattiche subite dai russi intorno a Kiev segnalassero le scarse capacità delle FFAA russe, mentre si trattava di una complessa manovra diversiva volta a fissare le truppe ucraine nel Nordovest, mentre il grosso delle forze russe si posizionava nel Sudest; una diversione ben riuscita che ha condotto all’attuale situazione sul campo, nettamente favorevole alla Russia. Personalmente, credo esatta la lettura di “Marinus”, che peraltro coincide con la lettura del nostro gen. Fabio Mini. Da questa errata lettura della situazione sul campo, l’Amministrazione americana ha concluso che fosse possibile e vantaggioso perseguire obiettivi strategici estremamente ambiziosi, sui quali ha formalmente impegnato la reputazione e il prestigio degli Stati Uniti.
  7. Quanto più a lungo dura una guerra, tanto più imprevedibili sono il suo decorso e le sue conseguenze. Questo è un semplice corollario dei due punti precedenti: con il passare del tempo, incertezza si aggiunge a incertezza, imprevedibilità a imprevedibilità, possibilità di errore e incidente a possibilità di errore e incidente.
  8. A che cosa è dovuto il presente stallo della guerra in Ucraina? A mio avviso, consegue a una scelta politica russa. Da quanto si può intendere della situazione militare sul campo, già ora la Russia potrebbe sferrare un’offensiva per ottenere una vittoria decisiva sull’Ucraina, annientandone le FFAA. La Russia sta impegnando nei combattimenti soltanto le milizie delle Repubbliche del Donbass, e i mercenari dell’Orchestra Wagner. Le truppe russe si occupano del martellamento d’artiglieria delle posizioni fortificate ucraine, e non entrano in combattimento se non occasionalmente, in formazioni ridotte. Esse hanno avuto tutto il tempo di riposarsi, ricostituirsi, riorganizzarsi, e sono insomma più che pronte all’impiego. Le migliori truppe ucraine hanno subito perdite incapacitanti, nessun territorio ucraino preso dai russi è mai stato riconquistato stabilmente. La controffensiva annunciata dagli ucraini resta un annuncio, probabilmente perché di fatto impossibile: le migliori truppe ucraine hanno subito perdite incapacitanti, le nuove formazioni sono raccogliticce, mal addestrate, e scontano un incolmabile divario sia nella direzione operativa, sia nelle capacità combattive, sia nell’armamento a disposizione, nonostante gli aiuti occidentali. Se la Russia non sferra già ora un attacco decisivo per annientare le FFAA ucraine, probabilmente è per due ragioni: a) non far perdere la faccia agli Stati Uniti, provocandone una reazione estrema con l’escalation di ritorsioni a cui condurrebbe b) attendere sia le elezioni statunitensi di midterm, sia le reazioni dei governi europei alla crisi energetica che si annuncia per l’inverno, con le gravi conseguenze politiche e sociali che innescherà.
  9. In conclusione: per prevenire i gravi rischi di una escalation illustrati dall’articolo di Mearsheimer, una escalation che può sfuggire al controllo dei contendenti e condurre sino alla guerra nucleare, è assolutamente necessario che i Paesi europei più direttamente minacciati dall’escalation, e già ora più gravemente danneggiati dalla strategia americana, se ne differenzino e appoggino le forze che negli Stati Uniti tentano di correggere la rotta strategica, e di creare le condizioni minime per una trattativa tra USA e Russia. È una svolta politica difficile, ma necessaria e urgente: dopo, potrebbe essere troppo tardi.

 

Giocare con il fuoco in Ucraina

I rischi sottovalutati di una escalation catastrofica[4]

di John J. Mearsheimer

17 agosto 2022

 

I decisori occidentali paiono aver raggiunto un consenso sulla guerra in Ucraina: il conflitto si risolverà in una situazione di stallo prolungata, e alla fine una Russia indebolita accetterà un accordo di pace favorevole sia agli Stati Uniti e i suoi alleati NATO, sia all’Ucraina. Sebbene i dirigenti istituzionali riconoscano che sia Washington sia Mosca potrebbero dare inizio a una escalation per ottenere un vantaggio o prevenire la sconfitta, danno per scontato che sia possibile evitare un’escalation catastrofica. Pochi immaginano che le forze statunitensi finiscano per essere direttamente coinvolte nei combattimenti, o che la Russia oserà impiegare le armi nucleari.

Washington e i suoi alleati sono troppo faciloni e arroganti. Sebbene sia possibile evitare un’escalation disastrosa, la capacità dei contendenti di gestire questo pericolo è tutt’altro che certa. Il rischio è sostanzialmente maggiore di quanto non ritenga il senso comune. E dato che le conseguenze di una escalation potrebbero includere una guerra di grandi proporzioni in Europa, e forse anche l’annientamento nucleare, ci sono buone ragioni per preoccuparsi seriamente.

Per comprendere le dinamiche dell’escalation in Ucraina, iniziamo con gli obiettivi di ciascuno dei contendenti. Dall’inizio della guerra, sia Mosca sia Washington hanno ampliato le loro ambizioni in modo significativo, ed entrambi sono ora fortemente impegnati a vincere la guerra e raggiungere obiettivi politici formidabili. Di conseguenza, ciascuna parte ha potenti incentivi per trovare il modo di prevalere e, ancor più importante, per evitare di perdere. In pratica, ciò significa che gli Stati Uniti potrebbero entrare in combattimento se desiderano disperatamente vincere o impedire all’Ucraina di perdere, mentre la Russia potrebbe utilizzare armi nucleari se desidera disperatamente vincere, o se teme un’imminente sconfitta, uno scenario probabile se le forze armate statunitensi entrassero in guerra.

Inoltre, data la determinazione di ciascuna parte a raggiungere i propri obiettivi, ci sono poche possibilità di un compromesso sensato. Il pensiero massimalista che ora prevale sia a Washington sia a Mosca dà a ciascuna parte ulteriori ragioni per vincere sul campo di battaglia, per poter dettare i termini dell’eventuale pace. In effetti, l’assenza di una possibile soluzione diplomatica fornisce a entrambe le parti un ulteriore incentivo ad arrampicarsi in una escalation. Ciò che si trova sui gradini più alti della scala potrebbe essere qualcosa di veramente catastrofico: un livello di morte e distruzione superiore a quello della seconda guerra mondiale.

PUNTARE IN ALTO

Inizialmente, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno appoggiato l’Ucraina per impedire una vittoria russa e negoziare da posizione favorevole la fine dei combattimenti. Ma non appena l’esercito ucraino ha iniziato a martellare le forze russe, specialmente intorno a Kiev, l’amministrazione Biden ha cambiato rotta e si è impegnata ad aiutare l’Ucraina a vincere la guerra contro la Russia. Ha anche cercato di danneggiare gravemente l’economia russa imponendo sanzioni senza precedenti. In aprile, il Segretario alla Difesa Lloyd Austin ha spiegato gli obiettivi degli Stati Uniti: “Vogliamo vedere la Russia indebolita al punto che non le sia più possibile fare il tipo di cose che ha fatto invadendo l’Ucraina“. In buona sostanza, gli Stati Uniti hanno annunciato la loro intenzione di eliminare la Russia dal novero delle grandi potenze.

Ciò che più conta, gli Stati Uniti hanno impegnato la loro reputazione sull’esito del conflitto. Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha etichettato la guerra russa in Ucraina come un “genocidio” e ha accusato il presidente russo Vladimir Putin di essere un “criminale di guerra” che dovrebbe affrontare un “processo per crimini di guerra“. Proclami presidenziali del genere rendono difficile immaginare che Washington faccia marcia indietro; se la Russia prevalesse in Ucraina, la posizione degli Stati Uniti nel mondo subirebbe un duro colpo.

Anche le ambizioni russe si sono ampliate. Contrariamente a quanto si pensa in Occidente, Mosca non ha invaso l’Ucraina per conquistarla e integrarla in una Grande Russia. Si trattava principalmente di impedire all’Ucraina di trasformarsi in un baluardo occidentale al confine con la Russia. Putin e i suoi consiglieri erano particolarmente preoccupati per l’adesione dell’Ucraina alla NATO. Il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov ha chiarito sinteticamente il punto a metà gennaio, dicendo in una conferenza stampa: “la chiave di tutto è la garanzia che la NATO non si espanda verso est“. Per i leader russi, la prospettiva dell’adesione dell’Ucraina alla NATO è, come ha affermato lo stesso Putin prima dell’invasione, “una minaccia diretta alla sicurezza russa“, una minaccia che potrebbe essere eliminata solo entrando in guerra e trasformando l’Ucraina in uno stato neutrale o fallito.

È a questo fine che, a quanto pare, gli obiettivi territoriali della Russia si sono notevolmente ampliati dall’inizio della guerra. Fino alla vigilia dell’invasione, la Russia si era impegnata ad attuare l’accordo di Minsk II, che avrebbe mantenuto il Donbass come parte dell’Ucraina. Nel corso della guerra, tuttavia, la Russia ha conquistato vaste aree di territorio nell’Ucraina orientale e meridionale, e ci sono prove crescenti che Putin ora intenda annettere tutta o la maggior parte di quelle terre, il che trasformerebbe effettivamente ciò che resta dell’Ucraina in uno stato disfunzionale, monco.

Per la Russia, la minaccia oggi è ancor maggiore di quanto non fosse prima della guerra, soprattutto perché l’amministrazione Biden è ora determinata a recuperare le conquiste territoriali russe, e a menomare in modo permanente la potenza russa. A peggiorare ulteriormente le cose per Mosca, Finlandia e Svezia stanno entrando a far parte della NATO, e l’Ucraina è meglio armata e più strettamente alleata con l’Occidente. Mosca non può permettersi di perdere in Ucraina e utilizzerà ogni mezzo disponibile per evitare la sconfitta. Putin sembra fiducioso che la Russia alla fine prevarrà sull’Ucraina e sui suoi sostenitori occidentali. “Oggi sentiamo che vogliono sconfiggerci sul campo di battaglia“, ha detto all’inizio di luglio. “Che dire? Che ci provino. Gli obiettivi dell’operazione militare speciale saranno raggiunti. Non ci sono dubbi su questo”.

L’Ucraina, dal canto suo, ha gli stessi obiettivi dell’amministrazione Biden. Gli ucraini sono decisi a riconquistare il territorio perso a vantaggio della Russia, inclusa la Crimea, e una Russia più debole è sicuramente meno minacciosa per l’Ucraina. Inoltre, sono fiduciosi di poter vincere, come ha chiarito a metà luglio il ministro della Difesa ucraino Oleksii Reznikov, quando ha affermato: “La Russia può sicuramente essere sconfitta e l’Ucraina ha già mostrato come“. Il suo omologo americano a quanto pare è d’accordo. “La nostra assistenza sta facendo davvero la differenza sul campo“, ha detto Austin in un discorso di fine luglio. “La Russia pensa di poter tenere duro più a lungo dell’Ucraina e di noi. Ma questo è solo l’ultimo della serie di errori di calcolo della Russia“.

In buona sostanza, Kiev, Washington e Mosca sono tutti totalmente impegnati a vincere a spese del loro avversario, il che lascia poco spazio ai compromessi. Probabilmente, né l’Ucraina né gli Stati Uniti accetterebbero un’Ucraina neutrale; in realtà, l’Ucraina sta diventando ogni giorno che passa più strettamente legata all’Occidente. Né è probabile che la Russia restituisca tutto, o anche la maggior parte del territorio che ha sottratto all’Ucraina, in specie perché le animosità che hanno alimentato il conflitto nel Donbass tra separatisti filorussi e governo ucraino negli ultimi otto anni sono oggi più intense che mai.

Questi interessi contrastanti spiegano perché tanti osservatori ritengano che un accordo negoziato non avverrà a breve, e quindi prevedono una sanguinosa situazione di stallo. In questo hanno ragione. Ma gli osservatori stanno sottovalutando il potenziale di un’escalation catastrofica implicita in una lunga guerra in Ucraina.

Ci sono tre vie fondamentali verso l’escalation intrinseche alla condotta della guerra: una o entrambe le parti escalano deliberatamente per vincere, una o entrambe le parti escalano deliberatamente per prevenire la sconfitta, oppure i combattimenti escalano non per scelta deliberata ma involontariamente. Ciascuno dei tre percorsi potenzialmente può spingere gli Stati Uniti a entrare direttamente in guerra, o spingere la Russia a usare armi nucleari, o forse condurre a entrambe le cose.

 

ENTRA IN SCENA L’AMERICA

Appena l’amministrazione Biden ha concluso che la Russia poteva essere battuta in Ucraina, ha inviato più armi, e armi più potenti, a Kiev. L’Occidente ha iniziato ad aumentare la capacità offensiva dell’Ucraina inviando armi come il sistema di missili a lancio multiplo HIMARS, oltre a quelle “difensive” come il missile anticarro Javelin. Nel corso del tempo, sia la letalità sia la quantità delle armi sono aumentate. Si tenga presente che a marzo Washington aveva posto il veto a un piano per trasferire i caccia MiG-29 polacchi in Ucraina, sulla base del fatto che ciò avrebbe potuto condurre a una escalation, ma a luglio non ha sollevato obiezioni quando la Slovacchia ha annunciato che stava valutando l’invio degli stessi aerei a Kiev. Gli Stati Uniti stanno anche pensando di dare i propri F-15 e F-16 all’Ucraina.

Gli Stati Uniti e i loro alleati stanno anche addestrando l’esercito ucraino e fornendogli informazioni vitali che esso impiega per distruggere i principali obiettivi russi. Inoltre, come riportato dal “New York Times”, l’Occidente ha “una rete clandestina di commando e spie” sul terreno, all’interno dell’Ucraina. Magari Washington non è direttamente coinvolta nei combattimenti, ma è profondamente coinvolta nella guerra. E oggi manca solo un breve passo per avere soldati americani che premono il grilletto e piloti americani che schiacciano il pulsante di sparo.

Le forze armate statunitensi potrebbero essere coinvolte nei combattimenti in vari modi. Si consideri una situazione in cui la guerra si trascina per un anno o più e non c’è né una soluzione diplomatica in vista né un percorso plausibile per una vittoria ucraina. Allo stesso tempo, Washington desidera disperatamente porre fine alla guerra, forse perché deve concentrarsi sul contenimento della Cina o perché i costi economici del sostegno all’Ucraina stanno causando problemi politici in patria e in Europa. In simili circostanze, i politici statunitensi avrebbero tutte le ragioni per prendere in considerazione l’adozione di misure più rischiose, come l’imposizione di una no-fly zone sull’Ucraina o l’inserimento di piccoli contingenti di forze di terra statunitensi, per aiutare l’Ucraina a sconfiggere la Russia.

Uno scenario più probabile per l’intervento degli Stati Uniti si verificherebbe se l’esercito ucraino iniziasse a crollare, e la Russia sembrasse destinata a ottenere una vittoria decisiva. In tal caso, dato il profondo impegno dell’amministrazione Biden a prevenire questo esito, gli Stati Uniti potrebbero tentar di invertire la tendenza coinvolgendosi direttamente nei combattimenti. È facile immaginare i funzionari statunitensi convinti che sia in gioco la credibilità del loro paese, e persuasi che un uso limitato della forza possa salvare l’Ucraina senza indurre Putin a usare le armi nucleari. Oppure, un’Ucraina disperata potrebbe lanciare attacchi su larga scala contro paesi e città russe, nella speranza che una simile escalation provochi una massiccia risposta russa che finisca per costringere gli Stati Uniti a unirsi ai combattimenti.

L’ultimo scenario per il coinvolgimento americano ipotizza un’escalation involontaria: senza volerlo, Washington viene coinvolta nella guerra da un evento imprevisto che sfugge di mano. Forse i caccia statunitensi e russi, che sono già entrati in stretto contatto sul Mar Baltico, si scontrano accidentalmente. Un simile incidente potrebbe facilmente degenerare, dati gli alti livelli di paura da entrambe le parti, la mancanza di comunicazione e la demonizzazione reciproca.

O magari la Lituania blocca il passaggio delle merci sanzionate che viaggiano attraverso il suo territorio mentre si dirigono dalla Russia a Kaliningrad, l’enclave russa separata dal resto del paese. La Lituania ha fatto proprio questo a metà giugno, ma ha fatto marcia indietro a metà luglio, dopo che Mosca ha chiarito che stava contemplando “misure severe” per porre fine a quello che considerava un blocco illegale. Il ministero degli Esteri lituano, tuttavia, ha resistito alla revoca del blocco. Dal momento che la Lituania è un membro della NATO, gli Stati Uniti quasi certamente verrebbero in sua difesa se la Russia attaccasse il paese.

O forse la Russia distrugge un edificio a Kiev, o un sito di addestramento da qualche parte in Ucraina, e uccide involontariamente un numero considerevole di americani, per esempio operatori umanitari, agenti dell’intelligence o consiglieri militari. L’amministrazione Biden, di fronte a una sollevazione della sua opinione pubblica, decide che deve vendicarsi e colpisce obiettivi russi, il che conduce a una serie di ritorsioni tra le due parti.

Infine, c’è la possibilità che i combattimenti nell’Ucraina meridionale danneggino la centrale nucleare di Zaporizhzhya controllata dalla Russia, la più grande d’Europa, al punto da emettere radiazioni nella regione, portando la Russia a rispondere in modo proporzionale. Dmitry Medvedev, l’ex presidente e primo ministro russo, ha dato una risposta inquietante a questa possibilità, dicendo ad agosto: “Non si dimentichi che ci sono siti nucleari anche nell’Unione europea. E anche lì sono possibili incidenti“. Se la Russia dovesse colpire un reattore nucleare europeo, gli Stati Uniti entrerebbero quasi sicuramente in guerra.

Naturalmente, anche Mosca potrebbe istigare l’escalation. Non si può escludere la possibilità che la Russia, nel disperato tentativo di fermare il flusso di aiuti militari occidentali in Ucraina, colpisca i paesi attraverso i quali passa la maggior parte di essa: Polonia o Romania, entrambi membri della NATO. C’è anche la possibilità che la Russia possa lanciare un massiccio attacco informatico contro uno o più paesi europei che aiutano l’Ucraina, causando gravi danni alla sua infrastruttura critica. Un simile attacco potrebbe spingere gli Stati Uniti a lanciare un attacco informatico di rappresaglia contro la Russia. Se l’attacco informatico riuscisse, Mosca potrebbe rispondere militarmente; se fallisse, Washington potrebbe decidere che l’unico modo per punire la Russia è colpirla direttamente. Questi scenari sembrano inverosimili, ma non sono impossibili. E sono solo alcuni dei tanti percorsi attraverso i quali quella che ora è una guerra locale potrebbe trasformarsi in qualcosa di molto più grande e più pericoloso.

 

PASSAGGIO AL CONFLITTO NUCLEARE

Sebbene l’esercito russo abbia causato enormi danni all’Ucraina, Mosca, finora, è stata riluttante a intensificare il suo impegno per vincere la guerra. Putin non ha ampliato le dimensioni delle sue forze attraverso la coscrizione su larga scala. Né ha preso di mira la rete elettrica dell’Ucraina, ciò che sarebbe relativamente facile da fare e infliggerebbe ingenti danni a quel paese. In effetti, molti russi lo hanno accusato di non aver condotto la guerra in modo più vigoroso. Putin ha preso atto di questa critica, ma ha fatto sapere che se necessario, avrebbe dato inizio a una escalation dell’impegno russo. “Non abbiamo ancora cominciato a fare sul serio“, ha detto a luglio, suggerendo che la Russia potrebbe fare di più, se la situazione militare deteriorasse: e lo farebbe.

E a proposito della forma terminale di escalation? Ci sono tre circostanze in cui Putin potrebbe usare le armi nucleari. Il primo, se gli Stati Uniti ei loro alleati della NATO entrassero in guerra. Questo sviluppo non solo sposterebbe notevolmente l’equilibrio di forze militari a svantaggio della Russia, aumentando notevolmente le probabilità di una sua sconfitta, ma per la Russia significherebbe anche combattere alle porte di casa contro una grande potenza, in una guerra che potrebbe facilmente dilagare nel territorio russo. I leader russi penserebbero certamente che la loro sopravvivenza è a rischio, ciò che gli darebbe un potente incentivo a usare armi nucleari per salvare la situazione. Come minimo, prenderebbero in considerazione lanci nucleari dimostrativi, per convincere l’Occidente a fare marcia indietro. È impossibile sapere in anticipo se una mossa simile porrebbe termine alla guerra, o la condurrebbe in una escalation di cui si perderebbe il controllo.

Nel suo discorso del 24 febbraio, in cui annunciava l’invasione, Putin ha chiaramente sottinteso che avrebbe impiegato le armi nucleari se gli Stati Uniti e i loro alleati fossero entrati in guerra. Rivolgendosi a “coloro che potrebbero essere tentati di interferire“, ha detto, “devono sapere che la Russia risponderà immediatamente e ci saranno conseguenze che non avete mai visto in tutta la vostra storia“. Il suo avvertimento non è sfuggito a Avril Haines, il direttore dell’intelligence nazionale statunitense, che a maggio aveva predetto che Putin avrebbe potuto usare armi nucleari se la NATO “interviene o sta per intervenire“, in buona parte perché ciò “contribuirebbe ovviamente a una percezione che sta per perdere la guerra in Ucraina”.

Nel secondo scenario nucleare, l’Ucraina inverte da sola le sorti sul campo di battaglia, senza il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti. Se le forze ucraine fossero sul punto di sconfiggere l’esercito russo e riprendersi il territorio perduto del loro paese, non c’è dubbio che Mosca potrebbe facilmente vedere questo esito come una minaccia esistenziale che esige una risposta nucleare. Dopotutto, Putin e i suoi consiglieri erano sufficientemente allarmati dal crescente allineamento di Kiev con l’Occidente da decidere deliberatamente di attaccare l’Ucraina, nonostante i chiari avvertimenti degli Stati Uniti e dei loro alleati sulle gravi conseguenze che la Russia avrebbe dovuto affrontare. A differenza del primo scenario, Mosca impiegherebbe armi nucleari non nel contesto di una guerra con gli Stati Uniti, ma contro l’Ucraina. Lo farebbe con poco timore di ritorsioni nucleari, dal momento che Kiev non ha armi nucleari, e perché Washington non avrebbe alcun interesse a iniziare una guerra nucleare. L’assenza di una chiara minaccia di ritorsione renderebbe più facile per Putin contemplare l’uso del nucleare.

Nel terzo scenario, la guerra si risolve in una lunga situazione di stallo che non ha soluzione diplomatica e diventa estremamente costosa per Mosca. Nel disperato tentativo di porre fine al conflitto a condizioni favorevoli, Putin potrebbe perseguire l’escalation nucleare per vincere. Come nello scenario precedente, in cui si escala per evitare la sconfitta, una rappresaglia nucleare degli Stati Uniti sarebbe altamente improbabile. In entrambi gli scenari, è probabile che la Russia utilizzi armi nucleari tattiche contro una piccola serie di obiettivi militari, almeno inizialmente. Potrebbe colpire paesi e città in attacchi successivi, se necessario. Ottenere un vantaggio militare sarebbe uno degli obiettivi della strategia, ma il più importante sarebbe infliggere un colpo capace di rovesciare la situazione: incutere una tale paura all’ Occidente che gli Stati Uniti e i loro alleati si muovano rapidamente per porre fine al conflitto a condizioni favorevoli a Mosca. Non c’è da stupirsi che William Burns, il direttore della CIA, abbia osservato ad aprile: “Nessuno di noi può prendere alla leggera la minaccia rappresentata da un potenziale ricorso ad armi nucleari tattiche o armi nucleari a basso rendimento“.

CORTEGGIARE LA CATASTROFE

Si può ammettere che, sebbene uno di questi scenari catastrofici possa teoricamente verificarsi, le possibilità che si realizzino effettivamente sono minime, e quindi ci sarebbe poco da preoccuparsi. Dopotutto, i leader di entrambe le parti hanno potenti incentivi a tenere gli americani fuori dalla guerra, e a evitare un uso del nucleare, anche limitato; per tacere di una vera e propria guerra nucleare.

Magari si potesse essere così ottimisti. In realtà, la visione convenzionale sottovaluta abbondantemente i pericoli di una escalation in Ucraina. Anzitutto, le guerre tendono ad avere una logica propria, che rende difficile prevederne il corso. Chi dice di sapere con certezza quale strada prenderà la guerra in Ucraina si sbaglia. Le dinamiche dell’escalation in tempo di guerra sono tanto difficili da prevedere quanto difficili da controllare, il che dovrebbe esser di monito a coloro che sono fiduciosi che gli eventi, in Ucraina, si possano gestire. Inoltre, come ha riconosciuto il teorico militare prussiano Carl von Clausewitz, il nazionalismo incoraggia le guerre moderne a degenerare nella loro forma più estrema, specialmente quando la posta in gioco è alta per entrambe le parti. Questo non vuol dire che le guerre non possano essere limitate, ma che limitarle non è facile. Infine, dati i costi sbalorditivi di una guerra nucleare tra grandi potenze, anche una piccola possibilità che essa si verifichi dovrebbe far riflettere tutti, a lungo, sulla direzione che potrebbe prendere questo conflitto.

Questa pericolosa situazione crea un potente incentivo a trovare una soluzione diplomatica alla guerra. Purtroppo, tuttavia, non è in vista una soluzione politica, poiché entrambe le parti si sono fermamente impegnate a raggiungere obiettivi bellici che rendono quasi impossibile il compromesso. L’amministrazione Biden avrebbe dovuto collaborare con la Russia per risolvere la crisi ucraina prima dello scoppio della guerra a febbraio. Ormai è troppo tardi per concludere un accordo. Russia, Ucraina e Occidente sono bloccati in una situazione terribile, senza una via d’uscita ovvia. Si può solo sperare che i leader di entrambe le parti gestiscano la guerra in modi che evitino un’escalation catastrofica. Per le decine di milioni di persone le cui vite sono in gioco, tuttavia, questa è una magra consolazione.

[1] https://www.wsj.com/articles/henry-kissinger-is-worried-about-disequilibrium-11660325251?no_redirect=true

[2] https://youtu.be/YDuNilTd1fo

[3] http://italiaeilmondo.com/2022/08/14/il-modo-rivoluzionario-in-cui-la-russia-ha-combattuto-la-sua-guerra-in-ucraina-di-leon-tressell/

[4] “Foreign Affairs”, 17 agosto 2022 https://www.foreignaffairs.com/ukraine/playing-fire-ukraine?fbclid=IwAR3DoBHzjXNJc6zJ39SxS-TOAN4tT6gLDf50QRcF7r3R0RBDe_tAFJfcLHo

ARTICOLO GRATUITO.

 

Occasioni mancate della Storia piemontese e dintorni, di Claudio Martinotti Doria

Una possibile rubrica che potremmo intitolare: 

Occasioni mancate della Storia piemontese e dintorni. Peccato che invecchiando scrivo sempre meno, quindi non mi assumo alcun impegno.

–         Quando la Valtellina poteva divenire il 27° Cantone Svizzero (evento che se fosse avvenuto io e mia moglie ora saremmo cittadini svizzeri).

–         Quando il Regno Sabaudo poteva estendersi ai Cantoni Svizzeri di Svitto, Untervaldo, Uri (che sono i cantoni fondatori del primo nucleo della Confederazione Elvetica nel 1291) e Vallese.  Claudio Martinotti Doria

 

 

 

 

Il Cantone dei Grigioni è il più esteso e orientale della Confederazione Svizzera, con una superficie di poco inferiore al nostro Friuli Venezia Giulia ma con soli 200 mila abitanti, nel quale si parlano ben tre lingue, compreso l’italiano, essendoci alcune porzioni di territorio nelle estremità meridionali che costituiscono la Svizzera Italiana insieme al Canton Ticino.

grigionesi si erano riuniti nel 1471 nella Repubblica delle Tre Leghe, che potremmo definire il primo esempio al mondo di federazione, neppure la Svizzera lo era, gli altri Cantoni infatti avevano sottoscritto un blando patto confederale che prevedeva l’unanimità decisionale. La Repubblica delle Tre Leghe non faceva parte della Svizzera ma era solo associata militarmente.  I grigionesi forti di questa federazione costituirono un potente esercito col quale conquistarono nel 1512 la Valtellina con le contee di Bormio e Chiavenna sconfiggendo i francesi che dominavano il Ducato di Milano.

Nel 1518 la Repubblica delle Tre Leghe firmò un trattato di pace con l’imperatore del Sacro Romano Impero Massimiliano I d’Asburgo, che confermò le loro conquiste, assicurò definitivamente i futuri territori ticinesi (che erano 8 baliaggi) alla Svizzera, ma restituì l’Ossola al ducato di Milano. I territori della Valtellina, Bormio e Chiavenna, rimasero svizzeri per circa tre secoli, fino all’invasione napoleonica di fine ‘700.

Un altro momento topico a livello internazionale avvenne con la a Pace di Vestfalia del 1648, che pose fine alla Guerra dei Trent’anni ed è considerata la base o nascita dello Stato sovrano e assolutistico, che prevede il reciproco riconoscimento tra stati sovrani. Uno dei tre trattati che compongono questa Pace riconosceva l’indipendenza della Repubblica delle Tre Leghe e della Svizzera (cui era associata) dal Sacro Romano Impero.

Napoleone inizialmente decise di fare della Valtellina una quarta Lega al pari con le altre tre, ma furono gli stessi Grigioni ad opporsi, seppure a stretta maggioranza. Nel 1797 in seguito a questa decisione Napoleone incorporò la Valtellina nella Repubblica Cisalpina.

Dopo la sconfitta di Napoleone nel 1815, i Grigioni, al comando del commissario Rodolfo Massimiliano Salis-Soglio cercarono di riprendersi la Valtellina scendendo dalla val Bregaglia su Chiavenna, ma furono costretti a ritirarsi perché la valle era già occupata dagli austriaci. I giochi erano già stati fatti al Congresso di Vienna che si concluse nel mese di giugno del 1815, dopo parecchi mesi di trattative.

Al Congresso di Vienna una delegazione valtellinese, poco incline a ritornare sotto il dominio dei Grigioni a causa delle diverse religioni praticate nei reciproci territori, che spesso confliggevano (protestante e cattolica), chiese di entrare nel Regno Lombardo-Veneto o in alternativa di diventare un cantone svizzero; venne accolta la prima soluzione. Questo avvenne anche per responsabilità dei Grigioni e della Confederazione Svizzera in particolare. I Grigioni ovviamente volevano annettere la Valtellina come facente parte del Cantone, e la Confederazione Svizzera era dubbiosa se approvare il desiderio dei Grigioni, che in tal caso sarebbe diventato troppo grande e potente, oppure riconoscere alla Valtellina l’autonomia come Cantone Svizzero.

Prevalsero i diffidenti che non volevano un ulteriore cantone cattolico. Così alla fine tergiversando troppo e con poco zelo diplomatico, al Congresso di Vienna decise l’Austria al loro posto, avendo già posizionato le truppe in Valtellina. Il resto della storia la conosciamo. La Valtellina costituisce l’attuale provincia di Sondrio in Lombardia.

Alcuni decenni successivi agli avvenimenti riportati, il semisconosciuto conte Clemente Solaro della Margarita per la sua assoluta fedeltà monarchica venne nominato nel 1835 dal re Carlo Alberto ministro plenipotenziario alla corte di Vienna, la più importante d’Europa, e poco dopo fu nominato Ministro degli Esteri del Regno Sabaudo (formalmente divenne Regno di Sardegna solo nel 1847 con l’unione del Regno di Sardegna con gli Stati di Terraferma posseduti dai Savoia, voluta da Carlo Alberto con il cosiddetto “Statuto Albertino”, a livello diplomatico era ufficiosamente denominato Regno di Piemonte-Sardegna).

In tale ruolo Solaro fu molto attivo fino a invadere anche le competenze di altri ministeri provocando tensioni nel governo che poi dovevano essere sedate dall’intervento diretto di Carlo Alberto.

Solaro era molto inviso ai liberali perché fervido conservatore e fervente cattolico (dagli storici considerato un reazionario), ostile all’Unità d’Italia (motivo per cui la storiografia ufficiale risorgimentale ne ha decretato la damnatio memoriae). I suoi continui interventi a favore della Chiesa e invadenze di campo in altri ambiti ministeriali finirono per stancare il re Carlo Alberto, che iniziò a prendere le distanze da lui. La sua carriera politica finì con le dimissioni forzate, seppur tra mille onori, verso la fine del 1847, nell’aria si respiravano troppi fermenti libertari si e il suo rigidismo conservatore era fuori luogo, non essendo disposto a concedere nulla alle forze del cambiamento e del rinnovamento.

Solaro in cuor suo propendeva per un’idea che potremmo ora definire “geopolitica” di pragmatismo politico (Realpolitik), che all’epoca nessuno condivideva e tantomeno esponeva pubblicamente e per lungo tempo tenne per sé fino al momento opportuno stabilito dalla Storia.

Accadde nel 1844 quando il cantone svizzero del Vallese, tradizionalmente cattolico, da pochi decenni entrato a far parte della Confederazione Svizzera, venne aggredito dalle ben organizzate ed equipaggiate truppe dei “Corpi Franchi” dei Cantoni protestanti, che costituivano la maggioranza della Confederazione (i Cantoni cattolici erano in netta minoranza essendo solo otto)

Mai la Svizzera fu così vicina all’autodistruzione come entità politica come in quel periodo, cioè dal 1844 al ‘47, anche se onestamente le cause furono più politiche che religiose, in quanto la Dieta Federale Svizzera a guida radicale voleva un governo più centralizzato e voleva eliminare le barriere doganali ancora in vigore tra i Cantoni oltre ai particolarismi e campanilismi, e i cantoni più rurali e conservatori (cattolici) erano contrari perché temevano di perdere i loro piccoli privilegi, tradizioni e autonomie, pertanto si riunirono in una lega detta Sonderbund che negli anni appena successivi si scontrò con l’esercito dei Cantoni Confederati nella cosiddetta Guerra del Sonderbund, che fortunatamente fu poco cruenta pur coinvolgendo circa 180mila soldati quasi equamente distribuiti nei reciproci schieramenti. Si risolse con la resa della lega e la trasformazione della Svizzera in uno Stato Federale a far data dal 1848, anche se è in uso definirla Confederazione Svizzera o Elvetica.

Ma torniamo al 1844 quando Il Vallese aggredito dai protestanti chiese e ottenne rapidamente l’appoggio dei Cantoni cattolici di Schwyz, Uri ed Unterwalden, i quali seppur uniti in questa alleanza contingente, ebbero immani difficoltà a respingere il fortissimo attacco dei protestanti, soprattutto perché erano privi di risorse e non erano in grado di procurarsi armi ed equipaggiamento.

Quando ormai stava prevalendo la disperazione per l’ormai imminente e inevitabile sconfitta, i cantoni cattolici inviarono a Torino due “ambasciatori”: il generale Kalbermatten e il conte Maurizio de Courten per invocare il sostegno del regno di Sardegna, disposti ad assoggettarsi al re Carlo Alberto come sovrano e di conseguenza incorporare nel suo regno i Cantoni cattolici già citati. Preferivano sottomettersi a un monarca piuttosto che accettare le intenzioni ormai manifeste di un governo svizzero centralizzato a guida protestante, radicale e liberale.

I due delegati chiesero pertanto a Carlo Alberto di inviare truppe in loro aiuto oltre a un finanziamento di un milione a fondo perduto per l’acquisto di armi ed equipaggiamento militare.

Il ministro Solaro pensò fosse finalmente giunto il suo momento magico, atteso da tempo, coltivato in quella sua idea “geopolitica” custodita gelosamente, convinto com’era che il destino storico del Piemonte fosse quello di  “Stato cuscinetto” fra l’Europa continentale e la Penisola italiana, ma restando indipendente da tutti ed espandendosi quando le circostanze storiche lo avessero consentito, e questa era una di quelle occasioni da cogliere al volo.

Solaro chiese pertanto a Carlo Alberto di sostenere i cattolici svizzeri aggrediti dai protestanti, accogliendo le richieste dei delegati vallesi.

Come scrisse in seguito nei suoi libri di memorie storiche e politiche, era certo che le truppe dell’esercito piemontese avrebbero prevalso sui protestanti, riuscendo a liberare tutti i Cantoni cattolici dagli aggressori.

Purtroppo Carlo Alberto non la pensava allo stesso modo, aveva ambizioni da megalomane pur nelle sue frequenti esitazioni, voleva addirittura espandersi in Lombardia sfidando l’Austria, e così non colse la ben più facile e accessibile Svizzera cattolica, che gli si offriva su un piatto d’argento, con un minimo tributo di sangue e risorse finanziarie.

Se Carlo Alberto avesse seguito il suggerimento di Solaro Il Regno di Piemonte e Sardegna che già era uno Stato multilingue (se ne parlavano già una dozzina e si sarebbe aggiunto il tedesco), avrebbe raggiunto dimensioni di tutto rispetto, collocandosi in una posizione strategica invidiabile, tramite la quale ottenere benefici da un’accorta politica diplomatica.

Per i cattolici svizzeri l’ignavia di Carlo Alberto poteva avere conseguenze drammatiche se non si fosse poi pervenuti nel 1847 al compromesso sopracitato, di fronte al rischio di una cruenta ed estesa guerra civile si è preferito accettare uno stato federale, cui tutti i Cantoni aderirono, anche i più riottosi cattolici, ognuno cedendo parte delle proprie pretese.

Pur non essendo una cima d’intelligenza Solaro era comunque un fedele, onesto e capace servitore dello Stato e nelle sue pubblicazioni redatte da “pensionato”, tra cui le  principali furono il “Memorandum storico politico” del 1854 e lo “Sguardo politico sulla convenzione italo-franca del 15 settembre 1864”, il conte rivelò la sua contrarietà all’espansione piemontese verso la Pianura Padana, che lo mise in contrasto con Carlo Alberto inducendolo alle dimissioni.

Nelle sue opere riferì che il suo desiderio di espansione dello Stato Sabaudo verso le alpi svizzere non era frutto di espedienti tattici o velleità estemporanee ma di strategie meditate e lucide, che la Storia gli avrebbe consentito di realizzare se ci fosse stato un sovrano diverso dall’instabile Carlo Alberto.

Solaro riteneva che il Piemonte per storia, tradizione, mentalità e lingua, fosse una Nazione con una sua identità ben distinta, addirittura estranea dal resto della penisola, e non avrebbe dovuto immischiarsi nell’Unità d’Italia, respingendo con tutte le forze quella che definiva “fantastica idea di Risorgimento nazionale, falsa in teoria, funesta in pratica”.

La Storia gli dette ragione quando i piemontesi dalle popolazioni dell’ex Regno delle Due Sicilie furono considerati conquistatori e colonizzatori e furono combattuti a lungo dai cosiddetti briganti, che non erano quattro gatti come si crede comunemente ma oltre 100mila armati che ricorrevano alle tecniche di guerriglia per contrastare l’Esercito Piemontese e che provocò decine di migliaia di morti violente con feroci repressioni ed esecuzioni, oltre a una prolungata miseria nella popolazione.

Solaro, profeticamente aveva previsto nelle sue memorie che il Piemonte unendosi con il resto della Penisola, sarebbe diventato solo una marginale “provincia d’un Regno” dominato da non piemontesi.

Il costo per i piemontesi dell’Unità d’Italia iniziò a palesarsi nell’infame massacro di Torino del settembre 1864 quando decine di cittadini inermi che protestavano per il trasferimento della capitale a Firenze furono uccisi o feriti gravemente dalle fucilate di allievi carabinieri cui si unirono elementi di fanteria, che qualcuno avrà pur comandato di agire.

Si trattò di una vera e propria “strage di Stato”, cui ne seguirono molte altre e sulle quali non si è mai ottenuta giustizia né tantomeno verità.

Il conte Solaro morì a Torino il 12 novembre 1869, a settantasette anni, nell’indifferenza pressoché generale, proseguita finora, basti vedere il penoso contenuto della paginetta a lui dedicata su Wikipedia, solo l’Enciclopedia Treccani gli ha dedicato una voce abbastanza dignitosa.

 

 

CONCLUSIONI

Spesso la Storia è determinata da singoli personaggi, non necesariamente dotati di particolare potere, che però si trovano a dover fare delle scelte, perché demandati, delegati o perché le circostanze della vita li hanno posti in quel ruolo, che può essere limitato e temporaneo. Ma le ripercussioni delle loro scelte spesso sono gravi e niente affatto temporanee, determinando i destini di intere comunità o nazioni.

Il primo evento mancato, la Valtellina come 27° Cantone Svizzero non è attribuibile a singoli personaggi, ma a intere comunità cantonali (che in questo caso con un banale gioco di parole potremmo dire abbiano preso una “cantonata”). All’epoca di questi eventi, prime decadi dell’800, la Svizzera era quanto più si avvicinasse ad una democrazia, addrittura “partecipata”, con fortissime autonomie locali, e per prendere decisioni condivise ci voleva tempo, e a volte il contesto storico non te ne concedeva a sufficienza, e allora altre entitò ben più forti e potenti la prendevano al posto tuo, soprattutto trattandosi di entità autoritarie e quindi molto più rapide e decisioniste, come in questo caso è stato l’Impero Austriaco.

Nel secondo evento mancato la responsabilità storica è indubbiamente attribuibile al re Carlo Alberto, che aveva altre ambizioni (eccessive, poco realistiche) e non era minimamente interessato a espandersi verso la Svizzera, anche se il costo sarebbe stato modesto rispetto a quello che avrebbero pagato i piemontesi per realizzare la sua ambizione e quella dei suoi successori, per realizzare la quale era inevitabile appoggiarsi ad una potenza straniera (in questo caso la Francia) che ne avrebbe approfittato per indebolire il regno, nel nostro caso il regno Piemonte-Sardegna dovette rinunciare all’intera Savoia e alla contea di Nizza.

Se il re Carlo Alberto avesse ascoltato il conte Solaro, le sorti del regno sarebbero state conpletamente diverse e a mio avviso molto più prospere e pacifiche, pur entrando nella dimensione dell’ucronia, mi sento di prevedere che molto probabilmente avremmo seguito quella che sarebbe dientata la politica estera svizzera, basata sulla neutralità (in quanto stato cuscinetto, come era nella concezione geopolitica di Solaro), sulla diplomazia e sulla pace, pur essendo tutt’altro che inerme dal punto di vista militare, Ricordiamo infatti che i migliori mercenari ingaggiati dai vari regnanti europei erano svizzeri.

Tra gli aspetti che potremmo definire “passivi e indiretti” di questa scelta di Carlo Alberto, influisce certamente il fatto che Solaro non aveva una personalità carismatica e autorevole e soprattutto l’intelligenza del conte Camillo Benso di Cavour, altrimenti il re lo avrebbe ascoltato e probabilmente seguito nel suo percorso strategico e prospettico, ed ora vivremmo in uno stato piemontese-svizzero, con una qualità della vita invidiabile e una democrazia partecipata molto evoluta rispetto agli attuali regimi oligarcici gattopardeschi che si spacciano per democratici perché vi consentono di mettere una x su una scheda quando fa comodo a loro.

 

Cav. Dottor Claudio Martinotti Doria, Via Roma 126, 15039 Ozzano Monferrato (AL), Unione delle Cinque Terre del Monferrato,  Italy,

Email: claudio@gc-colibri.com  – Blog: www.cavalieredimonferrato.it – http://www.casalenews.it/patri-259-montisferrati-storie-aleramiche-e-dintorni

LE MANI SULL’UCRAINA, SU TAIWAN E SUL KOSOVO: SINO A CHE PUNTO SI STANNO SPINGENDO GLI USA?_di Marco Giuliani

Intanto, in Italia, i maggiori partiti si raccomandano alla Casa Bianca per paura di perdere voti

 

La delicatissima fase in tema di relazioni internazionali che sta attraversando il pianeta (tutto) in questo 2022 sembra degenerare di giorno in giorno, senza soluzione di continuità. Ma qualcuno, in particolare, non si accontenta del conflitto russo-ucraino, tanto meno dello stato di enorme difficoltà che sta passando l’Unione Europea a fronte delle sanzioni inflitte a Mosca e del conseguente taglio delle forniture dei materiali energetici da parte del Cremlino. Viene spontaneo porsi alcune domande e tentare, previa analisi della situazione in divenire e dei relativi dati, di fornire delle risposte, che per altro appaiono sempre più come delle conclusioni fondate anziché delle supposizioni. Nel superare, infatti, la cosiddetta “linea rossa” citata da diversi capi di Stato sparsi nel mondo, gli Stati Uniti stanno gettando benzina sul fuoco della tensione già presente in diverse aree alimentando uno scontro che talvolta essi stessi hanno innescato senza ragioni apparenti. Quali sono gli obiettivi reali non tanto di Joe Biden – ormai in piena fase senile – quanto dell’establishment politico-finanziario-statunitense, oltre a quello di rimpinguare le casse delle grandi multinazionali che producono armi?

Andiamo per ordine. L’Europa orientale sta vivendo il suo sesto mese di guerra, e le dinamiche sono più o meno rimaste le stesse: i russi si allargano e gli ucraini reagiscono come possono grazie all’invio di armi da parte di UE e Washington e facendosi scudo con strutture residenziali. I caduti, tra militari e civili, potrebbero essere oggi qualcosa come 40-50.000, anche se le stime, per vari motivi, non possono (e non potranno, se non tra diversi anni) essere precise. A Bruxelles non importa, tanto meno alla Casa Bianca; i due soggetti terzi, di fatto, continuano a “dirigere” le ostilità con una regia che Zelensky – mentre fornisce previsioni cervellotiche per cui Putin attaccherà anche altri paesi – asseconda tout court dalle stanze del “grande fratello” di Kiev.

Contemporaneamente, nell’emisfero opposto del globo si inasprisce la tensione tra la Cina e i soliti Usa per la questione-Taiwan, presso cui ha transitato la Pelosi, facendo arrabbiare di brutto Pechino. Anche in questa circostanza, sembra abbastanza chiaro l’intento degli americani di mostrare i muscoli e dare dimostrazione di poter fare il loro comodo ingerendo dall’Atlantico al Pacifico tramite la ormai ben nota guerra ibrida. Ma attenzione, i cinesi non sono gli afghani, e visto il coinvolgimento del nucleare, la lite potrebbe diventare spiacevole per tutti. Ora, rispetto allo status dei rapporti tra le due superpotenze, rientra probabilmente il disegno di creare una lacerazione profonda tra l’Occidente e suoi dirimpettai orientali fornendo arsenali e denaro a coloro che l’Occidente stesso vorrebbe diventassero alleati strettissimi. Contrapponendosi, in omnibus et pro omnibus, ai paesi che al contrario sta trasformando in nemici senza che in tempi recenti abbiano operato delle mosse per diventarlo. A margine di una politica del genere, anche Ronald Reagan avrebbe potuto sembrare un moderato.

 

Terza questione: Kosovo. Provincia autonoma storicamente a grande maggioranza albanese, fa parte del reclutamento di quanti più paesi europei possano entrare a far parte dell’alleanza atlantica, forzatura che Nato e Usa vogliono per creare un punto di contatto tra la crisi ucraina e l’instabilità nei Balcani; stavolta, il nemico inquadrato è la Serbia, vicina a Vladimir Putin e guarda caso uno dei pochi stati dell’area che non ha chiuso lo spazio aereo a Mosca. In più c’è la minaccia diretta: «Se i serbi prevaricano, la Nato interverrà con la forza», fanno sapere dal KFOR, missione militare interforze a presidio dell’area, che conta la presenza di quasi mille unità italiane sul campo. In forma più leggera, ma analogamente a quanto è successo dai primi anni Duemila in Ucraina nei confronti dei russofoni, le autorità kosovare stanno operando un graduale ma continuo smantellamento di tutto ciò che contrassegna l’identità serba (targhe, documenti, simboli). Il risultato è che i serbi kosovari protestano inducendo le autorità locali a opporre un controllo di polizia, il quale ha provocato già diversi scambi a fuoco presso il confine. È una strategia rozza della Nato? Forse, o forse no. Annotiamo esclusivamente che alcuni giorni fa ha avuto luogo un incontro tra il Segretario di Stato statunitense Blinken e il premier kosovaro Kurti per definire la futura integrazione euro-atlantica del Kosovo.

Dalle nostre parti, intanto, in vista delle politiche di settembre, in un clima da mercato delle vacche, si pensa più alle poltrone che al fabbisogno dei cittadini. Tra i maggiori partiti italiani, in relazione all’appiattimento che da mesi contraddistingue la loro propaganda, si è formata la fila per raccomandarsi a Washington, ribadendo fedeltà – per non dire asservimento – al Patto Atlantico in fatto di rapporti bilaterali e fornitura di armi (più soldi) agli ucraini. Ergo: anziché manifestare apertamente una propria autonomia di pensiero e anteporre la salvaguardia degli interessi nazionali, il grande centro allineato preferisce l’endorsement della Casa Bianca. L’Italia politica del terzo millennio è arrivata anche a questo.

                               MG

 

BIBLIOGRAFIA

AA.VV., The Last of the Whampoa Breed: Stories of the Chinese Diaspora, Columbia University Press, 2003 –

  1. Biagini, Storia dell’Albania, Milano, Bompiani, 1998 –

 

SITOGRAFIA

www.tag24.it, pagina del 04/08/2022 consultata il 04/08/2022 –

www.lantidiplomatico.it, pagina del 04/08/2022 consultata il 04/08/2022 –

Tra Serbia e Kosovo è ancora guerra delle targhe, articolo pubblicato il 01/08/2022 sulla pagina www.ispionline.it, consultata il 05/08/2022 –

Segretario Blinken incontra il presidente kosovaro Osmani e il Primo Ministro Kurti, articolo pubblicato il 26/07/2022 su www.state.gov, sito del Dipartimento di Stato Usa, consultato il 05/08/2022 –

Ucraina, il conflitto_11a puntata, con Stefano Orsi e Max Bonelli

La 11a puntata inizia con un documento interno all’esercito ucraino che conferma le crescenti difficoltà, evidenti ormai sul campo, nel sostenere e contenere la pressione costante dell’esercito russo. Una nota che segue numerosi atti di protesta della truppa riguardo la conduzione della guerra e il comportamento dei comandi e della dirigenza politica ucraini. Alle difficoltà sul campo corrisponde una netta accentuazione del carattere terroristico della reazione ucraina sempre più rivolta a ritorsioni verso la popolazione civile e al sacificio dissennato delle proprie forze militari. Un aspetto sempre più difficile da nascondere anche per i media meglio disposti verso una causa sbagliata quale è la reazine della dirigenza ucraina. E’ sempre più evidente il paradosso di una forza che si proclama paladina dell’indipendenza di un paese, ma che in realtà si sta rivelando uno spietato esercito di occupazione al momento della vasta componente ostile della popolazione, ma che non tarderà a manifestare la propria indole anche verso le componenti favorevoli e passive. Emerge sempre più chiaramente la natura di un regime tanto ottuso e spietato ideologicamente, quanto portatore diretto di interessi e dinamiche geopolitiche esterne; dinamiche dalle generalità conosciute, ormai sparse ai quattro venti, che non tarderanno a dover rendere conto anche nel proprio paese, gli Stati Uniti. L’ennesimo frutto marcio portato dalle tante rivoluzioni colorate che hanno infestato questo ventennio. Avrebbero dovuto scompigliare i propositi di un mondo multipolare; stanno costringendo, in realtà, le forze emergenti a coalizzarsi non ostante i vecchi e nuovi contenziosi che attraversano un mondo sempre più disarticolato. Il finale non è scritto, ma non è scontato come poteva apparire appena venti anni fa. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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