ESONOMIA. [Post rilevante] Incontro il termine-concetto in un libricino di Pierre Clastres, etno-antropologo di propensione politica, allievo prediletto di C. Levy-Strauss, anarchico, prematuramente scomparso per incidente a poco più di quaranta anni. Se digitate il termine su Google, almeno a me (saprete che gli algoritmi personalizzano i risultati di ricerca, Google è un dispositivo relativistico ovvero relativo alla tua immagine di mondo) viene fuori, come avessi commesso un errore di digitazione: “economia”. Poi Google si sforza di trovare qualcosa e mi propone “isonomia” dal vocabolario Treccani. Cerchi sul vocabolario Treccani e viene fuori nulla. Ah! Un concetto nuovo, penso. Poiché però avevo capito al volo cosa intendeva il Clastres, mi sorprendo che il concetto venga ritenuto inesistente, cioè nuovo. Perché ciò avviene e perché merita un post? Ora provo a spiegarlo.
Di per sé il termine si compone di “eso” che vuol dire esterno e “nomia” da nomos che significa legge, quindi “legge che proviene dall’esterno”. Il suo opposto sarebbe endonomia, da “endo” ovvero interno, ma siccome il termine-concetto non esiste, non esiste neanche il suo contrario.
Relativamente alle questioni sociali (ma il discorso vale anche per gli individui), politiche e culturali, la nostra cultura prevede per principio solo approcci endonomici. Il “motore della storia” sarà interno alle forme sociali, le forme politiche dipendono chi pensa dai modi economici, chi altro pensa da preferenze ideologiche, così le culture, poi come “unità metodologica” c’è chi pone solo gli individui, chi invece i gruppi magari chiamandoli comunità o classi o società etc. etc. Ovvero, data un società x, cercheremo le ragioni del perché è così e non cosà, analizzando il suo interno nello statico o nel dinamico del tempo storico. Comunque, partendo dall’assunto dato, ma non giustificato, che tutte le cause dei vari modi in cui la società è e si struttura, dipendono da forze interne, condizioni che impongono la legge “nomia” partendo da fatti interni “endo”.
Esonomia, invece, dice il contrario, pone ciò l’attenzione all’esterno della società, ciò in cui è posta la società. Può esser l’esterno ambientale, quello geo-storico, il tempo caratteristico della civiltà di appartenenza, la complessa rete sistemica in cui ogni società è iscritta di natura e cultura. Esonomia segnala quando la legge, intesa qui come pressione adattiva, proviene non dall’interno ma dall’esterno. Il che ci porta al concetto di adattamento. Infatti, se ti devi adattare, vorrà dire che c’è un esterno a te con il quale devi andare d’accordo.
Il concetto di adattamento, diversamente da esonomia, esiste nella nostra immagine di mondo ma non è molto sviluppato. Darwin, a suo tempo, ha proposto una teoria dell’adattamento, ma gli interpreti della sua opera del 1859, hanno preferito apporgli concetto di “evoluzione”, termine che non esiste nella prima edizione dell’Origine delle specie. Quindi Darwin scrive l’opera fondativa della teoria dell’evoluzione, ma senza mai usare il termine, così come Marx scrive le opere fondative il concetto di capitalismo usando il termine, pare, solo due volte nella corrispondenza privata. Fu un sociologo, Sombart, a chiamare capital-“ismo” il sistema a lungo analizzato da Marx e fu un altro sociologo Spencer a chiamare evoluzione la teoria di Darwin, potenza degli interpreti!
Glielo appose Spencer che, in quanto anche filosofo, era legittimato poiché artigiano nella “fabbrica dei concetti” (questa è la funzione della filosofia o almeno “una delle funzioni”) e poiché era anche il produttore principale del concetto di “progresso” (siamo nella seconda metà del XIX secolo in quel della Gran Bretagna), gli veniva bene appaiare il concetto di progresso con quello di evoluzione.
Ma l’opera di Darwin non è del tutto sull’evoluzione, è più sull’adattamento. Però, la cultura occidentale, poiché ha coartato per secoli natura ed altri popoli per favorirsi l’adattamento, non ha ritenuto utile problematizzare il fatto adattivo, lo ha fatto e basta, passando poi il resto del tempo della sua auto-riflessione a domandarsi quali forze interne (endonomiche) hanno fatto sì essa abbia sviluppato i suoi modi che siano la società di classe, il capitalismo, la democrazia liberale, la tecnoscienza e molto altro della nostra storia culturale di famiglia. Colpa o merito di individui o classi sociali o specifiche ideologie o teorie, tutte però nate come Atena dal nulla, gratuitamente, per genio (o perversione) umano endogeno o forse per caso. Nessuno pare si sia mai domandato quali fossero le pressioni esterne che hanno mosso individui o classi o teorie ed ideologie a fare quel che hanno fatto o pensato.
Tant’è che oggi, che il modo sta cambiando radicalmente, pare che nessuno capisca bene il perché visto che cercando all’interno non si trovano poi questi complessi forti di cause agenti. Il fatto che sia il mondo fuori di noi ad esser cambiato, quello umano (altri popoli e civiltà) o naturale (ecologia e clima), pare interessi dal nulla al poco. Non si comprende ciò la carica esonomica che ci imporrebbe di cambiare molte cose per il semplice fatto che dovremmo adattarci ad un mondo nuovo. A noi piace il concetto di Nuovo Mondo ovvero la scoperta dell’America, ma abbiamo difficoltà insormontabili con il Mondo Nuovo, perché non siamo abituati a domandarci del “fuori di noi”. In particolare quelli del Nuovo Mondo hanno difficoltà col Mondo Nuovo, poverini, si capisce …
Ne verrebbe fuori a seguire un lungo e bellissimo discorso anche sulla nascita delle gerarchie, anche perché il Clastres usa il concetto proprio nella sua ricerca sulla nascita dello Stato e la rottura dei regimi egalitari sociali dei selvaggi che si potrebbero, con giudizio, retroproiettare al passaggio tra Mesolitico e Neolitico ovvero nascita delle società complesse e delle gerarchie sociali ab origine. Ma qui non c’è spazio e tempo, quindi andiamo a chiudere.
Volevo solo segnalarvi che, in prima istanza, le perturbazioni profonde, continuate ed incrementali che vanno ad affliggere i nostri ordini sociali, provengono proprio da questo “fuori di noi” che fatichiamo a considerare nel suo continuo proporci nuovi dilemmi adattivi. La nostra, oltreché complessa, è una era potentemente esonomica. Forse pari per intensità solo al passaggio tra Mesolitico e Neolitico. Specifico che il “noi” qui usato non si riferisce come solitamente intendiamo senza curarci della nostra ipertrofia egotica occidentale, nel senso di “umanità”. Noi non siamo l’umanità siamo solo una parte, pure piccola (intorno un sesto, circa). Alla nostra civiltà o civilizzazione si voglia intendere, l’era propone potenti ed inediti, specifici dilemmi adattivi, per questo la diciamo esonomica. Familiarizzare col concetto è un buon primo passo per sviluppare nuove strategie adattative, necessarie ed urgenti. Su questa riformulazione strutturale della nostra immagine di mondo siamo molto in ritardo e ciò non va bene.
Per involontaria saggezza implicita la logica delle immagini di mondo, sia il concetto di “economia”, che quello di “isonomia” che era il nome originario di quella che poi si chiamerà “democrazia”, hanno in realtà molto a che vedere con l’esonomia. L’equazione adattiva del nostro futuro ha infatti questi tre poli: data una certa esonomia, come si mette a quadro funzionale ed adattivo l’economia con la democrazia nelle società della civiltà occidentale?
Nei giorni scorsi è apparsa anche sui quotidiani italiani la notizia di una azione di spionaggio condotta dai servizi marocchini ai danni di personaggi politici europei, in particolare francesi; tra di essi il Presidente Macron. Come al solito, nessuna analisi critica del lancio informativo. Qui sotto un articolo pubblicato da Theatrum Belli, una rivista digitale collaterale ad ambienti militari francesi. Giuseppe Germinario
Il Marocco è accusato di essersi infiltrato nei telefoni di personaggi pubblici marocchini e stranieri, tramite software informatici Primo fra tutti il cosiddetto affare Pegasus e le accuse mosse il 18 luglio 2021, in particolare dal sito di estrema sinistra Forbidden stories (che come il suo nome non indica è un sito francese che significa “storie proibite” ) e vecchi nemici del Marocco come Amnesty International o Mediapart, invita a una prima riflessione. Vale a dire che lo spionaggio è vecchio quanto il mondo e che più di recente non c’è stato un tale clamore quando gli Stati Uniti, gli israeliani, i cinesi, i tedeschi oi russi sono stati coinvolti in attività terroristiche spionaggio contro leader francesi o di altro tipo. Ad esempio, i servizi degli Stati Uniti (in particolare, la National Security Agency ) si sono recentemente affidati ai cavi di telecomunicazioni danesi per spiare i leader europei ( France Info , 31 maggio 2021). Il caso Jonathan Pollard ha rivelato che Israele ha usato una spia per spiare i leader statunitensi…
Saremmo quindi tentati di dire “molto rumore per nulla”. Tanto più che in questo caso non è proprio niente visto che, secondo molti esperti, siamo in presenza di una manovra anti-marocchina, volta a destabilizzare questo Paese ea ledere l’eccellenza dei rapporti franco-marocchini. Perché ci si può chiedere se anche la Francia non sia vittima di questa campagna che avvantaggia solo gli avversari, i concorrenti ei nemici dei nostri due paesi. In ogni caso, il Marocco ha reagito condannando energicamente il persistere di una campagna mediatica falsa, massiccia e maligna contro di esso e sporgendo denuncia.
Una manovra anti-marocchina?
Infatti, leader politici come il presidente della Commissione Affari Esteri, Difesa e Forze Armate del Senato, Christian Cambon , hanno denunciato il 21 luglio 2021 una ” campagna di stampa diffamatoria volta a destabilizzare il Regno del Marocco”.
Il presidente Cambon aggiunge: ” quando si fanno delle accuse, bisogna assumersi la responsabilità delle prove … fino a prova contraria, queste sono solo storie che si trascinano regolarmente e “siamo nell’assurdo. Anzi, è chiaro che queste accuse sono montaggi, e quindi non abbiamo prove, e fino ad ora non ne avevamo mai avute ”.
Dal canto suo, la senatrice di Parigi, Catherine Dumas , ha messo in dubbio, lo stesso giorno, una certa disinformazione che circola: ” Sappiamo benissimo che tutto questo non avviene per caso “.
Madame Catherine Morin-Desailly, vicepresidente del gruppo di amicizia Francia-Marocco ed ex presidente della Commissione Cultura e Comunicazione del Senato, sottolinea che Internet è diventato un “nuovo terreno di confronto globale dove forze oscure, paesi che non vogliono che i buoni rapporti di eccellenza tra Marocco e Francia possano interferire per trasmettere accuse. Secondo il senatore, ” bisogna essere estremamente sospettosi della manipolazione delle forze esterne “.
Bernard Squarcini, ex capo dell’intelligence interna francese (DCRI, ora DGSI) ha dichiarato alla radio Europa 1 di non “credere troppo” alle accuse contro il Marocco. Secondo Squarcini, “E’ (un’accusa) troppo facile. Il Marocco è partner della Francia”.
Le autorità marocchine non hanno mai cessato di esigere prove in merito alle accuse mosse contro il Regno; questa è anche la posizione di diversi esperti internazionali che chiedono a Forbidden Stories e agli accusatori del Marocco di fornire prove a sostegno delle loro accuse.
Così, la giornalista investigativa americana, Kim Zetter, è sorpresa sul suo account Twitter ( @kimZetter ) per la mancanza di fonti per Forbidden Stories . Denuncia anche il trattamento di alcuni media. Il ricercatore di criptovalute Nadim Kobeissi osserva che le prove di Amnesty International e Fordidden Stories sono “quasi inesistenti” ( @Kaepora ). L’esperta di sicurezza informatica norvegese Runa Sandvik, capo della sicurezza informatica del New York Times , rileva “incoerenza” nelle accuse riportate dai media e Forbiden Stories. Annota sul suo account Twitter ( @runasand ) che “Quindi nessuno sa, finora, da dove provenga la lista da cui è stato fabbricato lo scandalo del Progetto Pegasus per attaccare il Marocco, in particolare”.
Come proclamato dall’avvocato francese del Marocco che ha sporto denuncia in Francia contro le due associazioni all’origine del caso, “degli accusatori, gli stessi responsabili di questo progetto e gli stessi media di Forbidden Stories diventano gli accusati. . Se insistesse, il loro silenzio sulle prove di ciò che affermano confermerebbe la loro colpevolezza”. Me Olivier Baratelli ha quindi rilasciato due citazioni dirette per diffamazione contro Amnesty International e Forbidden Stories. L’avvocato ha precisato che lo Stato marocchino “desidera che si faccia luce sulle false accuse di queste due organizzazioni che avanzano elementi senza alcuna prova concreta e dimostrata”.
Basta vedere chi è in linea contro il Marocco per capire che c’è un complotto. I gruppi di estrema sinistra (trotskisti, comunisti) che sono ben organizzati e che controllano in parte associazioni di propaganda come Amnesty International o Forbidden Stories odiano particolarmente il Marocco che, durante la Guerra Fredda, si è schierato chiaramente con il Mondo Libero. , è una monarchia e guida, sotto la guida del re Mohamed VI, una dinamica politica africana.
È anche chiaro che la decisione degli Stati Uniti di riconoscere la sovranità del Marocco sul suo Sahara ha creato tensioni con i nemici del Regno, in primo luogo il regime algerino.
Una manovra antifrancese?
Tutto ciò spiega l’instancabilità mirata di alcuni media e gruppi politici francesi nei confronti del Marocco. Infatti, questi noti agitatori agiscono contro la Francia e secondo un’agenda estera anche se una certa stampa impegnata può trasmettere pettegolezzi e accuse non provate mentre Marocco e Francia affrontano molte sfide, in particolare sul piano di sicurezza e sulla lotta contro terrorismo, che sono più importanti dei corridoi rumorosi.
Come ha nuovamente affermato il presidente della Commissione Affari Esteri, Difesa e Forze Armate del Senato: “Il Marocco è un partner strategico e siamo grati che l’azione, sotto la guida di Sua Maestà il Re, ci porti nel Sahel, dove la Francia è molto coinvolto e cerca di combattere il terrorismo e il jihadismo che hanno fatto tanti danni. Apprezziamo molto il supporto molto efficace fornitoci dal Marocco ” .
Quello che dicono molti esperti e osservatori imparziali è che la Francia è nel mirino del rimbalzo. Conosciamo i legami tra i servizi tedeschi e certi ambienti di sinistra, convertiti in ambientalisti, che conducono una lotta accanita contro il nucleare francese e non perdono occasione per pugnalarci alle spalle. Ma non sono gli unici. Questo caso arriva mentre il Marocco sta negoziando importanti acquisti di armi e ovviamente questo non servirà gli interessi francesi.
Sappiamo bene che il Marocco è un partner essenziale della Francia, che sa di essere uno Stato serio e competente nella lotta al terrorismo.
Is fecit cui prodest
Conosciamo il vecchio adagio giuridico secondo cui il criminale è colui al quale il delitto avvantaggia ( Is fecit cui prodest). È quindi necessario scoprire chi beneficia del crimine per trovare il colpevole. In questa materia, diversi piccoli gruppi militanti e stati hanno interesse a cercare di avvelenare le relazioni franco-marocchine e attaccare il Marocco o la Francia, o entrambi.
Tra i piccoli gruppi ci sono ovviamente quelli dell’estrema sinistra che nutrono un vero e proprio odio verso il Regno del Marocco. Non stupisce quindi che la vicenda sia lanciata da movimenti vicini a questi ambienti e largamente ripresi da alcuni media sempre pronti a fare una brutta partita contro Rabat.
Anche i venditori di armi industriali degli Stati Uniti, di Israele o di paesi meno importanti come l’Italia hanno interesse ad aggiungere benzina sul fuoco nel tentativo di minare la cooperazione franco-marocchina. Gli Stati Uniti di Biden hanno dimostrato quanto poco apprezzino la Francia durante il recente tour europeo di Biden nel giugno 2021, dove ha incontrato tutti coloro che contano (Vladimir Putin, Boris Johnson, la regina d’Inghilterra, Angela Merkel) ma non il presidente francese Emmanuel Macron. Sappiamo anche che gli Stati Uniti sono un importante venditore di armi in Marocco e che non vedono di buon occhio la presenza francese in questo Paese e, più in generale, in Africa.
L’Italia dal canto suo punta a vendere le fregate antisommergibili FREMM al Marocco e Fincantieri (sostenuta dal governo italiano) non dispiacerebbe vedere il suo concorrente francese Naval Group escluso dal mercato come è avvenuto recentemente in Indonesia ed Egitto.
Se la Spagna social-sinistra (il PS locale è alleato con i radicali del PODEMOS) di Sanchez non ha ovviamente i mezzi per infastidire profondamente i suoi vicini marocchini e francesi, non è questo il caso della Germania che è in delicatezza con il Marocco e che non perde occasione per danneggiare una Francia che considera, dopo la Brexit britannica, l’unico concorrente nell’Unione europea. In ogni caso, questo caso mostra che la Francia è vittima quanto il Marocco di queste accuse infondate. Se, come sottolinea Pierre Razoux su Les Échos del 23 luglio : “C’è preoccupazione tra i marocchini verso una parte dell’élite francese sospettata di benevolenza verso i fratelli musulmani e l’islam politico e quelli considerati troppo vicini agli ambienti algerini” , va detto che né il governo francese né il governo marocchino vogliono che le cose si deteriorino tra i due paesi.
Naturalmente, il regime algerino non ha mancato di sfruttare le accuse dei suoi amici di estrema sinistra contro il Marocco. Algeri ha anche avuto il coraggio di “condannare questo inammissibile attacco sistematico alle libertà fondamentali”. Per fortuna, questa vicenda arriva quando le relazioni tra i due Paesi sono state particolarmente tese nelle ultime settimane a causa dei maggiori aiuti del regime algerino ai separatisti del Polisario , delle innumerevoli provocazioni anti-marocchine e mentre Algeri richiamava il suo ambasciatorea Rabat a causa della disputa sul Sahara marocchino. Certo, Algeri – la cui politica è molto ambigua – non vede bene la solidità dei legami tra i servizi di intelligence francesi e marocchini, in particolare nella lotta al jihadismo nel Sahel.
In ogni caso, il Marocco è ancora una volta al centro di una telenovela che è “fantascienza”. Va ricordato che questo stesso consorzio di testate ha raccolto, nel luglio 2020, informazioni da Amnesty International secondo cui il cellulare di un giornalista – condannato il 19 luglio a sei anni di reclusione per aver messo in pericolo la sicurezza interna dello Stato – aveva stato infettato da Pegasus. Ma questa falsa informazione non è stata corroborata da alcuna prova…
Rischieremmo di aspettare a lungo – e invano – le prove di Forbidden Stories e Amnesty International in questo nuovo caso se non fosse per la denuncia presentata a Parigi, a nome del Marocco, poiché le associazioni coinvolte ( Amnesty International e Forbidden Stories ) hanno, come fa notare Olivier Baratelli, “dieci giorni, secondo la legge del 1881 sulla libertà di stampa, per fornire le prove che hanno o che non hanno”.
Deve essere chiaro che i media avrebbero interesse a verificare informazioni prive di prove e di elementi tangibili, prima di pubblicare qualsiasi cosa sulla semplice fede di associazioni impegnate e con obiettivi loschi il cui obiettivo è sabotare i rapporti di buon vicinato che il Marocco mantiene con alcuni paesi compresa la Francia.
Mentre la Cina ha il vantaggio dei numeri, gli Stati Uniti hanno vari vantaggi tecnologici e finanziari. L’esercito cinese intende diventare una moderna forza di combattimento entro i prossimi sei anni, ma dovrà superare le sfide dell’addestramento e dell’equipaggiamento.
Un articolo di Ziyu Zhang nel South China Morning Post , 12 luglio 2021. Traduzione di conflitti.
Con l’escalation delle tensioni con gli Stati Uniti, la Cina continua i suoi sforzi per rendere l’Esercito di Liberazione Popolare ( PLA ) una moderna forza di combattimento entro il 2027, il centenario della sua creazione.
Un alto comandante degli Stati Uniti ha definito la Cina una “minaccia prioritaria per il prossimo decennio”. Allo stesso tempo, Washington sta intensificando il suo sostegno a Taiwan, poiché l’isola è sottoposta a crescenti pressioni politiche e militari da Pechino. Gli analisti avvertono che il Mar Cinese Meridionale potrebbe essere il punto focale di un possibile conflitto armato tra le due potenze. Chi dell’Esercito degli Stati Uniti o dell’Esercito di Liberazione Popolare è il più forte, in termini di personale totale, spese militari e capacità terrestri, marittime e aeree?
Con un budget stimato di 778 miliardi di dollari lo scorso anno, ovvero il 39% della spesa militare globale totale secondo i dati diffusi dallo Stockholm International Peace Research Institute, gli Stati Uniti sono di gran lunga i maggiori spendaccioni al mondo in materia.
La Cina, seconda in questa classifica, è molto indietro in termini assoluti, con una spesa stimata in 252 miliardi di dollari.
Tuttavia, alcuni analisti americani hanno avvertito che Washington deve tenere il passo con Pechino. La Cina ha infatti annunciato quest’anno un aumento del 6,8% dei fondi per la difesa, dopo che la spesa era rimasta costante per oltre due decenni.
Forza lavoro: Cina
Con 2 milioni di personale attivo nel 2019 secondo l’ultimo white paper sulla difesa, la Cina ha di gran lunga l’esercito più grande del mondo.
Il piano di bilancio del Pentagono per il prossimo anno distrettuale pone l’esercito americano attivo a 1,35 milioni e i riservisti a 800.000.
Nella guerra moderna, tuttavia, i numeri contano meno della tecnologia e delle attrezzature, ed entrambi i paesi pongono sempre meno enfasi sul loro numero.
Nel 2015, il presidente Xi Jinping si è impegnato a ridurre la forza del PLA di 300.000. Allo stesso modo, il piano di bilancio di Joe Biden per il prossimo anno fiscale prevede riduzioni del personale di circa 5.400 uomini.
Esercito: Stati Uniti
L’esercito cinese è la più grande forza terrestre permanente al mondo, con 915.000 soldati in servizio attivo, quasi il doppio dei 486.000 militari statunitensi, secondo il rapporto 2020 del Pentagono sulla potenza militare cinese.
Tuttavia, le forze di terra del PLA dispongono di attrezzature obsolete e sarebbero in grado di utilizzare efficacemente le armi moderne solo adottando attrezzature migliori o sottoponendosi a un addestramento migliore.
Sebbene la Cina abbia adottato armi automatizzate più leggere e potenti per le sue forze di terra, spostando così gran parte del carico operativo dal lavoro fisico delle truppe alla tecnologia digitale, gli esperti militari affermano tuttavia che l’addestramento non è stato seguito.
Washington ha, con i suoi 6.333 carri armati, la più grande flotta corazzata del mondo dopo la Russia. La Cina completa il podio con 5.800 carri armati, secondo Forbes .
Potenza aerea: Stati Uniti
Gli Stati Uniti d’America mantengono il loro primato con oltre 13.000 velivoli militari, di cui 5.163 operati dalla US Air Force. Tra i loro punti di forza ci sono l’F-35 Lightning e l’F-22 Raptor, che sono tra i jet più avanzati al mondo, secondo il Global Air Force Report 2021 pubblicato da Flight Global.
Allo stesso tempo, l’aeronautica cinese, composta dall’aeronautica militare e dall’esercito navale del PLA, è la terza più grande al mondo con oltre 2.500 velivoli, di cui circa 2.000 utilizzati in combattimento, secondo il China Air Power Report 2020.
L’aereo da caccia stealth più avanzato disponibile per la Cina è il J-20, che è stato sviluppato in modo indipendente come Mighty Dragon . Progettati per competere con gli F-22 americani, questi velivoli utilizzano motori provvisori che ne limitano la velocità e le capacità di combattimento. Ma sono in corso i lavori su un motore turbogetto ad alta spinta in grado di accelerare la produzione di massa di aerei.
I due paesi stanno anche lavorando a nuovi bombardieri. La Cina sta sviluppando il suo bombardiere strategico H-20 e la US Air Force ha rilasciato nuove immagini e informazioni sul suo bombardiere stealth B-21 Raider di prossima generazione.
Potenza navale: Stati Uniti
Secondo un rapporto del Congresso degli Stati Uniti, la Cina ha ora la marina più grande del mondo, con circa 360 navi, rispetto alle 297 della flotta statunitense.
Ma questo vantaggio numerico cinese è valido solo per le piccole imbarcazioni, come le motovedette costiere. Quando si tratta di navi da guerra più grandi, gli Stati Uniti vincono in termini di numeri, tecnologia ed esperienza.
Ad esempio, gli Stati Uniti hanno 11 portaerei a propulsione nucleare che possono volare su distanze maggiori rispetto agli aerei a propulsione convenzionale. Ognuna di queste portaerei può ospitare almeno sessanta aerei.
In confronto, la Cina ha solo due portaerei, Liaoning e Shandong . Entrambi sono modellati sulla portaerei di classe Kuznetsov , progettata negli anni ’80 in URSS. Sono alimentati da tradizionali caldaie a petrolio e trasportano da 24 a 36 caccia J-15.
Tuttavia, la Cina ha un piano ambizioso per eguagliare la potenza degli Stati Uniti nella regione del Pacifico, lanciando due dozzine di grandi navi da guerra, da corvette e cacciatorpediniere a enormi banchine di atterraggio anfibi, tutto solo nel 2019. Prevede di lanciare una terza portaerei dotata delle più avanzate catapulte di lancio elettromagnetiche note, e per iniziare quest’anno i lavori su un quarto velivolo di questo tipo.
Testate nucleari: Stati Uniti
Gli Stati Uniti hanno il secondo arsenale nucleare più grande al mondo dopo la Russia. Dietro la Francia, la Cina occupa la quarta posizione nel mondo in questo settore, secondo il sito americano World Population Review .
Quante testate ha la Cina? Il Paese non lo ha reso noto, ma l’ultimo rapporto del Dipartimento Usa del Pentagono sull’esercito cinese indica che la Cina ha una scorta di testate “attualmente stimate intorno a 200”, dove l’International Institute of Stockholm Peace Research lo stima a 350 quest’anno.
A gennaio, una fonte vicina all’esercito cinese ha dichiarato al South China Morning Post che la sua scorta di testate nucleari è cresciuta fino a 1.000 negli ultimi anni, ma ne sono attive meno di 100.
Tutte queste stime impallidiscono rispetto all’inventario totale degli Stati Uniti, che ha non meno di 5.800 testate nucleari, di cui 3.000 pronte per il dispiegamento e circa 1.400 già posizionate su dispositivi di allerta.
La Cina potrebbe approfittare dell’estensione fino al 2026 del nuovo trattato di riduzione delle armi strategiche tra Stati Uniti e Russia per colmare il divario nucleare. Questo trattato limita sia Washington che Mosca a un tetto di 1.550 testate strategiche schierate.
Missili: Cina
Mentre gli Stati Uniti hanno molte più testate nucleari, la Cina gode di un quasi monopolio in un’area: missili balistici terrestri, che possono eseguire attacchi sia nucleari che convenzionali.
Fino all’agosto 2019, agli Stati Uniti era vietato dispiegare missili balistici e da crociera a raggio intermedio a terra ai sensi del Trattato sulle forze nucleari a raggio intermedio concluso con l’URSS nel 1987.
Due settimane dopo il suo ritiro dal suddetto patto, gli Stati Uniti hanno lanciato una variante terrestre di un missile da crociera lanciato in mare, seguita quattro mesi dopo dai suoi primi missili balistici a medio raggio (IRBM) negli anni 1980. Ma, per al momento, la Cina ha ancora il vantaggio su questo tipo di missili.
L’unico IRBM cinese è il Dong Feng 26 , la cui capacità di effettuare attacchi convenzionali sulla principale base dell’aeronautica statunitense sull’isola di Guam, come attestato dal Center for Strategic and International Studies, gli è valso il soprannome di “Guam Killer” .
Secondo l’International Institute for Strategic Studies, il numero di lanciatori IRBM nell’arsenale cinese è sceso da zero nel 2015 a 72 nel 2020.
Qui sotto un interessante articolo grazie al quale l’autrice Claire Vergerio si pone e ci pone alcuni quesiti riguardo la genesi e il futuro degli stati-nazione. Nel saggio l’accademica ha acquisito un merito particolare nel sottolineare due aspetti spesso trattati nella saggistica, ma altrettanto spesso rimossi sia nella ricerca scientifica che ancor di più nello strumentario ideologico degli attori politici:
il carattere storico dello stato-nazione, la collocazione cronologica precisa, nonché recente, della sua origine e quello ancora più recente del raggiungimento della piena maturità
il carattere coabitativo dell’esercizio delle prerogative statuali con altre forme istituzionali e con altri conglomerati di potere di diversa natura
Una istituzione, quindi, destinata a decadere, come parrebbe in questa fase storica e a morire in un qualche tempo futuro.
Il merito della saggista, tuttavia, si esaurisce rapidamente in questo.
Il suo atteggiamento “aperto” ed attendista riguardo alla probabile e databile fine storica dello stato-nazione prescinde da troppi dati di natura empirica e di analisi qualitativa che fanno propendere invece per una trasformazione delle modalità di esercizio ed un allargamento spaziale ed intensivo delle prerogative statali piuttosto che per una sua paralisi ed estinzione in tempi storici verosimili.
Lo stato-nazione è l’unica istituzione che a tutt’oggi riesce a concentrare, delimitare territorialmente ed estendere l’esercizio del potere politico nei vari ambiti dell’attività sociale umana, da quello duro dell’esercizio della forza e dell’ordine pubblico, a quello culturale ed identitario necessario alla rappresentazione di una realtà credibile e motivante, a quello infine economico sia per vie normative che per intervento diretto. Le altre forme di esercizio del potere, connaturato per altro alla società, assumono un carattere derivato (le organizzazioni internazionali), un ambito particolare di intervento (le ONG, le Multinazionali, ect), una modalità di esercizio meno sofisticata ed adattabile nella sua efficacia (sistemi tribali, imperiali, ect.); caratteristiche peculiari per ciascuna di esse o combinate parzialmente.
In meno di un secolo gli stati, in particolare gli stati-nazione, hanno infatti proliferato a dismisura a seguito della caduta degli imperi, del processo di decolonizzazione con classi dirigenti locali formatesi per lo più in qualche maniera su modelli occidentali, dell’implosione del sistema sovietico.
In questo processo non mancano certo situazioni di crisi, di collasso e di riconfigurazione degli stati.
In esso agiscono tendenze pervasive e di lungo periodo, come l’evoluzione demografica, gli sviluppi tecnologici, la capacità di adattamento culturale le quali rendono sempre più complessi la gestione amministrativa e l’esercizio del potere su vasti territori. In controtendenza sono però proprio la ricerca di potenza e di efficacia, lo sviluppo tecnologico ad essa connessa con il corollario delle risorse necessarie, a richiedere maggiori dimensioni territoriali e demografiche degli stati, tanto più che l’azione geopolitica di questi, di offesa e di difesa, si può risolvere sempre meno a ridosso dei propri confini territoriali.
All’interno di esse agiscono le contingenze politiche e geopolitiche; di fatto la particolare conformazione territoriale degli stati seguita ai processi di decolonizzazione e di dissoluzione degli imperi, la risoluzione contingente dei rapporti di forza geopolitici, la capacità di azione e coesione delle classi dirigenti locali, il dogmatismo ideologico (ad esempio l’applicazione pedissequa dei principi democratici occidentali a società claniche e tribali).
La Vergerio non è la sola a smarrirsi su questa strada; perché non è la sola a dibattersi in un equivoco ricorrente. Al contrario si trova in buona compagnia di una folta schiera di studiosi ed attori politici anche ben più affermati.
Non è lo Stato, al pari di altre istituzioni e strutture quali le multinazionali, le ONG a muovere e sfruttare le dinamiche politiche. Sono i centri decisionali che operano all’interno di esse ad operare in cooperazione e in conflitto tra di loro; più questi centri sono ramificati e riescono ad agire nei vari ambiti e apparati dell’attività socio-politica, più hanno probabilità di essere incisivi ed efficaci; sempre che dispongano dell’intuito e dell’intelligenza necessari a cogliere, orientare e cavalcare l’onda. Coloro che riescono ad agire e muovere gli apparati statali o parti essenziali di essi godono di un particolare vantaggio difficilmente scalfibile se non in una situazione di disgregazione e di declino se non di collasso vero e proprio.
Ogni istituzione, siano esse imprese o stati o clan, per reggersi ha bisogno che i centri decisionali coltivino i necessari processi identitari tesi a garantire coesione e motivazione. Lo stato nazionale, per la sua complessità, ancora più degli altri anche se spesso in maniera più sofisticata ed indiretta. Non si tratta quindi di privilegiare ed individuare in assoluto una forma stato rispetto ad un’altra, quanto di adottare quelle particolarità necessarie a garantire coesione ed efficacia rispetto al campo di azione e all’agone nel quale si vuole o si è costretti ad agire. Su questo ha ragione la Vergerio. Ma è lo Stato Nazionale ad essere ancora, in tempi storici ragionevoli, lo strumento e il luogo di elezione della contesa politica. Più riuscirà a preservare questo carattere, più i centri potranno agire con l’incisività e la tempestività richieste da una competizione sempre più accesa e conflittuale. In questo quadro vanno considerati i temi legati al conflitto sociale, all’eguaglianza, al dinamismo e alla coesione propri ormai non solo di specifici settori politici; con quel parametro devono misurarsi le forze politiche e le élites che fanno degli interessi popolari la ragione della loro azione per avere qualche probabilità di successo.
Con ritardo e con parecchie armi ed argomenti ormai spuntati sembrano essersi accorti di questo anche in Occidente, annaspando qua e là e senza offrire qualcosa di coerente e propositivo e soprattutto incapaci di propinare quella medicina o placebo rassicuranti rappresentati dal successo garantito. I più convinti assertori del buon governo mondiale, tra di essi Habermas, lo hanno sempre affermato: il fondamento sul quale può basarsi un governo mondiale sono pochi principi rarefatti interpretati da pochi saggi. Di fatto il vuoto inquietante così distante da quella democrazia dei quali si ergono a paladini. Buona lettura_Giuseppe Germinario
Oltre lo Stato-nazione
La mitologia della Westfalia, che ha fatto dello stato sovrano il fondamento naturale dell’ordine politico, ha danneggiato la governance globale. Per evitare che i nazionalisti si impadroniscano di questa rappresentazione carente, dobbiamo tornare alla storia per capire quanto sia recente questo paradigma; questa divagazione offre strade per pensare oltre e riscoprire una capacità di immaginazione.
Una delle affermazioni più ripetute sulla politica internazionale riguarda il passaggio da un’era “westfaliana” a un’altra “post-westfaliana”. Molti autori, ricercatori o giornalisti, utilizzano questo quadro teorico per interrogarsi sugli aspetti essenziali di ciò che ci aspetta: quali responsabilità dovrebbero avere le multinazionali nei confronti dei diritti umani1 ? Come si svilupperà la guerra nel ventunesimo secolo?2 Le organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite o l’Unione Europea diventeranno sempre più autoritarie?
L’ordine della Westfalia vede la politica mondiale come un sistema di stati sovrani indipendenti, tutti uguali davanti alla legge. Il resoconto più popolare di questo sistema politico mostra come trasse le sue origini dalla pace di Westfalia nel 1648, si rafforzò in Europa, si diffuse gradualmente nel resto del mondo, per mostrare infine, al termine del XX secolo e all’inizio di questo, segni di imminente declino. Per coloro che condividono questa prospettiva, gran parte del potere che gli Stati un tempo possedevano è stato ridistribuito a varie istituzioni e organizzazioni non statali – che si pensi a organizzazioni internazionali ben note come l’ONU, l’UE o l’Unione Africana, a organizzazioni violente di attori non statali come ISIS, Boko Haram o i talebani, o ad aziende che beneficiano dell’influenza economica globale come Facebook, Google o Amazon. Questa situazione, si sostiene generalmente, si tradurrà in un ordine politico internazionale che assomiglierà all’Europa medievale più che al sistema politico mondiale del ventesimo secolo.3.
Ci sono disaccordi su cosa significhi questo ordine “post-westfaliano”. La questione se sia auspicabile o meno che le organizzazioni internazionali possano intervenire negli affari di Stato è una fonte inesauribile di dibattito. Eppure c’è un vasto consenso sugli eventi della narrazione che ci hanno portato alla situazione attuale. In breve, l’idea westfaliana offre alle analisi dominanti le basi su cui costruire la loro descrizione della politica internazionale.
Il problema con questa rappresentazione è che molto di ciò che racconta è profondamente imperfetto. Negli ultimi due decenni, gli studiosi che lavorano sulla storia dell’ordine internazionale hanno mostrato meticolosamente la disconnessione tra la narrativa della Westfalia e le prove storiche. Lo stato-nazione non è così antico e il suo emergere non è così naturale come spesso si afferma. Comprendere correttamente questa storia significa che abbiamo bisogno di creare un’altra narrazione delle origini del nostro ordine politico internazionale, che ci porti anche a presentare un altro possibile futuro.
Negli ultimi due decenni, gli studiosi che lavorano sulla storia dell’ordine internazionale hanno mostrato meticolosamente la disconnessione tra la narrativa della Westfalia e le prove storiche. Lo stato-nazione non è così antico e il suo emergere non è così naturale come spesso si afferma.
CLAIRE VERGERIO
Queste domande sono cruciali oggi. Mentre il periodo successivo alla Guerra Fredda ha effettivamente consentito l’ascesa di organizzazioni non statali, negli ultimi anni vari leader politici di destra hanno rafforzato la tesi dell’influenza dello stato-nazione. A causa dello spettacolare ritorno del nazionalismo – dalla Brexit a Donald Trump, passando per l’ascesa al potere di Narendra Modi, Jair Bolsonaro o Viktor Orbán – alcuni hanno persino ipotizzato che, dopotutto, l’ultima ora dell’ordine della Westfalia potrebbe non essere arrivata , mentre altri sostengono categoricamente che questo fenomeno sia stato solo l’ultimo spasmo di un sistema morente. Comprendere la storia del sistema internazionale ha implicazioni cruciali per entrambe le posizioni.
A generazioni di studenti di relazioni internazionali è stato ripetutamente detto che fu la Carta paneuropea della pace di Westfalia nel 1648 a creare la struttura politica che ora si trova in tutto il mondo: un sistema statale con sovrani uguali, se non materialmente, almeno in legge. Con questa struttura politica, continua la narrazione, sono emerse altre caratteristiche essenziali, come la dottrina del non intervento, il rispetto dell’integrità territoriale, la tolleranza religiosa, o la consacrazione degli equilibri di potere e l’emergere di una diplomazia europea multilaterale. Pertanto, la pace di Westfalia non è solo una pietra miliare cronologica ma, per così dire, un’ancora per il nostro mondo moderno. Con Westfalia l’Europa entra rumorosamente nella modernità politica e offre il suo modello al resto del mondo.
Negli ultimi decenni, studiosi che lavorano sulla storia dell’ordine internazionale – in una varietà di discipline, tra cui la storia globale, le relazioni internazionali e il diritto internazionale – hanno dimostrato che questa narrativa tradizionale non è solo falsa, ma anche diametralmente opposta alla realtà storica. L’articolo di Andreas Osiander, “Sovranità, relazioni internazionali e mito della Westfalia”, probabilmente l’esempio più ampiamente riconosciuto di questo sforzo di lottare con idee preconcette, è stato pubblicato ormai vent’anni fa.4. Come hanno sottolineato questi studiosi, i Trattati di pace di Westfalia, che posero fine alla Guerra dei Trent’anni (1618-1648) che devastò l’Europa, non menzionano né la sovranità statale né il principio di non intervento, né tanto meno la volontà di riorganizzare il sistema politico europeo. Lungi dal sancire il principio di tolleranza religiosa, più spesso conosciuto sotto i termini di cuius regio eius religio (“a tale principe, tale religione”), che fu messo in atto dal Trattato di Augusta nel 1555, questi trattati lo misero in discussione, giudicando che fosse stato una fonte di instabilità. Inoltre, i trattati non menzionano mai il concetto di equilibrio di potere. In realtà, la pace di Westfalia rafforza un sistema di relazioni che, appunto, non erafondato sul concetto di Stato sovrano, ma al contrario sulla riaffermazione del complesso sistema giuridico ( Landeshoheit ) di cui godeva il Sacro Romano Impero e che autorizzava unità politiche autonome a formare un conglomerato più ampio (“l’Impero”) senza avere un vero governo centrale.
Parte dell’attuale confusione è che tutti i principali trattati di pace firmati nel 1648 sono stati riuniti sotto un unico nome. Quello che spesso chiamiamo Trattato di Westfalia si riferisce in realtà a due trattati: firmati tra maggio e ottobre 1648; si trattava di accordi tra il Sacro Romano Impero e i suoi due principali avversari, ovvero la Francia (Trattato di Münster) e la Svezia (Trattato di Osnabrück). Ciascun trattato riguardava principalmente gli affari interni del Sacro Romano Impero e gli scambi territoriali bilaterali minori con la Francia e la Svezia. Oltre a questi due accordi, c’era anche un altro Trattato di Münster tra Spagna e Paesi Bassi, firmato nel gennaio dello stesso anno e che poneva fine alla guerra degli ottant’anni; ma questo precedente accordo non ha quasi alcun legame con i trattati del Sacro Romano Impero.
Al di là di questa confusione, come ha potuto questa narrazione fuorviante diventare così popolare? La mitologia di questi trattati non prese piede completamente fino all’inizio del XIX secolo, poiché gli storici europei guardavano ai tempi moderni per fabbricare resoconti che sostenessero la loro visione del mondo. Come hanno spiegato i ricercatori Richard Devetak5 e Edward Keene6, gli storici conservatori di questo periodo (in particolare quelli della scuola storica tedesca di Göttingen) volevano dipingere il periodo pre-1789 del continente europeo come un sistema ordinato di stati, caratterizzato da moderazione e rispetto reciproco, e che era stato minacciato dall’imperialismo espansionista di Napoleone. Questa reinvenzione della moderna storia europea faceva parte di un progetto più ampio e ora ben studiato per presentare l’ascesa di un sistema internazionale e di una potenza europea globale in modo tale da sembrare il risultato di un processo lineare, inevitabile e prezioso.7. Gli europei, continua questa storia, furono gli unici ad essere moderni nella loro organizzazione politica, e la donarono al resto del mondo.
Al di là di questa confusione, come ha potuto questa narrativa fuorviante diventare così popolare? La mitologia di questi trattati non prese piede completamente fino all’inizio del XIX secolo, poiché gli storici europei guardavano ai tempi moderni per fabbricare resoconti che sostenessero la loro visione del mondo.
CLAIRE VERGERIO
Come spiega Osiander, è riciclando la propaganda del diciassettesimo secolo che la pace di Westfalia ha avuto un posto d’onore in questa nuova narrativa storica. Nella ricerca sulla storia degli stati che lottano per la sovranità contro il dominio imperiale, gli storici del diciannovesimo secolo hanno trovato esattamente ciò di cui avevano bisogno nei discorsi anti-asburgici che erano stati diffusi dalle corone francese e svedese durante la Guerra dei Trent’anni.
Gli storici del ventesimo secolo hanno ulteriormente approfondito questo resoconto. Come spesso accade con i miti fondatori, un articolo sembra essere stato particolarmente influente, soprattutto nel campo delle relazioni internazionali e del diritto internazionale: il saggio di Leo Gross “The Peace of Westphalia: 1648-1948”, pubblicato nel 1948 nella Rivista americana di diritto internazionale8. Dichiarato “senza tempo” e “precursore” all’epoca, l’articolo celebrava l’emergere dell’ordine del secondo dopoguerra stabilendo una prestigiosa genealogia. Confrontando la Carta delle Nazioni Unite del 1945 con il Trattato di Westfalia, Gross ha ripreso la narrativa dei trattati che reinventano la sovranità nazionale e quindi consentono libertà, uguaglianza, non intervento e tutte le altre presunte virtù. Ha notato, tuttavia, che il testo dei trattati difficilmente rifletteva queste idee, ma ha fatto appello ai principi generali che secondo lui dovrebbero essere alla base di questi accordi. Coloro che, dopo di lui, citarono la sua opera, continuarono la costruzione del mito: nella migliore delle ipotesi, scelsero alcune clausole sugli affari interni del Sacro Romano Impero e le brandirono come le basi di un nuovo ordine paneuropeo.
Sono giunto alla seguente conclusione: il mito è sopravvissuto principalmente perché gli sforzi per confutarlo non sono riusciti a fornire una narrativa alternativa chiara e avvincente. La soluzione alla debacle della Westfalia sarebbe quindi quella di presentare una narrazione alternativa con più accuratezza storica, che riflettesse il processo molto più complesso che ha portato al moderno ordine internazionale.
Ecco, ad esempio, una storia che, sebbene incompleta, è più accurata. Fino alla fine del XIX secolo, l’ordine internazionale era basato su un mosaico di diverse entità politiche. Sebbene si faccia spesso una distinzione tra il continente europeo e il resto del mondo, lavori recenti ci ricordano che anche le entità politiche europee erano relativamente eterogenee fino alla fine del XIX secolo. Mentre alcune di queste comunità politiche erano stati sovrani, altre includevano formazioni composite come il Sacro Romano Impero e la Repubblica delle Due Nazioni (che includevano la Polonia e il Granducato di Lituania), all’interno delle quali i diritti sovrani erano divisi in modi complessi.
In effetti, molto di ciò che diamo per scontato sulla normale organizzazione del sistema internazionale è relativamente recente. Fu solo nel diciannovesimo secolo che lo stato sovrano divenne la norma, poiché entità come il Sacro Romano Impero lasciarono gradualmente il posto a stati sovrani come la Germania. È spesso dimenticato, ma anche l’America Latina ha vissuto durante il periodo una transizione verso un sistema di stati sovrani, in seguito alle sue successive rivoluzioni anticoloniali. Questo sistema divenne in seguito l’ordine di default internazionale attraverso la decolonizzazione negli anni ’50 e ’70, quando gli stati sovrani sostituirono gli imperi in tutto il mondo. Durante questa transizione, sono state prese in considerazione varie possibilità alternative, in particolare – fino agli anni Cinquanta – forme di federazioni e confederazioni che da allora sono in gran parte scomparse. Negli ultimi decenni, lo Stato non solo ha trionfato come unica parte legittima del sistema internazionale, ma ha anche plasmato il nostro immaginario collettivo in modo tale che siamo convinti che questa sia stata la norma dal 1648.
Negli ultimi decenni, lo Stato non solo ha trionfato come unica parte legittima del sistema internazionale, ma ha anche plasmato il nostro immaginario collettivo in modo tale che siamo convinti che questa sia stata la norma dal 1648.
Fino al 1800, tutta l’Europa a est del confine francese non assomigliava per niente a quella che è ora. Come descrive lo storico Peter H. Wilson nel suo recente libro Heart of Europe (2020), il Sacro Romano Impero, a lungo snobbato dagli storici degli stati-nazione, aveva allora mille anni.9. Al suo apice, rappresentava un terzo dell’Europa continentale. Continuerà ad esistere per altri sei anni prima della sua dissoluzione sotto la pressione delle invasioni napoleoniche e la sua temporanea sostituzione con la Confederazione del Reno (1806-1813), sotto la dominazione francese, poi dalla Confederazione germanica (1815-1866).
Quest’ultima era per molti versi simile al Sacro Romano Impero e difficilmente somigliava a uno stato-nazione. Gran parte del suo territorio si sovrapponeva – in modo cosiddetto “premoderno” – al territorio della monarchia asburgica, altro “stato composito” che iniziò il suo processo di accentramento prima del Sacro Romano Impero ma che, fino alla fine dello stesso diciannovesimo secolo somigliava poco a uno stato-nazione. Si consolidò e terminò nell’impero austriaco (1804-1867), poi nell’impero austro-ungarico (1867-1918); ma l’accordo del 1867 concesse all’Ungheria una notevole autonomia e di fatto la autorizzò a governare il proprio piccolo impero. Intanto, più a sud, quella che chiamiamo Italia era ancora un insieme di regni (Sardegna, Due Sicilie, Lombardo-Veneto sotto l’autorità della corona austriaca), ducati (in particolare Parma, Modena e Toscana) e stati pontifici, mentre i territori più a est erano governati dall’Impero ottomano. Fu solo verso la metà del XIX secolo che la mappa dell’Europa iniziò ad assomigliare a un gruppo di stati-nazione: Belgio e Grecia apparvero nel 1830, mentre l’unificazione italiana e tedesca non furono completate che solo nel 1871.
Siamo abituati a pensare all’Europa come al primo esempio storico di un sistema di veri Stati sovrani, ma in realtà l’America Latina è arrivata a questa forma di organizzazione politica nello stesso periodo. . Dopo tre secoli di dominazione imperiale, la regione ha visto una ridistribuzione della sua geografia politica a causa delle rivoluzioni atlantiche della fine del XVIII secolo e dell’inizio del XIX secolo. Seguendo le orme degli Stati Uniti (1776) e di Haiti (1804), conobbe una serie di guerre di indipendenza, tanto che nel 1826, con poche eccezioni, gli spagnoli e i portoghesi furono completamente espulsi. Ovviamente, La Gran Bretagna ottenne rapidamente il controllo del commercio nella regione attraverso una combinazione aggressiva di misure economiche e diplomatiche, spesso definita “impero informale”. Tuttavia, ora interagiva con stati formalmente sovrani.
Durante il resto del secolo, le strutture di sovranità federale emerse a seguito dell’indipendenza, la Grande Colombia (1819-1831), la Repubblica Federale dell’America Centrale (1823-1841) e le Province Unite del Rio de la Plata (1810-1831) – affondarono in sanguinose guerre civili che durarono per decenni, mettendo le regioni contro i governi centralizzati e portando a numerosi tentativi di ricostruire conglomerati politici più grandi. Così, come nell’Europa occidentale, non è stato fino alla fine del diciannovesimo secolo che la regione si è stabilizzata in un sistema di stati-nazione simile a quello che è oggi. Sembra ora possibile offrire una narrazione simile per il Nord America, come propone la storica Rachel St John nel suo progetto attuale,Gli Stati immaginati d’America: la storia non manifesta del Nord America del XIX secolo .
Gli imperi, ovviamente, continuarono a prosperare nonostante la crescente popolarità degli stati nazionali. Fino alla seconda guerra mondiale, il mondo era dominato dagli imperi e dalle strutture eterogenee di autorità politica che creavano. Quando la decolonizzazione iniziò dopo il 1945, lo stato-nazione non era l’unica possibilità. In Worldmaking after Empire (2019), Adom Getachew descrive il “momento federale” dell’Africa anglofona, quando i leader dei vari movimenti indipendentisti del continente hanno discusso della possibilità di organizzare un’Unione degli Stati africani nella regione e una Federazione delle Indie Occidentali nei Caraibi10. Modellandosi sugli Stati Uniti, che offrivano l’esempio di una florida federazione post-imperiale, giocarono poi con l’idea di uno Stato federale centralizzato, ma non riuscirono a mettersi d’accordo con chi preferiva una federazione meno restrittiva, che avrebbe lasciato più potere decisionale e sovranità nelle mani di ciascuno Stato.
Fino alla seconda guerra mondiale, il mondo era dominato dagli imperi e dalle strutture eterogenee di autorità politica che creavano. Quando la decolonizzazione iniziò dopo il 1945, lo stato-nazione non era l’unica possibilità.
Per quanto riguarda le colonie africane francofone, la deviazione dal modello dello stato-nazione è stata ancora più notevole. Come ha descritto Frederick Cooper in Cittadinanza tra impero e nazione (2014), il trionfo finale dello stato-nazione qui è il risultato dei disaccordi tra il governo francese nella Francia metropolitana e i leader e pensatori africani che hanno guidato il processo di decolonizzazione.- da Mamadou Dia , il Primo Ministro del Senegal, a Léopold Sédar Senghor, uno dei teorici della negritudine11. Inizialmente, la conversazione si è concentrata su formazioni politiche che non erano né imperi né stati-nazione, ma federazioni e confederazioni che vedevano la cittadinanza come un insieme di diritti che non si sovrapponevano necessariamente allo status di nazione. L’idea prevedeva una federazione di nazioni, non una federazione come nazione, come gli Stati Uniti. Ogni comunità avrebbe il proprio governo e la propria identità, ma le varie comunità agirebbero insieme e offriranno una forma condivisa di cittadinanza all’interno di uno stato multinazionale.
Questa forma di “anticolonialismo antinazionalista” si trovò infine di fronte al rifiuto del governo francese di distribuire le risorse della metropoli all’interno di una rete estesa di cittadini. Eppure dovremmo soffermarci un attimo sul fatto che se ne sia discusso seriamente. Naturalmente, nel contesto della decolonizzazione, il trionfo dello stato-nazione ha rappresentato una vittoria definitiva per i popoli colonizzati contro i loro oppressori di lunga data. Ma ha anche reciso il legame tra regioni e storie condivise e ha creato le proprie dinamiche di oppressione, principalmente per coloro a cui è stata negata l’opportunità di stabilire il proprio stato: popoli indigeni, nazioni senza stato, minoranze12. Lo strapotere di queste costruzioni statali, che hanno quasi completamente spazzato via le popolazioni indigene in insediamenti come gli Stati Uniti e l’Australia, è stato avvertito anche in situazioni in cui la costruzione dello stato era un’arma contro l’impero. Se è vero che i deboli hanno prevalso, e giustamente, a volte è stato a scapito di quelli ancora più deboli.
Poteva andare diversamente? Le analisi controfattuali sono un gioco pericoloso nel pensiero storico. Ciò che è chiaro, tuttavia, è che appena settant’anni prima, quello che oggi vediamo come un modo ovvio di organizzare le comunità politiche era solo uno dei tanti disponibili nel nostro immaginario collettivo.
Quest’altro resoconto di come siamo arrivati all’ordine internazionale moderno ha importanti implicazioni sul modo in cui vediamo il passato. Ha anche gravi conseguenze per il modo in cui pensiamo al presente.
Innanzitutto, ci costringe a ripensare alle cause della stabilità internazionale. La narrativa usuale associa l’ordine internazionale all’esistenza di un sistema di stati sovrani, ma la storia alternativa suggerisce che il periodo successivo al 1648 fu caratterizzato dalla sopravvivenza di varie comunità politiche. Per quanto riguarda il continente europeo, il Sacro Romano Impero è l’esempio più eclatante di tale comunità politica, che continuò a sperimentare diverse forme di aggregazione dei diritti sovrani fino al suo crollo nel 1806. Pertanto, la relativa stabilità del periodo seguente al 1648 può essere dovuto più alla diversità delle comunità politiche nel continente che alla presunta comparsa di un sistema omogeneo di stati-nazione. Ordine internazionale nella diversità (2015)13. Questo periodo suggerisce quindi che un sistema internazionale in cui il potere è condiviso tra diversi tipi di attori potrebbe rivelarsi relativamente stabile.
La consueta narrativa associa l’ordine internazionale all’esistenza di un sistema di stati sovrani, ma la storia alternativa suggerisce che il periodo successivo al 1648 fu caratterizzato dalla sopravvivenza di varie comunità politiche.
D’altra parte, prendere sul serio questa narrativa alternativa ci costringe a ripensare a come vediamo oggi l’influenza degli attori non statali. Se si dovesse citare solo un esempio, anche le più potenti multinazionali contemporanee – Facebook, Google, Amazon, Apple e le altre – sono molto più limitate nei loro poteri formali rispetto alle famose compagnie mercantili, che furono attori centrali nel panorama internazionale ordinato fino alla metà del XIX secolo. Le due più importanti, le Compagnie delle Indie Orientali britannica e olandese, fondate rispettivamente nel 1600 e nel 1602, accumularono uno straordinario potere nei loro due secoli di esistenza, divenendo le prime promotrici dell’espansione imperialista europea.14. Quando queste società hanno iniziato come imprese mercantili che cercavano di unirsi alla redditizia rete commerciale asiatica, hanno gradualmente formato piani più ambiziosi e, dai loro avamposti in India e Indonesia, sono diventate vere comunità politiche autonome. Erano, come ora sostengono vari studiosi, “azienda-stati”, attori ibridi sia privati che pubblici, che erano legalmente autorizzati a governare su sudditi, coniare denaro e fare guerre. Da questo punto di vista, gli attori non statali contemporanei sono ancora relativamente deboli rispetto agli stati che monopolizzano ancora il potere formale più di qualsiasi altro attore del sistema internazionale.
La stratificazione della sovranità all’interno di comunità politiche come l’Unione Europea, l’emergere del potere delle multinazionali, l’importanza di gruppi violenti che non sono considerati “Stati”, nessuno di questi sviluppi è fondamentalmente in atto. hanno lavorato negli ultimi 373 anni.
L’intervista che il ricercatore di scienze politiche Francis Fukuyama ha rilasciato a Noema è rivelatrice al riguardo.15. Quando gli è stato chiesto se trovasse lo stato-nazione ora inadeguato di fronte alle questioni più urgenti del mondo, Fukuyama ha riconosciuto che tali “sfide non possono essere affrontate dai singoli stati”. Ma, ha continuato, “quante di queste sfide potrebbero essere affrontate se gli stati esistenti lavorassero insieme meglio?” “. La rivista riassume così questa prospettiva: “Di fronte alle sfide globali, lo stato-nazione è sia il problema che la soluzione”. Persino i pensatori che desiderano limitare lo stato-nazione non riescono a liberarsi dalla camicia di forza dello stato che limita l’immaginazione politica contemporanea. I dibattiti sulle istituzioni sovranazionali soffrono di un’analoga ristrettezza: dovrebbe essere concesso più potere agli Stati o alle organizzazioni internazionali, che,in definitiva , sono fondamentalmente basati su questi stessi stati? Nel bel mezzo di una crisi globale, che si pensi al COVID-19 o all’emergenza climatica, è necessario trovare possibilità alternative alle nostre visioni logore.
Quindi c’è molto di più in gioco nelle nostre discussioni sull’ordine internazionale che imbrogli sulla periodizzazione storica. La rappresentazione sbagliata della storia del sistema internazionale avvantaggia gli uomini forti del nazionalismo, che si vedono come salvare il mondo dal crollo nell’anarchia che deriverebbe dall’assenza di Stati, e dal controllo delle multinazionali che se ne fregano delle alleanze nazionali. Più in generale, comprendere bene questa storia significa impostare il quadro giusto per le nostre discussioni. Concedere il potere ad attori diversi dagli Stati non è sempre una buona idea, ma bisogna respingere il falso dilemma tra il ritorno del nazionalismo da una parte e il trionfo delle entità non democratiche dall’altra.
Quindi ora è il momento di sfruttare una comprensione più accurata del nostro passato per immaginare un futuro meno distruttivo. Avere un resoconto alternativo della nostra traiettoria in questo modo non ci offre alcuna soluzione preconfezionata, ma apre la strada a considerare un ordine internazionale che lasci spazio a una maggiore diversità delle comunità politiche e che ristabilisca l’equilibrio tra i diritti degli Stati e diritti di altre comunità. La norma oggi è che gli stati hanno molti più diritti di qualsiasi altra comunità – dai popoli indigeni ai movimenti sociali transnazionali – semplicemente perché sono stati. Ma perché questo dovrebbe essere l’unico quadro teorico per il nostro immaginario collettivo non è affatto ovvio, e tanto meno se la sua legittimità si fonda su una storia del sistema internazionale a lungo confutata. Il mito della Westfalia ha infine gravemente ostacolato la nostra capacità di immaginare in modo creativo risposte alle sfide globali che trascendono sia i confini che i livelli di organizzazione del governo, risposte che possono essere date a diverse scale, quartiere, villaggio o dalla città alle istituzioni internazionali.
Poiché il tempo che abbiamo a disposizione per immaginare modi più sostenibili di organizzare il nostro mondo sta ovviamente iniziando a esaurirsi, mettiamo fine a questo mito una volta per tutte.
L’AFFIORAMENTO DEL RIMOSSO. In psicologia, la rimozione è il confinamento nelle segrete della psiche di qualcosa che disturba. Il “qualcosa” disturba probabilmente la coerenza della nostra immagine di mondo dello stato cosciente dove per “immagine di mondo” intendiamo l’insieme delle logiche e dei pensieri (convinzioni, giudizi, verità etc.) che animano la nostra mente, quindi noi, almeno nello stato di veglia ossia di coscienza. Ma laggiù nelle segrete della psiche, i guardiani non sono poi molto efficienti, i chiavistelli non sono ben fissati.
Così, sebbene il rimosso sia confinato e spinto nel fondo buio, a volte si ripropone, come avviene con ciò che non si digerisce ovvero ciò che disintegriamo per esser assorbito e così cessare di esistere. Il “rimosso”, non potendo esser digerito, rimane vivo anche se ostracizzato e quindi può sempre tornare a disturbare. Questo è detto “affioramento”, ritorno in superficie di ciò che si tentava di affondare per sempre. Il rimosso di cui vorrei occuparmi è il concetto di “culture”.
Le “culture” sono modi di pensare e di fare comuni ai gruppi umani che condividono una medesima immagine di mondo. A grana grossa, questi “gruppi umani” sono popoli, umani che vivono da tempo assieme in un certo territorio. Prima che esistessero le città stato e poi i regni e gli imperi alla nascita delle società complesse cinquemila anni fa, esistevano proprio le “culture”. Lo sappiamo perché scavando, in archeologia, abbiamo trovato segni di comune cultura materiale non potendo avere reperti di quella immateriale. Le “culture”, in antichità profonda, emergono in certi territori dove l’interrelazione umana, a livello di individui e gruppi, era maggiore (più intensa, più frequente) di quanto individui e gruppi avessero con l’area esterna. Dovendo avere a che fare gli uni con gli altri, sistematicamente, si venne a condensare una cultura condivisa poiché per avere a che fare gli uni con gli altri, ci vuole appunto una condivisione di alcuni elementi di quadro generale, una comune immagine di mondo.
Le “culture”, nell’era moderna che qui definiamo storicamente quindi quale quella europea successiva al medioevo, all’incirca da dopo il XVI secolo (ma essendo una lunga transizione c’è chi ne segna l’esistenza prima o dopo), sono state a lungo un problema. O meglio. Da settanta anni pensiamo siano un problema avendo diagnosticato che il conflitto endemico intra-europeo che per secoli operò incessantemente culminando nel suicidio in due puntate del doppio conflitto mondiale, era mosso appunto dal fatto che i popoli tali definiti per relativa diversità culturale, erano mossi alla reciproca aggressione e tentativo di preminenza, proprio dal fatto che avevano diversa cultura, diversa immagine di mondo. Abbiamo quindi tentato di rimuovere l’esistenza delle “culture”, sperando che in loro assenza manifesta, ci si potesse divincolare dalla coazione a ripetere del conflitto. Ma l’operazione è insensata.
Le “culture” sono epifenomeno dell’esistenza dei popoli, occorrerebbe quindi eliminare i popoli (ovvero le loro distinzioni relative), non è che i popoli spariscono perché si tacitano le loro espressioni culturali. Oppure, si sarebbe dovuto prender il toro per le corna e cercar meglio di capire come i popoli, pur diversi tra loro, possano convivere senza far delle loro obiettiva differenza, motivo di conflitto. Certo non si risolve il problema rimuovendo la loro espressione culturale. Infatti, puntualmente, ecco che le diversità culturali affiorano dalle segrete in cui le si erano confinate pensando che lontane dagli occhi, lontane dal cuore (e dalla mente).
Ciò che rompe i tentativi di contenimento del rimosso è una forte emozione. La rimozione è logico-razionale sebbene spinta da ragioni -in fondo- emotive e le catene logico-razionali sono assai fragili quando sono investite da forti onde emotive. Infatti, coi recenti campionati europei di calcio, ecco riproporsi le forti onde emotive, la rottura dei confinamenti logico-razionali che tentavano di cancellare l’esistenza delle culture, l’affioramento del rimosso, con scandalo. Scandalo per l’eterno ritorno del tribalismo nazionale che pare prerogativa della mentalità maschile. Infatti, tra i vari tentativi di rimozione, c’è anche il fatto che evolutivamente erano gli uomini i guardiani del bordo esterno, molto più propensi a ragionare per codici del “noi” vs “voi”.
Diffusa ignoranza pensa che queste faccende “culturali” siano immateriali quindi facilmente cancellabili per gesto di volontà, quando invece il “culturale” emerge dal “neuronale” ovvero da precise strutture fisiche (bio-chimiche). Cambiare comportamento, smettere di fumare, dimagrire, emanciparsi dalle tossicodipendenze, cambiare idea o peggio “sistemi di idee” per non parlare di “sistemi di pensiero” che presiedono l’azione, è così difficile proprio perché le strutture fisiche (mentali e corporali) non si spostano o cancellano facilmente. Più o meno il tempo che hanno impiegato per formarsi è il tempo che sarà necessario per s-formarle o ri-formarle anche se in questo secondo caso c’è sempre il pericolo dell’affioramento del rimosso.
Così, gli Antichi Greci avevano scoperto utile sospendere il loro eterno conflitto tra città-Stato indicendo periodicamente le Olimpiadi, la guerra sublimata nell’agone sportivo con grandi risparmi di sangue umano e distruzione materiale. Ogni atleta diventava il “nostro miglior cittadino”, noi stessi ma nella versione potenziata, tant’è che gli si erigevano statue in caso di vittoria, tributandogli anche molti altri onori materiali per tutta la durata della loro vita. Così oggi ci sentiamo tutti un po’ Berrettini ed un po’ Chiellini o Bonucci, anche se chi come me è interista, su questa ultima coppia ha processi di identificazione contrastati. Siamo certo della stessa cultura italiana, ma di due tribù fondamentalmente rivali. Ma buonsenso vuole che il senso di tribù maggiore (italiani) subordini quello minore (questa o quella squadra) e così sia, almeno per una settimana.
Divertente quindi notare come il Regno Unito, come tutti i Paesi che ostentano questa “unità” nel nome (Stati Uniti, Unione Sovietica, Emirati Arabi Uniti, a suo tempo Province Unite etc.), non lo siano affatto. Una gioiosa “schadenfreude” (piacere procurato dalle sfortune altrui) ha prima animato scozzesi ed irlandesi del Nord, poi anche gallesi che pure dovrebbero ritenersi assimilati almeno dal Cinquecento in quanto i primi sono popoli indigeni dell’isola addirittura pre-indoeuropei, mentre i secondi e terzi sono di derivazione celtica. Gli angli ed i sassoni invece, sono gli uni di origine danese, gli altri di origine germanica, migrati a forza in quel della Britannia lasciata a sé stessa dal ritiro dei Romani. Popoli barbari ed assai pugnaci, non civili, che divennero le élite dei successivi inglesi, quindi l’aristocrazia, i famosi “baroni” di cui si occupa un buon terzo del Levitano di Hobbes.
Tutte le aristocrazie europee sono per lo più derivate dai barbari invasori. Ancora oggi, la Gran Bretagna, ha una camera “alta” “House of Lords”, derivata dai conflitti tra baroni e monarca del 1215 (Magna Charta), con 680 pari a vita nominati dalla Corona, 84 addirittura con diritto ereditario e 26 vescovi. Dalla riforma del 1999 discutono come eliminare questa anomalia che confligge con il senso moderno, ma invano. Non legiferano ma hanno molti modi per influire sui destini politici britannici (tra cui la Brexit dal punto di vista della riottenuta autonomia a fini di nuovo globalismo ex Commonwealth), quella Gran Bretagna che è per alcuni patria di quello che molti chiamano “capitalismo” e che altri pensano addirittura esser patria della moderna “democrazia” avendo, in entrambi in casi, una certa confusione definitoria dei due concetti.
In una sperimentale psicologia dei popoli, si potrebbe diagnosticare per gli anglo-sassoni un ineliminabile senso di inferiorità a cui fanno diga con un manifesto senso di superiorità che li rende, obiettivamente, poco simpatici. Si ricordi che furono spesso inglesi le prime teorie “scientifiche” della razza (gli anglo-sassoni si sentono “ariani”, la famiglia reale è di origine tedesca sebbene abbia cambiato nome d’origine solo durante la Prima guerra mondiale adottando il nome di Windsor rimuovendo quello vero che recitava Sachsen-Coburg und Gotha e del resto, il principe William è un esemplare dolicocefalo), così come l’idea che fosse naturale il predominio di classe (darwinismo sociale). Infatti, è assai probabile che la citata “schadenfreude” più che comprensibile per le vittime dirette dell’obbligata convivenza nelle due isole dei vecchi britanni, si sia l’altra sera estesa a larghe parti del mondo come ammette un articolo scritto da un keniano su Al Jazeera ripreso da Internazionale.
L’inferiorità è data dal loro lungo dover subire, a loro volta, il senso di superiorità dei civilizzati che li hanno a lungo considerati barbari, quali erano in effetti. In un esercizio di storia controfattuale, chissà quanti tra colo che ne hanno subito le angherie hanno immaginato cosa sarebbe successo se i Romani non si fossero ritirati lasciandogli spazio libero da riempire.
Be’, l’altra sera, nel grande romanzo popolare della storia delle culture, i discendenti dei Romani li hanno sconfitti in quel di Londinium, privando loro di una gioia, regalata invece ai molti che ne hanno vastamente e lungamente subito l’indubitabile egoistica ed arrogante potenza.
Anche questa è “cultura”, certo “popolare”, ma molti amanti a parole del popolo farebbero meglio a coltivare di più le connessioni sentimentali con quel “popolo” che vorrebbero emancipare senza diventare quindi una nuova aristocrazia. Sebbene solo intellettuale, sempre della convinzione di essere i migliori (àristoi), si tratta.
Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden e il cancelliere tedesco Angela Merkel si incontreranno giovedì a Washington, dove dovrebbero discutere questioni come la sicurezza informatica, Nordstream 2 e l’Afghanistan. Ma come spesso accade, i punti dell’agenda ufficiale sono secondari rispetto all’aspetto più importante dell’incontro. Dopotutto, Berlino non è mai stata particolarmente decisiva in Afghanistan, la sicurezza informatica è una minaccia che colpisce tutti i paesi e Nordstream 2 è quasi completato.
Queste ultime due questioni implicano necessariamente la Russia, il che va al cuore dell’incontro. Il vero punto di discussione tra Biden e Merkel sarà quale sarà il rapporto degli Stati Uniti con la Germania e quale sarà il rapporto della Germania con Russia e Polonia. Implicito in queste domande è quale sarà il rapporto della Germania con l’Europa, un argomento che sarà toccato con cautela, se mai, ma che conta più di tutte le altre domande.
L’Unione Europea è stata creata per due scopi, secondo il trattato istitutivo: pace e prosperità in Europa. Il ricordo delle due guerre mondiali perseguitava l’Europa, quindi se il continente potesse trovare un modo per eliminare le distinzioni nazionali della loro importanza, la pace sarebbe possibile, o almeno così diceva la teoria. La strada per trascendere il nazionalismo consisteva nella costruzione di un’unione in cui fosse raggiunta la prosperità universale e con essa un comune interesse europeo. Insieme a questo verrebbe un’identità europea comune, in cui gli stati-nazione diminuirebbero di importanza.
Dal punto di vista americano, l’Unione Europea sarebbe un logico epilogo del Piano Marshall. Gli Stati Uniti avevano incluso nei principi del piano l’integrazione delle economie nazionali europee. È stato un viaggio difficile, poiché il nazionalismo europeo e il sospetto reciproco erano inevitabilmente alti. I francesi in particolare diffidavano dell’integrazione. Ma era importante per gli Stati Uniti, responsabili della protezione dell’Europa occidentale da un attacco sovietico. Per farlo con successo, doveva esserci un ripristino della potenza militare europea e l’integrazione in quella che sarebbe diventata la NATO. Integrazione economica e integrazione militare erano, dal punto di vista americano, inseparabili. La zona di libero scambio europea è nata dal Piano Marshall, è stata ridefinita dagli europei e infine è diventata l’UE.
L’eredità del Piano Marshall era il principio dell’integrazione europea. Ma l’Europa è diventata un’entità in cui strategia militare, politica economica e politica estera non sono coordinate. In termini di politica militare, in Europa ci sono grandi differenze. La Polonia, sempre diffidente nei confronti della Russia, è ossessionata dal proteggersi dalla potenziale aggressione russa. Ad esempio, per il Portogallo, le preoccupazioni della Polonia sono tutt’altro che proprie. Dal punto di vista tedesco, la creazione di una forza militare pari alla sua potenza economica minerebbe la sua economia e ravviverebbe le paure storiche del potere tedesco, entrambe preoccupazioni ragionevoli con la prima dominante. La NATO, che è il quadro sia della politica di difesa europea che delle relazioni transatlantiche, non ha una strategia comune, il che rende la NATO stessa disfunzionale e rende impossibile una forte relazione transatlantica.
Un problema simile esiste all’interno dell’UE. L’UE ha creato prosperità, ma la prosperità non è ugualmente goduta. A differenza delle disparità regionali all’interno di una nazione, queste sono disparità regionali tra le nazioni, che alla fine conservano il loro diritto all’autodeterminazione.
L’UE ha attraversato tre crisi significative: la crisi finanziaria globale del 2008, la crisi migratoria nel 2015 e la pandemia di COVID-19 e i relativi costi economici. In tutti i casi, gli interessi di particolari nazioni si sono scontrati con la strategia stabilita dall’UE. Al momento, le condizioni economiche dei vari paesi della zona euro hanno esigenze contrastanti necessarie per stimolare una ripresa e alcuni membri dell’UE non sono nella zona euro per complicare ulteriormente le cose. La Germania, prima economia europea e quarta al mondo, vuole mantenere un’economia senza deficit e vuole che la Banca centrale europea segua questa strada. La Germania teme l’inflazione. L’Italia e altri Paesi stanno affrontando una profonda crisi economica che richiede, secondo John Maynard Keynes, stimoli massicci e deficit per creare un quadro per la ripresa. Il problema economico della Germania non è quello dell’Italia, ma mentre ci sono molte nazioni nella zona euro, c’è una banca centrale e quindi una politica monetaria. In tutte e tre queste crisi, c’è stata un’ampia diversificazione di interessi e bisogni, e l’UE ha cercato di usare il suo potere per punire i paesi che non erano disposti a seguire la sua politica.
Questo porta quindi a una differenza di strategia. Ad esempio, si consideri Nordstream 2, che fornirà gas naturale russo in Europa e che gli Stati Uniti ritengono renderà l’Europa troppo dipendente dall’energia russa. In passato, i russi hanno interrotto il flusso di energia verso i paesi dell’Europa orientale. Ha avuto poche conseguenze a lungo termine oltre a infliggere paura. Ma in altre circostanze, i russi potrebbero usare questo potere per apportare cambiamenti nel comportamento o addirittura capitolazioni alle sue richieste. I polacchi sono terrorizzati dall’eccessiva dipendenza dal carburante russo, non solo per la loro posizione, ma anche perché temono che altri membri dell’UE possano cooperare con la strategia russa per mantenere il flusso di carburante.
Germania e Polonia sono vicini con una lunga storia. Per la Polonia, Nordstream 2 è una minaccia esistenziale. Per la Germania è un’utile fonte di energia. I tedeschi pensano di poter formare una relazione reciprocamente vantaggiosa con la Russia basata sui trasferimenti di tecnologia tedesca e simili ed evitare la minaccia di avere l’energia tagliata. I polacchi vedono in questo atteggiamento che la Germania non ha interesse per i bisogni polacchi, e così nemmeno la NATO e la burocrazia centrale dell’UE.
Gli Stati Uniti sono inevitabilmente coinvolti in questo problema attraverso la loro adesione alla NATO. Gli Stati Uniti hanno alcune forze in Polonia, ma hanno bisogno di un maggiore coinvolgimento della NATO se sperano di dissuadere con successo la Russia. In pratica non esiste una visione comune della NATO.
Allo stesso modo, non esiste una visione univoca sull’attuale crisi economica. L’intenzione dell’UE era quella di integrare l’Europa. Ciò che ha fatto è cercare di conciliare i diversi interessi dei paesi europei e, in mancanza di ciò, seguire gli interessi dei paesi più prosperi e potenti.
La Germania è il paese più potente d’Europa e il problema che Biden avrà è discernere quale sia la politica europea su varie questioni e se collegare Nordstream alla pressione tedesca sulla Russia e sulla guerra tedesca, e rendere gli Stati Uniti dipendenti dalla Germania per quell’area di sicurezza. Ma poi la Germania deve anche guidare l’UE, che è diverso dal guidare la NATO o definire una strategia per l’immigrazione. La produzione di una strategia europea in queste circostanze è estremamente complessa. La capacità di comprendere quella strategia va oltre la capacità di presunti alleati.
Agli europei piace sostenere che gli Stati Uniti si sono allontanati dalle relazioni transatlantiche. Il fatto è che cercare di capire la politica di difesa, la politica economica e la grande strategia dell’Europa rasenta l’impossibile. L’unica opzione è aggirare queste istituzioni e trattare con i singoli stati. Naturalmente, questi stati sono vincolati dalla realtà di essere parte di questo caos. Zbigniew Brzezinski una volta ha detto che il problema nel trattare con l’Europa è trovare il numero di telefono dell’Europa. Direi che non gli Stati Uniti hanno voltato le spalle all’Europa, ma che l’Europa ha adottato un processo decisionale progettato per evitare di fare chiarezza su quale decisione ha preso.
In un mare a stelle e strisce troppo impervio viaggia una nave malconcia con nuove falle da chiudere e un capitano inebetito alla guida. La ciurma senza polso comincia ad azzuffarsi apertamente e a decidere in proprio. E’ l’immagine dell’amministrazione di Biden che comincia a serpeggiare anche in settori una volta laicamente fedeli al vecchio establishment. Una parte dell’equipaggio, quella derisa e fustigata, si appresta a prendere il timone. Si vedrà se riusciranno a portare a destinazione quel che resta del naviglio oppure se sapranno riportare il bastimento all’antico splendore e alle passate certezze. Dalla riva europea gli spettatori non sembrano cogliere la dimensione del dramma accecati come sono dagli affabulatori e dai cantapanzane. Si stanno smarrendo nelle proprie illusioni; rischiano di perdere i rifornimenti e di bruciare il tempo per costruirsi le proprie navi. Buon ascolto, Giuseppe Germinario
Terminata ingloriosamente l’avventura in Afghanistan al seguito del contingente americano, è in procinto di partirne una nuova in Mali, per ora con la task force Takuba e probabilmente nell’intera Africa Subsahariana al seguito della Francia. Il punto di partenza è diverso. In Afghanistan cominciò tutto con una marcia trionfale, con nobili propositi ostentati e con un desiderio di vendetta necessari a carburare disegni geopolitici complessi. In Mali l’attore principale è da tempo un figlio di un dio minore; cerca di raccogliere i cocci di una impresa infame e fallimentare in Libia nel disperato tentativo di preservare la propria zona di influenza succedanea di un passato coloniale. Le insegne sono le stesse. Si tratterebbe di combattere il terrorismo e il radicalismo islamico; la credibilità è ormai consunta e i mezzi a disposizione sono insufficienti. Quelle motivazioni rischiano addirittura di accecare la lucidità operativa e strategica. La natura dei conflitti in quell’area è soprattutto di origine tribale ed etnica; il vessillo antiislamico rischia di compattare fazioni avversarie tra di loro altrimenti in conflitto. Buon ascolto, Giuseppe Germinario
Questa serie “Romenomics” mira a studiare il commercio nell’antica Roma, includendo alcuni dettagli unici, divertenti e illuminanti, al fine di apprezzare meglio il presente economico.
La Caput Mundi non è sempre stata al vertice dell’economia. Gli 11 secoli di esistenza dell’antica Roma furono quelli di un lungo e faticoso viaggio. Quando fu fondata nel 753 a.C., fece i primi passi come un’ambiziosa rete di villaggi. Successivamente, ha dimostrato la sua potenza politica durante un’inarrestabile espansione repubblicana nel bacino del Mediterraneo per mezzo millennio. Infine, per cinque secoli, fu quell’Impero onnipresente e onnipotente, anche se spesso disfunzionale, che occupò il 25% del mondo conosciuto. Alla fine cadde sotto il peso della propria decadenza morale, politica ed economica dopo la deposizione nel 476 dell’ultimo imperatore d’Occidente, Romolo Augustolo, da parte di invasori barbari.
Proprio come studiamo ancora il latino per comprendere meglio la nostra lingua moderna, riflettere sull’economia antica è utile per comprendere alcune delle leggi economiche fondamentali dei mercati e dei relativi sistemi culturali, che sono sopravvissuti fino alla stessa Città Eterna.
Avvertimento : Molte persone credono ingenuamente nella gloria dell’antica Roma. Vedendola attraverso un prisma di archi trionfali, palazzi di marmo, vasti fori [1] e iconici busti di uomini che hanno portato ordine, pace e prosperità in un’era primitiva della storia umana, sono abbagliati. Lo pensiamo anche noi, sapendo che la Roma pagana non era nell’insieme migliore, almeno moralmente e spiritualmente, dei cosiddetti barbari da essa conquistati.
Spesso, l’antica economia romana è essa stessa osservata attraverso questi occhiali idealistici. Non c’è dubbio che abbia creato il primo Commonwealth operativo transcontinentale e che abbia rappresentato il primo vero tentativo di globalizzazione, ma non si può dire che la sua vita commerciale sia sfuggita a tutte le crisi o che sia stata diretta con mano divina da guru degli affari.
È tuttavia affascinante osservare il funzionamento e, a fortiori , l’efficienza dell’economia romana in un tempo così lungo, con un flusso costante di invenzioni, connessioni e creazione di ricchezza su tre continenti. Questa serie “Romenomics” offrirà l’opportunità di esaminare diversi fattori importanti dell’economia antica, vale a dire:
Poiché il cuore di qualsiasi mercato funzionante – antico o moderno – essendo il talento umano e la produzione dietro compenso, vale la pena iniziare con una panoramica dei mestieri, delle professioni, delle industrie e dei servizi quotidiani che esistevano nell’antica Roma, compreso il lavoro non retribuito o forzato ( servitù ). A meno che tu non abbia mai aperto un libro di storia antica o visto un peplo come Spartacus, tu sai che la schiavitù rappresentava proporzioni immense della produzione economica romana, per opere private e pubbliche. Si stima che al suo apice, l’Impero Romano avesse un PIL equivalente agli odierni 32 miliardi di dollari. Durante il periodo più intenso di costruzione finanziata dallo stato (strade, stadi, teatri, templi, ingegneria civile), il lavoro degli schiavi ha rappresentato circa il 20-30% dell’attività economica. Questo era particolarmente vero durante i regni di Traiano e Adriano, che costruirono alcuni dei monumenti più antichi di Roma.
Gli schiavi, serviti in latino, fornivano anche una serie di servizi di cui oggi nessuno si lamenterebbe troppo, tanto più che ora sono ben pagati: cucina, parrucchiere, massoterapia, e anche assistenza tecnica a professioni come avvocati, cartografi, ingegneri e persino coloro che hanno aiutato la nomenclatura a mantenere enormi elenchi di nomi e associazioni in rete per politici e l’élite degli affari (molto simile a un antico Rolodex o ai profili dei social network di oggi).
Va da sé che i servi erano chiamati a sfidare la morte negli spettacoli, nei combattimenti di gladiatori e nelle corse dei carri, e nella sicurezza alimentare, cioè nei compiti di garanzia della qualità, quando assaggiavano cibi e bevande per assicurarsi che non fossero avvelenati. Le schiave erano talvolta costrette alla prostituzione o alla sua forma domestica un po’ meno dura, il contubernium , un rapporto in cui un padrone viveva apertamente con il suo schiavo.
Cosa facevano della loro vita i cives , i liberi cittadini? Innanzitutto molti di loro, soprattutto i plebei di rango inferiore, vivevano in condizioni anche peggiori dei servi appartenenti o donati dai nobili patricii , cioè nei bassifondi delle insulae . Hanno dovuto lavorare sodo per raggiungere uno standard di vita molto modesto. I lavori della plebe non erano molto diversi da quelli degli operai o delle piccole imprese familiari di oggi [2]. Gestivano piccoli negozi, chioschi di mercato e taverne, noleggiavano muli, coltivavano piccoli appezzamenti, servivano come “meccanici dei carri armati”, mantenevano stalle e svolgevano compiti di segreteria e logistici. Alcuni erano guide poco pagate, ma il loro lavoro nelle terre straniere appena conquistate era importante. Per la maggior parte, i plebei erano riparatori, fornitori e prestatori di servizi quotidiani di base.
Reddito pro capite nelle province romane. (Credito fotografico: mappe brillanti)
Ma quanto era alto il salario dei plebei? Gli antichi economisti hanno tentato di stimare il reddito pro capite durante il periodo di massimo splendore dell’Impero. Alcuni stimare il reddito annuo di Roma all’inizio del I ° secolo a 570 dollari di oggi. Non è molto, anche se il pane e molti altri alimenti di base fortemente sovvenzionati erano più economici, spesso gratuiti. Quasi l’intero impero viveva ben al di sotto della soglia di povertà. Come oggi, molti redditi sono stati guadagnati “al buio” e non sono stati ufficialmente dichiarati per evitare il tributo (imposta sul reddito). I registri delle entrate pubbliche erano probabilmente imprecisi.
Nel I secolo, i soldati romani potevano guadagnare una miseria o essere tra i salariati più ricchi. Gli imperatori arruolavano ogni anno decine di migliaia di soldati, comandanti e tecnici, mentre Roma si espandeva in uno slancio inarrestabile. Certo, gli stipendi dei militari rappresentavano un pesante fardello per le finanze pubbliche. Un legionario , fante, guadagnava un misero sesterzio al mese. Ma quanto era questo misero stipendio? Cercare di convertire un sesterzio nell’odierna parità di potere d’acquisto (PPP) non è un’impresa facile. Fortunatamente, i romani avevano una sorta di gold standard, poiché siamo in grado di calcolare quanti sesterzi valevano una moneta d’oro ( aureus). Se l’oro è valutato in media, diciamo, di $ 1.200 per oncia troy [3] (che in realtà vale $ 1.700 oggi, a seguito del forte aumento dovuto alla crisi legata al Covid-19), allora una singola moneta di sesterzi era vale $ 3,25 alla conversione di oggi. Citazione da GlobalSecurity.org:
Se consideriamo il valore moderno dell’oro di circa $ 1000 l’oncia, un aureus varrebbe circa $ 300, il denaro d’argento [25 per fare un aureus ] circa 12 dollari e un sesterzio [4 per un denaro] circa $ 3. A metà del 2010, il prezzo dell’oro superava i 1.200 dollari l’oncia, posizionando un aureus a circa 325 dollari, un denario d’argento a circa 13 dollari e un sesterzio [4 denari] a 3,25 dollari.
In ogni caso i soldati romani non potevano vivere con 3,25 dollari al mese. Furono quindi massicciamente incoraggiati a vincere battaglie e conquistare nuovi territori. Ottime prestazioni sul campo di battaglia hanno fruttato loro generose somme aggiuntive, “commissioni”, attraverso la distribuzione del bottino e della guerra. Inoltre, i Legionari ricevevano concessioni terriere esentasse al momento del pensionamento in alcune delle regioni più fertili dell’impero, oltre a cibo, bevande, riparo e vestiti per la durata del loro servizio attivo. Un’altra parte del loro stipendio era il “pagamento in natura”. Infatti, la parola stipendio deriva dalla parola salche significa sale. Perché ? Gli ufficiali di rango inferiore godevano di vantaggi più speciali, come ricevere piccoli sacchi di sale, che valevano all’incirca una paga giornaliera, in cambio della protezione delle strade per le miniere di sale romane o dell’accompagnamento di carovane di sale in province aspre come la Germania. Gli ufficiali più talentuosi e più anziani, come i centurioni che gestivano truppe di un centinaio di soldati, invece, non avevano salari bassi, non lavoravano a fianco e non beneficiavano di incentivi. Erano solo molto ben pagati, fino a 300 sesterzi al mese ($ 10.000).
L’equivalente dello stipendio di un lavoratore oggi era di circa 120 sesterzi (390 dollari) al mese, nella migliore delle ipotesi. Non era ancora molto, quindi le persone che guadagnavano quello stipendio facevano lavori saltuari, come molti ora sono costretti a fare di notte e nei fine settimana. I lavoratori agricoli guadagnavano fino a 150 sesterzi (circa $ 500) al mese, più parte del raccolto e spesso alloggi locali.
Stipendi patrizi mensili molto più elevati venivano concessi all’élite istruita e politica e, allo stesso modo, a coloro che seguivano percorsi professionali che si andavano esaurendo, come professori specializzati, precettori o “allenatori” della famiglia imperiale (8.000 sesterzi), medici (30.000 sesterzi) e proconsoli governatori provinciali e coloniali, che avevano redditi molto alti (82.000 sesterzi al mese).
Per quanto riguarda gli artigiani e le loro PMI, spesso hanno guadagnato molto, soprattutto nelle città. Naturalmente, questi erano profitti fluttuanti e non salari fissi come quelli dei dipendenti di oggi. I piccoli imprenditori potevano quindi avere rendite nette molto allettanti, come quelle di proconsoli e medici, soprattutto se le loro competenze tecniche erano molto richieste (come vasai, gioiellieri, metalmeccanici, mugnai e pellettieri) o se l’amministrazione imperiale li assumeva. Poiché quasi tutti i documenti aziendali (conservati su rotoli di papiro e tavolette di legno) sono andati perduti, è possibile stimare solo una somma tonda di 1.000 sesterzi (circa $ 3.300) di profitto al mese nelle grandi città come Roma, Londinium eNeapolis [4] .
Secondo un antico storico, altri professionisti erano ben pagati, specialmente nelle arti dello spettacolo, sebbene non fossero della stessa specie degli odierni “stipendi di Hollywood”:
“Erano artisti, comici, ballerini e attori, che potevano guadagnare dagli 80 ai 150 sesterzi al giorno [dagli 8000 ai 14.500 dollari al mese] senza contare le spese di vitto e viaggio, e che avevano anche la garanzia di una serie di spettacoli annuali . Certo, gli artisti più famosi potrebbero ottenere molto di più. ”
In sintesi, era possibile vivere molto bene nell’antica Roma, anche se la stragrande maggioranza del populus romanus era estremamente povera.
Sulla base di quanto abbiamo osservato, ci sono alcune leggi economiche che vale la pena considerare.
Innanzitutto, più sei qualificato nel tuo talento individuale e più rara è la tua professione, più è probabile che tu sia generosamente remunerato dal mercato per lunghi periodi di tempo. Nell’antica Roma, un educatore d’élite, un retore come il medico di oggi, era pagato molto più di un professore moderno. Non che fosse più abile nel mondo accademico, ma 2000 anni fa c’erano significativamente meno intellettuali professionisti rispetto a oggi. Oggi i dottorati si contano sulle dita di una mano. D’altra parte, si potrebbe dire che i retori valevano “diecimila” una dozzina!
Un’altra legge insuperabile del mercato è la tendenza ad aumentare la retribuzione in base al costo della vita adeguato nelle aree urbane e suburbane. Il costo della vita corretto di un calzolaio attivo potrebbe essere di 100 sesterzi al giorno a Pompei, ma raggiungere i 200 sesterzi a Roma, ed essere molto inferiore nella Sicilia agraria o nelle province periferiche come la Dacia (Romania), raggiungendo i 20 sesterzi al giorno. In particolare, i calzolai erano più richiesti dove si camminava molto ogni giorno, soprattutto se servivano la fanteria vicino ai castra.militari e cittadini. Di conseguenza, la legge non è necessariamente quella dell’offerta, ma quella della domanda. Questo è ciò che alla fine rende i redditi dei calzolai romani rispettivamente molto più alti o più bassi.
In conclusione, il divario salariale nell’antica Roma era enorme. Era più simile a quello dei moderni mercati ricchi e povericome il Brasile e l’Argentina, dove i quartieri finanziari dei grattacieli corrono lungo le baraccopoli di Rio de Janeiro e Buenos Aires a poche strade di distanza. I differenziali salariali e gli standard di vita erano estremi, soprattutto perché (come nei paesi cosiddetti meridionali di oggi) le possibilità di avanzamento erano minori e più precarie. C’erano tasse soffocanti, corruzione dilagante, criminalità organizzata, scarsa istruzione, mercati neri disconnessi e livelli più elevati di malattie, sfortuna e vincoli geografici estremi. Montagne, paludi, regioni vulcaniche e terremotate potrebbero spazzare via intere economie in un solo giorno. Ricordi cosa è successo a Pompei? Questa antica città sarà una delle protagoniste del nostro prossimo blog:
Questa è la seconda puntata di tre della lettura del libro di Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, uscito per l’editore Meltemi nel 2020.
Nella prima parte è stato trattato il processo di costruzione delle invarianti della ragione liberale e dei suoi caratteri tipici per come emergono dal testo in esame,
In questa seconda parte proveremo a ricostruire la lettura che il libro compie dei “Regimi di ragione” che scaturiscono dalla struttura liberale e neoliberale di pensiero e pratica, quindi della ragione postmodernista,
Nella terza parte, i “Regimi di verità” della ragione liberale verranno mostrati nelle loro applicazioni politiche, ovvero nella particolare forma di politico impolitico che è generato dalla ferrea logica liberale (tanto più forte quando non si vede e ci si pensa avversari).
Venendo alle tendenze ideologiche che strutturano dall’interno il fenomeno neoliberale e cioè a quelle che Zhok chiama i “Regimi” della ragione liberale, ovvero i “Regimi di libertà” o “Regimi di ragione”, si può provare a dire in questo modo: si tratta di un sistema di motivazione o di giustificazioni, ma capaci di dare forma a pratiche sociali reali. Non si tratta meramente di sovrastrutture. Il liberalismo è, in altre parole, profondamente interconnesso con la linea di sviluppo emersa nel lungo periodo anche nel mutare delle condizioni economiche e di quelli che il marxismo chiama “modi di produzione” (‘schiavista’, ‘feudale’, ‘mercatista’, ‘capitalista’). Il testo dice, confermando la propria ambizione, che “affonda le proprie radici in tendenze storiche di lungo periodo”. Frase di enorme portata, a ben vedere, perché nella sua potente metafora naturalista (“radici” e “tendenze”, che rinviano nella loro associazione all’immagine di un seme dal quale scaturisce un albero) sembra confermare un destino. Inoltre, un destino dell’occidente (in quanto, come abbiamo visto, la ‘radice’ più profonda è posta nel linguaggio scritto). Anzi, nella struttura più intima di questo, la forma di scrittura alfabetica come “base di consolidamento dei tratti individuali nei soggetti umani”. La ‘nascita dell’individualismo’ sarebbe dunque una “specificità inizialmente europea” come scrive, e, da questa, scaturirebbe la forma della logica che determina il sorgere di alcune specifiche tradizioni letterarie come la filosofia, la storia, il diritto[1]. Delimiterei questa affermazione, che suona troppo larga, negli scopi del testo e dentro la decisione che lo apre e situa: individuare la linea evolutiva della nostra forma, per come si è materialmente data (ovvero quella che porta al liberalesimo). Bisogna intendersi, l’operazione è di enorme difficoltà, da una parte notare con che cosa si sia fatti è, a rigore, un’operazione impossibile. Siamo sempre dentro la nostra lingua, senza la quale non possiamo pensare, e siamo nell’abitare dei suoi concetti chiave, come, appunto “libertà”, “essere”, “trascendenza”, “immanenza”, “dio”, etc. (ma possiamo parlarne, e aumentarne la comprensione). Dall’altra, l’idea guida secondo la quale ‘la chiave della fisiologia della scimmia è nell’uomo’, che pare implicata qui, presupporrebbe ciò che vuole dimostrare. Si appoggerebbe, cioè, su una sorta di ‘filosofia della storia’ determinista. Sarebbe, con ciò, pacificamente dimostrato che l’individualismo, che esita nella società moderna per effetto delle componenti che Zhok correttamente mette in mostra, sia presente già nella ‘scimmia’ e da questa si sia sviluppato secondo la sua potenza. Anzi, che capiamo la ‘scimmia’ poiché sappiamo come è fatto ‘l’uomo’. Propongo un’alternativa: ‘l’uomo’ è quel che è rimasto e risultato dalle ‘scimmie’ sopravvissute. Non è tanto la fisiologia della ‘scimmia’ che individuiamo, guardando ‘all’uomo’, quanto i tratti di questa che hanno vinto la lotta della vita. E l’hanno vinta magari per caso, per circostanze fortunate, per la fortuna di un giorno. E’ chiaro che l’alfabetizzazione produce un evidente vantaggio cognitivo, come scrive[2], ma che da ciò derivi la nascita ‘dell’uomo’ (ovvero, della autonomia mentale e della libertà individuale come valore centrale), pur essendo collateralmente relazionato al vantaggio citato, deriva dall’inibizione delle alternative che in altri luoghi hanno prevalso. Non è solo nella linea genealogica Grecia-Roma-Rinascimento-Europa moderna che il ceppo indoeuropeo del linguaggio si è propagato.
Prendiamo l’impresa tecnico-scientifica. Nel libro di Andrea è presente una sintetica[3] caratterizzazione della logica scientifica come componente essenziale della “grande convergenza”. In essa la ‘tecnoscienza’ è interpretata come la mira ad una forma di dominio causale (e quindi tecnico) sui processi naturali. Desiderio che si afferma a partire dal XVI secolo e induce una sempre più pronunciata svolta quantitativa ed un vasto processo di ‘razionalizzazione’. Facendo uso della lettura epocale di Koyré e di un testo recente collettaneo[4], individua nell’analiticità, nella manipolazione causale, la matematizzazione, l’obiettivismo (presenti già in Galileo), che nel loro insieme invertono la visione del mondo, lo snodo decisivo di questa svolta. Di qui si può assumere, nel mentre procede un colossale processo storico di secolarizzazione, e quindi di trasferimento della funzione socio-integrativa e di potere della religione, che la “natura” sia dotata di “leggi” le quali non sono presenti ai sensi, ma necessitano di un linguaggio (matematico) per essere comprese. Questa mossa attiva un trasferimento di autorità del quale la ragione liberale è perfetta espressione. Ma il sorgere, o meglio l’affermarsi, proprio in quel secolo e torno di paesi, dell’impresa scientifica è interconnesso strettamente con l’affermazione di una interconnessione tra produzione, scambi commerciali in estensione e correlato sviluppo finanziario che vede il dinamismo di nuovi ceti e lo spostamento progressivo del centro dinamizzante del nascente capitalismo internazionale dal Mediterraneo al Nord Europa. Non è per caso che il primo sviluppo della tecnoscienza sia intensamente presente in Italia, mentre un paio di generazioni dopo si sposti in Inghilterra e Paesi Bassi[5]. Anche qui la ‘scimmia’ che vince fa ‘l’uomo’.
Quel che conta è, alla fine, che di ciò stiamo parlando. Non del fatto che l’individuo altri non lo possano pensare, che non sia possibile storia, filosofia, letteratura, etc… Ma, qui, in questo testo, ci chiediamo noi come lo pensiamo. Tanto basta.
La ragione liberale è dunque connessa in primo luogo a forme di obiettivismo naturalistico, le quali sono da valutare insieme all’ascesa della tecnica e dei processi di ipostasi del mezzo. Nella riflessione filosofica del 900, ad esempio, ha rivestito un ruolo importante questa interpretazione dello sviluppo storico nel quale trova un punto centrale la questione della tecnica o della tecnologia. Interpretata come una sorta di ‘fattore destinale’, una sorta di fatto storico che definisce le forme di sviluppo ancorandole alla ‘volontà di potenza’ della specie umana. Questa interpretazione di grande successo si ritrova da una parte nella “Dialettica dell’illuminismo” di Adorno e Horkheimer, ma soprattutto è rintracciabile nel lavoro di Martin Heidegger e degli autori ispirati a lui, come Herbert Marcuse, Gunter Anders ed Emanuele Severino. Naturalmente l’elenco si può allungare a dismisura, questo è quello proposto a titolo di esempio nel testo. Questa interpretazione di grande successo non viene costruita per caso. Correttamente Zhok ricorda che se si assume questa prospettiva il capitalismo e tutti i suoi processi degenerativi, di tipo sociale e culturale, diventano solo un ‘effetto collaterale’, tutto sommato marginale, di un processo più profondo e molto più lungo nel tempo e lo spazio di progressiva dominazione tecnologica. Questo processo, che ad essere completamente esteso parte con le prime schegge e lance neolitiche e dunque avvolge la specie come tale, sarebbe ricostruito con straordinario abuso di proiezione come assoggettamento della volontà di dominio da parte del soggetto. Con questa ermeneutica novecentesca ‘la tecnica’ viene posta al centro della vicenda storica. Ne consegue quello che era probabilmente uno degli obiettivi politici sin dall’avvio (questi pensieri, all’origine sedimentati nei circoli della ‘rivoluzione conservatrice’ tedeschi[6], neutralizzano frontalmente la prospettiva marxiana). L’economia, per essa l’economia politica, e la società stessa sono poste in posizioni dipendenti da accessorie. Quest’interpretazione conduce per sua necessaria dinamica a spiacevoli implicazioni fataliste che, dal punto di vista sostenuto in questo libro, hanno anche seri limiti di analisi. La tecnica sembra, infatti, l’incarnazione principale di un impulso umano dominante, nominato come “volontà di potenza”, rispetto al quale ogni valore ogni preferenza e inclinazione devono necessariamente venire meno. L’unico motore dell’uomo è quindi la volontà di potenza, ovvero l’acquisizione di una capacità di fare non subordinata a nessun fine che non sia ad essa immanente, da perseguire e non vincolata dall’esterno. Se si segue questa interpretazione la pulsione all’acquisizione del dominio sarebbe propria dell’uomo (dove in alcune versioni femministe ‘uomo’ significa ‘esemplare maschio della specie’), e si incarnerebbe necessariamente nel sistema della tecnoscienza moderna. Ovvero nella grande macchina la quale, a sua volta, farebbe scaturire come prodotto necessario le forme dell’economia capitalistica.
Ma questa lettura è ben lontana da essere ovvia e necessaria. In essa si assumono sin dall’origine le forme dell’uomo hobbesiano: aggressivo, assoggettante, acquisitivo. Una forma di uomo che non è certo sovrastorica.
Se non per il dominio egemonico del pensiero liberale, nel senso situato ed al contempo esteso difeso in questo libro, non si capirebbe per quale motivo tra le diverse ragioni, le diverse pulsioni, i diversi desideri e tra le forme di vincolo ed ordinamento presenti nell’uomo, tra tutte le spinte di tipo gregario affettivo riproduttivo e religioso, proprio la volontà di potenza debba assumere un profilo così dominante e assolutizzante. Solo perché lo ha ora?
In effetti questa visione, che corrisponde alla trasformazione del mondo in una collezione di mezzi neutrali e presenta il mondo stesso come una sommatoria di cose, è strettamente connessa al dominio della scienza, e questa al sistema sociale dominante. La scienza mira ad isolare un sistema di relazioni causali determinate e quantitative, selezionate per poter essere calcolate, stagliate sullo sfondo di un mondo dove vigono leggi inderogabili. Questa visione naturalistica e la traduzione ontologica di questo approccio metodologico cosiddetto scientifico è, naturalmente, di grande efficacia. Ma questa visione è anche insostenibile sul piano fenomenologico. Pone una gerarchia vera e propria di autorevolezza, al cui vertice mette ciò che è prodotto secondo i criteri di accreditamento propri delle scienze della natura, e via via più in basso tutte le altre forme di sapere.
Si tratta, in effetti, di non altro che un’altra espressione della “Ragione liberale”, e secondo la tesi di Zhok insieme a tutto il postmodernismo filosofico che, per certi versi, gli si oppone. La stretta associazione tra liberalismo, ovvero capitalismo, e la tecnoscienza è un’opinione condivisa dalla prospettiva cosiddetta postmoderna in filosofia, ma essa stessa è fondata ideologicamente già a partire da Hobbes per poter escludere la contendibilità razionale di valori. Per derazionalizzare sin dall’inizio la dimensione del senso e del valore, riducendole questa volta a mero sentire e ponendolo nell’ambito dell’interiorità privata. Da questo punto in poi nasceranno le opposizioni tra “ragione” e “sentimento” nel quale la ragione viene isolata dalla sensibilità e dall’emozione dalla preferenza e dal valore e si riduce a una forma di calcolo. Simmetricamente la dimensione assiologica residua è ridotta a qualcosa di razionale e spesso in questa mossa riposa un particolare stile orgogliosamente irrazionale.
L’intera linea oppositiva è però funzionale all’edificio della Ragione liberale per il come è stato esaminato. I soggetti individuali vivono la sfera del valore come inattingibile alle ragioni pubbliche e strettamente privata, e ciò produce una società che non può essere niente più che non somma di individui isolati. Come sostiene Zhok:
“fondamentale per lo sviluppo della ragione liberale è leggere il mondo come risolto nel gioco positivo tra obiettivismo naturalista e soggettivismo emotivista, tra durezza della ragione tecno scientifica e mollezza della interiorità sensibile. La ragione liberale non è identificabile con la ragione contro il sentimento, né con la durezza delle hard sciences di contro la mollezza dell’intimismo emotivista, ma proprio con questa opposizione complementare. Tale opposizione astratta, lungi dall’essere onnicomprensiva, delegittima dati fenomenologici primari: essa cancella la continuità tra la sfera del ragionamento e sfera senziente, così come quella tra valore e realtà, e come la continuità fondamentale tra dimensione individuale e dimensione intersoggettiva”[7].
La riflessione di matrice analitica si è sviluppata in area anglosassone mentre il postmodernismo filosofico essenzialmente in area francese. Esso ha avuto successo e si è sviluppato nella particolare atmosfera culturale susseguente al maggio ’68. Infatti, solo Michel Foucault aveva già sviluppato i tratti di fondo della sua riflessione a quella data, tutti i maggiori rappresentanti del cosiddetto postmodernismo filosofico nascono nel ‘68. Esso incide quindi in maniera decisiva sulla loro elaborazione e determina la loro ricezione e successo. Come continua l’autore, però, per valutare correttamente il retroterra di questo vasto fenomeno bisogna considerare la figura, già durante i primi anni 60, di Sartre che dava a questo atteggiamento un’impronta soggettivistica, storicistica ma politicamente impegnata. Rispetto alla posizione di Sartre il ‘68 francese determina una cesura, in primo luogo, nei confronti del Partito Comunista Francese (che si dimostrò incapace di cogliere ed orientare i fermenti innovativi presenti nel movimento studentesco), in secondo luogo a seguito del riflusso dello stesso processo di mobilitazione. Ne seguì la disillusione della possibilità stessa di superare il capitalismo attraverso le chiavi interpretative fornite dal marxismo.
Queste condizioni generali storiche forniscono le motivazioni ed il movente per una teorizzazione che nonostante abbia molte caratteristiche diverse conserva un’omogeneità di base. Osservando il lavoro di Foucault, Deleuze, Lyotard, Derrida e Baudrillard il testo di Zhok ricostruisce come il soggettivismo e lo storicismo, che caratterizzavano la posizione sartriana, vennero destrutturati e abbandonati. Ciò che si ottenne, alla fine, fu una profonda destrutturazione e dissoluzione dello stesso soggetto (in primis del “soggetto rivoluzionario”) e una fondamentale sfiducia nel senso storico. L’antiscientismo, portato della ‘critica della tecnica’, nella tradizione avviata da questi studiosi si traduce quindi direttamente nel rigetto completo del razionalismo. Quello che viene meno è il tentativo stesso di descrivere lo sviluppo di ‘forme razionali della storia’ e di sostenere le proprie tesi producendo specifiche pretese di verità, sottoponendole alla discussione. Vengono derubricati tutti i concetti chiave: ‘storia’, ‘soggettività’, ‘verità’, ‘identità’, ‘umanità’, ‘stato’, ‘società’, ‘valore’ e da ultimo quello stesso che li radicava, ‘autenticità’. La dimensione soggettiva, che ovviamente rimane operativa, è reinterpretata come ‘soggettività negativa’, cioè come il rifiuto dell’oggettività, rifiuto dei suoi criteri, rifiuto della stabilità e appello alla relatività radicale. Si tratta, a tutta evidenza, di un segno dei tempi[8].
La forma più chiara di questa postura intellettuale è nell’opera di un filosofo abbastanza atipico, che è visto da Zhok come filologicamente leggero ma di grandissima potenza narrativa. Foucault in effetti ricerca nel suo lavoro ragioni profonde negli eventi storici, poste per così dire dietro gli eventi; ragioni irriducibili alle accidentalità. Sorge però una particolare e inaggirabile contraddizione interna, inerente al concetto di ‘verità’ e di ‘finalità immanente’, entrambi svalutati esplicitamente dalle sue opere teoriche ma utilizzati necessariamente nelle narrazioni storiche. Che, altrimenti, andrebbero interpretate come letteratura ed esercizi di stile (molto ben riusciti). È piuttosto curioso che sia possibile produrre, infatti, genealogie storiche con pretese di verità se si dichiara non esistere alcuna finalità immanente nella storia, o qualunque unità di coscienza che la possa individuare, a partire dall’idea stessa di umanità. In sostanza ogni giudizio, e quindi gli stessi giudizi espressi implicitamente ed esplicitamente dall’autore, non potrebbe che rappresentarsi come semplice esito di rapporti di potere. L’esercizio di potere esso stesso non sarebbe buono o cattivo, perché non c’è alcuna verità morale ed alcun senso umano cui questo giudizio possa appellarsi. Né esiste una collettività che lo fondi, perché questa, a sua volta, è solo un prodotto dell’esercizio narrativo stesso. Un effetto del suo “effetto di verità”. Ogni esercizio di potere, dunque, ogni categorizzazione che vi prelude sono ingiustificabili, legittimati in sostanza solo da ciò che eventualmente emerge. La propensione di fondo motivante l’azione di Foucault, persino sul piano biografico, è quindi spinta abbastanza naturalmente verso la rilegittimazione o l’emancipazione di tutte le forme di soggettività tradizionalmente emarginate, come il folle carcerato il pervertito. Se nessun potere si legittima per la maggiore razionalità, l’aderenza a valori, un qualche fondamento sociale dato e preesistente, allora nello scontro delle ‘volontà di potenza’, tutto sommato, non resta che dire che i marginali, i pochi e gli sconfitti hanno un vantaggio di legittimazione. O, almeno, lo possono pretendere più di altri. Al contempo non c’è in Foucault la possibilità di richiamarsi ad alcuna soggettività autentica, e questo sostanzialmente fornisce alle rivendicazioni solo il bersaglio negativo residuale di avversare il potere o le stesse categorizzazioni, ma non lascia nessuna aspirazione positiva.
Questo sforzo è, in altre parole, interamente volto alla distruzione ed ha, per Zhok, un carattere autenticamente critico, ma viene ulteriormente potenziato e portato a livelli ancora più radicali dai successori, a partire da Gilles Deleuze. Deleuze è contemporaneo di Foucault, ma gli sopravvive a lungo. Tuttavia, la sua produzione è tutta successiva al ‘68 ed è sviluppata in collaborazione con Felix Guattari. Per Deleuze l’ontologia non deve più occuparsi d’identità, ma solo di differenze, non deve più puntare a scoprire, ma a inventare. La filosofia è quindi l’arte di formare e di inventare, o di fabbricare, concetti. Per lui “la filosofia non consiste nel sapere, non c’è una verità che la ispiri; Ci sono piuttosto delle categorie come quella di interessante, di notevole o di importante, che decidono della riuscita dello scacco, non prima però di aver costruito”. Questa base che fondamentalmente sembra utile a un esercizio di finzione letteraria, più che per un’indagine filosofica, lo pone al tipo opposto dello stile analitico, evitando anche il confronto argomentativo. Le tesi di Deleuze colpiscono l’unitarietà del soggetto umano, la persona che viene disassemblata in gesti, parole, relazioni. Si determina una sorta di ‘filosofia della differenza’ che predilige il divenire all’essere, il suggerire al dire, la fluidità alla stasi, il nomadismo alla stanzialità.
Stranamente questa impostazione radicalmente fluidificante e piuttosto evidentemente connessa con lo spirito del capitalismo ad essa coeva, per non parlare della lotta ideologica ed imperialista tra i sistemi mondo, è immaginata dall’autore come antiliberale. L’antiliberalismo, immaginato e preteso da Deleuze, parte dall’idea per cui il liberalismo sarebbe in effetti una teoria politica che assume come fondamento l’esistenza di individui razionali, con una propria agenda di interessi e rappresentati da un governo. Secondo questa interpretazione la mossa di minare, danneggiare o distruggere la soggettività unitaria degli individui, la loro razionalità e poi tutte le realtà strutturali distrugge il liberalismo stesso. Ma in realtà, secondo la linea la ricostruzione genealogica prodotta in questo testo, Deleuze non fa con ciò che aderire a uno dei due poli dell’oscillazione liberale. Non fa altro che occupare, cioè, la casella opposta e complementare al razionalismo economico, interpretando le pulsioni anarcoidi ed individualiste di cui si nutre costantemente il sistema di mercato. In concreto, come dice Zhok “il principale contributo delle suggestioni deleuziane sul piano politico è quello di disarmare qualunque opposizione reale allo status quo capitalista, consegnando ogni ‘protesta’ ad una dimensione di ‘trasgressività’ privata, perfettamente compatibile con i più ordinari funzionamenti del capitale”[9].
Invece Lyotard pone sotto attacco quelle che chiama “le metanarrazioni”, ovvero tutti i tentativi di giustificazione e di fondazione del ‘sapere’, del ‘vero’ del ‘giusto’ (la prima “metanarrazione” è il marxismo, ovviamente). Concepisce la postmodernità come “guerra alla totalità” (ad Hegel). Anche qui ciò implica un appello alle ‘differenze’. Non esiste per Lyotard nessun modello autentico o più autentico di società da perseguire, compreso il modello che miri semplicemente alla autodeterminazione democratica. Quello che resta al centro della dimensione politica è lo scontro tra “generi di discorso” o tra “giochi linguistici” reciprocamente incompatibili. La nozione è ripresa da Wittgenstein, ma mutilandola del riferimento alle “forme di vita”, riconducendoli quindi a formulazioni verbali individuali. Se non c’è la società, e neppure il soggetto, restano forme di sfere autoreferenziali autistiche, senza vie di uscita razionali. Resta la minaccia del dissidio, dove per dissidio si intende la prevaricazione dell’uno sull’altro, o l’espressione puramente artistica, la provocazione.
Infine, Derrida che prende le mosse da uno studio della fenomenologia husserliana, ma a partire dal ‘67 prende una particolare strada che lo identificherà come padre del “decostruzionismo”. Al centro della sua riflessione quella forma particolare di segno che è il segno scritto. Partendo da una prospettiva fenomenologica dove “tutto ciò che si manifesta è ciò che è in quanto ha per noi un significato”, ogni manifestazione presente diventa per lui portatrice del suo significato in quanto rimando al non presente. Cioè in quanto rimando a un altro da sé, ad una traccia. Ma questa traccia viene concepita come una sorta di scrittura, che chiama archi- scrittura. Il richiamo alla scrittura essenziale, in quanto segno, rinvia alla negazione frontale di ciò che il più fondamentale degli aspetti della fenomenologia husserliana cioè l’identificazione di diversi livelli di Fondazione. Se si fa venir meno la gerarchia tra la percezione, il ricordo, la fantasia, la gerarchia dei segni, quella dei significati, quella delle evidenze, non c’è più alcun modo di distinguere un ‘significato’ da una ‘verità’. Una volta impostato il funzionamento dei significati in questo modo resta un panorama di un sistema di segni in perenne infinito rinvio, gli uni agli altri, ed ogni cosa diventa leggibile come un testo. Un testo che, però, rinvia solo ad altri testi. L’analisi filosofica diventa così un’indagine intra testuale senza meta e senza finalità. Secondo il punto di vista di Zhok l’opera di Derrida dopo il ‘67 non è interpretabile facilmente come filosofica, se si pensa che la filosofia ha qualche necessario riferimento alla conoscenza (e che la conoscenza rinvia necessariamente a qualche forma di verità). Si tratta, piuttosto, di un’attività intellettuale brillante ed affascinante, configurata come una serie di esercizi che rimangono all’interno del gioco semantico dell’analisi testuale, nel quale diversi concetti estratti dai testi vengono esposti nei loro contrasti e ne viene mostrata la natura relazionale. Un’opera acuta, utile per riflettere su assonanze, sulle associazioni, talvolta sull’origine tipologiche o con fini definitori, ma del tutto inadeguata “a trarre la benché minima conclusione di valore operativo”[10]. A volte Derrida si occupa di autori di peso politico come Marx[11] o di tematiche politiche come la democrazia e la sovranità, ma senza argomentazioni capaci di indirizzare un agente nel contesto di scelte concrete politiche o etiche. In questo senso l’operazione complessiva appare nichilistica.
Naturalmente per Zhok quello che conta non è tanto tentare di confutare autori che, per loro stessa natura e per il modo in cui sono costruiti i loro testi, si sottraggono alla possibilità di essere confutati, in quanto non mettono a disposizione delle tesi e non individuano specifiche pretese di verità argomentata, quanto comprenderne l’impatto etico politico in relazione agli sviluppi della “ragione liberale”. Questi autori sono sostanzialmente accettabili o rigettabili in blocco. A seconda se si condivide il loro spirito antiautoritario e la vocazione ribelle, tendenzialmente aristocratica.
In definitiva secondo il punto di vista di questo testo la riflessione del postmodernismo francese si colloca, ma del tutto inconsapevolmente, all’interno di uno dei due poli definitori della “Ragione liberale”, perché mentre rigetta l’obiettivismo e il razionalismo scientista, che ne è una forma, ricade nel polo complementare del soggettivismo antirazionalistico. Pur se gli autori postmoderni si concepiscono come politici e come militanti anticapitalistici (e sono impegnati nel riconoscimento dell’inadeguatezza del Partito Comunista Francese) giungono alla diagnosi di obsolescenza della intera lezione marxiana, finendo per leggere il capitalismo come un blocco istituzionale complessivo. Identificano la società borghese, lo Stato, i partiti e i sindacati come un’unica struttura unitaria da contestare nel suo insieme. Ogni ricerca dell’efficienza, della razionalità mezzi fini, della verità, sono percepiti come parte di un ordinamento oppressivo da contestare. Le stesse istanze di insofferenza individuale, espresse dalla loro provenienza di classe e dalla tensione di forze borghesi che si sentono escluse dall’accesso al loro ruolo sono trasfigurate come potenza emancipativa. L’intero spettro delle loro aspettative teoriche e politiche è spostato in direzione di un ribellismo soggettivista, che crede di fare qualcosa di politicamente progressivo nell’assumere atteggiamenti relativistici ed antirazionalisti. Questo carattere si traduce in pratica in una fuga da tutte le pretese di spiegazioni, da tutte le teorie di insieme da tutte quelle che chiamano le “grandi narrazioni”. Si traduce nel richiamo al pluralismo politico ed epistemico, che però diventa immediatamente soggettivismo individualista, impermeabile alle esigenze di ogni consenso razionale, ed impermeabile a ogni e qualsiasi teoria generale.
Questa tendenza centrifuga è, a ben vedere, una perfetta incarnazione dell’individualismo liberale classico ed è perfettamente metabolizzabile, e molto facilmente dal clima neoliberale incipiente nel quale si svolge la scena. Ciò anche a causa del capitale sociale di cui dispone la maggior parte degli autori, per provenienza di classe e dinamiche di mercato. Questo rifiuto antiautoritario, cioè il rifiuto di ogni pretesa di verità strutturata, di ogni pretesa universale, si ripercuote sul piano politico, anche al di là delle intenzioni, in un’operazione che disarma completamente la critica teorica. E lascia come solo spazio i meccanismi auto riproducenti del mercato. In sostanza è un’operazione che si pensa come anti-oppressiva, che si immagina come anticapitalistica, e finisce per infiacchire ogni possibilità di contestazione razionale e, dunque, finisce per favorire il potere inerziale dello status quo. Questa parabola siamo in grado di vederla davanti ai nostri occhi proprio ora che essa si è conclusa.
Tutte le analisi apparentemente radicali rivolte ad opzioni marginali, alla ricerca di differenze, al gioco delle frasi, alla decostruzione dei significati, si configurano, alla fine, come un’operazione in grande stile di sterilizzazione e privatizzazione del pensiero. Non consentono di trarre alcuna conclusione fondata che sia intersoggettivamente condivisa sul mondo reale e ostacolano ogni accordo rivolta a favorire una qualsiasi iniziativa collettiva. In sostanza si tratta “di una grande operazione di chiusura nel privato, travestita da razionalità filosofica”[12] .
Apparentemente emerge, soprattutto con lo sguardo dell’oggi, un paradosso: “nell’intento di liberare l’individuo dall’oppressione del potere, delle istituzioni, dello Stato, della società, del capitale, del partito, del razionalismo e della tecnoscienza, questa tendenza culturale ha portato a una completa soggezione e dissoluzione dell’individuo stesso che pensava di liberare”. Nel momento in cui non si può più parlare infatti di autore, di agente razionale, e non si può più parlare neppure di umanità o di natura umana, allora viene a cadere e si dissolve la possibilità stessa di porre la questione circa forme di vita autentiche o inautentiche. Ovvero viene a cadere la possibilità di definire qualcosa come sfruttamento, alienazione, perché non esiste autenticità o alienazione se non il rapporto ad un’essenza umana. In linea di principio la rivendicazione della grande società multinazionale, o del suo management, e quella dei suoi lavoratori precari, sovrasfruttati e sottopagati (purché non parte di quale minoranza riconoscibile e vittimizzata) sono da considerare del tutto equivalenti. Si tratta di “narrazioni” in fondate, quella dell’efficienza comparata verso quella dello sfruttamento. Non esiste, e non può esistere, una teoria della natura umana, una rivendicazione di forme di vita appropriate, sulla quale fare leva per denunciare razionalmente le condizioni imposte.
Se si dissolve il soggetto agente con la sua ragione, la sua natura, allora l’intera dimensione storica scompare dal novero dei concetti rilevanti. Non ci sono più criteri per concepire entità storiche sovraindividuali (e quindi gli Stati, i popoli, le classi, l’umanità tutta) che siano mossi da progetti comuni o da valori comuni.
Il paradosso è, quindi, che il postmodernismo appare una teorizzazione antiautoritaria e libertaria ma, nel farlo, apre alla svolta neoliberale la quale andava nella stessa direzione (contro lo Stato e i corpi intermedi) e, con essa, anche alle sue compressioni della libertà che oggi vediamo ovunque intorno a noi.
Nella Terza Parte, e ultima, vedremo come questa linea genealogica di lunghissimo periodo si traduce, anche sulla scorta del clima postmoderno, in applicazioni politiche, ovvero in un particolarissimo, ed anche qui paradossale, forma di ‘politico impolitico’. Uno stile che è generato dalla ferrea logica liberale (tanto più forte quando non si vede e ci si pensa avversari).
[1] – Qui potrebbero essere rintracciati facilmente alcuni controesempi, ovviamente la filosofia greca ha la sua specificità, ma anche le sue relazioni e debiti con le forme di pensiero antecedenti in regioni nelle quali la scrittura era completamente diversa, come l’Egitto, per dirne uno. O l’oriente medio, nel quale civiltà di grande complessità (e altamente stimate) antecedono di millenni il ‘miracolo greco’. Ma potrebbe essere anche messo in questione la specificità del racconto storico, come proprio dell’occidente. Un esempio di questa diversa interpretazione in Sanjay Subramanyam, “Mondi connessi. La storia oltre l’eurocentrismo (secoli XVI- XVIII)”, Carocci, 2014, ma potrebbe anche essere ricordata la protesta di Amartya Sen, “L’altra India. La tradizione razionalista e scettica alle radici della cultura indiana”, Oscar Mondadori, 2005. O, infine, il lavoro di Francois Jullien sulla filosofia orientale (es. “Trattato sull’efficacia”, Einaudi 1998, ed. or. 1996). Certo, anche il sanscrito in effetti appartiene alle lingue indoeuropee e il mondo arabo, direttamente e dopo per suo tramite quello delle grandi terre di mezzo dei due fiumi, sono talmente intrecciati con la nostra linea evolutiva da poter assumere che il termine posto nel libro sia, in fondo, solo una espressione semplificante. Ma l’antico Egitto, e le lingue dell’estremo oriente, il cinese in specie, non sono affatto del nostro ceppo. Infatti, sono esattamente prese per contrasto (sinteticamente, la tesi è che lingue che si fondano su ideogrammi invece che sulla scrittura fonetica nella quale con pochissimi segni e regole si può creare infiniti nuovi concetti, parole, frasi e testi. Dunque, c’è anche un altro quadro, un’altra filiazione.
[2] – “La mente alfabetizzata si diffonde in quanto consente al soggetto un accesso potenziato all’esperienza, accesso che si converte in una potenziale superiorità cognitiva”. Zhok, p.38
[3] – Alexander Koyré, “Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione”, Einaudi 2000.
[4] – G.Gorham, B.Hill, E.Slowik, C.K.Waters (a cura di), “The language of nature”, London 2016.
[5] – L’analisi dell’impresa scientifica tra 1600 e 1700, prima centrata nel mediterraneo italiano e francese e poi spostata, quale baricentro, al nord, in particolare in Inghilterra, mostra i suoi stretti legami interni con lo sviluppo economico (cosa che non prefigura la direzione causale, ovviamente). Ovvero con lo sviluppo delle classi e degli interessi dell’emergente borghesia commerciale e poi proto-industriale. Laboratori, riviste scientifiche, accademie, sono finanziate da potenti forze private (in Italia) o pubbliche (in Francia). In altre parole, la ricerca scientifica non è affatto, come vorrebbe la retorica dominante, astratta e disinteressata ricerca della “verità”, non è una teologia (anche se in parte lo è, con gli effetti di legittimazione e potere che ne conseguono). La ricerca scientifica è sforzo organizzato di risolvere problemi emergenti e concreti. Nel 1400 e 1500 era stata connessa, in una fase di espansione, con i consumi delle élite: l’astronomia aveva un legame ben rintracciabile con l’arte della astrologia (che durerà fino a Newton); la botanica si connetteva con la farmacologia che offriva i suoi servigi esclusivamente alle classi dominanti, le uniche che potevano pagarne i rimedi; la matematica si sviluppa per gli interessi della contabilità, connessa con l’accumulazione del denaro in mano a banchieri e commerci di lunga percorrenza, in una fase di monetizzazione e finanziarizzazione; a partire dalla “Nova scienza” di Tartaglia (1537) si sviluppa la balistica e poi la cantieristica navale e i connessi problemi di fisica applicata in cui si impegna Galilei. Dalla seconda metà del seicento la scienza mostra la sua efficacia concreta in campi di interesse degli Stati nazione in via di consolidamento e della borghesia commerciale, impegnata ad estendere le rotte e porre le premesse per il dominio coloniale del mondo. Navigazione, costruzione di navi, artiglieria; orologeria, e di qui meccanica, studi sulla velocità della luce per determinare la longitudine in mare aperto, navigazione a vela e calcolo vettoriale, fluidodinamica per rimodellare gli scafi, le analisi di Eulero sulla meccanica dei corpi rigidi per risolvere il problema del beccheggio delle navi, cannocchiale e telescopio, la “aritmetica politica” (ovvero la statistica matematica), sviluppata per le crescenti esigenze di controllo degli Stati e la cartografia… Si veda, ad esempio, Lucio Russo, E. Santoni, “Ingegni minuti. Una storia della scienza in Italia”, Feltrinelli 2010.
[6] – Indubbiamente un così vasto movimento di pensiero ha provenienze molteplici e profondamente radicate, si può fare a lungo l’esercizio di trovarne diramazioni nazionali (es. francesi) o antecedenti. Gli stessi padri della sociologia lo sono in certo senso (in primis Sombart e Max Weber). Alcune di queste relazioni possono essere rintracciate in un contesto di risposta e reazione alla sfida marxiana, e del movimento che ne scaturisce. Anzi, alla doppia sfida del liberalismo politico e del marxismo. Quindi alla concezione lineare della storia, alla critica della Zivilisation, del progresso ed all’americanismo in alcuni esponenti. Gli scritti di Spengler, ad esempio, sulla tecnica ed ovviamente Carl Schmitt ed Ernst Junger.
[8] – Il particolare clima nel quale avvengono queste avventure di pensiero è posto al termine di un ventennio di espansione economica e di trasformazione della società uscita dalla seconda guerra. Un ventennio nel quale l’Europa recupera una posizione economica salda, sviluppando enormemente la propria industria che comincia a competere con quella americana, ma, al contempo, subendo la crescita dei settori intermedi che spingono per avere una risposta all’altezza delle proprie ambizioni. L’influenza delle lotte anticoloniali, da una parte, e delle rivendicazioni delle minoranze di colore nelle periferie (non solo americane), dall’altra, nel contesto di una forte lotta redistributiva, ma anche in qualche frangia radicalizzata, del comunismo cubano e delle repressioni sovietiche nell’Est Europeo, creano un particolare clima antiautoritario che si dirige contro ogni espressione di potere. L’insieme delle ambizioni di ceti intermedi scolarizzati (si è anche in un quindicennio di enorme espansione dell’offerta di istruzione superiore) che premono per non ripetere la ‘noiosa’ e lenta esperienza dei padri e madri, delle lotte operaie, delle suggestioni internazionali in un decennio esaltante, si fonde nel rendere dominante, e intuitivamente ‘giusto’, ogni pensiero che si presenti come ‘nuovo e radicale’ e voglia farla finita con le grigie burocrazie, siano esse dell’Est come dell’Ovest.