Oliver Stone, le mezze verità sull’assassinio di JFK _ Pubblicazione autorizzata

Pubblichiamo, debitamente autorizzate, alcune considerazioni del regista Oliver Stone sulla recente pubblicazione di file riservati inerenti l’assassinio a Dallas del Presidente J.F. Kennedy, tutt’ora uno degli enigmi e delle macchie più oscure che marchiano le vicende politiche degli Stati Uniti. Un episodio ancora suscettibile di influenzare pesantemente il confronto politico in atto nel paese. Un confronto, per meglio dire uno scontro, per molti versi incredibile, ancora più acuto e feroce ma che a tutt’oggi non ha trovato un analogo epilogo cruento solo per la crescente perdita di credibilità del vecchio establishment, visti anche gli oscuri antefatti. Non a caso rivangati di tanto in tanto da Trump e dai componenti più fedeli e militanti del suo staff.

Non solo! La formazione sociale statunitense è molto meno coesa di allora e la contrapposizione tra élites emergenti e vecchia classe dirigente sempre meno ricomponibile_ Il rischio è quello di pervenire, in tempi relativamente brevi, ad una implosione drammatica da cui potremmo veder sorgere, nel bene e nel male, “un nuovo mondo”. 

Oliver Stone continua a distinguersi, dal suo punto di vista tipicamente americano, nella sua opera di informazione e riflessione_ Una delle poche voci che riescono a oltrepassare la cortina mediatica sapientemente stesa. In Italia gli acuti sono ancora più rari ed impercettibili. Buona lettura. Gianfranco Campa e Giuseppe Germinario.

 

A picture taken on July 5, 2017 shows a souvenir shops offering among others cup a tin mug depicting Russian President Vladimir Putin and US President Donald Trump, in Moscow. It was a constant refrain on the campaign trail for Donald Trump in his quest for the US presidency: "We're going to have a great relationship with Putin and Russia." Now, weighed down by claims that Moscow helped put him in the White House, Trump is set to finally meet his Russian counterpart in an encounter fraught with potential danger for the struggling American leader. / AFP PHOTO / Mladen ANTONOV

A picture taken on July 5, 2017 shows a souvenir shops offering among others cup a tin mug depicting Russian President Vladimir Putin and US President Donald Trump, in Moscow.
It was a constant refrain on the campaign trail for Donald Trump in his quest for the US presidency: “We’re going to have a great relationship with Putin and Russia.”
Now, weighed down by claims that Moscow helped put him in the White House, Trump is set to finally meet his Russian counterpart in an encounter fraught with potential danger for the struggling American leader.
/ AFP PHOTO / Mladen ANTONOV

Queste alcune mie considerazioni sui file di JFK:

 

  1. Trump è stato derubato. Penso che volesse davvero la pubblicazione di tutti gli archivi su JFK, ma come per qualsiasi altra cosa che riguarda il “Deep State”, i sommi sacerdoti gli hanno detto: “Non puoi farlo”,  appellandosi alla “sicurezza nazionale”; lo stesso pretesto che  viene utilizzato dal 1963.

 

  1. La pubblicazione degli archivi  è stata programmata per essere un “niente di interessante.” Il lancio di materiale cancellato / non eliminato / non più redatto è spesso illeggibile e ha lo scopo di assicurarci che “vedi, qui non c’è niente”.

 

  1. Ma nonostante tutto, alcune “peculiarità” sono venute in superficie come melma in uno stagno; il fascicolo CIA / Angleton / Oswald risale chiaramente al 1959 e Angleton aveva senza dubbio un interesse speciale per Oswald. Jeff Morley, che ha scritto una nuova biografia di Angleton (“Il fantasma: La vita segreta di CIA Spymaster James Jesus Angleton”, St. Martin’s Press, 2017) e che lavora anche come redattore sulle verità di JFK, descrive Oswald come “carta segnata” nel gioco, cioè un soldato, una pedina  da utilizzare secondo necessità; il che, a mio parere, si adatta molto bene al profilo di Oswald.

 

  1. Oswald a Città del Messico rimane ancora un mistero. Era o non era lì? Non esistono foto di lui; ho testimonianze che indicano la sua presenza in Messico . Angleton, a quanto pare, intendeva che Oswald andasse a Cuba, usando la permanenza a New Orleans per ottenere le necessarie credenziali come agente pro-Cuba. Il piano della CIA subì un arresto quando il governo cubano respinse la domanda di visto di Oswald non credendo genuina la sua presunta posizione pro Cubana.

 

  1. Al di là di questa questione,  quello che colpisce è la completa assenza di attori chiave nell’affare JFK. Gente come Howard Hunt, William Harvey, David Atlee Phillips (CIA, Messico), Anne Goodpasture (CIA, Città del Messico) e George Joannides (CIA, Miami), non vengono menzionati negli archivi pubblicati. Gli archivi completi con i nomi di questi principali attori non sono stati ancora pubblicati. Nel complesso, ci sono troppe pagine vuote. Ad esempio, apparentemente, la CIA dedica undici pagine a Garrison, ma otto sono completamente cancellate.

 

  1. I documenti più controversi sono “declassificabili”, ma secondo James DiEugenio (“Reclaiming Parkland”, “Citizens for Truth about the Kennedy Assassination”), anche se queste pagine dovessero essere pubblicate in futuro e passate sotto la macchina del riconoscimento ottico dei caratteri (OCR), non sarebbero lo stesso decifrabili. In altre circostanze, la sentenza “NON RITENUTO IMPORTANTE” diventa un’altra categoria di documenti da screditare. Persone di grande interesse come Earle Cabell, sindaco di Dallas nel 1963 e fratello del vice direttore generale Charles Cabell, l’agente di alto livello della CIA licenziato da Kennedy insieme ad Allen Dulles e Richard M. Bissell Jr. dopo il fiasco della Baia dei Porci, non sono considerati importanti, anche se hanno giocato un ruolo enorme nel tracciare il tragitto della macchina di JFK. considerato “non importante” era ANCHE il disertore russo Yuri Nosenko, la spia sovietica che aveva una teoria sull’assassinio di Kennedy completamente diversa rispetto a quella di Angleton, che invece era intento a coprirla. Nosenko fu vittima della terrificante “caccia alla talpa” di Angleton (vedi “Wilderness of Mirrors” e la nuova biografia di Morley su Angleton); sfortunatamente, il fiasco di “The Good Shepherd”, un film brutto, con Matt Damon e Angelina Jolie, ha impedito la realizzazione di altri film su questo argomento.

 

  1. Allo stesso modo, si può affermare che i sovietici – Nikita Khrushchev e il KGB – avevano chiaramente capito come  l’assassino di Kennedy fosse un colpo di stato, con elementi di forze di “destra” intente ad arrivare al potere negli Stati Uniti. Ciò si rivelò sfortunatamente vero, poiché Lyndon Johnson introdusse un nuovo sistema con politiche di linea dura in tutto il mondo, a cominciare dalla dittatura militare in Brasile e, più disastrosamente, l’invio di 525.000 truppe da combattimento in Vietnam. Il presidente francese Charles de Gaulle si trovò d’accordo con l’opinione dei Sovietici. Ma de Gaulle non fa parte di questa tornata di declassificazione degli archivi.

 

In generale, direi che questa pubblicazione degli archivi JFK è deludente nelle informazioni, ma come ho detto in apertura, è fatta apposta per essere in questo modo. Si perde interesse quando si passa da una documentazione illeggibile a una documentazione classificata “niente di interessante” per finire con un documentazione minore, non interamente redatta. Qualunque cosa di valore deve essere soppesata nei dettagli ed è proprio chi conosce i dettagli a poter interpretare al meglio questo inganno poderoso.

 

Oliver Stone.

I MANIFESTI NEMICI _ REPLICA DI ROBERTO BUFFAGNI AD ALESSANDRO VISALLI_ULTIMA PARTE

I manifesti nemici

Replica ad Alessandro Visalli – seconda e ultima parte

1a PARTE   http://italiaeilmondo.com/2017/11/07/i-manifesti-nemici-di-roberto-buffagni/

In basso a destra della pagina principale del sito, nella categoria dossier, alla voce “Europa Unione Europea” sono disponibili gli articoli sin qui prodotti sull’argomento

 

Tocco qui il punto della Dichiarazione di Parigi che Visalli definisce “una scelta che proprio non posso condividere.” Riporto per esteso il brano criticato da Visalli sia per comodità del lettore, al quale sono stati presentati i testi in esame qualche settimana fa, sia perché il punto è importante.

Qual è la scelta che Visalli trova inaccettabile? Così la descrive il brano della Dichiarazione di Parigi citato e commentato dal nostro interlocutore: (sottolineature mie)

Dobbiamo ripristinare la dignità sociale che hanno i ruoli specifici. I genitori, gl’insegnanti e i professori hanno il dovere di formare coloro che sono affidati alle loro cure. Dobbiamo resistere al culto della competenza che s’impone a spese della sapienza, del garbo e della ricerca di una vita colta. L’Europa non conoscerà alcun rinnovamento senza il rifiuto deciso dell’egualitarismo esagerato e della riduzione del sapere a conoscenza tecnica. Noi abbracciamo con favore le conquiste politiche dell’età moderna. Ogni uomo e ogni donna debbono avere parità di voto. I diritti fondamentali debbono essere protetti. Ma una democrazia sana esige gerarchie sociali e culturali che incoraggino il perseguimento dell’eccellenza e che rendano onore a coloro che servono il bene comune. Dobbiamo restaurare il senso della grandezza spirituale e onorarlo in modo che la nostra civiltà possa contrastare il potere crescente della mera ricchezza da un lato e dell’intrattenimento triviale dall’altro…Non possiamo consentire che una falsa idea di libertà impedisca l’uso prudente del diritto per scoraggiare il vizio. Dobbiamo perdonare la debolezza umana, ma l’Europa non può prosperare senza restaurare l’aspirazione comune alla rettitudine e all’eccellenza umana. La cultura della dignità sgorga dal decoro e dall’adempimento dei doveri che competono al nostro stato sociale. Dobbiamo ricuperare il rispetto reciproco fra le classi sociali che caratterizza una società che dà valore ai contributi di tutti.”.

Visalli critica così: (sottolineature mie) “Qui comincia a divergere quindi la mia sensibilità: pur comprendendole, parole come “gerarchie sociali e culturali” e “senso della grandezza spirituale”, riverberano troppo da vicino il grande tema dei privilegi di rango, la società divisa in caste e ordini, quella che De Benoist in “Identità e comunità” chiama “l’identità di filiazione” della società tradizionale. Una società nella quale prevale la lealtà sull’interiorità e l’emancipazione. Ovvero una concezione troppo essenzialistica dell’identità, che non valuta abbastanza la sua natura dinamica, certamente dialogica, insieme individuale e collettiva. La paura dell’anomia, pur giustificata, non può dirigere nella direzione di una simmetrica indeterminazione dell’io, sciolto nell’appartenenza…. Una scelta che proprio non posso condividere. Usare concetti come “i doveri che competono allo stato”, e “rispetto tra le classi sociali”, appena seminascosto dal riverbero dell’ideale classico della eguaglianza come dare l’eguale all’eguale, nella formula “dare valore ai contributi di tutti”, significa andare molto oltre la giustificata critica del lato dispotico della ragione. Implica sposare direttamente l’ideale di restaurazione che fu della linea genealogica prima richiamata.

Replico brevemente alla critica di Visalli.

1) Le classi e i ceti, cioè a dire la diseguaglianza sociale, sono una regolarità storica permanente. La diseguaglianza sociale può affermarsi nella realtà effettuale in molti modi; e in molti modi può essere legittimata. Le distanze gerarchiche possono essere più o meno grandi e più o meno rigide, le asimmetrie di potenza maggiori o minori, ma la diseguaglianza sociale resta un dato storico permanente e universale.

2) E’ possibile e desiderabile, un’azione politica tendente a eliminare la diseguaglianza sociale? Si badi bene: eliminare, non ridurre, o modificare ricostruendola su basi anche radicalmente diverse?

3) No. L’eliminazione della diseguaglianza sociale è impossibile, e dunque indesiderabile, perché produce effetti enantiodromici. La dinamica è la seguente: a) per eliminare la diseguaglianza sociale è necessario intervenire sulla realtà sociale non egualitaria b) per intervenire efficacemente sulla realtà sociale è indispensabile il potere c) il potere non può essere esercitato da tutti, sennò l’eguaglianza ci sarebbe già d) il potere viene invece esercitato da alcuni: come sempre il potere, che è per sua natura un differenziale di potenza, + potente/- potente d) risultato: più eguaglianza sociale si vuole ottenere, più dispotismo politico risulta necessario impiegare e) alla fine delle operazioni, si ottiene molta eguaglianza per i molti, molto potere per i pochi.

4) Questa dinamica paradossale ed enantiodromica è la caratteristica più vistosa di quel che Eric Voegelin chiamò “gnosticismo politico”[1], cioè a dire la trasposizione sul piano storico, immanente, delle categorie escatologiche cristiane. La trasposizione è motivata dalla reazione patologica a un’esperienza universalmente umana: l’orrore di fronte all’esistenza – per esempio, l’orrore di fronte all’ingiustizia sociale, che può assumere forme veramente atroci – e il desiderio di fuggirne. Il cristianesimo sdivinizza, “disincanta” il mondo naturale e storico. Quando la fede cristiana nella trascendenza si eclissa, l’angoscioso vuoto di senso che si spalanca nel mondo viene riempito dalle gnosi: che prendono forma politica qualora le società non trovino più sufficiente legittimazione nel loro ethos tradizionale, e sentano il bisogno di un’efficace, coesiva teologia civile. Lo gnosticismo politico non commette soltanto un errore teorico in merito al significato dell’eschaton cristiano. In conformità a questo errore, le ideologie gnostiche e i movimenti che le traducono in azione politica interpretano una concreta società e l’ordine che la regge come un eschaton; e dando una lettura escatologica di concreti problemi sociali e politici, fraintendono la struttura della realtà immanente: cioè sognano quando sarebbe indispensabile essere ben desti. In particolare, il sogno gnostico oscura e rimuove la più antica acquisizione della saggezza umana: che ogni cosa sotto il sole ha un inizio e una fine, ed è sottoposta al ciclo di crescita e decadenza; che insomma tutto, nel mondo immanente, è governato dal limite.

5) Gli errori in merito alla struttura del reale hanno serie conseguenze pratiche, che spesso si manifestano in forma paradossale: come nell’esempio succitato, in cui perseguendo l’eliminazione della diseguaglianza sociale si ottiene il dispotismo; o come nel caso dell’immigrazione di massa, nel quale perseguendo l’accoglienza umanitaria indiscriminata degli stranieri si ottiene non soltanto il rischio di collasso delle strutture sociali, ma addirittura l’insorgenza del razzismo.

6) Se l’errore in merito alla struttura del reale consegue a un’ideologia gnostica, l’accecamento di fronte alla realtà diventa però una questione di principio. Immediata conseguenza: lo gnostico vuole ottenere un effetto, e ne ottiene un altro diametralmente opposto. Del baratro tra intenzione e risultato, però, lo gnostico non incolperà mai se stesso e il suo sogno: incolperà sempre gli altri, o la società nel suo insieme, che non si comportano secondo le regole in vigore nel suo profetico mondo di sogno.

7) Lo gnosticismo politico non si manifesta in una sola forma. Ieri si è manifestato in forma di comunismo, nazismo, puritanesimo, catarismo, etc. Oggi si manifesta in forma di progressismo, di “liberal-democrazia” mondialista.

8) Si può, e si deve, discutere a lungo e a fondo, dissentendo anche con asprezza, in merito ai contenuti, alle forme, alle ragioni di eguaglianza e gerarchia sociali. Il dibattito teorico, e il conflitto pratico, sono non soltanto inevitabili ma benefici: a patto che dibattito e conflitto non si si propongano obiettivi immaginari ma reali, e dunque limitati (può essere limitato anche un conflitto armato).

9) E’ un obiettivo immaginario e pertanto distruttivo ed enantiodromico l’abolizione delle diseguaglianze sociali, è un obiettivo reale e pertanto costruttivamente perseguibile una loro diminuzione, e/o una loro diversa composizione e legittimazione. Uno dei dati di realtà da tenere in conto è il conflitto dei valori: libertà/sicurezza, eccellenza/eguaglianza, democrazia/capacità decisionale, etc. In quest’ultimo caso, l’esperienza storica suggerisce che la democrazia in quanto tale non basta affatto a garantire una saggia conduzione della cosa pubblica, e che una democrazia dà migliori risultati quando la guidi una classe dirigente coesa da un ethos aristocratico; che sia capace, ad esempio, di compromesso politico, di tacito accordo in merito all’interesse nazionale, di condividere stile e cultura al di sopra delle inimicizie politiche. Nella cultura politica del repubblicanesimo antico e moderno si possono trovare molte utili indicazioni in merito alla funzione positiva e costruttiva della compresenza conflittuale di istituzioni che si rifanno a principi diversi: monarchico (esecutivo forte), aristocratico (senato), democratico (suffragio universale).

Per concludere. Non tocco, qui, il tema “quali eguaglianze, quali gerarchie siano desiderabili e perché”. Ne potremo discutere, con Visalli e con altri, in seguito. Quel che mi preme, per ora, è indicare il contesto entro il quale questa discussione mi pare fruttuosa: che non è l’antitesi radicale e principiale eguaglianza/gerarchia, progresso/reazione; ma le forme e i contenuti concreti delle eguaglianze, delle differenze, delle gerarchie possibili.

[1] Per una trattazione sintetica, v. Eric Voegelin, «Modernity without Restraint», in Collected Works of E.V., vol. V, Columbia and London: University of Missouri Press, 2000.

 

Movimento 5 Stelle = PD 2.0, di Roberto Buffagni

Movimento 5 Stelle = PD 2.0

Al ritorno dalla mia corsa mattutina, dall’ odierna rassegna stampa di “Prima Pagina” su Radiotre apprendo con sgomento una notizia che annulla i benefici dell’esercizio fisico e mi guasta il buonumore.

Nel suo colloquio di ieri con Mr. Conrad Tribble[1], Deputy Assistant Secretary del Bureau of European and Eurasian Affairs presso il Dipartimento di Stato USA, Luigi di Maio ha affermato che «Se non avremo la maggioranza assoluta ci assumeremo la responsabilità di non lasciare il Paese nel caos». “La Stampa” di stamattina[2] aggiunge che “Di Maio all’interprete fa tradurre la parola ‘convergenze’. Non si sbilancia ma fa intendere che intese in Parlamento, magari su un programma di pochi punti, sono possibili.”

Traduzione: senza averne mai fatto cenno né a militanti ed elettori del M5S, né in generale agli italiani, Di Maio annuncia a un diplomatico americano di medio rango che il M5S opera una conversione di 180° non solo della sua linea politica, ma della sua carta dei principi fondatori, che tra le scemenze tipo Gaia e via i corrotti annovera “mai alleanze con nessuno, al governo andiamo col 50%+1 voto”. Se alle prossime elezioni politiche il centrosinistra (PD + frattaglie) come probabile non prende il 40% che garantisce seggi premio & maggioranza parlamentare, ci pensa il M5S a metterci una toppa e a sostenere il governo piddino o parapiddino, entrando nella maggioranza di governo nella forma più opportuna (= la supercazzola che può meglio confondere le idee ai suoi elettori).

Se questa inversione di rotta non provoca reazioni serie nel M5S – e qualcosa mi dice che non le provocherà, visto il grado di autonomia dei dirigenti e il quoziente di intelligenza politica del militanti, prossime entrambe a – 273,15° centigradi, lo zero assoluto – questo vuol dire che ci beccheremo un governo PD + frattaglie piddine+M5S, una prospettiva apocalittica che pochi giorni fa avevo intravisto sul canale 5 della mia palla di cristallo[3].

Commento a caldo: siamo fottuti, Gesù aiutaci tu!

Commento a tiepido:

  1. a) dopo questa tragica pagliacciata, per credere che il M5S non sia eterodiretto dagli ambienti democrat USA ci vuole una riserva di ingenuità e fiducia nella bontà del mondo della quale disponevo (forse) a dodici anni. A sessantuno, ho finito le scorte da un pezzo.
  2. b) grazie alla suddetta tragica pagliacciata, si capisce meglio da dove origina l’imprevista candidatura di Piero Grasso a leader delle frattaglie piddine. Origina dai referenti americani di D’Alema, gli ambienti clintoniani e obamiani presso i quali D’Alema si accreditò bombardando illegalmente Belgrado.
  3. c) I suddetti ambienti democrat USA, che hanno diverse gatte da pelare e regolamenti di conti interni da sbrigare in casa loro, ogni tanto pensano anche a noi, la loro cara portaerei mediterranea, e in vista delle prossime elezioni si preparano un ventaglio di possibilità favorevoli.
  4. d) Le possibilità più serie che si preparano sono: 1. Stallo elettorale, PD non perde troppi voti, le Frattaglie Piddine prendono appena q.b per entrare in parlamento, Forza Italia supera la Lega = grande coalizione PD-FI, con Renzi o Gentiloni premier. 2. Stallo elettorale, PD prende una mazzata epocale, le Frattaglie Piddine fanno un discreto risultato perché una buona parte dei delusi dal PD li vota, FI non supera la Lega = governo PD+M5S guidato dal Capofrattaglie Piero Grasso, il Magistrato Integerrimo che garantisce il Governo dell’Onestà per i trinariciuti 5 stelle. In breve, il M5S si fa protagonista di una riedizione aggiornata dello schema di subalternità della “sinistra critica” alla “sinistra ortodossa”: intercettare il dissenso, e al momento buono riversare i voti sulla sinistra di governo; solo che lo fa con il 25% dei voti, il che cambia tutto.

Nota di speranza finale: il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, e anche alla stupidità c’è un limite. Non è detto che questa indigesta ciambella Centrosinistra+Cinquestelle riesca col buco.

 

 

 

[1] https://www.state.gov/r/pa/ei/biog/bureau/247194.htm

[2] http://www.lastampa.it/2017/11/15/italia/politica/di-maio-promette-stabilit-agli-stati-uniti-senza-maggioranza-pronti-a-intese-apwEU16Nw2g7Y4e74JLxlM/pagina.html

[3] http://italiaeilmondo.com/2017/11/10/dalla-mia-palla-di-cristallo-di-roberto-buffagni/

L’ aperi-cena filosofica _ Il Manifesto convivialista , di Elio Paoloni

 

 

L’ aperi-cena filosofica

Il Manifesto convivialista

 

Elio Paoloni

 

Su questo sito si discute di Manifesti, in particolare della Dichiarazione di Parigi,(https://thetrueeurope.eu/uneuropa-in-cui-possiamo-credere/ ) che, come altri collaboratori del blog, condivido interamente. Parigi c’entra poco, in realtà, anche se tra i firmatari ci sono il medievista francese Rémi Brague, studioso di Maimonide e docente alla Sorbona e Chantal Delsol, la fondatrice dell’Istituto Hannah Arendt di Parigi: tra gli altri firmatari del documento, originariamente redatto in inglese,  troviamo Roger  Scruton, uno dei massimi filosofi anglosassoni, (https://eliopaoloni.jimdo.com/2013/01/14/un-conservatore-relativista ) il polacco Ryszard Legutko, ex ministro dell’Istruzione, docente di Filosofia antica all’Università Jagellonica di Cracovia e prima ancora responsabile intellettuale di Solidarnosc durante la Guerra fredda, il tedesco Robert Spaemann, a lungo compagno di ricerche e studi dell’allora professor Joseph Ratzinger e poi erede della prestigiosa cattedra che fu di Hans-George Gadamer a Heidelberg, lo spagnolo Dalmacio Negro Pavón, membro dell’Accademia reale spagnola per le scienze sociali e poi personalità olandesi, tedesche, norvegesi.

 

Francofoni erano invece i firmatari di un manifesto in cui mi sono imbattuto, quello convivialista, (qui http://www.edizioniets.com/scheda.asp?n=9788846739421 , qui un compendio in PDF http://www.postfilosofie.it/archivio_numeri/anno7_8_numero7/1compendio.pdf ), redatto qualche anno fa con il proposito di unire le diverse anime del pensiero alternativo, di “individuarne il massimo comun denominatore”.

 

Non è così difficile, in realtà, unire diversi volenterosi sull’ennesima esposizione di lodevoli principi: come non concordare sulla nocività della finanziarizzazione del mondo e della subordinazione di tutte le attività umane a una norma commerciale, iniziata con l’imposizione dell’idea di “Fine della storia”? Come dissentire dalla stigmatizzazione dell’imperio del Mercato a discapito di qualsiasi seria azione politica? Come non rammaricarsi, con i firmatari, che venga disconosciuta la “motivazione intrinseca” al lavoro, che si escluda il fare per senso del dovere, per solidarietà, per il gusto di un lavoro ben fatto e per il desiderio di creare?

 

Vediamo dunque i capisaldi della politica convivialista:

 

  • Principio di comune umanità: aldilà delle differenze di colore della pelle, di nazionalità, di lingua, di cultura, di religione o di ricchezza, di sesso o di orientamento sessuale, esiste soltanto un’umanità, che deve essere rispettata nella persona di ognuno dei suoi membri. Sai la novità! Dette duemila anni fa e riproposte, desacralizzate, due o tre secoli fa in tanto solenni quanto inerti dichiarazioni. Ma concordiamo pure.

 

  • Principio di comune socialità: gli esseri umani sono esseri sociali. Un po’ di storia della filosofia e la ritroviamo ancor più indietro dei duemila anni. Ma, ancora una volta, nulla da eccepire.

 

  • Principio di individuazione: la politica legittima è quella che permette a ciascuno di affermare al meglio la propria singolare individualità in divenire, sviluppando le proprie capabilità (apprezzabile richiamo all’etica di Amartya Sen).

 

  • Principio di opposizione controllata: è naturale che gli esseri umani possano opporsi. Ma è legittimo farlo solo se non si mette in pericolo il quadro di comune socialità. Perbacco! E ci si sono messi in quaranta?

 

In effetti i firmatari si rendono conto che la scommessa “porta esattamente su ciò che si cerca dall’inizio della storia umana: un fondamento durevole all’esistenza comune, al contempo etico, economico, ecologico e politico”. Per quel che mi riguarda quel Fondamento esiste già. Non per i convivialisti, ovviamente. Quale sarebbe dunque questo massimo comun denominatore?

 

Forse la costruzione di una società del care, “la cura, la sollecitudine – alle quali le donne per prime sono state storicamente assegnate”. Ed eccoci subito dinanzi alla mancanza di coraggio, o alla necessità di mediazione, insomma al timore di indispettire le femministe, perché quello storicamente andrebbe sostituito con biologicamente.

 

Ma questo non basta, ovviamente. Analizziamo le considerazioni morali dei firmatari: va proibito all’individuo “di sprofondare nell’eccesso e nel desiderio infantile di onnipotenza (la hybris dei Greci)”. Giustissimo! Ma la hybris si configurerebbe, qui, nel pretendere di appartenere a qualche specie superiore (perché mai, infatti, l’uomo dovrebbe essere superiore alla zanzara?) o nel monopolizzare una quantità di beni eccessiva. Non un cenno al galoppare dell’Eugenetica o al delirio di onnipotenza di chi cerca l’immortalità tagliandosi le tette in via preventiva, a prescindere, come la tristemente rifatta Angelina Jolie, approdo ultimo della vaccinocrazia, della medicalizzazione di ogni ambito della vita, della ricerca ossessiva della Sicurezza. Neanche una parola sul delirio di onnipotenza di chi intende annullare i generi, femminilizzare gli uomini, abbrutire le donne. Nessun riferimento a chi manovra per sradicare le tradizioni e imporre a tutto il pianeta, divinizzandolo, un unico regime politico, un unico governo. Ah, dimenticavo: il governo mondiale è anche nei disegni dei nostri buontemponi: nel paragrafo delle considerazioni politiche si prende atto che è illusorio attendere nel prossimo futuro la costituzione di uno stato mondiale. Pare di capire che in un futuro più remoto essa sia probabile, anzi auspicabile. Viva il mondialismo? E in che cosa sarebbe alternativo questo movimento? Nel frattempo, poveri noi, dovremmo accontentarci dell’azione politica di “associazioni e ONG”, magnifici strumenti sovranazionali, progressisti e – come dubitarne – indipendenti che abbiamo imparato a conoscere.

 

Concretamente, continuano i convivialisti, il dovere di ciascuno è di lottare contro la corruzione. Questi umanisti non hanno letto Croce (https://www.storiadellafilosofia.net/filosofia-moderna/benedetto-croce/l-onest%C3%A0-politica/ ). Ad ogni modo, occorre “rifiutare di fare ciò che la coscienza disapprova”. Coscienza con la minuscola? E perché mai, in un mondo relativista, la coscienza di Soros dovrebbe dettare gli stessi imperativi di quella di un derviscio rotante? Chi stabilisce, nel mondo del pensiero debole, liquido, più propriamente diarroico (che nessun convivialista si sogna di denigrare) cosa sia “giusto e intrinsecamente desiderabile”?

 

Ma nello specifico? Reddito di base, ovvero il grillino reddito di cittadinanza depurato dell’aggettivo troppo nazionalistico: non siamo tutti, soltanto, cittadini del mondo? Pare abbastanza condivisibile l’instaurazione di un reddito massimo, che però non scalfirebbe minimamente le grandi entità multinazionali e i centri di potere finanziari, le cui sedi sono immateriali. Ah, dimenticavo, nel convivialismo ‘pienamente realizzato’, il governo sarà planetario.

 

Evasivi, criptici, fumosi, gli altri proponimenti politici: “nella moltiplicazione delle attività comuni e associative, costitutive di una società civile mondiale… il principio di autogoverno ritroverebbe i suoi diritti, al di qua e al di là degli Stati e delle nazioni”. Cosa ci sarebbe qui di alternativo alla globalizzazione? Che senso ha scardinare le uniche entità che possono avere la forza di arrestare il tanto osteggiato dominio della finanza, a favore di un arcadia anarco-digitale? Digitale, già. Perché, come insegnava anche Casaleggio, “Internet è un potente mezzo di democratizzazione della società e di invenzioni di soluzioni che né il Mercato né lo Stato sono stati capaci di produrre… attraverso una politica di apertura, di accesso gratuito, di neutralità e di scambio”. Come se il Mercato non passasse ormai massicciamente dalla rete, come se la neutralità fosse un attributo necessario dei Gates e degli Zucherberg. Come se in assenza di Stato si potesse impedire il monopolio, quel monopolio che ora almeno viene – debolmente – avversato. Come se qualcuno, in assenza di Nazione, potesse garantire l’accesso gratuito. Come se davvero la gente usasse quel Linux che a costoro pare la panacea: tra le mie conoscenze, un solo amico lo ha installato (ma non lo usa: è uno smanettone e ha voluto provarlo, tutto qui).

 

Non è possibile commentare seriamente il proposito di rinnovamento dei servizi pubblici attraverso “emergenza, consolidamento e allargamento dei nuovi beni comuni dell’umanità”. Con scappellamento a destra?

La situazione planetaria “impone di regolare strettamente l’attività bancaria e i mercati finanziari e delle materie prime, limitando le dimensioni delle banche e mettendo fine ai paradisi fiscali”. Non ci avevamo pensato! Eppure sarebbe così semplice, tra una sarchiata nell’orto comunitario urbano e una corsa al mercatino equosolidale per acquistare il caffè, sbaragliare, convivialmente, i paradisi fiscali. Chi, esattamente, lo farà, in assenza di Stato e di Nazione? Ah, ecco: “sarebbe giudizioso creare un abbozzo di l’Assemblea Mondiale (Non ci sono bastate la Società delle Nazioni e l’ONU?) che comprenda rappresentanti della società civile mondiale associazionista, della filosofia, delle scienze umane e sociali e delle differenti correnti etiche, spirituali e religiose che si riconoscono nei principi del convivialismo”.

1980-16-pellegrinaggio-nucleare-cm86x71-0-126Non sbagliava Michel Lacroix: “Per affrontare i problemi odierni, il New Age sogna un’aristocrazia spirituale nello stile de La Repubblica di Platone, gestita da società segrete”. E codesta accolta di onesti uomini tecnici, che per fortuna non ci è dato sperimentare (dal brano di Croce sopra citato) che si ritroveranno a governare il mondo, così, per caso (per acclamazione?) come fermeranno i finanzieri cattivi? Con un armata di bocciofile? Con volenterose truppe internazionali, come i caschi blu di Srebrenica? No, essenzialmente con tre formidabili armi:

 

  • il sentimento di appartenere a una comunità umana mondiale” che è un sentimento abbastanza comune, preso genericamente (per certi versi un’ovvia constatazione) ma difficile da provare nel concreto a meno che non si appartenga agli esponenti della globocrazia, quella casta di cosmopoliti che scorrazzano per il mondo piegandolo ai loro illuminati voleri (Monti, Boldrini, Draghi, Rockefeller e via dicendo). Nel mondo reale solo una cerchia ristretta può essere avvertita come la nostra comunità. Già la nazione – fuori dai campionati di calcio – è qualcosa di difficilmente avvertibile: il soldato non lotta per la Patria ma per il suo plotone. L’umanità è troppo ampia perché la si possa – politicamente – avvertire come prossima. Non è questione di cultura o sensibilità: la storia tutta intera, l’antropologia, la sociologia e la psicologia ci avvertono che l’accento del paesino limitrofo già ci separa. Aci Trezza è tuttora acerrima nemica di Aci Castello. Eppure, secondo Fistetti, firmatario e postfatore del manifesto, “tocca ai cittadini delle società liberaldemocratiche «deporre le armi», o, come dice Mauss, «fidarsi interamente» e avanzare l’offerta di alleanza” ai migranti che, manco a dirlo, sono, nella loro totalità ‘profughi’ e, se proprio non ce la facciamo a infilarli nella categoria, ‘migranti ambientali”. Una «scommessa sulla generosità»(Caillé) tipicamente cristiana ma in assenza di cristianesimo e anche di una seria riflessione sulla natura della principale religione antagonista, quindi una follia. Un suicidio politico, e prima ancora morale.

 

  • l’indignazione degli onesti e, specularmente, la vergogna “che è necessario far provare a coloro che violano i principi di comune umanità” (si vergogni, califfo Al Baghdadi, si vergogni, mister Rothschild, si vergogni mister Soros. Ma se già i fantocci politici di casa nostra sono proverbialmente definiti “senza vergogna”!).

 

  • sempre in tema sentimentale, la mobilitazione degli affetti e delle passioni, ben al di là, udite udite, delle scelte razionali degli uni e degli altri. Ma come, ci hanno sempre messo in guardia dal far appello alla pancia dei cittadini, ai rischi dello scatenarsi di emotività nella massa! Ma no, nel Mondo Nuovo convivialista si affermerà per incanto “il meglio delle passioni”, “per inventare altre maniere diverse di vivere, di produrre, di giocare, di amare, di pensare e di insegnare”. Immaginazione al potere, quand’è che l’avevo già sentita? Basteranno nuove Enciclopedie – digitali, ça va sans dire – aggiornate ai dettami ecovegansolidalpacifisti, compulsate le quali narcos boliviani, narcotizzati telespettatori e coatti d’ogni continente si eleveranno a un nuovo stadio di spiritualità.

 

Scorrendo le pagine di questo fantasioso libello mi imbatto anche nell’“obbligo perentorio di far scomparire la disoccupazione”. Di perentorio in tal senso ricordo solo i piani quinquennali. Che si facevano rispettare a suon di deportazioni.

In fondo, finalmente, leggo che si “dovrà assolutamente puntare a ricongiungere sovranità monetaria, sovranità politica e sovranità sociale”. Ottimo! Anzi no: eravamo stati ingannati dalla formulazione ambigua: leggendo meglio si arguisce che la sovranità riguarderebbe una UE rafforzata, non i singoli Paesi.

 

Fin qui solo fuffa: un contenitore vuoto, una sequela di buonismi, di quelle buone intenzioni che sappiamo bene cosa sono destinate a lastricare. Anche di intenzioni pessime, per quel che mi riguarda, come lo è ogni proposito contro la sovranità nazionale. Ma, a ben vedere, una proposta politica concreta c’è: tra le anime alternative ne emerge prepotentemente una, che ho volutamente tralasciato, benché sia presente sin dalle premesse. La parola d’ordine è ‘decrescita’. Latouche risulta essere solo uno dei firmatari ma sui suoi vagheggiamenti si fonda buona parte del manifesto, che riprende i catastrofismi da Club di Roma e il tormentone del CO2 per approdare alla esaltazione della “sobrietà volontaria e dell’abbondanza frugale”. Il problema fondamentale sarebbe la “minaccia antropica”(ci mancava il neo-malthusianesimo), la “finitezza orami evidente del Pianeta e delle sue risorse naturali”. “Gli uomini non possono più considerarsi possessori e padroni della Natura”. “La situazione ecologica del pianeta rende necessario ricercare tutte le forme possibili di una prosperità senza crescita”.

 

Le infelici uscite di Latouche, che si fondano su un’idea primitiva dei sistemi economici, immaginati come insiemi di caratteristiche fisse ed immutabili nel tempo, sono state già ampiamente contestate: è chiaro per qualsiasi studioso vero che la riduzione del reddito nazionale non si traduce automaticamente in una produzione più pulita; anzi, è più facile che un calo delle risorse monetarie finisca con il tradursi in un processo di regressione industriale in cui vengano preferite tecnologie obsolete, e più dannose per l’ambiente (vedi il recente ritorno in auge del carbone tra le fonti di energia). E, soprattutto, gli effetti di una riduzione del PIL non sarebbero equamente distribuiti: andrebbero ad abbattersi in modo regressivo, colpendo la fascia più povera della popolazione, accrescendo proprio quella già enorme disuguaglianza additata nel Manifesto.

 

Collegate alla famigerata decrescita troviamo altre esplosive iniziative alternative: post-sviluppo, movimenti slow food, slow town, slow science; la rivendicazione del buen vivir, l’affermazione dei diritti della natura: “Gli uomini non possono più considerarsi possessori e padroni della Natura”. “La relazione di dono/contro-dono e di interdipendenza deve esercitarsi soprattutto verso gli animali, che non devono più essere considerati come materiale industriale. E, più in generale verso la Terra”.

Diritti della natura, attenzione. Non giuste e condivisibili preoccupazioni razionali su ciò che dobbiamo gestire e tutelare ma attribuzione di “diritti”. Per attribuirne alla gramigna e alle blatte non basta un paradigma filosofico, occorre una nuova religione, anzi no, basta forse reintrodurre quella andina (vedi elogio del pachamama). Non solo animalismo, insomma si accenna a cavalcare anche il misticismo dell’ipotesi Gaia, la teoria di Lovelock, allarmista pentito che non crede più alla fine del mondo per surriscaldamento e che, ad ogni buon conto, ha sempre sostenuto  l’unica energia abbondante veramente pulita e, per il nostro Paese, strategica e opportuna: quella nucleare, ovviamente demonizzata dai firmatari.

Il Sacro, scacciato dalla porta, rientra sempre dalla finestra. L’adorazione che non è rivolta al cielo si proietta verso il mondo. Gea, Iside o Mama Pacha, e l’immarcescibile Vitello d’oro (oggi Gattino, Cagnolino, Maialino), tutto si presta ad essere venerato dai nuovi pagani, i ‘laici’.

 

Ma cosa, insomma, sta dietro a questo movimento? Cosa lo differenzia da tanti generici propositi di tante brave (e anche pessime) persone? A conferire portata filosofica a questo documento di una povertà concettuale sconcertante, sarebbe, spiega Francesco Fistetti nella postfazione all’edizione italiana, il paradigma del Dono: molti degli studiosi firmatari, in particolare il propugnatore del manifesto, Alain Caillé, sono seguaci dell’eroe della tradizione antropologica francese, Marcel Mauss, autore del Saggio sul dono (1925), nel quale, interrogandosi sul rapporto tra diritto e interesse, teorizzava che la forma-dono delle società primitive resta uno dei capisaldi sui quali è fondata anche  la nostra società. “Non si concepiscono società senza mercato” e l’errore del socialismo è stato quello di volerlo abolire: il mercato va regolato.

Tutti noi non chiediamo di meglio anche se siamo convinti che per farlo ci vogliano un pensiero – e una azione – tutt’altro che slow. In cosa, ad ogni modo,  il convivialismo differisce dal Welfare State o dallo stato Keynesiano? Nel principio euristico, per cui l’economia, come la politica e la morale, è soltanto uno degli elementi dell’arte di viver in comune: “la società è un tutt’uno”. Non fa una piega. E dunque? “Occorre tornare al paradigma del dono”. Questo è lo slogan risolutivo, la panacea.

 

Ora, se questa parola d’ordine deve essere divulgata e portata sugli scudi, è necessario qualche chiarimento. Il termine dono , in questo contesto, è irrimediabilmente ambiguo, anzi fuorviante. Perché il destinatario del messaggio penserà al Dono, alla gratuità totale, a una postura caritatevole, disinteressata e amorevole come solo nella dimensione trascendente si dà. Stiamo invece parlando di un meccanismo di mercato molto ritualizzato e complesso, solo apparentemente libero e gratuito, in realtà obbligato e interessato (poiché il dono va obbligatoriamente ricambiato). Presso i Polinesiani gli attori coinvolti erano collettività: famiglie, clan, tribù; e non venivano scambiati solo beni ma anche “banchetti, riti, cortesie, azioni militari, donne, bambini”. Insomma “un sistema di prestazioni sociali totali”. Nelle quali, inutile dirlo, il manato ricambio veniva sanzionato anche duramente. Mauss riallacciava tutto ciò alle istituzioni di sicurezza e previdenza sociale. L’assicurazione è dunque un dono? E la previdenza? A me pare un mero accantonamento, una forma di risparmio, ma forse sto banalizzando.

 

Sarebbe il caso, ad ogni modo, di lasciar perdere questo mantra poiché il grande merito di Mauss è stato proprio quello di scoprire che quel dono non era affatto un dono. Lasciamo il Dono ai credenti e chiamiamo scambio questa forma della socialità.  Ecco che ci ritroviamo con un pallone sgonfiato. Che c’è di così nuovo nello scambio? Se ben comprendo, nel fare a meno della moneta tradizionale. Si parla infatti, nel manifesto, di commercio equo, mutua assistenza, monete parallele e complementari, sistemi di scambio locale. Si avversa dunque il signoraggio?

 

Il punto è, si sostiene, che mentre nelle società arcaiche l’economia era inserita nei rapporti sociali ora sono i rapporti sociali a essere inseriti nel sistema economico. Giusto. Sono anni che qui e su ogni sito decente del web si proclama che la politica deve riprendere il sopravvento sull’economia. Ma il dono non c’entra: c’entrano i rapporti di forza, nozione ormai abbandonata dagli intellettuali progressisti che la forza non vogliono sentirla nominare in alcun contesto.

 

Ad ogni modo, chiarito l’equivoco ci troviamo di fronte a un altro intoppo: abbiamo un paradigma che da un canto si sostiene già attivo – attivo da sempre, in ogni società, e – d’altro canto – non presente, dato che si chiede di  reintrodurlo. Si deve intendere che la reintroduzione consista semplicemente nel riconoscere – e ricollocare – le forme presenti oppure che si debba tornare a forme arcaiche, vale a dire alle usanze di piccole, lente e crudeli società patriarcali dove si “donavano” donne e bambini? C’è di che far spazientire.

 

babeleCosa disegnano costoro, insomma? Una società molto liquida basata su un economia di sussistenza, con strutture politiche anch’esse liquide, come avveniva appunto nelle società tribali, popolate di figure di prestigio prive di reale potere. Come poi tutto questo, una rete di centri sociali allargati percorsi dalla buona volontà senza neppure il supporto della Buona Novella, possa affermarsi su scala planetaria senza che si precipiti nell’anarchia più belluina non è dato comprendere. Vi saranno sempre nobili figure stoiche in grado di recepire imperativi morali, tratteggiare etiche e conformarvisi pure. Ma non è cosa che commuova le folle. Le lotte non si conducono con il salmodiare buonista ma con la dura analisi degli interessi storici e degli arcana imperii, diceva Costanzo Preve, che pure, per certi versi, col suo Nuovo Comunitarismo, potrebbe essere apparentato ai convivialisti.

 

Perché dunque spendere tante righe per confutare le affermazioni di un movimento così poco convincente, che è riuscito a darsi un nome improbabile, evocatore più di  libagioni da nouvelle cuisine che di lotte politiche, un movimento che presumibilmente si scioglierà come neve al sole o sopravvivrà in eterno come accade a quelle conferenze ininfluenti e costituzionalmente inconcludenti che sono i tavoli ecumenici del dialogo interreligioso?

 

Perché mentre i volenterosi pensatori francesi tentano di indurci alla frugalità volontaria i loro governanti si occupano della nostra decrescita forzosa. Tra banche, moda, alimentare, hi-tech ed energia, i cugini d’Oltralpe hanno speso negli ultimi cinque anni la bellezza di 24 miliardi di euro per mettere le mani sui gioielli grandi e piccoli, quotati e non, del made in Italy. Vedi qui: http://www.ilgiornale.it/news/politica/litalia-gi-colonia-francese-24-miliardi-1342668.html

 

Normali operazioni commerciali, all’apparenza. Ma quando il nostro governo, pochissimo tempo dopo aver stretto accordi di enorme importanza (e di mutuo soccorso militare) con Gheddafi, ha assistito coraggiosamente, favorendola pure, all’esplosione della Libia, voluta e fomentata col beneplacito della Clinton (vedi file wikileaks) dai nostri cari cugini al fine di estromettere l’ENI e concederci in cambio graziosamente la risorsa profughi, si è compreso che l’invasione è – anche – politica, strategica, preordinata. E’ di dominio pubblico la recente nazionalizzazione “temporanea” dei cantieri navali Stx, attualmente appartenenti a imprenditori coreani, pur di non farli finire nelle mani dell’italiana Fincantieri. Nonostante accordi ineccepibili con l’ex presidente Hollande. In altri tempi cose del genere potevano scatenare una guerra. Noi sorridiamo e libiamo ne’ lieti calici.

 

I nostri cari cugini, insomma, crescono, si espandono e si accaparrano risorse fossili, compreso l’uranio, mentre i loro chierici tentano di intortarci con le tavolate slow food.

 

 

 

 

LA CRISI LIBANESE SARA’ LA TOMBA DELLA DINASTIA SAUDITA? IN OGNI CASO E’ UN ALTRO SCHIAFFO AGLI USA. di Antonio de Martini

La saga dei Saud prosegue con continui colpi di scena. Prosegue l’avvincente e documentato resoconto di Antonio de Martini. Il velo di ironia e sarcasmo che pervade lo scritto non fa che accentuare la drammaticità degli eventi_Giuseppe Germinario https://corrieredellacollera.com/2017/11/13/la-crisi-libanese-sara-la-tomba-della-dinastia-saudita-in-ogni-caso-e-un-altro-schiaffo-agli-usa-di-antonio-de-martini/

Immaginatevi che il Primo ministro Paolo Gentiloni vada in America,  all’arrivo invece del benvenuto di prammatica si veda sequestrato il telefonino, venga catapultato davanti a una telecamera a leggere una lettera di dimissioni e a chi lo contattasse per sapere quando torna in Italia, risponda ” a Dio piacendo” e avrete la fotografia di quel che è accaduto tra Libano e Arabia Saudita in questi giorni.

La motivazione del perché avviene è più complessa e andrebbe spiegata con la psicoanalisi prima che con l’analisi politica. Proviamo a dipanare questa intricata matassa di lana di cammello.Procediamo in ordine cronologico distinguendo tra interno ed estero..

Da quando il nuovo principe ereditario ( MOHAMMED BEN SALMAN) ha ottenuto dal re suo padre,( SALMAN BEN ABDULAZIZ)  approfittando della sua infermità, i pieni poteri, la situazione interna ed estera saudita ha iniziato a muoversi con un moto progressivamente accelerato. Impossibile oggi  capire se verso i vertici del mondo o verso il baratro.

SUL PIANO INTERNO

, col solito pretesto della ” lotta alla corruzione” il nuovo aspirante re ha fatto uccidere due tra i figli di  predecessori del re suo padre che avevano la caratura per contendergli il trono ( il figlio di Abdallah e quello di Fahd; ha messo agli arresto nella sua residenza il cugino ministro dell’interno Mohammed Ben Nayaf suo predecessore nel ruolo, arrestato cinque altri cugini figli di re predecessori del padre  e dieci principi minori più undici ex ministri e le tre fortune più importanti del regno.

E’ di stanotte la notizia che avrebbe arrestato l’ex capo dei servizi segreti Bandar ” Busch” Sultan che fu l’iniziatore della guerra alla Siria,  amico intimo dell’ex Presidente USA George W. Bush ( di qui il suo nomignolo) ed è stato lunghi anni ambasciatore saudita a Washington. Per metterci un po di pepe nel minestrone , sua moglie è stata notata dalla commissione di inchiesta come generosa contribuente di un pio conterraneo il cui nome figura tra quelli dei caduti sauditi che hanno condotto l’attentato alle due torri del World Trade Center.

Mohammed Ben Salman , ormai l Crownprince , è figlio dell’attuale re Salman ben Abdulaziz ,ultimo dei sette fratelli di stessa madre ( Hassa , la preferita del fondatore della dinastia) che si sono trasmessi il trono, per via adelfica, dal 1945.                                                                                                                                                                                               Prima d’essere vittima dell’Alzeimer, Salman era reputato come il più rigido della famiglia reale e il solo che nel 1991 si oppose  – nel Consiglio di famiglia composto da 150 persone – alla concessione di basi militari USA sul territorio saudita, con la motivazione che una volta installati non se ne sarebbero più andati. E’ stato facile profeta. Essndo l’ultimo figlio di Abdelaziz,  otttantenne e malato, si pensò che non avrebbe creato problemi , anzi che avrebbe dato tempo per pensare alla successione e al passaggio generazionale.

Appena salito al trono invece, Salman ha nominato – come da attese-  Crownprince Mohammed Ben Nayaf che da quattro anni era succeduto al defunto suo padre nella conduzione del ministero dell’interno. Dopo qualche tempo, però, il re creò una nuova carica: vice principe ereditario, mettendoci suo figlio Mohammed Ben Salman ( ministro della Difesa e capo della polizia religiosa).

I due Mohammed, in perfetto accordo giubilarono Bandar Bush ( creando per un breve periodo una sorta di Consiglio per la sicurezza nazionale con dentro il figlio), misero da parte il principe Muqrin che aspirava a fare da ago della bilancia tra i due  e poi iniziarono il confronto culminato nella nomina a principe ereditario ( che ha unicamente funzioni di primo ministro dato che il re viene nominato dal Consiglio di famiglia) del trentaduenne  figlio prediletto  Mohammed  il quale non ha esitato a sbarazzarsi del più anziano cugino , accoppare i due principi-cugini  più quotati alla successione e terrorizzare i membri più anziani del clan arrestando in totale quindici principi di varia caratura, oggi ospiti del Royal Carlton Hotel  trasformato in una fastosa prigione e ” fully booked” . L’inchiesta sulla corruzione prosegue senza fretta. Sono ostaggi nella più genuina tradizione beduina. E’ stato proibito in tutto il regno, il decollo di jet privati.

Posto che il piano riesca e il Crownprince prevalga, gli resterà da sciogliere il nodo della modernizzazione ( es la patente alle donne) con il fatto che egli ( e il padre) rappresenta l’ala conservatrice wahabita e si è appoggiato alla polizia religiosa nella sua scalata….

SUL PIANO ESTERO

 Come ministro della Difesa , Mohammed Ben Salman avrebbe dovuto passare per il tramite del Ministero degli Esteri per guerreggiare nello Yemen, ma come figlio del re non si attardò in quisquilie e mosse all’attacco, creandosi così una buona rete di amicizie USA tra i fornitori di materiale bellico.

Per la prima volta nella storia della dinastia il ministro degli esteri fu scelto NON tra i membri della famiglia reale e questo fu un primo segnale che sarebbe stata una partita a due.

Come nemico fu scelta la tribù degli Houti confinanti con l’Arabia Saudita a sud . Il pretesto era che stavano diventando una spina nel fianco alleata con l’Iran.        Inaspettatamente, gli Houti – privi di aeronautica-  resistettero, contrattaccarono, occuparono la capitale Sanaa e il giovane principe ebbe il suo primo “scacco al regno”.  Ossessionato dalla onnipresenza iraniana , il saudita si lanciò sulla scia USA nelle vicende irachene  che hanno visto trionfare l’Irak ufficiale ormai in mano agli sciiti per decreto ( 2003)  del proconsole USA Bremer. I Curdi rientrarono nell’ordine e l’Arabia Saudita si trovò confinante con un Irak ricostruito e diventato potenza sciita invece che sunnita come era sempre stato. Potenzialmente soggetto a influenze iraniane.

Sempre in cerca di successi napoleonici che lo legittimassero agli occhi dei sudditi, specie dopo le prime pessime figure, Mohammed Ben Salman decise di egemonizzare il Consiglio del Golfo ( una sorta di UE degli Emirati) fino ad allora gestito assieme al Katar della famiglia Al Thani. La politica del Katar è sempre consistita nel far fluire i denari in tutte le direzioni e supplire alla dimensione minima del paese ( 300.000 abitanti) con partecipazioni e sponsorizzazioni sportive di caratura mondiale.

Invitato a rompere i contatti con l’Iran ,  Tamim al Thani ,  emiro del katar, finse di non sentire. La reazione smodata fu l’accusa ufficiale  di sostenere nascostamente  il terrorismo e la sanzione lampo fu l’embargo.

Gli americani, per mostrare equidistanza autorizzarono comunque una significativa vendita di armi all’emirato. La famiglia al Thani, approfittando che il padre dell’emiro, Ahmad ben Khalifa al Thani,   ( defenestrato su richiesta USA quando iniziarono a girare le voci sui finanziamenti al Daesch) utilizzò il padre installato negli USA, per una intervista televisiva bomba: nella sua veste di ex primo ministro, dichiarò davanti alle telecamere di aver in effetti finanziato il Daesch, e di averlo fatto suprecisa, insistente  richiesta del re Abdallahben Abdulaziz , predecessore dell’attuale, e d’intesa con il governo americano e la Turchia che si sono occupati della distribuzione dei finanziamenti, delle armi, e della selezione dei mercenari. Il gruppo era destinato a ” una partita di caccia alla volpe” siriana. A conclusione della intervista, il vecchio sceicco ha anche posto la pietra tombale al progetto, dichiarandolo fallito.

Come e dove colpire l’odiato Iran? Come recuperare prestigio alla corona? Sconfitto in Siria, scornato in Yemen e ridicolizzato a Doha, restava il Libano.

Mohammed Ben Salman, convoca il primo ministro libanese Saad Hariri ( figlio dell’ex premier, arricchitosi in Arabia Saudita e  saltato in aria nel 2009) e dopo una accoglienza fredda ( nessuno all’aeroporto ad accoglierlo) e quattro ore di anticamera l’indomani, gli ingiunge di muovere guerra all’Hezbollah. Sarebbe come chiedere alla Romania di muovere guerra alla Russia.

Giudiziosamente Saad Hariri gli deve aver risposto che ci ha già provato nel 2006, subendo una sconfitta netta – come sconfitto fu l’esercito israeliano che aveva sottovalutato il problema –  Oggi l’Hezbollah fa parte del governo, alle elezioni ottiene il 50% dei voti ed è armato fino ai denti con in più la campagna di Siria in cui ha acquisito esperienza  operativa di manovra anche a livello di brigata, cosa che l’esercito regolare non ha. Hezbollah è nell’elenco delle organizzazioni terroristiche in USA, ma un movimento che ha dietro di se metà del paese, è un problema politico , non di ordine pubblico.

Altra reazione furente: Mohammed ingiunge a Saad di dimettersi da primo ministro e lo vuole sostituire col fratello maggiore Bahaa che, guarda caso è in Arabia anche lui.  Il Libano insorge in favore del suo giovanotto in pericolo, i dirigenti del partito di Hariri ( il 14 marzo) rifiutano di andare a Ryad a prestare giuramento di fedeltà a Bahaa come richiesto,  spiegando sprezzantemente che in Libano i dirigenti dei partiti li sceglie il partito in un congresso. Pietosa bugia che rivela la paura di non tornare a casa.

il presidente  della Repubblica, generale Aoun ( i cui volontari cristiani hanno combattuto assieme all’Hezbollah in Siria) si rivolge agli USA e alla Francia per ottenere la liberazione dell’ostaggio. Il dipartimento di Stato USA rilascia una dichiarazione di solidarietà e rispetto per Hariri, mentre il presidente francese Macron va in Arabia Saudita a parlare col focoso giovanotto. Esce dichiarando di non essere d’accordo con la politica iraniana del Crownprince e di ritenere che Hariri è trattenuto. Gli americani cerchiobbottisti avventizi, dichiarano che studieranno delle sanzioni a Hezbollah e la Camera dei rappresentanti autorizza eventuali spese in questo senso.

Consapevoli della gravità del momento, Israele e Hezbollah hanno tenuto un profilo basso e insolitamente silenzioso. Il quotidiano Haartez commenta che l’Arabia Saudita vuole far fare a Israele ” il lavoro sporco”.  In sede di analisi, spiega che non vuole intralciare il processo in corso di accordo tra Hamas e Fatah al Cairo e abbisogna di almeno un anno per completare le sistemazioni difensive del Sinai.

Credo che il silenzioso Hezbollah stia cercando tra i familiari del Crownprince la persona adatta a sbarazzarci del matto, mentre Saad Hariri , rintracciato da un giornalista che voleva sapere quando sarebbe tornato in Patria,  avrebbe risposto ” tra giorni”. Inchallah.

Gli USA adesso non sanno che pesci pigliare. Se seguire il rampollo reale nella sua spericolata discesa e inimicarsi anche il Libano, oppure guardare alla dinastia giordana che potrebbe sostituire i sauditi ( wahabiti) nella custodia dei luoghi santi dell’Islam, visto che ormai i wahabiti vengono sempre più considerati come estranei all’Islam. E guidati da due matti. Sono quasi certo che prenderanno la decisione sbagliata.

REVIVAL: BERLUSCONI Sì, BERLUSCONI NO _ di Giuseppe Germinario

REVIVAL: BERLUSCONI Sì, BERLUSCONI NO

La prossimità della scadenza elettorale sta aiutando a dipanare l’intricata matassa degli schieramenti politici in Italia.

Sui programmi ci sarà poco da sottilizzare; tranne singole eccezioni, alla sommatoria di provvedimenti annunciati più o meno verosimili, mancherà l’indirizzo politico coerente, soprattutto riguardo alla collocazione internazionale, al mantenimento di prerogative statali e alla costruzione di una struttura produttiva solida, che possa renderle praticabili e realistiche.

Sulla dinamica degli schieramenti sembra invece incombere una “damnatio memoriae” che sta ricacciando il confronto indietro nel tempo, a venticinque anni fa; con l’ulteriore aggravante del sistema elettorale appena approvato il quale spingerà le forze politiche, in mancanza di successi netti e programmi incoerenti rispetto ai sodalizi iniziali, a sorprendenti giri di valzer postelettorali.

Come ampiamente preannunciato, Berlusconi è tornato ad essere la figura centrale dell’arena politica-politicante italiana. Con essa si pongono le premesse perché l’elemento centrale del dibattito ridiventi il pro o l’antiberlusconismo. Poiché l’immagine del leader, dopo quasi trenta anni protagonismo e ottantuno di età, risulta però troppo sbiadita, ad alimentare sufficientemente il desiderio di roghi e di girotondi contribuirà il suo epigone ed erede virtuale Matteo Renzi; una preda molto più abbordabile in questi ultimi mesi e facilmente affiancabile al protagonista originario.

Cambiano però i paladini della moralità. Cinque lustri or sono furono i leader della “gioiosa macchina da guerra” a inaugurare l’epopea e a rimanere con il sorriso a mezza bocca; oggi toccherà al M5S e all’arcipelago della sinistra riprendere il vessillo della morale e rinchiudersi, probabilmente con lo stesso esito, nella gabbia sterile dei moralizzatori, con annesso corollario di collaborazioni e collusioni istituzionali.

Cambia soprattutto il contesto di recitazione di un leitmotiv ormai logoro per gli anni.

Intanto la magistratura, per meglio dire, diversi settori di quella inquirente, ha perso gran parte della credibilità e dell’autorevolezza e Berlusconi l’esclusiva delle loro attenzioni.

Il Cavaliere detronizzato è tornato ad essere una figura centrale ma non è più il protagonista.

I capitali disponibili un tempo sono un lontano ricordo. La stessa Mediaset è solo in parte ormai la fucina di formazione da cui pescare dirigenti e trarre l’ossatura della formazione politica. Le scelte stesse dell’uomo politico negli ultimi dieci anni hanno incrinato pesantemente la sua credibilità. Oggi dispone di un gruzzolo più risicato, ma essenziale di voti che possono consentire nel migliore dei casi, con la vittoria eventuale del centrodestra, di condizionare e spegnere le pulsioni sovraniste in particolare della Lega di Salvini; in alternativa, in caso di un esito più equilibrato del responso, lo porterebbero alla formazione di un governo condominiale con il PD di Renzi e con ciò, nel male, quantomeno a costringere finalmente a una determinazione degli schieramenti su basi meno confuse ed equivoche.

In attesa delle redde rationem di primavera e dei mesi immediatamente a venire colpisce soprattutto il numero di convitati, a cominciare da Renzi per finire con Salvini, che gli ronzano intorno pronti a posizionarsi nel punto più favorevole.

A cagione della sua età e della tenuta precaria della sua formazione politica non si tratta più di ambiziosi impegnati a conquistare un posto al sole in un partito in fase ascendente; piuttosto, di pretendenti impegnati a spartirsi la parte più consistente delle spoglie politiche del Presidente.

Sarà il momento della verità.

Lo sarà soprattutto per Renzi, ostinatamente arroccato nel suo partito chiuso ad ogni apertura verso i suoi ex commilitoni; lo sarà per Salvini perché sarà il momento in cui si potrà qualificare la sua attuale posizione come puramente tattica o inesorabilmente opportunistica e ballerina.

14444248216Nei vari momenti della propria storia, l’uomo ha avuto una propria particolare idea della “buona morte”. Il Medioevo non sfugge a questa particolarità e poiché il ceto sociale aveva in esso una funzione molto più codificata e ritualizzata, ogni categoria ne assumeva una propria. Contrariamente alle aspettative la buona morte del CAVALIERE, specie di alto rango, non doveva avvenire sul campo di battaglia. L’auspicio comune e dello stesso soggetto interessato era invece quello di una fine lenta e consapevole, malinconica ma non drammatica. Il tempo e la lucidità, magari nel caso indotta e interpretata dai più prossimi al capezzale, gli avrebbe consentito la spoliazione progressiva dai beni terreni e il contestuale progressivo lenimento dell’anima dalle zavorre mondane, residenza d’elezione delle tentazioni luciferine; la condizione necessaria alla ascesa verso l’Essere Supremo.

Era il momento fatidico della soddisfazione delle aspettative più o meno interessate della pletora di questuanti. Dal popolino più miserabile, al cortigiano più infido e a quello più fedele, al delfino prediletto e a quello predestinato, ciascuno si aspettava il giusto riconoscimento e la giusta soddisfazione.

Era anche il momento in cui il protagonista, se in condizione o sapientemente ispirato, poteva cavarsi qualche ultima, definitiva e beffarda soddisfazione verso l’umanità o, cosa più alla portata del momento, verso qualche vicino poco gradito.

Ho il vago presentimento che il Cavaliere dei nostri tempi e delle nostre terre stia preparando nel suo lungo commiato qualche ultima sorpresa.Considerata, con poche eccezioni, la mediocrità del “parterre” che lo circonda e la natura luciferina dei legami stretti, specie negli ultimi dieci anni, è probabile che ci riesca.

LE ELEZIONI IN SICILIA

Le elezioni in Sicilia del 5 novembre scorso sono state in proposito un primo test rivelatore.

Il PD mostra di avere un nocciolo duro grosso modo equivalente all’esito elettorale delle elezioni del 2013 e difficilmente scalfibile, almeno nel breve termine. Una posizione contendibile in caso di risultato pressoché ex aequo tra centrodestra e M5S, ma che difficilmente potrebbe resistere a cinque anni di opposizione. Specie se dovesse proseguire con il suo atteggiamento ondivago. Nelle intenzioni vorrebbe imitare l’esperienza di Macron in Francia, definendo costui, almeno nei programmi e nei proclami, una linea politica netta europeista, governativa ed istituzionale; dall’altra sembra concedere spesso e volentieri molto agli atteggiamenti e alle parole d’ordine “populiste”. Il che la dice lunga sulle capacità e sull’immagine di coerenza di quel gruppo dirigente e di Renzi in particolare. Il conforto e le direttive, profferte in questi giorni ad Obama non saranno certamente sufficienti a compensare queste carenze. Potranno servire, molto più probabilmente, a contenere le esuberanze e le ambizioni del rivale apparente di Renzi: Berlusconi. Più che la forza intrinseca, potrà contare la manina d’oltreoceano.

Forza Italia ha dimostrato di poter contenere i danni, al netto delle transumanze di voto controllato tra uno schieramento e l’altro e in attesa dell’ingresso in campo del leader, per quanto logorato e consunto.

La Lega ha goduto apparentemente di un risultato poco lusinghiero; in realtà, nelle città dove c’è stato un impegno diretto, i risultati si sono visti. Bisognerà valutare la capacità di presenza capillare sul territorio nazionale, cosa del quale dubito. Si tratta, secondo me, di una tendenza comunque troppo lenta rispetto all’agenda prefissata da Salvini. Rimangono comunque gli equivoci di una formazione politica che ambisce a presentarsi come forza nazionale e sovranista ma che intende costruire questo carattere su una pericolosa e immaginaria rappresentazione di un “Italia Federata dei Popoli”; pericolosa e nefasta soprattutto per l’attuale condizione del Mezzogiorno. Un escamotage utile a rammendare le attuali lacerazioni interne al partito, ma del tutto inadeguata a costruire un partito realmente nazionale.

La sinistra, inoltre, sulla quale ho speso e spenderò parole in altre occasioni, ha rivelato la propria irrilevanza e minoritarismo, se non per contribuire allo stallo e alla regressione del Partito Democratico.

Il M5S pare in una situazione di stallo che lo porta a rappresentare al più un’opposizione sterile e di comodo, tanto più che le dinamiche tendono a ricacciarlo nel ruolo di oppositori moralisti meglio disposti a raccogliere dalle voragini e dalle propensioni della sinistra piuttosto che destrorse.

La crescente astensione non inibisce certamente l’azione e l’agibilità delle formazioni politiche. Ne accentua però la fragilità e la rissosità; ne riduce la capacità di estensione del potere piuttosto che la presa sui meccanismi.

Una situazione interlocutoria tipica di una classe dirigente, nella sua quasi totalità, in attesa di eventi determinati da altri e incapace di assumere un ruolo attivo e con un minimo di ambizione autonoma.

Qualche sussulto di ribellione pare emergere nell’affrontare la questione bancaria. Appare, però, il tentativo disperato di difendere il gruzzoletto e il minimo di agibilità politica di una ristretta oligarchia, chiusa in sé stessa e a pochi adepti collaterali, piuttosto che la delimitazione di un fronte da cui ripartire per la ricostruzione del paese.

 

MACRON, il grandiloquente – a cura di Giuseppe Germinario

Un vecchio ministro degli esteri e attualmente saggista, Hubert Védrine, ha qualificato la politica estera della Francia, in particolare quella adottata da Sarkozy e Holland, come “grandeloquente” e ripetitiva. Dietro proclami ambiziosi, pretese di condizionare e trasformare dall’interno il funzionamento dei sistemi di alleanza occidentali, si cela un velleitarismo che sta trascinando progressivamente il paese in una condizione umiliante di subordinazione politica e fallimentare nel perseguimento degli interessi nazionali. Il suo oltranzismo specie nelle politiche mediorientali, l’hanno spiazzata ridicolmente rispetto alle giravolte della diplomazia americana; la sua eccessiva esposizione a favore dei paesi arabi della penisola saudita hanno quasi azzerato la capacità di mediazione in quell’area in cambio di mere promesse di contratti commerciali, in gran parte inevase, e di una infiltrazione pericolosa e destabilizzante di quei regimi nella formazione sociale della Francia; il suo interventismo nell’Africa Subsahariana, con mezzi inadeguati e senza chiari obbiettivi politici, sta riaprendo la strada in realtà al nuovo interventismo americano in quell’area sotto la beffarda copertura del soccorso fraterno. Una nuova versione de “arrivano i nostri”. Macron, a dispetto della novità della Presidenza Trump, sembra proseguire su questa falsariga, trascinando la Francia a sacrificare i residui “atout”, tuttora significativi, che le consentirebbero di assumere un ruolo più autonomo ed autorevole, senza neppure la discrezione e la riservatezza che contraddistingue la posizione similmente miserabile di paesi “fratelli” come l’Italia_ Germinario Giuseppe

Qui sotto il testo tradotto dell’interessante recensione di Jacques Sapir del libro dell’ ex Capo di Stato Maggiore de Villiers, dimissionato l’estate scorsa da Macron. https://www.les-crises.fr/russeurope-en-exil-servir-de-pierre-de-villiers/  Buona lettura

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“La pubblicazione del libro dell’ex Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate, il generale Pierre de Villiers, Servir (pubblicato da Fayard) mercoledì 8 novembre è una sorta di evento. Il generale de Villiers, che è ricordato per essersi dimesso  dopo un conflitto con il capo dello Stato, ci dà la sua versione degli eventi che hanno portato alla sue dimissioni. Questa versione illumina anche sulla natura e le modalità di  rapporto che il presidente Emmanuel Macron intrattiene con le forze di difesa nazionale.

Innanzitutto, c’è l’aspetto relativamente eccezionale di questo libro. Le dimissioni del General de Villiers si sono verificate a metà luglio 2017. Quindi è una testimonianza “calda” quella che ci offre. Inoltre, è raro che un ex capo di stato maggiore tornasse così in fretta sull’argomento del conflitto con il Presidente. Non possiamo fare a meno di notare che, facendo così, il generale de Villiers assume una posizione politica nel dibattito.

Detto questo la forza della testimonianza non viene sminuita. Soprattutto dal momento che il generale de Villiers fa politica senza essere mai un politico. Nella Repubblica, secondo la formula dei Romani, “la resa delle armi alla toga”. È inoltre necessario che la toga, in altre parole l’autorità politica, adotti una posizione coerente. Ed è da questo punto di vista che l’autore del libro è parte. Sottolinea l’incoerenza tra la posizione e le scelte politiche e la loro traduzione nelle cifre di bilancio. Ad una lettura attenta del libro, è quindi chiaro che ha voluto fornire una testimonianza diretta sia ad agli alti ufficiali che al pubblico in generale, non tanto per giustificare sé stesso (e questo lo avrebbe potuto rendere ” politicante “) quanto per illuminare gli uni e gli altri riguardo l’importanza del dibattito sulla politica di bilancio della difesa e del conflitto, quindi, da lui sostenuto con le autorità civili,

Quale rimprovero dunque del Presidente della Repubblica al generale de Villiers? Solo per aver, in termini certamente rudi, illuminare la rappresentazione nazionale delle implicazioni delle scelte di bilancio. Il generale ha pertanto indicato, era suo dovere, davanti al Comitato Nazionale di Difesa, che i risparmi di 850 milioni di euro richiesti quest’anno alle Armi nell’ambito degli aggiustamenti di bilancio, pur in un contesto di restrizioni del bilancio generale, non erano accettabili o potrebbero compromettere lo sforzo richiesto alle forze armate.

Perché è importante sapere che il generale de Villiers non si esprime sulla questione degli orientamenti della politica di difesa. Come un buon repubblicano, egli ritiene che questa questione sia totalmente nel registro del potere politico. Per contro, egli si sente qualificato nel dire che, date le scelte fatte in materia di politica di difesa, il nuovo sforzo di risparmio chiesto al Ministero della Difesa avrebbe conseguenze disastrose, in particolare negli impegni all’estero delle forze armate.

Abbiamo tutti il diritto di pensare il contrario. Ma se il capo di Stato non informa la rappresentanza nazionale del suo punto di vista, chi lo farà?

Il libro del generale de Villiers pone pertanto un problema politico: quale grado di controllo parlamentare è disposto ad accettare sulla politica di difesa Emmanuel Macron? Infatti, secondo la Costituzione della Quinta Repubblica e secondo le prassi consolidate per oltre un secolo, se l’esecutivo decide (e il generale de Villiers non mette in discussione), esso è anche soggetto a controllo la parte del Parlamento. Tuttavia, affinché tale controllo non sia puramente formale, è necessario che i parlamentari siano adeguatamente informati della situazione e in particolare della coerenza tra gli obiettivi e i mezzi.

Pertanto, non può esserci alcuna aspettativa per un capo di Stato Maggiore a autolimitarsi a commentare o illustrare la politica di difesa. Il generale de Villiers ha ritenuto che fosse suo dovere informare la Rappresentanza Nazionale dell’incoerenza tra gli obbiettivi assunti e la riduzione dei mezzi finanziari. Così ha fatto e per questo è stato punito.

“La vera fedeltà consiste nel dire la verità al proprio capo ” , scrive il generale de Villiers in un libro privo di ogni acrimonia. Questo è uno dei grandi punti di forza di questo libro. Ora, il capo del generale de Villiers non è solo il Presidente della Repubblica, ma è anche il Parlamento. “La vera libertà è essere in grado di farlo, qualunque siano i rischi e le conseguenze (…) La vera obbedienza si prende gioco dell’obbedienza cieca. È l’obbedienza dell’amicizia “, scrive anche lui. Quindi si percepisce che c’era tra i due uomini se non l’amicizia, almeno il rispetto. E questo rende più incomprensibile il metodo scelto da Emmanuel Macron per reagire alle dichiarazioni, tutto sommato normali, del generale de Villiers.

Il metodo adottato da Emmanuel Macron comporta pertanto un problema politico maggiore. Avrebbe potuto convocare il Capo di Stato Maggiore, esprimere le proprie rimostranze, al limite chiedere – ha il potere di farlo – le sue dimissioni. Ha scelto di umiliarlo pubblicamente. Non può essere una scelta di circostanza; a questo livello è soprattutto una scelta politica. Ma per voler umiliare uno assume il rischio di isolarsi, di tagliarsi fuori dalle realtà. Che in definitiva porta implicitamente alla seguente domanda: è Emmanuel Macron in grado di compiere la missione di cui è stato investito dal suffragio universale?

È quindi necessario leggere attentamente le frasi scritte da Pierre de Villiers che non sono senza profondità. Si ripete, non si tratta di un proclama risentito, ma di una relazione. E, ciò che rivela gela il sangue. Queste frasi indirettamente spargono una luce cruda sul metodo di Emmanuel Macron come sul suo carattere.

Questo libro verrà letto, nel pubblico ma anche nell’esercito. Questo è certamente quello che vuole Pierre de Villiers. Possiamo quindi fare riferimento a esso. Quindi non saremo sorpresi se, filo per filo, riveli un Emmanuel Macron molto diverso dal giovane un po’ affettato che i media ci hanno venduto.

Jacques Sapir”

 

Dalla mia palla di cristallo, di Roberto Buffagni

Dalla mia palla di cristallo

Bollettino elettorale n. 1

 

Io non guardo la TV, però ho la palla di cristallo. E’ un modello antiquato, analogico, un cassone pieno di transistor grossi come radioline: il futuro lo indovina, ma i futuri possibili sono tanti, e la sintonia è quello che è. Insomma, se ci scommettete i risparmi di una vita non venite a lamentarvi da me, io non rimborso nessuno.

Che succederà nelle elezioni politiche del 2018 & post? I canali della mia palla di cristallo vedono così i futuri possibili.

Canale 1.  Né centrosinistra né centrodestra riescono a formare una maggioranza parlamentare stabile. I grillini sono il primo partito per numero di voti, ma nonostante lusinghe da destra e sinistra si tengono la loro rendita di (op)posizione e non si schierano con nessuno. Si spalanca sotto i piedi delle classi dirigenti italiane un terrificante ibrido tra burrone e palude. Non possono come al solito buttare il gatto morto della responsabilità nazionale nel giardino UE, e attendere serene l’invio di letterina eversiva + insediamento di governo tecnico, perché la UE gli ha già fatto capire che vuole portargli via la pupilla dei loro occhi, le banche italiane. Qualcosa insomma devono inventarsi, le classi dirigenti italiane, bricolandolo in proprio con i mezzi di bordo e senza il manuale di istruzioni UE.

Canale 2. Il PD sfiora la catastrofe, ma non ci precipita a capofitto, Renzi che è tuttora il politico più abile e motivato sopravvive, ma resta molto debole sia perché prende pochi voti, sia perché il suo sponsor internazionale, il partito democratico americano, è diviso e all’opposizione. Il centrodestra supera il centrosinistra, Silvio B. supera Salvini di pochi o pochissimi punti percentuali. I numeri impongono le grandi intese, ma Salvini non ci può stare sennò si suicida: dovrebbe rovesciare di 180° la sua linea politica antiUE, e gli squali del Lombardo Veneto lo sbranerebbero. Paralisi, ammuina, resa finale alla realtà. Si indicono nuove elezioni. Giustificandosi con la salvezza della nazione (= banche italiane + status quo) Renzi e Silvio B. spaccano le loro coalizioni e i loro partiti, inventano un nuovo movimento modello Macron 2.0, Tiremm Innanz, e tentano il colpo gobbo. Purtroppo, al momento delle nuove elezioni la mia palla di cristallo si disconnette.

Canale 3. Il PD si prende una mazzata epocale, Renzi viene crocifisso. Il centrodestra riesce ad aggiudicarsi una maggioranza parlamentare benché risicata. Salvini supera Silvio B. di pochi punti percentuali. Panico, ammuina, tentativi disperati di Mattarella di trovare qualcun altro che formi un governo, ma nessuno ha voglia di suicidarsi, i kamikaze scarseggiano. A malincuore, Mattarella deve dare l’incarico a Salvini, e Salvini non lo può rifiutare. Salvini Presidente del Consiglio è come Alvaro Vitali/Pierino che interpreta Amleto, non ha esperienza internazionale, è socialmente impresentabile, non dispone di una squadra di governo nazionale e locale all’altezza, e ha più nemici all’interno della Lega che all’esterno; il che è tutto dire, perché all’istante parte una campagna di character assassination nazionale & internazionale, suffragata da alcuni errori di inesperienza del malcapitato. Dopo due anni di lacrime, sangue e prese in giro il governo leghista cade. Ciao ciao opposizione alla UE per almeno dieci anni.

Canale 4. Tutto come sul canale 3 fino alla seconda riga: Il PD si prende una mazzata epocale, Renzi viene crocifisso. Il centrodestra riesce ad aggiudicarsi una maggioranza parlamentare benché risicata. Salvini supera Silvio B. di pochi punti percentuali. Panico, ammuina, tentativi disperati di Mattarella di trovare qualcun altro che formi un governo, ma nessuno ha voglia di suicidarsi e a malincuore, Mattarella deve dare l’incarico a Salvini. Salvini però il pomeriggio precedente riceve la visita della Madonna di Fatima, che gli dice: “Matteo, non fare la scemenza di accettare l’incarico di Presidente del Consiglio, non fa per te. Tu sei come Mosè: il tuo compito è liberare il popolo italiano, così caro al mio cuore, dalla schiavitù della Falsa Europa senza Dio, e fargli attraversare il deserto della transizione. Tu però non vedrai la Terra Promessa della Vera Europa dell’armonia di popoli e nazioni. Insomma: mandaci qualcun altro a fare il Presidente del Consiglio.” Salvini che in fondo in fondo è un bravo ragazzo ci pensa su, si rende conto che gli conviene allargare la sua base di consenso e trovare una personalità rispettata e capace che gli tolga le castagne dal fuoco, e si mette in riga. Telefona a Tremonti che appena risponde gli fa, “Non ci crederai, ma stanotte ho sognato la Madonna che mi annunciava una tua telefonata”. Tremonti forma un governo, e mentre gli italiani meno vocati al suicidio incrociano le dita comincia a fare le prove generali di un recupero di indipendenza italiana all’interno della UE. Poi, se son rose fioriranno (se non son rose, bè, non serve la palla di cristallo per sapere come andrà a finire).

Canale 5. Sul canale 5 si vedeva molto male, ricezione difettosissima, solo tanti flash. Flash: Movimento 5 Stelle che forma il governo con PD & frattaglie sinistrorse, bzzz, flash: Silvio B. dà l’appoggio esterno al governo, bzzz, flash: pioggia di cavallette, bzzz, flash: patrimoniale apocalittica per finanziare il reddito di cittadinanza, bzzz, flash:  partita a calcetto, papa Francesco e Di Maio capitani di due squadre multietniche, bzzz, flash: ius soli anche per i marziani, bzzz, flash: Le radeau de la Meduse, bzzz, flash: Dante Alighieri che singhiozza, Giambattista Vico che si inietta un’overdose di eroina, bzzz, flash: Di Maio stringe la mano di Angela Merkel, sottoflash su accordo bilaterale Germania-Italia, i pensionati tedeschi vengono a vivere tutti da noi in zone extraterritoriali dove vige il diritto germanico, i laureati italiani con 110&lode vanno tutti a lavorare in Germania come indentured servants, bzzz, flash: suona la campanella del Finis Italiae, bzzz, bzzz, bzzz.

E questo è quanto vi dovevo, per ora. Chi disponesse di palla di cristallo, meglio se di modello più recente della mia, è invitato a farci sapere quel che ha visto.

GLI USA VOGLIONO RIALLINEARE L’ARCHITETTURA DEL DOMINIO MONDIALE CON LA FORZA DELLE ARMI. (a cura di) Luigi Longo

GLI USA VOGLIONO RIALLINEARE L’ARCHITETTURA DEL DOMINIO MONDIALE CON LA FORZA DELLE ARMI.

(a cura di) Luigi Longo

 

La lettura dell’articolo di Federico Dezzani su Assalto all’Eurasia: la Corea del Nord è solo l’antipasto, apparso sul blog: www.federicodezzani.altervista.org il 26 ottobre m.s., è interessante perché fa riflettere sulle strategie di attacco a tutto mondo degli Stati Uniti d’America.

La prima riflessione. Gli USA minacciano ritorsioni contro la Corea del Nord perché si è dotata della prima bomba termonucleare per la difesa della propria indipendenza. Le minacce non riguardano tanto la Corea del Nord, quanto la Cina e la Russia (l’Heartland) perché osano mettere in discussione gli attuali equilibri statunitensi nell’area pacifica (per non parlare nell’area mediorientale e africana) e indebolire i nodi strategici del Rimland (che va dall’Europa all’estremo Oriente).

La seconda riflessione. L’Europa delle regioni, che avanza sulle rovine delle nazioni, renderà impossibile qualsiasi ruolo da protagonista, nelle fasi multicentrica e policentrica, sia delle nazioni sovrane sia di una futura Europa delle nazioni sovrane.

La terza riflessione. Gli USA vogliono evitare qualsiasi ipotetica alleanza tra la Cina (attuale potenza economica) e la Russia (attuale potenza militare) che possa mettere in discussione il loro dominio mondiale in declino, che essi rilanciano con la forza delle armi perché non accettano un mondo multicentrico. Questo, a prescindere dal conflitto interno tra i loro agenti strategici: la potenza imperiale americana nella rappresentazione formale che fa di se stessa, ha la guerra come forma privilegiata, se non addirittura unica, di attestazione della sua esistenza, oltre ad una missione speciale da compiere ed essere pertanto, l’unica nazione indispensabile del mondo (Progetto Messianico).

Non so se le potenze mondiali sono già delineate all’interno dello scontro tra Terra e Mare: i giochi sono aperti e la fase multicentrica sta delineando i centri delle potenze mondiali che saranno definite con le loro alleanze nella fase policentrica. Resta da capire bene le strategie e le percezioni del mondo della Cina sia in relazione alla Russia sia in relazione agli USA (senza dimenticare l’India).

Le relazioni cinesi e russe a livello mondiale, in questa fase, sono orientate rispettivamente l’una dalle sfere economico- finanziaria e politica, l’altra dalle sfere militare e politica: ciò è insufficiente per mettere in discussione l’egemonia statunitense. Quindi parlo di due potenze mondiali emergenti che si difendono dall’attacco degli USA e lottano per un mondo multicentrico nel rispetto delle proprie differenze.

L’Europa? Essa è uno spazio americanizzato e occupato da basi militari USA-NATO (qui la Nato è intesa prevalentemente come strumento militare dell’agire statunitense) e non sarà protagonista nelle diverse fasi della storia mondiale. E’ sempre più un continente in mano agli USA per le loro strategie di dominio.

 

 

ASSALTO ALL’EURASIA: LA COREA DEL NORD È SOLO L’ANTIPASTO

di Federico Dezzani

Crescono le tensioni tra la Corea del Nord e gli Stati Uniti d’America: la determinazione di Pyongyang a sviluppare il proprio deterrente nucleare si scontra con la convinzione di Washington che l’atomica nordcoreana abbia una natura offensiva. È ormai chiaro che, qualsiasi amministrazione occupi la Casa Bianca, la strategia di fondo non cambia: la potenza marittima americana ed i suoi alleati mirano a circondare il blocco euroasiatico su ogni lato. L’arsenale atomico di Pyonyang è solo un pretesto per militarizzare la regione e contenere la potenza navale cinese. Un’eventuale attacco alla Nord Corea anticiperebbe soltanto una guerra già ben delineata: l’ennesimo scontro tra terra e mare.

 

L’Heartland (Cina e Russia), il Rimland (la Corea) e le potenze marittime (USA)

Marx ed Engels definivano “struttura” l’economia e il sistema produttivo, “sovrastruttura” la politica, la cultura e la religione. La storia universale sarebbe quindi, secondo i due filosofi tedeschi trapiantati a Londra, questione di lavoro e capitale. Sbagliarono e, probabilmente, furono anche consapevoli del loro errore. “Struttura” è la volontà di potenza degli Stati e la geopolitica, la scienza che studia questa volontà di potenza, è il miglior strumento per capire ed interpretare la storia. In particolare, la storia è basata sulla volontà del “mare” di sottomettere la “terra” e sull’opposto desiderio della “terra” di domare il “mare”. Atene contro Sparta, Cartagine contro Roma, i Saraceni contro Bisanzio, Olanda contro Spagna, Inghilterra contro Francia, Londra contro Berlino, Washington contro Mosca.

Di fronte a questo scontro plurisecolare, mosso da forze telluriche che trascendono il contingente, tutto è “sovrastruttura”: tutto è accessorio, superfluo, quasi scontato. Le ideologie, le religioni, le singole personalità politiche. Tutto si muove perché la terra ed il mare bramano la guerra, in attesa della battaglia finale (se mai verrà).

È più utile, per chi volesse capire lo scenario internazionale, lo studio di “The Geographical Pivot of History”, pubblicato nel 1904 da Halford John Mackinder che la lettura di tutta la stampa specializzata attuale. Mackinder, esponente di spicco della talassocrazia per eccellenza, il Regno Unito, osserva il mappamondo ed individua nel cuore dell’Eurasia, zona inaccessibile alle potenze marittime, “l’area pivot” del globo terrestre: quell’area che, se debitamente organizzata dal punto di vista militare, logistico, economico e sociale, può schiudere, per chi la controlla, l’egemonia mondiale. Mackinder, in particolare, osserva con timore la costruzione delle ferrovie russe, capaci di spostare merci e soldati nelle sconfinate pianure come navi sul mare. Guai, dice Mackinder, se la Russia si alleasse alla Germania. Con un’incredibile preveggenza, Mackinder, chiude il suo pensiero con uno scenario ancora più preoccupante: l’integrazione tra la Cina ed il retroterra russo.

Seguiranno due guerre mondiali, che consentiranno agli angloamericani di annichilire la Germania e insediarsi in Europa (NATO-CEE/UE) e in Oriente (CENTO e SEATO, poi sciolte).

Durante lo svolgimento della Seconda Guerra Mondiale, lo stratega olandese, naturalizzato americano, Nicholas J. Spykman (1893-1943), pubblica un’opera (America’s Strategy in World Politics) che vuole aggiornare ed integrare il lavoro di Mackinder, per adattarlo alla prossima realtà geopolitica: poco importa, dice Spykman, chi controlla l’Heartland (URSS e la Cina che diverrà presto comunista), l’importante è che le potenze marittime “contengano” il nemico, circondandolo con una serie di Stati-satelliti così di depotenziarlo. A fianco dell’Heartland, nasce così il “Rimland”, rappresentato da tutti quegli appigli (dall’Italia al Giappone, passando per l’India) con cui le talassocrazie possono aggrapparsi alla masse terrestre. Non è, in realtà, un pensiero nuovo: già Mackinder, infatti, aveva evidenziato l’importanza di queste “teste di ponte”, indispensabili per le potenze marittime. Tra le teste di ponte citate da Mackinder nel 1904… c’è anche la Corea!

Iosif Stalin, ben consapevole dell’importanza di questo lembo di terra lungo 950 km, piuttosto brullo ed inospitale, decide di sfrattare gli americani dal condominio che si è creato dopo la sconfitta del Giappone: sovietici ed americani, infatti, si incontrano al 38esimo parallelo ed ognuno, nella propria metà, ha installato un governo amico. All’alba del 25 giugno 1950, l’esercito nordcoreano attraversa il 38esimo parallelo, travolgendo le difese sudcoreane. Caduta Seul, il 30 giugno, il presidente Truman autorizza il generale Douglas MacArthur ad intervenire: comincia così la guerra che si protrarrà fino al 1953 e si concluderà con un sostanziale pareggio (il confine tra le due Coree rimane fissato al 38esimo parallelo), grazie al massiccio intervento della Cina. Il regime di Kim Il Sung (1912-1994) supererà la Guerra Fredda senza altri particolari colpi di scena, grazie al costante appoggio cinese.

Simpatico aneddoto: l’ex-agente del SISMI, Francesco Pazienza, incontra i nordcoreani negli anni ‘80 alle isole Seychelles, dove gestiscono il servizio informazioni del presidente Ti France René. Propongono a Pazienza di eliminare un agente CIA, di cittadinanza italiana, che gira per le isole facendo troppe domande: il suo nome è Antonio Di Pietro1.

Nel 1991 collassa l’URSS e le potenze marittime riprendono la loro marcia verso l’Heartland (allargamento ad est della NATO, Georgia, Asia Centrale, etc. etc.). In questo contesto, la Corea del Nord è una potenza ostile situata nella fascia intermedia, il suddetto Rimland: il suo destino dovrebbe essere lo stesso quello della Jugoslavia. L’amministrazione Clinton, che apre le porte del WTO della Cina, ha però scarso interesse a scatenare una guerra a poca distanza dall’area in cui le imprese americane stanno delocalizzando. L’amministrazione Bush valuta il cambio di regime nel 2003, ma il pantano iracheno raffredda l’ardore bellico di Donald Rumsfeld e soci.

Resta il fatto che qualsiasi Stato ostile agli USA e privo di arsenale atomico può essere rovesciato in qualsiasi momento: Pyongyang accelera quindi il proprio programma nucleare bellico, usando uranio locale, e nel 2006 effettua con successo il primo test atomico. Nel caos dell’Ucraina post-Euromaidan2 (2014), i nordcoreani acquistano i missili balistici SS-18; il 29 agosto 2017 lanciano il primo vettore che sorvola il Giappone per inabissarsi nel Pacifico; il 3 settembre 2017 testano la prima bomba termonucleare.

La Nord Corea è ora nel ristretto club atomico: dispone di un arsenale che, in teoria, dovrebbe dissuadere qualsiasi aggressore. Il celebre “deterrente nucleare”.

La storia finirebbe qui se, come però sottolineato in precedenza, la penisola coreana non fosse parte di quel “Rimland” con cui le potenze marittime circondano, contengono e, all’occorrenza, attacco “l’Heartland”: è proprio quest’ultimo, non la piccola Corea del Nord, che ossessiona le talassocrazie.

L’intero continente euroasiatico, dal Mar Meridionale Cinese al Mar Baltico, si sta coprendo di ferrovie ad alta velocità ed alta capacità, anno dopo anno. Cina e Russia conducono esercitazioni navali congiunte nel Pacifico come nel Mediterraneo. Gasdotti ed oleodotti attraversano i due Paesi. Pechino costruisce linee ferroviarie capaci di raggirare lo Stretto di Malacca (attraverso la Birmania) o di raggiungerlo in poche ore (attraverso la Malesia), indebolendo così la funzione di Singapore. “L’area pivot” di Mackinder non è mai stata così viva e dinamica, ponendo le talassocrazie di fronte ad un bivio: la capitolazione o l’attacco.

È in questa cornice che va collocata la tensione tra angloamericani e nordcoreani: poco importa a Washington dell’arsenale di Kim Jong-un, molto invece della crescente potenza navale cinese (nell’aprile del 2017 i cantieri di Dalian hanno varato la prima portaerei Made in China) e della cooperazione con quella russa. Sia Mosca che Pechino ne sono coscienti ed è per questo che a settembre hanno votato in sede ONU le sanzioni contro Pyongyang, sebbene edulcorate quanto basta da non portare il regime al collasso3: il nucleare nordcoreano è soltanto un pretesto utile alle talassocrazie per tentare di strangolare il blocco continentale.

Un comodo espediente per il dispiegamento dei missili THAAD in Sud Corea4, duramente contestato dalla Cina, per il riarmo del Giappone (che gioca oggi un ruolo identico al Giappone filo-britannico ed anti-cinese di inizio Novecento), per la riesumazione della SEATO: sono questi gli obbiettivi che interessano a Washington e Londra, resi possibili dall’arsenale atomico nordcoreano. Il presidente Donald Trump, sempre più avvinghiato nella ragnatela di Washington, lancerà un attacco preventivo contro la Nord Corea? Se così fosse, significherebbe soltanto anticipare al 2017 una guerra già ben delineata. L’ennesimo scontro tra terra e mare.

1Francesco Pazienza, il Disubbidiente, Longanesi, 1999, pg. 460

2https://www.nytimes.com/2017/08/14/world/asia/north-korea-missiles-ukraine-factory.html

3https://www.vox.com/world/2017/9/12/16294020/russia-china-water-un-sanction-north-korea

4http://edition.cnn.com/2017/09/07/asia/south-korea-thaad-north-korea/index.html

UN MONDO SENZA EUROPA, intervista a Marcello Foa (tratta da ticinolive.ch)

Marcello Foa:”L’Europa non ha più una Politica Internazionale”|Panoramica sulla Politica Mondiale

NOTA DEL REDATTORE_ Marcello Foa è un giornalista-intellettuale, esperto di mass-media e tecniche di comunicazione (da segnalare il suo libro “”Gli stregoni della notizia_ed GUERINI E ASSOCIATI), figura riconosciuta di quel mondo liberale ormai sempre più attratto dalle chiavi interpretative del realismo politico. Chiavi utilizzate da più punti di vista i quali a volte partono “dal basso” dei fondamenti popolari, democratici, meglio del cittadino, a volte “dall’alto” dell’azione delle élites. E’ il terreno d’incontro, quello dell’azione dei  centri strategici, sul quale le varie culture politiche che hanno conformato l’azione politica nel ‘800 e nel ‘900 ma che sono attualmente in crisi profonda, possono individuare nuovi fondamenti sui quali poggiare l’azione politica. Qui sotto l’interessante intervista_Germinario Giuseppe http://www.ticinolive.ch/2017/11/02/marcello-foaleuropa-non-piu-politica-internazionalepanoramica-sulla-politica-mondiale/
Marcello Foa, in un’intensa intervista, densa di contenuti, racconta a Ticinolive la sua visione in merito ai leader mondiali d’Europa, America, Russia Turchia e Medio Oriente

Marcello Foa, scrittore e giornalista

Europa. Macron il candidato europeista getta la precedente maschera del cambiamento. Cosa ne pensa?
«Bisogna innanzitutto capire chi sia davvero Macron: già il fatto che stia calando nei sondaggi è emblematico. Ha conquistato l’Eliseo sulla base di promesse che, una volta eletto, ha smentito quasi subito.  Come avevano intuito solo pochi osservatori, la sua elezione è in realtà frutto di un’operazione di Marketing politico. Jacques Attali, il guru della politica francese aveva profetizzato, un anno prima del voto, che a vincere le elezioni sarebbe stato uno sconosciuto, capace di cavalcare l’onda della voglia di cambiamento del popolo. In un’intervista televisiva Attali aveva ipotizzato proprio i nomi di Macron e di Le Maire. (quest’ultimo è comunque diventato ministro dell’economia). Tutto ciò dimostra come dietro l’elezione di Macron vi fosse un disegno ben definito. Macron non è l’interprete di un vero cambiamento, è piuttosto il rappresentante dell’establishment e ora getta la maschera; è in continuità con Hollande. Il suo disegno è di rafforzare l’Europa e scongiurare possibili uscite dall’UE.»
Si dice che Macron abbia vinto anche per questo, ovvero per il timore di uscire dall’UE nel caso di vittoria dell’avversaria Le Pen
«Tematiche vecchie. Personalmente ritengo che per qualunque popolo sia legittimo voler uscire dall’Unione Europea e difendere la propria sovranità. Anche in Germania, ad esempio, nonostante il successo di Angela Merkel, ci sono segnali di disaffezione. Con l’elezione di Macron l’obiettivo di prolungare la stabilità dell’Unione dopo lo choc della Brexit è stato raggiunto, ma di sicuro l’Unione Europea continuerà a non dormire sonni tranquilli, come dimostrano i recenti risultati in Austria e nella Repubblica Ceka.»
Angela Merkel viene rieletta con uno scarso successo. Cosa ne pensa? Ritiene che la spinta di AfD avrà ripercussioni sull’Europa oppure sia irrilevante?
«La Merkel, nonostante la sua straordinaria passata lungimiranza politica, è uscita decisamente ridimensionata dalle ultime elezioni e la coalizione Jamaica stenta a decollare. È una Merkel meno forte di prima che deve contare ora su due alleati, anziché su uno solo. Il successo di AfD si basa soprattutto su due fattori: anzitutto i cosiddetti Mini Jobs, pagati pochissimo (4-500 euro mensili), che danno lavoro a oltre 7 milioni di tedeschi; in secondo luogo l’immigrazione incontrollata, permessa per un certo periodo di tempo, ha provocato reazioni di rigetto molto forti. Inoltre l’ex Germania dell’Est non è risorta come ci si poteva aspettare. Tutto ciò per dire come la Germania, benché sia il primo Paese europeo, debba affrontare problemi interni che la Merkel non ha risolto e davanti ai quali non può continuare a chiudere gli occhi. Inoltre, sino a quando i paesi d’Europa accetteranno l’egemonia della Germania? La Francia di Macron ha bisogno di Berlino per spingere la propria agenda europeista, però i liberali tedeschi, probabili alleati della Cdu, sono molto più freddi al riguardo. molto meno convinti di riporre la loro fiducia nella Cancelliera. E sino a che punto la Merkel stessa potrà permettersi di sostenere l’agenda di Macron?»
L’Europa chiude gli occhi di fronte ai problemi, anche alla Questione Catalana…
«L’UE si è schierata con Rajoy, poiché altrimenti, se avesse sostenuto la causa catalana avrebbe rischiato di incoraggiare altri movimenti indipendentisti aspiranti alla secessione in altre regioni europee. E’ interessante notare come i Catalani non siano antieuropeisti, ma, al contrario, abbiano sempre progettato una secessione restando un paese all’interno dell’UE stessa. Ma questo non è bastato a convincere Bruxelles che ora teme qualunque forma di instabilità.»
Trova un parallelismo con la Lega Nord degli anni ’90 di Bossi, la cui Secessione prevedeva una Padania nell’orbita europea e non al di fuori di essa?
«Anche se Bossi non aveva il consenso che ha tutt’ora Puigdemont, il paragone è plausibile. Tuttavia non riguarda la Lega di oggi che non mette più questi temi al centro del proprio progetto politico.»
Proprio in merito a Puigdemont, un leader politico in esilio, cosa pensa?
«La Catalogna è un paradigma: è giusto concedere l’indipendenza a un popolo che la reclama? In Kosovo la risposta occidentale fu sì, in Catalogna è no… D’altra parte la questione, una volta portata all’estremo, non doveva essere abbandonata: Puigdemont, fuggendo in Belgio, ha dimostrato che non era pronto a condurre gli eventi, né a gestire una sfida così grande. La Catalogna è una lezione per tutti coloro che sognano grandi cambiamenti, come l’abbandono dell’euro: si può fare ma con un livello di preparazione altissimo e un leader davvero all’altezza. Puigdemont chiaramente non lo era e non lo è.»
America. Trump è stato eletto contro la maggior parte dei pronostici. Come vede la sua figura?
«Trump ha interpretato con successo il disagio dell’America profonda; raccogliendo consensi anche tra l’elettorato che aveva creduto alle promesse di cambiamento di Obama. La furibonda opposizione a Trump nasce dal fatto che egli non appartiene all’establishment, a cui invece aderiscono i leader democratici e repubblicani. Ma l’establishment non poteva permettersi di perdere la Casa Bianca, da qui la reazione. Trump si è fatto “normalizzare”, soprattutto sul piano della politica internazionale: per esempio aveva promesso una politica molto meno interventista in Medio Oriente e invece ha continuato sulla stessa linea in Siria; chiaramente non ci sarà la distensione con la Russia e, ancora, in politica economica non ha ancora limitato le politiche globaliste a favore di programmi di tutela nazionale. Trump continua ed essere imprevedibile solo sul fronte mediatico, ma nella sostanza ha fatto molti passi indietro; eppure, nonostante ciò, l’establishment non lo accetta, e cerca di estrometterlo con ogni pretesto.»
Russia. Cosa pensa riguardo ai rapporti tra Russia, Europa e Stati Uniti?
«L’Europa avrebbe tutto l’interesse ad avere rapporti distesi con Putin, ma si è accodata all’America accettando di sanzionare Mosca. L’Europa di oggi non ha più una politica internazionale, come dimostra l’emblematico caso in cui Biden, ex vice di Obama, preso da slancio durante una sua conferenza in un’università, ammise: “Abbiamo costretto i nostri amici europei a imporre le sanzioni alla Russia”. Le logiche sono esclusivamente americane, per gli europei di dubbio beneficio. A mio giudizio mirano a un cambio di regime a Mosca, con un leader amico al posto di Putin, il quale però è molto scaltro e ancora oggi molto popolare.»
Putin, a differenza dei leader sovracitati è al potere da quasi vent’anni. Come giudica il suo operato?
«Continuerà ancora per molto a stare al potere, e a governare abilmente il suo Paese. Personalmente conosco la realtà della Russia, Paese che ho seguito da inviato speciale dagli anni ’90 sino al 2008. In questo lasso di tempo la Russia è cresciuta, anche nelle classi sociali più basse la povertà è diminuita. La popolarità di Putin è autentica e le logiche russe sono, all’Occidente, sconosciute. Il successo economico è attribuibile al petrolio e Putin negli anni di prosperità ha commesso un errore: quello di non aver spinto la conversione e la diversificazione dell’economia russa; lo sta facendo ora, dopo le sanzioni ma, se lo avesse fatto prima, oggi la Russia sarebbe più forte. Per quanto riguarda la politica estera, la sua capacità di prendere in contropiede gli Usa, ad esempio in Siria, è stata notevole, grazie anche all’intelligenza dei suoi collaboratori.»
Oriente. Proprio riguardo la suddetta Siria, cosa pensa del paese e del suo governatore, Assad?
«La guerra in Siria si combatte ormai da alcuni anni, la cosiddetta Rivoluzione Colorata altro non è stata che una maschera di una rivoluzione in realtà violenta. La novità è che non si è conclusa con la caduta del regime come invece era accaduto per la Tunisia, l’Egitto e, in modo assai violento, in Libia, nel 2011. Certamente la Siria non tornerà il Paese di prima e il prezzo pagato in termini umanitari sarà davvero spaventoso.»
Turchia. Come giudica Erdogan, tra la maschera di una politica moderata e la contemporanea missione di islamizzazione?
«Sono sempre stato molto scettico su Erdogan. Già dieci anni fa, in controtendenza rispetto all’opinione di allora, scrivevo che l’allora premier fosse tutt’altro che un moderato, e che perseguisse un’agenda nascosta di matrice fondamentalista. Erdogan è un integralista, e si considera l’erede non di Ataturk ma del Califfato ottomano. Ciò ha delle implicazioni molto forti, perché sposta gli interessi strategici turchi verso i Paesi del Golfo. La questione della Turchia dovrebbe esser presa seriamente in considerazione da parte dell’Occidente, tenendo anche conto che è un paese membro della NATO. L’Occidente si dovrebbe porre delle domande chiedendosi, ad esempio, se sia giusto chiudere gli occhi di fronte agli arresti dei giornalisti e alle innumerevoli volte in cui in Turchia sono stati calpestati i diritti umani. Come dire: possiamo davvero fidarci della Turchia di Erdogan?»

Intervista di Chantal Fantuzzi

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