Italia e il mondo

LA CAPANNA DELLO ZIO TOMAHAWKS_con Gianfranco Campa, Cesare Semovigo, Giuseppe Germinario

Una conversazione che vede poche buone nuove e molte notizie preoccupanti. Lo scontro politico all’interno del mondo Anglosassone è senza quartiere . Trump ha barattato mano libera nella politica interna lasciando ai rep-neocon ( ancora ) campo libero ?

Cosa ne pensate ? Rispondete nei commenti .

Un imperiale Gianfranco Campa intervistato da Semovigo e Germinario .

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Il tempo a prestito_di WS

L’ amico Ernesto porta sempre più  dei contributi molto complessi  che  superano  la  dimensione  del  semplice  “commento  disqus”  e che    meriterebbero  una  esposizione più estesa,  cosa  che Ernesto ha dimostrato  di poter  fare (  se lo  vuole, ovviamente)

Nel  suo commento   ad un mio contributo, Ernesto  ha   discusso  una   questione  molto importante : 

 Entro quanto  tempo  LORO ci “ucrainizzeranno” ?

E con  argomenti  validissimi che  condivido conclude   che  non  ce la faranno.

Ma  purtroppo   è   solo lì   che  loro cercheranno comunque  di portarci    spinti  dalla loro “ disperazione  strategica “   ,   perché  loro  hanno già      rotto  tutti  i ponti  possibili per uscire  dal pantano in cui  si sono  e ci hanno  cacciati .

  Quindi  io non sono  così “ottimista”  e    lo preciserò in modo  più articolato.

Innanzitutto  dico che  condivido   con   Ernesto  che  gli ci vorrà certamente del tempo a ” militarizzarci”  e    alle sue  giuste osservazioni ne aggiungo  un’ altra   a favore  del suo punto di vista.

 C’è  infatti  una differenza evidente  tra NATO-ucraina di oggi e la NATO-€uropa di domani. La NATO-ucraiana è tenuta a galla grazie a un trasferimento  annuo di denaro NOSTRO pari al 50% del PIL ucraino, ma chi , “da fuori” pagherebbe le spese per tenere a galla la NATO-€uropa ?

Ovviamente nessuno.

Allora   ”  siamo salvi”? 

Io  direi proprio per niente  se la vediamo invece dal punto di vista dei NATO-gauleiter €uropei. Cioè  valutando ciò che  essi temono , ciò  che  essi  sono stati chiamati a fare  e   che  cosa realmente  vogliono  dal “Conflitto  con la Russia”.

Vediamolo per punti

0) Essi se ne fregano dei popoli che “amministrano”! La loro unica preoccupazione è la stessa di “mister Ze”:  durare   ed incassare.

1) Il loro piano iniziale, quindi  quello  dei loro   “superiori”,  era   semplicemente   provocare la dissoluzione  della Russia. Questo “piano A” lo abbiamo già discusso  ed è sostanzialmente già fallito.

 2)  Questo   fallimento ha  già provocato un grave  contraccolpo  economico  e politico in €uropa  che essi ora  devono  gestire  anche   con  “le maniere  forti “

3) Alla lunga  le  “maniere forti”  devono  essere  giustificate   da  uno  stato di emergenza   sostenuto  da una incessante “narrazione “. La cosa è stata già collaudata  con l “emergenza  pandemica “,  per questo ora vogliono una  “ emergenza  di guerra “. Con  uno  stato di guerra permanente con la Russia , loro   possono facilmente tenerci sotto e farci  anche un bel gruzzoletto a nostre spese.

 4)Ma ovviamente  loro NON vogliono una guerra “totale”;   i nostri “amministratori”  hanno bisogno  solo  di una “guerra” lunga  e a bassa intensità  che non degeneri in una  “nuclearmente”  rapida.

Questo è il loro  “ pianoB” e   va benissimo anche ai loro “superiori”  che,  ricordiamolo, sempre hanno  bisogno  di un conflitto globale incentrato   in €uropa.

 5)Ed in questo  quali  sono i calcoli su cui   loro  si appoggiano ?  Semplice: puntano sulla   superiorità  di stazza  numerica  ed   economica  che l €uropa  , pur  declinante,  ancora  vanta  sulla Russia.

In pratica   essi  dicono : noi  collettivamente possiamo permetterci il  costo  di un “conflitto lungo”  con  la Russia  dove possiamo anche perdere all’anno qualche  centinaia  di MLD  e  migliaia di soldati .

  Per loro  l’ importante   è  tenere  sotto pressione la Russia  più a lungo possibile.  Alla Russia non deve  essere  concesso nulla; non concedendogli nulla  loro mantengono  lo stato di crisi con cui possono  “legalmente”  restare  al potere  e   gestire ” il   gregge “     secondo “l’ Agenda”  dei loro  padroni.

Ed a  questo punto,   l’ inevitabile  declino  economico-sociale   dell’€uropa   può  anche  essergli utile  per  fornirgli  le migliaia  di  volontari  “economici”  pronti a sostituire le perdite.

Daltronde  questa “Finis Europae”   era già stata  decisa da tempo  sotto varii pretesti   : pandemici, climatici,   immigrazionistici e  a quel  progetto “l’ emergenza  di  guerra” viene ancora meglio.

Ora ovviamente  tutto  questo è un calcolo sbagliato per  vari motivi. Ad  esempio ancora  essi sottovalutano   la  “resilienza”    della Russia   e sopravvalutano    quella  della NATO-€uropa;   ma   è sicuro  che  questo progetto  verrà perseguito perché   li farà   restare  più a lungo in sella  e  d’altronde  per restare  al potere  non hanno  un piano migliore.

Quindi , se non verranno  rimossi prima ( ma da CHI? )  loro non defletterano  e i  rischi  di una guerra nucleare in   EUROPA      cresceranno .   Così la  nostra rovina   potrebbe  pure  essere  anche  rapidamente  mortale, ma   se anche questo non succedesse    ci aspetta solo  una lunga  e  dolorosa discesa    agli inferi.

Da cui  non  escludo risalite  che   nella  Storia   talvolta  accadono   (  vedi Cina/ Russia).

  Ma  anche così  io   avrei preferito  evitare  il tutto. perché  quando il vento  tira   sono  gli stracci  che volano .


  Ma infine  , per rispondere  al quesito  di  Ernesto,  tutto  questo  QUANDO ? 

  Non lo so , viviamo  un “tempo a prestito”  e  quindi   consiglio  solo  di viverlo  finché   c’ è .

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I termini “teoria” e “dottrina” nelle scienze politiche_di Vladislav Sotirovic

I termini “teoria” e “dottrina” nelle scienze politiche

Le scienze politiche (politologia/politologia) sono una disciplina scientifica generale che studia la politica. Il termine “politica” era spesso definito come l’arte di governare lo Stato (dal greco antico polis – città-Stato), ma nel corso della storia è stato inteso e trattato in modo diverso come materia di studio. Inizialmente, la scienza politica come materia di studio era solo una parte della storia generale del pensiero filosofico, ma in seguito è diventata gradualmente indipendente sotto forma di storia delle dottrine politiche, storia della filosofia politica o filosofia sociale, pensiero filosofico statale e/o giuridico, e persino come storia delle teorie giuridiche, dato che l’arte di gestire uno Stato e i suoi cittadini si basa in gran parte sull’applicazione, l’interpretazione, la realizzazione e il rispetto delle norme giuridiche ufficiali (nonché sull’applicazione della legislazione giuridica non scritta ma tradizionale e delle sue norme socio-morali sulla base delle quali un determinato ambiente sociale ha vissuto e risolto le sue relazioni interpersonali per secoli).

Il termine “filosofia” nel suo significato è sufficientemente elaborato e conosciuto e si riduce essenzialmente all’“amore per la saggezza”, cioè alla conoscenza o alla conoscenza generale (scienza) dell’uomo, cioè della sua esistenza in questo mondo o nell’altro, nonché del mondo che lo circonda, compresa una vasta gamma di fenomeni sociali e naturali che influenzano l’esistenza dell’uomo. Tuttavia, il significato dei termini “teoria” e “dottrina” rimane in molti casi specifici di ricerca, almeno per quanto riguarda le scienze politiche, indefinito o, nella maggior parte dei casi, definito in modo poco chiaro o non accettato a livello generale (globale).

Il termine “teoria” ha origini greche antiche e, in senso generale, rappresenta una conoscenza generalmente accettata come tale. Tuttavia, tale conoscenza appare anche nella pratica in almeno tre forme:

1. Conoscenza teorica che non è (o non deve essere) direttamente correlata all’applicazione nella pratica;

2. Conoscenza scientifica, ovvero conoscenza ottenuta attraverso sistemi ufficiali di verifica e prova scientifica, e che come tale diventa formalmente provata e “generalmente riconosciuta” come conoscenza accurata (provata) (ovvero conoscenza del funzionamento di un determinato fenomeno);

3. Significato ipotetico (cioè un’affermazione che non è stata ancora provata, cioè “generalmente riconosciuta”, ma che è ampiamente applicata nella pratica così com’è).

A differenza del termine ‘teoria’, il termine “dottrina” in scienze politiche è generalmente prevalente tra i teorici e gli scrittori occidentali, ma soprattutto francesi, che si occupano di storia delle scienze economiche. Tuttavia, lo stesso termine “dottrina” nelle scienze politiche può assumere un significato completamente diverso in contesti diversi, ad esempio in riferimento alle azioni di politica estera delineate da uno Stato (ad esempio, la “Dottrina Bush” del 2001, che proclamava la politica “America First”). In ogni caso, i teorici francesi ritengono che nella storia della filosofia (politica ed economica) si debbano distinguere due tipi di pensiero:

1. Conoscenze scientifiche e leggi accuratamente stabilite e ufficialmente adottate (nel senso stretto del termine – provate) relative a un determinato fenomeno che è oggetto di un determinato studio – “teoria”;

2. Opinioni, comprensioni, interpretazioni o punti di vista di determinate persone che non sono ufficialmente stabiliti come “teorie scientifiche”, ma sono utilizzati come una sorta di direttiva per azioni politiche specifiche – “dottrina” o ‘ipotesi’, che sono più o meno istruzioni pratiche per un’azione specifica, ma non conoscenze scientificamente riconosciute ufficialmente come verità provata o sviluppo provato di un fenomeno (“teoria”).

Tuttavia, il termine “dottrina” è di origine latina e deriva dalle parole doceo, docere, doctus (insegnare, essere insegnato, conoscere). Tuttavia, questo termine latino ha originariamente diversi significati, come ad esempio:

1. Conoscenza teorica che non ha ancora ricevuto conferma scientifica ufficiale come verificata, cioè conoscenza provata nella vita pratica (questo punto è praticamente identico al punto 3 della suddetta presentazione del significato del termine “teoria”);

2. Conoscenza che è essenzialmente considerata vera, ma che in senso pratico è legata all’azione (politica o economica), cioè conoscenza che non è puramente teorica. In questo caso, è importante notare che la conoscenza teorica è considerata un fatto provato, mentre la dottrina implica una sorta di istruzioni per l’azione pratica o, in politica, un ordine di eseguire un determinato compito pratico al fine di risolvere un problema pratico.

3. Conoscenza scientifica, che coincide praticamente con i punti 1 e 2 della suddetta presentazione del significato del termine “teoria”.

Tuttavia, nella pratica della ricerca scientifica nelle scienze politiche, giuridiche ed economiche, “teoria” significa conoscenza comprovata (scientifica), mentre il termine “dottrina” si riferisce a conoscenze ancora non comprovate da un punto di vista puramente scientifico – ipotesi che, in sostanza, non devono essere necessariamente errate, ma che nella pratica non sono ancora state formalmente dimostrate come scientificamente corrette, cioè vere. Nelle scienze politiche, il termine “teoria” è usato nel senso più ampio del termine per indicare la conoscenza in senso generale: quindi, come conoscenza che è stata scientificamente verificata, ma anche come conoscenza che è ancora sotto forma di opinione ipotetica non provata o conoscenza che è fondamentalmente diretta all’attività pratica di un certo gruppo di persone.

Dr. Vladislav B. Sotirovic

Ex professore universitario

Ricercatore presso il Centro di studi geostrategici

Belgrado, Serbia

© Vladislav B. Sotirovic 2025

www.geostrategy.rs

sotirovic1967@gmail.com

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The Terms “Theory” and “Doctrine” in Political Science

Political science (politology/politologia) is a general scientific discipline of politics. The term “politics” was most often defined as the art of managing the state (ancient Greek polis – city-state), but it was understood and treated differently as a subject over the course of history. Initially, political science as a subject was only part of the general history of philosophical thought, but later it gradually became independent in the form of the history of political doctrines, the history of political philosophy or social philosophy, state and/or legal philosophical thought, and even as the history of legal theories, given that the art of managing a state and its citizens is largely based on the application, interpretation, realization, and respect for official legal norms (as well as on the application of unwritten but traditional legal legislation and its socio-moral norms based on which a certain social environment has lived and resolved its interpersonal relations for centuries).

The term “philosophy” in its meaning is sufficiently elaborated and known and essentially boils down to “love of wisdom”, i.e., knowledge or general knowledge (science) about man, i.e., his existence either in this world or the next, as well as the world around him, including a wide range of social and natural phenomena that influence man’s existence. However, the meaning of the terms “theory” and “doctrine” remains in many specific research cases, at least as far as political science is concerned, undefined or, in most cases, unclearly defined or not accepted at some general (global) level.

The term “theory” is of ancient Greek origin and, in a general sense, represents knowledge that is generally accepted as such. However, such knowledge also appears in practice in at least three forms:

1. Theoretical knowledge that is not (or does not need to be) directly related to application in practice;

2. Scientific knowledge, i.e., knowledge obtained through official systems of scientific verification and proof, and which as such becomes formally proven and “generally recognized” as accurate (proven) knowledge (i.e., knowledge of the functioning of a certain phenomenon);

3. Hypothetical meaning (i.e., a statement that has not yet been proven, i.e., “generally recognized”, but is widely applied in practice as it is).

In contrast to the term “theory”, the term “doctrine” in political science is generally prevalent among Western, but especially French, theorists and writers who deal with the history of economic science. However, the same term “doctrine” in political science can mean a completely different context in terms of, for example, the outlined foreign policy actions of a state (e.g., the “Bush Doctrine” of 2001, which proclaimed the “America First” policy). In any case, French theorists believe that in the history of (political and economic) philosophy, two types of thought should be distinguished:

  1. Accurately established and officially adopted (in the strict sense of the word – proven) scientific knowledge and laws relating to a certain phenomenon that is the object of a certain study – “theory”;

2.  Views, understandings, interpretations, or opinions of certain persons that are not officially established as “scientific theories” but are used as a kind of directive for specific political actions – “doctrine” or “hypotheses”, which are more or less practical instructions for a specific action but not officially scientifically recognized knowledge of proven truth or proven development of phenomenon (“theory”).

Nevertheless, the term “doctrine” is of Latin origin and comes from the words doceo, docere, doctus (to teach, to be taught, to know). However, this Latin term originally has several meanings, such as:

1. Theoretical knowledge that has not yet received official scientific confirmation as verified, i.e., proven knowledge in practical life (this item is practically identical to point 3 from the above-mentioned presentation of the meaning of the term “theory”);

2. Knowledge that is essentially considered true, but is in a practical sense related to action (political or economic), i.e., knowledge that is not purely theoretical. In this case, it is important to note that theoretical knowledge is considered proven facts, while doctrine implies some kind of instructions for practical action or, in politics, an order to perform a certain practical task in order to solve a practical problem.

3. Scientific knowledge, which practically coincides with points 1 and 2 from the above-mentioned presentation of the meaning of the term “theory”.

However, in the practice of scientific research in political, legal, and economic sciences, “theory” means proven (scientific) knowledge, while the term “doctrine” refers to still unproven knowledge from a purely scientific point of view – assumptions, which in essence do not have to be incorrect but in practice have not yet been formally proven as scientifically correct, i.e. true. In political science, the term “theory” is used in the broadest sense of the word for knowledge in a general sense: therefore, as knowledge that has been scientifically verified, but also as knowledge that is still in the form of use as an unproven hypothetical opinion or knowledge that is basically directed at the practical activity of a certain group of people.

Dr. Vladislav B. Sotirovic

Ex-University Professor

Research Fellow at Centre for Geostrategic Studies

Belgrade, Serbia

© Vladislav B. Sotirovic 2025

www.geostrategy.rs

sotirovic1967@gmail.com

Capita anche a quelli bravi_di WS

L’amico  Fernando fa  spesso  nei  commenti domande  che  richiedono  spiegazioni  complesse

Ne  ha  fatta una  anche    qui https://italiaeilmondo.com/2025/10/22/stalin-lo-zar_di-ws/

La domanda  era:

“Quindi tu sostieni, contrariamente alla vulgata, che per Stalin fu una sorpresa non gradita la comparsa dello st di i?”

  A  cui  non  si può  rispondere   in modo  secco.

Se invece   essa finisse  con   “…la comparsa  di QUESTO st di i  “  direi  seccamente, SI.

Si, penso  che  sulla  comparsa  di  QUESTO  St di I    Stalin  sia  stato “buggerato” . Niente  di male , capita   anche  a  “quelli bravi”.

E ora  spiego  come e perché  sono  arrivato  alla mia opinione.

Di sicuro la cacciata degli inglesi dalla Palestina, ad opera delle formazioni ebraiche, era un anche un     interesse di Stalin.

Ed è altrettanto certo che pure la divisione della Palestina gli andasse bene. In fondo gli ebrei erano una potente nazionalità del l’URSS , la struttura sociale dei  primi coloni ebrei era “socialista” e i nazionalisti arabi si erano appoggiati solo sulle sconfitte potenze de L’ Asse.

Ma forse  in seguito alla divisione della Palestina decisa dall’ Onu scandalosamente a favore degli ebrei potrà  aver sollevato un sopracciglio, datosi che  la posizione finale americana  di sostegno totale a I sotto  forma  di  fondi volontari ed armi  alla vittoria israeliana  fu  una sorpresa  per lui.

Sul resto invece si resta sul campo delle illazioni, considerando però che:

1) l’arrivo di armi alla difesa di I dal campo comunista passò solo dai due paesi comunisti ( Romania e soprattutto Cecoslovacchia)  con partiti comunisti  particolarmente  dominati dalla “nota etnia”.

Ora in questo caso si può anche pensare che “il signor S” volesse “nascondere la mano”, ma si può anche pensare che fossero iniziative  fatte   a sua insaputa datosi che poco dopo entrambi i due partiti suddetti furono pesantemente “purgati”.

2) In ogni  caso  le armi “comuniste” a I  arrivarono all’inizio, non erano tante, ed erano essenzialmente “difensive”. Quelle offensive ,  carri  ed  aerei, che permisero poi a I di passare all’attacco occupando gran parte della Palestina araba  arrivarono  dopo e tutte  dal ” campo occidentale”,  spesso  semplicemente   “abbandonate”   agli israeliani  dagli inglesi  nella loro ritirata.



Ora già tutto questo fu  di certo  una sorpresa per ” il signor S ” , ma peggio fu per lui quando l’ arrivo del primo ambasciatore di I in URSS ( la G. Mair) provocò una ondata di entusiasmo “nazionalista” nella “nota etnia” in URSS. 

 Per “il Signor S” , che fesso non era , forse questo fu un segnale che “la nota etnia” andava ora guardata come possibile fucina di attività “antisovietiche”?

Se  si,  certamente S non poteva fare  una gran  cagnara in merito, ma  di certo ci furono discrete “purghe” verso gli esponenti del PCUS più compromessi  con questa    ondata  di  “ orgoglio  etnico” .

Soprattutto S , che invecchiando era diventato ancor più paranoico, cominciò a sospettare della classe medica  sovietica  i cui principali esponenti erano  guardacaso  della “nota etnia”.

 Da qui la la  sua” caccia” contro il  ” conplotto dei medici ” che finì  nel momento   in cui “il signor S” morì di “morte improvvisa” quando fino al giorno prima ” stava molto bene”. 



Conclusione :

 Tutto  questo è vero ?  E chi lo  può dire con certezza ?  Dove  si pensa   di  trovare il bandolo    degli intighi  di potere?   In wikipedia ?   O   si può credere  che   ciò che    dice    “una  commissione” ,     “ un tribunale”  o  “un famoso storico”   sia certamente  “la  verità,  tutta la verità  e nient’altro  che la  verità”?

Io  qui ho messo in fila un po’  di  fatti  innegabili     per    imbastire   una   storia  che io  credo molto probabile e che mi fa dire:  SI , credo che  per  “il signor S”  QUESTO  St di I sia  stata  “una sorpresa”.

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Il trattato di Santo Stefano del 1878 e gli albanesi_di Vladislav Sotirovic

Il trattato di Santo Stefano del 1878 e gli albanesi

La politica europea dopo il 1871

Dopo la guerra franco-prussiana del 1870-1871, nei decenni successivi la politica europea fu caratterizzata da un periodo di intenso riarmo, che avrebbe portato allo scoppio della prima guerra mondiale nel 1914. Nel frattempo, sia in Europa che nelle sue colonie d’oltremare scoppiarono diverse crisi internazionali che avrebbero potuto portare l’Europa alla Grande Guerra anche prima dell’estate del 1914.

Innanzitutto, il pericolo di una nuova guerra franco-tedesca incombeva sull’Europa perché la Francia perseguiva una politica revanscista nei confronti della Germania unita, e la questione dei territori dell’Alsazia e della Lorena era cruciale in quel contesto. Con queste due province, che nel 1871 appartenevano alla Germania, la Francia aveva perso le sue due aree economiche più sviluppate. La popolazione di entrambe queste zone chiedeva di essere restituita alla Francia, anche se la loro lingua madre era il tedesco, ma manifestava una coscienza nazionale francese.

Il secondo e ancora più pericoloso punto di crisi in Europa era rappresentato dai Balcani, ovvero le province ottomane abitate da popolazioni cristiane che, in molti casi, vivevano mescolate ai musulmani locali. Mentre i cristiani lottavano per la liberazione nazionale e la separazione dall’Impero ottomano, allo stesso tempo i musulmani locali, indipendentemente dall’appartenenza etnolinguistica, lottavano per preservare l’Impero ottomano come loro Stato nazionale. Ciò era particolarmente evidente nel caso dei musulmani in Bosnia-Erzegovina e dei musulmani albanesi in Albania e nei paesi circostanti.

Il declino del potere e dell’autorità ottomani e la lotta dei popoli cristiani balcanici per la liberazione dal secolare dominio turco-musulmano sollevarono la questione del futuro destino dei possedimenti ottomani in Europa, cioè nei Balcani. Tutte le principali potenze europee lottarono per ottenere influenza nei Balcani (compreso il Regno Unito, tradizionalmente preoccupato dei propri possedimenti coloniali d’oltremare), ma con obiettivi diversi, tra cui solo la Russia sosteneva l’idea di formare Stati nazionali dei popoli cristiani nei Balcani al posto dell’Impero Ottomano, che in tal caso avrebbe perso tutti i suoi possedimenti europei.

La prima grande crisi nei Balcani scoppiò nel 1875-1878 con lo scoppio di una grande rivolta cristiana in Erzegovina, che si estese rapidamente alla Bosnia e alla Bulgaria. Dopo l’intervento militare fallito della Serbia nel 1876-1877 contro l’Impero ottomano, che sosteneva gli insorti serbi in Bosnia-Erzegovina, nel 1877 la Russia entrò in guerra a fianco degli insorti balcanici e della Serbia e nel 1878 spezzò la resistenza turca sul Danubio e nella Bulgaria settentrionale, aprendo così la strada verso Istanbul. [1]

La “Bulgaria di Santo Stefano”

Dopo la vittoria militare russa sull’Impero ottomano nella guerra russo-ottomana del 1877-1878, il 3 marzo 1878 fu firmato il trattato di Santo Stefano tra questi due Stati. Secondo il trattato, una Grande Bulgaria di Santo Stefano, sotto la diretta protezione della Russia, doveva essere istituita all’interno dei confini dell’Impero Ottomano (di fatto, come uno Stato nello Stato). Tuttavia, l’idea della “Bulgaria di Santo Stefano” influenzò direttamente tre nazioni balcaniche: serbi, greci e albanesi, poiché alcuni dei loro territori etnici e storici dovevano diventare parte di una Grande Bulgaria sotto la protezione russa.

La “Bulgaria di Santo Stefano” era stata progettata dalle autorità russe per coprire il territorio dal Danubio al Mar Egeo e dall’attuale Albania al Mar Nero, compresa tutta la Macedonia geografica-storica, l’attuale Serbia orientale e l’attuale Albania sud-orientale. Di conseguenza, la nazione albanese che viveva nell’attuale Albania sud-orientale e nella Macedonia occidentale sarebbe entrata a far parte di una Grande Bulgaria governata dalle autorità russe.[2]

È caratteristico sia del Trattato di Santo Stefano del 1878 che del Congresso di Berlino del 1878 il fatto che essi concepivano che parti dei territori balcanici popolati da albanesi fossero cedute agli altri Stati balcanici secondo il principio dei diritti etnici e storici. Tuttavia, ciò non significa che gli albanesi etnici fossero la maggioranza in questi territori, e questo era proprio il motivo per cui sia la Russia che l’Europa li consegnarono ai vicini albanesi. Il restante spazio etnico albanese (l’Albania, in cui gli albanesi etnici costituivano la netta maggioranza della popolazione) sarebbe rimasto entro i confini dell’Impero Ottomano, ma senza alcuno “status speciale”, ovvero diritti autonomi e privilegi etnico-politici.

Lo stesso governo ottomano era troppo debole per proteggere i territori popolati da albanesi, costituiti per oltre l’80% da popolazione musulmana, che mostrava un alto grado di lealtà politica e ideologica nei confronti del Sultano e della Sublime Porta di Istanbul. Ciononostante, le decisioni del Trattato di Santo Stefano del 1878 portarono all’organizzazione di un sistema di autodifesa albanese da parte della leadership politica (musulmana), che considerava uno status autonomo dell’Albania, simile a quello della Serbia, della Moldavia e della Valacchia, come l’unica garanzia per un’amministrazione giustificabile degli albanesi in futuro.

Il Trattato di Santo Stefano del 1878 e la ridefinizione dei confini dei Balcani ottomani

Il Trattato di Santo Stefano assegnò alla Bulgaria slava le seguenti terre popolate dagli albanesi: il distretto di Korçë e l’area di Debar. Secondo lo stesso trattato, al Montenegro furono concessi diversi comuni nell’attuale Albania settentrionale e le zone di Bar e Ulcinj (oggi in Montenegro). Il confine tra l’Albania ottomana e il Montenegro fu fissato sul fiume Bojana e sul lago Scodra (i confini sono rimasti invariati fino ad oggi). Tuttavia, un rappresentante ufficiale del Principato del Montenegro, Radonjić, chiese ad Adrianopoli (Edirne) che la città di Scutari fosse inclusa nel Montenegro allargato.[3]

Tuttavia, ciò che all’epoca era considerato esattamente l’Albania e gli albanesi come identità etnica non era chiaro a nessuno in Europa. Il motivo principale era il fatto che i censimenti ufficiali ottomani erano diventati una fonte piuttosto inaffidabile per risolvere tali problemi, poiché si basavano più sull’identità religiosa che sulla stretta appartenenza etnico-nazionale (cioè etnico-linguistica). In pratica, tutta la popolazione islamica ottomana, che fosse albanese, bosniaca o turca, era classificata in un’unica categoria: i musulmani (come nazione di Allah). Le differenze nazionali/etniche non erano affatto indicate nei censimenti ottomani, poiché veniva presa in considerazione solo l’appartenenza religiosa (sistema confessionale “millet”).

Tuttavia, nonostante la mancanza di statistiche ufficiali, è possibile ricostruire la dispersione dell’etnia albanese in quel periodo utilizzando altre fonti storiche. Una di queste fonti è una relazione alle autorità austro-ungariche sui confini settentrionali della lingua albanese, redatta dal console austro-ungarico F. Lippich a metà del 1877, durante la Grande Crisi Orientale e la guerra russo-ottomana del 1877-1878. Secondo questa relazione, il confine linguistico settentrionale degli albanesi si estende dalla città di Bar, sul litorale adriatico montenegrino, verso il lago di Scutari, poi attraverso due regioni montenegrine, Kolašin e Vasojevićs, quindi verso il fiume Ibar e la città di Novi Pazar nel Sanjak (Raška) fino alla zona del fiume Morava meridionale nell’attuale Serbia. Il confine linguistico albanese era fissato a est e sud-est intorno al lago di Ochrid, alle città di Bitola (Monastir) e Debar e al corso superiore del fiume Vardar.[4] Tuttavia, in molte di queste zone, la lingua albanese era parlata insieme alle lingue slave come sono oggi, il serbo, il montenegrino e il macedone. In secondo luogo, nella maggior parte di queste “zone di confine di lingua albanese”, gli albanesi linguistici non costituivano la maggioranza etnica, come nel caso, ad esempio, della regione storica del Kosovo e della Metochia, dove a quel tempo i serbi etnolinguistici erano ancora in maggioranza aritmetica rispetto alla popolazione.

Tuttavia, è certo che il trattato di Santo Stefano del 1878 provocò il nazionalismo albanese e forgiò il movimento di rinascita nazionale albanese. Il germe del movimento nazionale albanese crebbe dal 1840 fino al periodo della Grande Crisi Orientale del 1875-1878, quando i primi requisiti per l’istituzione di scuole di lingua albanese e la conservazione della lingua nazionale furono richiesti dai funzionari pubblici albanesi dell’Impero Ottomano (Naum Panajot Bredi, Engel Mashi, Josiph Kripsi, John Skiroj, Hieronim de Rada, Vincenzo Dorsa, ecc.).

Tuttavia, la rinascita nazionale albanese ricevette un nuovo impulso durante la crisi balcanica del 1862, al tempo di una nuova guerra tra Montenegro e Impero Ottomano, quando diversi membri del cosiddetto “gruppo di Scutari” (Zef Ljubani, Pashko Vasa e altri) propagarono la rivolta delle tribù dell’Albania settentrionale nella regione di Mirditë contro le pretese territoriali montenegrine sulle aree popolate dagli albanesi. Si opposero anche alle autorità ottomane, poiché potevano contare sul sostegno dell’imperatore francese Napoleone III (1852-1870). In caso di esito positivo della ribellione, nei Balcani sarebbe stato creato il principato indipendente e unito dell’Albania. Esso avrebbe compreso tutti i territori popolati da albanesi nei Balcani, anche quelli in cui gli albanesi linguistici erano una minoranza etnica.

Il principale ideologo albanese dell’epoca era Zef Jubani, nato a Scutari nel 1818, il quale sosteneva che la popolazione albanese fosse già diventata una nazione a quel tempo. [5] Il suo obiettivo politico principale era la creazione di una provincia autonoma e unita dell’Albania all’interno dell’Impero Ottomano. Altri, come Thimi Mitko e Spiro Dineja, erano favorevoli alla separazione dell’Albania dall’Impero Ottomano e alla creazione di uno Stato confederato albanese-greco simile all’Austria-Ungheria (dal 1867). Durante la Grande Crisi Orientale del 1875-1878, la rivolta albanese a Mirditë nel 1876-1877, guidata dai patrioti albanesi di Scutari, aveva come obiettivo politico finale la creazione di un’Albania autonoma all’interno dell’Impero Ottomano. I leader della rivolta visitarono la corte montenegrina per ottenere il sostegno finanziario del principe montenegrino Nikola I (1860-1910; re dal 1910 al 1918). Tale sostegno fu promesso al capo della delegazione albanese, Preng Dochi. È importante sottolineare che il principe montenegrino dichiarò in questa occasione che il Montenegro non aveva alcuna aspirazione territoriale nei confronti dei territori “albanesi”, qualunque cosa ciò significasse in quel momento. Allo stesso tempo, il diplomatico russo a Scutari, Ivan Jastrebov, sottolineò che l’Europa si trovava ad affrontare la “questione albanese”.

Durante la Grande Crisi Orientale, i capi tribù albanesi dell’Albania meridionale e dell’Epiro settentrionale, sotto la presidenza di un importante signore feudale albanese musulmano, Abdul-beg Frashëri, convocarono nel 1877 una riunione nazionale nella città di Jannina (Ioannina) quando chiesero alla Sublime Porta di Istanbul di riconoscere una nazionalità albanese separata e quindi di concedere loro il diritto di formare una provincia autonoma albanese (vilayet) all’interno dell’Impero Ottomano. Chiesero inoltre che tutti i funzionari di tale vilayet albanese fossero di origine etnica albanese (ma solo musulmani), che fossero aperte scuole di lingua albanese e, infine, che fossero creati tribunali di lingua albanese. Il memorandum con tali richieste fu inviato alla Sublime Porta, ma questa suprema istituzione governativa ottomana rifiutò di soddisfare qualsiasi di queste richieste nazionali albanesi.

La reazione albanese al Trattato di Santo Stefano del 1878

La pubblicazione degli articoli del Trattato di Santo Stefano del 1878 causò grande agitazione e insoddisfazione tra il popolo albanese. [6] Da quel momento in poi, il precedente movimento albanese che mirava solo al miglioramento delle condizioni sociali degli albanesi che vivevano nell’Impero Ottomano si trasformò in un movimento nazionale albanese (ma in sostanza era radicato nella tradizione islamica e nel dogmatismo politico) che richiedeva la creazione di una provincia politicamente autonoma dell’Albania all’interno dell’Impero Ottomano o la creazione di uno Stato nazionale albanese indipendente (basato sulla tradizione islamica). [7]

Soprattutto l’Albania nord-orientale e orientale conobbe massicci disordini e proteste contro il trattato di Santo Stefano, rivolte alle grandi potenze europee.[8] Così, nell’aprile 1878, gli albanesi della città di Debar inviarono un telegramma agli ambasciatori britannico e austro-ungarico presso l’Impero Ottomano, Layard e Zichy, rispettivamente, per protestare contro l’annessione della regione di Debar al nuovo principato bulgaro di Santo Stefano. Nel telegramma si sottolineava che gli abitanti di Debar erano albanesi, non bulgari. Inoltre, secondo il memorandum di protesta, il distretto di Debar comprendeva 220.000 musulmani e 10.000 cristiani, tutti presumibilmente di etnia albanese. [9] Infine, si chiedeva alle grandi potenze europee di non consentire alla Bulgaria (cristiana ortodossa) di annettere la regione di Debar, che avrebbe invece dovuto rimanere nell’Impero ottomano (come Stato “nazionale” di tutti i musulmani albanesi). [10]

Analogamente agli albanesi di Debar, i loro compatrioti della città di Scutari e dell’Albania nord-occidentale chiesero alle autorità austro-ungariche di impedire l’inclusione dei territori “albanesi” nel Montenegro (la cui indipendenza era stata riconosciuta dal Congresso di Berlino nel 1878). [11] Gli albanesi di diversi distretti del Kosovo-Metochia (Prizren, Đakovica, Peć) protestarono in un memorandum inviato a Vienna contro la spartizione delle “loro” terre tra Serbia e Montenegro. [12] L’8 maggio 1878, quando “…oggi abbiamo appreso dai giornali che il governo ottomano, incapace di resistere alle pressioni della Russia, è stato costretto ad accettare la nostra annessione da parte dei montenegrini…”. una protesta della popolazione albanese di Scutari, Podgorica, Spuž, Žabljak, Tivat, Ulcinj, Gruda, Kelmend, Hot e Kastrat fu indirizzata all’ambasciatore di Francia a Istanbul contro l’annessione delle terre “albanesi” da parte del Principato del Montenegro. [13]

Il popolo albanese dell’Albania settentrionale e del Kosovo-Metochia, sia musulmano che cattolico, iniziò a organizzare propri distaccamenti di autodifesa (una milizia territoriale) e comitati locali contro l’incorporazione di questi territori nella Serbia o nel Montenegro. Un altro compito di questi numerosi comitati era quello di aiutare i “rifugiati” albanesi provenienti dalle zone già conquistate dai serbi e dai montenegrini, secondo il Trattato di Santo Stefano. [14] Così, ad esempio, il 26 giugno 1878 da Priština fu inviata una protesta di 6.200 emigranti albanesi, presumibilmente “espulsi” dai distretti di Niš, Leskovac, Prokuplje e Kuršumlija, indirizzata al Congresso di Berlino del 1878 contro gli omicidi di massa e gli stupri commessi dall’esercito serbo e dalle unità militari bulgare. [15] Tuttavia, la maggior parte di questi “rifugiati” albanesi lasciò volontariamente questi territori perché, in quanto musulmani, non voleva vivere in uno Stato cristiano, né in Bulgaria né in Serbia, dopo il Trattato di Santo Stefano. Lo stesso accadde dopo il Congresso di Berlino del 1878, con un numero enorme di musulmani della Bosnia-Erzegovina che emigrarono nell’Impero Ottomano ancora prima che l’esercito austro-ungarico raggiungesse le loro case senza alcuna intenzione di espellerli.

In sostanza, tali proteste ufficiali da parte degli albanesi erano più che altro un modo per fare propaganda e non rispecchiavano la realtà sul campo, almeno non nella misura presentata. Il fatto era, come già detto, che la maggior parte dei “rifugiati” albanesi (musulmani) aveva in realtà lasciato volontariamente quelle terre assegnate dal trattato russo-ottomano di Santo Stefano alla Grande Bulgaria (o successivamente alla Serbia dal Congresso di Berlino) perché i musulmani non possono, in linea di principio, vivere sotto un governo non musulmano, cioè il governo degli “infedeli”. Semplicemente, i musulmani non potevano sopravvivere in un paese in cui non detenevano il potere politico e non controllavano l’ordine sociale e la vita.

Il Congresso di Berlino del 1878

La pace russo-turca di Santo Stefano, firmata il 3 marzo 1878, annunciò la nascita di un grande Stato bulgaro sotto il patrocinio e l’influenza della Russia, sebbene formalmente nell’ambito dell’Impero ottomano. In altre parole, questo trattato di pace avrebbe garantito la supremazia della Russia sia nei Balcani orientali che sugli stretti (Bosforo e Dardanelli). Pertanto, al fine di impedire la cruciale influenza russa nei Balcani orientali e negli stretti, le grandi potenze dell’Europa occidentale (su iniziativa formale della Germania di Bismarck) organizzarono il Congresso di Berlino, che durò un mese dal 15 giugno al 15 luglio 1878, e durante il quale cercarono di appianare le loro reciproche controversie e quindi di agire congiuntamente contro la Russia. L’obiettivo principale del Congresso di Berlino era una revisione totale del Trattato di pace di San Stefano a scapito della Russia e al fine di preservare il più possibile i possedimenti dell’Impero ottomano in Europa.

Il risultato principale del Congresso di Berlino fu che la Russia fu costretta a ridurre notevolmente le sue richieste nei Balcani. Così, l’Austria-Ungheria ottenne il diritto di occupare la Bosnia-Erzegovina, la Gran Bretagna ottenne Cipro, mentre la Germania rafforzò la sua influenza nei Balcani e successivamente in tutto l’Impero Ottomano realizzando la sua politica imperiale di penetrazione verso est (Drang nach Osten). La Serbia, la Romania e il Montenegro ottennero l’indipendenza formale e l’espansione territoriale, così come la Grecia, mentre sul territorio del popolo bulgaro si formarono due Bulgarie a scapito del progetto russo di una Grande Bulgaria da Santo Stefano. Per quanto riguarda gli albanesi, essi non ottennero di fatto nulla, nonostante avessero chiesto la tutela dei loro diritti nazionali su determinati territori. Anzi, il leader e ospite del Congresso di Berlino, Otto von Bismarck, affermò che l’Europa non aveva mai sentito parlare del popolo albanese. Il Congresso di Berlino fu l’ultimo grande incontro internazionale a cui parteciparono solo statisti europei.[16] In ogni caso, anche dopo il 1878, i Balcani rimasero al centro della crisi in Europa fino alla prima guerra mondiale.

Dr. Vladislav B. Sotirovic

Ex professore universitario

Ricercatore presso il Centro di studi geostrategici

Belgrado, Serbia

© Vladislav B. Sotirovic 2025

www.geostrategy.rs

sotirovic1967@gmail.com

RIFERIMENTI E NOTE FINALI:

[1] Mitchel Beazley (ed.), Ilustrovana enciklopedija Istorija, Vol. 2, 1984, 190 (titolo originale: The Joy of Knowledge Encyclopaedia, 1976).

[2] Parliamentary Papers, serie “Accounts and Papers”, Vol. LXXXIII, Turchia, № 22, Londra, 1878, 10.

[3] “Articolo № 1” del Trattato di pace di San Stefano in Documenti parlamentari, serie “Conti e documenti”, Vol. LXXXIII, Turchia, № 22, Londra, 1878, 9−10; Sumner B. H., Russia and the Balkans, 1870−1880, Oxford, 1937, 410−415.

[4] Haus-Hof-und Staatsarchiv, Politisches Archiv, XII/256, Türkei IV, Lippich F., “Denkschrift über Albanien”, Vienna, 20 giugno 1877, 8-9.

[5] Secondo M. Jevtić, gli albanesi non erano ancora una nazione nel senso moderno europeo del termine all’epoca, né lo sono ancora oggi, poiché il quadro principale dell’identità nazionale albanese era ed è principalmente l’Islam, una religione che non riconosce l’esistenza di alcuna identità etnico-linguistica tra i musulmani, considerati un’unica “nazione” (confessionale). [Јевтић М., Албанско питање и религија, Београд: Центар за проучавање религије и верску толеранцију, 2011; Јевtić M., „Исламска суштина албанског сецесионизма и културно наслеђе Срба“, Национални интерест, Vol. 17, No. 2, 2013, 238]. Sulla tradizione islamica e la dottrina politica, cfr. [Itzkowitz N., Ottoman Empire and Islamic Tradition, Chicago−Londra: The University of Chicago Press, 1980].

[6] Archives du Ministère des Affaires Etrangères, Parigi, «Ceccaldi a Waddington, 27 aprile 1878», n. 213, Turchia, Corrispondenza politica dei consoli, Scutari, 1878-1879, Vol. XXI.

[7] Sulla forte divisione confessionale-politica e persino sulle guerre religiose tra gli albanesi più tardi nel 1915, si veda [Pollo S., Puto A., Histoire d’Albania des origines á nos jours, Roanne, 1974, 183−186; Јевтић М., Проблеми политикологије религије, Београд: Центар за проучавање религије и верску толеранцију, 2012, 159−161].

[8] Il concetto accademico di grande potenza è definito come uno Stato «considerato tra i più potenti in un sistema statale gerarchico. I criteri che definiscono una grande potenza sono oggetto di controversia, ma spesso se ne identificano quattro. (1) Le grandi potenze sono al primo posto tra le potenze militari, hanno la capacità di mantenere la propria sicurezza e, potenzialmente, di influenzare altre potenze. (2) Sono Stati economicamente potenti… (3) Hanno sfere di interesse globali e non solo regionali. (4) Adottano una politica estera “progressista” e hanno un impatto reale, e non solo potenziale, sugli affari internazionali” [Heywood A., Global Politics, New York−Londra: Palgrave Macmillan, 2011, 7].

[9] Il numero di abitanti del distretto di Debar è stato drasticamente esagerato. Gli albanesi non erano gli unici abitanti del distretto.

[10] Parliamentary Papers, serie “Accounts and Papers”, “Layard to Salisbury, Therapia, 4 maggio 1878, Vol. LXXXIII, Turchia, № 41, Londra, 1878, 60-61; Archivi del Ministero degli Affari Esteri, Parigi, “Ceccaldi a Waddington, Scutari, 4 maggio 1878”, n. 214, Turchia, Corrispondenza politica dei consoli, Scutari, 1878-1879, vol. XXI.

[11] Novotny A., Österreich, die Türkei und das Balkan-problem im Jahre des Berliner Kongresses, Graz−Colonia, 1957, 246.

[12] Ibid, 37, 247−253; Parliamentary Papers, serie “Accounts and Papers”, 1878, Vol. LXXXI, Turchia, № 45, Londra, 1878, 35−36.

[13] Archives du Ministère des Affaires Etrangères, Parigi, Ambasciata francese presso la Sublime Porta, Turchia, Vol. 417, 51−54, Supplemento alla Relazione № 96 (originale in francese); Pollo S., Pulaha S., (a cura di), Pagine della rinascita nazionale albanese, 1878-1912, Tirana, 1978, 12-13.

[14] Documenti parlamentari, serie “Conti e documenti”, “Green a Salisbury, 3 maggio 1878”, Vol. LXXXIII, Turchia, n. 40, Londra, 1878, 60; Archives du Ministère des Affaires Etrangères, Parigi, “Ceccaldi a Waddington, Scutari, 4 maggio 1878”, n. 214, Turchia, Correspondance politique des consuls, Scutari, 1878-1879, Vol. XXI; Ibid, copia del telegramma firmato dal principe montenegrino Nikola I Petrović-Njegoš, Cetinje, 5 giugno 1878, come allegato n. 1 a Dèpêche, 9 giugno 1878, n. 218.

[15] Politisches Archiv des Auswartigen Amtes, Bonn, Turchia 129, Vol. 2, Gli atti del Congresso di Berlino, 2, 1878, documento n. 110 (telegramma); Pollo S, Pulaha S., (a cura di), La Lega albanese di Prizren, 1878-1881. Documents, Vol. I, Tirana, 1878, 73−74.

[16] Mitchel Beazley (ed.), Ilustrovana enciklopedija Istorija, Vol. 2, 1984, 190 (titolo originale: The Joy of Knowledge Encyclopaedia, 1976).

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La capra espiatoria_di Teodoro Klitsche del la Grange

LA CAPRA ESPIATORIA

Capita spesso di leggere sulla stampa e ascoltare in televisione che i risultati delle elezioni regionali stiano indebolendo la segreteria del PD. Questo perché la ormai (quasi) triennale  permanenza della Schlein non ha portato alcun significativo cambiamento nel consenso dei governati: il PD mantiene le posizioni, e la coalizione di governo anche: continuando, con tale andazzo, alle elezioni politiche prossime (salvo lo scioglimento del Parlamento)  nel 2027 il risultato sarà lo stesso delle ultime: maggioranza (confermata) al centrodestra. Secondo molti commentatori la prospettiva induce molti maggiorenti del PD a sostituire la (deludente) segretaria.

Non sono convinto che tale ragionamento sia corretto, e per due ragioni. La prima è che la difficoltà principale della Schlein e del PD non sono quelle che la stessa sbandiera a ogni piè sospinto, spesso smentite poco tempo dopo averle esternate.

In primis l’inadeguatezza del governo Meloni a gestire la situazione economica, l’imminente default (o simili) lo spread in agguato, ecc. ecc. Il fatto che da tre anni non sia successo nulla del profetizzato, anzi qualche giorno fa, si legge, l’Italia è tornata ad affacciarsi nella categoria “A” dei paesi debitori, per un governo dipinto come votato alla bancarotta, un risultato sorprendente. E assai migliore di quelli appoggiati dal PD, tanto osannati. E così per il resto: dalla tregua per Gaza dovuta all’amico Trump, della cui corte la Meloni farebbe parte (meglio, anche qua, un armistizio che un massacro ormai biennale); all’andamento dei flussi migratori (calati con i relativi naufragi e spese). Quasi in ogni campo risultati superiori a quanto realizzato dai precedenti governi appoggiati dal PD. Il fatto che il governo Meloni non sia come sostiene il PD, animato da buone intenzioni, non fa che confermare il vecchio detto che le vie dell’inferno (dei governati) è lastricata dalle buone intenzioni (dei governanti). Per cui a scegliere i malintenzionati spesso ci si indovina.

Ma non è questa la sola ragione delle difficoltà del P.D, e dei suoi segretari, così come dei loro omologhi di sinistra (???) negli altri Stati europei. I sistemi politici-partitici europei erano ordinati lungo l’asse destra/sinistra, a sua volta fondato sull’opposizione borghesia/proletariato. Ora largamente soppiantata da quella globalizzazione/sovranismo. Partiti come il PD, fondati sull’inimicizia calante, si trovano in crescenti difficoltà, dovendo nuotare contro corrente (della storia).

Pretendere che ne invertano il corso è chiedere il (quasi) impossibile. Tant’è che non c’è riuscito nessuno dei segretari frequentemente sostituiti negli ultimi (quasi) venti anni. Compresi i reggenti, siamo a 9, mentre il partito comunista dal 1943 al 1991 ne aveva cambiati 6 (durata media 8 anni). Si vede che il contesto era tutt’altro, a beneficio della durata delle leadership.

E di tutto ciò si pensa siano consapevoli i dirigenti del P.D. Onde far carico alla Schlein di non essere riuscita a fare quel che nessuno dei suoi predecessori aveva conseguito è profondamente errato. Nessuno di questi – a parte Renzi – in un’occasione aveva tirato il PD al di sopra del limite (superiore) del 30% dei votanti. Anche se nel 2008 la coalizione di centrosinistra riporti il 37,5% dei voti era per l’appunto una coalizione di più partiti di cui il PD era magna pars, ma non tutto. Nelle elezioni politiche del 2019 il PD conseguiva il 22,8% dei suffragi; nel 2022 il 19,07%.

I predecessori della Schlein non facevano quindi di meglio; anzi a sostegno della stessa, si può dire che i modesti risultati del PD governante non le sono ascrivibili, perché nei governi amici del PD non c’era lei, ma altri, compresi quelli pronti a silurarla.

Perciò se di sicuro la giovane segretaria non è un Bismarck o un Cavour, ma anche se ne avesse le capacità, non  ha la fortuna di tali grandi statisti: di essere spinti dall’onda lunga della storia. Con cui sarebbe più produttivo fare i conti.

Teodoro Klitsche de la Grange

Stalin, lo zar_di WS

Questo McMeekin dice cose giuste, ma non le dice tutte.

Non rivela ad esempio l’essenza politica che alimentò la lotta di Stalin per emergere e poi emarginare, fino a sostanzialmente liquidare, la setta mondialista che dominava il partito bolscevico di modo che egli, da “rivoluzionario” non ” di rango”, sostanzialmente era solo un “operativo”, si fece Zar dell’impero di cui i bolscevichi si erano impadroniti.

 In questa sua “trasformazione” operò certamente la sua ambizione personale ma anche quelle “leggi ferree della geopolitica” che fanno sì che una “civiltà” viva trovi sempre una sua “guida”.

 L’altra cosa che non viene detta è che da “zar” del nuovo Impero russo di nome URSS Stalin capì subito la verità di sempre : “la Russia ha solo due amici….”;  il suo “comunismo in un solo paese” era una forma tattica di questa constatazione.

Certo  i congressi del PCUS  parlavano  di   “rivoluzione    comunista”   da esportare in tutto il mondo, ma per  Stalin la cosa  da evitare  era che “tutto il mondo”  ritenesse  l’URSS una vera  minaccia  a “l’ ordine  costituito”.

L’ ulteriore cosa omessa è che Stalin capì subito che la crisi del ’29 portava di nuovo la guerra e che l’ascesa del Nazismo l’avrebbe condotta nella forma di una guerra Germania-URSS.

Dal  che  l’industrializzazione forzata imposta all’URSS in maniera brutale era quindi una esigenza strategica.

 Un processo largamente doloroso e inefficiente, a parte lo sforzo  in ambito militare,  proprio perché il riarmo era l’obbiettivo primario di un sistema, quello comunista, sicuramente disfunzionale , come poi tutti hanno visto.

Ma dal punto di vista dell’ efficacia  geopolitica lo sforzo sicuramente poi funzionò come appunto a posteriori tutti hanno visto.

In più, io  non ho letto il libro di McMeekin, ma da questa intervista ritengo che vi sia omessa anche parte dell’impianto  della partita geopolitica che Stalin dovette giocare affinché l ‘URSS non subisse l’aggressione unita dell’intero mondo capitalista “andato a destra” dopo la crisi del ’29.

In ogni  caso  quella partita la  riporto  qui   per come io l’ho ricostruita dalle mie letture.

Incominciamo  subito  dal fatto  che    Stalin  fu sempre prodigo  nell’offrire buoni  affari al capitalismo americano  affinché esso  avesse  buoni interessi nella sopravvivenza  dell’URSS,  nonostante la dichiarata volontà  dei   vari  fascismi  a  contrastarlo  dappresso ( patto anticomintern ).

 E  quella  ben pagata  collaborazione   fu  fondamentale  per  l’industrializzazione  dell’URSS.

Di converso  Stalin  operò poi  da  subito all’interno   delle   relazioni  europee    per contenere   l’inevitabile  revanchismo   tedesco   sorto con il nazismo, ma  senza mai  trovarvi sponda. Tutti volevano     a parole  contenere   la  revanche  tedesca  ma   tutti  erano     tanto “ russofobi”,   anzi “anticomunisti”  come dicevano allora, da odiare più la Russia   comunista   che la Germania nazista.

Stalin da questo ne ricavò solo  due  certezze: la guerra ci sarebbe  stata    e  sarebbe stata comunque  contro l’ URSS . Si  trattava  solo di capire il come   e il quando.

La cosa  che ovviamente più temeva  Stalin   era  una  “europa unita”  in guerra con l’ URSS con il placet  inglese; l’esito del “patto  di Monaco”  confermava questo incubo.

Ma qualcosa nella primavera  del ‘39  cambiò: la  Gran Bretagna   rifiutò l’appeasement  tedesco.  Perché ?

Io  azzardo l’ipotesi    di un    “Germany  first”  voluto  dal “  Grande kapitale Anglosassone”   e porto a conferma il fatto   ormai  accertato  che  Churchill  , “il mastino”   che prese la direzione   di questa  politica,  precedentemente  lui  era   stato un feroce  antibolscevico,   la prese  dopo  essere  stato salvato  dal  fallimento  dal “generoso  aiuto”  di un banchiere, ebreo per altro.

C’erano insomma  per  il “Grande  Capitale  anglosassone “ motivi  per fare  la guerra  alla Germania prima  che questa  si decidesse a farla  all’URSS .

Ma in contemporanea in quell’estate   il  Giappone invase la Mongolia   impegnando  duramente  l’ Armata  Rossa. Come quindi  credere  che    l’improvviso indurimento inglese non fosse una sceneggiata ?   Stalin quindi per prudenza    si mantenne  sulla difensiva   nell’affare mongolo.

Chi invece     si dimostrò poco prudente  fu Hitler,  il quale  non  resse  le provocazioni polacche  aizzate  dagli inglesi; per risolvere alla svelta la questione , alla  faccia   di quanto  aveva scritto  e detto prima , cercò  la  guerra  ,  ma cautelandosi  con un patto  di non aggressione con L’ URSS.

L’  abile Stalin  ovviamente  accettò;  aveva  trovato il modo di allontanare  la minaccia   tanto temuta.  Ed infatti   subito,   dopo  tanto traccheggio,   Zukov   ne approfittò impegnando  a piena forza  la  sua “guardia  siberiana”   e  sbaragliò i giapponesi in  due  settimane.

Quella   disfatta  lampo    in Manciuria  non  ebbe allora  eco nel mondo ,  coperta  dal ben più forte  rumore  della  guerra in  Europa, ma fu  determinante   a minare     la fiducia  nipponica  nella propria   armata in Manciuria; due anni più tardi, infatti, il Giappone   si vide costretto alla  guerra , scelse la strada del mare   piuttosto   che  quella   della Siberia.

Comunque  Stalin non si illudeva che presto o  tardi  l’ URSS avrebbe  dovuto combattere  con una  Germania che avesse  trovato  dal campo di battaglia  il  tanto  desiderato, da Hitler,    “appeasement”   con l’ impero inglese. Ma    per  quell’ evento  ora aveva  migliorato  la sua posizione  strategica    su  tutto il futuro  fronte , dalla  Finlandia  alla Romania.

Ora il problema  era tutto di Hitler che  non riuscendo a  chiudere la guerra con la GB  si  trovava in una  “disperazione  strategica”  perché vedeva   che  nel  tempo   il rapporto  delle  forze    sarebbe cresciuto a vantaggio  dell’URSS.

E così l’ imprudente  scelse  la via  dell’attacco  all’ URSS   SENZA  aver  fatto pace  con gli inglesi, facendo  quindi   per motivi  strategici quello   che  aveva sempre  dichiarato  di voler fare per  convinzione ideologica: cioè la   cosa  per  cui  era  stato    sollevato   dalle  sale delle birrerie  a quelle  del Reichstag; in questo sorprendendo  uno Stalin     che  non si aspettava una mossa tanto irrazionale.

Il problema di Stalin in quell’ estate    fu  infatti capire    se  gli inglesi  non lo avessero buggerato   e  solo   la  certezza  che  gli USA  sarebbero comunque  presto  entrati in guerra tramite il Giappone lo convinse  a sguarnire   la Siberia lanciando la “guardia siberiana” nella battaglia di Mosca.

Il  resto è storia  certa   che però lascia  non chiarite   alcune   domande  alle quali provo   a dare  le mie   risposte

La prima  è ovvia   ed è stata già dibattuta  a lungo

1)  Datosi lo schieramento  avanzato in  cui  fu sorpresa l’Armata  Rossa , Stalin  stava preparando un attacco    alla Germania per l’ autunno del ‘41 ?

Ris:  Si , ma non  programmaticamente per l autunno  del ‘41 perché non aveva certezza della reale posizione inglese.  Lui avrebbe  sfruttato fino in fondo  il  fattore  tempo a suo vantaggio per  attaccare  al primo sintomo  di un appeasement   anglo-tedesco

La  seconda è meno ovvia, ma è un dato di  fatto   visto  a Yalta  dove      al  “bulldog” inglese  fu messa la museruola.

2)  Cosa  spingeva  Stalin a fidarsi degli USA  laddove sapeva di non potersi  fidare degli inglesi ?

 RIS : la  certezza   che il vero  scopo  strategico  dell’intervento americano in guerra era  appropriarsi  della  posizione  di  dominio che l’ Europa aveva sul mondo, il che  avrebbe lasciato ampi margini all’URSS in Europa in una “divisione del mondo”  che ovviamente e SUCCESSIVAMENTE  nessuno  dei  due  avrebbe   rispettato.

La terza  quindi è  inevitabile  e la risposta   consequenziale      per  quanto  sorprendente

3)   Da  dove passavano  gli oscuri  contatti non  ufficiali  tra Stalin  e  e la  cabala  di Roosevelt ?

RIS: Passavano dal   Walford Astoria  per il tramite   dei grandi  “uomini  d’ affari”  che  avevano  da sempre  interessi in URSS e  contatti  diretti con  alti   esponenti  del PCUS   della  stessa “etnia”.

La quarta   è  anchessa   quindi inevitabile  e la  risposta  innominabile

4)    quale  era  l’ interesse  comune in questo   di  entrambi i gruppi ufficialmente  “ contrapposti” tra ”capitalisti “  e “comunisti”?

RIS :ST di  IS

Cioè  quella  cosa  per  cui     Stalin  si  sentì  poi buggerato  davvero  e  a cui provò a reagire;  ma  era ormai  troppo tardi.

Conclusione: Stalin   fu uno  zar  che   ha  fallito , ma che si difese molto bene. LORO    hanno  duvuto  poi aspettare    altri  quaranta anni  dopo  di lui   per  trovare  uno zar  “coglione”. 

E  se oggi la Russia  è  ancora sulla breccia  molto si deve  all’opera  sua.

Per  questo LORO ancora lo odiano.

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Tajani, Quindi Roosevelt ed Eisenhower Erano “Sovietici”?_di Cesare Semovigo

Tajani, Quindi Roosevelt ed Eisenhower Erano “Sovietici”?

In un dibattito che ha infiammato il panorama politico-economico italiano, Antonio Tajani, figura di spicco di Forza Italia, ha liquidato con decisione la proposta di tassare le banche, bollandola come un’idea degna dell’Unione Sovietica. Questa etichetta, che richiama un passato di controllo statale estremo, sembra voler difendere a tutti i costi i grandi profitti del settore finanziario, lasciandoli Invariati . Ma per i cittadini comuni – i risparmiatori che faticano a mettere da parte qualcosa per il futuro – e per chi, come noi, osserva con attenzione le dinamiche geopolitiche globali, questa posizione appare come un’occasione mancata. 

Viviamo in un mondo dove l’inflazione, ovvero l’aumento continuo dei prezzi che erode il valore del denaro, è strettamente legata a extraprofitti aziendali che oscillano tra il 18% e il 25%. In questo scenario, i guadagni smisurati delle banche finiscono per colpire duramente pensioni, conti correnti personali e quella stabilità economica che dovrebbe essere il pilastro di una società moderna e giusta.

L’ironia di questa situazione salta agli occhi se guardiamo al passato. Prima dell’accordo di Bretton Woods – un sistema internazionale nato nel 1944 per regolare il commercio e la finanza globale, legando le valute al dollaro americano e il dollaro all’oro per garantire stabilità – gli Stati Uniti, simbolo del capitalismo mondiale, imponevano tasse molto elevate sui redditi dei più ricchi. 

Non lo facevano per inseguire ideologie estremiste, ma per finanziare una crescita economica senza precedenti e per rafforzare le difese nazionali, creando quello che è stato chiamato il “secolo americano”. Leader come Theodore Roosevelt, Franklin D. Roosevelt e Dwight D.

Eisenhower lo avevano capito: vedevano le tasse alte non come una punizione contro chi aveva successo, ma come uno scudo per proteggere la società da squilibri pericolosi, che oggi alimentano crisi globali sempre più gravi.

No, signor Tajani, questi presidenti non erano comunisti. Erano piuttosto architetti di un capitalismo equilibrato, in cui la ricchezza andava di pari passo con la responsabilità, per tutelare i risparmi delle persone comuni e il potere nazionale complessivo.

Questo principio è cruciale oggi, in un mondo dove le banche centrali – come la Federal Reserve negli Stati Uniti o la Banca Centrale Europea – sembrano spesso collaborare con il sistema finanziario per sostenere una moneta fiat. Con “moneta fiat” intendiamo una valuta che non è garantita da beni fisici come l’oro o l’argento, ma solo dalla fiducia nel governo che la emette.

Questo sistema può portare a un debasement monetario, ovvero una perdita graduale del valore del denaro, perché i governi o le banche centrali stampano più moneta per coprire debiti o stimolare l’economia. Quando ciò accade, il potere d’acquisto delle persone si riduce, mentre i prezzi di beni rifugio come l’oro schizzano alle stelle. Non è un caso che il prezzo di un’oncia d’oro abbia superato i 4.200 dollari: è un segnale lampante che il valore delle monete tradizionali sta crollando.

Eppure, in questo contesto, assistiamo a mosse che sembrano quasi un tradimento della fiducia pubblica. Prendiamo il caso di BlackRock, una delle più grandi società di gestione patrimoniale al mondo. Recentemente, hanno gestito outflows – cioè vendite massive di asset che riducono il valore degli investimenti – per circa 300 Bitcoin, in un momento di calo dei prezzi delle criptovalute, seguito a minacce di nuove tariffe doganali annunciate da Trump. 

Queste operazioni hanno sollevato sospetti che alcuni hanno “ esagerando “ tacciato come pratiche al limite dell’insider trading, ovvero guadagni basati su informazioni riservate , rumors interni tra addetti ai lavori , rigorosamente non accessibili al pubblico, amplificando accuse di profitti ottenuti sfruttando variaziazioni , volatilità , financo a  crolli improvvisi del mercato.

 Nel frattempo, l’embrione del fondo sovrano di Trump cerca un precedente istituzionalizzato che nonostante  l’inflazione proprio a questi extraprofitti aziendali. 

Tutto ciò appare come un affronto aperto, specialmente se consideriamo i recenti riposizionamenti dell’Arabia Saudita, che con accordi da trilioni di dollari sta spostando i suoi investimenti dal petrolio verso settori come la tecnologia e le criptovalute.

Le “tre sorelle” – BlackRock, Vanguard e State Street, colossi della gestione patrimoniale che controllano enormi fette di mercato – stanno pompando liquidità in modi che sembrano incoerenti, quasi come una strategia per proteggersi da un’imminente instabilità. 

Noi, che osserviamo con attenzione questi movimenti, percepiamo un rischio: tutto questo potrebbe essere il preludio a un crollo sistemico, una crisi che coinvolge l’intero sistema finanziario globale. La nostra inchiesta predittiva, basata su analisi di interruzioni e anomalie nei mercati, ha visto l’indice di confidenza – una misura che indica quanto siano probabili le nostre previsioni – passare da 0.90 a 1.30 in direzione negativa. 

Questo lavoro,  è un analisi geoeconomica olistica, che integra prospettive economiche, politiche ampliate  tecnologiche. Utilizziamo strumenti moderni come gli esploratori di blockchain – software che permettono di tracciare transazioni pubbliche sulle reti di criptovalute, come quelle di Bitcoin – e l’intelligenza artificiale per identificare pattern ricorrenti nei dati. 

È un’analisi che si allinea perfettamente alla realtà accelerata in cui viviamo, dove, ad esempio, le uscite di BlackRock da 1 miliardo di dollari in Bitcoin il 14 ottobre 2025 hanno mantenuto il prezzo della criptovaluta sopra i 100.000 dollari, nonostante un crollo legato a minacce tariffarie. Questo conferma i nostri modelli predittivi, aiutandoci a colmare il divario tra ciò che vediamo e ciò che sta per accadere, prima che il tempo a disposizione finisca.

I Roosevelt, Tasse Progressive e Predizioni sul Potere Economico-Militare: Sovrapposizione con la Realtà Accelerata

Theodore Roosevelt, conosciuto come il “trust-buster” per la sua lotta contro i monopoli aziendali, affrontò i cosiddetti “robber barons” – quelli senza scrupoli che dominavano l’economia americana durante la Gilded Age, un periodo di grande ricchezza ma anche di profonde disuguaglianze . Questi colossi rischiavano di soffocare la democrazia con il loro potere economico. Roosevelt sosteneva una tassa progressiva sulle grandi fortune, cioè un sistema in cui chi guadagna di più paga una percentuale maggiore di tasse, per garantire che il successo economico fosse condiviso equamente. 

Diceva che “nessuna nazione può permettersi lo spreco delle sue risorse umane”, sottolineando che ignorare le disuguaglianze indebolisce la società nel suo complesso. Questa visione si sovrappone perfettamente alla nostra realtà accelerata, fatta di speculazioni sulle criptovalute e svalutazione della moneta fiat. La nostra inchiesta  utilizza dati raccolti dopo i discorsi di Trump per spingere l’indice di confidenza a 1.30 in direzione ribassista, rivelandosi un capolavoro di geoeconomia olistica. Questo lavoro valida schemi storici – pattern che si ripetono nel tempo – con dati on-chain, ovvero informazioni registrate sulla blockchain, la tecnologia dietro le criptovalute che garantisce trasparenza e immutabilità delle transazioni, per decifrare movimenti di liquidità che non tornano.

Le predizioni di Roosevelt, come l’idea che “le corporazioni giganti creano un’aristocrazia irresponsabile” o che “dietro una grande fortuna c’è spesso un grande crimine”, riecheggiano il lobbismo militare – le pressioni delle industrie belliche sui governi per ottenere contratti miliardari – che erode i risparmi delle famiglie. Queste idee si allineano alle recenti uscite di BlackRock e ai riposizionamenti strategici dell’Arabia Saudita, creando un distanziamento esponenziale, un divario che cresce rapidamente e che dobbiamo colmare con urgenza per non perdere il controllo della situazione.

Franklin D. Roosevelt, l’architetto del New Deal – un insieme di riforme economiche e sociali lanciate negli anni ’30 per risollevare gli Stati Uniti dalla Grande Depressione – portò le tasse sui redditi più alti fino al 94%. Sosteneva che “le tasse sono debiti che paghiamo per far parte di una società organizzata” e che “nessuno dovrebbe arricchirsi sfruttando la difesa nazionale”. In un’epoca di crisi e guerra, queste misure salvarono il capitalismo da se stesso.

La sua visione si sovrappone alla nostra inchiesta, dove i pattern di interruzioni e anomalie, amplificati da dati raccolti dopo i discorsi di Trump, dimostrano che la realtà accelerata in cui viviamo è prevedibile grazie a tecnologie moderne. È un capolavoro geoeconomico progettato per evitare che l’umanità si estingua in mezzo a queste turbolenze.

Le sue parole – come “l’accumulo di potere economico mette in pericolo la democrazia” o il lobbismo bellico “affama le risorse umane” – trovano eco nelle uscite di BlackRock e nei riposizionamenti sauditi, un distanziamento esponenziale che dobbiamo colmare per agire in tempo.

Eisenhower, Tasse GOP e Allarmi sul Complesso Militare: Risparmiatori Avvisati 

Forse Salvati

Dwight D. Eisenhower, generale e presidente repubblicano che guidò gli Stati Uniti durante la Guerra Fredda, univa una visione olistica che intrecciava difesa nazionale ed economia. Mantenne tasse alte, fino al 91% sui redditi elevati, sostenendo che “una nazione non può permettersi lo spreco delle sue risorse umane” e che “le tasse sono legami essenziali per una difesa forte senza indebolire l’economia”. Questo approccio si sovrappone alla nostra inchiesta predittiva sulle interruzioni sistemiche, un capolavoro di geoeconomia applicata a tecnologie moderne che valida schemi storici come una forma di protezione contro l’instabilità futura.

Eisenhower è famoso per aver avvertito del pericolo del “complesso militare-industriale”, un’alleanza tra forze armate, industrie belliche e governo che potrebbe esercitare un’influenza eccessiva e non giustificata sulle decisioni nazionali.

Disse anche di “non rischiare improvvisazioni nella difesa nazionale”, un monito che risuona ancora oggi. Ministro Tajani, questi leader non erano comunisti, ma statisti di spessore (ormai estinti ) con tanta autevolezza e coraggio da opporsi al lobbismo che divora trilioni di dollari, erodendo i risparmi delle famiglie e la sovranità nazionale.

Questo avvertimento si allinea perfettamente alle uscite di BlackRock e ai riposizionamenti strategici di Riad, l’Arabia Saudita, dove la nostra inchiesta approfondisce un mix sovrapposto alla realtà accelerata. 

Per i risparmiatori che seguono la geopolitica, tassare le banche non è un’eresia sovietica, ma l’eco di un capitalismo equilibrato che protegge una ricchezza condivisa. Viva i ricchi, ma con la responsabilità di contrastare gli squilibri globali – un concetto che la nostra analisi, un capolavoro olistico applicato a strumenti tecnologici nuovi, sovrappone alla realtà accelerata per non estinguerci in questo distanziamento esponenziale.

Le mosse di BlackRock, come le uscite di Bitcoin da 1 miliardo di dollari il 14 ottobre 2025, segnalano che il tempo per agire sta per scadere.

Cesare Semovigo – italiaeilmondo.com

Note:

1. Theodore Roosevelt, “Seventh Annual Message to Congress,” 3 December 1907: “A heavy progressive tax upon a very large fortune is in no way such a tax upon thrift or industry as a like tax upon a small fortune.” (Fonte: Miller Center, University of Virginia).

2. Theodore Roosevelt, speech on corporations: “The great corporations which we have grown to speak of rather loosely as trusts are the creatures of the State, and the State not only has the right to control them, but it is duty bound to control them wherever the need of such control is shown.” (Fonte: Goodreads, da “An Autobiography”).

3. Franklin D. Roosevelt, “Message to Congress on Curbing Monopolies,” 29 April 1938: “The accumulation of economic power in few hands is the danger of democracy.” (Fonte: American Presidency Project).

4. Franklin D. Roosevelt, “Address at Worcester, Mass.,” 21 October 1936: “Taxes, after all, are the dues that we pay for the privileges of membership in an organized society.” (Fonte: American Presidency Project).

5. Dwight D. Eisenhower, “Farewell Address,” 17 January 1961: “In the councils of government, we must guard against the acquisition of unwarranted influence, whether sought or unsought, by the military-industrial complex.” (Fonte: National Archives).

6. Dwight D. Eisenhower, “The President’s News Conference,” 8 April 1959: “Reduction of taxes is a very necessary objective of government—that if our form of economy is to endure, we must not forget private initiative.” (Fonte: American Presidency Project).

In lode di Niccolò (e Giovanni)_di WS

Mi è piaciuto  questo  articolo .

Non solo perché  è raro  che i francesi  non denigrino   qualcosa  di italiano ,    ma anche perché  è   scritto bene  seppure  teso a  rinforzare il punto di vista   dell’autore.

Soprattutto è interessante  che  nel  tracollo  della  civiltà occidentale si riscopra Machiavelli.

 Quindi   val la pena    evidenziare la  complessità   di  quel suo pensiero  che lo  rende ancora  un maestro della politica , ma  anche  evidenziarne  le  peculiarità  di  uomo del  suo  tempo  e    di  ciò  che  di quel pensiero politico allora ne impedì l’applicazione pratica.

Premetto  per i pochi interessati  che  questo  commento  sarà un po’  più lungo  del solito e poco  attinente   alla  geopolitica  corrente.

Diciamo  subito che la distanza  tra  teoria  e pratica in politica  non è una  quisquilia perché  dipende  da una miriade di fattori  spesso anche  casuali.  In politica ,  per il successo personale  la semplice  teoria non basta,  come  dimostrò  il   più pratico    Guicciardini.

Tra il  Machiavelli  e  il Guicciardini   il  pensiero politico  non era molto dissimile, anzi  pare  che i due  furono anche  amici; ma il  Guicciardini  servendo  sempre e soltanto “i Grandi”   ebbe un enorme  successo personale; il  Machiavelli, al contrario,  servendo  solo le sue idee  rimase  sostanzialmente un “fallito”.

La differenza  è che  seppur oggi gli aristocratici  discendenti del Guicciardini vendono un ottimo vino, nessuno  rilegge il Guicciardini   mentre  si rilegge Machiavelli   e non ci sono suoi  discendenti   che vendono  vino con il suo nome.

E io sono sicuro  che Machiavelli  sarebbe contento così.

Perché  innanzitutto  diamo  giustizia al  Machiavelli? In lui  non c’era altra  motivazione personale  che   quella  degli “eroi”: la gloria  conseguita  con merito.

E   c’era anche  una  grande  tensione morale. Lui  non era quel  cinico  che  Federico il grande cercò poi  di  rivelarsi;  lui  sì,  un cinico “politico di  successo”.

Machiavelli invece  semplicemente   descriveva  i meccanismi del potere  come  essi sono  sempre  stati e sempre  saranno  all’ interno   dello  “Stato” inteso come organizzazione di  ogni società umana.  

Machiavelli  non era nemmeno un antireligioso, ma uno che prende atto che la Religione non basta a moderare il male  nella vita umana  e  che  in questo    essa deve  essere   supplita   dall’etica  di uno Stato  dotato  della forza necessaria ad imporla   ad uomini  intrinsecamente  cattivi.

E  non è quindi un caso  che  questa   conclusione     sia   stata apprezzata  da  tanti pensatori marxisti. La differenza, però,  è che Machiavelli non si illude  che l’ indole umana sia  modificabile  da uno  Stato  che si proclama “  etico”, perché    sa bene   che anche  dietro  quello  Stato  ci sarebbero in posizione  di potere  uomini intrinsecamente  cattivi   sempre pronti   a diventare  così    dei “Grandi”   a spese altrui.

Per Machiavelli  quindi  l’ unica  forma  di Stato  utile    è  quella  “repubblicana”  nella quale un gruppo  di uomini liberi   gestiscono  la “cosa pubblica”  con la prima  e principale  attenzione  a  che nessun  uomo  di “virtù”  (   “virtù”     machiavellica   appunto ) possa  coartare     gli interessi  di tutti gli altri ,  così che  a   questi  uomini, potenzialmente  “Grandi”,    resti solo il servizio  dello Stato  come  unico campo dove  esprimere la propria  “virtù”.

Una posizione  di potere   che  però non è una  sinecura; la  repubblica  punisce  severamente  i dirigenti fedifraghi , incapaci  ed inetti ).   Né è trasmissibile  a membri  della propria “familia”, nel senso   romano,  se non  attraverso un nome   reso  grande  da  grandi cose   fatte  ad  esclusivo vantaggio della Repubblica.

Ed in questo,   sì, la “repubblica”  di Machiavelli  è  la “repubblica  romana”     descritta  nei libri di  Tito Livio,  cosa che non era  certo la   “repubblica  fiorentina” che  Machiavelli  servì  con impegno  venendo poi  sempre “sorpassato”  da   incapaci   membri di consorterie  , per poi  essere  alla fine pure punito  dai  Medici,  tornati  momentaneamente  “signori”  a  Firenze.

Recuperata  comunque la fiducia  di costoro,   tornando  quindi  a  servire  lo Stato   fiorentino,     ne fu poi espulso  alla seconda cacciata  dei Medici  come  “pallesco” .

Machiavelli  allora   opportunista e banderuola  come milioni di “ordinari”  italiani ? No,   solo  la  coerente  ambizione  a  servire  il SUO  “ Stato”   sapendo  di poter  svolgervi  un grande    servizio, sempre  comunque malpagato per altro.

Ma  è  proprio  nella sua  attività di uomo di Stato   e di pianificatore militare che  si evidenziano  i limiti  di Machiavelli, grande  analista  e teorico  politico, a  disbrigarsi nella  gestione pratica   della politica.

Sia  chiaro, niente di male in questo; piuttosto l’ evidenza   che    teoria e pratica   in politica  sono  cose  estremamente  diverse  perché    “la politica  è l’ arte del possibile”.  In politica  si può   definire  una teoria , ma nella pratica   si deve operare  solo nel campo del possibile

Perché, oltre  che una grande  tensione morale, Machiavelli  aveva    anche  una    coscienza “nazionale”   che  però  non andava molto  oltre  la sua Firenze. Se infatti Machiavelli  vedeva il  disastro  che  si stava  appressando  su una  Italia  divisa  ed imbelle, di fatto si preoccupava  soprattutto   dello  “Stato”  che conosceva.  Se  certamente  capiva   il limite  di una Italia   che non aveva mai superato   la dimensione    degli “  Stati   regionali”,  non sognava  certo   “l’ Italia  “  di Dante.

 Machiavelli   studiava  i meccanismi    della politica  e poteva  anche simpatizzare  per il “Valentino”   che  si stava  costruendo  un suo  stato personale   a spese     di tanti “signorotti”   e in prospettiva  anche  di Firenze; ma  serviva  solo lo Stato  fiorentino.

Il  quale   era   allora   giustappunto  l’ unica  “repubblica”  italiana  di un peso  “passabile”    sebbene  il cui “populus”  e   il  suo “senatus”  erano però     con  caratteristiche  ben  diverse  dal   modello  romano. E soprattutto era  diverso   il tipo  di guerra  combattuta nel 1500  da quella  di  1800 anni prima. Fallì così  ovviamente il Machiavelli  nella   sua costruzione  pratica   della milizia fiorentina.

E  qui  si apre un interessante  capitolo  sulla interazione intervenuta  tra lui  e Giovanni delle Bande Nere  .

Narrano infatti le cronache  che,  essendo venuto  a passare in Firenze  Giovanni con   le sue “bande” e avendo  il Medici  e il Machiavelli  discusso   di  tattica militare  e di ordini di battaglia, Giovanni  dimostrò al Campo di Marte  come le sue “bande”  superassero  agilmente le milizie  fiorentine  schierate “alla  romana”  e  come invece  quest’ultime , scegliendovi un gruppo più piccolo   meglio selezionato e molto più mobile   si comportassero molto meglio  quando    gestite  dallo stesso  Giovanni.

Perché in politica  anche la migliore  teoria    si  scontra sempre  con la realtà e  i cittadini fiorentini del 1500  non potevano  essere  organizzati in una “formazione quadrata”  come  ancora potevano  esserlo i montanari svizzeri  e , seppur in misura minore, anche i contadini spagnoli.

Quella lezione,  poco dopo,   Giovanni  la  stava  appunto  impartendo  ai lanzichecchi  che   calavano in Italia    se  non vi fosse morto per il tradimento  dei principotti padani.

La grandezza  così inespressa  di Giovanni che forse,  se non fosse morto così giovane,  avrebbe  fatto   un’ ALTRA Italia, fu  dimostrata  dalle   sue  “bande”,  che  seppur  “ decapitate” continuarono  la loro  guerra di  decimazione       della  soldataglia  imperiale   finché    lo  stesso papa Medici gli ordinò     il “ disbando”   dopo la sua resa a Carlo V.

E in  quelle  “bande nere”   si  era  distinto  anche  quel Ferrucci   che  fu chiamato  dalla  seconda  repubblica fiorentina   a difendere  Firenze    dall’ attacco degli imperiali   cosa  che fece  egregiamente   finché non cadde, per il solito tradimento, nell’ imboscata  di Gavinana.

Quale è quindi la lezione   che portava  Giovanni ?

Che  gli  italiani non sono un “popolo”.  Noi siamo  una variegata  accozzaglia  di “miseria  e nobiltà”,   ragion per  cui   non siamo  nemmeno un “gregge”.

Si,  ci sono  tantissime  “ pecore” e  tantissimi  aspiranti “cani pastore”, ma  ci sarebbero  anche  tanti “lupi”   che però non possono  essere    schierati  sparsi  in mezzo a  “ pecore  e traditori “.

 Ma  se    fosse  stato possibile   schierare   tutti insieme   un numero  sufficiente  di “lupi” ,  forse avremmo  potuto costruire  500 anni  fa  uno   stato ,  “etico” nel senso  del Machiavelli  , per  cui  oggi  potremmo   anche essere  quei “romani“  che  lui sognava.   

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La coda e il cane_di WS

Chi ha visto il film  “wag  the  dog”   capisce   subito    di  quale   relazione   geopolitica parlerò qui

Ora  questo intervento di Morigi  è stimolante  per parlarne , anzi     meriterebbe pure una  critica   articolata anche  su altri spunti  qui contenuti.

Innanzitutto  però mi si perdoni una  critica formale, perché questo pur eccellente contributo è  poco  leggibile sia per la sua grafia ( il neretto)   che per la sua  stesura senza  stacchi e  per l’ affastellamento di tanti interessanti spunti i quali   tutti  meriterebbero una trattazione più estesa.

 Ragion per cui, premettendo  che  forse    potrei  aver  frainteso   quanto  in esso  volesse  essere  scritto   dall’autore,   di   questi  spunti ne commento brevemente solo quello che mi pare  dovrebbe rappresentare l’essenza di questo articolo,  laddove  cioè solleva      la   relazione  U$A -Israele  con una  similitudine “tripla”:

Biden: netanyau= Alessadro V : Cesare Borgia= Trump: Giulio II 

 La trovo  molto stimolante ma errata .

Innanzitutto perché la vera similitudine dovrebbe essere semplicemente

  Democratici: Sionisti globalisti = Repubblicani : Sionisti israeliani 

 In quanto sia i Democratici e Repubblicani che le due branche del Sionismo sono  rispettiva espressione di due ” partiti unici” : l “americanismo” e il “sionismo” appunto.

E poi perché    nemmeno i termini mi sembrano  esatti.

 Infatti  se Biden e Trump possono essere considerati due papi della ” chiesa americana”, almeno i loro frontmen, Netaniahu è solo un “braccio” del Sionismo , paragonabile   ad un Cesare Borgia, ma  solo in quanto   anch’esso  un “avventurista” , in questo caso  mosso  però anche   dalla visione  “messianica” che pervade da sempre “la destra” del Sionismo.

  E  qui posso garantire che, al contrario   del Borgia, non ci sarà nessuna “rovina personale” per Bibi; semplicemente  “ a tempo debito” sarà “posato” ( per usare, non a  caso ,un termine mafioso) cosa che era già calcolata fin da l’ inizio della “operazione Gaza” .

C’ è  appunto nel sionismo una “cupola”  più efficiente che in quella “americana” e che evita che la “dialettica interna” sfoci mai in qualcosa di realmente  e platealmente “punitivo” per i  membri  perdenti della    tribù; pure per  quelli dannosi.

La “  carità”  interna   alla  “ nota etnia”  è  non solo  molto  forte   ma anche profondamente   astuta nell’ assunto che per   consolidare   la propria tenuta    ed  estendere  il proprio potere   non devono  essere  né  abbandonati,   né  esemplarmente puniti  non solo  gli “incapaci” ma pure i “transfughi”  e perfino  anche i “rinnegati”.

Ad  esempio dopo il 1945  nessuno   dei  nazisti   di  “sangue  ebreo”  fu    realmente punito, nemmeno  chi fu   sempre leale    ad “ Herr H “   e  il “nazismo”  non lo abiurò mai.

  Poi perdipiù  le  due entità : U$A e Israele sono ormai così tanto simbiotiche da mostrarsi sempre di più come una sola entità : U$rael. 

Di questa  si può certamente  definire chi  per stazza  sia “il cane ” e chi ” la coda”, ma mi sembra incontestabile che sia quest’ultima a far ” scodinzolare il cane “.

Trump non è un Giulio II che è andato a “punire” un borgia- netaniahu . Trump è stato solo chiamato a tirare fuori Netaniahu dai pasticci in cui si era cacciato.

 E qui si può discutere solo se “l’ ordine ” sia stato impartito direttamente dalla ” destra sionista” americana che sostiene  sia Netaniahu  che  Trump o dalla cupola sionista tramite la cupola americana in cui essa è  comunque pesantemente presente, e dalla quale comunque Trump è dipendente.

La ” pace di trump” serviva solo   a questo, pur  condito  con un  teatrino in  cui si è cercato di narrare che U$rael ha vinto.

Ma non è una “pace “, è  solo una pausa tra un “round” e il successivo ed è pure discutibile che U$real   questo  round lo abbia realmente vinto.

Certo parecchi “punti”  U$rael li ha segnati, ma al prezzo di  aver  smascherato al mondo  la  complicità  che esso riceve  da lunga  data  da  pressoché tutti   gli  stati   arabi  e sunniti .

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