Di MARY CLARE JALONICK Associated Press
Updated January 31, 2019 04:55 PM
MIGRANTI
qui sotto un testo tradotto dell’analista africanista Bernard Lugan. Coglie un aspetto importante dei processi migratori. Ve ne sono ormai aggiunti altri. A migrare non è nemmeno la componente più povera di quel continente; questa non se lo può permettere. E’ presente inoltre una componente sempre più importante legata all’esportazione e al radicamento di organizzazioni mafiose in particolare dell’Africa del Nord-Ovest. Numerose inchieste in varie città italiane, riportate sui giornali locali, molto meno su quelli nazionali, stanno iniziando ad offrire barlumi di verità_Giuseppe Germinario
Nel 2017 (i dati completi per 2018 non sono noti), il jihadismo, nella sua accezione più ampia ha causato 10.376 morti in Africa (Fonte:Centro di studi strategici per l’Africa). Per quanto drammatiche siano, queste cifre non giustificano che centinaia di milioni di africani debbano essere ospitati. Siamo infatti non in presenza di una vera e propria condizione di pericolo di persone tale da giustificare l’applicazione di un “diritto d’asilo”, diventato la filiera ufficiale dell’immigrazione. Non è infatti il jihadismo a spingere i “migranti” africani a forzare le porte di un’Europa paralizzata dalla tunica di Nessus etno-masochista, ma la miseria. I migranti economici, quindi non hanno diritto di restare nei paesi europei. Non se ne dispiacciano contrabbandieri ideologici e papa.
Per avere una chiara idea del vero tributo umano del jihadismo africano, passeremo in rassegna le sue aree di attività, vale a dire la Somalia, Egitto, Libia, Nigeria e la regione del Sahel-Sahara.
1) Somalia: delle 10376 morti causate dal jihadismo africano nell’accezione più ampia, 4557 – ovvero il 44% del totale – sono stati uccisi dal Shabaab della Somalia, anche se non sappiamo se si tratta di puro jihadismo , guerra civile o entrambi.
2) l’Egitto e il Sinai: 391 morti nel 2017 (contro 223 nel 2016) causate dallo Stato islamico e da Al Mourabitun.
3) Libia: 239 morti, la maggior parte delle quali membri dello Stato Islamico uccisi dalle milizie che lo combattono.
4) Nigeria (Boko Haram): dopo il picco di 11 519 morti nel 2015, nel 2017, il numero totale di morti è raggiunto la cifra di 3329.
5) La regione del Sahel sahariana (Mali, Niger, Burkina Faso): Il bilancio delle vittime è purtroppo quasi raddoppiato in un anno, da 223 nel 2016-391 nel 2017. Dei 391 morti, 253 sono attribuibili al gruppo Jama ‘ ha Nusrat al-Islam wal Muslimeen.
Se togliamo dalle 10.376 vittime del jihadismo globale i 4557 decessi somali, nel 2017, per il resto della loro azione terra africana, i jihadisti hanno provocato 5819 morti. Alla scala delle vaste zone colpite, e in relazione a una popolazione di circa 400 milioni di persone che vivono lì, non siamo ovviamente in presenza di popolazioni in pericolo tale da provocare un esodo che giustifichi la domanda di asilo.
Tuttavia, in passato, l’Africa ha sperimentato uccisioni di massa veri, in particolare tra il 1991 e il 2002, quando la guerra civile algerina ha causato la morte di più di 60 000 persone (e anche più di 100 000 secondo alcune ONG), circa 6000 l’anno. Allo stesso modo, nel decennio 1980-1990 la guerra civile in Liberia ha provocato più di 150.000 morti, pari a circa 15 000 l’anno; o tra il 1991 e il 2002 quella della Sierra Leone ha causato più di 120 000 morti, circa 12 000 l’anno. Per non parlare delle guerre di Ituri e Kasai ecc
Ma in quei momenti non abbiamo conosciuto un’ondata di “rifugiati” a immagine di ciò che l’Europa sta soffrendo attualmente.
Questa non è la guerra dalla quale fuggono questi “migranti” africani forzando le porte dell’Europa, con l’aiuto dei contrabbandieri professionali o ideologici. In Africa, il jihadismo in realtà provoca tre volte meno vittime dei morsi di serpente. Mamba, vipere di sabbia e altri naja nel 2017, ucciso tra i 25.000 e i 30.000 poveri e reso molte vite storpie (Slate fonte Africa).
Queste persone non sono “rifugiati” che temono per la loro vita e ai quali noi “dovremmo” dare il benvenuto e proteggere mentre cercano di entrare nel “Eldorado” europeo; sono clandestini. Attratti dal nostro “benessere” e dalle nostre leggi sociali generose, questi squatters (occupanti abusivi) si introducono per effrazione in un’Europa a lasciarli entrare, come diceva Chesterton; l’attuale Papa lo rovela nel suo discorso in nome di “antiche virtù cristiane impazzite.”
Bernard Lugan
2019/01/27
PORTATORI DI PACE
La maggioranza del Congresso Americano, democratici e buona parte dei repubblicani, ha bocciato la decisione di Trump del ritiro delle forze militari americane da Siria ed Afghanistan. Il Presidente Trump sarà pure paralizzato nella sua azione politica; sta di fatto che la sua pura e semplice esistenza sta costringendo le forze politiche a mettere da parte ogni ipocrisia e a manifestarsi apertamente. Sarà sempre più difficile una operazione di mera restaurazione e di recupero in tempi rapidi di credibilità ed autorevolezza; come pura di una riproposizione dello schema classico destra/sinistra-democratici/conservatori.
qui sotto il link e la traduzione di una nota
In questo 29 gennaio 2019, (nella foto), il leader della maggioranza al Senato Mitch McConnell, R-Ky., parla con giornalisti al Campidoglio di Washington. In disaccordo con il presidente Donald Trump, il Senato, in maggioranza, ha votato 68-23 nel promuovere un emendamento che si opporrà al ritiro delle truppe statunitensi dalla Siria e dall’Afghanistan. L’emendamento di McConnell afferma che lo Stato islamico e i militanti di al-Qaida rappresentano ancora una seria minaccia per gli Stati Uniti e avverte che “un precipitoso ritiro” delle forze americane dalla Siria e dall’Afghanistan potrebbe consentire ai gruppi di riorganizzarsi e destabilizzare i paesi.
WASHINGTON
Con il sostegno di ambo i partiti, in un atto di dissenso contro il presidente Donald Trump, il Senato ha votato 68-23 per far avanzare un emendamento che si opporrà al ritiro delle truppe statunitensi dalla Siria e dall’Afghanistan.
L’emendamento del leader della maggioranza al Senato; Mitch McConnell, arriva dopo che Trump ha chiesto il ritiro delle truppe da entrambi i paesi. Il provvedimento dice che lo Stato Islamico e i militanti di al-Qaida rappresentano ancora una seria minaccia per gli Stati Uniti, e avverte che “un precipitoso ritiro” delle forze statunitensi da quei paesi potrebbe “permettere ai terroristi di riorganizzarsi, destabilizzare regioni critiche e creare vuoti che potrebbe essere riempiti dall’Iran o dalla Russia “.
Trump ha improvvisamente twittato i piani per un ritiro americano dalla Siria a dicembre, sostenendo che lo Stato islamico era stato sconfitto nonostante i suoi capi dei servizi segreti avessero detto che il gruppo rimaneva una minaccia. Trump ha anche ordinato ai militari di sviluppare dei piani per rimuovere fino a metà delle 14.000 forze statunitensi in Afghanistan.
McConnell ha dichiarato che la misura presa in senato non deve essere vista come un rimprovero al presidente, prima del voto ha però detto che “sono stato chiaro con le mie opinioni su queste questioni“. McConnell crede che i pericoli posti dalla Siria e Dall’Afghanistan nel confronto degli Stati Uniti rimangano.”L’ISIS e al-Qaida devono ancora essere sconfitti”, ha detto McConnell. “E gli interessi della sicurezza nazionale americana richiedono un impegno costante per le nostre missioni in quei paesi“.
Il voto è l’ultima indicazione di un allargamento delle crepe tra il Senato repubblicano e Trump in materia di politica estera. Simili fratture esistono all’interno della stessa amministrazione di Trump, evidenti questa settimana quando i capi delle principali agenzie di intelligence statunitensi hanno testimoniato al Senato e lo hanno contraddetto sulla forza dello Stato islamico e su molte altre questioni di politica estera. L’annuncio di Trump sulla Siria, nel frattempo, ha provocato le dimissioni del Segretario alla Difesa James Mattis.
L’emendamento di McConnell, che è non vincolante, incoraggerebbe la cooperazione tra la Casa Bianca e il Congresso a sviluppare strategie a lungo termine per entrambe le nazioni, “includendo un esame approfondito dei rischi di un ritiro troppo frettoloso“.
Il senatore Marco Rubio, R-Fla., ha parlato a sostegno dell’emendamento del Senato, dicendo che l’annuncio del ritiro di Trump ha già minato la credibilità degli Stati Uniti nella regione. “Questo viene usato contro di noi in questo momento“, ha detto Rubio. “Questa è una situazione molto pericolosa, ecco perché questa è una pessima idea.”
Sebbene molti democratici abbiano sostenuto che gli Stati Uniti dovrebbero eventualmente ritirarsi dai conflitti in Siria e in Afghanistan, circa la metà di loro ha sostenuto la risoluzione di McConnell.
La senatrice della California Dianne Feinstein ha detto dopo il voto che ritiene che sia “passato abbastanza tempo da permettere agli Stati Uniti di negoziare una fine appropriata” per il conflitto in Afghanistan. Ma ha detto anche di essere d’accordo con McConnell sul fatto che il “ritiro precipitoso” da uno dei due paesi senza risoluzioni politiche metterebbe a repentaglio i risultati che hanno già raggiunto le forze militari. Ha votato a favore della misura.
Il senatore indipendente Bernie Sanders del Vermont ha detto che pensa che Trump abbia annunciato i ritiri troppo bruscamente, ma gli Stati Uniti sono rimasti in Afghanistan e in Siria da troppo tempo. “Quello che McConnell sta dicendo è mantenere lo status quo“, ha detto.
Anche una manciata di repubblicani si è opposta all’emendamento. Il collega del Kentucky McConnell, il senatore repubblicano Rand Paul, non era presente per il voto, ma ha fatto sapere che era contrario.
“E ‘tempo di riportare le nostre truppe a casa dall’Afghanistan e dalla Siria“, ha scritto Paul in un tweet, dicendo di stare con Trump. “È ridicolo chiamare “precipitoso” il ritiro dopo 17 anni.
Una votazione sul passaggio finale dell’emendamento potrebbe arrivare all’inizio della prossima settimana. Se avrà successo, la posizione verrà aggiunta a una vasta proposta di legge sulla politica estera che è rimasta in sospeso al piano del Senato per diverse settimane. La legislazione include misure a sostegno di Israele e Giordania e lo schiaffo delle sanzioni contro i siriani coinvolti in crimini di guerra.
Questo disegno di legge ha anche diviso i democratici centristi e liberali su una disposizione di Rubio che cerca di contrastare il movimento globale di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni contro Israele per il trattamento riservato ai palestinesi e ai loro insediamenti. Israele vede una crescente minaccia dal movimento BDS, che ha portato a un aumento dei boicottaggi dello stato ebraico a sostegno dei palestinesi.
A sostegno di Israele, le misure di Rubio affermano l’autorità legale dello stato e dei governi locali di limitare i contratti e intraprendere altre azioni contro coloro che “sono coinvolti nella condotta BDS”. Diversi stati stanno affrontando cause legali dopo aver intrapreso azioni contro i lavoratori sostenitori del boicottaggio di Israele.
Gli oppositori dicono che la misura di Rubio viola la libertà di parola.
È un gruppo di supporto che non lesina sui mezzi. Il giornale della domenica, che ha esaminato i conti di LREM a marzo (LREM), rivela questo 2 dicembre che l’epopea presidenziale di Emmanuel Macron è stata finanziata per mezzo di … 913 persone soltanto, al massimo. Questo “club dei mille” ha donato non meno di 6,3 milioni di euro all’En Marche dalla sua creazione a marzo 2016 sino a maggio 2017; rappresenta il 48% delle donazioni totali. Questa cifra impressionante supera per esempio tutte le donazioni fatte a candidati “piccoli”, tra cui Nicolas Dupont-Aignan, Jean Lassalle, Philippe Poutou, François Asselineau, Nathalie Arthaud, Jacques Cheminade. Di che dopare in modo spettacolare una candidatura per le elezioni presidenziali.
In un sondaggio pubblicato lo scorso aprile, Marianne ha mostrato come gli staff di Emmanuel Macron si siano affidati in gran parte a cene di raccolta fondi organizzate con professionisti finanziari per lanciare la nomina dell’enarca. Alla fine del 2016, il ” 69% ” delle donazioni era stato ottenuto attraverso questa modalità. En Marche ha potuto anche contare su un prezioso club di ” 400 donatori a oltre 5.000 € “. Il sondaggio JDD conferma che questo cerchio si è espanso nei primi sei mesi del 2017 … ma non troppo. La cifra di 913 corrisponde a donazioni superiori a 5.000 euro e non al numero di donatori, il massimale è di 7.500 euro a persona all’anno. Tuttavia, è una scommessa certa che molti dei ricchi mecenati dell’Ispettore delle Finanze hanno scelto di fare due donazioni, una nel 2016 e una nel 2017. Il suo prezioso “club dei mille” è più precisamente una prima cerchia di 450 a 913 donatori.
La geografia di questi doni rivela un altro squilibrio. Dipinge un ritratto di un candidato ampiamente sostenuto nella regione parigina (il 56% del totale) e … nelle roccaforti della finanza all’estero, molto più che nelle province. Preoccupante visto come parte della “Francia periferica”, si leva attraverso il movimento di ” giubbotti gialli “”. Veniamo a sapere che le donazioni dalla Svizzera (95.000 euro) hanno portato più soldi rispetto a quelli di … Marsiglia (78.364 euro), la seconda città più grande della Francia! Con solo 18 benefattori ma con 105.000 euro concessi, i libanesi hanno contribuito fortemente all’emergere del macronismo, più dei 250.000 abitanti di Bordeaux e di 230.000 abitanti di Lille insieme! Dopo Parigi, la seconda città più “macronizzata” non è altro che … Londra. Con 800.000 euro di donazioni, il Regno Unito scavalca … tutte le dieci maggiori città francesi della provincia. Questa informazione dà un altro significato alla parziale rimozione della “tassa di uscita”, annunciata con grande enfasi da Emmanuel Macron nella rivista americana Forbes , lo scorso maggio.
Nel tentativo di liberarsi della sua etichetta di “ricco candidato”, l’ex banchiere avrà spinto le sue truppe a mentire. Nel maggio 2017, i team di En Marche hanno assicurato a Libération che la proporzione di donazioni di oltre 5.000 euro rispetto alla raccolta totale era ” un terzo “. In realtà è la metà, come documentato oggi dal sondaggio JDD . Sottolineando, come riportato nello studio dell’Istituto di politica pubblica pubblicato lo scorso ottobre, che i grandi vincitori della politica fiscale di Emmanuel Macron sono … gli ultrariches. L’1% più ricco vede i propri redditi aumentare del 6%, quando le famiglie più modeste perdono l’1% del potere d’acquisto.
I prossimi due anni si prospettano incerti ed avvincenti, decisivi. Sia nello scenario geopolitico mondiale che nell’agone interno agli Stati Uniti. A prescindere dall’esito delle elezioni presidenziali americane del 2020, ogni velleità meramente restauratrice dello status quo ante è destinata a rivelarsi una pura suggestione. Peggio! Se dovesse avere successo non farebbe che accelerare il processo di decomposizione e frammentazione sociale e politica di quel paese sino a trascinarlo inesorabilmente verso un distruttivo ed imprevedibile conflitto interno o ad una implosione. Trump è il rappresentante di una versione originale di una componente “isolazionista” da sempre presente negli Stati Uniti, molto militante, ma costantemente minoritaria. Lo è ancora adesso; nel suo momento di massimo fulgore, l’attuale, non riesce a superare un 20/25% dell’elettorato; uno zoccolo duro autenticamente sostenitore del Presidente ma scarsamente radicato negli apparati di potere. Da qui la tattica di infiltrazione all’interno del Partito Repubblicano e i continui compromessi al ribasso di Trump, sino al sacrificio dei suoi uomini migliori e più fedeli. L’indole e la propensione di “the Donald” è rimasta e riaffiora comunque, estemporanea, come un sussulto, ogni qualvolta appare un qualche margine di autonomia nelle proprie scelte. Più o meno consapevolmente Trump con la sua azione ha comunque eroso ogni residuo spazio effettivo di conduzione unipolare del gioco geopolitico e sancito l’esistenza politica di forze avverse e concorrenti pur con le sue azioni più dure e apparentemente discriminatorie. Ha determinato la crisi e lo stallo delle élite politiche europee globaliste ed europeiste, ha ridicolizzato e privato di autorevolezza la quasi totalità del ceto politico americano a lui avverso o apparentemente amico. Le primarie del Partito Democratico annunciano un rinnovamento radicale della leadership e il tramonto definitivo, con l’eccezione di Obama, dei vecchi santoni. Molto più precaria e incerta la situazione nel Partito Repubblicano. Una fase di transizione che sembra offrire margini di azioni a personalità più o meno “indipendenti” esterni agli schieramenti classici. Gianfranco Campa, da par suo, ci offrirà un affresco esauriente e documentato di queste dinamiche così influenti anche in casa nostra. Buon ascolto_Giuseppe Germinario
https://soundcloud.com/user-159708855/podcast-episode-29
Cari Amici vicini & lontani, ieri la mia palla di cristallo è stata hackerata da qualcuno o Qualcuno, non so. O è stato Putin, o è stata un’Entità Non Identificata, o è stato un dodicenne smanettone, fatto sta che quando l’ho accesa a) la trasmissione non era come al solito a colori, ma in bianco e nero b) i protagonisti della vicenda che mi ha presentato esistono, esistono eccome: sono il Presidente Trump e la Speaker del Congresso USA Nancy Pelosi; ma gli eventi che ho visto dipanarsi non, ripeto NON sono accaduti nella realtà.
Perlomeno, non sono accaduti nella nostra realtà, anche se ci sono coincidenze e sovrapposizioni tra la nostra realtà, la realtà a colori, e la realtà in bianco e nero che mi ha raccontato la palla di cristallo. Cercando una spiegazione, mi sono detto: “E se questi eventi si fossero effettivamente svolti in una realtà parallela? In un universo che esiste, invisibile e impercettibile, accanto al nostro?”
Va be’, la smetto con la fantascienza filosofica e vi racconto.
Vi ricordate che qualche giorno fa, nella nostra realtà a colori, il Presidente Trump ha fatto un dispetto alla Speaker del Congresso, la democrat Nancy Pelosi? No? Ve lo ricordo io.
La Pelosi programma un viaggio in due tappe, con un’ottantina di persone al seguito: Europa, sede Nato di Bruxelles, per un incontro con Macron, Merkel e rappresentanti delle FFAA americane ed europee; destinazione finale, Afghanistan. Ma Trump blocca il viaggio d’autorità, le manda una letterina provocatoria “In Afghanistan non ci vai, spendi troppo”
e diffonde la foto del cumulo di bagagli di Nancy abbandonato su un carrello in corridoio, davanti al suo ufficio presidenziale.
Fin qui, tutto normale: la mia palla di cristallo me lo racconta in bianco e nero, ma è successo anche nella nostra realtà, la realtà a colori.
Nella realtà parallela in bianco e nero, però, il dispetto di Trump non è un dispetto, e non è un viaggio qualsiasi il viaggio di Nancy in Europa e in Afghanistan. Nella realtà parallela in bianco e nero, la Pelosi se ne va in Afghanistan per crearsi un alibi mentre accade un evento che è qualcosa di più di un dispetto: e fa tappa alla sede NATO di Bruxelles per preparare il terreno alle conseguenze di quell’evento.
A proposito! Che ci fa la Pelosi con quella dozzina di bagagli per un viaggio di pochi giorni?
L’evento che racconta in bianco e nero la mia palla di cristallo – l’evento che si svolge nella realtà parallela – è un attentato alla vita del Presidente Trump e del Vicepresidente Pence. Un giovane estremista islamico uccide Presidente e Vicepresidente degli Stati Uniti, e dunque fa accedere alla Presidenza la terza carica dello Stato nordamericano: la Speaker del Congresso Nancy Pelosi.
Anche nella nostra realtà a colori era previsto che proprio nei giorni in cui Nancy programmava di trovarsi in Afghanistan, Trump e Pence comparissero insieme in un evento pubblico. Poi però, annullato da Trump il viaggio di Nancy, all’evento pubblico ha partecipato di persona il solo Vicepresidente Pence. Trump si è limitato a una partecipazione in videoconferenza. C’è di più. Sempre nella nostra realtà a colori, il 18 gennaio scorso Donna Brazile[1], personalità al vertice dei Democrats USA, ha twittato: “Madam Speaker today/President Pelosi shortly thereafter/MLK weekend is underway”. Traduzione: “Oggi Signora Speaker/Fra poco Presidente Pelosi/il fine settimana dedicato alla memoria di Martin Luther King sta arrivando”. Il Martin Luther King Day 2019 è stato lunedì 21 gennaio, e dunque il MLK weekend era sabato 19 e domenica 20. Ma..maledetta palla! Il messaggio è scomparso. Cos’è? Censura ai tempi di Merlino, dai posteri conosciuto come Zuck er Berg? Ops! Un momento! Sono riuscito a fissare il messaggio nei miei occhi. Eccolo!
In quei giorni era previsto che la Pelosi fosse in viaggio.
E qui finisce la trasmissione della mia palla di cristallo. Grazie al Cielo, il terribile evento che mi ha raccontato in bianco e nero non è accaduto a colori, nella nostra realtà. Se davvero la trasmissione in bianco e nero della mia palla di cristallo proviene da un universo parallelo, non posso che compiangerne gli abitanti: l’assassinio di Presidente e Vicepresidente degli Stati Uniti non solo è un colpo di Stato che sovverte le istituzioni e la società nordamericana, ma destabilizza il mondo intero, e rischia di provocare un conflitto militare tra le grandi potenze. Che il loro Dio Parallelo li aiuti.
Cari amici, ripeto! Attenzione e cautela. La palla di cristallo può essere veritiera, ma è una lente che ingrandisce, deforma, scopre altri mondi ad occhi che sanno e vogliono leggere. Nel nostro mondo dobbiamo accontentarci di tastare nell’ombra e scorgere, attraverso un spiraglio di luce caravaggesco, Nancy Pelosi che nel frattempo presiede alla firma della fine dello shut down con un corredo rituale di otto penne.
Negli Stati Uniti una prerogativa da Presidente piuttosto che da portavoce della Camera. Cosa vorrà dire?
Il duello in corso tra un pool di magistrati siciliani e il Ministro dell’Interno ha segnato un altro colpo: il deferimento di Matteo Salvini per una serie di reati a partire dal sequestro di persona. Nel frattempo continua le ONG, con il loro corredo di naviglio, con uno stillicidio accurato e mirato cercano di imporre la loro rappresentazione di accoglienza. Una ulteriore occasione di sconfinamento di competenze di ambienti giudiziari negli spazi propri di azione politica di un governo. Augusti Sinagra ci offre ancora una volta il suo acuto punto di vista. Buon ascolto, Giuseppe Germinario
BRACCATI E BRACCONIERI
Si sono presentati in 29, al riparo delle tenebre, alle 6 di mattina, armati fino ai denti. Una operazione degna di un incursione militare nella casa di un pericoloso terrorista. L’irruzione dei nostri eroi ha goduto degli onori della diretta, sotto le telecamere della più famosa agenzia di stampa, la regina per eccellenza delle Fake News; la CNN (Clinton News Network).
Si sono presentati alla porta di un mite sessantaseienne, senza nessun precedente penale, terrorizzando un uomo in pigiama e pantofole, sua moglie, sofferente di problemi fisici e il cane. Roger Jason Stone, Jr., di Fort Lauderdale, in Florida, è stato arrestato nella propria abitazione a seguito di una mandato di arresto spiccato dal grand jury federale del distretto della Colombia, impegnato in stretta collaborazione con il procuratore speciale Robert Mueller sul Russiagate. Ora, grazie ai nostri eroi, le strade degli Stati Uniti sono libere da questo pericoloso criminale.
https://twitter.com/BrianEntin/status/1089001187872030721
Quanti sono i capi di imputazioni contro Stone? In totale sette, tra i quali ostruzione, falsa testimonianza, manomissione delle prove, in particolare durante la testimonianza al Senato Americano nel corso della quale aveva negato il tentativo di impossessarsi di email considerate rubate, hackerate, dal server del Comitato Nazionale del Partito Democratico (DNC) e poi pubblicate da wikileaks.
I capi di accusa contro Stone, ripropongono il modus operandi del procuratore speciale Mueller cui siamo ormai da tempo abituati. Il suo team di magistrati ha usato le stesse tattiche anche contro altri ex associati allo staff di Trump: Il generale Michael Flynn, Paul Manofort, Michael Cohen, George Papadopoulos e ora Roger Stone. I soggetti vengono prima sottoposti a interrogatori “amichevoli” poi vengono accusati di crimini che non hanno niente a che vedere con l’inchiesta del Russiagate, della quale è stato specificatamente incaricato il Procuratore. Infatti dovete sapere che tutti i crimini fino ad ora “smascherati” da Mueller ai danni di ex collaboratori di Trump riguardano reati generati e indotti dall’inchiesta stessa di Mueller. In altre parole del presunto Russiagate, di cui Mueller era stato incaricato di indagare, fino ad ora, dopo quasi due anni di indagini, non risulta che il nulla assoluto. Tutti i crimini riguardano fatti avvenuti da quando Mueller è stato nominato procuratore speciale, crimini per lo più instigati, come ho detto prima, dalle sue stesse “tecniche” investigative.
Roger Stone, dopo l’arresto è stato rilasciato su cauzione di duecentocinquantamila dollari, in attesa di un processo di cui ovviamente non conosciamo ancora la data.
Alcuni aspetti curiosi, quasi comici, emergono leggendo i capi di accusa contro Stone. Secondo Mueller, Stone avrebbe minacciato il cane di un certo Randy Credico. Per chi lo non lo conoscesse Credico “un eterno candidato politico e commediante” sarebbe stato il canale di collegamento tra Wikileaks e Roger Stone. Una cosa questa che Credico ha sempre negato. Fra l’altro Julian Assange ha sempre detto che non esisteva nessuno rapporto diretto tra Wikileaks e Roger Stone, affermando di essere disponibile ad incontrare il procuratore Mueller per chiarire non solo la posizione riguardante i rapporti Wikileaks-collaboratori di Trump, ma lo stesso presunto coinvolgimento del Cremlino sull’affare delle email sottratte al DNC. Mueller in questo senso non ci ha mai sentito e ha sempre ignorato la volontà di Assange di sottoporre direttamente a Muller la propria verità sulle email del DNC. Mueller sa che la Russia non c’entra nulla con le email del DNC! Ecco perché non è interessato a interrogare Assange.
Di Mueller e la sua caccia alle streghe ne abbiamo esaurientemente narrato in molti dei nostri precedenti podcast. Tutta la farsa del Russiagate altro non è che la costruzione di una narrativa mirata a creare una nube di sospetti sulla attuale presidenza limitando e sviando l’efficacia dell’impegno a governare dell’amministrazione Trump. Gli atti di accusa contro Roger Stone sono solo l’ultima dimostrazione del fatto che l’ufficio del procuratore speciale Robert Mueller, il Dipartimento di Giustizia e l’FBI sanno che non esiste nessuna collusione Trump-Cremlino. Il fondamento logico dell’indagine Trump-Russia, ovvero l’idea che la campagna elettorale di Trump fosse “coordinata” da e all’ombra del Cremlino in un’operazione di spionaggio informatico tesa a interferire nella campagna del 2016, non è stata altro che una certosina e ostinata operazione di depistaggio, coordinata da forze politiche, forze dell’ordine, e funzionari dell’intelligence ferocemente avversi a Donald Trump.
Una domanda sorge spontanea: chi ha informato la CNN dell’irruzione a casa di Stone?
La CNN ha affermato che si trovavano intorno alla casa di Stone, alle 6 di mattina, per puro spirito di intuizione giornalistica…Potrebbe essere invece che qualcuno dell’ufficio di Mueller abbia soffiato l’informazione alla CNN facendo trapelare in anticipo i dettagli dell’operazione sull’arresto di Stone. Anche perché, guarda caso, un ex agente dell’FBI e assistente di James Comey, di nome Josh Campbell, attualmente lavora per la CNN come reporter: “In precedenza, Josh Campbell è stato Agente speciale di vigilanza dello stesso Ufficio federale investigativo statunitense che conduceva indagini di sicurezza nazionale e criminali. Tra I suoi incarichi quello di Assistente speciale dell’ex direttore dell’FBI James Comey” (Wikipedia). Non si esclude che lo stesso Campbell fosse presente con gli altri giornalisti della CNN al momento dello “scoop”.
https://twitter.com/joshscampbell?lang=en
https://www.cnn.com/profiles/josh-campbell#about
Qui trovate il testo dei capi di accusa contro Roger Stone
https://www.justice.gov/file/1124706/download
L’arresto di Roger Stone segue i numerosi eventi, proditori e di straordinaria violenza i quali hanno contraddistinto la battaglia politica interna agli Stati Uniti in questi ultimi tre anni. Ne abbiamo parlato ormai in decine di articoli e podcast. Dal punto di vista umano è uno dei più spietati e vili, dal punto di vista politico ci sono fatti probabilmente ancora più gravi che non hanno ancora goduto degli onori della cronaca di una stampa sempre più partigiana. Uno di questi, il più recente e inquietante, ricco di gustosi particolari, potrebbe essere proprio il mancato viaggio dello speaker della Camera Nancy Pelosi, con al seguito famiglia e ottanta personalità di area democratica, in Afghanistan con breve sosta in Europa al cospetto di Macron, Merkel e importanti ufficiali americani.
Ovviamente le aperte violazioni di legge e i gravi abusi della Clinton, emersi appunto da quelle mail, ai distratti partigiani del diritto e alla magistratura americani non sembrano interessare più di tanto. Non è da escludere che nel prossimo futuro le premure dei custodi si concentrino direttamente sulla famiglia del Presidente.
Una modalità di conduzione della battaglia politica che contribuisce a scavare all’interno di quel paese un solco talmente profondo da rendere irreversibile la frattura che ormai divide le sue classi dirigenti e la sua popolazione. Se ne vedranno ancora sempre più delle belle. Non è detto che alla fine, in un futuro nemmeno troppo lontano, un ceto politico e una classe dirigente, tanto arroganti quanto ormai talmente compromessi e sempre meno autorevoli, non risultino troppo scomodi persino ai loro stessi potenti mentori.
GLI USA E L’EGEMONIA DISTRUTTRICE
a cura di Luigi Longo
L’ambigua ritirata statunitense dalla Siria e il nulla osta dato ad Israele di attaccare le installazioni militari iraniane in Siria hanno come obiettivo di fondo la guerra contro l’Iran.
Propongo, al riguardo, la lettura dell’articolo di Manlio Dinucci, apparso su il Manifesto del 22 gennaio 2019 con il titolo Israele, licenza di uccidere, perché mette in evidenza il ruolo di Israele e della Nato nelle strategie statunitensi nel Medio Oriente finalizzate alla pianificazione della prossima guerra con l’Iran, per ostacolare il temuto coordinamento tra Russia, Cina e le potenze emergenti (come l’Iran) in grado di mettere in discussione l’egemonia distruttrice degli Usa. La stessa strategia fu realizzata dagli USA per la distruzione della Libia, tramite i loro sicari: Francia, Inghilterra e Italia, con l’uccisione di Mu’ammar Gheddafi.
Così scrissi nel 2015:<< Gli USA nel 2011, tramite la Francia e l’Inghilterra (che avevano ed hanno interessi economici e di accaparramento di risorse energetiche), l’Italia (che oltre a perdere i suoi interessi economici ed energetici doveva e deve svolgere il ruolo di nazione-spazio di infrastruttura militare a disposizione dei comandi USA e USA-NATO) e i miliziani dell’IS, hanno dato la stura alla disintegrazione di una nazione e di un popolo come la Libia. Mu’ammar Gheddafi è stato eliminato per ragioni evidenti e precise: per aver portato la Libia ad essere una nazione superando le divisioni tribali; per averla fatta diventare la nazione sovrana più importante dell’Africa; per aver costruito una strategia di sviluppo non dipendente soltanto dalle risorse energetiche; per le sue azioni politiche ed economiche intraprese in Medio Oriente; per il ruolo svolto nella costruzione dell’Unione Africana (gli stati uniti d’Africa) con obiettivi strategici di autodeterminazione e di costruzione di un polo geopolitico sovrano come il continente africano, con una sua moneta, un fondo monetario africano, una banca centrale africana; per il suo anticolonialismo >>*.
Gli Usa sono una potenza mondiale devastante, distruttrice di popoli e di territori; sono l’emblema di una crisi profonda dell’Occidente che non riesce ad esprimere più un senso della vita, un’idea di rapporto sociale e di sviluppo; altro che contraddizioni: c’è il vuoto! Certo, la vita continua, nonostante tutto, ma si regge su un equilibrio dinamico sociale “sopra la follia” (parafrasando Vasco Rossi).
La mancanza di una idea di sviluppo, di un nuovo rapporto sociale trova la sua ragion d’essere nella fine di un’idea della modernità. Siamo in presenza di uno sviluppo squilibrato sotto tutti gli aspetti (umano, politico, economico, sociale, culturale, scientifico, tecnologico) che ha ridotto la modernità a un nonsense, cioè a quella incapacità di vedere le storture presenti e ad immaginare che, a partire da esse, sia possibile rilanciare una nuova modernità basata su paradigmi diversi proprio a iniziare dalla prima esperienza storica della modernità.
I nostri decisori attuali e passati sono servi volontari e, come tali, non hanno nessun interesse a pensare strategie di cambiamento per ribellarsi al padrone USA (siamo molto al di sotto della dialettica hegeliana del servo-padrone!), con l’unico risultato evidente di portare il Paese (e intendo la maggioranza della popolazione che non decide nulla!) al degrado economico, politico, sociale e culturale.
* Luigi Longo, Che ci fa l’Islamic state (IS) in Libia? Perché non lo chiediamo agli Usa, in www.conflittiestrategie.it, 2/3/2015.
ISRAELE, LICENZA DI UCCIDERE
L’arte della guerra. Dopo che Israele ha ufficializzato l’attacco contro obiettivi militari iraniani in Siria, sui media italiani nessuno ha messo in dubbio il «diritto» di Tel Aviv di attaccare uno Stato sovrano per imporre quale governo debba avere
«Con una mossa davvero insolita, Israele ha ufficializzato l’attacco contro obiettivi militari iraniani in Siria e intimato alle autorità siriane di non vendicarsi contro Israele»: così i media italiani riportano l’attacco effettuato ieri da Israele in Siria con missili da crociera e bombe guidate. «È un messaggio ai russi, che insieme all’Iran permettono la sopravvivenza al potere di Assad», commenta il Corriere della Sera.
Nessuno mette in dubbio il «diritto» di Israele di attaccare uno Stato sovrano per imporre quale governo debba avere, dopo che per otto anni gli Usa, la Nato e le monarchie del Golfo hanno cercato insieme ad Israele di demolirlo, come avevano fatto nel 2011 con lo Stato libico.
Nessuno si scandalizza che gli attacchi aerei israeliani, sabato e lunedì, abbiano provocato decine di morti, tra cui almeno quattro bambini, e gravi danni all’aeroporto internazionale di Damasco, mentre si dà risalto alla notizia che per prudenza è rimasta chiusa per un giorno, con grande dispiacere degli escursionisti, la stazione sciistica israeliana sul Monte Hermon (interamente occupato da Israele insieme alle alture del Golan).
Nessuno si preoccupa del fatto che l’intensificarsi degli attacchi israeliani in Siria, con il pretesto che essa serve come base di lancio di missili iraniani, rientra nella preparazione di una guerra su larga scala contro l’Iran, pianificata col Pentagono, i cui effetti sarebbero catastrofici.
La decisione degli Stati uniti di uscire dall’accordo sul nucleare iraniano – accordo definito da Israele «la resa dell’Occidente all’asse del male guidato dall’Iran» – ha provocato una situazione di estrema pericolosità non solo per il Medio Oriente. Israele, l’unica potenza nucleare in Medioriente – non aderente al Trattato di non-proliferazione, sottoscritto invece dall’Iran – tiene puntate contro l’Iran 200 armi nucleari (come ha specificato l’ex segretario di stato Usa Colin Powell nel marzo 2015).
Tra i diversi vettori di armi nucleari, Israele possiede una prima squadra di caccia F-35A, dichiarata operativa nel dicembre 2017. Israele non solo è stato il primo paese ad acquistare il nuovo caccia di quinta generazione della statunitense Lockheed Martin, ma con le proprie industrie militari svolge un ruolo importante nello sviluppo del caccia: le Israel Aerospace Industries hanno iniziato lo scorso dicembre la produzione di componenti delle ali che rendono gli F-35 invisibili ai radar.
Grazie a tale tecnologia, che sarà applicata anche agli F-35 italiani, Israele potenzia le capacità di attacco delle sue forze nucleari, integrate nel sistema elettronico Nato nel quadro del «Programma di cooperazione individuale con Israele».
Di tutto questo non vi è però notizia sui nostri media, come non vi è notizia che, oltre alle vittime provocate dall’attacco israeliano in Siria, vi sono quelle ancora più numerose provocate tra i palestinesi dall’embargo israeliano nella Striscia di Gaza. Qui – a causa del blocco, decretato dal governo israeliano, dei fondi internazionali destinati alle strutture sanitarie della Striscia – sei ospedali su tredici, tra cui i due ospedali pediatrici Nasser e Rantissi, hanno dovuto chiudere il 20 gennaio per mancanza del carburante necessario a produrre energia elettrica (nella Striscia l’erogazione tramite rete è estremamente saltuaria).
Non si sa quante vittime provocherà la deliberata chiusura degli ospedali di Gaza. Di questo non ci sarà comunque notizia sui nostri media, che hanno invece dato rilievo a quanto dichiarato dal vice-premier Matteo Salvini nella recente visita in Israele: «Tutto il mio impegno per sostenere il diritto alla sicurezza di Israele, baluardo di democrazia in Medio Oriente».
Antonio Maria Rinaldi La Sovranità appartiene al popolo o allo spread?
www.aliberticompagniaeditoriale.it, Reggio Emilia, pp. 143, € 9,90
Questo libro è scritto da Rinaldi in collaborazione con gli altri autori di “Scenari Economici”. Una cospicua parte del libro consiste in contributi (2015-2018) di Paolo Savona sull’euro e sulla nomina dello stesso a ministro del governo Conte. Rinaldi ricorda che “Le scuole economiche italiane, oggi, sono quasi tutte egemonizzate dai bocconiani. Mediocri e ridicoli apprendisti stregoni nel neoliberismo e del rigore. Non dimentichiamoci che questi signori ci hanno regalato Monti e il montismo”; di converso “Questo è un libro al disperato inseguimento della realtà. Disperato, perché in questo Paese sostenere temi economici e politici controcorrente rispetto al main-stream porta a essere bollati con i più svariati epiteti, nessuno dei quali lusinghiero”; malgrado ciò l’obiettivo principale degli autori “è sempre stato quello di vedere veramente attuata la Costituzione in particolare la costituzione economica … Purtroppo l’adesione “distratta” ai Trattati europei da parte di una classe politica che non ha mai compreso in pieno gli effetti di cosa stava facendo in Europa, non ha consentito che quella parte così importante e fondamentale della Carta venisse rispettata”. Poi tutto è cambiato: il pensiero conformista, prono alle élite xenodipendenti (Monti e successori) è stato ridimensionato radicalmente dalle elezioni del 4 marzo. E tesi come quella sostenuta dagli autori sono state sdoganate per decisione popolare.
Sarebbe lungo seguire gli autori nei loro brillanti articoli sui vari aspetti della questione: rinviamo il lettore al libro.
Ma su un paio di temi, generali, occorre intrattenersi.
Il primo è la sovranità: che appartenga al popolo è scritto nella Costituzione, tanto sbandierata quanto interpretata ad usum delphini dall’élite e dai giuristi di regime. E quindi la domanda – titolo del saggio è retorica e provocatoria. Aggiungiamo noi che un patriota (a cominciare dagli uomini del Risorgimento) l’avrebbe giudicata un raggiro dello straniero e di italiani abituati a servirlo. Ma c’è di più: dalla cultura dell’ancien regime non è stata messa da parte solo la sovranità del popolo italiano, ma lo stesso concetto di sovranità.
Quanto al primo aspetto non potendosi negare il principio dell’art. 1 (la sovranità appartiene al popolo) se ne sono implementati (dalle élite) limiti, deroghe ed eccezioni, a cominciare dall’art. 1 stesso con l’esaltare “forme e limiti” costituzionali entro i quali il popolo esercita la sovranità, proseguendo con l’obbligo di conformarsi “alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute” (art. 10), alle limitazioni di sovranità necessarie ad una giusta pace tra le nazioni (di solito si omette di ricordare “in parità con gli altri Stati” – art. 11) e così via. Nel pensiero moderno invece, la sovranità ha il carattere di essere assoluta, cioè di non conoscere limiti, al contrario di tutti gli altri poteri pubblici (tra i tanti V. E. Orlando e Romagnosi); di consistere in un volere sopra lo Stato e il diritto (Sieyès e Von Seydel), onde Stato e diritto (comprese forme, limiti ecc. ecc.) sono tali finchè il Sovrano non esercita il potere morfopoietico abolendo, riformando, abrogando, ecc.; il diritto internazionale si regge sul principio di parità giuridica tra gli Stati par in parem non habet jurisdictionem (v. A. Gentile e Vattel tra i tanti) e così via. Tutte concezioni alla base dello jus publicum europaeum, e gelosamente occultate e ridimensionate dalle élite e dai loro giuristi.
Quanto al secondo aspetto eliminare la sovranità è come pensare di abolire la legge di gravità, o comunque una qualsivoglia legge (o fatto) di natura.
Perché significa cancellare dal mondo il presupposto del comando-obbedienza, fondamento di ogni comunità politica. Ideologie moderne (dal marxismo collassato al pluralismo all’economicismo radicale) lo credono. Ma non risulta al mondo chi vi siano comunità senza comando e senza che alcuni (o pochi) esercitino il potere su tanti. Quando non è all’interno, la sovranità, il cui nocciolo duro consiste nell’unione di un potere di fatto e di un potere di diritto, c’è dall’esterno. Il sovrano c’è (sempre), ma non è il popolo, ma qualcun altro che popolo non è (Stati, multinazionali, poteri forti, chiese): e perfino lo Spread di cui al titolo. E che teme la sovranità del popolo perché è alternativa alla propria. Come scrive Rinaldi il gruppo degli autori “ha solo sostenuto che è la Terra che gira intorno al Sole e non viceversa. Come Galileo Galilei”; hanno demolito gli idola (le derivazioni paretiane) al servizio di precisi interessi.
E se un libro come questo porterà ad un crescere della consapevolezza del dovere dei governanti di fare gli interessi della comunità politica; che la politica serve a questo e che, come scriveva Friederich List l’economia politica è quella che li persegue mentre quella di A. Smith e Say era economia cosmopolitica, il popolo italiano avrà tanto da guadagnare.
Teodoro Klitsche de la Grange
Domande assolutamente ben poste da Elio Paoloni. Sia per il merito delle motivazioni e degli argomenti che le legittimano, sia per il momento scelto. Conoscendo Elio e la sua posata inquietudine, deve averci rimuginato parecchio. Il suo appello ad intervenire sull’argomento è probabilmente il segno di una crescente apprensione riguardo alla situazione e alle dinamiche che stanno avviluppando il mondo, quello a noi apparentemente lontano e quello prossimo, all’interno stesso della nostra casa. I vecchi equilibri stanno rapidamente saltando come pure le prassi e le chiavi di interpretazione che ci hanno guidato e ingabbiato sino ad ora; con essi stanno cambiando stati d’animo e modalità di reazione non solo delle classi dirigenti ma anche di strati sempre più larghi di popolazione. A partire dal secondo dopoguerra le classi dirigenti italiche, più di ogni altra, hanno accuratamente rimosso questi temi. Una pesante cappa di conformismo ha oppresso sino a poco tempo fa quasi inavvertitamente il mondo intellettuale. Eppure il paese in passato ha conosciuto tra i propri figli il capostipite moderno, Machiavelli e ha conosciuto giganti, come Pareto e Gramsci, del realismo politico e della teoria politica. La catastrofe politica della seconda guerra mondiale e la successiva progressiva erosione del concetto stesso di difesa dell’interesse nazionale hanno prodotto una classe dirigente, a partire soprattutto dagli anni ’90, sempre più priva di radicamento identitario, abile a cogliere e vellicare soprattutto le debolezze di un popolo, del tutto incapace di assumere un qualsiasi ruolo attivo nell’agone europeo e mondiale. La condizione perfetta per trascinare nell’inconsapevolezza e nell’impreparazione generale ancora una volta una nazione tra i flutti di un mare geopolitico sempre più intricato. Qualche reazione inizia ad emergere. La fretta frenetica legata all’urgenza e all’accavallarsi degli eventi rischia di spingere a soluzioni forse peggiori, avventuriste e cialtrone, analoghe a quelle che ci hanno trascinato allegramente nella seconda guerra mondiale. Non sono mancate nel frattempo menti fertili e motivate, anche nell’oggi stesso; i più però conoscono l’ostracismo silenzioso, l’omertà e le blindature degli ambienti istituzionali. Italia e il mondo accoglie volentieri l’invito alla discussione di Elio Paoloni. E’ nata con queste finalità. Spera che sia colto negli ambienti cui il sito si rivolge ed anche oltre. Non pretende esclusive nella pubblicazione dei contributi; chiede semplicemente che ci siano trasmessi per fare di questo spazio un terreno concreto di confronto_Buona lettura_Giuseppe Germinario
10 domande sulla guerra
Diciamo subito che non si tratta qui di introdurre tesi pacifiste: si dà per scontato che chiunque non tragga direttamente vantaggi dalla guerra (non appartenga cioè a quella minoranza che non viene mai direttamente toccata da lutti e rovine) e non sia né fanaticamente indottrinato né patologicamente violento, desidera la pace; parimenti scontato è che questo non ha mai impedito le guerre. Rovesciando la nota formula di von Clausewitz, del resto, sia Carl Schmitt che Michel Foucault ebbero ad affermare che è la politica (la pace) ad essere continuazione della guerra con altri mezzi. Oppure vanno di pari passo, come notava argutamente Thomas Friedman: “La mano invisibile del mercato non funzionerà mai senza un pugno visibile. McDonald’s non può diffondersi senza McDonnel Douglas, il fabbricante di F- 15”.
Partiamo dunque da una incontrastabile verità: la guerra è ineliminabile, con buona pace dei pacifisti d’ogni tempo (non proprio di tutti i tempi dato che per secoli la categoria dei pacifisti non è esistita) i quali fanno bene a cercare di evitare questa o quell’altra guerra – folle chi non lo tenta – ma errano cercando di evitarla ‘ad ogni costo’, a prescindere. Chi davvero vuole la pace neppure la nomina. Prepara la guerra o fa finta di prepararla. “Tutte queste teorie sulla pace universale, le conferenze per la pace, ecc. – notava G. I. Gurdjieff – non sono che pigrizia e ipocrisia. Se si costituisse effettivamente un gruppo sufficiente di uomini desiderosi di arrestare le guerre, essi comincerebbero a fare la guerra a coloro che non sono della loro opinione. Ed è ancora più certo che farebbero la guerra a uomini che vogliono anch’essi impedire le guerre, ma in un altro modo”.
Un terribile amore per la guerra, di James Hillman, si apre con una scena del film sul generale Patton, che passeggia per il campo di battaglia a combattimento finito: terra sventrata, carri armati bruciati, cadaveri. Volgendo lo sguardo a quello scempio, il generale esclama: «Come amo tutto questo. Che Dio mi aiuti, lo amo più della mia vita». Per Hillman la guerra è una pulsione primaria della nostra specie, dotata di una carica libidica non inferiore a quella delle pulsioni che la contrastano e insieme la rafforzano: l’amore e la solidarietà. Hillman spazza via la retorica degli adagi progressisti – basati su una lettura caricaturale della «pace perpetua» teorizzata da Kant – risalendo al carattere mitologico di tale ambivalenza: l’inseparabilità di Ares e Afrodite. Ma soprattutto, ricorrendo a dettagliati rapporti dal fronte, a lettere di combattenti, ad analisi di esperti in strategia – oltre che a tutti gli scrittori e tutti i filosofi che alla guerra hanno tributato meditazioni decisive, da Twain a Tolstoj, da Foucault a Hannah Arendt – Hillman ci rammenta la scandalosa verità: più che un’incarnazione del Male, la guerra è in ogni epoca – come mostrato dalla contiguità tra le descrizioni omeriche e i reportage dal Vietnam – una costante della dimensione umana. O meglio, troppo umana.
Non è il caso di insistere sugli aspetti antropologici, psicologici, sociologici della guerra, benché non si possa fare a meno di considerarli, sia pure di riflesso. Le pulsioni, gli istinti, i condizionamenti che inducono l’uomo alla violenza sono stati abbondantemente sviscerati, compresa quella, apparentemente nobile, della scoperta di sé: La guerra – scriveva Norman Mailer – è la prova di tutte le prove. È in guerra – sostiene – che un uomo va fino in fondo a se stesso e sa veramente chi è. L’idea che la guerra sia una cartina di tornasole per un uomo è antichissima ma la guerra è profondamente cambiata e, vivendo una fase di guerra per bande su scala planetaria, si partecipa in effetti a molti conflitti e forse – più o meno consapevolmente – lo stiamo già facendo, senza sottoporci, per ora, ad alcuna prova. Tuttavia l’alpinismo, o l’apnea profonda, potrebbero costituire un test meno pernicioso.
Per Erich Fromm la guerra reca vantaggi anche alla salute morale di una nazione: risveglia i valori di altruismo e di solidarietà… porta in luce i sentimenti essenziali… con la presenza della morte, dà un enorme valore alla vita… sarebbe molto utile nella nostra società in cui impera la crisi di identità e nella quale – a causa dell’impossibilità della guerra dovuta alla deterrenza nucleare – assistiamo all’aumento di criminalità, suicidi, problemi della droga e nevrosi. Salutare, insomma, come certe malattie, dopo le quali riscopriamo la bellezza della vita e l’importanza dei valori. I morti tuttavia non riscoprono un bel nulla.
Questa ricognizione tralascia in ogni caso l’atteggiamento del singolo violento o indottrinato, che non si rende conto quasi mai delle conseguenze delle sue azioni. E’ stata anche indagata, a dire il vero, la somiglianza tra i comportamenti del singolo e quelli di un organismo complesso. Ma si tratta del comportamento delle masse – che amplifica proprio le pulsioni più distruttive – quello descritto da Joseph de Maistre ne Le serate di San Pietroburgo: “L’uomo, colto all’improvviso da un furore divino, estraneo all’odio e alla collera, avanza sul campo di battaglia senza sapere quel che vuole e nemmeno quel che fa. Che cos’è dunque questo terribile enigma? Niente è più contrario alla sua natura e nulla gli ripugna di meno: compie con entusiasmo atti che lo fanno inorridire. Non avete notato che sul campo di morte l’uomo non disubbidisce mai? Potrà massacrare Nerva o Enrico IV; ma il più vergognoso tiranno, il più insolente macellaio di carne umana non sentirà mai pronunciare sul campo di battaglia la frase: Non vogliamo più servirvi. L’angelo sterminatore gira come il sole attorno a questo infelice globo e non lascia respirare una nazione se non per colpirne altre”. In effetti la jacquerie fu una rivolta contro il fisco, non contro la leva.
Nel suo carteggio con Freud sulla necessità di evitare la guerra, Einstein citava i mezzi con i quali una minoranza può asservire alla propria cupidigia le masse (scuola e stampa innanzi tutto) ma era incredibilmente perspicace – e controcorrente – anche nell’individuare il bersaglio più facile: non le masse incolte bensì la cosiddetta “intellighenzia” che cede per prima a queste rovinose suggestioni collettive, poiché l’intellettuale non ha contatto diretto con la rozza realtà, ma la vive attraverso la sua forma riassuntiva più facile, quella della pagina stampata. Stigmatizza proprio quello che oggi viene da più parti definito ‘ceto medio semicolto’. Più pessimista – o realista – Freud non credeva alla possibilità di evitare le guerre. Non lo riteneva, in fondo, neppure auspicabile: Le conquiste dei Romani diedero ai paesi mediterranei la preziosa pax romana. La cupidigia dei re francesi di ingrandire i loro possedimenti creò una Francia pacificamente unita, fiorente. Ma sa anche che i successi della conquista di regola non sono durevoli; le unità appena create si disintegrano. Un altro che credeva a una qualche utilità delle guerre, o almeno alla loro inevitabilità.
Per Julien Freund l’uomo può cambiare vita ma non cambiare la vita. Conducendo vita pia sul piano privato può sottrarsi al male (o al demoniaco) ma non può sconfiggere, sul piano pubblico, la vita stessa, ovvero l’impulso vitale volto all’accrescimento del potere: “Questo impulso di vita, nulla può esorcizzarlo, né una contabilità di tutti i morti di tutte le guerre, né i dipinti dell’orrore delle rivoluzioni”.
Ecco, questo termine così neutro, contabilità, è il denominatore degli interrogativi che seguono. Domande che riguardano pragmaticamente proprio l’utilità, ovvero gli aspetti economici e il rapporto costo/benefici, anche applicato, brutalmente, alle perdite umane. In particolare la soglia di perdite e distruzioni che i decisori ultimi si prefiggono nel momento di intraprenderla. E soprattutto il reale vantaggio che ne trae il paese vincitore ovvero la valutazione più difficile da farsi. La famosa definizione della guerra come ‘levatrice della storia’ presuppone un andamento lineare della storia, pur con temporanei arretramenti e deviazioni, in un progresso costante. Il nostro mondo è migliore di tutti quelli precedenti, sostengono tutti, tranne, a volte, gli sconfitti. Non vi è mai controprova, naturalmente. Ma anche ammesso che questo mondo sia migliore, chi ci dice che non avrebbe potuto essere ancora migliore senza la guerra che lo ha creato?
Nella storia non esiste possibilità di comparazione, purtroppo: l’ucronia è roba da romanzieri, non da storici.
Per gli storici – scriveva Elias Canetti – le guerre sono come sante: esse, simili a temporali utili o inevitabili, irrompono dalla sfera del sovrannaturale nell’ovvio e comprensibile corso del mondo. Io odio il rispetto degli storici dinanzi a una cosa solo per il fatto che è avvenuta, i loro criteri falsi, a posteriori, la loro impotenza che striscia dinanzi a ogni forma di potere.
Diversi storici – per amor del vero – hanno provato a riflettere sul “se invece”. Se un banale episodio può cambiare il corso di una vita, come in Sliding doors, figuriamoci una guerra. Non sarà scientifico supporre cosa sarebbe successo se avesse vinto Hitler (un classico) ma chiederselo è un’esigenza umanissima e potente. E’ ovvio che le narrazioni riguardanti il capovolgimento del corso delle guerre risultino più avvincenti. Ma sarebbe ben più utile immaginare cosa sarebbe successo se le guerre, molto semplicemente, non fossero state combattute. E’ possibile? E quanto è possibile avvicinarsi a quella che sarebbe stata la realtà senza quella guerra? Non è semplice curiosità, fatuo arzigogolare: riguarda in fondo proprio la possibilità di una valutazione razionale della lotta. Chi stila una dichiarazione di guerra deve pur avere in mente degli scenari.
La definizione futurista (sola igiene del mondo) mi è sempre sembrata stupida: se darwinianamente in guerra muore il più debole, si tratta della frangia debole del settore in ogni caso più forte: giovane, sano, dotato di abilità. Troviamo infatti del tutto naturale che a crepare sia il meglio della popolazione, gli unici che potrebbero davvero essere utili anche nella ricostruzione. E’ stata un’amica a farmelo notare, con buon senso tipicamente femminile. Perché piangere sulla morte dei vecchi e degli invalidi? E quei fior di giovani? Sono veloci, resistenti, manipolabili: ovvio che siano loro a dover essere spediti in battaglia. Ma a qualcuno è venuto mai in mente di mandare avanti un reggimento di vecchiardi? La Vecchia Guardia di Napoleone non fa testo, era una riserva, un corpo pretoriano.
Anch’io però, devo confessarlo, sono vittima dell’ipocrisia che porta a compiangere le vittime civili, categoria che ormai comprende solo vecchi e bambini, dato che le soldatesse (ammesso che desinenze del genere siano ancora consentite) hanno ottenuto – a partire dagli Stati Uniti – la facoltà di recarsi in prima linea, cancellando l’irragionevole discriminazione che permetteva loro di accoppare solo per interposto guerriero. Dal secondo conflitto mondiale, in effetti, assistiamo alla guerra totale, nella quale la popolazione viene coinvolta direttamente nella guerra (terroristicamente, con bombardamenti privi di qualsiasi interesse bellico) mentre in precedenza veniva coinvolta sì pesantemente ma solo dopo – o durante – la conquista di territori.
In ogni caso la Grande Guerra dette un’energica sfoltita anche agli esponenti del movimento futurista e Boccioni, prima di morire, fece in tempo a coniare l’equazione guerra=insetti+noia. Io mi sarei tenuto un gigante come Boccioni e avrei lasciato al nemico parecchie ettari di pietraia insieme ai tirolesi, che dobbiamo pure ricoprire d’oro. Così, a proposito di costi/benefici.
Vero è che la pulizia bellica serve a regolare l’equilibrio tra popolazione e risorse, anche se le nuove tecniche di coltivazione e allevamento smentiscono Malthus e i suoi nipotini. D’altro canto ogni paese spera che la diminuzione della ‘domanda’ avvenga a scapito dell’avversario. Nessuno troverebbe opportuno ridurre la propria di popolazione. Almeno in passato: oggi ormai la maggior parte dei conflitti è scatenata da una categoria di persone prive di reali radicamenti su un territorio, cosmopoliti di fatto, stranieri anche a se stessi, incapaci di patriottismo o di empatia con qualsivoglia popolo.
Di sicuro quella frase va riferita allo spazzar via istituzioni fatiscenti per far nascere un uomo nuovo, una società completamente diversa, anche tecnologicamente più progredita. “La guerra ha sempre promosso la mobilità sociale – notava Erich Fromm – infatti le classi dinamiche sono sempre a favore della guerra”. E siamo alle solite: occorrerebbe valutare, caso per caso, se le istituzioni ‘nuove’ nate da questa palingenesi siano state davvero auspicabili. Vi è una forte corrente di pensiero che ritiene aprioristicamente di sì. Io mi permetto di dubitarne ma gradirei il conforto del parere di persone non necessariamente reazionarie. Ambrose Bierce scrisse che Dio usa le guerre per insegnare la geografia alla gente. Qualcuno, di certo, le usa per divertirsi a disegnare cartine geografiche nuove. Onnipotenza 2.0.
Non prenderei in considerazione le rivoluzioni: scatenate da una classe sociale, o da un’etnia, hanno obiettivi sufficientemente chiari, per quanto finiscano vittime anch’esse, forse ancor di più, dell’eterogenesi dei fini. I rischi sono valutati con sufficiente accuratezza: cosa si ha da perdere (spesso, come da celeberrimo aforisma, solo le proprie catene), cosa si può ottenere. Le rivoluzioni, come i colpi di stato, riescono o falliscono, non sono soggette ad escalation. L’assalto al Palazzo d’Inverno costò cinque morti, anche se occorrerebbe considerare il lungo strascico contro le armate bianche. La lunghezza della lotta di Mao non fa testo perché spezzettata da guerre e coinvolgimenti diretti di potenze straniere.
La domanda fondamentale, a ben vedere, è questa: alea a parte, quanto conta la valutazione realistica e quanto, invece, gli organismi decisionali di un paese (ma anche di una grossa fazione, o di una minoranza, o di una banda criminale) ovvero le élites meno influenzabili, anzi deputate a influenzare, coloro insomma che conoscono bene le conseguenze, coloro che agiscono freddamente, episodicamente o per mestiere, e sanno valutare le probabilità di uscirne indenni, con vantaggio, possono a loro volta essere influenzati da pulsioni inconsce, da riflessi pavloviani, dall’orgoglio, da ogni genere di retaggio?
Carl Schmitt sosteneva che non esistono guerre condotte per motivi puramente religiosi, o puramente morali, o puramente giuridici, o puramente economici. Può sembrare che alcune siano state scatenate unicamente per l’uno o l’altro motivo, ma solo se vi era la possibilità di inserire tali motivazioni in una riconoscibile dicotomia amico/nemico. Distinzione che il giurista tedesco pone alla base di ogni agire politico, come si trattasse di un dato sociologico, ma che ci riporta, in fondo, alla psicologia del profondo.
Esistono dunque decisioni puramente razionali? Normalmente no: nessun individuo è un essere puramente razionale. Esattamente come le folle. Ma gli organismi che di solito decidono le guerre dovrebbero essere in grado di formulare quanto di più vicino a una decisione razionale. Raramente si tratta della decisione di un singolo: anche un dittatore o un monarca assoluto hanno consiglieri, ministri, gran vizir; interpellano generali che hanno conoscenze specifiche; spesso devono tener conto delle valutazioni di sostenitori, finanzieri, boiardi. E’ vero che ognuna di queste figure ha interessi personali – e non solo – da tutelare e che ognuno di loro è condizionato da fattori non razionali, tuttavia l’insieme di queste valutazioni, contemperandosi, dovrebbe condurre – viene da pensare – a una decisione informata, avveduta, logica; di sicuro al male minore.
Succede davvero questo?
Qualcuno ha fatto notare che la politica statunitense verso la Russia è stata dettata per decenni dalla russofobia di un ex polacco, Zbigniew Brzezinski e dalla volontà di rivalsa di Madeleine Albright, una cecoslovacca. Sciocchezze? Le decisioni sono in realtà prese da ampi organismi supportati da stuoli di esperti, consulenti, teste d’uovo? Sarà. Ma una cosa che ho imparato – da profano – è che la pervicacia e la furbizia di un singolo ben introdotto nei gangli di comando può determinare qualsiasi evento. La più grave eredità di un marxismo forse malinteso è quella di averci costretto a pensare solo in termini di masse, di forze, di condizioni oggettive: i protagonisti sono solo portati in carrozza da queste forze e ognuno di loro avrebbe potuto essere sostituito. E’ l’opportuno contrappeso a una storiografia affollata unicamente da biografie di re e condottieri, tuttavia, portata alle estreme conseguenze, ha effetti grotteschi. L’Italia del dopoguerra, ad esempio, era affollata da traditori, voltagabbana, vigliacchi e, soprattutto, avidi arrivisti; qualsiasi funzionario messo a capo di un ente pubblico si sarebbe adagiato nel tran tran. Non Enrico Mattei, patriota e grande statista (anche se non si occupò ufficialmente di politica e di governi). In compagnia di un gruppo di gitanti Lenin si impossessò in un batter d’occhio di un paese immenso. E Stalin ne ha fatto una potenza industriale e militare in pochi decenni. Condizioni oggettive? Nel bene e nel male l’abilità di un uomo e soprattutto le sue reali intenzioni, la sua devozione agli interessi della patria, fanno davvero la storia. E viceversa: un vigliacco, un folle, un venduto, possono distruggere una nazione in men che non si dica.
Tutti noi abbiamo ben impresse nella memoria immagini spaventose e. soprattutto, numeri spaventosi. Ma poniamo per un istante che a un soggetto avveduto, potente e scaltro, riesca una guerra lampo. Cominciamo col dire che occorrerebbe diffidare delle riuscitissime guerre lampo, spesso seguite da lutti decennali, come ebbero ad imparare Adolf Hitler, Saddam Hussein e poi Bush insieme ai suoi successori. Ma restiamo nel solco delle ipotesi più rosee: chi ci dice che la vittoria sarà un successo? Sembra un gioco di parole ma riguarda l’aspetto cui si accennava sopra: se ogni guerra è levatrice occorre attendersi qualche novità. Chi può assicurarci che saranno ancora importanti le risorse a cui il paese tendeva, magari rimpiazzate da altre conquiste della tecnologia? Non dimentichiamo che mentre ancora si combatteva sanguinosamente per la conquista delle piantagioni di caucciù si iniziavano a produrre i primi pneumatici in gomma sintetica. Come essere certi che i guadagni che una lobby si attendeva non saranno vanificati da variazioni finanziarie, monetarie, legislative? O che le mire della classe sociale che ha appoggiato quella guerra andranno in fumo perché una nuova classe si affermerà in seguito a quella guerra? Ripensiamo a un episodio: per ottenere un po’ di consenso i generali argentini si impossessarono di quattro isolette davanti casa e nel giro di pochi mesi perdettero ogni potere. Certi andazzi fanno venire in mente i versi di una canzone di Enzo Jannacci, “Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale/per vedere come stanno le bestie feroci/e gridare aiuto, aiuto è scappato il leone/e vedere di nascosto l’effetto che fa”. Qualcuno è andato allo zoo per segare davvero le sbarre e ha poi scoperto che quando i leoni scappano non ti puoi nascondere: ti buttano giù le torri, ti accoppano l’ambasciatore, ti sgozzano i giornalisti.
L’eterogenesi dei fini è un fenomeno ricorrente nella storia – come pure in ogni singolo atto quotidiano – ma alla fine di una guerra non è solo ricorrente: è matematico. Questo dovrebbe inibire le smanie di ogni potente, ancor più del rischio di una vittoria di Pirro, con danni e decimazioni tali da impedire qualsiasi trionfo. Ma non succede.
Troppi i fattori da considerare: chi decide cosa è irrinunciabile? Esistono prassi consolidate, naturalmente: ci sono apparati che sanno perfettamente cosa una determinata nazione deve considerare vitale. Non si tratta mai però di un solo fattore, e già decidere la gerarchia di essi è complicato: competenza e capacità di previsione non sono sufficienti. E se ci sono buone probabilità che la guerra asfalti il paese, che senso ha opporsi? Tanto vale salvare delle vite. Non tutti pensano che salvare la pelle sia la cosa più importante, ma a certi livelli non si può davvero immaginare di poter fare la conta per verificare quanti cittadini la pensano così, per cui si torna sempre allo stesso punto: quali saranno le priorità in tempi bellici dei governanti, solitamente eletti in tempi di pace per occuparsi dei bilanci economici e non dei bollettini delle perdite umane?
Poniamo allora le domande che tutti si sono posti almeno una volta, sforzandoci di evitare che risultino retoriche. E rammentando che difficilmente sarà un generale a illuminarci: in fondo non sono i militari a prendere la decisione fondamentale (come da ammonimento di Clemenceau: La guerra è una cosa troppo seria per lasciarla in mano ai militari). Neppure un economista avrà le risposte. Perché non può esserci un valore comune, oggettivo, di ‘mondo migliore’. Perché non c’è alcuna possibilità di calcolare l’equivalenza tra il costo di una vita umana e quello di un barile di petrolio, tra la frustrazione di un popolo e due palmi di territorio, tra la vita apparente dei reduci e le rosee prospettive commerciali. Oppure sì?
Difficile trovare risposta a domande che mescolano valori quantitativi a valori qualitativi. Sarebbero necessari gli sguardi di un sociologo, di un teologo, di un moralista, di un ingegnere, di uno storico e di uno storico dell’arte. Certe risposte sono appannaggio forse solo dei filosofi, o di grandi menti non specializzate. Magari dei poeti. Ma un ampio ventaglio di intervistati potrebbe darci di sicuro qualche lume.
1 – Quante volte, davvero, i costi economici di una guerra (vinta, s’intende) sono stati sopravanzati dai benefici? Joseph E. Stiglitz ha scritto sull’Iraq che una volta pagato il prezzo di questa guerra, il debito nazionale americano sarà aumentato di tremila miliardi di dollari. Quanto se ne può guadagnare con quel po’ di petrolio in più a buon prezzo a disposizione? Quanto ci guadagneranno le industrie belliche? Ma, soprattutto, quanti di quei soldi saranno pagati dalle industrie beneficiarie – sotto forma di tasse e di occupazione – e quanti invece dal contribuente medio? Si possono contabilizzare i vantaggi derivanti dall’impoverimento degli altri paesi, che avranno meno accesso – o accesso più caro – alle risorse petrolifere? E, soprattutto, queste stime chi è in grado di farle? Già, sono tante domande, però collegate.
2 – Il polpo sacrifica i tentacoli per salvarsi, come la lucertola la coda. Accessori che ricrescono. Quanti milioni di euro costituiscono la coda di una nazione? Quanti milioni di cittadini ne costituiscono un tentacolo? Quanti tentacoli può perdere un polpo senza morire? C’è un numero di morti accettabile per un paese? Anzi per un pianeta, visti gli attrezzi disponibili?
3 – Forse il solo indiscusso merito della guerra dei cent’anni è stato quello di fornire agli storici, con la sua cessazione, un comodo spartiacque per indicare la fine del medioevo. Lo sfacelo economico e le sofferenze per la popolazione (in particolare per i sudditi continentali, i cui sovrani potrebbero essere considerati gli ‘aggressori’) sono indescrivibili: 116 anni di saccheggio sistematico, deliberato, ininterrotto; fame, malattia, stupri, degradazione, morte. Il Pangloss di turno opporrà che, nonostante la bancarotta di tutto un continente, alla fine il sistema feudale era stato sorpassato, la Pulzella aveva ricompattato i patrioti francesi (e purtroppo diviso i cattolici, dato che anche i nemici, all’epoca, erano cattolici) e il mondo entrava in una nuova era. Ma non si viveva meglio in un feudo pacifico e florido che sotto un sovrano avido, spietato, lontano? E, ammesso che così non fosse, i vari sovrani impegnati nella contesa hanno mai pensato, per un solo momento, a questi ipotetici – e in ogni caso puramente casuali – vantaggi per il popolo?
4 – Si pensa alle guerre come unico motore del progresso. Forse perché le ricerche militari impegnano velocemente grandi risorse nei miglioramenti tecnologici. Ma non basterebbero le gare di Formula 1? O l’industria aeronautica (la cui storia iniziò nel ‘700 per il puro diletto dei nobili) o astronautica (che nasce forse in un orizzonte militare ma è, appunto, orizzonte, non guerra guerreggiata, tant’è che americani e russi nello spazio ci vanno insieme)?
5 – Quanto migliore deve diventare un paese per giustificare la distruzione dei tesori d’arte, simboli della cultura e della religione del popolo che ha guerreggiato? Strade e ponti si ricostruiscono, certo, anche più moderni. Forse è per questo che dicono che è un mondo migliore. Magari più somigliante a quello del vincitore. Ma il Senso, l’Identità, la Dignità possono sopravvivere a certe demolizioni? Ammetto che questo aspetto è il meno quantificabile di tutti. Non è questione di numeri: c’è oro (o mucchio di diamanti, visto l’argomento) sufficiente a compensare la demolizione – operata dagli inglesi stessi durante la seconda guerra mondiale – del Crystal Palace di Londra, la prima struttura realizzata completamente in vetro, considerata uno dei più begli edifici mai costruiti, perché le sue rilucenti vetrate erano un pericoloso punto di riferimento per i bombardieri nazisti? O la distruzione del tempio di Gerusalemme, la violazione del Sancta Sanctorum, la sottrazione dell’Arca dell’Alleanza? Anche se, a pensarci bene, qualcuno potrebbe sostenere che la diaspora va vista come un fausto evento, avendo diffuso il genio ebraico nelle varie nazioni.
6 – Non è un caso che siano i giovani a dover combattere: tradizionalmente erano le ‘teste calde’, affascinate dall’avventura, desiderose di mettersi alla prova, di sfuggire alla monotonia borghese. Ma sono proprio i giovani, in Occidente, a infoltire le schiere dei movimenti pacifisti. Mollezza dell’Occidente o presa di coscienza?
7 – L’impero di Bisanzio, uno dei più lunghi e prosperosi di tutti i tempi, è stato anche quello che ha guerreggiato meno di tutti. Un mix di intimidazione, lusinghe, corruzione di funzionari stranieri, istigazione ai conflitti tra gli altri stati, li ha tenuti lontani da guerre vere per secoli. Possibile che solo i bizantini abbiano avuto questa capacità? Ci sono aspetti irripetibili, esclusivi di quell’Impero?
8 – Il modo più veloce di finire una guerra è perderla (George Orwell). Pare che così la pensassero gli ammiragli italiani durante la seconda guerra mondiale. Ma nella Grande Guerra, invece, si poteva fare una pace dopo i primi massacri di trincea, quando fu chiaro, come scrisse Mario Praz, che si trattava soltanto di un’agonia di animali in agguato? In quanti hanno capito che nessuno in realtà l’avrebbe ‘vinta’? E non parlo solo dello scarso – e controproducente – bottino italico. O i morti in realtà non contano (almeno finché non si prospetta una rivoluzione, come per la Russia nella prima Guerra Mondiale) e conta solo il ‘non perdere la faccia’?
9 – Ogni guerra è disputa di cani sopra un mucchio di croccantini. Inevitabile che ci si azzanni per la razione quotidiana (la razione K) ma alcuni cani vogliono anche un’altra razione. Giusto, è la scorta per domani. Poi c’è quella di dodopomani. Quando le pretese diventano eccessive? Quanto grano, o banane, o rame possono bastare a tenere in vita un paese? D’accordo, le risorse sono limitate per definizione; ciascuno vorrebbe averne l’accesso esclusivo. Ecco la guerra. Ma esiste una linea oltre la quale ci si sta accapigliando per il superfluo. E’ percepibile questa linea a chi aggredisce? Sa che è una guerra immorale? O a un certo punto la nozione stessa di superfluo viene meno?
10 – Finora ci siamo occupati di chi ha possibilità di decisione. Ci sono paesi che non hanno molta scelta: subiscono l’aggressione e basta. Forse anche loro avrebbero avuto qualche possibilità di evitarla accettando una razione di croccantini. Il punto è sempre lo stesso: la quantificazione. Quanti rospi si possono ingoiare? La sopravvivenza è accettabile a qualsiasi condizione? Tra le rigorose condizioni di legittimità morale che la Chiesa richiede per la legittima difesa si ritrova questa: “che ci siano fondate condizioni di successo”. Quando i Vietcong iniziarono la lotta pensavano davvero alla vittoria o bastava loro sapere che la reazione all’oppressione era giusta e onorevole, anche se fossero stati annichiliti? Il debole, dunque, deve subito capitolare? Oppure una sconfitta gloriosa (ma anche umiliante come quella di Sedan) potrebbe rinsaldare i sopravvissuti per secoli alimentando il revanscismo fino al riscatto?
Questo è il terzo libro che gli autori dedicano alle vicende economiche del recente passato; tratta delle privatizzazioni che hanno connotato le politiche economiche di molti paesi occidentali, con riguardo – quasi esclusivo – a quelle italiane. Il giudizio è negativo; parte della tragedia del ponte Morandi, che rivelò all’opinione pubblica come la vendita di Autostrade abbia generato enormi profitti per l’acquirente-concessionario, dovuti – anche – ai risparmi sulla manutenzione delle opere.
Analizzando buona parte delle privatizzazioni la costante principale che ne ricava è che sono state assai profittevoli per gli acquirenti, ma, di conseguenza, assai poco per il venditore (lo Stato italiano nelle sue varie articolazioni).
Le notizie che si scorrono nella lettura sono in larga misura già note: il pregio del libro è averle organizzate in un tutto organico che ne rende manifesta la logica generale come i rapporti tra i protagonisti pubblici (creditori) e privati (acquirenti). Curiosamente in Italia il maggior privatizzatore è stato il centro-sinistra (altrove sono stati i partiti di destra).
Il motivo esternato di tante (e imponenti) svendite era non tanto d’opportunità economica, ma ideologica: si voleva ridurre la presenza pubblica nell’economia perché si riteneva la mano invisibile del mercato migliore e più razionale produttrice di ricchezza.
Solo che a riprendere la teoria di un economista come Friederich List ciò che è valido per l’economia globale, può non esserlo per l’economia nazionale, ossia per le comunità umane organizzate in Stati; del pari ciò che è economicamente vantaggioso può non esserlo per l’interesse nazionale (il bonum commune) che è il fine della politica.
É il caso di ricordare che è legittimo e prevedibile che il privato operi per il proprio profitto, cioè l’interesse individuale (anzi e proprio questo il presupposto della “mano invisibile”); ma, del pari – è – o meglio dovrebbe essere – che il pubblico operi per quello pubblico. La conseguenza è che nella generalità delle situazioni c’è la necessità di bilanciare (e regolare) interesse pubblico e interessi privati, senza enfatizzare l’ “appartenenza” al settore d’attività. L’esempio di “scuola” è quello del monopolista: il quale di solito manovrando per il proprio interesse privato spesso danneggia quello pubblico, quello dei consumatori e, ovviamente la stessa dinamica concorrenziale. Non è detto quindi che, specie nell’assenza o nell’insufficienza di una regolazione appropriata e di procedure trasparenti, la mano invisibile non finisca per impinguare sempre gli stessi portafogli. Proprio quello che purtroppo è spesso capitato nelle privatizzazioni-maccheroni realizzate in Italia.
Queste sono state frequentemente caratterizzate da condizioni di grande favore per gli acquirenti. Gli autori, pagina dopo pagina mostrano che i corrispettivi di cessione erano modesti rispetto al valore delle aziende e dei beni ceduti; che spesso quanto comprato è stato rivenduto a terzi a prezzi enormemente superiori; che privatizzatori pubblici e acquirenti privati erano legati da interessi, frequentazioni, affari; frequentemente lo erano quanto meno i primi con i consulenti che avrebbero dovuto assisterli (a pagamento) nelle procedure. Inoltre “Era il 1992. Il cartello finanziario internazionale aveva messo gli occhi e le mani sul nostro Paese con la complicità e la sudditanza di una nuova classe politica imposta dal cartello stesso. Il suo compito era quello di cedere le banche e i gioielli di Stato italiani ai potentati finanziari internazionali anche attraverso il filtro di imprenditori nostrani”.
La stessa “tangentopoli” è quindi vista dagli autori in quest’ottica: occorreva delegittimare e detronizzare la vecchia classe dirigente della prima repubblica, meno incline a realizzare il piano. Manovra reiterata nel 2011, col governo Monti, dato che Berlusconi era meno disponibile a favorire gli interessi stranieri a scapito di quello nazionale, come fatto dal “governo tecnico” xenodipendente.
Nel complesso un libro interessante, documentato e che si spera, possa contribuire a un common sense del popolo italiano più consapevole dei propri interessi e meno influenzato dalle derivazioni del terzo millennio. Ossia dell’occultamento di interessi sotto la copertura di obiettivi esternati che coniugano idola a carattere economico (tecnocrazia, progresso) con idola a carattere morale-legalitario. Quelli, come diceva Craxi, dei moralisti “un tanto al chilo”.
Teodoro Klitsche de la Grange