Dalla Germania al Mediterraneo, del Generale Marco Bertolini

“Oltre la politica interna, la mossa voluta da Trump evidenzia il ritorno alla Great power competition, cioè lo sforzo di contrastare la Russia tra Medio Oriente e Libia, e la Cina, attiva con la Via della Seta, che ingolosisce molti Paesi europei”. L’analisi del generale Marco Bertolini, già comandante del Coi e della Brigata paracadutisti Folgore

Il dispositivo strategico degli Stati Uniti è sempre stato caratterizzato da una generosa disseminazione di forze in buona parte dei Paesi europei, con una concentrazione marcata in Germania (36 mila uomini negli ultimi anni). C’erano ragioni storiche per quest’assetto, tenuto conto che la Germania era stata l’obiettivo primario della guerra di ottant’anni fa e che nel confronto col Patto di Varsavia doveva rappresentare il teatro dello sforzo principale della Nato. C’erano poi ragioni più politiche, come il controllo da vicino di un Paese che ha sempre preoccupato, per le sue potenzialità, “l’amico” americano. Ora, con una recente decisione del Pentagono, circa seimila militari americani “tedeschi” dovrebbero presto essere ripiegati negli Usa, mentre pochi di meno verrebbero ridislocati in altri Paesi europei, tra cui l’Italia, lasciando in Germania “solo” 24 mila uomini circa.

La mossa, fortemente voluta da Donald Trump, evidenzia un suo preciso disegno complessivo nella Great Power Competition, vale a dire nello sforzo statunitense per confermare la supremazia militare nel confronto con Russia a Cina, resa quanto mai urgente dall’attivismo di Mosca in Medio Oriente e in Libia, nonché da quello di Pechino con l’iniziativa della Via della Seta che ingolosisce molti Paesi europei, tra cui il nostro. Inoltre, potrebbe essere utile per conseguire una pluralità di obiettivi diversi.

Prima di tutto, con un occhio alla politica interna statunitense, Potus segna un punto a suo favore, con l’approssimarsi della scadenza elettorale che lo vede contrapposto a Joe Biden, nel confermare al suo elettorato un seppur parziale ridimensionamento del ruolo degli Usa quale poliziotto globale. Così facendo, impone il suo “passo” al partito democratico, che della globalizzazione è un fautore acclarato, e afferma la sua autorità nei confronti dell’establishment. Si impone, infatti, su quel Deep State che ha importanti ramificazioni anche negli alti vertici militari che lo hanno sfidato pure con inedite prese di posizione pubbliche da parte di alcuni famosi generali in quiescenza.

In secondo luogo, per quanto ci riguarda più da vicino, la decisione rappresenta un segnale forte lanciato ai Paesi europei – a partire dalla Germania stessa – da lui accusati di non impegnarsi sufficientemente con un programma di potenziamento militare nell’ambito della Nato. E Berlino evidenzia, al riguardo, l’abbandono delle frustrazioni di ex Paese “occupato” dimostrando di non gradire una mossa che altera uno status quo che ormai gli va bene. Anzi benissimo, se si considera il ruolo di primissimo piano nel quale si è affermato nel Vecchio continente, anche ai danni di altri Paesi come il nostro, come dimostrato dalle recenti questioni inerenti il Recovery Fund che lo confermano leader continentale indiscusso.

Da questo punto di vista, e qui arriviamo al terzo obiettivo, più che il ritiro di una parte dei militari negli Usa, è il ridislocamento di un’altra cospicua parte degli stessi (5.800 uomini) in altri Paesi europei a rappresentare il segnale più forte da un punto di vista strategico. Con questo provvedimento, infatti, si certifica una relativa perdita di importanza della Germania rispetto allo scacchiere meridionale, per il quale da anni l’Italia lamenta una scarsa attenzione da parte della Nato. Il nostro Paese, al contrario, dovrebbe vedere un aumento di forze Usa sul proprio territorio al quale non potrà non corrispondere un cambio del nostro ruolo nel “gioco” militare della super-potenza nel Mare Nostrum, fino ad ora abbandonato alle iniziative turche e francesi, per limitarci ai Paesi della nostra Alleanza. Non so quanto questo possa far piacere a una classe politica che considera le nostre Forze armate il succedaneo povero di quelle dell’Ordine, da impiegare nel controllo del distanziamento sociale nelle spiagge; ma chi riuscisse a fare due più due quattro potrebbe scoprire che il mondo sta cambiando, nonostante le nostre resistenze.

Infine, il provvedimento si presenta come manovra a bilancio zero nella strategia complessiva statunitense, disegnata in buona parte da quello che è stato definito lo stratega di Trump, quel generale Flynn riemerso dalla palude di accuse infamanti alle quali era stato sottoposto ancor prima dell’insediamento del suo presidente. Alla diminuzione delle forze, infatti, corrisponde un aumento in termini di aderenza alle aree più preoccupanti da parte di quelle unità che rimarranno nel vecchio continente. Ciò vale soprattutto per il sud Europa, dal quale il Comando statunitense per l’Africa (AfriCom) potrà esercitare una maggiore influenza sul “continente nero”, col bubbone dell’islamismo radicale che i francesi stentano a controllare nel Sahel. Ma un occhio sarà anche al Sud Europa stesso, esposto dagli egoismi dei sedicenti “frugali” europei alle tentazioni cinesi e russe. E che la frugalità dei contadini, dei minatori e dei pescatori virando a improbabile dote degli speculatori potesse esporre a queste conseguenze anche nel campo strategico è veramente la novità di questi strani tempi. Con la quale è il caso di fare i conti.

tratto da https://formiche.net/2020/07/germania-ritiro-truppe-usa-bertolini/?fbclid=IwAR3k2S1ocdN55ie5O3y60gSb8SzuwHtuAnqyTXxY9tIcxTBeS3T_aG7qsaQ

Lo strano caso Italia, a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Luciano Barra Caracciolo, Lo strano caso Italia, Eclettica Edizioni, pp. 233, € 18,00

Escono da qualche anno sempre più libri che non “cantano in coro” e sottolineano, anzi, come la globalizzazione e l’euro siano stati, per l’Italia (soprattutto) un cattivo affare.

Questo saggio si distingue già dal titolo e dal sottotitolo. Quanto al primo l’aggettivo strano avrebbe dovuto essere scritto tra virgolette: perché – tanto strano il caso Italia non è (e il libro lo conferma), ma anzi era voluto e prevedibile.

Per il sottotitolo questo è “Breviario di politiche economiche nella crisi del globalismo istituzionale aggiornato all’emergenza coronavirus”; e il libro è – in gran parte – la dimostrazione che le politiche di austerità hanno provocato – o almeno aggravato decisamente – la crisi in atto (almeno) dal 2008, precipitata ulteriormente con la pandemia.  E così il breviario serve a riportare sulla “retta via”, ben nota agli economisti (non di regime), e a ritrovare le condizioni di compatibilità tra il modello economico-sociale delineato dalla Costituzione e quello emergente dai trattati europei.

L’autore rileva che a seguito dell’adesione all’euro “derivante da trattati e fonti di diritto internazionale (privatizzato) -, e avendo subito la conseguente ristrutturazione del proprio modello industriale e sociale derivante dalla correzione Monti (in poi), l’Italia registra una crescita zero”; questo perché “Le regole pattizie sovranazionali che impongono la globalizzazione, poi, sono regole di liberoscambio, cioè di affermazione del dominio del mercati sulle società umane, i cui bisogni, – l’occupazione, la dignità del lavoro, la solidarietà sociale espressa nella cura pubblica dell’istruzione, della previdenza e della sanità – divengono recessivi e subordinati alla scarsità di risorse… La globalizzazione è quindi un sistema di regolazione sovranazionale mirato a rafforzare le mire dei paesi (Stati nazionali) che la propugnano, da posizioni iniziali di forza politica ed economica, nel conquistare i mercati esteri”. E questo già lo scriveva Friedrich List quasi due secoli fa. E proprio per questo l’economista tedesco, che aveva assai presente funzione, carattere (e primato) del politico, sosteneva che la differenza essenziale tra quanto da lui sostenuto e il pensiero di Adam Smith era che la sua economia era politica cioè in vista dell’interesse, volontà e potenza delle comunità (organizzata – per lo più – in Stati), mentre quella dello scozzese era cosmopolitica (avendo come criterio-base l’interesse individuale).

Una delle conseguenze dell’economia cosmopolitica – nella versione contemporanea di Eurolandia – è di essere, per l’appunto, come sostiene l’autore in contrasto col modello delineato dalla Costituzione “più bella del mondo”.

Scrive Barra Caracciolo “a voler essere benevoli, a partire dal trattato di Maastricht, il modello costituzionale non sia stato rispettato; per espressa previsione delle norme inviolabili, e non soggette a revisione, della nostra Costituzione (artt, 1, 4, 36, 38, 32, 33… quantomeno), l’economia italiana segue il modello keynesiano… sicché esso non tollererebbe (cioè, non contemplerebbe come costituzionalmente legittime) politiche che, sempre per attenersi alle classificazioni e schematizzazioni di questi ultimi, implichino apertamente”, il di esso costante sacrificio. Accompagnato da salmi di giubilo alle regole europee degli eurodipendenti.

La venticinquennale stagnazione italiana è, in senso economico, determinata dalla crisi strutturale della globalizzazione da un lato, e dall’altro dall’impedimento di quelle politiche di sviluppo, dettate dalla nostra Costituzione, ma rifiutate dall’U.E.. Anche se, a quanto pare, dalle trattative sul recovery fund correzioni delle politiche d’austerità (sostanzialmente dannose per l’Italia), è in corso. Ma non si sa quanto efficaci, almeno nel medio periodo, per il nostro paese.

In questo saggio c’è molto, onde non è facile sintetizzarlo. I profili più evidenti ne sono: a) il contrasto tra quanto si sostiene – dagli euro dipendenti – che da un lato si atteggiano a numi tutelari della Costituzione “più bella del mondo”, dall’altra nelle politiche euroasservite ne tradiscono il modello economico sociale, nei suoi caratteri fondamentali, a cominciare dalla tutela del lavoro, che è, secondo l’art. 1 il fondamento (reale prima che normativo) della Repubblica.

Ma questo si comprende bene: élite in decadenza si affidano all’astuzia più che alla forza (Pareto). Come scriveva il segretario fiorentino, il principe deve badare a parere più che ad essere. E il metodo più seguito per farlo è predicare in modo opposto al praticare. La sconnessione tra detto e fatto, tra intenzioni esternate e risultati conseguiti è voluta e tutt’altro che casuale.

La seconda – connessa alla precedente – è la sostanziale assenza (od oscuramento) del dibattito su crisi, cause e responsabilità della stessa. Silenzio assordante fino a qualche anno orsono, un po’ meno dopo che i successi  elettorali dei partiti sovranpopulidentitari hanno certificato che la consapevolezza popolare di cause e responsabilità della crisi, malgrado tutto, determina crisi politiche di livello globale, con sempre più Stati retti e condizionati da maggioranze (o quasi-maggioranze) elettorali sovran-populiste. Economisti di regime, giuristi di palazzo, mass media asserviti l’hanno solo ritardata. Come scrive Barra Caracciolo “tutta la problematica (della crisi)… è completamente assente dalle dichiarazioni programmatiche e dal dibattito politico attuale… Si ha come l’impressione di essere in una realtà parallela, fatta di miopi polemiche di parte e di slogan ripetuti senza comprenderne appieno il significato… E l’Italia non può permettersi di essere raccontata e guidata ignorando la sua natura, la sua vocazione, ben collocata in questa terra, interconnessa con i problemi di una globalizzazione che è stata concepita dai progettisti di Elysium, da spietati Malthusiani, e che ora, nella sua fase discendente, rischia di trascinarsi nel suo “cupio dissolvi”… Parliamone: non lasciamo che discorsi “lunari”, ipostatizzati su un pensiero unico e irresponsabile verso il popolo sovrano, ci facciano suonare, come comprimari, nell’orchestra del Titanic…”. E questo libro è un’ottima occasione per cambiare musica (e orchestra).

Teodoro Klitsche de la Grange

TORNARE INDIETRO PER ANDARE AVANTI, di Pierluigi Fagan

TORNARE INDIETRO PER ANDARE AVANTI. Nel 1486, il filosofo autodidatta Pico della Mirandola, scrive l’Oratio de homini dignitate, ritenuto da molti il “manifesto” di quel Umanesimo fiorentino che prelude al Rinascimento. Nell’Oratio, Pico sostiene che mentre ogni altro ente di natura è stato creato da Dio in forma determinata, l’uomo è condensato di potenzialità di potersi liberamente dare definizione da sé: “Tu determinerai la tua natura secondo il tuo arbitrio al cui potere io ti ho consegnato. […] …affinché tu stesso quasi come un libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avevi prescelto”. L’Umanesimo faceva perno su questa nuova antropologia in cui lo scarto dalla precedente convinzione stava tutta in questa sottrazione dalla determinazione che dava all’uomo libertà e responsabilità. L’operazione intellettuale era quella di sottrarre l’Uomo dalle rigide determinazioni del Dio artefice di ogni cosa, sostenendo che proprio Dio aveva donato all’Uomo la libertà dalla determinazioni donandogli la sovranità su se stesso. Ma allora, cosa fare di questa libertà all’autodeterminazione?

In questo scorcio di seconda metà del XV secolo in Italia, si combatte la riforma del pensiero che vuole emanciparsi dal totalitarismo della Chiesa recuperando gli Antichi, testimoni di un “pensiero altro”e per altro, molto più esteso e sofisticato di quello tipicamente medioevale. Il XV col XVI e XVII secolo sono il periodo di lunga dissolvenza incrociata nel quale il Medioevo lentamente dissolve mentre assolve il Moderno, sia nel mondo dei fatti che in quello dei pensieri.

Nel mondo dei fatti, è questo il periodo in cui dissolve un certo tipo di società ed assolve un’altra. Questa seconda sarà poi quella che oggi sta finendo ponendo di nuovo la domanda: … cosa fare di questa libertà all’autodeterminazione? In breve, l’Uomo occidentale, si è liberato da una gabbia mentale riflessa poi in una precisa struttura del sociale in cui gli intermediari della credenza in Dio usavano tale diffusa e profondamente introiettata credenza per garantirsi il ruolo di primi tra pari. Nel farlo, ha liberato la sua potenza intenzionale e produttrice facendo del lavoro e del suo profitto, il senso del suo stare al mondo. La nuova struttura del potere sociale perdeva il concetto di “primi tra pari” in quanto eclissando Dio come vertice della piramide dell’Essere si perdeva la parità umana, si perdeva quindi il ruolo e la funzione di intermediario, si apriva ad una nuova credenza in cui il mondo umano era fatto dall’uomo stesso. Questo “uomo produttore di mondo” s’ingaggiava sempre più a “risolvere problemi”, che lo facesse col lavoro, col commercio, con la tecnica, con le prime esplorazioni scientifiche o nautiche. Prima di giudicare idealmente il senso di questa svolta, il giudicante dovrebbe esser ben consapevole dell’aspettativa di vita, del tasso di mortalità per fame o malattie, del tasso medio di ingiustizia di allora comparati a quelli di oggi.

Il grande studioso dell’economia antica Moses Finley, raccontava di un signore dell’antica Atene che finanziava diverse navi commerciali del Pireo che riempiva di merci e beni. Le navi, periodicamente, andavano sulle coste libiche e lasciavano merci e beni sulla spiaggia al limitare della foresta. Poi tornavano un po’ al largo, aspettavano ed infine riattraccavano. Il “popolo della foresta” aveva preso merci e beni ed aveva lasciato in controvalore schiavi secondo proprio giudizio di equivalenza. Gli schiavi venivano portati al signore di Atene finanziatore della spedizione. Il signore aveva così accumulato circa duecento schiavi che però non vendeva, affittava. Li affittava ai possessori miniere o di campi da coltivare fuori Atene, piuttosto che come servi casalinghi o addirittura affittandoli alla città come opliti. Il signore possedeva quindi i mezzi di produzione essendo questi, al tempo, lavoro umano ed aveva realizzato il ciclo marxiano del denaro (per finanziare la spedizione) che serviva a comprare merce (gli schiavi) che producevano più denaro (profitto) di quanto erano costati (investimento), il fatidico D-M-D1. Il signore era quindi un “capitalista”.

Se questa è la formula di un fare economico capitalista, sarà bene sapere che di questo fare economico, la storia ne è piena e da molti più secoli che non quelli che chiamiamo propriamente “capitalistici”. Ma con due differenze tra gli esempi reperibili nella storia lunga ed il sistema imperante nei secoli propriamente detti moderni o “capitalistici”. La prima differenza è che questi modi -in passato- erano frammisti a molti altri, non erano l’unico modo. La seconda è che nessuna società si ordinava esclusivamente col fare economico che a sua volta si ordinava con solo questo modo. L’epoca in cui inizia la transizione ad una “società capitalistica” è proprio il XV secolo dove precedenti modi economici già lungamente basati sul ciclo “investimento-trasformazione-profitto” sin dal XII secolo diventano sempre più diffusi e perfezionati, per poi dalla fine del XVII secolo, diventare l’unico modo del fare economico e con la Gloriosa rivoluzione inglese, il modo stesso in cui si ordina l’intera società nonché quello che esprime il potere politico riunito nel “parlamento dei produttori e dei dotati di capitale”.

Cosa intendiamo quindi con “capitalismo”? Un modo economico tra gli altri, passibile quindi di diversa forma o il sistema sociale in cui la società è ordinata dal fare economico e questo dall’unica versione basata sul ciclo “investimento-trasformazione-profitto”? Nel primo caso c’è chi ipotizzò che imponendo una diversa forma economica previa conquista del potere politico e giuridico (come?) si giungerà ad una nuova forma sociale. Nel secondo caso si nota che non è tanto la forma del ciclo “I-T-P” che è antica quanto l’uomo, ma la sua presunta unicità e soprattutto la sua pretesa di ordinare l’intera società ed il suo potere ultimo che è sempre politico-giuridico.

Eccovi quindi gli “accelerazionisti”. Costoro sono convinti che piuttosto che resistere alle dinamiche evolutive (o involutive) del capitalismo contemporaneo, tanto vale accelerarle fino alle estreme conseguenze di una società liberata dal mito del lavoro. Non del lavoro in quanto tale che sarà sempre necessario entro certi limiti, ma del suo mito come essenza della società umana e realizzazione stessa dell’uomo. La chiave di volta è il progresso tecnologico che tende a sostituire lavoro umano con lavoro macchina o algoritmo. Alle sue estreme conseguenze, se il lavoro non sarà più il perno del fare umano e sociale, la società si cercherà un nuovo ordinatore. E potrà liberamente farlo laddove s’imporrà (come?) il principio di dare sussistenza minima garantita a tutti, liberando tempo ed energie intellettuali e sociali, infine politiche, per discutere e decidere assieme quale altro ordinatore darsi. Tornare cioè alla domanda di Pico su cosa fare di questa libertà all’autodeterminazione e provare a dare un’altra risposta da quella che poi venne storicamente data. Non solo provare a dare un’altra risposta rispetto a quella data, ma anche rispetto alla contro-risposta data da coloro che volevano superare nel XIX secolo questo stato di cose e che poi, purtroppo, non sono riusciti ad alimentare un vero e sostanziale cambiamento.

E’ un argomento complesso da discutere quindi ve lo sottopongo a libera discussione.

nb tratto da facebook

Prove tecniche di sovranità tecnologica europea?_di Giuseppe Gagliano

Prove tecniche di sovranità tecnologica europea?

Il precedente articolo su Edward Snowden ha posto l’attenzione del lettore sulla pervasività del sistema di sorveglianza americano – nello specifico dell’NSA – ma soprattutto sull’egemonia americana nel campo della sovranità digitale. Proprio per questa ragione riteniamo opportuno, seppure in breve, sottolineare l’importanza geopolitica del progetto Gaia X nato anche con lo scopo di contrastare l’egemonia americana .

Il progetto Gaia X è stato avviato dalla Francia e dalla Germania con lo scopo di tutelare anche la sovranità dei dati. Questo progetto prende il nome di Gaia-X ed è supportato da 22 aziende franco-tedesche come ad esempio Orange, OVHcloud, Edf, Atos, Safram, Outscale, Deutsche Telekom, Siemens, Bosch e BMW. Per quanto riguarda i settori coinvolti nel progetto sono numerosi perché sono relativi all’industria 4.0/PME, alla sanità, alla finanza, al settore pubblico, a quello energetico, alla mobilità e all’agricoltura. La genesi di questo progetto è da individuarsi nel vertice di Dortmund che si tenne nell’ottobre del 2019 durante il quale Angela Merkel si pronunciò a favore della sovranità dei dati e di una soluzione europea per la costruzione di una infrastruttura digitale. Inoltre questo progetto fa parte di una più ampia strategia europea di governance dei dati già esplicitamente formalizzata dalla commissione europea il 19 febbraio del 2020. Il principio da cui parte questo progetto è molto semplice: l’Europa allo scopo di essere un player geopolitico rilevante deve essere in grado di garantire la propria sovranità tecnologica. Tutto ciò consentirebbe, per esempio, di evitare che i dati sanitari dei pazienti siano venduti, come successo con il National Health System britannico, ad aziende farmaceutiche americane come rivelato dalla periodico The Guardian nel dicembre 2019.

È evidente che questo progetto è volto anche a fornire un’alternativa europea ai leader mondiale del cloud Computing come Amazon, Microsoft, Google e Alibaba che allo stato attuale detengono oltre il 70% del mercato mondiale. Naturalmente questo progetto rientra in un contesto molto più ampio che consiste nel tentare di costruire un’infrastruttura europea dalla quale dovrebbe nascere un ‘ecosistema europeo di dati per consentire all’Europa di riconquistare la sua sovranità digitale. Sia la Francia che la Germania ritengono opportuno incoraggiare anche altri paesi europei – come Italia e Spagna ad esempio- che dovrebbero partecipare a questo progetto di sovranità ed autodeterminazione. La rilevanza di questo progetto a livello globale è tale che l’amministrazione americana interpreta i piani di Bruxelles sulla sovranità digitale come una minaccia alla libertà economica e all’espansione delle sue industrie tecnologiche. Per quanto riguarda la Francia è significativo il fatto che tutte le principali scuole di pensiero relative all’intelligence economica – e fra queste certamente la Scuola di Guerra economica parigina di Christian Harbulot – abbiano nel corso di questi ultimi anni posto l’enfasi sulla necessità di conseguire in tempi relativamente brevi la sovranità e l’autodeterminazione digitale in un’ottica di patriottismo economico allo scopo di emanciparsi dalla egemonia americana. Come abbiamo già avuto modo di osservare in un articolo su Vision-Gt l’Europa non ha scelta: se infatti vuole proteggere i suoi cittadini, deve cambiare la sua strategia geoeconomica. Deve, per esempio, investire nella ricerca più ampia e trasversale possibile al fine di comprendere la natura della guerra economica. Insomma Bruxelles dovrebbe formulare una vera dottrina di difesa economica per affrontare sia gli Usa che la Cina.

http://osservatorioglobalizzazione.it/osservatorio/prove-tecniche-di-sovranita-tecnologica-europea/?fbclid=IwAR1wp5ZZ9a3H_8SOejmjS5Iu-dHmTGHh_QzYNlCUVdbBBsk4veXgreKTz7c

Il bene riflesso, di Giuseppe Masala

Riflettevo un po’ sull’Euro. Dico, indipendentemente da come andrà a finire questa epopea destinata ad entrare nella Storia. Il mio è stato un ragionamento utilitaristico che è partito dalla constatazione empirica che nulla a questo mondo viene nella vita senza lasciare qualcosa. Qualunque cosa, prende un po’ di noi e lascia qualcos’altro. L’Euro dal punto di vista italiano è stato senza dubbio una catastrofe economica, politica e sociale (certo, non abbiamo la controprova di cosa sarebbe accaduto se non fossimo entrati). Ma cosa ci lascia questa esperienza che non esito a definire tragica?

L’Euro ci lascia due cose fondamentali. Ci lascia innanzitutto un enorme patrimonio culturale. Quanto abbiamo studiato – ciascuno a modo suo – per comprendere i meccanismi economici, politici, sociali, culturali, storici che ci hanno portato come popoli europei a questa scelta. Pagine e pagine sulla storia tedesca; dalla loro unificazione, alle guerre, alle dispute politiche, giuridiche e filosofiche. Non parliamo poi del loro carattere nazionale, magari appreso nelle pagine di Mann, di Dostoevskij (che li descrive benissimo pur non essendo tedesco), di Junger e qualche temerario anche attraverso le letture di Oswald Spengler. Il loro spirito di Ribellione, la tensione perenne tra Kultur e Zivilisation; nel mio caso personale anche l’intima convinzione che questa tensione si risolve sempre con la vittoria della Kultur; anche quando apparentemente scelgono la Zivilisation. Abbiamo imparato che la Grandeur francese porta gli ottimi governanti di quel popolo ad essere stupidi. Avete notato? Nella trattativa del Recovery Fund si sono comportati come non li riguardasse. Loro son signori, mica s’abbassano. Poi la perfidia britannica, ma anche la loro tenacia ferrea. E poi il cinismo, l’arrivismo, la stupidità delle nostre classi dirigenti. Ci hanno mandato a combattere con le scarpe di cartone. Come i fanti dell’Armir spediti in Unione Sovietica.

Abbiamo in definitiva imparato – e questa è la seconda grande lezione – che la Storia non è lo studio del passato. La Storia è lo studio del Presente e del Futuro. Tutto si ripete in una incredibile coazione.

Ecco, l’Euro ci lascia un enorme patrimonio di esperienza e di cultura. Probabilmente inutile. Se tra venti anni provassimo a spiegare alle nuove generazioni, fatalmente saremmo presi per vecchi rincoglioniti. Già, la Storia insegna ma non ha scolari. O meglio, la si impara solo sulla propria pelle.

L’ALTRO POLO

Arriva dalla Gran Bretagna, attraverso il Financial Times, la notizia che fa capire quanto sia vitale la battaglia sull’Euro. Secondo il quotidiano londinese la Bank of England starebbe pensando di istituire una Banca d’Investimenti di sua proprietà. Si, avete capito bene, la banca centrale inglese sta pensando di istituire una banca d’investimento per intervenire direttamente nell’economia reale. Facile capire come andrebbe a funzionare: la banca d’investimento emanazione della BoE emetterebbe obbligazioni per finanziare opere pubbliche che verrebbero acquistate integralmente dalla banca centrale tramite emissione di nuova moneta. In realtà si tratterebbe di una mera partita di giro considerando poi che il 100% dell’azionariato sarebbe di proprietà della banca centrale stessa. In sostanza sarebbe un altro step nel Quantitative Easing con l’intervento diretto della banca centrale negli investimenti sull’economia reale.

Tenete anche conto che la Banca d’Inghilterra ha posto in essere un quantitative easing infinitamente più forte di quello della Bce, pari a ben 750 mld di sterline per una nazione di 65 milioni di abitanti mentre a Francoforte ci si è fermati a 1350 mld di euro ma per 350 milioni di persone (tanti sono gli abitanti della Eurozone). E ora questo nuovo strumento della banca d’investimento che qualsiasi neokeynesiano o postkeynesiano europeo non oserebbe neanche immaginare.

Ecco, mentre in Uk, ma anche in Usa e in Giappone, ci si lancia in operazioni temerarie ma adatte alla situazione drammatica che stiamo vivendo, in Europa si insiste sul Teorema di Haavelmo e sulla sbagliatissima teoria della neutralità della moneta. Rifletteteci un po’ e valutate da soli quanto sia importante o cambiare totalmente la mentalità della Bce oppure separarsi dai tedeschi e dalla Lega Anseatica.

LA CARICA DEI MONATTI, di Teodoro Klitsche de la Grange

LA CARICA DEI MONATTI

Sarà, ma non riesco a vedere del tutto negativo che i quattrini dell’U.E. arrivino, come dicono, nei prossimi anni.

Non sono un economista, e molti mi rimprovereranno di non tener conto dell’effetto shock che un’iniezione massiccia di liquidità ha su un’economia in recessione; ma credo di avere qualche esperienza della politica, di quella nazionale in particolare e questo mi induce a bilanciare, almeno parzialmente gli effetti positivi e quelli negativi del ritardo.

Molti pensano che il governo Conte sia prossimo al capolinea, probabilmente sostituito, entro l’anno, da un nuovo esecutivo, sorretto da una “scissione” di Forza Italia; altri (meno) pensano che si vada ad elezioni anticipate nel prossimo inverno (con altre probabilità di alternativa). Se è vero ciò, il vantaggio del ritardo è evidente: non sarà questo governo a spendere la massa di moneta – oltre 200 miliardi di euro – in arrivo dall’U.E.. Vantaggio che sarebbe modesto, ove il governo fosse comunque espressione del PD (e appendici), superiore se lo escludesse e fosse formato dall’attuale opposizione.

Il perché è semplice: il PD (nelle varie trasformazioni) è il maggiore (anche se non l’unico) responsabile della venticinquennale stagnazione economica italiana, che ne ha fatto l’economia più ferma sia dell’U.E. che dell’area euro (dopo essere stata, prima del 1993, una delle più dinamiche).Non c’è passaggio economico decisivo della “seconda repubblica” che non porti la firma di un boiardo di centrosinistra: dall’entrata nell’euro alle privatizzazioni, spesso farlocche e altrettanto spesso profittevoli per i privati, ma non per il pubblico (tra le tante – Autostrade); dal rigore a senso unico (quello sbagliato) alla tassazione a gogò. I protagonisti di questo quarto di secolo (abbondante) sono stati i vari Prodi, Ciampi, Amato, Padoa Schioppa, Monti, nessuno dei quali ha governato senza la fiducia del centrosinistra.

Con i risultati che abbiamo visto prima della pandemia. Per cui chiedersi perché gli italiani abbiano ridotto il PD (e connessi) da quasi la metà dei voti a poco più di un quinto dell’elettorato è sorprendente: a sorprendere – di fronte a tanto sfascio – sarebbe il contrario. Che poi a spendere i quattrini che l’U.E., (bisogna riconoscere, stavolta meno rigorosa del solito), mette a disposizione, debbano essere sempre coloro i quali da decenni ci hanno messo in questa situazione realizzando politiche “rigorose” (si fa per dire) è circostanza assai poco rassicurante. Da risultati passati così negativi non c’è da attendersi un futuro radioso.

E lo si vede già nelle normative per il rilancio: mentre tra le misure per il rilancio dell’economia post-Covid la “cattivissima” Merkel in Germania ha abbassato l’IVA di 3 punti (dal 19 al 16 per l’aliquota ordinaria), seguita dalla piccola Cipro, il governo PD-M5S ha inventato bonus, alcuni giustificati, altri surreali – quelli per bici elettriche e monopattini – , ma – a parte qualche breve rinvio di pagamento – nessuna riduzione d’imposta, tanto meno per quelle generali, gravanti su tutta la popolazione (come, tra l’altro, IRPEF, IVA, IMU). In realtà come al solito emerge la differenza sostanziale tra l’Italia e la maggior parte dell’Europa: che non è tanto il “rigore” ma il modo di governare (e governarlo).

Lì si prendono misure emergenziali che incidono per lo più a danno o a favore di tutti: hanno la stessa caratteristica positiva della legge di Rousseau: che viene da tutti e si applica a tutti.

In Italia viene da un governo di minoranza nella Nazione, nato per impedire alla maggioranza (Salvini e connessi) d’andare al governo e serve, in larga parte a fare favori a pochi, se non pochissimi. Quelli che stanno a cuore ai governanti minoritari. I quali hanno un consenso radicato tra i tax-consommers, ossia tra coloro che, sul bilancio dello Stato, ci campano, E non è solo la burocrazia; come scriveva un secolo fa circa Giustino Fortunato, il bilancio dello Stato è “la lista civile della borghesia parassitaria”. Quella che prospera grazie alle imposte, alle tasse, alle tariffe pagate da tutti. E che nutre grandi attese dalle conseguenze della pandemia. Ridurre le imposte (a tutti), profittando dei fondi europei significa ridurre i favori (a qualcuno); cosa improponibile a un governo che si “regge” sul consenso di quelli.

Tempo fa notavo che Manzoni narra come l’esclamazione dei monatti nella Milano appestata era “viva la moria”, perché i lutti di tutti erano occasione per i monatti di vivere (neppure tanto onestamente): e c’erano segnali in Italia che la situazione (e l’augurio) si stesse ripetendo con i monatti post-moderni.

Ne abbiamo avuto la conferma pochi giorni fa; il brindisi (completo) dei monatti nei Promessi sposi in effetti era: “Viva la moria. Moia la marmaglia”; un ministro l’ha completato dicendo che se i ristoratori non riescono ad adeguarsi, meglio che cambino mestiere. Il che vuol dire la morte economica di non poche imprese. Delle quali non molte (forse) propendevano per il partito del ministro e quindi lo “meritavano”. Ma chi spiegherà al ministro che se cessano di produrre le imprese, pochi pagheranno le tasse? E che se non pagano le tasse non solo i suoi elettori, ma persino lui sarà costretto a lavorare?

Teodoro Klitsche de la Grange

La malattia del mondo, a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Francesco Borgonovo, La malattia del mondo, Milano 2020, pp. 207, € 15,00

Questo libro è una riflessione sulla pandemia da coronavirus, che dall’evento risale alle condizioni ideali e materiali da cui è stato incentivato, in un’epoca in cui eventi del genere, che hanno funestato l’umanità per millenni, sembravano chiusi nell’archivio della storia. Archivio che a dispetto dei progressisti – e purtroppo non solo loro – si è riaperto.

La pandemia è stata frutto di due fattori fondamentali, ambo ideali: il primo è la ybris, il secondo è (la pretesa/aspirata) assenza di limiti (non solo fisici) che caratterizzano il pensiero della globalizzazione (e dei globalizzatori). Quanto alla prima scrive l’autore, la ybris è “prima di tutto superamento del limite, del confine. E se ci pensate, l’intera storia dell’epidemia di Covid-19 (esattamente come la storia della globalizzazione) è una faccenda di confini varcati e limiti infranti”. Il limite infranto è quello della natura “Della natura noi uomini siamo, al massimo, i custodi, come rivela il libro della Genesi. Quando veniamo meno al nostro ruolo, o quando tentiamo di farci creatori sostituendoci al Creatore, allora scateniamo l’epidemia, la pestilenza biblica”. Secondo gli scienziati il Coronavirus è nato – come altri agenti patogeni – da uno spillover da un “salto” tra specie (da animali selvatici all’uomo). Varcato il limite della specie è stato assai più agevole, dato il progresso tecnico e la permeabilità delle frontiere, diffondersi nel pianeta a velocità impressionante “Prigionieri come siamo dell’ideologia della dismisura, non abbiamo saputo chiudere tempestivamente i confini, non abbiamo voluto fermare il vortice della circolazione globale: la malattia, dalla Cina, è approdata in Germania, e da lì è giunta in Italia. Poi, il disastro. Quando il Covid-19 è calato nella nostra nazione, tutti i nostri limiti sono tornati prepotentemente a galla: quelli delle nostre strutture sanitarie, della nostra potenza industriale, della nostra indipendenza economica… Il confine, il limite, le barriere salvifiche che avrebbero potuto arginare l’avanzata del nemico occulto sono stati sbriciolati dal capitalismo selvaggio e dall’ideologia che impone: nessuna frontiera”.

Ricordando quanto scriveva Schmitt della contrapposizione tra terra e mare e le conseguenze che comporta sull’ordine, sul diritto e sull’economia, Borgonovo sostiene che non erra Zigmunt Bauman quando definisce la società post-moderna “società liquida” contrapposta alla solida terra che fonda società basate sul limite (confine delle proprietà, dei territori delle sintesi politiche, almeno di quelle stanziali, ossia, nella modernità, tutte). Per espandersi la “società liquida” necessita di superare se non di abolire i limiti.

Hegel lo aveva notato per l’industria nel paragrafo 247 dei Lineamenti di filosofia del diritto: “come per il principio della vita familiare è condizione la terra, cioè il fondo e il terreno stabile, così per l’industria l’elemento naturale che la anima verso l’esterno è il mare.

Nella brama di guadagno, esponendo al pericolo il guadagno stesso, l’industria si eleva a un tempo al di sopra di esso, e soppianta il radicarsi nella zolla e nella cerchia limitata della vita civile, i suoi godimenti e desideri, con l’elemento della fluidità, del pericolo e del naufragio…”; il mare pertanto era l’ “ambiente” più favorevole al commercio e all’industria. Ancor più quando, venuta meno la scoperta di nuove terre (e mercati) l’espansione deve basarsi sull’abolizione dei residui confini.

Il libro è colmo di idee. Per restare nei limiti di una recensione, la sintesi – purtroppo limitata come tutte le sintesi – è che la post-modernità si fonda sulla ybris, ossia la superbia di superare i limiti della natura. Borgonovo ricorda come i greci notassero ciò: Erodoto ed Omero, cui occorre aggiungere Sofocle, in particolare nell’Antigone e nell’Edipo re. Come condanna della ybris come distruttrice dell’ordine terreno e divino è particolarmente significativo il canto del coro nell’Edipo rePossa io avere destino di serbare santa purezza di parole e di azioni, a cui sono preposte leggi sublimi, procreate nell’etere celeste, e l’Olimpo solo è loro padre; non natura mortale di uomini le generò, né mai l’oblio le sopirà: un dio potente è in esse, e non invecchia. La dismisura genera tiranni”. O nella profezia di Tiresia a Creonte nell’Antigone, nella quale l’indovino prevede la rovina del re per aver violato le leggi di natura “questo non è un potere tuo, né degli dei supremi, anzi essi soffrono questa violenza da te”. Indubbiamente una civiltà come quella greco-romana che Spengler riteneva basarsi sul senso del finito, cioè del limite è particolarmente utile per capire la degenerazione faustiana della post-modernità.

La quale trova la propria caratteristica fondamentale nel ritenere superabili realtà e leggi naturali. Lo stesso comunismo reale, rapidamente espanso e conclusosi, si fondava sull’illusione del giovane Marx di cambiare la natura umana, mutando i rapporti di produzione; alla fine della dittatura si sarebbe costruita la società comunista, senza comando né obbedienza, pubblico e privato, amico e nemico. Cioè senza i presupposti del politico – le costanti che connotano ogni comunità politica umana. Risultato smentito dalla breve storia del comunismo. Il quale si è retto solo perché ha mantenuto anzi potenziato le costanti del politico nella dittatura sovrana del partito. Cessata la fede nella quale è imploso. Nella post-modernità questa ybris ha preso altre forme, immaginato altri idola: tutti accomunati dalla credenza di poter oltrepassare leggi e limiti naturali. Illusione sempre smentita e fondante, come cantava Sofocle, nuove tirannie.

Teodoro Klitsche de la Grange

FORSE NON LA STIAMO PRENDENDO PER IL VERSO GIUSTO, Pierluigi Fagan

FORSE NON LA STIAMO PRENDENDO PER IL VERSO GIUSTO. L’altro ieri, la missione di analisti dell’IMF, di ritorno dal suo soggiorno americano, ha pubblicato questo rapporto su stato e prospettive dell’economia americana che da sola vale un quarto di quella planetaria.

Nel secondo trimestre (A-M-G), il Pil USA ha fatto -37% (lo ripeto per i distratti e coloro che saltano i dati di quantità a priori perché preferiscono le parole: “meno trentasette per cento”). Si prevede che l’economia USA tornerà ai livelli di Pil fine 2019, solo a metà 2022, forse. IMF segnala che gli USA erano già un sistema con una forte componente di povertà interna, la crisi è destinata ad allargare e sprofondare questa parte addensata nelle etnie afro-americana ed ispanica. Al momento sono 15 milioni i disoccupati ed è appena iniziata la catena di fallimenti di esercizi commerciali ed imprese che accompagnerà la lenta ma costante caduta. Ed aggiunge: “il rischio che ci attende è che una grande parte della popolazione americana dovrà affrontare un importante deterioramento degli standard di vita e significative difficoltà economiche per molti anni a venire.”.

“Molti anni a venire” , come riportato in post precedenti, viene da Nouriel Roubini e dai “miliardari invocanti tasse”, quotato sulla prospettiva del decennio, magari non saranno proprio dieci anni, ma al momento le prospettive sono di crisi profonda e lunga. “Larga parte della popolazione” significa più che la maggioranza. Il “deterioramento dello standard di vita” è l’esatto opposto del contratto sociale americano basato sull’espansione continuata, ciò che tiene in piedi un sistema assai variegato e pieno di contraddizioni e pluralità problematiche. Tutto questo, nonostante gli eccezionali sforzi di pronto intervento messi in campo dall’Amministrazione e dal FED (che noi in Europa ci sogniamo) e nonostante lo sbandierato +8% dei consumi a maggio. Si stima un rapporto debito/Pil al 160% nel 2030 (reggerà la credibilità dell’unità di conto, scambio e valore internazionale di un paese che ha il 160% di debito pubblico/Pil?) , ma si teme che poiché grande parte dei costi di assistenza sanitaria, educazione e disoccupazione sono nei bilanci degli stati federati già per altro al limite o oltre il limite, l’intera situazione possa ulteriormente peggiorare. Ne segue una lunga ricetta di interventi che però è politicamente improbabile per via delle diverse priorità che le élite americana in genere hanno (o l’una o l’altra poco importa) e soprattutto di cui non si vede né la sostenibilità finanziaria, né il certo effetto ristoratore. Ironia della sorte, giusto il giorno prima, il governo cinese annunciava un +3,2% su aspettative del +2,5% per la crescita del proprio Pil nello stesso periodo.

Tutto ciò, mentre gli USA continuano a macinare record di contagi. Gli USA hanno tre volte i contagiati che abbiamo avuto noi (a parità di popolazione) ma per via del fatto che hanno iniziato dopo e si sono potuti avvalere di qualche parziale miglioramento nelle cure e nei trattamenti, nonché una popolazione decisamente più giovane della nostra, la mortalità è al momento a 430 per milione di abitanti, contro i 580 nostri. Sono però al limite di capienza alcune strutture sanitarie tra cui la Florida ed il Texas, ma non sono i soli. Il conflitto capitale-salute-libertà continua a dilaniare gli americani stante che quando si sceglie il capitale, peggiora la salute ma sopratutto non sembra neanche migliorare il capitale. C’è infatti la psicologia umana in mezzo che valuta il rischio non secondo pura logica statistica.

Tutto ciò potrebbe avere una svolta col vaccino ma al momento non si sa bene quando potrà esser operativo, a che condizioni, come verrà preso dalla popolazione, quanto sarà efficace. Non si è mai trovato un vaccino per i coronavirus che pure si conoscono da decenni. Questi tipi di virus hanno una strategia adattativa molto basica: grande semplicità (è un filo di RNA corto) e grande cambiamento (molte mutazioni per darsi più condizioni di possibilità), cambia molto ed in fretta per ingannare i sistemi immunitari. I virus sono qui sulla Terra da forse 3,5 miliardi di anni e sono le entità biologiche più diffuse sul pianeta, evidentemente la strategia ha i suoi perché. Noi invece non solo geneticamente ma soprattutto socialmente, siamo molto complessi e cambiamo poco e molto, molto lentamente.

Credo che noi non si stia capendo bene in che tipo di problema siamo capitati, un problema che non è italiano o americano ma quantomeno occidentale prima e mondiale poi. Molti si impegnano ad interpretare il virus, la sua genesi, gli interessi in gioco, le pratiche sanitarie, il rumore dei media, criticare il governo, l’Unione europea. Ognuno di questi punti è interessante ma perde il quadro d’insieme ed il quadro d’insieme è un lento armageddon economico e quindi sociale cui saremo soggetti, forse, per anni. E’ desolante il fatto che tra le tante analisi che si leggono, quelle mainstream non meno di quelle alternative, sembra non comprendersi la profondità della crisi cui siamo condannati. Poco o nulla importa se il virus è così o colà, come e da dove è venuto, se i suoi effetti sono esagerati e da chi e perché, poco importa prevedere catastrofi biopolitiche o incolpare i cinesi o Big Pharma. Questi sono intrattenimenti info-culturali. Il fatto crudo e duro è che nella misura in cui la gente teme di ammalarsi e forse morire, i suoi comportamenti sociali abituali o tali ritenuti, cioè i precedenti, non torneranno a sostenere la vita associata per lungo tempo. In tutto il mondo. Con questo avremo a che fare e per questo non sembra esserci medicina di pronto intervento. Questo minerà il funzionamento della società radicalmente. Molto ma molto più radicalmente di qualsiasi Recovery fund o MES, Trump o Biden, ricetta economica a base di interventi generici e consueti. Manca cioè, a mio avviso, consapevolezza dell’eccezionalità e radicalità del problema.

Per adattarsi a questo quadro d’insieme mancano tre cose essenziali. Una è il tempo, il tempo semplicemente non c’è, siamo in ritardo cronico. Qualsiasi intervento risulterà parziale, ci vorrà molto tempo a metterlo in essere e impiegherà molto tempo a dare gli effetti sperati, se li darà. Il secondo è la comprensione del fatto che dovrebbe portare ad una comprensione dell’intervento. Da tempo posto articoli su tassazioni ridistributive straordinarie e diminuzioni immediata dell’orario di lavoro con ridistribuzione dello stesso. Non son le uniche ricette possibili, forse neanche le migliori, ma danno il tono di quanto dovrebbero esser fuori norma gli interventi necessari. Non si può pensare normale in tempi eccezionali. Il terzo è la sistematica rimozione della realtà. Ci vuole un massa critica importante per spingere una società ad una mossa adattiva così importante e seria, qualcosa intorno ad un 60% del corpo sociale, non certo meno. Soprattutto, faccio notare quel “una grande parte della popolazione […] dovrà affrontare un importante deterioramento degli standard di vita e significative difficoltà economiche per molti anni a venire”. C’è da riformulare il contratto sociale, cosa di non poco conto in tutta evidenza, cosa necessaria e di attualità già da tempo prima, ora con una specifica urgenza conclamata. Siamo molto lontano ed in ritardo dall’affermarsi tale consapevolezza nei grandi numeri ma, mi pare, anche nei piccoli.

Scusate per quello che a voi, una domenica di fine luglio, apparirà pessimismo ma che per me è semplice realismo consapevole. Mi sentivo di allarmare sul fatto che forse non la stiamo prendendo per il verso giusto. Anche a livello teorico, penso si dovrebbe mettere in campo più pensiero radicale concreto, non narrativo o contro-narrativo e neanche critico, la critica non cambia il reale. C’è da modificare la realtà il prima possibile in quanti più è possibile, con idee semplici e forti. Forse non ci si riuscirebbe comunque, ma sarebbe sano vederne almeno il tentativo, la discussione, ci sarebbe da provar ad imporre un dibattito pubblico più serio e tra adulti non compromessi da rimozione nevrotica della realtà. Nella misura in cui la gente pensa che questa sia la realtà, questa sarà la realtà e se questa sarà la realtà come sembra, a lungo, gli effetti saranno quelli annunciati. Toccherebbe darsi una regolata …

https://www.imf.org/en/News/Articles/2020/07/17/mcs-071720-united-states-of-america-staff-concluding-statement-of-the-2020-article-iv-mission?fbclid=IwAR2Q0TOBoyweogopmS4Sy4ZTXWbzyqW7tKM9PF3CMB7FA3dgVTmGu6AlnfA

United States of America: Staff Concluding Statement of the 2020 Article IV Mission July 17, 2020 A Concluding Statement describes the preliminary findings of IMF staff at the end of an official staff visit (or ‘mission’), in most cases to a member country. Missions are undertaken as part of reg…

RESPONSABILITÁ E POTERE, di Teodoro Klitsche de la Grange

RESPONSABILITÁ E POTERE

Si dice che nel decreto-legge sulla “semplificazione” amministrativa di cui (al momento in cui scrivo) si è in attesa di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, vi sia una modifica (per un anno) del regime di responsabilità amministrativa dei funzionari, che escluderebbe quella per “colpa grave”, limitandola al dolo; per lo più, pare, inteso in senso penalistico.

Questa norma era, per così dire, “nell’aria”, perché confermativa della tendenza a ridurre la responsabilità dei funzionari che connota la prassi legislativa della repubblica: anche se, bisogna dire, altre norme annunciate – tese a limitare gli atteggiamenti omissivi e lentezze procedurali, sono condivisibili e semmai tardive perché avrebbero dovuto essere poste in essere da decenni.

Già agli albori dello “Stato di diritto” nel continente europeo la responsabilità dei funzionari (sia verso i cittadini per i loro atti che dello Stato) era oggetto di dibattito tra posizioni contrastanti. Così ne discutevano già Constant (oltre due secoli orsono) e Tocqueville (a metà dell’ottocento) con argomenti tuttora illuminanti.

Scriveva Constant nei Principes de politique (del 1815) che “Non basta aver stabilito la responsabilità dei ministri; se questa responsabilità non comincia nell’esecutore immediato dell’atto che ne è oggetto, essa non esiste: deve pesare su tutti i gradi della gerarchia costituzionale. Quando non è tracciata una via legale per sottoporre tutti gli agenti all’accusa che essi tutti possono meritare, la vana apparenza della responsabilità non è che una insidia funesta per coloro che saranno tentati di credervi. Se punite soltanto il ministro che dà un ordine illegale e non lo strumento che l’esegue, collocate la riparazione tanto in alto da non poterla spesso conseguire”, all’obiezione che “se gli agenti inferiori possono essere puniti in una circostanza qualsiasi per la loro obbedienza, li si autorizza a giudicare le misure del governo prima di parteciparvi. Per ciò stesso ogni sua azione è impedita. Dove troverà il governo degli agenti se l’obbedienza è pericolosa? in quale impotenza mettete tutti coloro che sono investiti del comando! in quale incertezza gettate tutti coloro che sono incaricati dell’esecuzione!”, il pensatore di Losanna replicava che “Questa obbedienza, quale ci viene esaltata e raccomandata, è, grazie al cielo, del tutto impossibile. Persino nella disciplina militare l’obbedienza passiva ha dei limiti tracciati dalla stessa natura delle cose a dispetto di tutti i sofismi… Un soldato dovrebbe forse, dietro ordine del suo caporale ubriaco, sparare al suo capitano? Egli deve dunque distinguere se il suo caporale è ubriaco o no; deve riflettere che il capitano è un’autorità superiore al caporale. Ecco che al soldato si richiede intelligenza e discernimento”. Per cui “Mai però si potrà far sì che l’uomo possa divenire totalmente estraneo all’esame e fare a meno dell’intelligenza che la natura gli ha dato per guidarsi e di cui nessuna professione può dispensarlo dal fare uso”.

Dato che proponeva, come giudice delle responsabilità, collegi di giurati, sosteneva che ciò non avrebbe incentivato troppo la disobbedienza perché la tendenza naturale dei funzionari “favorita altresì dal loro interesse e dal loro amor proprio, è sempre l’obbedienza. I favori dell’autorità hanno questo prezzo. Essa dispone di tanti mezzi segreti per compensarli degli inconvenienti del loro zelo!”.

Quanto a Tocqueville scriveva che le costituzioni francesi succedutesi dal 1789 avevano tutte confermato di sottrarre l’attività dei funzionari al controllo giudiziario, confermando così quello che, nell’ancien régime era una prassi consolidata “l’articolo parve così ben concepito che abolendo la costituzione di cui faceva parte si ebbe cura di estrarlo dalle rovine e dopo lo si è sempre conservato accuratamente al riparo dalle rivoluzioni. Gli amministratori lo considerano ancora una delle grandi conquiste del 1789, ma in ciò sbagliano ancora, perché sotto la vecchia monarchia, il governo non aveva meno cura nell’evitare ai funzionari il disagio di rispondere al giudice come capita ai semplici cittadini”.

Sono quindi due secoli che lungo la “linea di faglia” che congiunge i principi di forma politica a quelli dello Stato borghese – e che comprende (anche) le garanzie del corretto esercizio della funzione pubblica – si riproduce il dibattito nelle medesime posizioni e quasi sempre, argomenti.

E la ragione è chiara: in ogni forma statale insistono due regolarità potenzialmente confliggenti: il rapporto tra governanti e governati (comando/obbedienza) e quella della classe politica, che Miglio estensivamente denominava aiutantato. In ogni regime politico le due regolarità devono essere tenute in equilibrio: perché nessuna classe dirigente può rinunciare a una certa misura di consenso dei governati e neanche ad un certo tasso d’obbedienza dell’aiutantato.

Sicuramente però eliminare la colpa grave come causa di responsabilità – anche se temporaneamente, ma in Italia spesso il contingente diventa duraturo – appare improponibile. Significa assicurare l’irresponsabilità per ogni errore provocato da negligenza, imperizia, imprudenza grave.

Se fosse applicato nei rapporti privati, renderebbe non sanzionabili le inadempienze più evidenti, compresa l’inadeguatezza a esercitare il ruolo per cui si è retribuiti.

Anche l’obbedienza dell’aiutantato ha un prezzo per l’autorità: ma, l’irresponsabilità per colpa grave è un costo troppo alto da pagare.

Teodoro Klitsche de la Grange

spirali INFERNALI, di Giuseppe Masala

DECLIVIO

Fa davvero impressione leggere il rapporto demografico dell’Istat uscito oggi. Le nascite nel solo 2019 sono diminuite del 4,5% rispetto al 2018 e in cinque anni i residenti sono diminuiti di 550mila a livello nazionale, che significa aver perso, azzerato, in cinque anni una città come Bologna. Interessante anche ciò che emerge dai flussi migratori: i cittadini stranieri che arrivano in Italia sono diminuiti dell’8,5% circa mentre gli italiani andati all’estero sono aumentati dell’8,1%. Se ne deduce che la popolazione oltre a diminuire sempre più invecchia. Difficile ipotizzare una crescita economica in un paese che invecchia, uguale discorso per l’aumento della produttività che non può esserci senza giovani e tantomeno senza giovani istruiti. Questi sono i risultati delle politiche suicidiarie che stiamo portando avanti da decenni nel nome del “Sogno Europeo”, sisi, il sogno. Poca istruzione, poco lavoro, paghe da fame, servizi scadenti. Ma troppa gente ancora non lo capisce. E ancora è nulla rispetto a quello che vedremo dopo la pandemia e la crisi economica che ne sta conseguendo. Questi dati peggioreranno e di molto se non succede qualcosa che risolva la situazione.

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PATETICO
Ormai Conte fa pure pena in questo suo giro da questuante nelle capitali del nord. Prima gli schiaffi da Rutte, ora le sberle dalla Merkel. Vi prego, non fatelo andare in Svezia, Finlandia e Danimarca. Non ce la meritiamo questa cosa, siamo una nazione che ha fatto la Storia.
ATTESA PREAGONICA
Ma la notizia più importante è che gli incontri di oggi dello spagnolo Sanchez con l’olandese Rutte e di Conte con la Merkel attestano inoppugnabilmente che da parte dei paesi del Nord non vi è alcun interesse a salvare l’Euro. Continuano a pretendere riforme in cambio di pochi spicci, per altro nel caso dell’Italia si tratta (se si sommano ai RF anche i fondi ordinari del bilancio 2021-2028) di danaro in perdita; nel senso che è più quello che daremo di quello che riceveremo. In sostanza dobbiamo pagarli per farci saccheggiare. Ci trattano da paese sconfitto in una guerra. Oppure se non ci sta bene spetterebbe a noi prenderci la responsabilità politica di un uscita dall’Euro (che la nostra classe politica totalmente compromessa non prende manco in considerazione). Questo ci dicono. Ma vi rendete conto che nella migliore delle ipotesi i primi soldi inizieranno ad arrivare nell’autunno 2021? Ovvero a danno economico e sociale abbondantemente realizzato irreversibilmente. Ma di che parliamo?
GUERRA GUERREGGIATA

Dimenticavo, oggi la Frankfurter Allgemeine Zeitung dice che questa settimana il Prestigioso Zentrum für Europäische Wirtschaftsforschung (Zew) di Mannheim pubblicherà uno studio dal titolo “Sliding down the slippery slope”, scivolare giù per il pendio scosceso. Dove si spiega che a scivolare nel pendio è la politica monetaria della Bce che si trasforma a furia di operazioni di quantitative easing in politica fiscale di sostegno agli stati. Bene, a Karlsruhe sono certo che prenderanno buona nota nel caso in cui i vincitori della causa saranno costretti a chiedere “giudizio di ottemperanza” della sentenza del 5 Maggio. Molti non lo sanno ma la partita è aperta.

Noto che l’interesse verso la sentenza di Karlsruhe del 5 Maggio è, qui in Italia, velocemente scemato. Mi permetto di dire che è un grave errore. Tutto, secondo molti, sarebbe finito a tarallucci e vino dopo il voto di del Bundestag che avrebbe approvato le politiche della Bce. Gli economisti a riprova del fatto che non succederà nulla sventolano dei grafichetti che descrivono l’andamento del cambio tra Euro e Dollaro che dimostrerebbe essendo stabile che non succederà nulla. Mi spiace, non è così. Innanzitutto bisogna che gli economisti imparino che i mercati finanziari non si muovono più da anni sulla scorta di valutazioni di natura economica; i movimenti sono fatti con degli algoritmi di Trading ad Alta Frequenza che operano sulla base di istruzioni preordinate (se il prezzo supera X compra, se scende ad Y vendi e cose di questo genere, pura analisi tecnica). I mercati finanziari sono mere fabbriche di danaro sintetico, nulla di più. Quando avviene qualche fatto nel mondo umano non ignorabile, semplicemente le macchinette vengono spente e “a mano” gli operatori vendono e comprano. Un esempio ne abbiamo avuto con la Brexit. Fino al giorno prima i mercati finanziari agivano sulla scorta degli algoritmi ignorando il reale (tanto tutti erano convinti che avrebbe vinto il remain); un minuto dopo la notizia della vittoria del fronte Brexit è cascato giù il mondo. Ecco, sarebbe bene che anche gli economisti – buoni ultimi, come al solito – imparassero queste cose e la smettessero di trarre responso dall’andamento dei mercati che tanto questa pratica vale ne più e ne meno di quella romana di sbudellare i tori e da essi far divinar responso agli Aruspici.

Ecco, detto questo, aggiungo che in questi giorni non è che di cose non ne siano avvenute.

C’è stato certamente il voto del Bundestag che in una mattinata ha votato una mozione sulla proporzionalità della politica monetaria della Bce. Peccato che Karlsruhe chiedesse al Bundestag di valutare se la politica monetaria Bce fosse Ultra Vires che è un’altra cosa. Un modo pilatesco per lavarsene le mani. Peraltro nella mozione si sottolinea come la Bundesbank sia indipendente, che è un modo come un altro per dire “la responsabilità se la prenda Weidmann”.

C’è stata inoltre una potentissima offensiva del Ministero degli Esteri tedesco con è riuscita a rompere il fronte dei paesi che nella Bce sostenevano la Lagarde. Così io leggo l’elezione dell’irlandese alla guida dell’Eurogruppo e avvenuta con i voti dei paesi frugali (e di qualcuno che con sprezzo dell’aritmetica continua a negare il suo voto, vedi Germania). Se questo basti per soddisfare Weidmann e la Corte di Karlsruhe non lo sappiamo.

Prossimi passi sono la riunione del Board della Bce del 16 Luglio, vedremo se Weidmann parla e cosa dice. Idem vale per la Lagarde. Dopo ci sarà il fatidico 5 Agosto giorno della deadline posto dalla Corte per l’uscita della Bundesbank. Se Weidmann non uscirà finirà la storia? Assolutamente no. A quel punto i vincitori della causa potranno chiedere alla Corte di Karlsruhe “giudizio di ottemperanza”. Ma ci sarà modo di parlarne. Il destino dell’Euro è e rimane appeso a un filo.

IL PARTITO DELLA NAZIONE

Mi spiace per chi in privato mi accusa “di avercela con il Nord”. Non è assolutamente vero, ma bisogna ripartire da una presa di coscienza: il progetto europoide, in Italia è stato un progetto essenzialmente a trazione Nord, così come è proveniente dal Nord tutta la classe dirigente che follemente lo ha realizzato. Ora questo progetto è naufragato, tragicamente naufragato e il Nord stesso ha davanti a sé anni terribili. Cari amici, ma davvero pensate di ripartire e superare una catastrofe epocale con due spicci sottratti al Sud? Davvero credete di riprendervi con il Mes, il Recovery Fund e insistendo su un Europa che non esiste ne mai è esistita? Davvero pensate che le vetuste gabbie salariali siano una soluzione come credono Quartapelle e Sala? Suvvia dai. Qui è necessario rifondare l’Italia. Trovare una soluzione strategica complessiva e riprenderci quello che è nostro. Non c’è altra strada, altrimenti sarà miseria e schiavitù per tutti.

Ormai il PD si propone apertis verbis come “Sindacato del Nord” ovvero tenta di fare quello che per trenta anni ha fatto la Lega di Bossi: sottrarre risorse al Sud per riversarle al Nord e sostenerne così la crescita. Alla proposta di Quartapelle e del sindaco di Milano Sala andrebbe aggiunta – per completare il quadro – anche quella del Presidente dell’Emilia-Romagna Bonaccini che è molto semplice nella sua brutalità: le risorse per la ripartenza siano dirottate in buona parte se non integralmente “al Nord produttivo” e “il Sud aspetti” (ha detto proprio così, aspetti). A questi luminari rispondo che forse non è la risposta corretta quella di demolire (la peraltro già esangue) domanda eggregata del Sud per sostenere quella del Nord. Anche perchè in un contesto produttivo vergognosamente sbilanciato a favore delle regioni del Nord deprimere un mercato di sbocco della produzione del Nord significa semplicemente che ciò che guadagnerebbe il settore pubblico del Nord sarebbe pagato dal settore privato del Nord che “fatturerebbe” di meno. Quindi alla meglio questa operazione dal punto di vista economico si tradurrebbe in un gioco a somma zero per le regioni del Nord stesso. Non parliamo poi dell’aspetto politico ed etico di una simile proposta, non vale la pena. Non vale la pena alimentare una guerra tra regioni povere e regioni in via di impoverimento (sì, questa crisi colpirà in maniera molto più forte il Nord per chi non l’ha capita, trasformando quelle regioni in una Romania post comunista nel giro di qualche anno). Servirebbe altro, e io credo servirebbe soprattutto una presa di coscienza da parte delle popolazioni del Nord. Il progetto strategico della Seconda Repubblica che si è sostanziato nel saccheggio e nella colossale deindustrializzazione del Sud Italia per tenere agganciato il Nord Italia al motore produttivo europeo è tragicamente fallito. Al Sud non ci sono le risorse per sostenere niente e nessuno: le banche del Sud sono già state acquistate dalle banche del Nord, quindi il risparmio dei frugali meridionali (gli olandesi ci fanno una pippa a quattro mani) viene già usato per sostenere il sistema produttivo del Nord, lavori pubblici qui non si fanno da trenta anni (al Sud non c’è corruzione perchè manca la materia del contendere, la Svizzera a noi ci fa un baffo) quindi non c’è nulla da dirottare, le Università e la Sanità sono già state svuotate (noi facciamo il turismo sanitario ). Ora volete i due spicci dei dipendenti pubblici? Prendeteveli, buon pro’ vi faccia, se volete credere che bastino per recuperare, auguri.

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Due importanti traduzioni dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung. La prima è un articolo del parlamentare europeo tedesco Simon Sven (che peraltro è anche un giurista) sull’altro tema rilevante della sentenza del 5 Maggio di Karlsruhe, ovvero il conflitto tra Corte di Giustizia Europea e Corte di Karlsruhe. La seconda è invece relativa alla pretesa dell’Olanda e dei paesi frugali di avere il veto sui Recovery Fund (e infatti la Merkel vuole togliere la competenza alla Commissione per darla al Consiglio). Ecco, per chi vuole informarsi veramente, chi non vuole capire invece può continuare a leggere gli imperdibili pezzi de La Repubblica e del Corriere. Poracci.

https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-prof_simon_sve…/…/…

https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-faz__i_paesi_b…/…/…

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