Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, II_di Alessandro Visalli

“Critica della Critica – il postmodernismo”

Questa è la seconda puntata di tre della lettura del libro di Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, uscito per l’editore Meltemi nel 2020.

  • Nella prima parte è stato trattato il processo di costruzione delle invarianti della ragione liberale e dei suoi caratteri tipici per come emergono dal testo in esame,
  •     In questa seconda parte proveremo a ricostruire la lettura che il libro compie dei “Regimi di ragione” che scaturiscono dalla struttura liberale e neoliberale di pensiero e pratica, quindi della ragione postmodernista,
  • Nella terza parte, i “Regimi di verità” della ragione liberale verranno mostrati nelle loro applicazioni politiche, ovvero nella particolare forma di politico impolitico che è generato dalla ferrea logica liberale (tanto più forte quando non si vede e ci si pensa avversari).

 

 

Venendo alle tendenze ideologiche che strutturano dall’interno il fenomeno neoliberale e cioè a quelle che Zhok chiama i “Regimi” della ragione liberale, ovvero i “Regimi di libertà” o “Regimi di ragione”, si può provare a dire in questo modo: si tratta di un sistema di motivazione o di giustificazioni, ma capaci di dare forma a pratiche sociali reali. Non si tratta meramente di sovrastrutture. Il liberalismo è, in altre parole, profondamente interconnesso con la linea di sviluppo emersa nel lungo periodo anche nel mutare delle condizioni economiche e di quelli che il marxismo chiama “modi di produzione” (‘schiavista’, ‘feudale’, ‘mercatista’, ‘capitalista’). Il testo dice, confermando la propria ambizione, che “affonda le proprie radici in tendenze storiche di lungo periodo”. Frase di enorme portata, a ben vedere, perché nella sua potente metafora naturalista (“radici” e “tendenze”, che rinviano nella loro associazione all’immagine di un seme dal quale scaturisce un albero) sembra confermare un destino. Inoltre, un destino dell’occidente (in quanto, come abbiamo visto, la ‘radice’ più profonda è posta nel linguaggio scritto). Anzi, nella struttura più intima di questo, la forma di scrittura alfabetica come “base di consolidamento dei tratti individuali nei soggetti umani”. La ‘nascita dell’individualismo’ sarebbe dunque una “specificità inizialmente europea” come scrive, e, da questa, scaturirebbe la forma della logica che determina il sorgere di alcune specifiche tradizioni letterarie come la filosofia, la storia, il diritto[1]. Delimiterei questa affermazione, che suona troppo larga, negli scopi del testo e dentro la decisione che lo apre e situa: individuare la linea evolutiva della nostra forma, per come si è materialmente data (ovvero quella che porta al liberalesimo). Bisogna intendersi, l’operazione è di enorme difficoltà, da una parte notare con che cosa si sia fatti è, a rigore, un’operazione impossibile. Siamo sempre dentro la nostra lingua, senza la quale non possiamo pensare, e siamo nell’abitare dei suoi concetti chiave, come, appunto “libertà”, “essere”, “trascendenza”, “immanenza”, “dio”, etc.  (ma possiamo parlarne, e aumentarne la comprensione). Dall’altra, l’idea guida secondo la quale ‘la chiave della fisiologia della scimmia è nell’uomo’, che pare implicata qui, presupporrebbe ciò che vuole dimostrare. Si appoggerebbe, cioè, su una sorta di ‘filosofia della storia’ determinista. Sarebbe, con ciò, pacificamente dimostrato che l’individualismo, che esita nella società moderna per effetto delle componenti che Zhok correttamente mette in mostra, sia presente già nella ‘scimmia’ e da questa si sia sviluppato secondo la sua potenza. Anzi, che capiamo la ‘scimmia’ poiché sappiamo come è fatto ‘l’uomo’. Propongo un’alternativa: ‘l’uomo’ è quel che è rimasto e risultato dalle ‘scimmie’ sopravvissute. Non è tanto la fisiologia della ‘scimmia’ che individuiamo, guardando ‘all’uomo’, quanto i tratti di questa che hanno vinto la lotta della vita. E l’hanno vinta magari per caso, per circostanze fortunate, per la fortuna di un giorno. E’ chiaro che l’alfabetizzazione produce un evidente vantaggio cognitivo, come scrive[2], ma che da ciò derivi la nascita ‘dell’uomo’ (ovvero, della autonomia mentale e della libertà individuale come valore centrale), pur essendo collateralmente relazionato al vantaggio citato, deriva dall’inibizione delle alternative che in altri luoghi hanno prevalso. Non è solo nella linea genealogica Grecia-Roma-Rinascimento-Europa moderna che il ceppo indoeuropeo del linguaggio si è propagato.

Prendiamo l’impresa tecnico-scientifica. Nel libro di Andrea è presente una sintetica[3] caratterizzazione della logica scientifica come componente essenziale della “grande convergenza”. In essa la ‘tecnoscienza’ è interpretata come la mira ad una forma di dominio causale (e quindi tecnico) sui processi naturali. Desiderio che si afferma a partire dal XVI secolo e induce una sempre più pronunciata svolta quantitativa ed un vasto processo di ‘razionalizzazione’. Facendo uso della lettura epocale di Koyré e di un testo recente collettaneo[4], individua nell’analiticità, nella manipolazione causale, la matematizzazione, l’obiettivismo (presenti già in Galileo), che nel loro insieme invertono la visione del mondo, lo snodo decisivo di questa svolta. Di qui si può assumere, nel mentre procede un colossale processo storico di secolarizzazione, e quindi di trasferimento della funzione socio-integrativa e di potere della religione, che la “natura” sia dotata di “leggi” le quali non sono presenti ai sensi, ma necessitano di un linguaggio (matematico) per essere comprese. Questa mossa attiva un trasferimento di autorità del quale la ragione liberale è perfetta espressione. Ma il sorgere, o meglio l’affermarsi, proprio in quel secolo e torno di paesi, dell’impresa scientifica è interconnesso strettamente con l’affermazione di una interconnessione tra produzione, scambi commerciali in estensione e correlato sviluppo finanziario che vede il dinamismo di nuovi ceti e lo spostamento progressivo del centro dinamizzante del nascente capitalismo internazionale dal Mediterraneo al Nord Europa. Non è per caso che il primo sviluppo della tecnoscienza sia intensamente presente in Italia, mentre un paio di generazioni dopo si sposti in Inghilterra e Paesi Bassi[5]. Anche qui la ‘scimmia’ che vince fa ‘l’uomo’.

Quel che conta è, alla fine, che di ciò stiamo parlando. Non del fatto che l’individuo altri non lo possano pensare, che non sia possibile storia, filosofia, letteratura, etc… Ma, qui, in questo testo, ci chiediamo noi come lo pensiamo. Tanto basta.

La ragione liberale è dunque connessa in primo luogo a forme di obiettivismo naturalistico, le quali sono da valutare insieme all’ascesa della tecnica e dei processi di ipostasi del mezzo. Nella riflessione filosofica del 900, ad esempio, ha rivestito un ruolo importante questa interpretazione dello sviluppo storico nel quale trova un punto centrale la questione della tecnica o della tecnologia. Interpretata come una sorta di ‘fattore destinale’, una sorta di fatto storico che definisce le forme di sviluppo ancorandole alla ‘volontà di potenza’ della specie umana. Questa interpretazione di grande successo si ritrova da una parte nella “Dialettica dell’illuminismo” di Adorno e Horkheimer, ma soprattutto è rintracciabile nel lavoro di Martin Heidegger e degli autori ispirati a lui, come Herbert Marcuse, Gunter Anders ed Emanuele Severino. Naturalmente l’elenco si può allungare a dismisura, questo è quello proposto a titolo di esempio nel testo. Questa interpretazione di grande successo non viene costruita per caso. Correttamente Zhok ricorda che se si assume questa prospettiva il capitalismo e tutti i suoi processi degenerativi, di tipo sociale e culturale, diventano solo un ‘effetto collaterale’, tutto sommato marginale, di un processo più profondo e molto più lungo nel tempo e lo spazio di progressiva dominazione tecnologica. Questo processo, che ad essere completamente esteso parte con le prime schegge e lance neolitiche e dunque avvolge la specie come tale, sarebbe ricostruito con straordinario abuso di proiezione come assoggettamento della volontà di dominio da parte del soggetto. Con questa ermeneutica novecentesca ‘la tecnica’ viene posta al centro della vicenda storica. Ne consegue quello che era probabilmente uno degli obiettivi politici sin dall’avvio (questi pensieri, all’origine sedimentati nei circoli della ‘rivoluzione conservatrice’ tedeschi[6], neutralizzano frontalmente la prospettiva marxiana). L’economia, per essa l’economia politica, e la società stessa sono poste in posizioni dipendenti da accessorie. Quest’interpretazione conduce per sua necessaria dinamica a spiacevoli implicazioni fataliste che, dal punto di vista sostenuto in questo libro, hanno anche seri limiti di analisi. La tecnica sembra, infatti, l’incarnazione principale di un impulso umano dominante, nominato come “volontà di potenza”, rispetto al quale ogni valore ogni preferenza e inclinazione devono necessariamente venire meno. L’unico motore dell’uomo è quindi la volontà di potenza, ovvero l’acquisizione di una capacità di fare non subordinata a nessun fine che non sia ad essa immanente, da perseguire e non vincolata dall’esterno. Se si segue questa interpretazione la pulsione all’acquisizione del dominio sarebbe propria dell’uomo (dove in alcune versioni femministe ‘uomo’ significa ‘esemplare maschio della specie’), e si incarnerebbe necessariamente nel sistema della tecnoscienza moderna. Ovvero nella grande macchina la quale, a sua volta, farebbe scaturire come prodotto necessario le forme dell’economia capitalistica.

Ma questa lettura è ben lontana da essere ovvia e necessaria. In essa si assumono sin dall’origine le forme dell’uomo hobbesiano: aggressivo, assoggettante, acquisitivo. Una forma di uomo che non è certo sovrastorica.

Se non per il dominio egemonico del pensiero liberale, nel senso situato ed al contempo esteso difeso in questo libro, non si capirebbe per quale motivo tra le diverse ragioni, le diverse pulsioni, i diversi desideri e tra le forme di vincolo ed ordinamento presenti nell’uomo, tra tutte le spinte di tipo gregario affettivo riproduttivo e religioso, proprio la volontà di potenza debba assumere un profilo così dominante e assolutizzante. Solo perché lo ha ora?

In effetti questa visione, che corrisponde alla trasformazione del mondo in una collezione di mezzi neutrali e presenta il mondo stesso come una sommatoria di cose, è strettamente connessa al dominio della scienza, e questa al sistema sociale dominante. La scienza mira ad isolare un sistema di relazioni causali determinate e quantitative, selezionate per poter essere calcolate, stagliate sullo sfondo di un mondo dove vigono leggi inderogabili. Questa visione naturalistica e la traduzione ontologica di questo approccio metodologico cosiddetto scientifico è, naturalmente, di grande efficacia. Ma questa visione è anche insostenibile sul piano fenomenologico. Pone una gerarchia vera e propria di autorevolezza, al cui vertice mette ciò che è prodotto secondo i criteri di accreditamento propri delle scienze della natura, e via via più in basso tutte le altre forme di sapere.

Si tratta, in effetti, di non altro che un’altra espressione della “Ragione liberale”, e secondo la tesi di Zhok insieme a tutto il postmodernismo filosofico che, per certi versi, gli si oppone. La stretta associazione tra liberalismo, ovvero capitalismo, e la tecnoscienza è un’opinione condivisa dalla prospettiva cosiddetta postmoderna in filosofia, ma essa stessa è fondata ideologicamente già a partire da Hobbes per poter escludere la contendibilità razionale di valori. Per derazionalizzare sin dall’inizio la dimensione del senso e del valore, riducendole questa volta a mero sentire e ponendolo nell’ambito dell’interiorità privata. Da questo punto in poi nasceranno le opposizioni tra “ragione” e “sentimento” nel quale la ragione viene isolata dalla sensibilità e dall’emozione dalla preferenza e dal valore e si riduce a una forma di calcolo. Simmetricamente la dimensione assiologica residua è ridotta a qualcosa di razionale e spesso in questa mossa riposa un particolare stile orgogliosamente irrazionale.

L’intera linea oppositiva è però funzionale all’edificio della Ragione liberale per il come è stato esaminato. I soggetti individuali vivono la sfera del valore come inattingibile alle ragioni pubbliche e strettamente privata, e ciò produce una società che non può essere niente più che non somma di individui isolati. Come sostiene Zhok:

“fondamentale per lo sviluppo della ragione liberale è leggere il mondo come risolto nel gioco positivo tra obiettivismo naturalista e soggettivismo emotivista, tra durezza della ragione tecno scientifica e mollezza della interiorità sensibile. La ragione liberale non è identificabile con la ragione contro il sentimento, né con la durezza delle hard sciences di contro la mollezza dell’intimismo emotivista, ma proprio con questa opposizione complementare. Tale opposizione astratta, lungi dall’essere onnicomprensiva, delegittima dati fenomenologici primari: essa cancella la continuità tra la sfera del ragionamento e sfera senziente, così come quella tra valore e realtà, e come la continuità fondamentale tra dimensione individuale e dimensione intersoggettiva”[7].

 

La riflessione di matrice analitica si è sviluppata in area anglosassone mentre il postmodernismo filosofico essenzialmente in area francese. Esso ha avuto successo e si è sviluppato nella particolare atmosfera culturale susseguente al maggio ’68. Infatti, solo Michel Foucault aveva già sviluppato i tratti di fondo della sua riflessione a quella data, tutti i maggiori rappresentanti del cosiddetto postmodernismo filosofico nascono nel ‘68. Esso incide quindi in maniera decisiva sulla loro elaborazione e determina la loro ricezione e successo. Come continua l’autore, però, per valutare correttamente il retroterra di questo vasto fenomeno bisogna considerare la figura, già durante i primi anni 60, di Sartre che dava a questo atteggiamento un’impronta soggettivistica, storicistica ma politicamente impegnata. Rispetto alla posizione di Sartre il ‘68 francese determina una cesura, in primo luogo, nei confronti del Partito Comunista Francese (che si dimostrò incapace di cogliere ed orientare i fermenti innovativi presenti nel movimento studentesco), in secondo luogo a seguito del riflusso dello stesso processo di mobilitazione. Ne seguì la disillusione della possibilità stessa di superare il capitalismo attraverso le chiavi interpretative fornite dal marxismo.

Queste condizioni generali storiche forniscono le motivazioni ed il movente per una teorizzazione che nonostante abbia molte caratteristiche diverse conserva un’omogeneità di base. Osservando il lavoro di Foucault, Deleuze, Lyotard, Derrida e Baudrillard il testo di Zhok ricostruisce come il soggettivismo e lo storicismo, che caratterizzavano la posizione sartriana, vennero destrutturati e abbandonati. Ciò che si ottenne, alla fine, fu una profonda destrutturazione e dissoluzione dello stesso soggetto (in primis del “soggetto rivoluzionario”) e una fondamentale sfiducia nel senso storico. L’antiscientismo, portato della ‘critica della tecnica’, nella tradizione avviata da questi studiosi si traduce quindi direttamente nel rigetto completo del razionalismo. Quello che viene meno è il tentativo stesso di descrivere lo sviluppo di ‘forme razionali della storia’ e di sostenere le proprie tesi producendo specifiche pretese di verità, sottoponendole alla discussione. Vengono derubricati tutti i concetti chiave: ‘storia’, ‘soggettività’, ‘verità’, ‘identità’, ‘umanità’, ‘stato’, ‘società’, ‘valore’ e da ultimo quello stesso che li radicava, ‘autenticità’. La dimensione soggettiva, che ovviamente rimane operativa, è reinterpretata come ‘soggettività negativa’, cioè come il rifiuto dell’oggettività, rifiuto dei suoi criteri, rifiuto della stabilità e appello alla relatività radicale. Si tratta, a tutta evidenza, di un segno dei tempi[8].

La forma più chiara di questa postura intellettuale è nell’opera di un filosofo abbastanza atipico, che è visto da Zhok come filologicamente leggero ma di grandissima potenza narrativa. Foucault in effetti ricerca nel suo lavoro ragioni profonde negli eventi storici, poste per così dire dietro gli eventi; ragioni irriducibili alle accidentalità. Sorge però una particolare e inaggirabile contraddizione interna, inerente al concetto di ‘verità’ e di ‘finalità immanente’, entrambi svalutati esplicitamente dalle sue opere teoriche ma utilizzati necessariamente nelle narrazioni storiche. Che, altrimenti, andrebbero interpretate come letteratura ed esercizi di stile (molto ben riusciti). È piuttosto curioso che sia possibile produrre, infatti, genealogie storiche con pretese di verità se si dichiara non esistere alcuna finalità immanente nella storia, o qualunque unità di coscienza che la possa individuare, a partire dall’idea stessa di umanità. In sostanza ogni giudizio, e quindi gli stessi giudizi espressi implicitamente ed esplicitamente dall’autore, non potrebbe che rappresentarsi come semplice esito di rapporti di potere. L’esercizio di potere esso stesso non sarebbe buono o cattivo, perché non c’è alcuna verità morale ed alcun senso umano cui questo giudizio possa appellarsi. Né esiste una collettività che lo fondi, perché questa, a sua volta, è solo un prodotto dell’esercizio narrativo stesso. Un effetto del suo “effetto di verità”. Ogni esercizio di potere, dunque, ogni categorizzazione che vi prelude sono ingiustificabili, legittimati in sostanza solo da ciò che eventualmente emerge. La propensione di fondo motivante l’azione di Foucault, persino sul piano biografico, è quindi spinta abbastanza naturalmente verso la rilegittimazione o l’emancipazione di tutte le forme di soggettività tradizionalmente emarginate, come il folle carcerato il pervertito. Se nessun potere si legittima per la maggiore razionalità, l’aderenza a valori, un qualche fondamento sociale dato e preesistente, allora nello scontro delle ‘volontà di potenza’, tutto sommato, non resta che dire che i marginali, i pochi e gli sconfitti hanno un vantaggio di legittimazione. O, almeno, lo possono pretendere più di altri. Al contempo non c’è in Foucault la possibilità di richiamarsi ad alcuna soggettività autentica, e questo sostanzialmente fornisce alle rivendicazioni solo il bersaglio negativo residuale di avversare il potere o le stesse categorizzazioni, ma non lascia nessuna aspirazione positiva.

Questo sforzo è, in altre parole, interamente volto alla distruzione ed ha, per Zhok, un carattere autenticamente critico, ma viene ulteriormente potenziato e portato a livelli ancora più radicali dai successori, a partire da Gilles Deleuze. Deleuze è contemporaneo di Foucault, ma gli sopravvive a lungo. Tuttavia, la sua produzione è tutta successiva al ‘68 ed è sviluppata in collaborazione con Felix Guattari. Per Deleuze l’ontologia non deve più occuparsi d’identità, ma solo di differenze, non deve più puntare a scoprire, ma a inventare. La filosofia è quindi l’arte di formare e di inventare, o di fabbricare, concetti. Per lui “la filosofia non consiste nel sapere, non c’è una verità che la ispiri; Ci sono piuttosto delle categorie come quella di interessante, di notevole o di importante, che decidono della riuscita dello scacco, non prima però di aver costruito”. Questa base che fondamentalmente sembra utile a un esercizio di finzione letteraria, più che per un’indagine filosofica, lo pone al tipo opposto dello stile analitico, evitando anche il confronto argomentativo. Le tesi di Deleuze colpiscono l’unitarietà del soggetto umano, la persona che viene disassemblata in gesti, parole, relazioni. Si determina una sorta di ‘filosofia della differenza’ che predilige il divenire all’essere, il suggerire al dire, la fluidità alla stasi, il nomadismo alla stanzialità.

Stranamente questa impostazione radicalmente fluidificante e piuttosto evidentemente connessa con lo spirito del capitalismo ad essa coeva, per non parlare della lotta ideologica ed imperialista tra i sistemi mondo, è immaginata dall’autore come antiliberale. L’antiliberalismo, immaginato e preteso da Deleuze, parte dall’idea per cui il liberalismo sarebbe in effetti una teoria politica che assume come fondamento l’esistenza di individui razionali, con una propria agenda di interessi e rappresentati da un governo. Secondo questa interpretazione la mossa di minare, danneggiare o distruggere la soggettività unitaria degli individui, la loro razionalità e poi tutte le realtà strutturali distrugge il liberalismo stesso. Ma in realtà, secondo la linea la ricostruzione genealogica prodotta in questo testo, Deleuze non fa con ciò che aderire a uno dei due poli dell’oscillazione liberale. Non fa altro che occupare, cioè, la casella opposta e complementare al razionalismo economico, interpretando le pulsioni anarcoidi ed individualiste di cui si nutre costantemente il sistema di mercato. In concreto, come dice Zhok “il principale contributo delle suggestioni deleuziane sul piano politico è quello di disarmare qualunque opposizione reale allo status quo capitalista, consegnando ogni ‘protesta’ ad una dimensione di ‘trasgressività’ privata, perfettamente compatibile con i più ordinari funzionamenti del capitale”[9].

 

Invece Lyotard pone sotto attacco quelle che chiama “le metanarrazioni”, ovvero tutti i tentativi di giustificazione e di fondazione del ‘sapere’, del ‘vero’ del ‘giusto’ (la prima “metanarrazione” è il marxismo, ovviamente). Concepisce la postmodernità come “guerra alla totalità” (ad Hegel). Anche qui ciò implica un appello alle ‘differenze’. Non esiste per Lyotard nessun modello autentico o più autentico di società da perseguire, compreso il modello che miri semplicemente alla autodeterminazione democratica. Quello che resta al centro della dimensione politica è lo scontro tra “generi di discorso” o tra “giochi linguistici” reciprocamente incompatibili. La nozione è ripresa da Wittgenstein, ma mutilandola del riferimento alle “forme di vita”, riconducendoli quindi a formulazioni verbali individuali. Se non c’è la società, e neppure il soggetto, restano forme di sfere autoreferenziali autistiche, senza vie di uscita razionali. Resta la minaccia del dissidio, dove per dissidio si intende la prevaricazione dell’uno sull’altro, o l’espressione puramente artistica, la provocazione.

Infine, Derrida che prende le mosse da uno studio della fenomenologia husserliana, ma a partire dal ‘67 prende una particolare strada che lo identificherà come padre del “decostruzionismo”. Al centro della sua riflessione quella forma particolare di segno che è il segno scritto. Partendo da una prospettiva fenomenologica dove “tutto ciò che si manifesta è ciò che è in quanto ha per noi un significato”, ogni manifestazione presente diventa per lui portatrice del suo significato in quanto rimando al non presente. Cioè in quanto rimando a un altro da sé, ad una traccia. Ma questa traccia viene concepita come una sorta di scrittura, che chiama archi- scrittura. Il richiamo alla scrittura essenziale, in quanto segno, rinvia alla negazione frontale di ciò che il più fondamentale degli aspetti della fenomenologia husserliana cioè l’identificazione di diversi livelli di Fondazione. Se si fa venir meno la gerarchia tra la percezione, il ricordo, la fantasia, la gerarchia dei segni, quella dei significati, quella delle evidenze, non c’è più alcun modo di distinguere un ‘significato’ da una ‘verità’. Una volta impostato il funzionamento dei significati in questo modo resta un panorama di un sistema di segni in perenne infinito rinvio, gli uni agli altri, ed ogni cosa diventa leggibile come un testo. Un testo che, però, rinvia solo ad altri testi. L’analisi filosofica diventa così un’indagine intra testuale senza meta e senza finalità. Secondo il punto di vista di Zhok l’opera di Derrida dopo il ‘67 non è interpretabile facilmente come filosofica, se si pensa che la filosofia ha qualche necessario riferimento alla conoscenza (e che la conoscenza rinvia necessariamente a qualche forma di verità). Si tratta, piuttosto, di un’attività intellettuale brillante ed affascinante, configurata come una serie di esercizi che rimangono all’interno del gioco semantico dell’analisi testuale, nel quale diversi concetti estratti dai testi vengono esposti nei loro contrasti e ne viene mostrata la natura relazionale. Un’opera acuta, utile per riflettere su assonanze, sulle associazioni, talvolta sull’origine tipologiche o con fini definitori, ma del tutto inadeguata “a trarre la benché minima conclusione di valore operativo”[10]. A volte Derrida si occupa di autori di peso politico come Marx[11] o di tematiche politiche come la democrazia e la sovranità, ma senza argomentazioni capaci di indirizzare un agente nel contesto di scelte concrete politiche o etiche. In questo senso l’operazione complessiva appare nichilistica.

 

Naturalmente per Zhok quello che conta non è tanto tentare di confutare autori che, per loro stessa natura e per il modo in cui sono costruiti i loro testi, si sottraggono alla possibilità di essere confutati, in quanto non mettono a disposizione delle tesi e non individuano specifiche pretese di verità argomentata, quanto comprenderne l’impatto etico politico in relazione agli sviluppi della “ragione liberale”. Questi autori sono sostanzialmente accettabili o rigettabili in blocco. A seconda se si condivide il loro spirito antiautoritario e la vocazione ribelle, tendenzialmente aristocratica.

In definitiva secondo il punto di vista di questo testo la riflessione del postmodernismo francese si colloca, ma del tutto inconsapevolmente, all’interno di uno dei due poli definitori della “Ragione liberale”, perché mentre rigetta l’obiettivismo e il razionalismo scientista, che ne è una forma, ricade nel polo complementare del soggettivismo antirazionalistico. Pur se gli autori postmoderni si concepiscono come politici e come militanti anticapitalistici (e sono impegnati nel riconoscimento dell’inadeguatezza del Partito Comunista Francese) giungono alla diagnosi di obsolescenza della intera lezione marxiana, finendo per leggere il capitalismo come un blocco istituzionale complessivo. Identificano la società borghese, lo Stato, i partiti e i sindacati come un’unica struttura unitaria da contestare nel suo insieme. Ogni ricerca dell’efficienza, della razionalità mezzi fini, della verità, sono percepiti come parte di un ordinamento oppressivo da contestare. Le stesse istanze di insofferenza individuale, espresse dalla loro provenienza di classe e dalla tensione di forze borghesi che si sentono escluse dall’accesso al loro ruolo sono trasfigurate come potenza emancipativa. L’intero spettro delle loro aspettative teoriche e politiche è spostato in direzione di un ribellismo soggettivista, che crede di fare qualcosa di politicamente progressivo nell’assumere atteggiamenti relativistici ed antirazionalisti. Questo carattere si traduce in pratica in una fuga da tutte le pretese di spiegazioni, da tutte le teorie di insieme da tutte quelle che chiamano le “grandi narrazioni”. Si traduce nel richiamo al pluralismo politico ed epistemico, che però diventa immediatamente soggettivismo individualista, impermeabile alle esigenze di ogni consenso razionale, ed impermeabile a ogni e qualsiasi teoria generale.

Questa tendenza centrifuga è, a ben vedere, una perfetta incarnazione dell’individualismo liberale classico ed è perfettamente metabolizzabile, e molto facilmente dal clima neoliberale incipiente nel quale si svolge la scena. Ciò anche a causa del capitale sociale di cui dispone la maggior parte degli autori, per provenienza di classe e dinamiche di mercato. Questo rifiuto antiautoritario, cioè il rifiuto di ogni pretesa di verità strutturata, di ogni pretesa universale, si ripercuote sul piano politico, anche al di là delle intenzioni, in un’operazione che disarma completamente la critica teorica. E lascia come solo spazio i meccanismi auto riproducenti del mercato. In sostanza è un’operazione che si pensa come anti-oppressiva, che si immagina come anticapitalistica, e finisce per infiacchire ogni possibilità di contestazione razionale e, dunque, finisce per favorire il potere inerziale dello status quo. Questa parabola siamo in grado di vederla davanti ai nostri occhi proprio ora che essa si è conclusa.

 

Tutte le analisi apparentemente radicali rivolte ad opzioni marginali, alla ricerca di differenze, al gioco delle frasi, alla decostruzione dei significati, si configurano, alla fine, come un’operazione in grande stile di sterilizzazione e privatizzazione del pensiero. Non consentono di trarre alcuna conclusione fondata che sia intersoggettivamente condivisa sul mondo reale e ostacolano ogni accordo rivolta a favorire una qualsiasi iniziativa collettiva. In sostanza si tratta “di una grande operazione di chiusura nel privato, travestita da razionalità filosofica[12] .

Apparentemente emerge, soprattutto con lo sguardo dell’oggi, un paradosso: “nell’intento di liberare l’individuo dall’oppressione del potere, delle istituzioni, dello Stato, della società, del capitale, del partito, del razionalismo e della tecnoscienza, questa tendenza culturale ha portato a una completa soggezione e dissoluzione dell’individuo stesso che pensava di liberare”. Nel momento in cui non si può più parlare infatti di autore, di agente razionale, e non si può più parlare neppure di umanità o di natura umana, allora viene a cadere e si dissolve la possibilità stessa di porre la questione circa forme di vita autentiche o inautentiche. Ovvero viene a cadere la possibilità di definire qualcosa come sfruttamento, alienazione, perché non esiste autenticità o alienazione se non il rapporto ad un’essenza umana. In linea di principio la rivendicazione della grande società multinazionale, o del suo management, e quella dei suoi lavoratori precari, sovrasfruttati e sottopagati (purché non parte di quale minoranza riconoscibile e vittimizzata) sono da considerare del tutto equivalenti. Si tratta di “narrazioni” in fondate, quella dell’efficienza comparata verso quella dello sfruttamento. Non esiste, e non può esistere, una teoria della natura umana, una rivendicazione di forme di vita appropriate, sulla quale fare leva per denunciare razionalmente le condizioni imposte.

Se si dissolve il soggetto agente con la sua ragione, la sua natura, allora l’intera dimensione storica scompare dal novero dei concetti rilevanti. Non ci sono più criteri per concepire entità storiche sovraindividuali (e quindi gli Stati, i popoli, le classi, l’umanità tutta) che siano mossi da progetti comuni o da valori comuni.

 

Il paradosso è, quindi, che il postmodernismo appare una teorizzazione antiautoritaria e libertaria ma, nel farlo, apre alla svolta neoliberale la quale andava nella stessa direzione (contro lo Stato e i corpi intermedi) e, con essa, anche alle sue compressioni della libertà che oggi vediamo ovunque intorno a noi.

 

Nella Terza Parte, e ultima, vedremo come questa linea genealogica di lunghissimo periodo si traduce, anche sulla scorta del clima postmoderno, in applicazioni politiche, ovvero in un particolarissimo, ed anche qui paradossale, forma di ‘politico impolitico’. Uno stile che è generato dalla ferrea logica liberale (tanto più forte quando non si vede e ci si pensa avversari).

[1] – Qui potrebbero essere rintracciati facilmente alcuni controesempi, ovviamente la filosofia greca ha la sua specificità, ma anche le sue relazioni e debiti con le forme di pensiero antecedenti in regioni nelle quali la scrittura era completamente diversa, come l’Egitto, per dirne uno. O l’oriente medio, nel quale civiltà di grande complessità (e altamente stimate) antecedono di millenni il ‘miracolo greco’. Ma potrebbe essere anche messo in questione la specificità del racconto storico, come proprio dell’occidente. Un esempio di questa diversa interpretazione in Sanjay Subramanyam, “Mondi connessi. La storia oltre l’eurocentrismo (secoli XVI- XVIII)”, Carocci, 2014, ma potrebbe anche essere ricordata la protesta di Amartya Sen, “L’altra India. La tradizione razionalista e scettica alle radici della cultura indiana”, Oscar Mondadori, 2005. O, infine, il lavoro di Francois Jullien sulla filosofia orientale (es. “Trattato sull’efficacia”, Einaudi 1998, ed. or. 1996). Certo, anche il sanscrito in effetti appartiene alle lingue indoeuropee e il mondo arabo, direttamente e dopo per suo tramite quello delle grandi terre di mezzo dei due fiumi, sono talmente intrecciati con la nostra linea evolutiva da poter assumere che il termine posto nel libro sia, in fondo, solo una espressione semplificante. Ma l’antico Egitto, e le lingue dell’estremo oriente, il cinese in specie, non sono affatto del nostro ceppo. Infatti, sono esattamente prese per contrasto (sinteticamente, la tesi è che lingue che si fondano su ideogrammi invece che sulla scrittura fonetica nella quale con pochissimi segni e regole si può creare infiniti nuovi concetti, parole, frasi e testi. Dunque, c’è anche un altro quadro, un’altra filiazione.

[2] – “La mente alfabetizzata si diffonde in quanto consente al soggetto un accesso potenziato all’esperienza, accesso che si converte in una potenziale superiorità cognitiva”. Zhok, p.38

[3] – Alexander Koyré, “Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione”, Einaudi 2000.

[4] – G.Gorham, B.Hill, E.Slowik, C.K.Waters (a cura di), “The language of nature”, London 2016.

[5] – L’analisi dell’impresa scientifica tra 1600 e 1700, prima centrata nel mediterraneo italiano e francese e poi spostata, quale baricentro, al nord, in particolare in Inghilterra, mostra i suoi stretti legami interni con lo sviluppo economico (cosa che non prefigura la direzione causale, ovviamente). Ovvero con lo sviluppo delle classi e degli interessi dell’emergente borghesia commerciale e poi proto-industriale. Laboratori, riviste scientifiche, accademie, sono finanziate da potenti forze private (in Italia) o pubbliche (in Francia). In altre parole, la ricerca scientifica non è affatto, come vorrebbe la retorica dominante, astratta e disinteressata ricerca della “verità”, non è una teologia (anche se in parte lo è, con gli effetti di legittimazione e potere che ne conseguono). La ricerca scientifica è sforzo organizzato di risolvere problemi emergenti e concreti. Nel 1400 e 1500 era stata connessa, in una fase di espansione, con i consumi delle élite: l’astronomia aveva un legame ben rintracciabile con l’arte della astrologia (che durerà fino a Newton); la botanica si connetteva con la farmacologia che offriva i suoi servigi esclusivamente alle classi dominanti, le uniche che potevano pagarne i rimedi; la matematica si sviluppa per gli interessi della contabilità, connessa con l’accumulazione del denaro in mano a banchieri e commerci di lunga percorrenza, in una fase di monetizzazione e finanziarizzazione; a partire dalla “Nova scienza” di Tartaglia (1537) si sviluppa la balistica e poi la cantieristica navale e i connessi problemi di fisica applicata in cui si impegna Galilei. Dalla seconda metà del seicento la scienza mostra la sua efficacia concreta in campi di interesse degli Stati nazione in via di consolidamento e della borghesia commerciale, impegnata ad estendere le rotte e porre le premesse per il dominio coloniale del mondo. Navigazione, costruzione di navi, artiglieria; orologeria, e di qui meccanica, studi sulla velocità della luce per determinare la longitudine in mare aperto, navigazione a vela e calcolo vettoriale, fluidodinamica per rimodellare gli scafi, le analisi di Eulero sulla meccanica dei corpi rigidi per risolvere il problema del beccheggio delle navi, cannocchiale e telescopio, la “aritmetica politica” (ovvero la statistica matematica), sviluppata per le crescenti esigenze di controllo degli Stati e la cartografia… Si veda, ad esempio, Lucio Russo, E. Santoni, “Ingegni minuti. Una storia della scienza in Italia”, Feltrinelli 2010.

[6] – Indubbiamente un così vasto movimento di pensiero ha provenienze molteplici e profondamente radicate, si può fare a lungo l’esercizio di trovarne diramazioni nazionali (es. francesi) o antecedenti. Gli stessi padri della sociologia lo sono in certo senso (in primis Sombart e Max Weber). Alcune di queste relazioni possono essere rintracciate in un contesto di risposta e reazione alla sfida marxiana, e del movimento che ne scaturisce. Anzi, alla doppia sfida del liberalismo politico e del marxismo. Quindi alla concezione lineare della storia, alla critica della Zivilisation, del progresso ed all’americanismo in alcuni esponenti. Gli scritti di Spengler, ad esempio, sulla tecnica ed ovviamente Carl Schmitt ed Ernst Junger.

[7] – Zhok, p.236.

[8] – Il particolare clima nel quale avvengono queste avventure di pensiero è posto al termine di un ventennio di espansione economica e di trasformazione della società uscita dalla seconda guerra. Un ventennio nel quale l’Europa recupera una posizione economica salda, sviluppando enormemente la propria industria che comincia a competere con quella americana, ma, al contempo, subendo la crescita dei settori intermedi che spingono per avere una risposta all’altezza delle proprie ambizioni. L’influenza delle lotte anticoloniali, da una parte, e delle rivendicazioni delle minoranze di colore nelle periferie (non solo americane), dall’altra, nel contesto di una forte lotta redistributiva, ma anche in qualche frangia radicalizzata, del comunismo cubano e delle repressioni sovietiche nell’Est Europeo, creano un particolare clima antiautoritario che si dirige contro ogni espressione di potere. L’insieme delle ambizioni di ceti intermedi scolarizzati (si è anche in un quindicennio di enorme espansione dell’offerta di istruzione superiore) che premono per non ripetere la ‘noiosa’ e lenta esperienza dei padri e madri, delle lotte operaie, delle suggestioni internazionali in un decennio esaltante, si fonde nel rendere dominante, e intuitivamente ‘giusto’, ogni pensiero che si presenti come ‘nuovo e radicale’ e voglia farla finita con le grigie burocrazie, siano esse dell’Est come dell’Ovest.

[9] – Zhok, p. 242

[10] – Zhok, p. 246

[11] – Jacques Derrida, “Spettri di Marx”, Raffaello Cortina Editore, 1994 (ed. or. 1993).

[12] – Zhok, p. 250

Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, I _di Alessandro Visalli

“La costruzione del liberalesimo – Invarianti e variazioni”

 

 

L’importante ed ambizioso libro di Andrea Zhok è uscito nel 2020 per l’editore Meltemi nella collana diretta da Carlo Formenti, “Visioni eretiche”, e di questa collana rappresenta sicuramente una delle pietre miliari. È da lungo tempo che condivido il punto di vista di Andrea e quindi questa lettura che farò, oltre ad essere come sempre influenzata dalle mie idiosincrasie ed orientamenti, ne risentirà. Inoltre, risentirà delle accentuazioni tematiche e delle priorità che reputo (non necessariamente in accordo con l’autore) attuali.

Detto in altre parole, vuole essere, anche qui come sempre, un invito a leggere direttamente il libro e trarne ciò che interessa e non alla sua sostituzione con questo pallido fantasma.

Per la sua complessità ed ampiezza compiremo la lettura di questo testo in tre parti:

  • La prima, questa, tratta del processo di costruzione delle invarianti della ragione liberale e dei suoi caratteri tipici,
  • La seconda, individuerà i “Regimi di ragione” che scaturiscono dalla struttura liberale e neoliberale di pensiero e pratica, quindi della ragione postmodernista,
  • Nella terza parte, i “Regimi di verità” della ragione liberale verranno mostrati nelle loro applicazioni politiche, ovvero nella particolare forma di politico impolitico che è generato dalla ferrea logica liberale (tanto più forte quando non si vede e ci si pensa avversari).

 

Zhok compie un’operazione ambiziosa, come detto, in quanto cerca niente di meno che di comprendere le tendenze di fondo del processo storico nel quale siamo tutti immersi. E lo fa praticando consapevolmente un approccio ricostruttivo che identifica come “filosofia della storia”. Ovvero attribuendo al movimento storico reale un’essenza ricondotta al modello liberal-capitalista che cerca di individuare sul piano della provenienza e delle caratteristiche invarianti. Con le parole di Andrea, intende esaminare il senso del movimento storico come “quel nucleo storico del ‘liberalismo reale’ che ha rappresentato la cellula generativa e il propellente delle maggiori trasformazioni degli ultimi secoli”[1]. Precisamente, “una linea di sviluppo centrale che si è tradotta gradualmente in istituzioni, pratiche sociali, costumi, sistemi economici, manifestando sempre più nettamente il proprio carattere di fondo”. Un carattere che è nominato nel testo come “ragione liberale”.

Due espressioni chiave emergono in questo frammento: “gradualmente” e “sempre più nettamente”. La “ragione liberale”, impegnata in una battaglia mortale con le forme di “ragione” ad essa preesistenti, man mano che vince finisce infatti per eccedere, al fondo distruggendo se stessa come “ragione”. I suoi meccanismi di difesa finiscono per diventare, nel momento in cui si positivizzano, autocontraddittori e mostrano in piena vista il loro carattere ‘negativo’. Questi meccanismi sono: il naturalismo scientifico, il postmodernismo filosofico, il discorso sui ‘diritti umani’, la second-wave femminista, il ‘politicamente corretto’, l’immoralismo postumanistico. Tutte tendenze, è la tesi centrale del libro, che sono “abitate inconsapevolmente dalla ragione liberale”.

Due sono le linee genealogiche che portano alla sedimentazione di questa “ragione” (certo ricostruita con il senno del poi e le urgenze del presente, ovvero politicamente): l’evoluzione del diritto pubblico e dei diritti; la nuova ragione utilitarista e scientifica. Ed uno è il criterio dirimente: il principio di limitazione del governo (cioè la limitazione delle forme di sovranità statuale) senza per questo rifarsi a concetti di giustizia trascendenti, o di verità. Il liberalismo si appoggia piuttosto ad un principio di efficienza immanente, una sorta di iato irrazionale che, in quanto paradossale “regime di verità” finisce per essere una sorte di sotto-prodotto del sistema produttivo che si impone nello stesso arco di tempo. È giusto perché esiste e funziona. Questa teoria è identificata da Zhok come una tendenza, come la trasposizione sistematica delle categorie dell’efficienza economica al campo delle pratiche di governo. Una trasposizione che si autorappresenta come razionalizzazione, ma che è in sostanza vaga e senza fondatori (e coerentizzatori).

Con il senno del poi ne fanno parte (o, meglio, ne costituiscono il profilo):

  • un manifesto individualismo normativo e assiologico,
  • una visione delle relazioni sociali strutturata interamente all’interno dell’idea dello scambio economico. Per dirlo meglio dell’idea che dello scambio economico lo stesso liberalismo ha (e che è molto lontana dalla sostanza di esso[2]).

 

Il primo suppone l’esistenza di diritti soggettivi e concepisce la libertà personale come un’esenzione, ovvero come “non interferenza rispetto a coazioni gerarchiche o condizioni sociali”[3]. Certo, la costituzione degli individui come portatori di autonomia e piena dignità, con una almeno parziale indipendenza dalla comunità di riferimento (nella quale esso, l’individuo, non è completamente immerso ma può concepirsi isolatamente) è un processo che si è dispiegato nella storia dell’occidente, ed è un processo cruciale. Zhok segnala in proposito una sorta di movimento ad onda, la crescita con la cultura greco-romana, la ritirata nel medioevo e poi la riemersione nel rinascimento con continua accelerazione da allora. Essere un individuo significa, in questa tradizione e forma di vita, essere consapevoli di sé come distinti dal mondo circostante, avere introiettato forme dialogiche comuni le quali sedimentano concettualità ed un intero spettro di ragioni socialmente accettabili. Nella ricostruzione prodotta nel libro ciò che fa la differenza, che è questione di gradi, è la scrittura alfabetica (in specie nell’alfabeto greco), che, diversamente dalle scritture logografiche precedenti, o sillabiche, è economica ed enormemente flessibile. Tutto viene infatti costruito a partire da pochissimi segni ed infinite combinazioni. Quindi, mentre la produzione di un nuovo concetto in una scrittura logografica richiede una complessa riforma della lingua ed una nuova convenzione, in una scrittura sillabica esso può emergere dal basso e farsi strada direttamente nell’uso. Tutto ciò amplia enormemente i margini di autonomia:

 

“sul piano dello sviluppo e del riconoscimento dell’individualità cioè, ciò significa che ora la componente di innovazione ed iniziativa individuale acquisisce margini di autonomia straordinari. Anche l’individuo relativamente isolato, relativamente minoritario, può diventare portatore di valore sociale. In certo modo la vicenda della condanna di Socrate appare come l’emblema di questa trasformazione. Socrate, portatore di forme di pensiero innovativo eterodosso, entra in collisione con il senso comune del periodo e con le autorità che lo costituiscono tradizionalmente. Ciò gli costa la condanna come ‘corruttore dei giovani’, condanna che in epoche passate e sarebbe valsa l’oblio, ma che ora, grazie alla scrittura del suo allievo Platone, diviene la mossa inaugurale di una nuova epoca. Socrate, il pensatore che conosce la scrittura, ma che non lascia nulla di scritto, diviene il ‘Santo protettore’ del pensiero critico nei millenni a venire”.[4]

 

Tale condizione ritorna socialmente determinante con l’espansione della forma scritta a stampa. E subisce un ulteriore salto con la riforma protestante. Tuttavia l’individualità, pur promossa dal linguaggio stesso, non può che essere e rimanere strutturalmente intersoggettiva, è una funzione relazionale che dipende dal riconoscimento altrui sia in riferimento alla sua genesi come alla sua persistenza.

 

Il secondo fattore storico è la tecnoscienza. Essa deriva da una svolta che avviene nei secoli del mercantilismo, dell’umanesimo e dello spirito antiautoritario che ne consegue. I quattro snodi sono l’analiticità, la manipolazione causale, la matematizzazione e l’obiettivismo. La natura viene concepita come “cosa”, il mondo reale autentico come matematizzabile e compare l’idea di “legge di natura”.

Infine, un terzo ruolo decisivo lo svolge l’espansione della funzione del denaro come riserva di valore[5], medio di scambio e unità di conto. Di qui il testo si concentra sul mito delle origini del mercato e del denaro stesso, cioè sull’idea che nasca dal baratto senza cornice istituzionale e comunitaria (ovvero senza strutture socialmente determinate e dense di riconoscimento).

 

Tutti questi fattori si addensano tra seicento e settecento, in particolare nella cornice statuale inglese, dove l’individualismo eticamente orientato della riforma protestante, una circolazione monetaria intensa ed i successi crescenti della razionalità tecnico-scientifica (connessi molto più di quanto si pensi con la messa a punto dell’arte della navigazione di lungo corso e con il correlato sviluppo militare) finiscono per portare alla luce, come dice, contemporaneamente la ragione liberale e il correlato operativo dell’economia capitalistica.

 

La lettura della nascita della “ragione liberale” è quindi abbastanza tradizionale. Procede per schematizzazioni delle innovazioni concettuali di eminenti filosofi e studiosi. Thomas Hobbes (1588- 1679) per primo, ovviamente. Per il suo giusnaturalismo la natura non è altro che il luogo delle relazioni meccaniche tra i corpi in moto e il pensiero è calcolo. Ne deriva che la libertà è concepita come assenza di coazioni e la condizione di natura come guerra di tutti contro tutti. Anche il diritto è principalmente la facoltà di seguire le proprie pulsioni e non è sovrapponibile con la nozione di giustizia. La scuola di pensiero che trova una prima sistemazione visibile nel lavoro del grande filosofo seicentesco inglese è “polimorfa”, si nutre di una discrasia che non risolve mai tra le teorizzazioni a vario titolo identificabili come ‘liberali’ e lo sviluppo simmetrico di pratiche sociali, scientifiche ed economiche. Quell’immane processo che nel secolo si può riconoscere tra monetizzazione progressiva, riforme ed indebolimenti della ‘ragione religiosa’ (o sue translitterazioni[6]), emergere del dominio occidentale e del ‘dolce commercio’ come suo centro[7], razionalizzazione operativa e addensamento del paradigma scientifico come nuova verità del mondo, e che Andrea chiama sinteticamente “grande convergenza”, è percepito e quindi teorizzato da alcuni pensatori allo scopo di renderlo intellegibile e legittimo. I poteri verso cui questa operazione scopertamente ideologica e di imprinting giustificativo si oppone sono quelli del passato.

La ragione liberale, dunque, nasce nell’autore dominante di confine tra i due mondi, Hobbes, poi si consolida nelle pagine militanti di John Locke (1632-1704) e, infine, trova una sintesi operativa nel lavoro di Adam Smith (1723-1790).

 

In uno dei passaggi più interessanti del libro Andrea mette a confronto l’idea di diritto naturale del mondo classico con quello del mondo contemporaneo. Per il mondo classico anche nei suoi esempi più eminenti non è la legge a essere scritta nella natura ma sono le idee, i valori, che poi si devono applicare in obblighi specifici negli specifici contesti normativi. L’idea liberale di diritti individuali iscritti nella natura è estranea, quindi, sia al mondo greco, come a quello romano e anche al cristianesimo, nel quale la dignità di ogni singola anima individuale è conferita da Dio e dunque vale solo in relazione alla volontà divina. Invece in Hobbes, e nel successivo pensiero liberale, emerge la pretesa che concetti e regole siano dati nella natura e che da essi debbano essere dedotti o estratti. Questo punto conferisce particolare autorevolezza alle pretese politiche che vengono utilizzate per opporsi al legittimismo monarchico, ma creano anche un problema logico. Come sostiene Zhok un diritto può esistere soltanto come complemento concettuale di un dovere. Se io ho diritto a adottare un certo comportamento o a svolgere una certa azione, sostiene l’autore, “questo implica che qualcun altro ha il dovere di consentirmi quel comportamento e quella azione”. Ma il diritto come libertà dei liberali è solo un impulso individuale dominante che ha poco a che fare con la sfera del dover essere. Invece un diritto come controparte di un dovere ha un carattere essenzialmente relazionale e sociale, non può essere attribuito a un soggetto di principio isolato. Questo tipo di diritto è soggettivo ma può esistere solo in concomitanza con un simmetrico dovere e può esistere soltanto in rapporto con altri individui; dunque, può esistere soltanto nella società e dalla società scaturisce, non dalla natura.

La stessa libertà nel mondo classico era concepibile soltanto in relazione all’ autodeterminazione della città. L’idea di fondo era che la libertà fosse autonomia e autogoverno, capacità di progetto e realizzazione nel contesto della partecipazione alla vita pubblica. L’individuo isolato non era in grado di portare nulla di significativo. Questo concetto di libertà repubblicana è lo stesso di Machiavelli dei “Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio”, che ispireranno sia il suo concetto di cittadinanza come quello di nazione. Ma a partire da Hobbes tutto il nucleo principale del pensiero liberale intravede un concetto del tutto diverso di libertà. Viene rigettata esplicitamente la concezione di libertà repubblicana, sostenendo che essa concerne solo le comunità e non gli uomini. Al suo posto subentra la nozione di “libertà negativa” che da allora in poi verrà considerata sempre come la nozione fondamentale. Libertà come non interferenza come assenza di ostacoli, come assenza di coazioni. In realtà la nozione di libertà come autogoverno e autonomia cioè come “libertà positiva” include l’idea dell’assenza di coazione ma la percepisce come insignificante la “libertà positiva” in altre parole incorpora la libertà negativa non vi si oppone.

E’ John Locke il pensatore che viene identificato normalmente come il padre del liberalismo. Anche se tutti i concetti fondamentali sono già presenti e sviluppati in Hobbes. La ragione è che in questi si determina un esito assolutistico del pensiero che lo rende poco adatto ad essere padre fondatore del liberalismo. Il Locke tutti gli uomini sono uguali e indipendenti, e “nessuno deve danneggiare nessun altro quanto alla vita, salute, libertà o proprietà”. La ragione che viene fornita per questa affermazione è che gli esseri umani sono inviolabili perché, in quanto essendo creati da Dio, sono di proprietà divina. Dunque fa capolino il riferimento a Dio ma come appello esteriore ad un’autorità che non svolge un ruolo effettivamente fondativo. Questa posizione non argomentata lascia trasparire ciò che il Locke è in realtà la pietra angolare di ogni diritto di natura: ovvero la proprietà.

 

E’ la teoria della proprietà ad essere il centro della filosofia politica di Locke e questa subisce il passaggio cruciale che connette la teoria dei diritti naturali soggettivi con l’approdo economico della ragione liberale. La proprietà originale della libertà attribuita dall’esclusività della proprietà attraverso il lavoro si trasferisce alle cose. Le quali diventano di sua legittima proprietà. Sembrerebbe che su questa linea di ragionamento nessuno possa legittimamente avere pretese di proprietà eccedenti, rispetto a ciò che può adoperare personalmente. Ma immediatamente questa nozione scivola, a causa dell’esistenza del denaro che estende la possibilità di godere di cose anche lontane nel tempo nello spazio e non direttamente prodotte da sé. Il fatto stesso che il denaro funzioni come qualcosa a cui altri attribuiscono valore fa sì che esso legittimi per “tacito e volontario senso” anche uno sproporzionato e diseguale possesso di terra e beni. In questo modo con due passaggi eleganti la giustificazione della società commerciale esistente è compiuta.

Un’argomentazione che lascia molto perplessi sia per la coerenza interna che per la tenuta complessiva. Nel testo di Zhok c’è uno sforzo di mostrare come già il primo assunto (che il proprio corpo rappresenti una proprietà) è un abuso concettuale, in quanto una proprietà come diritto è qualcosa che deve essere riconosciuto da altri mentre il mio corpo è mio in un senso che non ha niente a che fare con la proprietà come diritto. Se avere a disposizione un corpo dalla nascita fondasse diritto in quanto tale non si capirebbe perché non lo fondi per animali e piante, e tutto ciò che con cui loro uniscono la loro attività. In sostanza questa nozione confonde la proprietà come sanzione reale legale, reclamabile di fronte a terzi, con proprietà biologiche che sono solo predicati di un soggetto. Ma questa confusione fa decollare l’intero argomento, perché permette al Locke di concepire il diritto che sussiste in natura senza passare per alcun giudizio sociale. In realtà nel seguito dell’argomento si sovrappone e confonde un piano di giustificazione del tutto diverso. In ultima istanza l’argomento si appoggia sul fatto che la proprietà in forma monetaria garantisce una maggiore ricchezza e un minore spreco per tutti. Questo argomento è di tipo utilitaristico si fonda su un beneficio economico che si presume generalizzato e perciò idoneo ad essere accettato da tutti.

Sarà Adam Smith nella “Ricchezza delle nazioni” a fare il passo decisivo e in esso si trovano alcune concezioni che saranno il cuore dell’economia neoclassica: una concezione molto particolare dello scambio individuale auto interessato, il quale sarebbe di per sé capace di condurre il benessere comune; una concezione minimale dello Stato, il quale deve tendere sostanzialmente al limitare il proprio intervento alla difesa della giustizia; una visione storica progressiva, in cui il processo di incremento delle libertà economiche è visto come un orizzonte necessario. In quanto tale fonte di emancipazione. Il benessere comune in Smith emerge quindi come effetto collaterale non voluto da nessuno dell’interazione tra individui auto interessati, ovvero come esito della propensione umana in un passaggio molto famoso a “trafficare, barattare, scambiare una cosa per l’altra”. Un processo spontaneo che poi genera la tendenza alla divisione del lavoro. Si tratta di un’idea semplice ma potente: in uno scambio volontario tra individui è chiaro che ciascuno dei due contraenti intenda e voglia uscire dallo scambio più soddisfatto di come vi era entrato, sennò non lo farebbe, ma questo mutuo beneficio spinge gli scambi volontari ad espandersi. Quanti più scambi quanto maggiore soddisfacimento avrai. Questo determina la divisione del lavoro dove gli argenti si specializzano nel produrre qualcosa, sapendo che poi potranno ottenere ciò che manca dallo scambio con altri. Lo scambio è dunque naturale ed è fondato sulla cooperazione e comunicazione empatica. Oggetto come si sa della “Teoria dei sentimenti morali”. Ma immediatamente l’interazione cooperativa fondata sull’empatia si trasforma in appello all’interesse personale, il quale a sua volta è fondato sulla naturalità dello scambio. Questo passaggio fondativo dell’intera economia liberale indica per Zhok un nesso ambiguo che rimane sottotraccia cioè “l’idea che lo scambio economico sia la prosecuzione naturale delle interazioni cooperative degli scambi umani, culturali, affettivi eccetera. Questa idea che concepisce lo scambio economico come la torre di pace e conciliazione la si ritroverà ancora due secoli dopo in Hayek. La cooperazione si trasforma senza apparente soluzione di continuità in competizione, senza che di questa metamorfosi sia necessario discutere. In realtà, sul piano antropologico e storico si potrebbe agevolmente mostrare come questo passaggio sia uno stravolgimento che coincide con la trasformazione di economie del dono come quelle arcaiche in economia dello scambio”[8].

In sostanza, secondo la ricostruzione del libro, dall’idea hobbesiana e lockiana di un individuo naturale isolato e autofondato si passa prima alla dimensione dell’interazione sociale storica, nel porre l’individuo come portatore di diritti naturali pre politici e pre sociali, e poi nel porre una forma di socialità sui generis, a partire da quel tipo di individuo nello scambio auto interessato che, contro ogni intenzione esplicita, genera spontaneamente benessere comune. Il vantaggio è che non c’è più bisogno di pensare che un accordo sui valori o la definizione di progetti in comune sia alla radice della collettività, ma basta affidarsi al perseguimento del profitto privato e ne scaturirà automaticamente il benessere collettivo.

Le forme della libertà per la ragione liberale sono dunque:

  • libertà negativa,
  • tutela della proprietà,
  • società come composizione di meri individui preesistenti,
  • Stato come regolatore minimo.

Un secolo dopo Smith, in Menger, Walras, Jevons, Marshall, avviene quella che è normalmente concepita come la nascita della scienza economica. Questo passaggio interviene nel contesto dell’ambiente positivista, dunque sulla base della ricerca delle leggi esatte.

Nella rinascita neoclassica abbiamo una nuova scienza sociale che imita le scienze della natura e un modello assiomatico imperniato sul cosiddetto soggetto economico. Sul valore come utilità e sulla relazione come essenzialmente scambio e mercato. Quindi lo spostamento dell’analisi storico-induttiva a quella ipotetico-deduttiva e quindi matematizzabile. Questa svolta nasce sin dall’inizio come una teoria politica in cerca di egemonia e non come una teoria scientifica, quale dichiara invece di essere.

Alla base dell’edificio della scienza economica moderna sta uno schema che è tanto suggestivo quanto forviante, una visione idealizzata antropologicamente fittizia dello scambio volontario tra individui. Il concetto più elementare basilare della scienza economica, infatti, è lo scambio tra agenti economici individuali perfettamente indipendenti che si trovano a interagire liberamente in una transazione per mutuo beneficio, per così dire nel vuoto. Se si assume che i due soggetti pervengano uno scambio volontario per definizione questo è vantaggioso per ciascuno (in quanto altrimenti non acconsentirebbero). Questo vantaggio, che si presenta come appropriazione soggettiva, è concepito sul piano economico come scambio di uguale quantità di valore, ovvero di utilità, e si immagina quindi che dopo ogni scambio volontario la quantità totale di utilità di valore sia accresciuta. Ne segue una importantissima conseguenza: in linea di principio ogni accrescimento o intensificazione degli scambi volontari all’interno di una società promuove un aumento generalizzato del benessere. È questa la “buona novella” incorporata nel pensiero neoclassico e liberale, la promessa di una autoregolazione immanente e per il maggiore bene di tutti. Gli espliciti presupposti teologici dei classici (sia dei giuristi e filosofi, sia dei teologi ed economisti) vengono, per così dire, immersi in una veste scientifica positivistica. Questo schema iniziale viene sviluppato e complicato, raffinato, ma rimane fondamentalmente sempre lo stesso. In Von Mises troveremo l’azione individuale del singolo come una specie di scambio tra sé e sé, dove il soggetto, per esempio, può scambiare il piacere del riposo a quello di un appagamento futuro e quindi impegnarsi nel lavoro attuale. Ogni cosa, ogni rapporto interumano, è letto secondo una chiave di lettura autoreferenziale in cui è sempre in gioco uno scambio nel quale ognuno cerca sempre di ottimizzare essenzialmente il proprio vantaggio. Ogni momento relazionale è reinterpretato come uno schema di incentivi e disincentivi economici soggetti a leggi del tutto simili a quelle del comportamento del consumatore. Così si pone la base concettuale per la teoria microeconomica, costituita da principi che definiscono forme ideali della scelta razionale nei processi di scambio. Assiomi delle preferenze del consumatore che sono essenzialmente quattro: completezza, transitività, non sazietà, utilità marginale decrescente. Struttura minima che garantirebbe il requisito di razionalità di una scelta. Si tratta, tuttavia, di principi manifestamente falsi. Non è vero che per ogni bene economico un soggetto preferirà averne sempre di più piuttosto che di meno; non è sempre vero che il principio di utilità marginale sia decrescente, né un esempio l’accumulazione monetaria; non è sempre vero che ogni coppia di scelte può essere ordinata in termini di utilità, ovvero che ogni scelta è sempre commensurabile in base a un suo contenuto di valore analogo e quindi è sempre anche misurabile.

Questo è uno dei passaggi essenziali e che ha, come dice Andrea, ampie ripercussioni “un conto infatti è dire che in qualunque circostanza noi possiamo comunque operare una scelta senza rimanere in stallo (tra indecidibili potremmo, ad esempio, tirare a sorte). Tutt’altra cosa è affermare che la nostra scelta è stata prodotta sulla scorta di una comparazione quantitativa di una stessa entità (utilità)”.

In realtà, spostandosi sul piano di una descrizione fenomenologica della natura delle scelte reali, si nota come queste non avvengano mai in forma di una comparazione tra piaceri e dolori strettamente intesi oppure genericamente tra sentimenti. Le nostre scelte valutano sempre comparativamente scenari dinamici dotati di senso, cioè sviluppi narrativi di storie possibili. Anche le eventuali componenti di agio e disagio sono definite alla luce di potenziali orizzonti di conseguenze. Ovvero di storie alternative. Il calcolo non ha a che fare mai con comparare pesi diversi, o con computare, ma è una valutazione comparativa immaginaria di situazioni alternative e di opzioni che queste alternative aprono o chiudono. Già nei più elementari assiomi che definiscono la razionalità di una scelta economica sono quindi presenti astrazioni che non sono innocue approssimazioni ma problematiche distorsioni. Come corollario dell’esistenza del mercato, e del modello monetario di valore come effettiva radice dell’impostazione liberale, si ha che la priorità dello scambio auto interessato mette al centro la divisione del lavoro e questo si traduce, dentro la logica dell’impostazione liberale (anzi dell’assiomatica liberale), nella definizione dei principi della concorrenza perfetta. Quelli nei quali un sistema di liberi scambi troverebbe da sé un equilibrio capace di ottimizzare sia l’allocazione delle risorse come l’utilizzo dei fattori produttivi, ovvero la più efficiente divisione del lavoro. Questa idea di mercato perfetto non è solo un’ideale portante della teoria economica neoclassica ma è un modello relazionale generale per tutto il settore del liberalismo politico che concepisce l’intera società essenzialmente come luogo di scambi tra individui. Luogo dove avviene il mutuo vantaggio come esito di ogni scambio che si vorrebbe generalizzato alla totalità delle relazioni sociali nella misura in cui gli scambi possono essere esercitati nelle condizioni del mercato perfetto.

Mercato perfetto significa:

  • massimizzazione, gli agenti economici cercano di massimizzare i propri guadagni;
  • mutua indipendenza delle decisioni, ciascuna decisione è presa da ciascuno indipendentemente da ciò che decidono gli altri;
  • debolezza degli agenti economici, nessun singolo agente è in grado di esercitare una influenza significativa sui prezzi, né come acquirente né come venditore; ci sono sempre una pluralità di agenti economici compratori e venditori;
  • informazione perfetta, ogni agente sul mercato ha informazioni esaurienti circa la natura di sia dei prodotti che dei prezzi;
  • libero accesso, non devono esistere barriere di alcun tipo né all’entrata nel mercato di nuovi produttori o di nuovi consumatori né all’uscita degli stessi;
  • mobilità dei fattori di produzione, i fattori di produzione in un mercato perfetto devono poter essere liberamente riallocati dove forniscono i profitti maggiori;
  • nessuna esternalità, (un’esternalità è un costo generato un’attività economica imposto su soggetti che non hanno scelto di entrare in quell’attività economica, ad esempio l’inquinamento) nel sistema delle libere transazioni sul mercato non ci sono situazioni in cui le esternalità vengono fatte ricadere su soggetti diversi dai produttori o dagli scambiatori volontari;
  • nessun costo di transazione, (i costi di transazione sono tutti i costi necessari per pervenire allo scambio volontario, per esempio il tempo l’impegno adottato per svolgere la trattativa) in un mercato perfetto non ci sono.

Si tratta ovviamente di riconosciute idealizzazioni, tuttavia sono assolutamente determinanti. Nel seguito Andrea si impegna ad analizzarle una ad una, contestando ad esempio rispetto alla massimizzazione l’ideale olimpico di piena calcolabilità e ottimizzazione, opponendovi il lavoro di Herbert Simon sulla razionalità limitata, ma anche, nuovamente, l’idea che la forma delle scelte umane è sempre di essere percorse in una storia; dall’altra parte contestando la mutua indipendenza delle decisioni, che naturalmente non sono individuali e non sono separate le une dalle altre, ma sono sempre intrecciate da componenti relazionali come ‘imitazione’, ‘emulazione’, ‘invidia’, ‘competizione’. La normatività del mercato perfetto che naturalmente il fenomeno dei monopoli contesta in radice. L’importanza delle istituzioni come messo in evidenza dalla scuola di North per il quale vincoli morali le lealtà interpersonali, il senso del dovere sono da intendere come espedienti necessari per consentire alle relazioni di mercato di funzionare.

In sostanza l’economia neoclassica che pretende scientificità ha creato una nuova visione del mondo la quale riduce alla propria concettualità normativa intere aree che prima erano analizzate con strumenti diversi.

 

Questo processo di estensione delle categorie dell’economica ad ogni campo dell’agire umano è una forma di imperialismo. Entità tipicamente extra economiche, come la morale, i costumi e lo Stato, sono rilette in modo da concepirle come soluzioni a problemi definiti da imperfezioni del mercato, immaginato come originario. Il fatto che questa evoluzione sia totalmente falsa sul piano storico antropologico è ritenuto irrilevante. Il fatto che un mercato possa esistere solo in presenza di una preesistente cornice di tutela legale e quindi in uno Stato e in presenza di soggetti rispettosi della legge e delle norme sociali, oltre che delle norme sociali connesse, è considerato irrilevante. A causa di tutti questi slittamenti interpretativi le idealizzazioni che definiscono la cornice dello scambio del mercato si trasformano tacitamente in forme utopiche da perseguire, producendo una metamorfosi dell’esperienza primaria di ciò che ci si presenta come dotato di senso ed alimentando una prospettiva nichilistica di svuotamento di tutto ciò che ha valore.

Nella prospettiva citata il denaro e il piacere sono entità strutturalmente indifferenti al modo in cui sono ottenute, indipendenti da buone o cattive ragioni, e funzionano in modo indifferente alla sfera dei significati condivisi o alle prospettive di senso comuni. Si tratta di un impoverimento etico che lascia tracce visibili già nello stesso modo di pensare di chi viene addestrato agli studi economici. Una forma mentis che consentiva, ad esempio, a Gary Becker di parlare senza alcuna ironia dei figli come di “beni durevoli del consumatore”. In sostanza, seguendo questa logica non è affatto incomprensibile supporre che le motivazioni autentiche non possono che essere quelle egoistiche. Questa tradizione capovolge il senso vissuto delle esperienze umane, invertendo sistematicamente i mezzi con i fini. Il capitale stesso come mezzo universale, che può essere impiegato a qualunque cosa senza per determinarne alcuna, diventa il fine ultimo. “La prospettiva esistenziale aperta dall’imperialismo concettuale della teoria economica neoclassica è dunque quella distopica di un rigoroso nichilismo: una visione del mondo dove il calcolo ottimizzata riempito ogni interstizio, mentre la riflessione sulle buone, o meno buone, ragioni del perché calcolare e perché ottimizzare sono lasciate a una landa desolata di idiosincrasie private ed arbitrarietà”[9].

 

Nela Sezione Quarta, che riveste significativo interesse ma per ragioni di economia dello spazio non può essere ripercorsa analiticamente, il testo si concentra nel racconto del quadro storico nel quale la caratterizzazione del liberalismo (nella Seconda e Terza) trova forma. Nel passaggio dal medioevo all’età moderna il collante sociale determinato dalla religione e dall’ordine feudale (o meglio dagli ordinamenti del feudalesimo) viene sostituito e integrato entro la forma vincente dello Stato-nazione (emerso in un lungo periodo che va dal XII secolo al XV e XVI). La pace di Westfalia (1648), punto di condensazione tardo di questo processo, vede infine venire meno la coincidenza tra Stato e proprietà individuale del sovrano e dei suoi lignaggi. Fino alla rivoluzione francese che lo recide con un atto di simbolica (ed effettiva) nettezza. In questo lunghissimo processo emerge la necessità di un collante alternativo nella “nazione”. Ovvero nell’esistenza di confini e di omogeneità culturale.

Le istanze delle cosiddette “rivoluzioni”[10] settecentesche, note come “borghesi”, spostano la sovranità verso il “popolo”[11], aprendo la questione sulla quale l’intero ottocento si impegna (e buona parte del novecento, in effetti fino ad oggi) su “cosa precisamente conti come popolo, e come debba esprimersi istituzionalmente”. Nascono due istanze simultanee, ma non coincidenti, l’idea di popolo-nazione e quella di sovranità popolare, da una parte (con il potenziale di democratizzazione, o l’arena della democrazia), e, dall’altra, l’idea liberale di una società interamente coordinata dai principi della libertà personale e del libero scambio. Due prospettive, e questo è politicamente sia importante sia fonte di equivoci, “storicamente alleate nell’opporsi ai poteri tradizionali basati sulle legittimità dinastiche”[12]. Nel secolo seguente si assiste al consolidarsi prima dello Stato nazione e poi dello Stato imperialista, a seguito della crisi economica del 1870, sempre più aggressivamente orientato versi i rivali. Il successivo collasso dello Stato liberale (a seguito di un settantennio di grandi guerre) porta alla soluzione mista ed al trentennio di crescita che ne segue. Il neoliberismo, infine, è riassunto sulla scorta della lettura di Dardot e Laval[13] e la ripresa trasformante delle vecchie idee liberali.

 

La “Ragione liberale” è organizzata quindi da alcune tendenze strutturali e ideologiche le quali producono nel loro complesso il dispiegarsi dell’ordinamento neoliberale (che Zhok considera completamente e logicamente connesso alla linea interna di sviluppo storico del liberalesimo).

In primo luogo, come abbiamo visto, si può dire che per la ragione liberale lo scambio volontario è di per sé stesso fonte di benefici e che perciò la sua intensificazione diventa un’ideale normativo. Questo ideale normativo è il tratto fondante dell’odierna scienza economica e pone il mezzo dello scambiare come fine. Nel momento in cui si pone lo scambio come punto fermo e cardine intorno al quale tutto gira, tutto diventa in linea di principio mobile o negoziabile. Da questo ideale normativo discendono tantissime conseguenze. La più importante è che il modello incoraggia sistematicamente la flessibilità e ovviamente rende ottimale per il datore di lavoro pagare il lavoratore solo nel momento in cui produce qualcosa di vendibile. Questa idea di flessibilità lavorativa, però, è anche concepita dal liberalismo come fattore di emancipazione individuale, in quanto anche il lavoratore si sente “più libero” in queste circostanze. L’emancipazione individuale come libertà dalla costrizione esterna è, come visto in precedenza, parte integrante dell’ideologia del “Nuovo spirito del capitalismo[14] descritto da Boltanski e Chiappello, nel quale libro viene presentato come una forma nuova, più dinamica, più moderna di concepire il lavoro. Una forma che celebra la libertà individuale di tutti gli attori economici che è proposta a partire dagli anni 70, in esplicita contrapposizione al vecchio modello welfarista, interpretato come gerarchico, padronale, taylorista. Il piano di fondo è che i contraenti hanno, però, livelli molto diversi di potere contrattuale e, quindi, il guadagno reciproco è una mera finzione. Solo per alcuni molto richiesti e molto qualificati, le star, la conservazione di un’ampia autonomia contrattuale può determinare un rapporto di forza favorevole (pensiamo ai calciatori dopo la sentenza Bosman) ma per altri, ovvero per la grandissima maggioranza dei lavoratori, questo sistema relazionale fluido e libero diventa perenne mantenimento sotto ricatto. Inoltre, la flessibilizzazione dei rapporti di lavoro comporta discontinuità di risorse economiche, ma comporta anche una discontinuità territoriale, cioè mobilità che, essa stessa, ostacola il radicamento in un territorio. Ostacola la formazione di una famiglia, ostacola la costruzione di reti di mutuo soccorso basate sulla consuetudine e sulla frequentazione. Inoltre, il processo di flessibilizzazione, come ricorda Sennett, produce una profonda erosione dello stesso carattere degli agenti coinvolti, cui è preclusa la possibilità di percepire forme stabili di appartenenza, di consolidare abilità o competenze, di stabilire lealtà di lungo periodo. I soggetti umani si percepiscono sempre più essi stessi come mezzi intercambiabili a disposizione di un meccanismo esterno ad essi, sul quale non possono agire, che funziona per la riproduzione del capitale. Il centro della scena lo prende il denaro. Dunque, in questo senso, la flessibilizzazione, la finanziarizzazione sono processi sia paralleli come complementari. La flessibilizzazione impegna le società, le aziende, le persone, che riducono la durata e la continuità dei rapporti di lavoro. Favorisce il ricorso all’estrazione di servizi, diluisce le responsabilità ed estende le reti di relazioni funzionali al capitale su territori molto ampi. Questa caratteristica rende centrale l’aumento del peso del capitale liquido finanziario, rispetto a ogni forma di proprietà reale. Il capitale finanziario può entrare ed uscire agilmente da ogni situazione produttiva, può estrarre il massimo profitto, può evitare ogni impegno a lungo termine. Questa forma di capitale è espressione di uno spostamento massivo dei profitti dalla produzione di beni alla finanza che è avvenuto a partire dagli anni 80. La mobilità del lavoro si esprime sia come l’abilità delle condizioni di lavoro, cioè come flessibilità, che come spostamento fisico alla ricerca dei posti di lavoro, cioè dei luoghi in cui il capitale ha investito. Dunque, i processi migratori internazionali, e i processi migratori internazionali, sono un fenomeno strutturale spontaneo del dominio del capitale finanziario e sono l’immagine allo specchio della sua capacità di spostarsi liberamente.

Più in profondità, il testo sottolinea come non abbia tanta importanza stabilire di quali valori si tratta, quando si consideri che nel mondo contemporaneo l’azione di valore e il potere sugli altri sono strutturalmente disaccoppiati, ma che l’ordinario funzionamento del denaro in un sistema di mercato mina qualunque criterio etico si voglia considerare giustificato. Se, ad esempio, assumo come valida un’etica cristiana, o la vecchia etica eroica, una kantiana o comunista, o qualunque altro sistema normativo che sia in grado di valutare, discernere, distinguere, le azioni buone dalle azioni cattive, in tutti questi casi il funzionamento normale dei meccanismi di arricchimento in un sistema di mercato ne prescinderà. Il potere interpersonale verrà attribuito dallo stesso possesso del denaro, indipendentemente dalla legittimazione ad averlo. Si tratta di una dinamica profonda e consolidata che spezza una delle dimensioni etiche fondanti la società, quella che Andrea Zhok chiama “la continuità temporale delle azioni”: “il denaro, in quanto potere su altri, distacca il passato dal futuro, cioè distacca i ‘meriti’, gli ‘sforzi’, le ‘intenzioni’, le ‘regole’, le ‘promesse’ dalla disponibilità di potere e di status futuro. L’origine del denaro posseduto è irrilevante quanto alla sua capacità di esercitare potere. Il denaro è potere indipendentemente dalla sua legittimazione”[15].

In altre parole, se il denaro conferisce un potere significativo sugli altri, e lo fa tanto più quanto maggiore il suo potere, ogni azione che veicoli successo economico, ovvero che generi successo economico diventa neutra, è sdoganata, neutralizzata. Si può ottenere denaro tramite la corruzione, la prostituzione, il furto, l’omicidio, oppure l’opportunismo, tutto è giustificabile in vista del riconoscimento socialmente conferito dal potere del denaro. Chi è in possesso di molto denaro ottiene, di per sé, uno status sociale e, se proprio necessario, si può sempre spostare dove non è noto che l’ha ottenuto in modo fraudolento. Ciò determina particolare importanza all’apparenza, all’immagine. E queste dinamiche determinano uno strutturale ‘presentismo’, il disseccamento di ogni prospettiva di lungo periodo sul piano sia economico, sia sociale, come antropologico. Infatti, nel momento in cui il potere presente, cioè la disponibilità economica di fatto in questo momento a mia disposizione, può esercitarsi in modo efficace senza tener conto della provenienza dello stesso, cioè del passato, allora anche l’investimento sul futuro è scarsamente motivato. Dopo tutto, come sottolinea acutamente Zhok, nel futuro anche il mio presente sarà un passato. O, dicendolo diversamente, qualunque impegno presente non conta nel futuro. Ciò produce un tendenziale disgregamento del senso temporale delle azioni.

Né aiutano, fondamentalmente, i molti e diversi tentativi per fondare su una base antropologica, o etica, più solida le prospettive liberali. Se anche si volesse superare l’apparentamento all’ utilitarismo, come in molti casi si è tentato a partire dagli anni 70, non muta la prospettiva di fondo. I tentativi illustri da John Stuart Mill a Busanquet, o T.H. Green, a Rawls, di produrre un’etica perfezionista si sono scontrati e si scontrano sistematicamente con la realtà sociale che la ragione liberale promuove. Che la ragione liberale, cioè, promuove tacitamente e instancabilmente. Ogni auspicio di forma di vita all’altezza delle proprie potenzialità, capace di libero sviluppo e di perfezionamento, rimane in sostanza un vagheggiamento se inserito in un sistema affidato al dominio delle transazioni autointeressate e quindi sfociante per logica interna nell’imperialismo economico.

Ma se durante le prime fasi del lungo percorso storico che precede l’emergere delle ragione liberale si può dire che l’autonomia, l’autocontrollo, la responsabilità e le capacità degli individui si siano davvero rafforzate questo processo di autonomizzazione individuale, legato in varia forma al ruolo sociale di alcune pratiche di scrittura, a partire dall’ottocento inizia a mostrare alcune criticità. Queste si manifestano, in primo luogo, negli ambienti più avanzati delle realtà urbane dell’Europa alla fine del secolo, anzi dalla metà del secolo, che anticipano il quadro che osserveremo un’epoca neoliberale. Qui fanno sistema le varie forme di sradicamento e d’isolamento implicite nella logica liberale perché, portano oltre il limite quell’illusione tipica dell’individualismo la quale porta a ritenere che l’identità del soggetto sussista in modo indipendente dalle relazioni in cui sono emerse le relazioni di riconoscimento personale, le relazioni di adesione culturale e dedizione. Quel che avviene in realtà è il contrario: ognuno di noi si identifica spontaneamente in varia misura con la propria collocazione intersoggettiva occupazionale e culturale, noi ci sentiamo sempre qualcosa. Italiani o francesi, commercianti o professori, cittadini o uomini della campagna, talvolta più di queste cose insieme. Anzi in genere più di queste cose insieme. E’ questo che ci orienta le nostre scelte, non è la mera e fredda logica del calcolo razionale. Chiedersi, e questo è molto importante, che cosa penserei o che cosa vorrei, a cosa darei valore, se fossi un’abitante dell’Africa interna, oppure un guerriero giapponese del sedicesimo secolo, o un crociato medievale, è semplicemente una domanda oziosa. In totale assenza dei retroterra esperenziali, sociali, operativi, culturali, della traiettoria di crescita della personalità e delle esperienze nel loro sedimentarsi narrativo non posso avere la più pallida idea di cosa sarei, e quindi di cosa mi potrebbe passare per la testa. Il mero fatto di avere il medesimo corpo o di essere capace di ragione non determinerebbe come utilizzerei quel corpo o quella ragione. Dunque, anche sotto questo profilo, il sistema di relazioni che è alimentato dall’estendersi delle relazioni di mercato in ogni ambito della vita finisce per essere un fattore patogeno dal punto di vista psicologico. Invece di rafforzare le personalità le destabilizza. Finisce per attivare una sorta di individualismo senza individualità, fondato su precarietà, ricattabilità, insicurezza, isolamento. Un individualismo nel quale la formazione è sistematicamente svalutata e nel quale ogni relazione solida e sistematicamente disciolta. L’individualità neoliberale è, come dice Zhok, “insicura, superficiale fino all’inconsistenza, organicamente sfruttata, incapace di azioni collettive, e di iniziative di ampio respiro, ma anche rabbiosamente gelosa della propria presunta indipendenza rispetto a ragioni esterne, vissute come invasive”.

Svolge particolare rilevanza in questo contesto e stile di vita il consumismo, cioè la funzione di controllo ed esercizio di potere fornita dal momento dell’acquisto. Esso diventa una sorta di protesi dell’anima, un esoscheletro che sostiene una personalità debole la quale ha bisogno, profondamente bisogno, di essere sempre e compulsivamente confermata nell’esercizio del potere. Precisamente nell’esercizio di quella forma di potere pervasivamente presente, e organizzante il sociale, dato dal denaro.

Ma questo finisce per tradursi nella disgregazione delle comunità umane. Una disgregazione che avviene sia verso l’alto come verso il basso; più esattamente i vincenti escono dall’alto e i perdenti escono dal basso. Domina comunque ovunque lo sfruttamento. L’esito è la perdita dell’unità sociale l’impoverimento del tessuto morale, il dominio di dinamiche desocializzanti e la valorizzazione sistematica dei comportamenti da freerider che sono un necessario correlato della personalità neoliberale.

Deriva anche da tutto ciò il degrado della funzione pubblica ed infine il degrado ambientale.

 

Con l’insieme della grande convergenza da Hobbes agli ultimi esiti contemporanei lo Stato neoliberale è divenuto ormai solo una funzione accessoria e accudente il mercato. Contemporaneamente viene delegittimata ogni pretesa normativa e aumenta la necessità di controllo, si attivano meccanismi di pressione selettiva e di svuotamento democratico. La questione fondamentale è che nel processo di distruzione dei valori dell’essere, delle identità, del limite, la ragione liberale non possiede al proprio interno alcun fattore di contenimento, non è in grado di esercitare alcuna misura.

 

Nella seconda parte di questa lettura vedremo come, su questa base, si affermano e vengono imposti dei veri e propri “regimi di ragione” altamente pervasivi.

 

[1] – Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, Meltemi 2020, p. 10

[2] – Vedi Polanyi e Mauss

[3] – Zhok, p.23

[4] – Zhok, p. 32

[5] – Si veda, dello stesso autore, Andrea Zhok, “Lo spirito del denaro e la liquidazione del mondo”, Jaca Book, 2006.

[6] – Hugo Assmann, Franz Hinkelammert, “Idolatria del mercato. Saggio su economia e teologia”,

[7] – Fase mercantilista dello sviluppo del capitalismo.

[8] – Zhok, cit, p. 79.

[9] – Zhok, p.122

[10] – Sulla imprecisione nel definire “rivoluzione” quella americana, o nel definirla al singolare, si veda Alan Taylor, “Rivoluzioni americane”, Einaudi 2017 (ed.or. 2016).

[11] – Né nell’una, né nell’altra si chiama “popolo” la generalità della popolazione, ed in particolare in nessun caso ciò avviene in quella americana. Si veda, ad esempio, Bernard Manin, “Principi del governo rappresentativo”, Il Mulino, 2010 (ed. or. 1997).

[12] – Zhok, p.128, si veda Jean-Claude Michea, “L’impero del male minore”, Ore, Milano, 2008 (ed. or. 2007).

[13] – Pierre Dardot e Christian Laval, “La nuova ragione del mondo”, Derive e Approdi 2013 (ed. or. 2009)

[14] – Luc Boltanski, Eve Chiappello, “Il nuovo spirito del capitalismo”, Mimesis, 2014 (ed.or. 1999).

[15] – Zhok, p. 166

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GAETANO MOSCA E LA “DISPARITÁ DELLE ARMI”, di Teodoro Klitsche de la Grange

GAETANO MOSCA E LA “DISPARITÁ DELLE ARMI”

Anche nelle recenti norme per i sostegni al COVID-19 abbiamo avuto la conferma, perfino da un governo non cosi scrauso come quelli che l’hanno preceduto (da Monti in poi), di quanto la “parità delle armi” tra cittadini e pubbliche amministrazioni sia invisa alle burocrazie italiane (e non solo a loro).

Vi si legge infatti che qualora sia richiesto ed ottenuto dal privato un contributo non spettante l’Agenzia delle Entrate recupera il contributo irrogando le sanzioni in misura corrispondente a quelle previste dall’art. 13, comma 5 del D.lgs. n. 471/1997, e applicando gli interessi dovuti dall’art. 20 del D.P.R. n. 602/1973 (interessi nella misura del 4%); ma se il contributo è percepito in misura superiore a € 3.999,30, è sanzionato anche penalmente con la reclusione da 6 mesi a 3 anni. Fin qui nihil novi; come al solito, la p.a. fruisce del privilegio di autotutela (e autodichia), cioè di accertare (tra l’altro) che il fatto sia avvenuto, che sia un illecito, nonché la misura della sanzione da applicare. Tutte cose che ad un privato – e giustamente – sono inibite, di guisa che è costretto a pagare all’uopo l’avvocato per rivolgersi al giudice.

L’enorme disparità tra le parti è evidente: al privato che sbaglia (o imbroglia) si applicano le sanzioni; ma se a farlo è il funzionario non c’è una sanzione specifica che il legislatore si sia preoccupato di istituire nel decreto sostegni. Ne è facile ricondurre la consueta pigrizia della p.a., a specifiche ipotesi di reato.

A tale proposito è il caso di ricordare quanto scriveva Gaetano Mosca sull’Habeas Corpus. Sosteneva che tale legge “tutela i cittadini inglesi contro gli arresti arbitrari e contro le lunghe detenzioni preventive in attesa di giudizio in modo così pratico ed efficace che non è stato possibile in nessun altro paese, e neppure nel secolo XIX, fare di meglio” e la norma di chiusura dell’Habeas corpus sanziona “ogni ufficiale di polizia, magistrato o carceriere, che violi in qualunque modo l’Habeas corpus, deve pagare, ognuno per contro proprio, un indennizzo di cinquecento sterline alla parte lesa”1. E notava come “efficacissimo strumento di tutela della libertà individuale si è sempre dimostrata la disposizione contenuta nel comma quarto, che stabilisce la responsabilità diretta e pecuniaria dei pubblici funzionari”.

Tale considerazione del grande scienziato politico è da valutare seriamente anche oggi: se proprio non è possibile (ma almeno in parte lo è) evitare, o almeno ridurre, le sanzioni (unilaterali) a carico dei privati; almeno ne siano previste di corrispondenti per comportamenti analoghi dei dipendenti pubblici. In fondo, scriveva Carnelutti, la funzione della sanzione nel diritto è “rendere inviolabile e perciò avvalorare qualche cosa; ciò che viene avvalorato, in quanto si cerca di impedirne la violazione, è il precetto, in cui l’ordine etico si risolve”. Per cui a contrario se non si sanziona il comportamento del funzionario ciò significa che non lo si vuole disincentivare, o, quanto meno che il problema non interessa (ai governanti).

Anzi, preme il contrario: il funzionario che non risponde della proprie azioni od omissioni, è più incline a comportamenti “in linea” con il vertice politico che non sempre sono conformi al diritto vigente.

D’altra parte ci sono voluti secoli per abolire la tutela del funzionario attraverso la “garanzia amministrativa” (su cui ironizzava Tocqueville), cancellata dalla Corte Costituzionale solo negli anni ’50 del secolo passato; e non aspettiamoci che norme così favorevoli ai governanti e al loro aiutantato (Miglio), possano essere abolite o ridimensionate senza una lotta dura (e lunga).

La quale deve partire dalle idee; ho ricordato Mosca, come in altri articoli Orlando o Pareto, e non a caso. Se Mosca e Pareto sono considerati (o almeno tra) i padri della scienza politica moderna, sarebbe il caso di seguirne i consigli. E soprattutto non cadere nel sacco delle argomentazioni contrarie (usuali in casi del genere): che così non si può più governare, che i funzionari non firmeranno niente, ecc. ecc.

Non si capisce, se fosse vero ciò (fino ad un certo punto lo è, e l’ho spiegato altrove), per quale ragione stiano ottimamente in forma altri Stati, in primis la Gran Bretagna che delle disparità tra governanti e governati hanno fatto un uso tutto sommato moderato.

A sentire certi sermoni – e se questi fossero veri – la Gran Bretagna avrebbe dovuto essere da secoli una provincia della Francia (o della Spagna), perché impossibilitata a mantenersi come Stato (indipendente). Invece, malgrado l’Habeus corpus e il Bill of rights ha costruito e gestito un grande impero ed è sempre stata in-dipendente. Anche negli ultimi anni con la Brexit ha dato prova di volere un destino nazionale. E che gli istituti a tutela delle libertà individuali non impediscono – almeno nel lungo periodo – indipendenza nazionale ed efficienza pubblica.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

1 V. Appunti di diritto costituzionale, Milano 1912, pp. 46-47.

Semiconduttori: la ricerca della sovranità (2/5), di Gavekal

I semiconduttori rappresentano la principale sfida tecnologica per gli anni a venire. Sono essenziali per lo sviluppo della tecnologia digitale e dell’industria, e quindi dell’economia. La Cina è in ritardo rispetto a Stati Uniti e Taiwan. Catturare il mercato dei semiconduttori è quindi una sfida importante per la sovranità dei paesi.

ultimo di cinque articoli 

 

Traduzione di conflitti Articolo di Dan Wang originariamente pubblicato sul sito web di Gavekal

2. La politica di supporto dei semiconduttori

 

Non è per mancanza di tentativi che la Cina occupa una posizione modesta nell’industria globale dei semiconduttori. Dagli anni ’80, il governo ha attuato varie politiche per promuovere i semiconduttori. All’inizio degli anni 2000, Pechino ha sovvenzionato le fonderie nazionali, tra cui Semiconductor Manufacturing International Corp. con sede a Shanghai, per competere con TSMC. Questa politica di promozione delle fonderie non ha avuto successo: SMIC è solo un decimo delle dimensioni di TSMC ed è stata superata da Samsung diversi anni fa e la quota della Cina nei ricavi globali delle fonderie è rimasta al di sotto del 10%. Ma non ha nemmeno completamente fallito. SMIC è la quinta fonderia al mondo e, pur non essendo mai stata al passo con il progresso tecnologico, ha mostrato tenacia nel non restare indietro.

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Altre politiche non erano mirate direttamente ai semiconduttori, ma hanno contribuito a creare un mercato dinamico e un ambiente di produzione per l’elettronica. Questi includono la campagna di “informatizzazione” iniziata nei primi anni ’90 e finalizzata all’informatizzazione di tutte le funzioni del governo e alla costruzione di moderne reti di telecomunicazioni. Questo orientamento verso le reti e la prima focalizzazione sulla telefonia mobile hanno contribuito all’ascesa di aziende nazionali di apparecchiature per le telecomunicazioni, guidate da Huawei, che è passata dall’essere un grande acquirente di chip ad essere un importante acquirente di chip. sistemi attraverso la sua controllata HiSilicon. La Cina era probabilmente condannata ad avere comunque una grande industria elettronica. Ma nella misura in cui la politica del governo ha svolto un ruolo, questo sviluppo dell’ecosistema ha avuto un impatto maggiore rispetto al supporto specifico per i semiconduttori, che è stato piuttosto inefficace.

 

Attraversa il Rubicone

 

La politica dei semiconduttori ha preso piede nel 2014, con la pubblicazione di linee guida per promuovere lo sviluppo dell’industria nazionale dei circuiti integrati. Qualcosa del genere era probabilmente inevitabile dato il desiderio di lunga data della Cina di essere indipendente e di occupare una posizione di leader nelle tecnologie di base, ma il pungiglione immediato potrebbero essere state le rivelazioni di Edward Snowden nel 2013 sulla raccolta di spionaggio informatico statunitense, che ha reso i cinesi Il governo comprende il rischio per la sicurezza nazionale di un’eccessiva dipendenza dall’hardware tecnologico delle società statunitensi.

Le linee guida nazionali IC stabiliscono obiettivi di produzione per l’industria dei chip e stabiliscono un piccolo gruppo guidato dal governo per supervisionare lo sviluppo del settore. Ancora più importante, hanno creato un ampio meccanismo di finanziamento e incoraggiato le aziende cinesi a effettuare acquisizioni internazionali in modo aggressivo.

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Il fondo di finanziamento più ovvio è stato il National Integrated Circuit Fund da 139 miliardi di RMB (20 miliardi di dollari USA), istituito nel 2014 dal Ministero delle finanze e dal Ministero dell’industria e della tecnologia, con il contributo di otto gruppi di imprese pubbliche. Una filiale della China Development Bank è stata nominata per gestire il fondo. Il Fondo nazionale CI ha raccolto una seconda tranche di 200 miliardi di RMB (29 miliardi di dollari USA) nel 2018. Molti governi locali hanno istituito i propri fondi CI, che sono più difficili da tracciare ma possono avere un capitale totale più importante del fondo nazionale. Questo modello di “fondo di orientamento industriale” gestito dallo stato si è diffuso rapidamente in altri settori. Grazie a questo generoso finanziamento,

 

I fondi di orientamento non sono l’unico meccanismo di sostegno pubblico. Le sovvenzioni dirette sono un altro, e sono state particolarmente importanti per lo SMIC, che ha registrato 300 milioni di dollari in contributi pubblici nel 2019, una cifra equivalente al 10% del suo reddito totale e superiore all’utile netto dell’anno. Nel complesso, tuttavia, Pechino fa molto meno affidamento su sussidi espliciti che su supporto implicito, principalmente consentendo alle aziende di accedere a finanziamenti azionari e di debito a un costo inferiore rispetto al mercato. Parte di questo aiuto è fornito dai fondi di orientamento CI, ma alcuni non lo sono, come i prestiti a basso costo o l’acquisto di obbligazioni da parte delle banche statali.

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L’importanza del capitale a buon mercato

 

Uno studio dell’OCSE sui sussidi globali ai semiconduttori ha rilevato che durante il periodo 2014-18, i sussidi diretti a quattro importanti società cinesi di circuiti integrati hanno rappresentato il 5% o meno dei loro ricavi. Una stima bassa suggerisce che l’accesso al capitale a buon mercato ha almeno raddoppiato il livello di sostegno pubblico per tutte le imprese. Secondo l’alta stima dell’OCSE, l’accesso al capitale a buon mercato avrebbe potuto aumentare il sostegno statale per il salario minimo e Tsinghua Unigroup rispettivamente al 40% e al 30% del loro reddito.

 

Questi livelli di supporto sono molto più alti, in relazione ai ricavi aziendali, rispetto a qualsiasi altro gruppo di società CI nel mondo. Per le altre 17 società non cinesi nello studio dell’OCSE, il sostegno statale da tutte le fonti è compreso tra l’1% e il 5% delle entrate e difficilmente proviene da capitali a basso costo. Al di fuori della Cina, la stragrande maggioranza degli aiuti pubblici assume la forma di agevolazioni fiscali: crediti per spese o investimenti in ricerca e sviluppo, aliquote ridotte dell’imposta sulle società, ecc.

Ma date tutte le preoccupazioni sul sostegno statale cinese ai semiconduttori, vale la pena notare che l’OCSE ha affermato che i maggiori beneficiari di agevolazioni fiscali e sussidi diretti, in dollari assoluti, erano tutti non cinesi: Samsung (8 miliardi di dollari), Intel ( $ 7 miliardi), TSMC (US $ 4 miliardi), Qualcomm (US $ 3,8 miliardi) e Micron (US $ 3,8 miliardi) US). Gran parte di questo sostegno non proviene dai governi dei paesi di origine delle società: queste multinazionali sono abili nell’ottenere incentivi dai governi dei vari paesi in cui operano, compresa la Cina.

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Per Tsinghua Unigroup e SMIC, il sostegno diretto al budget attraverso sovvenzioni e crediti d’imposta è stato molto inferiore: 1,5 miliardi di dollari e 1 miliardo di dollari rispettivamente. Tuttavia, l’accesso al capitale a buon mercato è stato in grado di aumentare il sostegno effettivo totale rispettivamente a $ 10 miliardi e $ 6 miliardi. Il massiccio sostegno della Cina alle sue società nazionali può quindi essere inteso in parte come uno sforzo di recupero in un settore in cui gli operatori storici, enormi e potenti, operano su scala globale, possono trarre vantaggio dai regimi di sovvenzione in molti paesi. molti paesi e hanno significative basi di reddito da cui finanziare le loro spese di investimento e ricerca e sviluppo.

 

Un mandato di fusione e acquisizione

 

Fin dall’inizio, i politici cinesi hanno riconosciuto che anche con un forte sostegno pubblico, i produttori di chip nazionali avrebbero difficoltà a crescere rapidamente in molti segmenti. Quindi hanno esortato le aziende cinesi ad acquistare società straniere la cui tecnologia non potevano replicare. Ciò ha portato a una serie di tentativi di acquisizione tra il 2015 e il 2018, con offerte cinesi su Micron, Western Digital, Aixtron e altre società di semiconduttori negli Stati Uniti, in Europa e in Asia. Praticamente nessuna di queste acquisizioni ha avuto successo, con molte bloccate dai governi dei paesi target. Il loro impatto principale è stato quello di provocare una reazione protezionista, soprattutto negli Stati Uniti.

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Un ultimo pezzo della politica sui semiconduttori che ha ricevuto molta più attenzione di quanto dovrebbe essere una serie di obiettivi di quota di mercato digitale pubblicati nei piani Made in China 2025.e varie roadmap tecniche di supporto. Questi includono l’obiettivo del 40% di autosufficienza nazionale in “componenti di base” entro il 2020, che salirà al 70% nel 2030, e obiettivi di quota di mercato per i produttori cinesi di circuiti integrati. in Cina (41-49% entro il 2020, 49- 75% entro il 2030) e nel mondo (15-21% nel 2020, 21-34% nel 2030, o anche di più). Questi obiettivi dovrebbero essere presi sul serio – come una dichiarazione dell’intenzione generale che le aziende cinesi dovrebbero migliorare la loro tecnologia e aumentare la loro quota di mercato – ma non letteralmente. Nei documenti originali, spesso non viene specificato quali siano i valori di riferimento, né se gli obiettivi si riferiscono alla produzione basata in Cina (indipendentemente dalla proprietà) o alla produzione di imprese di proprietà cinese. La domanda per l’industria cinese dei semiconduttori non è se sta raggiungendo questi obiettivi arbitrari e mal definiti, ma quanto velocemente sta migliorando le sue capacità e in quali segmenti.

https://www.revueconflits.com/2-semi-conducteurs-la-quete-de-la-souverainete/

Cina, Russia e la strategia dell’indirizzamento, di George Friedman

Cina, Russia e la strategia dell’indirizzamento

Di: George Friedman

L’Europa è stata il principale campo di battaglia della Guerra Fredda. La NATO ha adottato una strategia difensiva perché non vedeva alcun valore nella conquista dell’Europa orientale e della Russia occidentale. I sovietici, tuttavia, avevano interesse a garantire la penisola europea per proteggere la sua frontiera occidentale e sfruttare la tecnologia e le capacità navali dell’Europa occidentale. Mosca però non potrebbe mai lanciare un attacco. I suoi satelliti occidentali erano imprevedibili. La lunga linea logistica necessaria per supportare un’offensiva corazzata era incerta e vulnerabile agli attacchi aerei. Inoltre, i sovietici non sapevano cosa esattamente avrebbe innescato una risposta nucleare americana. Rischiare uno scambio nucleare non valeva alcun vantaggio possibile che si potesse ottenere da un’offensiva su vasta scala. Quindi, per oltre 40 anni, c’è stata una situazione di stallo in Europa.

I sovietici hanno sostenuto costi che non potevano essere sostenuti poiché limitavano lo sviluppo economico. Né potevano modificare la loro posizione militare senza conseguenze politiche significative in patria o nell’Europa orientale. Così si sono mossi per integrare la loro posizione in Europa con una strategia di indiretto. Il fulcro di questa strategia era creare minacce a basso costo per il potere americano a cui gli Stati Uniti dovevano rispondere e che costringessero gli Stati Uniti a disperdere le forze e invitare a contraccolpi politici.

Il primo grande esempio fu la Corea, dove i sovietici incoraggiarono sia l’invasione del sud che, in seguito, il coinvolgimento cinese. Ci sono stati molti calcoli sull’invasione della Corea del Sud da parte di Russia e Cina, ma alla fine ha creato un problema per gli Stati Uniti: se avesse rifiutato il combattimento, la sua credibilità tra gli alleati sarebbe stata persa, e se si fosse impegnato in un combattimento, avrebbe deviare le forze su un campo di battaglia in cui aveva poco interesse oltre a difendere la propria credibilità. La guerra di Corea ha effettivamente sottratto risorse all’Europa e ha sollevato dubbi sul giudizio e sulla capacità di Washington di rafforzarsi di fronte a un attacco sovietico. La guerra costò al presidente Harry Truman una grande popolarità, costringendolo a non candidarsi nel 1952 e aiutando a incoraggiare l’indebolimento della fiducia maccartista nel governo.

La Corea era l’essenza dell’attacco indiretto. Il costo per i sovietici era basso, le conseguenze politiche e psicologiche alte. Non aveva lo scopo di spezzare il potere americano, ma di indebolirlo e diffonderlo.

I sovietici crearono molti problemi indiretti per gli Stati Uniti in Africa, America Latina e, soprattutto, Vietnam. La parola d’ordine negli Stati Uniti era credibilità, e quella era la forza che costringeva gli Stati Uniti in Vietnam: cedere il Vietnam del Sud avrebbe indebolito la credibilità degli Stati Uniti in Europa, il principale teatro delle operazioni. Quindi i sovietici, insieme alla Cina, fornirono materiale ai nordvietnamiti nel tentativo di indebolire gli Stati Uniti

Gli americani hanno affrontato insurrezioni o regimi sostenuti dai sovietici in tutto il mondo. Hanno anche affrontato gruppi terroristici sostenuti dai sovietici in Europa e altrove. L’intelligence statunitense è stata costretta a una posizione globale piuttosto che mantenere un focus laser sui sovietici. Le azioni degli Stati Uniti in questi paesi hanno portato a fallimenti umilianti e successi catastrofici, in cui il costo politico ha ampiamente superato la minaccia. I sovietici rimasero in una posizione statica nella principale area di combattimento mentre si assumevano rischi minimi per portare gli Stati Uniti fuori posizione nella battaglia principale. Alla fine non sono riusciti a trasformare l’indiretto in una strategia vincente, ma hanno impedito agli Stati Uniti di concentrare le proprie forze direttamente su di loro.

I cinesi ei russi sono entrambi in questa posizione oggi. La marina cinese è con le spalle al muro nella costa orientale della Cina e in una serie di nazioni a poche centinaia di miglia di distanza. Deve sfondare, ma ha poco spazio di manovra, indipendentemente dall’hardware che ha costruito. I cinesi possono o non possono avere successo, ma il risultato è troppo importante perché una nazione rischi la sconfitta.

I russi stanno lottando per riconquistare i confini che avevano più o meno detenuto dal 18° e 19° secolo. Minacciare nuovi territori è una cosa. Cercare di recuperare il territorio perduto è un altro, soprattutto quando il territorio è vasto, come va dall’Ucraina all’Asia centrale. Ciò che è stato perso in un anno impiegherà generazioni a riprendersi. È più vulnerabile di quanto sembri. Ha perso così tanto che riconquistare l’Europa dell’Est è un sogno e deve resistere ai tentativi americani di contenerla sulla sua linea attuale.

Quando una forza principale non può essere applicata con sicurezza, è necessaria una strategia indiretta. Si è parlato di un’alleanza russo-cinese. È difficile immaginare come i due paesi possano coordinare le loro forze armate, e un’alleanza economica non ha alcun significato data la debolezza economica russa e il potere della Cina. Ma un’alleanza è molto concepibile: un’alleanza segreta intesa a deviare e diffondere il principale nemico di entrambi, gli Stati Uniti, e quindi ridurre la pressione di Washington su di loro.

Cina e Russia non sono mai state particolarmente vicine e infatti erano nemiche negli anni ’60. Tuttavia, hanno collaborato alle guerre di Corea e Vietnam, l’ultima delle quali ha danneggiato gli Stati Uniti. La collaborazione non è stata decisiva nel futuro a lungo termine di nessuno dei due paesi, ma ha liberato alcune pressioni occidentali e creato alcune opportunità. Hanno avuto una certa esperienza nella guerra indiretta contro gli Stati Uniti.

Con questo tipo di esperienza nella guerra indiretta, ci sono molte aree in cui uno o entrambi potrebbero agire. I cinesi hanno una strategia economica progettata per legare i destinatari degli investimenti alle relazioni politiche con la Cina. Il difetto inerente a questa strategia è stato riscontrato dagli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale, quando i regimi sponsorizzati dai sovietici hanno semplicemente nazionalizzato le risorse statunitensi. Gli interessi degli Stati Uniti avevano molte risorse ed erano pesantemente investiti a Cuba, per esempio. Ma la proprietà è un pezzo di carta che può essere rapidamente abolito con l’arrivo delle truppe. Quindi la Cina può “possedere” il Canale di Panama, ma lo fa senza l’obiezione di Washington. Se mai si oppone, un battaglione di Marines può cambiare tutto.

Quello che i cinesi ei russi devono fare è creare insurrezioni politico-militari e governi sparsi in tutto il mondo nella speranza che gli Stati Uniti, mantenendo un’alleanza contro Cina e Russia, possano essere costretti a rispondere. Più vicini agli Stati Uniti, maggiore è la necessità di rispondere. Ecco perché l’America Latina era un terreno fertile per i sovietici. Se gli Stati Uniti prevengono, iniziano ad accumulare costi militari e politici. In caso contrario, il pericolo sono enormi costi politici.

Una strategia dell’indiretto è una strategia dell’opportunismo. Squadre di intelligence sono inserite in luoghi che sono già ostili agli Stati Uniti La chiave è creare così tante minacce percepite e incognite che l’intelligence statunitense è costretta a contrastare, ma contrastarle tutte è quasi impossibile anche se fosse politicamente accettabile.

I cinesi ei russi affrontano lo stesso problema in linea di principio. Le opzioni militari convenzionali contro gli Stati Uniti potrebbero funzionare, ma c’è una reale possibilità che non lo facciano, e nessuno dei due può permettersi le conseguenze interne del fallimento. Non riescono a trovare accordi soddisfacenti con gli americani e sono quindi lasciati con una posizione strategica di cui gli Stati Uniti potrebbero trarre vantaggio. Questo scenario deve essere evitato, quindi una strategia indiretta è ovvia. La strategia economica cinese va bene a breve termine, ma è molto vulnerabile ai cambiamenti di governo. La creazione di stati antiamericani è fondamentale. Una strategia indiretta è più prudente, e Russia e Cina sono nazioni prudenti. Devono esserlo.

https://geopoliticalfutures.com/china-russia-and-the-strategy-of-indirection/?tpa=N2RkOGNjNTAxMDg4NjI0MTAzNTM4ODE2MjU2NzIyODhiMzQ2ODY&utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_term=https%3A%2F%2Fgeopoliticalfutures.com%2Fchina-russia-and-the-strategy-of-indirection%2F%3Ftpa%3DN2RkOGNjNTAxMDg4NjI0MTAzNTM4ODE2MjU2NzIyODhiMzQ2ODY&utm_content&utm_campaign=PAID+-+Everything+as+it%27s+published

LOGICA DEL MULTIPOLARE, Pierluigi Fagan

LOGICA DEL MULTIPOLARE. [Post-articolo di geopolitica teorico-pratica] Il sistema multipolare ovvero una compresenza di più potenze in uno stesso contesto, dovrebbe ritenersi la norma delle relazioni internazionali quando lo stato del contesto è normale ovvero pacifico e non speciale cioè bellico. Poiché però proveniamo da una storia in cui il mondo era meno globale, più gerarchico, meno denso e più bellico, il formato ci sembrerà nuovo ed inedito e quindi poco conosciuto. Cerchiamo quindi di conoscerlo meglio.
Abbiamo quattro novità di contesto oggi. Il mondo ha triplicato la sua popolazione ed il numero degli stati negli ultimi settanta anni, il mondo è quindi più denso, molto più denso ed affollato che in precedenza, il che porta una maggior complessità nel problema della convivenza.
La seconda novità è che il mondo è e sarà sempre più globale. Col termine “globale” s’intende il venirsi a formare di un meta-sistema-mondo. Un contesto “mondo” c’è stato, almeno per noi occidentali, dal Cinquecento, ma nel corso del tempo su fino alla grande estensione dell’Impero britannico, poi le due prime (forse ultime?) guerre “mondiali” ed infine col processo di infrastrutturazione interna a base di scambi economici e non solo ed in ragione della maggior densità interna, il “mondo” è oggi “il” contesto generale madre per ogni altro sotto-contesto particolare.
Le gerarchie-mondo hanno visto gli europei dominare fino al XX secolo con colonie ed imperi, poi il sistema europeo è collassato con due conflitti cataclismatici ed il sistema dominante europeo ha lasciato il posto ad una galassia occidentale che ruotava intorno agli Stati Uniti d’America. Sia per compattare la galassia usando l’identità negativa (noi siamo … in quanto contro …), sia per oggettiva concorrenza tra modelli ambiziosi (la società-mercato vs la società-politica, liberale la prima, comunista la seconda) dove per “ambiziosi” s’intende con sguardo espansivo con ambizioni egemoniche, s’è venuto a formare un contesto detto “bipolare”. Non lo era in effetti, già dagli anni ’50 si viene a formare una terza galassia, quella dei paesi non allineati ad uno dei due poli, ma né questa galassia poteva dirsi un polo, né era competitiva con gli altri due mostrando una sua omogeneità interna (era anch’essa una identità negativa), né il nostro sguardo si interessava più di tanto del mondo in quanto tale, “mondo” era per noi la porzione che ci riguardava. Ma era pur sempre una eccedenza della semplificazione bipolare. Negli anni ’90, implode il polo sovietico ed inizia una nuova fase di globalizzazione infrastrutturale (Internet), commerciale (WTO) e finanziaria. Nel frattempo, si anima l’Asia (“l’eccedenza bipolare”) con la crescita del sub-sistema multipolare del Sud-Est asiatico, la potente crescita cinese seguita ad una certa distanza da quella indiana. Oggi e sempre più in futuro, la distanza di potenza tra vertice e base del sistema-mondo tenderà ad accorciarsi in un processo sistemico naturale di auto-omogeneizzazione relativa (dalla Grande divergenza alla Grande convergenza). Questo intendiamo per “meno gerarchico” ovviamente in senso relativo. E’ proprio la dinamica di questo terzo punto, sommata alle alte due, a determinare l’ineluttabilità della forma multipolare.
Infine, dato un mondo ormai pienamente ed irreversibilmente multipolare, l’intonazione delle relazioni interne sarà ovviamente conflittuale dato che parliamo di sistemi umani e non di atomi o molecole o branchi, stormi, banchi di animali non pienamente intenzionali, ma con un invisibile limite all’uso della forza diretta, almeno tra poli. Conflittuale e cooperativo sarebbe più preciso dire, a seconda di temi, tempi, contesti particolari. Il limite all’utilizzo della forza almeno tra poli è dato sia dal limite involontariamente posto dalle armi nucleari (M.A.D.), sia dalla non convenienza a disordinare pesantemente lo stesso contesto mondo da cui ormai dipendiamo tutti, volenti o nolenti. Quest’ultima condizione, negli “occidentali”, è più cogente per gli europei che abitano un promontorio dell’Eurasia, che per gli anglosassoni che da tradizione abitano isole (britanniche, australi, continentali nel caso nord-americano). Da cui una obiettiva divergenza di interessi tra i due occidenti.
Ecco quindi il contesto multipolare per la prima volta davvero a dimensione mondo, un mondo molto denso, in cui è meno facile ordinare con una asciutta gerarchia semplificata, la cui regola interna è competere e cooperare con un sempre più improbabile (per quanto sempre possibile poiché l’umano è sì intenzionale ma non per questo si è emancipato del tutto dalla stupidità intrinseca) possibile ricorso allo strumento usato sempre ed ovunque in cinquemila anni di storia società complesse: la guerra diretta tra concorrenti. Quattro belle novità, sul piano storico che dovrebbero esser assunte su quello teorico.
Non sempre, agli umani, capitano periodi storici con salti di novità così importanti e radicali, stante che per capire il mondo non possiamo, almeno inizialmente, far altro che volgerci indietro per capire dall’esperienza passata come si svolgerà il futuro. Se questo ricorso all’indietro per prevedere il davanti è tipico della nostra tradizione mentale, il meccanismo fallisce quando si è la fortuna o sfortuna di capitare in periodi di così pronunciata discontinuità. Vedi il “tacchino induttivista” di B. Russell. Infatti, da ciò che si legge in ambito “esperto” o in ambito “dilettante” quanto a geopolitica, sembra che molti abbiamo una grossa difficoltà a comprendere la natura del mondo multipolare. Il discorso pubblico vede ancora riproposti concetti inadatti come “dominio o egemonia sul mondo”, “guerra fredda”, “terza guerra mondiale” (per fortuna ora un po’ meno, sino a qualche anno fa era un tema che andava molto soprattutto tra i tendenti alla paranoia esistenziale), legge ferree delle talassocrazie o il fatidico centro egemonico del capitalismo, tutti concetti pescati nell’indietro e quindi poco adatti a comprendere il davanti.
Tutto ciò ci serviva anche come premessa per commentare l’esito del primo giorno del summit europeo a 27 che si tiene a Bruxelles. A notte inoltrata e dopo essersi piacevolmente unitamente intrattenuti sull’omofobia di Orban, i 27 si sono spaccati sull’ipotesi di un vertice UE-Russia avanzata con grande intenzione da Francia-Germania (e per quel che conta cioè poco, l’Italia). Contrarissimi sia i paesi dell’Est, sia quelli del Nord propriamente detto (Olanda e Svezia), questi ultimi preoccupati anche dal fatto che tema sul tavolo dell’eventuale nuovo dialogo con Mosca ci sarebbe l’Artico, ma anche per via del fatto che da sempre hanno “special relation” con l’UK. UK che ovviamente è contrarissima a questa ipotesi di nuove aperture verso Mosca ed infatti giusto l’altro giorno hanno mandato una barchetta in acque russo-ucraine sperando di poter provocare qualche incidente che invalidasse ogni velleità europea di dialogo euro-russo. La disciplina stessa “geopolitica” inizia in pieno dominio dell’impero britannico con un geografo inglese preoccupato del fatto che si potesse venire a creare nell’Heartland un sistema egemone, lì dove gli “isolani” diverrebbero fatalmente “isolati” ovvero periferici.
Si può immaginare che questa apertura franco-tedesca sia stata moneta di scambio tra USA ed il bipolo egemone nel sistema UE, come compensazione per i nuovi divieti di relazione diretta con la Cina. Moneta data o pretesa o implicitamente dovuta secondo i due europei. Concessa o tollerata dagli USA sia per dar seguito dal vertice Biden-Putin (con Biden che dall’iniziale “di senno sfuggito”: criminale! è stato consigliato a passare a più miti consigli), sia perché poi manovrando appunto i paesi dell’est o i nordici molta sabbia può esser messa negli ingranaggi delle relazioni internazionali del quadrante, se dovessero prendere una piega non conforme ai desideri dell’egemone del sistema occidentale.
Di per sé non è ancora successo niente, ma c’è molto movimento. Sembra si avveri il desiderio o profezia di Kissinger verso un grande ritorno della diplomazia e del resto Kissinger pare uno dei pochi che capisce la natura dell’argomento. Il summit si è concluso con l’aperta bocciatura della proposta franco-tedesca, c’è da giurare che i due non molleranno ed in vario modo porteranno comunque avanti l’intenzione, c’è da dar per scontato che UK-vari paesi europei con dietro gli USA troveranno altri mille modi per sabotare tale intenzione. Non è ancora fattivamente successo nulla nelle relazioni con la Cina che, al netto della semplificata rappresentazione del problema cinese che si dà qui da noi, è di fatto un sistema massivo inscritto in un continente che non può esimersi dall’averlo come centro gravitazionale ineliminabile, lì dove tra l’altro risiede il 60% dell’umanità ovvero l’Asia. La Russia sta a guardare solida delle sue nuove relazioni asiatiche pur sapendo tutti noi molto bene quanto, storicamente e culturalmente, la Russia stessa si ritenga parte orientale dell’Europa e non parte occidentale dell’Asia.
Quindi al di là delle chiacchiere e dei proclami, tutti sanno che questo è il nuovo gioco di tutti i giochi. Biden che segue il buonsenso geopolitico di provare a spacchettare o quantomeno allentare l’asse Russia-Cina, Merkel-Macron che potrebbero rallentare i rapporti coi cinesi se gli si dà sfogo in Russia, Putin che da tutto ciò quanto a terza forza è colui che, potenzialmente, potrebbe trarre il maggior vantaggio dal nuovo mondo multipolare bilanciandosi un po’ di qua ed in po’ di là secondo convenienza. Stante che se il mondo nuovo si dice “multipolare” non è solo perché il primo girone di potenza passa da due a tre-quattro, ma anche perché ci saranno India, Giappone, Corea, Indonesia, Pakistan, Turchia, petro-monarchie, Egitto, Brasile e molti altri che parteciperanno al nuovo gioco sebbene in più limitate aree locali. Ma il mondo nuovo sarà così, multistrato e più complesso.
Quando scrissi il mio libro sul mondo multipolare, scoprii che nel reparto relazioni internazionali dello staff elettorale di Trump c’erano cinque consulenti. Nell staff di Biden in campagna elettorale e poi oggi nel governo pare ce ne siano cinquemila, se ho ben letto. Questa differenza di grana con cui si osservano i fatti del mondo per poi influenzarli, dice quanto inedito e complesso è il mondo multipolare. Una complessità necessaria che molti farebbero meglio a studiare di più e meglio piuttosto che far finta di capire cos’è il nuovo gioco geopolitico pensando che ciò che è stato, sarà di nuovo e per sempre. Lascerei quindi agli archivi Tucidide, che pure amiamo tutti molto, e cercherei di sintonizzarci sul mondo del XXI secolo che con il Peloponneso del V secolo a.C. ha poche analogie strutturali.
E se siete intellettualmente interessati dalla geopolitica, consiglierei anche di controllare le vostre preferenze emotivo-ideologiche che vi fanno ora amici appassionati ora nemici irriducibili dei cinesi, dei russi, degli americani, dei franco-tedeschi etc. . L’avalutatività weberiana è un miraggio, convengo, ma insomma, c’è modo e modo di farsi condizionare dalle nostre preferenze ideologiche. Anche se capisco che giocare a capire la geopolitica è più divertente che cercare di capirla davvero.
NB_tratto da facebook

la convivenza difficile tra israeliani e palestinesi_con Gabriele Levy

Cambiano le modalità nel corso dei decenni, ma la natura conflittuale dei rapporti tra israeliani e palestinesi rimane senza soluzione di continuità. Ci sono state occupazioni di terre, opportunismi e tradimenti, conflitti endemici e confronti drammatici dietro una solidarietà di facciata ed una aperta ostilità. La gran parte delle scelte politiche, una volta consolidato lo Stato di Israele, non hanno certo preparato ad una soluzione che non sia una tregua. Il problema essenziale è che sino a quando la realtà politica ed istituzionale palestinese non troverà una corrispondenza accettabile con quella socioeconomica difficilmente potrà sorgere un attore sufficientemente autorevole da poter sostenere uno scontro politico e geopolitico così aspro con la necessaria autonomia e una chiarezza di obbiettivi che renda possibile alla obbligata convivenza nella vita quotidiana quella politica ed istituzionale capace di dare espressione ad un popolo. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vj2ywd-gabriele-levy-ci-parla-della-convivenza-difficile-tra-israeliani-e-palestin.html

Tutte le sintonie fra Erdogan e Biden di Giuseppe Gagliano

Tutte le sintonie fra Erdogan e Biden

di

erdogan biden

Nonostante tutto, la Turchia di Erdogan si conferma importante e utile agli Stati Uniti di Biden. Ecco perché. L’analisi di Giuseppe Gagliano

 

Nonostante il presidente turco sia stato definito un autocrate da Biden, e nonostante il fatto che le istituzioni americane abbiano definito l’eliminazione degli armeni come un vero e proprio genocidio, l’incontro a Bruxelles si è concluso con un’affermazione tutt’altro che sorprendente da parte del presidente turco, affermazione secondo la quale con gli Stati Uniti non ci sono problemi che non possono essere risolti. Proprio lo stesso presidente americano d’altronde ha confermato che l’incontro col suo omologo turco è stato produttivo.

Nonostante il ruolo sempre più assertivo da parte della Turchia in Medio Oriente, nonostante l’opposizione di Ankara al sostegno degli Stati Uniti ai combattenti curdi in Siria e, infine, nonostante gli Usa abbiamo penalizzato la Turchia per l’acquisto del sistema di difesa missilistica S-400 della Russia, pare che fra i due leader sia tornato il sereno. Sarà forse per le virtù taumaturgiche della democrazia americana? O forse più realisticamente per interesse di realpolitik?

COSA FA LA TURCHIA PER GLI STATI UNITI

A cosa stiamo alludendo esattamente? Si fa riferimento alla possibilità che la Turchia possa mantenere una presenza militare in Afghanistan grazie al sostegno logistico e finanziario degli Stati Uniti; si fa riferimento al fatto naturalmente che la Turchia ha anche un ruolo potenziale da svolgere nella più ampia strategia di Biden di radunare alleati per opporsi all’influenza di Cina e Russia, nonostante il fatto che Erdogan abbia concluso un nuovo accordo di scambio di valuta da 3,6 miliardi di dollari con Pechino.

Ma stiamo anche alludendo al fatto che la Turchia è un avversario della Russia nello scacchiere siriano e libico, dove infatti i droni e le difese aeree turche sono stati fondamentali per respingere gli alleati della Russia.

Ma stiamo infine alludendo anche al fatto che la Turchia si è schierata con l’Ucraina sostenendo quindi gli Usa in funzione anti russa.

In definitiva, se la politica del presidente turco può apparire ondivaga e contraddittoria, in realtà le scelte di politica estera del presidente turco sono state sempre improntate a una vera e propria spregiudicatezza e a un calcolo politico volto a tutelare esclusivamente non solo gli interessi della Turchia e della sua proiezione di potenza, ma spesso anche gli interessi di quella ristretta oligarchia che ruota intorno al presidente turco.

APPARENZE E SOSTANZA

Quindi, al di là delle apparenze – spesso frutto di calcoli elettorali -, la sostanza delle relazioni tra America e Turchia segue le stesse linee di forza di quelle di Trump. Come d’altronde quelle con l’altro autocrate, e cioè con Mohammed bin Salman.

Nulla di sorprendente dal punto di vista storico: a conclusione della Seconda guerra mondiale – e soprattutto durante la guerra fredda – le democrazie hanno sempre avuto bisogno, per ragioni geopolitiche e geoeconomiche (leggi petrolio e non solo…), dei sistemi autocratici, sia che fossero in Medioriente, in Africa o in America latina.

Forse bisognerebbe spiegarlo anche ai vari autori dei numerosi manualetti di educazione civica diffusi nelle scuole superiori… oltre che al Miur.

https://www.startmag.it/mondo/erdogan-biden-rapporti-turchia-stati-uniti/?fbclid=IwAR0zKE07FCj3usFDUnLgzUg2HNKTywRQ1mMhFsSYC6PwXVk-WQ049dyaCOk

E DOPO CHE SI FA?_ di Pierluigi Fagan

E DOPO CHE SI FA? [Post lungo e denso] In Globotica, Baldwin osserva tre forze, più una, pressorie sull’istituzione sociale moderna del lavoro.
Della globalizzazione sappiamo: concorrenza da posizioni asimmetriche, delocalizzazioni, deregolazioni. Si sarebbe forse dovuto aggiungere la finanziarizzazione poiché la continua richiesta di profitto in tempi nei quali la vivacità produttiva ristagna in occidente ormai da parecchio, ha portato e porta ad una pressione sui costi d’impresa che fatalmente diventano costo del lavoro e costi di ricerca. Il paradosso perverso è che attaccando il capitale umano e quello cognitivo (io normalmente non userei l’espressione “capitale umano” che trovo assai volgare, ma nel discorso pubblico tocca a volte accettare gli standard in corso per intendersi), si rinforzano le ragioni che limitano l’ulteriore sviluppo aziendale che è alimentato dagli investimenti. Se gli investimenti vanno a profitto …
A ciò si aggiunge la conversione di lavoro umano con lavoro macchina (hard e soft). Tale conversione è spinta dalla stessa global-finanziarizzazione, nel senso che per competere ad armi semi-pari con concorrenti dal costo del lavoro (diretto ed indiretto) complessivamente più basso ed a (quasi) parità di qualità tecnica di performance, non rimane che agire proprio sul costo del lavoro. Ed è indubbio che il costo macchina sia di molto inferiore al costo dell’umano. Ad un certo punto Baldwin cita in modo sottilmente sprezzante l’ex segretario al Tesoro Steve Mnuchin che ancora nel 2017, a domanda su quanto l’IA erode ed avrebbe eroso lavoro umano, rispondeva che l’eventualità si sarebbe semmai presentata nell’arco di cinquanta, forse cento anni. Questo negazionismo protettivo delle nuove forze di mercato agisce da tempo sostenendo l’insostenibile e ricorrendo a ragionamenti fideistici che solo la diffusa confusione mentale permette di non notare.
Ma Baldwin pone sopra queste due pressioni note una terza. Se la prima “Grande trasformazione” svuotò le campagne e riempì le industrie e se la seconda iniziata negli ultimi decenni del secolo scorso, svuotò -qui in Occidente- le industrie e riempì i servizi, sono proprio i servizi oggi sotto attacco. Attacco dalla diffusione e progresso dell’IA (si pensi all’autoapprendimento) che tende a pareggiare la performance umana in molti casi ed un nuovo attacco su cui si sofferma in modo particolare. Si tratta di una particolare, nuova performance, dell’IA nel superare le barriere linguistiche per via della diffusione di traduttori istantanei, di scrittura ma anche di voce.
Si segnalano infatti almeno una dozzina di portali che offrono collaborazioni free-lance localizzate in tutto il mondo. Il free-lance on line costa pochissimo poiché localizzato in India, Pakistan, Bangladesh o altrove in Asia, è flessibilissimo, è estremamente competente poiché in genere si è formato in Occidente, è a contratto limitato ad una singola performance, lavora anche in anti-orario (quando qui si dorme). Questa figura, che va dal call-center all’ingegnere progettista, è stata sino ad oggi limitata dalla conoscenza dell’inglese, circa un miliardo di potenziali. Ma i nuovi sistemi anti-Babele, ora allargano il fenomeno ad un una platea di più miliardi di potenziali.
Si pensava quindi che i servizi fatti da esseri umani per esseri umani fossero protetti poiché i primi processi di recente globalizzazione riguardavano mani, non menti. Invece non lo sono, e per via dei progressi diretti di IA che pareggiano le prestazioni umane con vantaggio di costo, e per via di alcuni specifici progressi della stessa categoria che però mettono in contatto offerta locale con domanda a basso costo, entrambe umane, potenzialmente globale. Da cui il termine “globotica”.
Queste le tre pressioni. La “più una” è data dal discorso che qui abbiamo molte volte citato, preso dallo storico dell’economia R.J.Gordon a proposito della fine dello “special century” (1870-1970). Secondo il Gordon, le cui tesi sono sostanzialmente alla base delle fosche previsioni di “stagnazione secolare” di Summers-Krugman, abbiamo alle spalle un eccezionale ed irripetibile parentesi poietico-creativa a base tecno-scientifica. Meccanica, meccanica a vapore, elettricità, chimica, telecomunicazioni, intrattenimento, nello “special century” queste sono state innovazioni catastrofiche (che rivoltano la forma) che hanno dato luogo a sviluppi successivi di cascate e cascate di innovazioni di processo e di prodotto. Dopo gli anni ’70, negli ultimi cinquanta anni quindi mezzo secolo, c’è solo il digitale-informatico. Il quale, tra l’altro, va in genere più in sostituzione che in innovazione profonda. Fra un po’ avremo accesso all’intera libreria di ogni musica mai prodotta con chip sottocutaneo ed auricolari miniaturizzati impiantati direttamente nei padiglioni auricolari, ma insomma, si tratta pure sempre della radicale innovazione iniziale della “musica riprodotta in assenza dell’emittente” che risale ai primi grammofoni. O come nel caso delle automobili, l’innovazione radicale sarebbe il teletrasporto non l’auto elettrica che si guida da sola.
La tesi di Gordon è interessante perché storicizza un fenomeno che qui chiamiamo economia moderna (scienza-tecnica-capitale) in luogo del più usato “capitalismo”. Lo colloca cioè nel tempo ricordando che, come ogni altro fenomeno storico, si va incontro all’inesorabile regola dei rendimenti decrescenti, il “meglio” è andato.
Infine e relativamente a tutte e tre più una delle pressioni sul lavoro, necessario cardine del contratto sociale moderno, il tutto mostra due caratteristiche: 1) l’enorme dilatazione degli spazi per la quale ormai ed irreversibilmente il mercato è il mondo (anche quello del lavoro in forme dirette ed indirette); 2) l’incredibile velocità temporale delle trasformazioni che ormai non viaggiano più al ritmo del secolo o dei decenni, ma degli anni. Adattare istituzioni sociali umane e mentalità a questa velocità e dimensione del cambiamento è un grosso problema. Ed è “il” problema politico e sociale principale della nostra fase storica.
Baldwin non lo fa, ma come nel caso della finanziarizzazione da accoppiare strutturalmente alla globalizzazione, vi sono altri problemi incidenti. Dai limiti di compatibilità tra fare economico umano entropico e secondo principio della termodinamica nonché difficile equilibrio con il sistema complesso naturale (clima, ambiente, ecologie, biodiversità etc.), alla riduzione vistosa di potenza tra Occidente e resto del mondo che sta producendo la nuova “Grande convergenza” (sempre un libro di Baldwin che riprende la Grande divergenza di Pomeranz).
Ci si potrebbe poi aggiungere la ormai stanca e sempre meno sostenibile perversione in termini di teoria dei bisogni tra quelli materiali, quelli relazionali e quelli posizionali per cui i primi che erano il regno della necessità sono inondati da superfluità (ci dobbiamo muovere sì, ma del monopattino elettrico possiamo francamente fare a meno senza gravi turbamenti). I secondi -invece- sono negati e pervertiti portandoli a diventare interni ai terzi. Ad esempio “hai voglia di parlare con qualcuno?” come abbiamo fatto per centinaia di migliaia, forse milioni, di anni? Arriverà Cortana o Siri Existential, il tuo amico o amica che ti conosce meglio di quanto tu conosci te stesso (coi Sette Sapienti che si agitano nelle tombe, ma anche Confucio). Questa macchina è stanca anche lei e i numeri della epidemia di depressione certificata a dati WHO, sommata a quelli della criminalità, tossicodipendenze, alcolismo, disordini mentali (ansia, ad esempio) che alimentano Big Pharma e molte professioni mediche, ne danno numero-peso-misura obiettiva. Il bisogno -condizione di possibilità- per la soddisfazione di ogni altro ovvero il tempo, è la moneta di scambio per il reddito senza il quale non vivi. Quindi non hai tempo per te, per il tuo partner, per i figli, per gli amici, per l’auto-coltivazione fisica, psichica e culturale e quindi i bisogni relazionali sono programmaticamente frustrati per alimentare l’acquisto di succedanei ovvero beni posizionali. Comprati vendendo la tua libertà di gestite il tuo tempo umano.
Il pilone delle forme moderne di vita associata, il lavoro, tende a sgretolarsi, Aggredito qui da noi da globalizzazione, finanziarizzazione, avanzamenti IA diretti ed indiretti come nel caso della nuova globotica, limiti della fisica termodinamica e della chimica, riduzione di potenza geopolitica quindi geoeconomica, rendimenti decrescenti dell’innovazione, contrazione demografica (con invecchiamento medio), stanchezza della macchina perverti-bisogni.
Piena occupazione? Orario di lavoro? Salario di cittadinanza? Mi sa che anche a livello di elaborazione teorica, anche critica, c’è da farci sopra una riflessione più complessa. Si tratta di immaginare un nuovo tipo di contratto sociale, lottare per questo in senso strategico e non limitarsi alla difesa giapponese delle ultime trincee di un mondo che sta semplicemente svanendo nel flusso sempre cangiante del corso storico. Dovremmo tornare a nuotare nella storia, ma molti abituati alle dinamiche di terra moderna, sembra abbiamo perso la facoltà natatoria. Iscriversi in piscina o rimettersi a studiare?
Planck diceva cha la scienza progredisce ad ogni funerale, nel senso che poiché ciò che pensiamo è il senso della nostra identità che non cambiamo facilmente, debbono scomparire purtroppo i fisici portatori di una certa mentalità affinché si crei lo spazio per farne emergere di nuove, adeguate ai tempi, perché i tempi cambiano, sempre. Quest’ultima, è l’unica legge della storia e noi, in fondo, siamo solo precarie concrezioni storiche che fanno finta non esista il tempo perché il tempo allude alla morte.
(Del libro di Baldwin sono solo a metà, ma mi stimolava il ragionamento)

La Cina alle prese con la questione energetica, di Gavekal

Nonostante le politiche economiche restrittive della Cina, a causa dell’aumento dei prezzi di alcune materie prime, energia e materiali hanno sovraperformato nel 2021. Louis Gave è qui per riflettere sulle possibilità indotte da questa sovraperformance e sugli scenari che gli investitori dovranno affrontare in queste circostanze. Lo scenario che ritiene il più probabile è quello di un boom inflazionistico.

Articolo di Gavekal , traduzione di Conflits.
Autore: Louis Gave

Come ha sottolineato il mio collega Thomas Gatley, l’impennata del tasso di inflazione dei prezzi alla produzione in Cina, che ha raggiunto il livello più alto in 13 anni (9%) a maggio, è quasi interamente attribuibile al recente aumento dei prezzi dell’acciaio e dell’energia (cfr. Un altro tipo di inflazione ). Non sorprende che i politici cinesi non siano contenti di questi prezzi in rialzo. Da gennaio, la Cina è stata l’unica grande economia ad aver inasprito le politiche monetarie, fiscali e normative. Tuttavia, finora, le sue nuove restrizioni non sono riuscite a far deragliare il mercato rialzista delle materie prime, al punto che Pechino sta ora valutando di controllare i prezzi.

Negli ultimi due decenni, la Cina è stata generalmente il più grande acquirente di quasi tutte le materie prime. Per gli investitori, ciò significa che quando la Cina si sta stringendo e i politici cinesi hanno nel mirino i prezzi delle materie prime, ha senso ridurre l’esposizione alle materie prime.

Il commercio di uccisioni

Tuttavia, finora quest’anno questa semplice regola non ha funzionato. Coloro che hanno visto la condanna a morte dell’ex presidente Huarong Lai Xiaomin il 29 gennaio come un segno che Pechino intendeva raffreddare l’economia (l’esecuzione di finanzieri corrotti è un segnale forte per i banchieri nazionali, che devono rallentare il ritmo di crescita dei prestiti), e che hanno deciso di ridurre l’esposizione alle materie prime, quest’anno hanno perso i settori più performanti.

Energia e materiali hanno sovraperformato nonostante la stretta cinese

L’impressionante sovraperformance delle materie prime, nonostante l’inasprimento della politica cinese, suggerisce tre possibilità.

1. I mercati delle materie prime hanno corso. L’argomento è semplice. Quest’anno era ancora prevedibile un forte rimbalzo del PIL nominale (vedi Il boom del 2021 ). Ma una volta che il rimbalzo immediato avrà fatto il suo corso, le traiettorie economiche torneranno alle loro tendenze a lungo termine. E queste tendenze a lungo termine non sono molto eccitanti. In questa visione del mondo, la recente inversione dei prezzi di una serie di materie prime chiave, tra cui rame e legno, è un presagio di cose a venire.

2. Questa volta è diverso. Il ciclo attuale e la ripresa economica globale in corso sono diversi da quelli del 2002-2003, 2008-2009 o addirittura del 2015-2016. Mai prima d’ora la Federal Reserve statunitense ha iniettato liquidità nel sistema finanziario quando la crescita del PIL nominale era a due cifre e i deficit gemelli statunitensi si aggiravano intorno al 20% del PIL. Certo, la Cina si sta stringendo. Ma questo leggero inasprimento è facilmente controbilanciato dalla possibilità di una forte crescita statunitense, un rimbalzo della domanda finale europea, la ripresa di altri mercati emergenti e la debolezza del dollaro USA.

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3. Si tratta di vincoli di fornitura. L’attuale aumento dei prezzi ha meno a che fare con la previsione della domanda futura – sia dalla Cina, dagli Stati Uniti, dall’Europa o dai mercati emergenti – che con un’offerta insufficiente. I catastrofici ritorni sugli investimenti in materie prime nel periodo 2012-20, insieme all’enfasi odierna sugli investimenti rispettosi dell’ambiente, fanno sì che la maggior parte dei grandi investitori si sia allontanata dalle industrie estrattive. E nei mercati delle materie prime, una carenza di nuovi investimenti di solito si traduce in prezzi più alti (che a loro volta incoraggiano gli investimenti, aumentano la produzione e, in definitiva, abbassano i prezzi, e così via e così via).

L’equazione dell’energia

La scelta di uno di questi tre scenari determinerà in larga misura se l’attuale aumento dell’inflazione è temporaneo o se, quando le economie riapriranno completamente, l’inflazione si rivelerà più persistente del previsto.I politici lo sperano (vedi Q&A sul dibattito inflazione/deflazione ). Nel determinare quale scenario ha più probabilità di essere corretto, la direzione dei prezzi dell’energia sarà decisiva. Questo per un semplice motivo: l’energia rappresenta generalmente tra un quarto e la metà del costo di estrazione, produzione e commercializzazione di un prodotto di base, sia esso alimentare, di acciaio o di metalli preziosi. Pertanto, l’aumento dei costi energetici ha quasi sempre un impatto sul mercato delle materie prime in generale.
Oggi, i prezzi dell’energia sono a un punto chiave (vedi Le possibilità del petrolio in rialzo ). Nel 2021, era facile sostenere che gli investimenti in energia erano insufficienti per soddisfare la domanda in un mondo in forte espansione (vedi I tre prezzi chiave: il petrolio ). Al contrario, l’argomento ribassista per i prezzi dell’energia era che se gli investimenti del settore privato negli idrocarburi fossero stati probabilmente insufficienti, i governi in Europa, Stati Uniti, Cina e altrove avrebbero promesso di iniettare centinaia di miliardi di dollari USA nel finanziamento di una transizione verso “l’energia verde”. ”.
Abbiamo così assistito a una divergenza senza precedenti tra i corsi azionari delle società di energia verde e quelli dei produttori di idrocarburi (vedi Manie finanziarie: la follia dell’auto elettrica ). Quest’anno, tuttavia, la divergenza si è ridotta.

Le fauci del coccodrillo iniziano a chiudersi?

Tutto ciò lascia agli investitori tre possibili scenari:

1. I governi spendono una fortuna in energia verde e queste enormi somme stanno dando i loro frutti. I prezzi del petrolio raggiungono rapidamente il picco, si invertono e scompaiono gradualmente nell’indifferenza economica. In questo scenario, il mondo ritornerebbe a un boom deflazionistico. I titoli in crescita dovrebbero sovraperformare.

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2. I governi spendono una fortuna in energia verde, ma queste enormi somme si rivelano improduttive e l’economia mondiale rimane legata all’industria petrolifera. In questo scenario, i paesi che hanno sprecato capitale in una transizione energetica fallita vedono le loro valute diminuire e l’inflazione accelerare (per pagare gli investimenti sbagliati). Il mondo si avvia verso un boom inflazionistico, in cui il principale freno all’attività non è più il tasso di interesse, ma il costo dell’energia. Il rischio per gli investitori azionari non è più che le guardie obbligazionarie aumentino il costo del finanziamento e spingano le economie al collasso deflazionistico. Piuttosto, il rischio è che i “vigilanti delle materie prime” facciano salire il prezzo del petrolio e spingano le economie in una spirale inflazionistica. In un mondo del genere, le miniere di petrolio e d’oro stanno iniziando a sostituire i titoli di stato come asset anti-fragili scelti per proteggere i portafogli.

3. Gli investimenti del governo nella transizione energetica non sono all’altezza delle promesse fatte al culmine della crisi Covid. I prezzi dell’energia continuano a salire, ma gli aumenti sono contenuti dal ritorno di capitali privati ​​al settore mentre diminuiscono i timori di concorrenza governativa. In uno scenario del genere, i titoli di rendimento continuano a sovraperformare, ma è probabile che le mosse relative siano meno estreme.

Come i lettori potrebbero sapere, ho passato l’ultimo anno sostenendo che il secondo scenario è più probabile. Tuttavia, mentre le probabilità di successo per lo Scenario 1 sembrano ancora piuttosto lunghe, nelle ultime settimane le probabilità di successo per lo Scenario 3 sembrano essere diminuite.

In primo luogo, questo è dovuto al fatto che la politica statunitense ha portato alla riduzione del piano di investimenti infrastrutturali del presidente Joe Biden. In secondo luogo, l’inasprimento fiscale cinese potrebbe portare a una moderazione nella spesa per investimenti, soprattutto nelle energie alternative. Terzo, e forse il più importante, è perché la notizia che la Russia inizierà a pompare gas naturale attraverso il gasdotto Nord Stream 2 in pochi mesi promette di risolvere il dilemma energetico della Germania.

Se la Germania può ora accedere a gas russo abbondante e a buon mercato, i politici tedeschi continueranno a sostenere una spesa gigantesca di energia verde a livello dell’Unione europea? Solo poche settimane fa, la risposta avrebbe potuto essere “sì”. Ma con il Partito dei Verdi tedesco che sembra aver raggiunto l’apice nei sondaggi d’opinione e resta indietro rispetto ai democristiani più conservatori fiscalmente, si può mettere in discussione l’impegno della Germania – e quindi dell’Europa – a favore di massicci investimenti in energia verde.

https://www.revueconflits.com/economie-energie-chine-louis-gave-gavekal/

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