UNA TRAVERSATA NELLA TERATOLOGIA GIURIDICA: SU ALCUNI PROFILI DELL’ORDINANZA DEL G.I.P. DI AGRIGENTO IN MERITO ALLA VICENDA DELLA NAVE SEA WATCH 3, di Emilio Ricciardi
UNA TRAVERSATA NELLA TERATOLOGIA GIURIDICA: SU ALCUNI PROFILI DELL’ORDINANZA DEL G.I.P. DI AGRIGENTO IN MERITO ALLA VICENDA DELLA NAVE SEA WATCH 3.
Nonostante il decerebramento mediatico che il richiamo all’imperativo categorico della protezione del debole emigrante straniero è purtroppo in grado di provocare, così inibendo sovente un fresco moto intellettuale che pure parrebbe, a dispetto della melassa umanitaristica intorpidente passioni e razionalità, affiorare ed anzi talvolta ambire risolutamente all’esistenza piena, il consistente e non di rado puntuto flusso di considerazioni critiche che ha investito l’ordinanza pronunciata dal g.i.p. del Tribunale di Agrigento il 2 luglio u.s. in merito alla vicenda che coinvolge la comandante dell’imbarcazione Sea Watch 3 per i fatti di Lampedusa del 29 giugno u.s., lascia supporre che ancora alberghi, quantomeno in un certo numero di menti italiche, un vivido gusto per l’autonomia e la lucidità del pensiero.
In effetti, la gran parte delle molteplici analisi giuridiche dell’ordinanza in questione che si è dispiegata sine ira et studio nei giorni immediatamente susseguenti alla sua emissione, mi pare abbia ben colto, quando più quando meno efficacemente, il bersaglio.
Certo, va pur detto che non si trattava di compito impervio, né tanto meno prometteva di esibire i tratti sublimi di una contesa con un’avversa forza maestosa e terribile. Al contrario, il provvedimento del 2 luglio u.s., e qui anticipo in epitome la più articolata valutazione che emergerà da questo scritto, è a mio avviso costrutto argomentativo claudicante e mal congegnato, che pare far strame d’ogni decente grammatica giuridica.
Insomma, lungi dal trovarcisi al cospetto di un grande errore, ché notoriamente questo solo aiuta ad accostare le grandi verità, si è piuttosto in presenza, più modestamente, di un atto giuridico malfermo, che pare rampollare esclusivamente dalla fretta e dalla concitazione indotte dal desiderio fremente ed impaziente di scagionare Carola Rackete dalle accuse contestatele, pure a costo di figliare sgorbi giuridici.
Fatto si è che, e una riflessione individuale e la lettura delle analisi di alcuni autorevoli giuristi, e mi riferisco in particolare a quelle di Pietro Dubolino (su La Verità del 4 luglio 2019) e Bruno Tinti (su Italia Oggi del 4 luglio 2019), parevano aver soddisfatto e saturato ampiamente la mia esigenza di formarmi un’opinione definitiva sullo spessore giuridico dell’ordinanza, oltreché, direi, su quei riflessi culturali e quelle pieghe della mentalità del magistrato estensore che il contenuto di essa pare far trapelare e sottintendere. Ero, in altri termini, ormai interessato solo a conoscere quale sorte la Procura di Agrigento volesse tentare di contribuire ad imprimere all’ordinanza: in ultima istanza, se la impugnasse o meno.
Tuttavia, poiché nel frattempo alcuni lettori del mio commento del 3 luglio u.s. all’intervento di Augusto Sinagra apparso su questo sito il 2 luglio 2019 ed intitolato “Io sto con Carola”, mi interpellavano (esplicitamente e no) affinché esprimessi un mio parere sulle deduzioni svolte in merito all’ordinanza da quei giuristi da me già prima citati nonché da altri osservatori (ossia l’avvocato romano Massimiliano Gabrielli, “Gog Magog” e Stefano Alì, autori di rispettivi interventi apparsi su internet tutti in data 3 luglio 2019), ho colto l’occasione fornitami da queste sollecitazioni per tornare ex professo e per iscritto nuovamente sulla questione, avendo così modo di svolgere più approfondite considerazioni.
E dunque: in linea generale, le deduzioni in parola mi trovano consenziente, seppure in misura diversa e variabile a seconda di quale sia il singolo scritto di volta in volta preso in esame.
Provo dunque ad indicare di seguito le valutazioni che ritengo più rilevanti, tra quelle disseminate nelle varie analisi del contenuto dell’ordinanza, su cui sono d’accordo ed in dissenso (o comunque che non mi convincono appieno), approfittando al contempo della circostanza per soffermarmi su un profilo fattuale della vicenda che, sebbene appaia nient’affatto trascurabile, non ha trovato traccia negli addebiti contestati (e trascritti alle pagg. 1-2 dell’ordinanza) dalla Procura di Agrigento a Rackete in sede di iscrizione di costei nel registro delle notizie di reato e nella richiesta di convalida dell’arresto nonché di applicazione della misura cautelare.
Beninteso, si tratta, com’è evidente da quanto appena riferito, di un profilo fattuale che esula dal contenuto del prodotto giurisdizionale in discussione, e dunque risulterebbe rivestire rilevanza periferica rispetto al tema principale affrontato nella presente nota.
Senonché, l’opportunità di una sua segnalazione mi pare giustificata dalla poziore esigenza di ipotizzare l’esistenza di una sorta di idem sentire, di un’omogeneità culturale di fondo tra g.i.p. di Agrigento e corrispondente ufficio di procura, ove si consideri che, affianco a quello che – come si potrà apprezzare nel corso di questo scritto – appare un preconcetto ideologico a favore dell’indagata che sembra intravedersi in filigrana nelle opzioni argomentative del provvedimento emesso dal primo, si pone, in significativa sintonia, un atteggiamento quantomeno lasco se non decisamente benevolo assunto dalla Procura di Agrigento nei confronti degli agenti umanitari in precedenti analoghi accadimenti.
In particolare, non mi pare possano essere obliate le bizzarre recenti scelte investigative operate dalla Procura di Agrigento in occasione del tentativo di approdo al porto di Lampedusa della Sea Watch 3 compiuto nello scorso mese di maggio u.s., allorquando, cioè, la stessa decise, in sequenza, di: ordinare lo sbarco degli emigranti presenti nella nave; disporre il solo sequestro probatorio della Sea Watch 3; non richiedere, com’è invece d’uopo in questi casi, tanto più trattandosi di corpo di reato, il sequestro preventivo di essa; disporre infine il successivo veloce dissequestro del natante, che, dal canto suo, commosso, ha ringraziato, tornando, come s’è visto, alle proprie usuali peregrinazioni.
Ciò detto, è giunto il momento di entrare finalmente in medias res.
1) Anzitutto, non posso naturalmente che aderire al rilievo, espresso da pressoché tutti i commentatori in esame (a parte Bruno Tinti, che non prende proprio in considerazione il tema), secondo cui il richiamo del g.i.p. alla sentenza Corte Cost. 3 febbraio 2000, n. 35 – che esso crede di invocare a sostegno della propria tesi circa la pretesa non riconducibilità dei navigli della Guardia di finanza alla categoria delle navi militari, al fine di escludere in concreto la sussistenza del reato di cui all’art. 1100 cod. nav., il quale, al comma 1°, recita: “Il comandante o l’ufficiale della nave, che commette atti di resistenza o di violenza contro una nave da guerra nazionale, e’ punito con la reclusione da tre a dieci anni” – risulta macroscopicamente erroneo, traducendosi in realtà in un risultato esattamente opposto a quello che il g.i.p. si prefiggeva di ottenere.
Difatti, nella suddetta sentenza si può leggere “che le unità navali in dotazione della Guardia di finanza” vanno considerate “<navi da guerra>”, tant’è che “nei loro confronti sono applicabili gli artt. 1099 e 1100 del codice della navigazione (rifiuto di obbedienza o resistenza e violenza a nave da guerra), richiamati dagli artt. 5 e 6 della legge 13 dicembre 1956, n. 1409 (Norme per la vigilanza marittima ai fini della repressione del contrabbando dei tabacchi)”.
Insomma, il g.i.p. di Agrigento, con il fallace richiamo in parola, si dà, con inusitata vigoria, la proverbiale zappa sui piedi.
2) A questo punto, proprio in relazione alla contestazione del reato ex art. 1100 cod. nav., desidero soffermarmi su quell’aspetto fattuale, cui dianzi si è fatto cenno, pretermesso dalla Procura di Agrigento nella formulazione degli addebiti contestati a Rackete.
In particolare, ritengo che tale reato sia stato integrato – ancor prima che dagli atti di resistenza e violenza commessi da Carola Rackete il 29 giugno u.s. contro il naviglio della Guardia di finanza in prossimità della banchina del porto di Lampedusa – dalla precedente violazione, perpetrata il 26 giugno u.s., del divieto di ingresso nelle acque territoriali imposto con il provvedimento adottato dal Ministro dell’interno (di concerto con il Ministro della difesa ed il Ministro delle infrastrutture ed i trasporti) in data 15 giugno 2019.
In particolare, così facendo, Rackete ha contrastato il controllo che sulla Sea Watch 3 stavano esercitando unità navali (non solo della Guardia di finanza ma anche) della Guardia Costiera, le quali, difatti, come riportato nella descrizione in fatto contenuta nella stessa ordinanza del g.i.p. (nella misura in cui trascrive e fa propria la ricostruzione degli accadimenti operata dalla Guardia di finanza nella comunicazione di notizia di reato trasmessa al pubblico ministero), monitoravano costantemente la Sea Watch 3 nel tentativo di impedire ad essa l’ingresso nelle nostre acque territoriali.
Ed infatti, va considerato, per un verso, come, posto che “Il Corpo delle Capitanerie di porto – Guardia Costiera”, è “Corpo specialistico della Marina Militare” che esercita “funzioni di ordine militare nelle forme tipiche previste dalla legge” (https://www.guardiacostiera.gov.it/chi-siamo), ne consegue che le proprie unità navali sono da qualificarsi come navi da guerra, ai sensi dell’art. 239, comma 2°, d. lgs. n. 66 del 2010 (di emanazione del codice dell’ordinamento militare), il quale dispone: “per <nave da guerra> si intende una nave che appartiene alle forze armate di uno stato, che porta i segni distintivi esteriori delle navi militari della sua nazionalità ed è posta sotto il comando di un ufficiale di marina al servizio dello stato e iscritto nell’apposito ruolo degli ufficiali o in documento equipollente, il cui equipaggio è sottoposto alle regole della disciplina militare”.
È dato indiscutibile, quindi, che quelle della Guardia Costiera sono navi da guerra.
Laddove trattasi di un – per così dire – coefficiente di indiscutibilità ancor più elevato di quello che connota l’affermazione circa la qualifica di navi da guerra delle unità navali della Guardia di finanza, proprio perché, per essere dimostrato, non abbisogna, a differenza di ciò che invece ha richiesto quest’ultima affermazione, del tramite rappresentato dal formante giurisprudenziale (costituito dalla citata sentenza n. 35/2000 della Corte Costituzionale e dall’unanime orientamento della Cassazione, secondo cui i navigli della Guardia di finanza vanno qualificati siccome navi da guerra), e ciò proprio perché vi provvede direttamente la legge (v. il citato art. 239, comma 2°, d. lgs. n. 66 del 2010).
Per l’altro verso, al fine di determinare il significato della nozione di “atti di resistenza” quale una delle due condotte (l’altra essendo quella di atti “di violenza”) integranti il reato ex art. 1100 cod. nav., sembra utile richiamare l’elaborazione giurisprudenziale sviluppatasi attorno al reato di resistenza a un pubblico ufficiale ex art. 337 cod. pen.
Ora, secondo la Cassazione “Integra il delitto di resistenza a pubblico ufficiale qualsiasi condotta attiva od omissiva che si traduca in un atteggiamento – anche implicito, purché percepibile ex adverso – volto ad impedire, intralciare o compromettere, anche solo parzialmente e temporaneamente, la regolarità del compimento dell’atto di ufficio o di servizio da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio (dovendosi pertanto interpretare in senso lato il concetto di violenza cui ha riguardo la norma)” (così, Cass., Sez. VI, 16 gennaio 2014, n. 5147).
In conclusione, quindi, resta confermato che Rackete, allorquando in data 26 giugno u.s. ha fatto ingresso, al comando della nave Sea Watch 3, nelle acque territoriali italiane, così compromettendo l’azione di controllo ed impedimento svolta in quel momento nei propri confronti – onde far rispettare il relativo divieto imposto con il provvedimento interministeriale del 15 giugno u.s. – (anche) da unità navali della Guardia Costiera, definibili navi da guerra ai sensi dell’art. 239, comma 2°, d. lgs. n. 66 del 2010, sembra aver commesso il reato di atti di resistenza contro una nave da guerra nazionale ex art. 1100 cod. nav.
Reato poi reiterato il 29 giugno u.s., in occasione dello sbarco al porto di Lampedusa.
Ebbene, entrambe queste condotte, quella del 26 e del 29 giugno u.s., sembrano realizzare gli estremi del reato continuato ex art. 81, comma 2°, cod. pen., in quanto integranti rispettivamente due azioni compiute in tempi diversi ed esecutive di un medesimo disegno criminoso (consistente nell’intento di condurre la Sea Watch 3, con il suo “carico” di emigranti, al porto di Lampedusa), con la conseguenza che esse potrebbero essere punite con la pena che dovesse essere comminata per il reato ex art. 1100 cod. nav., ossia la reclusione da tre a dieci anni, aumentata sino al triplo.
Non è dato comprendere, allora, il motivo per cui l’organo pubblico indagante abbia omesso di includere nell’ambito dei fatti penalmente rilevanti l’azione compiuta da Rackete il 26 giugno u.s.
3) A proposito, poi, del richiamato provvedimento interministeriale del 15 giugno u.s., la cui violazione integra la commissione dell’illecito amministrativo introdotto dall’art. 2, comma 1°, d. l. n. 53/19 (c.d. decreto sicurezza bis), è appena il caso di segnalare, a chi sostiene (Stefano Alì) che con il menzionato c.d. decreto sicurezza bis, “Salvini ha depenalizzato, ma solo per le navi che trasportano clandestini, il <Rifiuto di obbedienza a nave da guerra>”, che questa asserzione risulta in netto contrasto con il dato normativo.
Difatti, il richiamato art. 2, comma 1°, d. l. n. 53/19 contiene un’espressa clausola di riserva, laddove – nel disporre che “In caso di violazione del divieto di ingresso, transito o sosta in acque territoriali italiane, notificato al comandante e, ove possibile, all’armatore e al proprietario della nave, si applica a ciascuno di essi […] la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 10.000 a euro 50.000” – fa esplicitamente “salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato”.
Il che comporta che la stessa azione, ossia la violazione del divieto di ingresso, può realizzare la commissione sia dell’illecito amministrativo in discorso sia di un reato, tra cui, ad es., quello previsto, appunto, all’art. 1100 cod. nav.
4) Trovo utile l’evocazione, operata da altro osservatore (“Gog Magog”), del tema relativo alla definizione di “luogo sicuro” siccome fornita dalle “Linee Guida sul trattamento delle persone soccorse in mare” [adottate dall’Organizzazione marittima Internazionale con la risoluzione msc.167(78) in data 20 maggio 2004, a corredo delle modifiche apportate sempre nel 2004 alla Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974 (Convenzione SOLAS) ed alla Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare del 1979 (Convenzione SAR)].
Se non altro perché tale tema mi offre l’abbrivio per far notare come il g.i.p. di Agrigento, nell’affermare che “la convenzione di Amburgo del 1979 prevede che gli sbarchi dei naufraghi soccorsi in mare debbano avvenire nel <porto sicuro> più vicino al luogo di soccorso” (v. pag. 9), traduce erroneamente la parola “place”, a sua volta parte della locuzione “place of safety” adoperata nella predetta convenzione (v. punto 1.3., § 2, dell’annesso, come modificato nel 1998), con “porto”, invece che con il corretto lemma “luogo”.
Difatti, nel sistema della Convenzione SAR del 1979, come confermato dalle citate Linee Guida, il luogo sicuro non deve essere costituito necessariamente da un porto, ma anche da una nave, sicché il più generale termine luogo risulta più rispondente allo scopo voluto, sul punto, dalla Convenzione stessa.
Sicché, vien fatto di pensare che l’autrice dell’ordinanza in discorso si sia limitata a recepire acriticamente la vulgata giornalistica, che appunto tende ad identificare il luogo con il porto (sicuro), senza con ciò, evidentemente, di premurarsi di andare a compulsare direttamente gli atti normativi: il che per un magistrato si converrà non rappresenti propriamente un attestato di impeccabile perizia professionale.
5) Ciò detto, dissento, tuttavia, dall’applicazione che nel caso concreto il medesimo osservatore fa della nozione normativa di luogo sicuro. In particolare, egli ritiene che la Sea Watch 3, in quanto è un’unità di soccorso, “è per definizione un <luogo sicuro>, in base al par. 6.14 delle Linee Guida relative alle Convenzioni SAR e SOLAS”. Con la conseguenza che il (presunto) soccorso da essa operato si sarebbe concluso con il recupero e l’ingresso degli emigranti a bordo dell’imbarcazione, il che vuol dire molto prima dell’ingresso della Sea Watch 3 nelle acque territoriali italiane.
5.1.) Senonché, in primo luogo, a me pare che le ridette Linee Guida, al punto 6.13, mostrino una marcata diffidenza in merito all’idoneità in generale della nave soccorritrice ad assolvere alla funzione di luogo sicuro: “Una nave che ha prestato assistenza non dovrebbe essere considerata un luogo di sicurezza per il solo fatto che i sopravvissuti non siano più in pericolo immediato una volta a bordo della nave. Una tale nave non può disporre di strutture e attrezzature adeguate per sostenere altre persone a bordo senza mettere in pericolo la propria sicurezza o curare adeguatamente i sopravvissuti. Anche se la nave è capace di ospitare i sopravvissuti in modo sicuro e può servire come luogo temporaneo di sicurezza, essa dovrebbe essere sollevata da questa responsabilità non appena sia possibile prendere accordi alternativi”.
Senza contare che far dipendere da una valutazione in merito a quale sia l’effettiva capacità tecnica della nave soccorritrice di curare adeguatamente coloro che sono stati recuperati in mare, il giudizio circa (la conclusione o meno delle operazioni di soccorso e quindi, in ultima analisi,) l’esaurimento o meno della condotta integrante adempimento del dovere di salvataggio da parte del comandante della nave soccorritrice (ovviamente per chi voglia aderire al teorema del g.i.p. di Agrigento), far dipendere, dicevo, il predetto giudizio da quella valutazione, comporterebbe a mio avviso il grave inconveniente di rendere il giudizio stesso frutto esclusivo di una discrezionalità davvero troppo ampia, qual è, appunto, quella insita nell’indicata valutazione.
5.2.) In secondo luogo, e soprattutto, con il sostenere che nel caso concreto il luogo sicuro dove si è completato il salvataggio sarebbe costituito dalla stessa Sea Watch 3, si presuppone ed accetta implicitamente l’angolo visuale adottato dal g.i.p. di Agrigento: vale a dire quello per cui è rilevante stabilire, ai fini della valutazione circa la sussistenza dell’esimente dell’adempimento del dovere, quale sia, appunto, il luogo sicuro, poiché soltanto con la conduzione degli emigranti in questo luogo può ritenersi perfezionato e dunque esaurito tale adempimento.
Cosicché, l’unica differenza tra l’opinione del g.i.p. di Agrigento e quella dell’osservatore in parola consiste in ciò che, mentre il primo ritiene che luogo sicuro sia il porto di Lampedusa, l’altro reputa che sia la stessa Sea Watch 3. Ma entrambi, ripeto, assumono che il c.d. dovere di salvataggio posto in capo al comandante della nave esiga che quest’ultimo conduca autonomamente i salvati in un luogo (per il g.i.p. di Agrigento, in realtà, come visto, un porto) da egli ritenuto sicuro.
Senonché, e ben più radicalmente, è proprio una siffatta prospettiva a risultare a mio avviso totalmente ingiustificata, in quanto frutto di un marchiano fraintendimento del dato normativo contenuto nella Convenzione SAR, anche per come quest’ultima va interpretata, pure alla luce delle più volte citate Linee Guida.
Il punto qui in discussione è davvero dirimente.
Difatti, in base all’assetto normativo congegnato dalla Convenzione SAR, ritengo risulti chiaramente come il c.d. dovere di salvataggio posto in capo al comandante di una nave soccorritrice si esaurisca in realtà nel dovere di recuperare e poi assistere nella propria nave i naufraghi, senza, quindi, includere anche un fantomatico autonomo dovere di conduzione di quest’ultimi in un luogo da egli reputato sicuro, giacché sono soltanto gli Stati preposti alla zona SAR in cui è originata la situazione di pericolo e quindi sorto il dovere di salvataggio, che hanno il diritto-dovere, tramite una struttura denominata Centro di coordinamento di salvataggio (cui compete appunto l’esecuzione del servizio di ricerca e di salvataggio), di individuare il luogo sicuro di sbarco dei naufraghi, impartendo così le relative istruzioni al comandante della nave soccorritrice, il quale, a sua volta, ha l’obbligo di ottemperarvi, senza fruire di alcuna discrezionalità al riguardo.
Depongono, a favore di questa impostazione, non solo l’impianto complessivo della Convenzione SAR, ma anche, ed ancor più inequivocabilmente, le ripetute relative Linee Guida, allorché si preoccupano reiteratamente di rimarcare come, una volta che il comandante della nave accorsa nell’area di soccorso abbia effettuato il recupero (o prestato l’assistenza, senza usare, comunque, il termine salvataggio, giacché nella terminologia della Convenzione SAR esso designa quel più ampio ventaglio di operazioni che va dal recupero sino al trasporto in un luogo sicuro) dei naufraghi, le autorità statuali, e solo queste, debbono adoperarsi per compiere tutto il possibile per liberare il comandante stesso da ogni ulteriore aggravio ed onere inerenti l’assistenza dei recuperati in mare.
5.2.1.) A dimostrazione dell’esattezza di quanto appena asserito, sembra sufficiente riportare le seguenti enunciazioni tratte dalle Linee Guida:
– “L’obbligo del comandante [della nave soccorritrice] di fornire assistenza dovrebbe essere complementare al corrispondente obbligo dei governi membri dell’OMI di coordinare e cooperare per liberare il comandante dalla responsabilità di fornire assistenza ai sopravvissuti e di consegnare le persone recuperate nel mare in un luogo sicuro. Queste linee guida hanno lo scopo di aiutare meglio governi e comandanti [delle navi soccorritrici] a comprendere i loro obblighi ai sensi del diritto internazionale e di fornire utili orientamenti in merito all’esecuzione di questi obblighi” (punto 1.2);
– “In particolare, il paragrafo 1-1 del regolamento SOLAS V / 33 ed il paragrafo 3.1.9 dell’allegato alla Convenzione SAR, come modificata, impongono ai Governi un obbligo di coordinamento e cooperazione per garantire che i comandanti delle navi che forniscono assistenza imbarcando persone in pericolo in mare siano liberati dai loro obblighi con un’ulteriore minima deviazione dall’itinerario di viaggio previsto dalla nave” (punto 2.4);
– “La responsabilità di fornire un luogo di sicurezza o di garantire che un luogo di sicurezza sia fornito, ricade sul governo responsabile per la regione SAR in cui i sopravvissuti furono recuperati” (punto 2.5, ultimo periodo).
Noto, incidentalmente, che anche soltanto quest’ultima proposizione appare di per sé risolutiva di ogni ipotetico dubbio in ordine alla ripartizione degli obblighi, in caso di pericolo in mare per la vita umana, posti dal diritto internazionale (consuetudinario e pattizio) in capo rispettivamente al comandante della nave soccorritrice ed agli Stati.
Tuttavia, mi sia consentito di riportare, ad abudantiam, la seguente duplice proposizione, contenuta nell’”Appendice” delle Linee Guida destinata a raccogliere “Alcuni commenti sulla legge internazionale rilevante” (e quindi contenuta in una parte delle Linee Guida da considerarsi non precettiva):
– “In quanto principio generale del diritto internazionale, la sovranità di uno Stato consente a tale Stato di controllare i suoi confini, escludere gli stranieri dal suo territorio e prescrivere le leggi che disciplinano l’ingresso di stranieri nel suo territorio. La sovranità di uno stato si estende oltre il suo territorio terrestre e interno acque al mare territoriale, fatte salve le disposizioni dell’UNCLOS e altre norme internazionali legge. Inoltre, come previsto dall’articolo 21 dell’UNCLOS, uno Stato costiero può adottare leggi e regolamenti relativi al passaggio innocente nel mare territoriale per prevenire, tra le altre cose, la violazione delle leggi sull’immigrazione di tale Stato costiero” (punto 5);
– “Ai sensi dell’articolo 18 dell’UNCLOS, una nave che esercita un passaggio innocente può fermarsi o ancorare nel mare territoriale dello Stato costiero <soltanto se questi costituiscono eventi ordinari di navigazione o sono resi necessari da forza maggiore o da condizioni di difficoltà, oppure sono finalizzati a prestare soccorso a persone, navi o aeromobili in pericolo o in difficoltà>. UNCLOS non si pone specificamente il quesito se esiste un diritto di entrare in un porto in caso di difficoltà, anche se in base al diritto consuetudinario internazionale, potrebbe esserci un diritto universale, anche se non assoluto, per una nave in difficoltà ad entrare in un porto quando esiste una chiara minaccia per la sicurezza delle persone a bordo della nave” (punto 6).
Come si vede, dunque, secondo l’appendice delle Linee Guida, l’art. 18 della Convenzione UNCLOS non si pone minimamente il problema del “se esiste un diritto di entrare in un porto in caso di difficoltà”. Ed a maggior ragione, quindi, aggiungo, nemmeno un dovere.
Eppure, è quello stesso art. 18 che, ad avviso del g.i.p. di Agrigento, sancirebbe (unitamente all’art. 10-ter d. lgs. 286/98, T.U. sull’immigrazione) il “dovere di soccorso, il quale – si badi bene – non si esaurisce nella mera presa a bordo dei naufraghi, ma nella loro conduzione fino al più volte citato porto sicuro” (v. pag. 12 dell’ordinanza).
5.2.2.) Ed allora, gentilissima dottoressa Alessandra Vella, la prendo in parola e voglio davvero “badare bene” a ciò che afferma, sicché le domando rispettosamente: mi può cortesemente indicare in quale punto l’art. 18, comma 2°, della Convenzione UNCLOS – a mente del quale, lo riporto integralmente, “Il passaggio deve essere continuo e rapido. Il passaggio consente tuttavia la fermata e l’ancoraggio, ma soltanto se questi costituiscono eventi ordinari di navigazione o sono resi necessari da forza maggiore o da condizioni di difficoltà, oppure sono finalizzati a prestare soccorso a persone, navi o aeromobili in pericolo o in difficoltà” – prescriverebbe al comandante della nave che ha recuperato i naufraghi il dovere di operare la loro “conduzione fino al più volte citato porto sicuro”?
Perché, in primo luogo, la norma “consente” soltanto “la fermata e l’ancoraggio nelle acque territoriali”, non già la “conduzione” al porto. Ed in secondo luogo, la norma usa il verbo “consente”, che designa una facoltà, al limite un diritto, ed insomma un potere, ma non già, di nuovo, un dovere.
5.2.3.) Analogamente, mi permetto di porre implicitamente simile quesito in relazione all’art. 10-ter, comma 1°, d. lgs. 286/98 (ossia, come visto, l’altra norma invocata nell’ordinanza per fondare la propria tesi), il quale, nel passaggio che qui viene in rilievo, così recita: “Lo straniero […] giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi allestiti nell’ambito delle strutture di cui […]”.
Ebbene, anche qui, non ravviso nel dettato normativo alcuna menzione di un fantomatico dovere del comandante della nave soccorritrice di condurre i naufraghi nel porto più sicuro.
Piuttosto, constato che la norma si occupa della prima collocazione dello straniero una volta e soltanto dopo essere “giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare”: quindi, la norma presuppone, con accecante chiarezza, che lo straniero salvato in mare abbia già messo piede nel territorio nazionale.
Mentre nel caso di Rackete si trattava di stabilire proprio se fosse lecita la pretesa di costei di – per così dire – far mettere piede agli emigranti nel territorio nazionale, ossia farli sbarcare nel porto di Lampedusa.
Mi fermerei qui, ringraziando il paziente lettore che fosse giunto fino al termine di questo non breve scritto.
Che però non posso non concludere ribadendo come gran parte delle analisi giuridiche dell’ordinanza del 2 luglio u.s. svolte in questi giorni, abbiano fornito inoppugnabili argomenti, più o meno doviziosamente svolti, circa la sua assoluta erroneità.
Anzi, per essere meno asettico: ritengo che tale ordinanza rappresenti un esempio e modello di quello che un provvedimento giurisdizionale (ma direi, in generale, un qualsiasi scritto giuridico che si prefigga di perorare una tesi) non può e non deve mai essere. Insomma, il naufragio del rigore logico e della necessità metodologica dell’aderenza al dettato normativo, imperativo inderogabile, quest’ultima, per chi si accinga ad intraprendere qualsiasi opera di interpretazione delle disposizioni normative al fine della loro applicazione alla fattispecie concreta.
Ecco perché credo sia ragionevole attendersi dalla Procura di Agrigento il promovimento di tutte le iniziative previste dalla legge allo scopo di ottenere l’eliminazione dell’ordinanza in discorso dal mondo del diritto: vale a dire, l’appello cautelare avverso il rigetto della richiesta di applicazione di misure cautelari, il cui termine dovrebbe scadere venerdì 12 luglio p.v., ed il ricorso in Cassazione avverso il diniego di convalida dell’arresto, il cui termine dovrebbe scadere mercoledì 17 luglio p.v.
Senza trascurare, comunque, onde non nutrire ingiustificate aspettative, che, in caso di mancanza dell’uno e/o dell’altro di tali rimedi impugnatori avverso l’ordinanza, non sussisterebbero in alcun modo gli estremi per l’avocazione delle indagini preliminari a carico di Rackete da parte del Procuratore generale di Palermo nei confronti della Procura di Agrigento.
https://www.penalecontemporaneo.it/upload/9218-gip-agrigento-2-luglio-2019-sea-watch.pdf