MAI COME ORA VERITÀ SU REGENI .!!!, di Antonio de Martini

Dopotutto i giudici egiziani non hanno così torto_Giuseppe Germinario
REGENI: L’AFFARE SI INGROSSA E LA VERITÀ SI ARRICCHISCE DI NUOVI ELEMENTI.
La collaudata tecnica ( palantir)di intersecare i numeri telefonici – in questo caso quelli dei nove poliziotti sospettati segnalati dal magistrato egiziano- con quelli dei ” colleghi” dell’Universita americana del Cairo, con cui la prof Abd el Rahman aveva messo in contatto Regeni, ha dato i suoi frutti.
Più di uno dei “colleghi” aveva contatti coi poliziotti della squadra che sorvegliava l’Italiano.
Questi contatti risultano intensificati alla immediata vigilia dell’arresto.
La seconda scoperta degli inquirenti italiani è che l’organizzazione ANTIPODE ha negato che Regeni abbia mai fatto richiesta di una borsa di studio.
Questo fa sorgere spontanea quattro domande: con quali soldi dunque Regeni viaggiava e si manteneva al Cairo? Su quali fondi contava per mantenersi ulteriormente? Di quali denari fantasticava facendoli baluginare di fronte agli occhi del sindacalista egiziano con la moglie ammalata di cancro per farlo collaborare? A chi doveva presentare il rendiconto di cui si preoccupava nella ultima conversazione?
Qui apro una parentesi inquirente.
La professoressa Abd el Rahman – di cui non sappiamo ancora i nomi dei parenti e del coniuge, che io sospetto essere lo stesso Rahmi Abd el Rahman che ha fatto da press Agent ai jihadisti siriani per sei anni – in questi due anni semi-sabbatici trascorsi in Olanda, dove ha abitato? Che documenti ha trasferito da Cambridge? Che “studi”ha fatto? Chi l’ha pagata?
Finora alla Maha Abd el Rahman si riconosce solo una ricerca di 160 pagine banale anzicchennò.
Un po pochino. In Italia, con una singola pubblicazione non insegni all’Università e forse nemmeno al ginnasio.
A proposito, l’Università di Cambrige ha annunciato che vuole creare una borsa di studio a nome di Regeni, ha preso le distanze dalla professoressa Abd el Rahman e accettato di consegnare tutte le mail dei computer dell’Ateneo. Vedremo se consegnano anche gli hard disk per verificare assenza di cancellature….
Una autentica novità per il mondo accademico britannico abbandonare a se stessa, dopo averla protetta per due anni, una docente che testimonia e rinunziare alla indipendenza tradizionale dell’Ateneo, specie a favore di un paese straniero, diciamocelo, di seconda fila.
Nel mondo dell’intelligence, invece è routine: si confessa la marachella e ci di mette d ‘accordo per scaricare i collaboratori scomodi. Senza fare più altro chiasso.
Una nota italiana: TG1, La Stampa e il Corriere della sera, su queste novità non scrivono un rigo, contrariamente a ” Il Messaggero”. Loro scrivono di Di Maio.
MAI COME ORA VERITÀ SU REGENI .!!!

La fase multicentrica/Le elezioni presidenziali.2, di Luigi Longo

La fase multicentrica/Le elezioni presidenziali.2

 

IL DECLINO USA È SEMPRE PIÙ EVIDENTE

di Luigi Longo

 

  1. Le elezioni presidenziali svelano tutta l’ideologia su cui si basa la democrazia degli Stati Uniti d’America. Una democrazia che questa potenza mondiale si arroga il diritto di esportare nel mondo con tutti i mezzi, di consenso e di coercizione, come esempio di progresso e di civiltà. La grande democrazia statunitense, è bene ricordarlo, si è affermata con la violenza che << […] ha portato nel mondo, da quando gli USA sono nati (e come sono nati!!), la “libertà” con i più grandi massacri che la storia ricordi; e con una continua serie di colpi di Stato e di assassinii di avversari politici. I nazisti possono essere considerati dei dilettanti (allo sbaraglio) rispetto ai “serial killers” che sempre hanno diretto gli USA >> (la riflessione è di Gianfranco La Grassa).

Per dirla con Costanzo Preve, è la leggenda bianca dell’eccezionalismo democratico USA.

Riporto una sintesi chiara di Marco Della Luna per quanto concerne il gioco delle elezioni che gli agenti dominanti svolgono:<< […] la quota di potere messa in gioco nelle elezioni è marginale, gli esiti delle votazioni popolari sono predeterminati di regola, le procedure democratiche sono sostanzialmente una messa in scena, siccome le decisioni sul corso da dare alla storia sono prese, a porte chiuse, da un’oligarchia, un’oligarchia oggi sovranazionale [dissento da questa lettura oligarchica, mia precisazione], che le cala sui popoli e sui paesi. Essa le fa accettare dalla gente, spesso nascondendone gli effetti e gli scopi veri-pensate all’Euro e al MES. Produce industrialmente a monte il consenso verso di esse mediante il controllo dei mass media che creano la voluta percezione della realtà e dei valori; mentre, a valle, ne assicura l’applicazione mediante il controllo della “giustizia”, la cui funzione essenziale nel mondo reale è proteggere e legittimare il potere costituito, intervenendo per coprire i suoi abusi, non già assicurare la legalità, analogamente a come i parlamentari non rappresentano gli elettori, perché i parlamentari fanno innanzitutto gli interessi propri, di chi li mette in lista, di chi gli finanzia la campagna elettorale.[…] Nel caso delle elezioni presidenziali statunitensi, la “giustizia” ha respinto i ricorsi elettorali non dopo aver esaminato il loro merito, ossia le prove dei brogli e delle illegalità, ma rifiutando di esaminarlo in base alle tesi che né il Texas, né gli altri stati ricorrenti, né gli elettori ricorrenti, né lo stesso candidato Donald Trump avessero la legittimazione formale, ossia un interesse legalmente tutelabile [la forma che si fa sostanza negando la democrazia!, mia precisazione], a ricorrere. Cioè la “giustizia” ha denegato il diritto al controllo di legittimità sostanziale, assicurando così l’esito prestabilito e la sua legittimità percepita.

I mass media erano all’unisono schierati contro Trump nel 2016 e tali sono rimasti: hanno montato una campagna di accuse di suoi supposti traffici con la Russia, che sono risultati inesistenti, mentre hanno nascosto quelli di Hunter Biden fino a dopo il voto, per favorire Biden.

Solo a un babbeo, in questo contesto, si può far credere che, alla fine, abbiano vinto la democrazia e la legalità [corsivo mio, LL]

Insabbiano e insabbieranno tutte le prove di brogli elettorali, anche quelle che stanno emergendo in Italia, coinvolgenti la società Leonardo, il gen. Graziano, Renzi, Conte-che potranno tirare un sospiro di sollievo: democrazia è fatta, giustizia seguirà, su entrambe le sponde dell’Atlantico, e quel compare di Obama che minaccia Conte di fare sfracelli per ottenere il controllo dei servizi segreti in modo che non lo denuncino né lo ricattino, lo otterrà, democraticamente >>.

 

  1. E’ nella storia statunitense (e mondiale) che le elezioni servono per legittimare gli agenti strategici egemonici nel conflitto interno (e indirettamente esterno) per il dominio del Paese e per orientare la politica mondiale all’affermazione unilaterale del proprio dominio. Le istituzioni nazionali ed internazionali sono i luoghi dove si gestiscono e si eseguono le strategie dei dominanti. La storia insegna che i grandi tentativi di trasformazione sociale sono avvenuti per vie rivoluzionarie e non per vie ideologicamente (nell’accezione negativa del termine) democratiche.

Le elezioni presidenziali indicano la strada del declino della potenza egemonica mondiale per due ragioni che ho già evidenziato nella prima riflessione sulle elezioni presidenziali: 1) la situazione politica del Paese è quella di una nazione che non trova più una sintesi nazionale espressione degli agenti strategici dominanti e gli squilibri territoriali, sociali ed economici sono sempre più accentuati, con forte rischio della tenuta degli Stati federati degli Stati Uniti d’America; 2) l’epoca della tutela delle istituzioni, luoghi di conflitto e di equilibrio dinamico degli agenti strategici, per garantire l’unità e la sintesi di una grande potenza mondiale è finita (si pensi alle elezioni presidenziali del 1960 vinte da John Fitzgerald Kennedy per il passo indietro di Richard Nixon, inteso come equilibrio dinamico degli agenti strategici vincitori, e a quelle del 2000 tra George W. Bush e Al Gore con passo indietro di quest’ultimo).

Nessuno tiene a bada << […] le passioni più ardenti, più meschine e più odiose del cuore umano, le Furie dell’interesse privato […] >> (l’espressione è di Karl Marx) e Jean –Claude Michèa denuncia che << […] Wall Street, Hollywood e Silicon Valley potranno finalmente dare libero sfogo a tutte le loro fantasie “postumane” e “transumane” senza doversi mai più scontrare con il minimo limite politico o culturale né con la minima frontiera geografica. Se il vero “progressista” è, innanzitutto, colui che esorta tutti i popoli della Terra a fare tabula rasa del loro passato e a porre fine a ogni sopravvivenza del “vecchio mondo”, allora dovrebbe essere chiaro che nessuno è meglio attrezzato per compiere un tale compito storico del sistema capitalistico stesso. >>.

 

  1. Il conflitto interno agli agenti strategici statunitensi non è un conflitto basato sulla ricerca della sintesi nazionale di una grande potenza egemonica mondiale, ma è un conflitto basato sugli interessi di parte come conseguenza della decadenza di tutta la classe dominante (e si lascino perdere gli schieramenti ideologici tra destra e sinistra, tra repubblicani e democratici che hanno avuto un ruolo diverso nel passato ma ora sono tutti d’accordo a mantenere la cosiddetta società capitalistica). Gli Usa non hanno una nuova visione del mondo per fermare il proprio declino, relativo o accentuato che sia, e ri-lanciare la sfida egemonica della fase multicentrica, nè Donald Trump e i centri strategici che rappresenta(va) erano nelle condizioni di costruire una nuova visione (e questo non è detto con il senno di poi o con la nottola di Minerva che inizia il volo solo al crepuscolo). E’ stato un tentativo illusorio (come già evidenziato in un mio precedente scritto) quello di alcuni strateghi, soprattutto delle sfere militare e politica, con i loro gruppi di pensiero (think tank) e i loro centri e istituti di ricerca strategica, che si sono resi conto della strada di non ritorno del declino USA, una strada, per dirla con David Calleo, di egemonia sfruttatrice che hanno cercato di deviare, invano (si rivedano le elezioni che hanno portato Trump alla Casa Bianca), verso una visione del Paese incentrata sull’economia reale, sul legame sociale da rafforzare, sulla ri-definizione dei rapporti sociali sistemici, sull’apertura di una fase multicentrica; ma realizzare tutto questo significava derogare alle regole della potenza mondiale, cioè ri-collocare gli USA quale potenza mondiale di confronto e condivisione con altre potenze mondiali emergenti: non più come la grande nazione imperiale. E tutto questo era impensabile costruirlo con un movimento elettorale e non strategico di lungo periodo. Anche se va detto che all’inizio la parte razionale valutando l’insieme del movimento aveva deciso che non c’erano le condizioni per creare un movimento, o una forza nuova per dirla con Gianfranco La Grassa, che pensasse nuove strategie per far diventare gli USA una potenza multicentrica.

Infatti il conflitto sui brogli elettorali (che novità!) è stato spostato tutto nella sfera giuridica che è la sfera che permette di coprire la realtà fatta di accordi tra gruppi strategici vincenti e perdenti: accordi di parte che nulla hanno a che fare con la suddetta visione del Paese. La farsa e la tragedia dell’assalto al Congresso rafforza questa ipotesi: come è possibile, si chiede Salvatore Bravo, che la più grande democrazia del pianeta con i suoi formidabili mezzi di controllo e contrasto, specie dopo l’attacco alle torri gemelle possa aver permesso un simile episodio?

Gli Usa sono una potenza in declino e non hanno la forza economica, scientifica, culturale e politica per rilanciare e costruire un nuovo modello di egemonia capace di sconfiggere le potenze mondiali che si stanno organizzando per mettere in discussione l’ordine monocentrico e affermare l’ordine mondiale multicentrico. E’ il declino non solo degli USA ma di tutto l’Occidente: è la crisi della civiltà occidentale.

La gestione Joe Biden-Kamala Harris (la nuova regina del caos) porterà gli USA a cadere nella trappola di Tucidide (la sindrome della potenza in ascesa e la sindrome della potenza dominante) e si prepareranno scenari di guerra.

 

Nota bibliografica

 

  1. Gianfranco La Grassa, I piani americani, conflittiestrategie.it, 30/12/2020.
  2. Costanzo Preve, Politically correct: elementi di politicamente corretto, editrice Petite Plaisance, Pistoia, 2020, pag. 23.
  3. Marco Della Luna, Poveri Q-Q di Trump! marcodellaluna.info, 7/1/2021.
  4. Karl Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, prefazione alla prima edizione, Einaudi, Torino, 1975, pag.7.
  5. Jean-Claude Michèa, Il lupo nell’ovile, Meltemi, Milano, 2020, pag.110.

Micropolitica e macroillusioni, di Vincenzo Cucinotta

Quando guardo a quella micropolitica che si agita nelle acque torbide della nostra derelitta patria, non vi leggo nulla che possa essere di minimo interesse per il popolo italiano, tutto confinato dentro i meccanismi autonomi di un mondo di mediocri politicanti nostrani che apparecchiano la tavola per loro stessi e per il circo mediatico che li controlla e li parassita totalmente.
Se però consideriamo i padrini dei vari protagonisti, allora viene da chiedersi oggi, nel dopo-Trump, dove si collochi la faglia tra UE a guida tedesca ove si schierano Conte, ma anche lo stesso Mattarella e certamente quel Gualtieri che alla fine riassume in pieno la vacuità dei politicanti italiani, e pro-dem USA rappresentata sicuramente da Renzi e chissà quanti altri.
Siamo stati abituati a vedere un contrasto aspro e palese tra gli USA di Trump e la UE della Merkel, andato avanti senza che nessuno si curasse di occultarlo, ma a livello geopolitico sembrava abbastanza ovvio vedere una sostanziale comunanza tra i dem USA e la UE. Qui in Italia però, vediamo i riflessi chiari di un contrasto che magari non sarà un vero e proprio scontro tra il Renzi tornato con ordini freschi freschi dagli USA e un Conte che ovviamente deve tutta la sua fortuna a un Mattarella che lo ha fin qui coperto totalmente scoraggiando il PD dal procedere contro il PdC.
Non è del resto un caso che Conte resista così tenacemente a Renzi rifiutandosi di cedere la delega ai servizi segreti, come se si aspettasse uno sgambetto da quelle parti lì. Se consideriamo la lunga tradizione di sottomissione dei nostri servizi agli USA fino a farne quasi una succursale della CIA, è evidente che c’è da parte dei dem USA se non una vera e propria ostilità, una forte diffidenza verso Conte e forse verso la parte che lo sostiene così fermamente.
Naturalmente, non mi sento di escludere che Renzi abbia semplicemente ottenuto dal circolo Clinton il permesso di giocarsi le carte e che quindi lo scontro resti tutto nell’ambito angusto degli interessi personalistici dei politicanti nostrani.
Vedremo, di certo rimane il fatto che se anche Conte non ottenesse la fiducia, potrebbe comunque portare avanti la gestione della redazione del Recovery Plan, visto che basterebbe che Mattarella lo pregasse come in effetti si fa sempre in questi casi, di restare in carica per la gestione degli affari correnti che, imponendo la UE le scadenze, potrebbe includere anche la definizione di quel piano.
Ciò a cui non credo, è che si vada alle elezioni quando nessuno degli attori in gioco le vuole, con la sola eccezione del partito FdI, anche se i media continuano a sostenere la tesi assurda di un Mattarella che si rifiuterebbe di ritardare le elezioni. Il personaggio non è certo un Riccardo cuor di leone e certo non gradisce di doversi prendere la responsabilità di traghettare l’attuale parlamento alla sua scadenza normale, ed è credibile perciò che voglia imporre ai duellanti di farla finita togliendogli le castagne dal fuoco, ma un Mattarella che contro la quasi totalità delle forze politiche sciolga le camere, mi pare fantascienza allo stato puro.
Si congelerà la situazione in ogni caso perchè il golpe in corso non può incontrare neanche minimi ostacoli come un semplice cambio di guida, mascherando il tutto con finti incarichi esplorativi che si sa falliranno. Certo, in questi casi il rischio di soluzioni non previste c’è sempre, ma non vedo che alternativa costoro abbiano se non tentare di continuare questa mediocre recita mentre media e medici mediatici eseguano gli ordini ricevuti nel silenzio della politica come sappiamo è fin qui avvenuto.
Checché ne dicano coloro che neanche mi leggono più per la mia apparente ossessione contro la gestione criminale della COVID-19, la vera politica si gioca lì, hanno fatto saltare la costituzione, figuriamoci se non tirano avanti fino alla scadenza prevista del parlamento, sarebbe comunque un aspetto secondario rispetto al golpe già in corso senza che neanche venga fatto alcun sforzo di occultarlo.
tratto da facebook

Il debito pubblico è bellissimo!-di Davide Gionco

Riceviamo e pubblichiamo. Gran parte del problema risiede nel moltiplicatore e soprattutto nel grado di indipendenza, sovranità e potenza di un paese che non è determinato soltanto dal controllo della moneta e dalla gestione del risparmio nazionale_Giuseppe Germinario

Il debito pubblico è bellissimo!

di Davide Gionco

In un precedente articolo ci siamo occupati del debito buono e del debito cattivo.
Un debito è generalmente buono quando è sostenibile dal debitore, diventando uno strumento per investimenti produttivi, per la realizzazione di cose utili per il debitore.
Un debito è sempre cattivo quando non è sostenibile dal debitore. In tal caso può generare debiti a catena nella società, creando grave danno (si pensi ai debiti subprime della Lehman Brothers che portarono alla crisi economica del 2008). Oppure il debito insolvibile viene perpetuato nel tempo, trasformandosi in un meccanismo di schiavitù nei confronti di persone, classi sociali o interi popoli.

Nel presente articolo vogliamo occuparci specificamente del debito pubblico.
Come per il debito privato, anche il debito pubblico è una cosa molto utile alla nazione che lo emette, naturalmente.
Possiamo dire che il debito pubblico è bellissimo. A patto che, naturalmente, sia sostenibile.

Quali sono le funzioni utili del debito pubblico sostenibile?

 

Il debito pubblico è uno strumento di risparmio
La prima funzione è consentire ai risparmiatori di investire in modo sicuro, al riparo dei rischi della borsa e della speculazione finanziaria. La Costituzione della Repubblica Italiana cita testualmente “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito. Favorisce l’accesso del risparmio popolare…”
Quale modo migliore di garantire il risparmio dei cittadini che quello di garantire la restituzione del capitale, con un tasso di interesse stabilito? Lo Stato è a tutti gli effetti una cassa di risparmio pubblica, alla quale i cittadini affidano i propri risparmi e la quale garantisce che vengano restituiti con gli interessi, al tempo pattuito. Mentre nelle banche private questo avviene scrivendo sui libri della banche l’importo versato dal cittadino, nella banca pubblica questo avviene consegnando al cittadino un certificato di deposito, denominato titolo di stato.
Ma non solo questo. Il tasso di interesse riconosciuto sui titoli di stato diventa inevitabilmente un punto di riferimento per tutti gli altri investimenti finanziari.
Se lo Stato garantisce il 3% di interessi sui titoli, chi mai andrebbe ad investire i propri risparmi in azioni in borsa, il cui rendimento viene stimato al massimo al 2%.
Nello stesso tempo se i titoli di stato garantiscono un rendimento netto del 2%, un imprenditore riterrà conveniente investire i propri fondi nella propria azienda in cui si prospetti un rendimento dell’investimento del 3-4%. Ed una banca
Il fatto che lo Stato possa emettere titoli ad un tasso di interesse determinato risponde appieno a quanto richiesto dall’art. 47 della Costituzione.

Il debito pubblico mette in circolazione i capitali a vantaggio degli investimenti pubblici
Una seconda funzione del debito pubblico è mettere in circolazione i capitali dei risparmiatori, che diversamente resterebbero immobili e improduttivi o che verrebbero investiti su mercati esteri.
Questa funzione era particolarmente importante prima del 1971, quando vigeva ancora il gold standard, ovvero quando la quantità di denaro che poteva essere emessa era limitata dalla quantità d’oro delle riserve della banca centrale. In questa situazione tenere delle banconote ferme nella cassaforte era uno “spreco”, in quanto quel denaro avrebbe potuto essere usato per degli investimenti, consentendo di produrre beni e servizi utili, che non sarebbero stati prodotti se quei soldi fossero stati conservati inoperosi nei forzieri.
Un caso storico esemplare è l’unico caso che si ricordi in cui uno stato ha pagato tutto il proprio debito pubblico. Nel 1584 la Repubblica di Venezia decise di estinguere il proprio debito pubblico, con l’obiettivo di risparmiare l’oneroso pagamento degli interessi, che ammontavano al 16% annuo.
Contrariamente alle aspettative del provveditore sopra i beni comunali Zuan Francesco Priuli, i risultati dell’estinzione del debito pubblico furono molto diversi da quelli attesi: i ricchi commercianti veneziani, non avendo più un luogo sicuro “pubblico” in cui investire i propri risparmi, si indirizzarono verso le banche private o verso titoli pubblici emessi in altri stati del tempo (Ducati di Ferrara, Mantova, Modena, Milano; Repubblica di Genova o di Firenze). Se prima la liquidità prestata alla Serenissima veniva utilizzata per investimenti pubblici, come ad esempio la costruzione di navi da guerra per fare fronte all’avanzata dell’Impero Ottomano, ora la liquidità veniva investita secondo gli interessi di altri stati o delle banche private, che erano diversi dall’interesse pubblico.
Le conseguenze della riforma proposta dal Priuli furono il declino politico della Repubblica di Venezia, causa mancanza di investimenti pubblici.

Il debito pubblico consente di diminuire le tasse
Una terza funzione del debito pubblico, quella che il Priuli non aveva compreso, è consentire allo Stato di finanziare il proprio funzionamento raccogliendo meno tasse.
Prendiamo come esempio il bilancio previsionale dello Stato per il 2020, presentato prima della crisi del coronavirus, che ha evidentemente mandato all’aria ogni previsione.

La previsione per il 2020 era di fare fronte 660 miliardi di spesa pubblica avendo delle entrate pari a 536 miliardi di euro. Se avessimo dovuto finanziare tutto il bilancio del 2020 pagando le tasse, avremmo dovuto pagare ben (660-563 =) 124 miliardi di tasse in più sui 512 miliardi di tasse previste, pari al 24% di tasse in più che dovremmo in caso di assenza del debito pubblico.

La sostenibilità del debito pubblico
Da che mondo è mondo i grandi debiti non sono mai stati pagati. Quando il debito è grande, non è più un problema del debitore, ma dei creditori.
Già nel 1339 re Edoardo III d’Inghilterra dichiarò bancarotta e si rifiutò di rimborsare i prestiti che aveva ricevuto dai Bardi, banchieri fiorentini. Il fatto si ripeté molte volte nei secoli successivi, da parte dei vari re di Francia, di Spagna, d’Asburgo. Peraltro i banchieri che cosa avrebbero potuto fare? Armare un esercito e dichiarare guerra ai sovrani? In realtà a volte lo facevano, finanziando le guerre di nazioni avversarie dei loro debitori, ma non sempre la manovra finanziaria funzionava.

Questo vale anche per i grandi debiti privati. E’ noto che i grandi (?) imprenditori italiani (Debenedetti, Montezemolo, Lotito, Benetton, ecc.) abbiano facilità di accesso al credito, anche se sono già molto indebitati, mentre la difficoltà di accesso al credito è in genere un problema che riguarda le piccole e medie imprese o le famiglie. Tanto per fare un esempio, nel caso del fallimento del Monte dei Paschi di Siena, poi salvato con fondi pubblici, Sorgenia di Carlo Debenedetti era debitrice di ben 665 milioni di euro. Uno dei molti grandi debiti mai ripagati.

I grandi debiti possono quindi essere cancellati, con grande sventura dei creditori, oppure rinnovati in modo da renderli sostenibili e garantire quantomeno la rendita (gli interessi) ai creditori.

Il debito pubblico, trattandosi di un grande debito, non è quindi qualcosa destinato ad essere ripagato (anche ricordando la sfortunata decisione di Zuan Francesco Priuli del 1584), ma qualcosa destinato ad essere rinnovato. La sostenibilità del debito, quindi, non dipende dal suo importo, né dal rapporto fra i debito ed il prodotto interno lordo (PIL).
Non è un caso che i debiti pubblici più alti del mondo, come quello statunitense e quello giapponese, siano considerati unanimemente sostenibili e quotati con la “tripla A” dalle società di rating. Viceversa vi sono debiti pubblici molto bassi, come quello del Venezuela, che sono considerati a maggior rischio.

La solvibilità di un debito pubblico dipende dalla facilità di un paese di procurarsi il denaro necessario per rinnovare il debito ovvero di pagare gli interessi. In teoria uno stato deve anche essere in grado di rimborsare il capitale dei titoli che ha emesso, ma, statisticamente parlando, se il servizio di risparmio fornito è affidabile, sempre ci saranno degli investitori interessati ad acquistare le nuove emissioni di titoli. L’importante è garantire la possibilità di convertire i titoli in scadenza nel denaro versato per acquistarli, con l’aggiunta degli interessi.

Moneta sovrana e non sovrana
Ora, vi sono sostanzialmente due tipi di debito pubblico: il debito pubblico denominato in moneta non sovrana e il debito pubblico denominato in moneta sovrana.
Per “moneta sovrana” si intende una moneta di cui uno stato è in grado di controllare l’emissione ovvero di emettere nuova moneta nella quantità e nei tempi desiderati, senza vincoli. Uno stato con moneta sovrana non potrà mai restare a corto di moneta, al limite ne potrà stampare troppa.
Viceversa per “moneta non sovrana” si intende un mezzo di pagamento di cui lo stato non può disporre a proprio piacimento. Era ad esempio il caso di Edoardo III d’Inghilterra, che non aveva alcun modo di procurarsi i fiorini d’oro necessari per rimborsare i Bardi. Oppure è stato a più riprese il caso di paesi latinoamericani come l’Argentina, indebitati in dollari con le banche americane. Oppure di molte ex colonie francesi, indebitate in franchi CFA con le due banche centrali controllate dal governo francese, quindi in una valuta fuori dal controllo dei loro governi.
Ed è il caso dell’Italia, indebitata in euro, moneta emessa dalla BCE, fuori dal controllo del governo italiano.
Sono invece paesi a moneta sovrana i paesi in cui la banca centrale, che emette denaro, è controllata ufficialmente, o sostanzialmente, dal governo: Cina, USA, Giappone, Canada, Corea (del Nord e del Sud), Iran, Cuba, Svizzera, ecc.
In realtà vi sono anche delle situazioni “intermedie” in cui la banca centrale è “indipendente” dal potere politico, pur emettendo la moneta ufficiale dalle nazione in cui si trova, per cui non collabora pienamente con il governo nel garantire le emissioni di moneta ritenute politicamente necessarie.

Uno stato a moneta a sovrana, per intenderci, è uno stato ha la “macchina che stampa i soldi”, il quale sempre sarà in grado di stampare il denaro sufficiente a pagare gli interessi ed eventualmente i capitali in scadenza. Ed è risibile la contestazione di chi sostiene che “stampare denaro genera sempre inflazione”, in quanto il nuovo denaro stampato viene destinato a ripagare i risparmiatori (denaro che non destinato ad acquistare beni e servizi, ma a risparmiare) e in quanto un governo accorto sa regolare la spesa pubblica in modo da evitare eccessi di inflazione.

Se il debito pubblico non è espresso in moneta sovrana, diventa un “debito cattivo”, in quanto i creditori, pur non avendo l’interesse che venga tutto ripagato (perché ci vogliono guadagnare gli interessi per lungo tempo), avranno un forte potere contrattuale verso uno stato che si può finanziare solo tramite i creditori ed i contribuenti, senza poter stampare una propria moneta. E questo potere contrattuale lo utilizzeranno per trarre i massimi benefici per loro, naturalmente ai danni dei cittadini, che pagheranno più tasse, per garantire il pagamento di interessi più elevati.
In questo caso, come in quello del debito privato impagabile, il debito pubblico impagabile diventa un meccanismo permanente di sfruttamento, da parte dei creditori, nei confronti della nazione che lo detiene.

A dire il vero ci sono nazioni povere del mondo che hanno la necessità di indebitarsi in valuta estera per poter acquistare tecnologie e competenze estere di cui non dispongono. In questi casi deve valere sempre la stessa regola: il debito deve essere sostenibile, diversamente diventa uno strumento di imperialismo

 

E’ solo una scelta politica
Se il debito pubblico sia uno strumento utile ai cittadini, per le ragioni sopra espresse, oppure se sia un meccanismo di sfruttamento del popolo, dipende unicamente da due fattori: la denominazione del debito (in moneta sovrana o non sovrana) e dal controllo pubblico sulla banca centrale che la emette.
Si tratta di due scelte a costo zero, puramente politiche. Infatti un paese libero e democratico ha tutto il potere di scegliere se emettere titoli di stato nella propria valuta o se emetterli in una valuta fuori dal proprio controllo. Ed ha tutto il potere giuridico di stabilire il controllo pubblico della banca centrale, affinché stampi il denaro necessario a garantire la sostenibilità del debito.

Dopo di che, evidentemente, non tutti i paesi sono liberi e democratici. Un paese sotto il controllo di una potenza straniera (una colonia) emetterà debito in una valuta confacente agli interessi della potenza straniera, garantendole un potente meccanismo di controllo, come lo è il debito pubblico estero della maggior parte dei paesi del Terzo Mondo, costantemente impagabile, costantemente nelle mani di stati/banche dei paesi più ricchi del mondo.
Un paese che emette titoli di stato in euro, moneta emessa da una banca centrale di cui non ha il controllo, sarà sottoposto ad un meccanismo di potere da parte di chi controlla la BCE, che si imporrà sulle decisioni del Parlamento.

Si tratta solo di una decisione politica: se l’Italia desidera essere un paese libero e democratico, dove il debito pubblico è un servizio di risparmio per i cittadini, questo deve essere denominato in valuta nazionale e la Banca d’Italia deve essere posta sotto controllo pubblico (oggi non lo è). Diversamente l’Italia continuerà ad essere soggetta al potere di coloro che controllano la banca centrale che emette gli euro, la BCE, i quali sono sempre più ricchi, proprio mentre il popolo italiano è sempre più povero, secondo lo stesso meccanismo applicato da decenni ai paesi poveri del Terzo Mondo.
E’ quanto spiega Guido Grossi nel suo video Il furto del debito pubblico.

C’è anche chi sostiene che il problema lo si potrebbe risolvere imponendo il controllo pubblico degli “stati europei” sulla Banca Centrale Europea. Da punto di visto tecnico-economico si tratta certamente di una soluzione funzionale. Il problema, però, è la fattibilità politica. Si tratta di una decisione che dovrebbe essere presa all’unanimità da 27 governi, molti dei quali sottoposti ai ricatti ed alle infiltrazioni da parte dei poteri finanziari che controllano la stessa BCE e ne traggono profitto.
Le probabilità che una riforma del genere avvenga in pochi anni sono prossime allo zero, mentre gli effetti di impoverimento dell’Italia sono già in corso da anni e continuano pesantemente.
La via più percorribile, quindi, è che lo stato italiano cominci ad emettere titoli espressi in una valuta parallela all’euro, emettendo esso stesso questa valuta. In questo modo il debito pubblico ritornerebbe a svolgere la funzione “buona” di supporto al risparmio e cesserebbe di essere uno strumento di potere della finanza internazionale sull’Italia.

guerra e pace_con Gianfranco Campa

è tempo di proclami di pace, ma non troppo convinti e di feroci regolamenti di conti. I vincitori, o presunti tali, vogliono estirpare e rimuovere l’esempio. Pensano così di risolvere gran parte del problema. Il problema reale sono però le decine di milioni di persone attaccate a quell’esempio le quali potranno trovare nuovi leader, magari più adeguati. Quell’esempio, tra l’altro, ha allignato in quattro anni significativamente in alcuni centri di potere e decisionali. Dalla sua ha anche un contesto geopolitico sempre più inaccessibile alle velleità unipolari. La vecchia leadership non pare molto attrezzata ad affrontare le novità; non farà che acuire le divisioni e mettere in forse ancora di più la stessa coesione del paese. Grandi pericoli attraverseranno il mondo, ma grandi spazi si apriranno per chi vorrà coglierli. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vcm17m-guerra-e-pace-con-gianfranco-campa.html

 

Epigenetica e fantasmagorie transumaniste_1a parte, di Massimo Morigi

 

                      Massimo Morigi

Epigenetica, Teoria endosimbiotica, Sintesi evoluzionista moderna, Sintesi evoluzionistica estesa e fantasmagorie transumaniste. Breve commento introduttivo, glosse al Dialectical Biologist di Richard Levins e Richard Lewontin, su Lynn Margulis,  su Donna Haraway e materiali di studio strategici per la teoria della filosofia della  prassi olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale    del    Repubblicanesimo    Geopolitico

                                              (I parte di 5)

 

                                    Presentazione

 Il saggio di Massimo Morigi Epigenetica, Teoria endosimbiotica, Sintesi evoluzionista moderna, Sintesi evoluzionistica estesa e fantasmagorie transumaniste. Breve commento introduttivo, glosse al Dialectical Biologist di Richard Levins e Richard Lewontin, su Lynn Margulis,  su Donna Haraway e materiali di studio strategici per la teoria della filosofia della  prassi olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale    del    Repubblicanesimo    Geopolitico può senza dubbio essere considerato come il primo vero tentativo, dopo lo spegnimento e rimozione compiuti a partire dalla seconda metà del Novecento della scuola dialettica italiana di Gentile e Croce, di far rivivere in maniera sistematica ed omogenea una Weltanschauung integralmente dialettica  e storicista ed integralmente unificatrice dei fenomeni sociali, culturali e storici  e di quelli naturali, siano questi di tipo biologico  che  attinenti al mondo fisico che prima  dell’inizio del Novecento venivano interpretati unicamente sulla scorta del meccanicismo galileiano, oppure, per quanto riguarda i fenomeni biologici, in goffa fuoruscita da questo meccanicismo in chiave spiritualista e vitalista (meccanicismo galileano che agli inizi del Novecento verrà messo definitivamente in crisi della meccanica quantistica, e infatti il saggio in questione risulta essere esplicitamente  influenzato da questa rivoluzione nella fisica, tanto che l’autore  definisce la fisica quantistica come una sorta di fisica della praxis, idealmente unita con duplice filo rosso alla filosofia della prassi degli autori che più gli sono cari: Antonio Gramsci e Giovanni Gentile). Non si vuole qui anticipare (e per certi versi è pure impossibile, perché solo immergendosi nella dialettica del saggio in questione è possibile) come il paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale proposto dall’autore riesca a sostituire il canone galileiano-posititivistico dell’interpretazione della realtà che nell’odierno pensiero mainstream non vale solo per la c.d. realtà fisica e/o biologica ma sia, vero e proprio infarto del pensiero e del buon senso, per quella  culturale, sociale e storica ma basti sottolineare che gli “eroi” dell’ autore non sono i “liberali” Hobbes, Locke o Kant ma lungo il predetto paradigma di impianto storicistico-dialettico Aristotele, Machiavelli, Hegel, Gentile, Gramsci e Lukács, una genealogia di padri nobili che è quindi già tutto un programma rispetto alle fuorvianti narrazioni liberal-liberiste che sono l’attuale oppio ideologico delle odierne c.d. democrazie rappresentative. Vista la lunghezza del saggio, “L’Italia e il Mondo” ha deciso di pubblicarlo in cinque parti, in ognuna delle quali ogni volta per comodità di lettura verrà riproposto il testo principale che sorregge il corposissimo  apparato di note, non moltissime per la verità, sedici in tutto, ma di una estensione, complessità interna e vicendevole interconnessione che fanno sì che queste note costituiscano il vero e proprio nucleo dialettico del saggio, una sorta di motore dialettico che non sarebbe stato possibile concepire attraverso una stesura di tipo classico dove il “messaggio” viene trasmesso dal testo principale e le note sono, appunto, solo note (a meno di non ricorrere, ovviamente, a forme compositive dialettiche di marca benjaminiana, dove è il testo principale a trasmettere il messaggio ma dove questa trasmissione, per quanto in forme suggestive e poetiche, risulta essere quasi del tutto indecifrabile, vedi, per esempio, il Dramma barocco tedesco, saggio in cui la vertigine dei riferimenti immessi direttamene nel testo principale genera una sorta di indecifrabile – anche se assolutamente affascinante – esplosione dialettica, l’esatto contrario del testo che ora proponiamo dove, nonostante la vastità e complessità dei riferimenti trattati nelle note, assistiamo ad una sorta di condensazione dialettica proprio perché queste note trattano autonomamente, ma tutte dal punto di vista unificante olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale, i vari argomenti dai quali prendono lo spunto). Nella quinta ed ultima parte (vista la sua lunghezza ed anche la necessità di affrontarlo con debite pause di riflessione, pubblichiamo infatti questo saggio in 5 parti), segue alla nota 16 una lunghissima sezione bibliografica, la quale a differenza delle bibliografie classiche non solo  è unicamente basata su fonti reperibili in Rete ma dove queste fonti sono salvate für ewig  e sottratte al solito destino del  rapidissimo decadimento e della scomparsa dei documenti presenti sul Web tramite le odierne piattaforme di preservazione digitale che rispondono al nome di Internet Archive e Wayback Machine (quest’ultima una derivazione di Internet Archive). Una parola anche sulla natura di queste fonti. Si tratta per la maggior parte di articoli scientifici sugli argomenti indicati nel titolo del saggio (quindi si tratta di pubblicazioni sull’epigenetica e l’evoluzione, ci si scusi del gioco di parole, della teoria evoluzionistica darwiniana), ma una parte assai significativa, anche se in sottordine nel senso dello spazio che occupa, è dedicata alla preservazione digitale dei principali capisaldi del pensiero politico realistico-dialettico-strategico, documenti quest’ultimi  altrimenti disponibili indubbiamente anche su supporto cartaceo ma che, inseriti nel contesto della Weltanschauung di questo testo – che, come già detto, attraverso il paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale intende riunificare i fenomemi storico-culturali con quelli c.d. naturali – ed anche nel contesto bibliografico sempre di questo testo assumono una sorta di nuova ed iridescente – anche se completamente conforme rispetto alla loro tradizione di realismo politico  – prospettiva. Per tutti questi motivi, che rendono il saggio in questione un profondo ragionamento filosofico ma di una filosofia integralmente immanentista  e realista con dirette conseguenze e sviluppi anche per i temi politici e geopolitici tanto cari all’ “Italia e il Mondo”, ne consigliamo un attento studio, propedeutico, ci si augura, a quei cambi di paradigmi politico-mentali liberal-liberisti che, veri e propri “crampi del pensiero” in Italia come nel resto delle c.d. democrazie industriali, assieme al tragico spegnimento delle spinte rivoluzionarie del Novecento, stanno causando, oltre ad un apparentemente inarrestabile degrado politico, anche un altro apparentemente inarrestabile degrado antropologico-culturale.

Buona lettura

Giuseppe Germinario

 

Al Dialectical Biologist, che è in errore numerose volte ma che è  nel giusto sui punti essenziali

 

A Lustig von Dom e alla sua madre in dialettica Frau Stockmann, Friederun von Miran-Stockmann

 

Questo documento, che ora viene presentato in anteprima sul blog di geopolitica “L’Italia e il Mondo”, inteso a raccogliere e a dare un primo approccio alle valenze teoriche che per il Repubblicanesimo Geopolitico possono rivestire le ultime acquisizioni della biologia molecolare e dell’epigenetica e costituito dal presente commento su questo argomento più una  rassegna di URL attraverso i quali i lettori possono prendere visione di importanti documenti afferenti a queste branche della biologia, che erano già presenti sul Web ma che noi, vista la loro importanza sia scientifica  che per la teoria del Repubblicanesimo Geopolitico, abbiamo provveduto a caricare su Internet Archive (e nella rassegna bibliografica finale verranno debitamente indicati gli URL da cui originariamente sono stati scaricati i documenti  – URL e documenti relativi che, quando tecnicamente possibile,  sono stati da noi anche “congelati” tramite  la Wayback Machine – accanto agli URL creati ex novo attraverso i nostri caricamenti su Internet Archive), sviluppa la sua critica a queste nuove acquisizioni delle scienze biologiche nell’ambito dello studio e dell’elaborazione   del  paradigma olistisco-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico – teoria-paradigma dell’azione olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico   ultima sintesi e sistemazione della filosofia della prassi i cui maggiori esponenti sono stati nel Novecento Antonio Gramsci, Giovanni Gentile e Karl Korsch – e azione olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale che, in primo luogo, dalla profonda   dialetticità del Dialectical Biologist di Richard Levins e Richard Lewontin (per quanto ancora  il Dialectical Biologist non sia riuscito del tutto a liberarsi dello pseudodialettico  engelsismo1 della Dialettica della natura e dell’ Anti-Dühring),  dall’epigenetica (principale esponente Eva Jablonka), dalla teoria endosimbiotica di Lynn Margulis e quindi da un aggiornato lamarckismo riceve potenti stimoli dialettici ed euristici. (Oltre che ottenere una riabilitazione, se non in sede di histoire événementielle, cioè in sede di una impossibile riabilitazione dello stalinismo, ma sì dal punto di vista di una nuova teoresi olistico-dialettica-gnoseologica-epistemologica-politica – cioè dal punto di vista di una rinnovata filosofia della prassi di cui si è appena detto – cui il Repubblicanesimo Geopolitico cerca di dar vita, del tanto ideologicamente diffamato Trofim Denisovič Lysenko, la cui genetica non può essere sbrigativamente liquidata come una infelice pseudoscienza frutto della pseudodialettica dell’autoritario e veteroengelsiano Diamat staliniano, quanto fu piuttosto una forma di lamarckismo ancora all’oscuro dei meccanismi    che    indirizzano   l’evoluzione  degli  organismi2, meccanismi  che cominciano solo ora ad essere compresi dall’epigenetica e, più in generale, da tutti quegli approcci di ricerca biologica e genetica che intendono costruire una Extended  Evolutionary Synthesis  –  Sintesi evoluzionistica estesa, per la  quale anche il dato culturale acquisito,  costruito ed introiettato  dall’organismo stesso in una sorta di autopoiesi genotipico-fentotipica per poi riverberarsi, questa autopoiesi culturale-genetipica-fenotipica, al livello dello stesso ambiente che ne rimane influenzato perché, evolutosi in seguito a questa modificazione dell’organismo, modifica a sua volta dialetticamente l’organismo stesso, è una decisiva componente dell’evoluzione3 – non contrapposta alla Modern Evolutionary Synthesis (Sintesi evoluzionistica moderna, detta anche neodarwinismo – responsabile di aver esasperato in senso meccanicistico le felici intuizioni darwiniane, e costituendo quindi la Sintesi Evoluzionistica Estesa non tanto una fuoruscita dal canone evoluzionista darwiniano ma bensì, attraverso la consapevole introduzione nel campo  teorico esplicativo dell’evoluzione di una Gestalt storicistico-dialettica, non una contrapposizione all’idea darwiniana di evoluzione, modello darwiniano di evoluzione  nel quale erano tenuti in precario equilibro valenze meccanicistiche e valenze storicistiche, ma semmai una sua pur profonda e radicale integrazione alla luce di un rinnovato lamarckismo che solo ora con le nuove tecniche di investigazione scientifica comincia a sviluppare tutte le sue potenzialità) ma al più o meno rozzo meccanicismo che precedentemente aveva afflitto la Modern Evolutionary Syntesis che ha portato alle più estreme ed infauste conseguenze i nodi irrisolti  presenti nel modello  darwiniano4. Si noti bene:  Darwin  era  ben  consapevole dei notevoli problemi che il suo schema di evoluzione delle specie animali e vegetali che vedeva questi organismi come soggetti passivi rispetto all’ambiente si portava con sé e, piuttosto che per il meccanicismo del suo schema evolutivo, l’immortale importanza del suo lascito scientifico consiste nel fatto che egli, a differenza di Lamarck, collegò la variabilità degli organismi all’interno di una specie con la comparsa di nuove specie che non sarebbero mai comparse se questa variabilità individuale non si fosse manifestata, mentre Lamarck, pur avendo correttamente individuato un meccanismo evolutivo dove l’organismo non giocava solo un ruolo passivo – classico l’esempio della giraffa che si allunga il collo per mangiare le foglie degli alberi e riesce poi a trasmettere direttamente alla prole questa sua caratteristica somatica – confinò questo meccanismo evolutivo all’interno di ogni singola specie, cosicché, per farla semplice, le giraffe potevano sì allungare il loro collo a seconda delle necessità ambientali ma dalle giraffe potevano evolversi solo delle giraffe e mai, mettiamo, una nuova specie di erbivori distinta dalle giraffe. Era un’idea di evoluzione un po’ modello arca di Noè, dove le specie del Creato sono sempre state le stesse ab initio temporum – nell’arca gli animali entrano a coppie  e, a parte la facile ironia che viene dalla domanda su come faranno i milioni di specie di viventi, anche se presenti solo a livello di una coppia composta da un maschio e una femmina, a stare dentro un così ridotto vascello, c’è una visione del mondo che sta dietro a questo singolare mito biblico, e cioè l’eterna fissità delle specie viventi che, dai tempi antidiluviani, quindi sin dall’inizio del mondo, sono sempre le stesse.  L’immortale lascito di Darwin non è, quindi, quello di avere recisamente rifiutato e sovvertito in direzione meccanicista il modello lamarckiano di un processo di attiva autopoiesi genotipico-fentotipica dell’organismo e di trasmissione di queste nuove caratteristiche così attivamente acquisite anche alle successive generazioni ma il fatto di aver compreso che la variabilità degli individui all’interno di una popolazione può generare nuove specie. Per rimanere all’esempio della giraffa. Secondo lo schema darwiniano, se particolari condizioni ambientali non costringono più le giraffe ad allungare il collo – o per attenerci ad una formulazione di ancor più stretta osservanza darwiniana, se particolari condizioni ambientali non favoriscono la selezione di giraffe dal collo sempre più lungo –, questo mutamento ambientale può selezionare   –  perché un collo troppo lungo che non risponda più a necessità alimentari è uno svantaggio in quanto una eccessiva massa dell’animale consuma troppe calorie – non solo giraffe dal collo più corto ma una nuova specie animale che non riesce più a riprodursi con le giraffe a collo lungo. Una eccezionale intuizione che, per la prima volta, riusciva a spiegare la presenza delle varie specie presenti sulla Terra partendo da una stessa famiglia di organismi. Insomma prima di Darwin sarebbe stato assolutamente impossibile concepire  LUCA (Last Universal Common Ancestor), e in mancanza di questo ‘ultimo antenato comune universale’ – o almeno in mancanza nella teoria evoluzionistica di un originario antenato iniziatore della vita, sia stato questo antenato un singolo organismo o un gruppo di (proto)organismi e/o molecole organiche (oppure vari e distinti gruppi di molecole organiche e/o (proto)organismi)  che siano divenuti una comunità di organismi  (o più comunità di organismi come nel secondo caso dei gruppi distinti) tramite il trasferimento di geni orizzontale ed evolutesi e differenziatesi in seguito in molteplici e diversificate altre comunità di organismi, cioè nelle varie specie biologiche presenti sul nostro pianeta – gli attuali  paradigmi evoluzionistici sulla varietà e differenziazione delle  specie dei viventi presenti sulla Terra, Sintesi evoluzionista moderna e Sintesi evoluzionistica estesa indifferentemente,  sarebbero gravemente mùtili  della loro  forza  euristica ed analogica nell’opposizione a qualsiasi Weltanshauung imperniata su una divinità personalistica e creazionistica ex nihilo ed ex suo5 – opposizione che è consustanziale alla filosofia della prassi olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico –, una ingenua rappresentazione della religiosità popolare sull’origine del mondo  che iconicamente  trova oggigiorno la sua più limpida manifestazione nelle immagini devozionali di proselitismo religioso dei Testimoni di Geova rappresentanti il Paradiso Terrestre, dove leoni, giraffe e gazzelle ed altre specie selvagge vivono felici e rispettandosi a vicenda – povero leone costretto ad una dieta vegetariana, da costituirsi immediatamente un’associazione animalista contro i maltrattamenti alimentari che il leone subisce in questo paradiso terrestre, e alle fiamme il dipinto Paradiso di Jan Brueghel il Giovane, forse la più diretta fonte iconografica di queste immagini devozionali!6 –, e, a parte la bizzarria del leone vegetariano, recanti queste immagini un’altra informazione al devoto, e cioè che queste specie ora pacificate nel Paradiso sono state create tali e quali  ab initio temporum. Insomma, siamo sempre dalle parti dell’arca di Noè e delle mitologie veteroneotestamentarie e derivati7. Darwin  ha iniziato  a  liberarci  da  questa   mitica arca8. La Sintesi evoluzionistica estesa riesce, a sua volta, a liberarsi – e a liberarci –  nel campo della biologia e degli studi sull’evoluzione degli organismi dell’ideologia meccanicistica di stampo cartesiano-galileano – che nell’ Ottocento e  nel Novevento trovò la sua più tetra e ridicola interpretazione nel positivismo e nel neopositivismo – in cui finora era stata costretta questa liberazione e in cui era rimasto impastoiato, pur fra profondi dubbi, anche Darwin. E ovviamente il Repubblicanesimo Geopolitico non può che cogliere con profonda soddisfazione questo ulteriore avanzamento dialettico delle scienze biologiche e genetiche.).  Un’ultima notazione. Pur prendendo spunti ed analogie dalle nuove frontiere aperte dall’epigenetica, dalla sintesi evoluzionistica estesa  e dalla teoria endosimbiotica, ideata quest’ultima  da Lynn Margulis, il Repubblicanesimo Geopolitico si pone decisamente agli antipodi da tutte le ridicole e cupe impostazioni transumaniste, siano queste anche in forma più o meno attenuata come, per esempio, in Donna Haraway. Questo perché – sempre rimanendo al transumanismo harawayno, che attualmente  ne è la forma più attenuata, ed anzi la Haraway espressamente nega di condividerne i fini, anche se, in pratica, deve a buon diritto essere inserita in questa disumanizzante impostazione antropologica – pur riconoscendo volentieri e come segno indubbiamente positivo le potenzialità dialettiche e/o contro la vecchia suddivisione natura/cultura che promanano da tutto il lavoro della Haraway (dal Cyborg Manifesto per finire col Staying with the Trouble. Making kin in the Chthulucene9),  si   deve   sottolineare  il fatto che 1) questa dialettica è espressa per lo più attraverso immagini simboliche (il cyborg del Cyborg Manifesto, l’endosimbionte del Stayng with the Trouble – quest’ultimo, comunque effettivamente esistente nella realtà mentre il primo, almeno per ora, è solo il frutto di una fantasmagoria fantascientifica), che per quanto immagini inconsce ed oniriche della dialettica si fermano sempre ad un passo da una piena consapevolezza della stessa e che 2) il progetto transumanista che traspare da tutto il lavoro della Haraway (per quanto il transumanismo venga formalmente respinto dalla Haraway) altro non si risolve alla fine, anche se abbandonando l’iniziale fantasmagoria fantascientifica del Cyborg perché evidentemente percepita dalla Haraway troppo disumanizzante, che in una fuoruscita dall’umano  non più in via bioingegneristica  come nel Cyborg Manifesto ma in via ingegneristico-genetica (cfr. in Staying with the Trouble il racconto fantascientifico The Camille Stories: Children of Compost10), ma fuoruscita storica dalle attuali contraddizioni storiche dell’umano –  e non dall’umano stesso inteso come dispositivo olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale come invece propone il transumanismo che lo vorrebbe sostituire con un più perfezionato prodotto da laboratorio ma dal quale, ahinoi, scompare la dimensione storico-dialettica della sua evoluzione – che solo può compiere una soddisfacente Aufhebung attraverso una rinnovata e potenziata filosofia della prassi, insomma quella filosofia della prassi, erede dell’idealismo storicista italiano e tedesco e delle migliori espressioni del marxismo occidentale direttamente influenzate da questo idealismo,  che nel XXI secolo solo il Repubblicanesimo Geopolitico ha assunto su di sé il compito del suo sviluppo e potenziamento teorico-pratico. E, infatti, l’incapacità della Haraway a formulare coerentemente un suo autonomo ed originale pensiero dialettico e addirittura il tentativo di fare dell’endosimbionte il simbolo di un nuovo rapporto dell’uomo con la natura  e con la società – suggerendo quindi che l’endosimbionte è, in un certo senso, il  culmine della scala biologica e l’obiettivo cui deve tendere una rinnovata ingegneria sociale poggiata su un’ideologia ecologista e realizzata attraverso le sempre più penetranti tecnologie genetiche utilizzate per modificare il genoma umano: cfr. oltre al summenzionato apologo fantascientifico ancora, passim, Staying with the Trouble. Making kin in the Chthulucene e, in particolare, alle pp. 61-62, 64 la trattazione sul simbionte   Mixotricha paradoxa11– sfocia  alla  fine,  sempre   in  Staying   with  the Trouble, certamente risultato non voluto dalla Haraway, nel progetto di una sorta di uomo nuovo, conseguito non attraverso una selezione e/o eliminazione di pool genetici e culturali umani come nel nazismo12 ma attraverso l’assorbimento nel stesso patrimonio genetico dell’homo sapiens, ad opera dell’ingegneria genetica,  del patrimonio genetico di altre specie animali e vegetali (questo processo di trasferimento di DNA e RNA non finalizzato a finalità riproduttiva all’interno di una specie ma fra membri appartenenti a specie diverse e quindi svincolato da qualsiasi teleologia riproduttiva – che, alla luce delle attuali acquisizioni nell’ambito del paradigma della sintesi evoluzionistica estesa, tutto si può dire di questo fenomeno tranne che si tratti di un ‘epifenomeno’ di trascurabile importanza, mentre è assai più verosimile pensare che si tratti di un passaggio decisivo dell’evoluzione degli organismi e dal punto di vista della dialettica del Repubblicanesimo Geopolitica ne è evidente la grande valenza euristica in quanto si pone agli antipodi di qualsiasi visione “fissista”  del mondo biologico e,  con profonda analogia,  della realtà tutta,  fisica, biologica, culturale e storica, proiettandoci quindi in uno schema olistico della realtà informato alla creazione autopoietica della stessa attraverso il  paradigma   dell’azione dialettico-espressiva-strategica-conflittuale – non è una fantasmagoria fantascientifica ma avviene in natura, e avviene anche per quanto riguarda l’uomo nel cui materiale genetico sono state rinvenute tracce più o meno consistenti di materiale genetico di altre specie animali, un trasporto probabilmente avvenuto attraverso virus vettori). Questo ‘trasferimento genico orizzontale’ svincolato dalla riproduzione  (acronimo TGO,  o ‘trasferimento di geni laterale’, acronimo TGL, in inglese ‘Horizontal gene transfer’, acronimo HGT) che avviene, ovviamente, anche dall’uomo verso gli animali, mentre potrebbe costituire una potentissima metafora dell’intima dialetticità non solo del mondo biologico ma, nell’ambito di una visione olistica della realtà tutta, non solo del mondo della φύσις globalmene intesa ma anche della realtà culturale e storica dell’uomo, viene  quindi suggerito dalla Haraway in Staying with the Trouble  – con grande sfacciataggine ed ingenuità materialistica, ma mai come nel caso della Haraway questo materialismo non è altro che il volto deturpato e degradato di un non ben superato spiritualismo, e infatti la Haraway non ha mai fatto mistero della suo background cattolico e della centralità nello sviluppo del suo   Bildungsroman del mistero della transustanziazione13– come  una  sorta  di processo da intensificare ulteriormente attraverso una sempre più scaltrita ingegneria genetica, venendo così a delineare, sempre involontariamente per carità, una sorta di eugenetica non di marca nazista ma di tipo ecologista, ignorando, come del resto avviene sempre nel nazismo e nelle altre forme di totalitarismo, che se mai si può parlare di uomo nuovo, questo uomo nuovo – se vogliamo mantenere per comodità espositiva questa espressione, sideralmente lontana dalla Weltanschauung olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale (e storicista) del Repubblicanesimo Geopolitico – non può che avere la sua reale epifania attraverso il potenziamento del Logos (Logos che non è una peculiarità dell’uomo ma che nell’uomo, a differenza degli altri animali ed anche vegetali, è la principale forza di indirizzo e di sviluppo della sua evoluzione), potenziamento del Logos che trova la sua massima espressione – attraverso il manifesto e pubblico compimento nella società, di una cultura informata al modello dell’azione olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale – nell’ Epifania strategica del Repubblicanesimo Geopolitico;  ed Epifania strategica che, per concludere,  può trarre, come effettivamente già trae attraverso la filosofia della prassi del Repubblicanesimo Geopolitico, potenti spunti euristici e dialettici dall’epigenetica e, più in generale, dall’ Extended evolutionary synthesis che finalmente si è lasciata definitivamente alle spalle il mito di un’evoluzione biologica guidata meccanicamente da forze esterne all’organismo e verso le quali l’organismo non possa dialetticamente interagire (quindi si può dire che l’ Extended Evolutionary Synthesis è una sorta di filosofia della prassi  per quanto riguarda gli studi biologici e di storia naturale); ma Epifania strategica che è l’esatto contrario della fuga in utopie comunistiche, comunitaristiche o eugenetiche di destra o sinistra che esse siano ma è,  una sorta di obiettivo limite;  o, se vogliamo una sorta di mito, ma un mito che affonda le sue radici nella reale natura dell’uomo14, natura dell’uomo, che similmente al resto del mondo animato ed inanimato ma con maggior evidenza di questi due ambiti  – che, allo stesso titolo  dell’uomo, appartengono alla stessa totalità dialettico-espressiva-strategica-conflittuale, e qui torniamo all’artificiosità della separazione fra mondo naturale biologico o fisico che esso sia e il mondo culturale, sociale e storico fino a poco tempo fa ritenuto di esclusiva costruzione umana, artificiosità nella separazione di questi due mondi che, alla luce di un vigoroso anche se non impeccabile sforzo dialettico perché impacciato da  un sentimento di reverentia ac metus verso la figura di Friedrich Engels, nessuno meglio del Dialectical Biologist è riuscito ad esprimere, cfr. del Dialectical Biologist pp. 277-288, sulle quali ritorneremo anche in future altre discussioni15 –,  è il Logos concreto ed immanente dell’azione olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale; un Logos (o Epifania strategica) che anche dalle scienze biologiche di cui si è appena detto (nonché,  –  vedi Teoria della Distruzione del Valore   e Dialecticvs Nvncivs – dalla meccanica quantistica e dall’elaborazione  di modelli matematici non lineari, cioè dallo studio della  Teoria del caos  e dei Complex Adaptive Systems – antesignano di questo approccio non lineare nello studio della guerra e della società Carl von Clausewitz col suo Vom Kriege –,  approcci anche questi, analogamente a quelli introdotti dalla nuove scienze biologiche e genetiche appena illustrate, di grande valore dialettico  per lo  studio della società e dell’uomo perché ci liberano dai vecchi meccanicismi e determinismi cartesiani e galileiani che hanno afflitto gli ultimi cinque secoli di studi  “umanistici” e che fra Ottocento e Novecento hanno visto il loro triste trionfo nel positivismo, nel neopositivismo per finire col Diamat staliniano), trae potentissimi spunti dialettici ed operativi16  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note

 

1 Richard Levins, Richard Lewontin, The Dialectical Biologist, Cambridge (MA), Harvard University Press, 1985 (Delhi, Aakar Books for South Asia, 2009), documento da noi scaricato presso https://athens.indymedia.org/media/upload/2016/09/02/LEWONTIN_-_THE_DIALECTICAL_BIOLOGIST.pdf. Nostro congelamento WebCite (quando ancora questa piattaforma accettava congelamenti diretti di URL e relativi documenti):  http://www.webcitation.org/75i27bpR1 e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fathens.indymedia.org%2Fmedia%2Fupload%2F2016%2F09%2F02%2FLEWONTIN_-_THE_DIALECTICAL_BIOLOGIST.pdf&date=2019-01-26. Successivo “congelamento” anche sulla Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20190618163839/https://athens.indymedia.org/media/upload/2016/09/02/LEWONTIN_-_THE_DIALECTICAL_BIOLOGIST.pdf.  Ricaricato su Internet Archive, generando gli URL  https://archive.org/details/TheDialecticalBiologist/mode/2up   e

https://ia800900.us.archive.org/3/items/TheDialecticalBiologist/Lewontin_-Levins_the_dialectical_biologist.pdf. Vista l’importanza del documento, ulteriore congelamento WebCite del documento da noi caricato su Internet Archive:    http://www.webcitation.org/75i3BdM3Q e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia801507.us.archive.org%2F26%2Fitems%2FTheDialecticalBiologist%2FLewontin_-Levins_the_dialectical_biologist.pdf&date=2019-01-26 ed ora, alla luce del  funzionamento non soddisfacente di WebCite, congelamento tramite Wayback Machine di Internet Archive del documento già caricato direttamente su Internet Archive, generando l’URL  http://web.archive.org/web/20190618164825/https://ia800900.us.archive.org/3/items/TheDialecticalBiologist/Lewontin_-Levins_the_dialectical_biologist.pdf. Non è nostra intenzione elencare dettagliatamente in questo lavoro tutte le varie ingenuità veteromarxistiche e/o veteroengelsiane del Dialectical Biologist, lasciando al lettore, attraverso la possibilità di andare direttamente alla fonte tramite il Web e attraverso la nostra operazione di congelamento digitale di questa e delle altre fonti rilevanti per la presente discussione – vedi rassegna bibliografica internettiana finale –, la istruttiva e formativa fatica (e, comunque, dedicheremo una nostra successiva riflessione a separare analiticamente il grano dal loglio di questo fondamentale testo).  Per quanto riguarda questa  nota, ci limitiamo a citare  l’epigrafe nella pagina che segue il frontespizio: «To Frederick Engels, who got it wrong a lot of the time but who got it right where it counted». Come vedremo in questa comunicazione, per fortuna del Dialectical Biologist (e soprattutto, per nostra fortuna) questo libro ha saputo andare ben oltre queste ingenuità – anche se, come pure verrà evidenziato  nella presente riflessione,  sempre unendo folgoranti intuizioni con una difesa più o meno d’ufficio di Friedrich Engels  e della sua pseudodialettica  –, costituendo una pietra miliare per una rinnovata dialettica della filosofia della prassi, talché parafrasando abbiamo scritto in epigrafe al nostro lavoro queste parole: «Al Dialectical Biologist, che è in errore numerose volte ma che è  nel giusto sui punti essenziali».

 

 

 

 

2 «The Lysenkoist  movement, which agitated Soviet biology and agriculture for more than twenty years and which remains attractive to segments of the left outside the Soviet Union today, was a phenomenon of vastly greater complexity than has been ordinarily perceived. Lysenkoism cannot be understood simply as the result of the machinations of an opportunist-careerist operating in an authoritarian and capricious political system, a view held not only by Western commentators but by liberal reformers within the Soviet Union. It was not just an “affair”, nor the “rise and fall” of a single individual’s influence, as might be supposed from the titles of the books by Joraysky (1970) and Medvedev (1969). Nor, on the other hand, can the Lysenko movement be regarded, as it is by some ultraleft Maoists, as a triumph of the application of dialectical method to a scientific problem, an intellectual triumph that is being suppressed by the bourgeois West and by Soviet revisionism. None of these views corresponds to a valid theory of historical causation. None recognizes that Lysenkoism, like all nontrivial historical phenomena, results from a conjunction of ideological, material, and political circumstances and is at the same time the cause of important changes in those circumstances.»: Richard Levins, Richard Lewontin, The Dialectical Biologist, cit., p. 163. Abbiamo appena affermato che non citeremo in dettaglio le varie debolezze del Dialectical Biologist ma in questo caso abbiamo fatto un’eccezione. Ovviamente è del tutto apprezzabile la difesa che nel passo riportato viene fatta di Lysenko ma pur non essendo questa una difesa d’ufficio non si può non rimarcare il grosso problema  che riguarda, complessivamente,  non solo il brano appena citato e tutta  la trattazione che nel Dialectical Biologist viene svolta del “caso Lysenko” (il capitolo “The Problem of Lysenkoism” del Dialectical Biologist da p. 163 a p. 196) ma, globalmente, tutto il Dialectical Biologist. Precisiamo. Il problema nella debolezza della difesa di Lysenko non può, in verità, essere attribuito ad una sorta di timidezza scientifica del Dialectical Biologist nei confronti della meccanicistica Sintesi evoluzionista moderna per il semplice fatto che le acquisizioni scientifiche nel campo dell’epigenetica e la teoria endosimbiotica di Lynn Margulis che mettono direttamente in crisi questo paradigma e vanno a costituire una rinnovato interesse verso Lamarck nell’ambito di una nuova Sintesi evoluzionistica estesa erano ai tempi del Dialectical Biologist o  ancora tutte da venire o, se già formulate, ancora con scarsissimo seguito presso la comunità scientifica internazionale  (Lynn Sagan – dopo aver divorziato dall’astronomo Carl Sagan e sposato Thomas Margulis, Lynn Margulis –, On the Origin of Mitosing Cells, in “Journal of Theoretical Biology, Vol. 14(3), 1967, pp. 225-274 (per consultare e scaricare  articolo  sul Web, vedi rassegna bibliografica internettiana finale), il primo articolo su una rivista scientifica dove Lynn Margulis avanza la sua teoria endosimbiotica – indicazioni bibliografiche internettiane in calce alla presente comunicazione –, fu pubblicato nel ’67 dal “Journal of Theoretical Biologydopo essere stato rifiutato da altre riviste scientifiche e ci vollero più di due decenni prima che la teoria endosimbiotica di Lynn Margulis fosse riconosciuta come una pietra miliare della biologia e della genetica; Eva Jablonka comincerà a pubblicare verso la fine degli anni Ottanta) e, quindi, non si può che apprezzare il coraggio  mostrato da questo testo  nel  cercare di porre una resistenza al pensiero mainstream in campo genetico – ma anche nel campo dell’ideologia anticomunista – che vedeva Lysenko come una sorta di teppista pseudoscientifico che si sarebbe fatto largo nel mondo accademico   sovietico solo in ragione del fatto che vi imperava lo stalinismo – la cui volontà di costruire l’uomo nuovo del socialismo ben si accordava con la strumentalizzazione del lamarckismo insito nella  biologia lisenkiana –  e la sua scimmia ideologica  che va  sotto il nome di Diamat  che in pratica del lisenkismo – al netto del suo meccanicismo engelsiano travestito da dialettica, meccanicismo diamattino  e suo maggiore compare politico stalinista che in linea di principio avrebbero dovuto confliggere con qualsiasi deriva lamarckiana nel campo della biologia che, a rigore, non avrebbe dovuto che enfatizzare un ruolo attivo dell’organismo nel foggiare il proprio genotipo-fenotipo, ma qui si trattava di giustificare col lamarckismo lisenkiano un ruolo attivo della volontà dello Stato a foggiare una nuova comunità e non un ruolo attivo dell’individuo ad autoeducarsi in senso socialista  – seppe cogliere le sue potenzialità di utilizzarlo come instumentum regni per propagandare la possibilità di edificare l’uomo nuovo sovietico in brevissimo tempo. (Utilizzazione ideologica sempre avvenuta, del resto, in ogni settore della ricerca scientifica e non certo inaugurata dallo stalinismo. Oltre al meccanicismo cartesiano-galileano giustificatore dell’individualismo metodologico di cui abbiamo già in altre sedi più volte discusso e di cui stiamo discutendo anche qui in quanto di questo meccanicismo si sta criticando la sua versione nelle scienze biologiche e genetiche, per quanto riguarda la teoria evoluzionistica in senso stretto, non si può fare a meno di ricordare che, oltre che uno stretto darwinismo meccanicistico è da sempre addotto come giustificazione  dell’individualismo metodologico della società liberale – e la versione più moderna di questo utilizzo ideologico è la sociobiologia, cfr., a questo proposito  Richard Dawkins, The Selfish Gene, New York, Oxford University Press, 1976, per indicazione internettiana  con relativi congelamenti dell’URL e del documento tramite le piattaforme di preservazione digitale, vedi infra nota n° 4 e rassegna bibliografica internettiana finale –,  il c.d. darwinismo sociale è stato anche la vera colonna portante dell’ideologia razziale nazista, nazismo che, al netto di tutte le sue fumisterie esoteriche, era proprio sostenuto dall’idea di un individualismo metodologico, dove però al posto del singolo individuo trionfatore ed eliminatore – in buona sostanza – degli altri individui nella lotta per la sopravvivenza nella libera e concorrenziale società di mercato, veniva esaltato una singolo gruppo di umani, la c.d. razza ariana, l’unica che aveva il diritto di dominare e persino eliminare gli altri ceppi umani presenti nel libero, perché per definizione anarchico, contesto geopolitico internazionale. Dominazione ed eliminazione, lo ricordiamo per ultimo, che il nazismo voleva compiere nel Vecchio continente e nelle adiacenti propagini asiatiche della Russia ma pratiche di dominio politico fino a giungere al consapevole vero e proprio genocidio che le potenze coloniali, specialmente il Belgio e la Germania guglielmina ma nessuna potenza europea in questa disgustosa vicenda può chiamarsi fuori,  avevano compiuto pochi decenni di anni prima in Africa. Su questo non si può non rinviare all’immortale Heart of Darkness di Joseph Conrad e a Hannah Arendt e sul suo The Origins of Totalitarianism). Seguendo infatti  uno schema darwiniano di stretta osservanza, e quindi operando meccanicamente attraverso una  selezione di nuovi ceppi umani che avrebbe dovuto agire su più generazioni,  sarebbe stato impossibile con la sola propaganda costruire l’uomo nuovo sovietico, mentre indubbiamente uno schema lamarckiano-lysenkiano  ingenuamente interpretato – in buona o cattive fede non importa – avrebbe potuto raggiungere questo risultato velocemente operando attraverso la propaganda e l’entusiasmo che fra le masse queste propaganda avrebbe dovuto suscitare – che poi questa entusiastica partecipazione fosse del tutto eterodiretta e quindi passiva e che quindi  l’attiva partecipazione dell’organismo uomo fosse di natura diametralmente opposta a quella dell’organismo giraffa che attivamente si sforza di allungare il collo, questo fu un dettaglio “secondario” che probabilmente mai sfiorò la mente dei burocrati sovietici, i quali, oltre ad essere giustamente preoccupati per le conseguenze personali cui si poteva andare incontro opponendosi al Diamat e alle relative strumentalizzazioni della ricerca scientifica, non potevano non riconoscere la validità operativa, al fine di costruire uno stato totalitario. di una strumentalizzazione di una dottrina scientifica che, in quella data situazione storica, ben si prestava a giustificare l’apparato propagandistico ed autoritario del costruendo stato sovietico (stricto sensu, gli studi di Lysenko riguardavano la vernalizzazione del grano, riguardavano cioè la possibilità che l’esposizione del grano alle avverse condizioni climatiche invernali ne facesse crescere la produzione e/o la resistenza a queste intemperie della stagione fredda e questo senza passare attraverso una previa selezione, come si sarebbe dovuto fare seguendo uno schema darwiniano, di linee di grano più resistenti al freddo. Ad oggi è difficile giudicare se si fosse trattato di una buona o cattiva idea. Quello che è certo è che la produzione granaria crollò verticalmente ma di mezzo ci fu la collettivizzazione delle campagne e quindi il lysenkismo è oggi ricordato solo come una dannosa pseudoscienza, stampella di un regime totalitario, corresponsabile della carestia che afflisse l’allora nascente regime sovietico e direttamente responsabile, negli anni che seguirono, dell’arretratezza della biologia e genetica sovietica. Ma dei fallimenti e problemi irrisolti della Sintesi evoluzionista moderna solo oggi si comincia a parlare…). Grosso modo questa è la ricostruzione storica che anche il Dialectical Biologist fa del “caso Lysenko” affermando che il lysenkismo non fu una sorta di pseudoscienza  che poteva solo sorgere in un sistema totalitario ma che, bensì, per farla breve, fu una legittima direzione della ricerca biologica e genetica che, per ragioni storiche contingenti, fu ridotta alla caricatura di sé stessa. Su questo, quindi, nemmeno noi abbiamo nulla da eccepire ma, però, il problema di una piena riabilitazione sussiste, perché per la difesa di una teoria scientifica non ci si può limitare a dire che era sorta con le migliori intenzioni, rovinate in seguito dai cattivi politici, se queste intenzioni, alla stretta del chiodo, saranno state magari sì buone ma anche sostanzialmente sbagliate. E su quest’ultimo problema il Dialectical Biologist non prende posizione, tentenna e tutto il suo discorso critico ruota attorno ad un meccanicismo veteromarxista e veteroengelsiano sostenendo che ogni teoria scientifica è, in ultima analisi, frutto della società dove questa nasce e quindi che il lysenkismo sarebbe stato il frutto di una società e/o del suo apparato politico totalitario  che voleva costruire il socialismo mentre la stretta osservanza darwiniana sarebbe il frutto di una società capitalista tutta tesa a santificare e a magnificare l’ineluttabilità del libero mercato e la ricerca del successo individuale, dove è chiara l’analogia di questo individualismo metodologico con lo schema darwiniano dove meccanicamente l’ambiente seleziona l’individuo migliore che poi, attraverso l’atto riproduttivo, consegnerà alle future generazioni queste sue caratteristiche che hanno avuto il successo di superare il vaglio posto dall’ambiente. Tutto questo incontra la nostra piena approvazione e anzi ne abbiamo appena discusso ma è ancora troppo generico, perché il problema che non affronta il Dialectical Biologist è analizzare, su un piano storico più generale, il significato gnoseologico-epistemologico che hanno la tradizione lamarckiana e la tradizione darwiniana; si tratta cioè del problema della dialettica e della natura che abbia questa dialettica e su questo punto il Dialectical Biologist, pur fornendo, come vedremo, spunti del più grande interesse, non osa pronunciarsi, anzi in più luoghi espressamente ammette di non sapere dare una definizione della dialettica pur sottolineando che, nonostante questo, la dialettica sia indispensabile per spiegare i fenomeni biologici (e su questo siamo pienamente d’accordo, come pure del tutto positivamente apprezziamo del Dialectical Biologist l’essere riuscito a fornire esempi concreti di dialettica operativa in campo biologico, specialmente quando vengono descritti gli ecosistemi e i vicendevoli  rapporti di feedback fra organismo e/o gruppi di organismi e il loro ambiente). Il punctum dolens e quindi quello della natura della dialettica e riandando   alla citazione che ha dato vita a questa nota possiamo tornare a leggere: «Nor, on the other hand, can the Lysenko movement be regarded, as it is by some ultraleft Maoists, as a triumph of the application of dialectical method to a scientific problem, an intellectual triumph that is being suppressed by the bourgeois West and by Soviet revisionism. None of these views corresponds to a valid theory of historical causation.» Il punctum dolens non è tanto se l’ultrasinistra maoista del tempo fosse o no nel torto a ritenere il lisenkismo il trionfo  della dialettica (in molti altri luoghi della presente comunicazione, verrà sottolineato il motto  latino amicus Plato, sed magis amica veritas, volendo con ciò significare che per un corretto procedere dialettico non si deve giudicare positivamente una teoria scientifica solo perché rifiuta una schema meccanicistico e deterministico e, quindi, unicamente  per questa sua intrinseca voluntas dialectica,  illusoriamente più nel vero di una corrispettiva teoria che su questo meccanicismo e determinismo si basa  – anche se ci sono, ovviamente  teorie scientifiche che si possono prestare più di altre, per una sorta di loro intima Weltanschauung dialettica, a  sviluppare efficaci ragionamenti dialettici, e questa comunicazione, come altre che l’hanno preceduta,  è pure basata su questo assunto), il punto è che bisogna individuare la vera Gestalt di questa dialettica e, nelle parole del Dialectical Biologist appena lette si parla di «una valida teoria per la causazione storica», con ciò – oltre a sottintendere una separazione fra causazione del mondo storico  e quello del mondo fisico-biologico, determinazione della illusorietà della separazione fra mondo storico-culturale e quello fisico-biologico che è il cardine del Repubblicanesimo Geopolitico ma che, in altri luoghi del Dialectical Biologist è pure, anche se maniera non esemplarmente cristallina, rifiutata – rivelando in pieno i debiti ancora pesanti che il Dialectical Biologist deve alla pseudodialettica engelsiana, la quale, in realtà, non è altro che un positivismo a malapena travestito e dove le tre leggi aristoteliche della logica (Il principio di identità, il principio di non-contraddizione e   il principio del terzo escluso) vengono sostituite goffamente dalle tre nuove ridicole leggi della dialettica   (la legge della conversione della quantità in qualità (e viceversa), la legge della compenetrazione degli opposti e la legge della negazione della negazione: per la definizione della Gestalt della dialettica del Repubblicanesimo Geopolitico, in particolare vedi infra nota n° 4 ma, nella sua totalità, tutta la presente comunicazione è volta alla sua costruzione), ridicole sì ma che hanno l’assai poco ridicolo e molto triste risultato di rendere la dialettica altrettanto meccanica nella sua natura ed azione alle deterministiche leggi sociali che il positivismo riteneva di dover e poter individuare, perché dal positivismo pensate in perfetta analogia a quelle dei sistemi fisici – o meglio di come  ai tempi del positivismo si pensava operassero i sistemi fisici – e agenti entro un rigido schema di causa ed effetto con conseguente sicura ed infallibile prevedibilità dei fenomeni. Per fortuna, come mostreremo, il Dialectical biologist saprà anche lasciarsi alle spalle il sogno di ogni «valid theory of historical causation», intrinsecamente legata al meccanicismo, per approdare ad uno schema storicistico molto vicino al paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico.

 

3 Questo processo di feedback evolutivo ha profonde analogie col processo interpretativo detto circolo ermeneutico. Purtroppo l’attuale ermeneutica, pur giustamente affermando l’esigenza di un infinito moto circolare del sapere dal soggetto studiante all’oggetto studiato con costante modifica in questo processo sia del soggetto che dell’oggetto, ha tralasciato nella sua teoria una approfondita riflessione sulla forma della  dialettica e ha limitato il suo campo di studio solo alla linguistica e agli studi filologici. (Gadamer parla del processo messo in atto dal circolo ermeneutico come una ‘fusione di orizzonti’ e dell’atteggiamento che deve assumere l’ermeneuta la cui  attività  deve essere improntata alla phrónesis  altrimenti detta ‘saggezza’ o ‘prudenza’, in ragione del fatto che l’ermeneuta deve essere consapevole che la sua attività interpretativa è sempre carica di pregiudizi, pregiudizi che se  è intellettualmente onesto non solo egli deve giudicare ineliminabili  ma anche pensare come  una parte positiva nel dare inizio al circolo ermeneutico stesso. Ora a parte il fatto che riconosciamo una notevole bellezza poetica all’immagine della fusione degli orizzonti e che ben volentieri possiamo concordare con Gadamer sulla necessità di procedere prudenti non solo nelle vicende interpretative ma, aggiungiamo noi, anche nelle vicende della vita di quotidiana – e anche, a maggior ragione, di quella pubblica e filosofica: «Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe. Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe; e sarete condotti davanti ai governatori e ai re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani.» (Matteo 10,16-18), come vediamo nell’appello alla prudenza Santa Madre Chiesa ha anticipato di molti anni l’ermeneutica –, liquidare il processo dialettico interpretativo con una  bella metafora ma  che però non ha più valore gnoseologico ed epistemologico di una suggestiva  immagine modello cartolina postale del sole che tramonta dietro l’orizzonte marino – magari tenendo teneramente per mano la propria amata mentre si assiste sulla battigia ed udendo il mantrico sciabordio delle onde che fa da colonna sonora al sublime spettacolo dell’astro morente; non ce ne vogliano gli ermeneuti di ogni ordine e grado, a noi personalmente la ‘fusione di orizzonti’ richiama alla mente quel quadro dell’artista russo appartenente alla Sots-art Erik Bulatov, Red Horizon,  che ci fa vedere un piccolo gruppo di uomini e donne  che  passeggiano in spiaggia, rappresentati di spalle    e stranamente vestiti, visto l’ambiente, con abiti formali  più consoni ad un contesto urbano mentre osservano un amplissimo e rettangolare arrossamento del cielo lungo la linea d’orizzonte del mare  attraversato da più strette linee rettangolari gialle. Red Horizon, quindi, rappresentazione surreale dell’osservazione da parte di queste persone di un tramonto dietro il mare e probabilmente queste persone formalmente vestite sono la metafora della  declinante nomenclatura sovietica: Red Horizon fu dipinto nel 1972 quando erano già evidenti gli inevitabili segnali d’involuzione che avrebbero portato al collasso della società sovietica poco meno di due decenni dopo. Ecco a noi la gademeriana ‘fusione d’orizzonti’ richiama la stessa Stimmung di Red Horizon… – e liquidare l’aristotelica phrónesis come semplice prudenza, mentre in Aristotele è l’unione di intelletto e desiderio al fine di elaborare una corretta linea d’azione – e questa unione di intelletto e desiderio, mutatis mutandis, con profonda analogia con l’azione dialettico-espressiva-strategica-conflittuale della filosofia della prassi del  Repubblicanesimo Geopolitico – non può che lasciare perplessi in merito all’ermeneutica gadameriana e  di tutti quegli studi ermeneutici che da Gadamer prendono lo spunto, e per essere perplessi non è nemmeno necessario fare propria una particolare visione dialettica ma essere animati da semplice buon senso filosofico.). Il Repubblicanesimo geopolitico genera invece la sua particolare ermeneutica non accettando la suddivisione fra mondo culturale dell’uomo e mondo fisico-biologico, suddivisione che è un presupposto più o meno esplicito di tutte le attuali correnti ermeneutiche, e assegna anche una natura specifica a questa  sua peculiare ermeneutica che, attraverso la sua azione dialettico-espressiva-strategica-conflittuale non genera solo un feedback a livello linguistico, ma  investe olisticamente, invece, tutta la totalità espressiva (che non viene solo interpretata alla luce di questo paradigma ma ne viene, soprattuttto,  anche autopoieticamente generata), cioè il mondo culturale dell’uomo e mondo fisico-biologico, non più tenuti astrattamente distinti ma finalmente riunificati a livello ontologico ed epistemologico nello schema autopoietico della  teoria  della filosofia della  prassi dell’azione dialettico-espressiva-strategica-conflittuale. Che questo riorientamento del circolo ermeneutico – riorientamento che, come si sarà capito, non riguarda solo la corrente filosofica detta ‘ermeneutica’ ma tutta la filosofia e la cultura occidentali moderne nate dal trionfo del meccanicismo cartesiano e galileiano –  sia una mossa decisiva per una rinascita non solo degli studi dialettici e degli studi sociali ma anche per un riorientamento olistico degli studi che riguardano le c.d. scienze dure (riorientamento olistico che – pur con tutte le avvertenze fin qui già espresse in merito al fatto che la dialettica del Repubblicanesimo Geopolitico non sposa alcuna teoria scientifica in particolare perché giudicata più dialettica di un’altra ma la osserva, la giudica e la utilizza essenzialmente  nell’ambito delle sua valenza dialettica riferita al più generale contesto olistico generato dall’ autopoiesi dell’azione dialettico-espressiva-strategica-conflittuale e valenza dialettica di una teoria scientifica, quindi, che non è mai una volta per sempre ma può e deve mutare a seconda del momento storico  in cui si colloca il giudizio, perché a mutamento della situazione storica corrisponde un mutamento sia a livello ontologico che epistemologico del vettore di direzione dell’azione dialettico-espressiva-strategica-conflittuale, ma vettore di direzione che, lo ripetiamo ad nauseam, proprio per la sua natura dialettico-espressiva-conflittuale-strategica che attraversa un sempre mutevole medium storico, e sempre mutevole proprio per responsabilità diretta della sua azione dialettico-espressiva-strategica-conflittuale, è assolutamente quindi  incompatibile con la Gestalt di  una legge generale meccanicistica modello fisica galileano-newtoniana con conseguente deterministica previsione della sua forza ed orientamento ma che può essere compreso, e spesso solo ex post, inserendolo nel contesto della particolare ed unica situazione storica entro la quale non solo si trova ad agire cercando di modificarla a suo vantaggio ma della quale, ad ulteriore aggravio delle possibilità di determinarne ex ante la direzione, è pure dinamicamente ed espressivamente parte – è  un portato già oggi  non più ignorabile dei modelli matematici non lineari e della meccanica quantistica, ma sull’importanza euristica per la dialettica del Repubblicanesimo Geopolitico di questi modelli e della fisica quantistica ci siamo  già più volte altrove espressi e ritorneremo anche nel corso di questa comunicazione) non può essere certo dimostrato, come del resto nessuna delle cose veramente importanti per l’uomo possono essere decise attraverso un procedimento induttivo: fondamentale a questo punto ritornare alla distinzione che Hegel faceva fra intelletto e ragione, fra Verstand  e Vernunft. Può, però, essere mostrato nei suoi effetti e nella sua concreta azione dialettico-espressiva-strategico-conflittuale e quindi, da questo punto di vista, giudicato. E questa comunicazione non è che un passo verso questa concreta strategia ermeneutica basata, appunto, sulla hegeliana ragione.

 

4 A parte il vecchio darwinismo storico-sociale che nelle società liberal-capitalistiche ha giustificato il colonialismo e all’interno delle singole nazioni un “libero”mercato dove l’economicamente più debole era “libero” di morire di fame e, sempre a livello interno e poi  fuori dai confini nella Germania nazionalsocialista,  l’eugenetica e lo sterminio degli ebrei  e di altre etnie e gruppi umani ritenuti inferiori – oltre a deturpare criminalmente il concetto Lebensraum privandolo qualsiasi valenza dialettica che pur possedeva in origine per fargli giustificare l’aggressione  contro i paesi dell’Europa orientale e l’Unione Sovietica esplicitamente giustificata per compiere lo sterminio di gran parte delle popolazioni slave per sostituirle con popolazioni germaniche – senza nemmeno l’orrida razionalità economica che presiedeva il succitato progettato insediamento all’Est di popolazioni tedesche (una razionalità economica, comunque, del tutto irrazionale, perché i territori dell’Est Europa senza slavi sarebbero stati del tutto ingestibili, e infatti già nel corso della guerra i progetti tedeschi di sterminio di queste popolazioni slave avevano subito un drastico ridimensionamento, mentre, purtroppo, non si fece altrettanto per gli ebrei e gli zingari), qui, in particolare, intendiamo riferirci, alle  più rozze conseguenze ideologiche e meccanicistiche della Modern Evolutionary Syntesis, cioè alla sociobiologia che, in pratica, altre non è il vecchio darwinismo storico-sociale ma non più mosca cocchiera delle società imperialiste e colonialiste liberalcapitaliste ottonovecentesche o della feroce società nazionalsocialista ma che ha svolto e svolge tuttora – nonostante la sua palese infondatezza scientifico-sperimentale – un ruolo ideologico di giustificazione pseudoscientifica delle attuali società nate nel Secondo dopoguerra ed impostate sul consumismo e sulla “libera” concorrenza darwinista fra membri della società per consumare la maggior quantità di questi beni (impostate, cioè, sulla del tutto illusoria ed ideologica nozione che questo modello, pur diversamente benefico a seconda delle capacità produttivo-economiche del singolo consumatore, sia una volta per sempre e non sia più possibile tornare indietro a modelli produttivo-distributivi che non garantiscano questo infinito aumento dei consumi, pur se diversamente distribuiti a seconda delle varie e variabili capacità individuali di procacciarseli agendo egoisticamente sul “libero” mercato delle merci e del lavoro contemporaneamente attraverso i “liberi” prestatori d’opera – talvolta i “liberi” imprenditori – e i “liberi” consumatori). Il Selfish Gene di Richard Dawkins è stato il saggio che, in ragione del suo indubbiamente accattivante modo di presentare le sue tesi e quindi del suo larghissimo successo anche presso il più vasto pubblico dei non addetti ai lavori, maggiormente ha contribuito in questi ultimi decenni a diffondere e a rendere popolari la meccanicistiche ed antidialettiche tesi della sociobiologia. Vale quindi la pena di guardare un po’ più a fondo questo suo seminale saggio dell’odierna (e popolare) filosofia meccanicistica moderna (e di riflesso, quindi, dell’odierno individualismo metodologico liberale divenuto popolare anche grazie a libri come il Selfish Gene): «The next important link in the argument, one that Darwin himself laid stress on (although he was talking about animals and plants, not molecules) is competition. The primeval soup was not capable of supporting an infinite number of replicator molecules. For one thing, the earth’s size is finite, but other limiting factors must also have been important. In our picture of the replicator acting as a template or mould, we supposed it to be bathed in a soup rich in the small building block molecules necessary to make copies. But when the replicators became numerous, building blocks must have been used up at such a rate that they became a scarce and precious resource. Different varieties or strains of replicator must have competed for them. We have considered the factors that would have increased the numbers of favoured kinds of replicator. We can now see that less-favoured varieties must actually have become less numerous because of competition, and ultimately many of their lines must have gone extinct. There was a struggle for existence among replicator varieties. They did not know they were struggling, or worry about it; the struggle was conducted without any hard feelings, indeed without feelings of any kind. But they were struggling, in the sense that any mis-copying that resulted in a new higher level of stability, or a new way of reducing the stability of rivals, was automatically preserved and multiplied. The process of improvement was cumulative. Ways of increasing stability and of decreasing rivals’ stability became more elaborate and more efficient. Some of them may even have ‘discovered’ how to break up molecules of rival varieties chemically, and to use the building blocks so released for making their own copies. These proto-carnivores simultaneously obtained food and removed competing rivals. Other replicators perhaps discovered how to protect themselves, either chemically, or by building a physical wall of protein around themselves. This may have been how the first living cells appeared. Replicators began not merely to exist, but to construct for themselves containers, vehicles for their continued existence. The replicators that survived were the ones that built survival machines for themselves to live in. The first survival machines probably consisted of nothing more than a protective coat. But making a living got steadily harder as new rivals arose with better and more effective survival machines. Survival machines got bigger and more elaborate, and the process was cumulative and progressive. Was there to be any end to the gradual improvement in the techniques and artifices used by the replicators to ensure their own continuation in the world? There would be plenty of time for improvement. What weird engines of self-preservation would the millennia bring forth? Four thousand million years on, what was to be the fate of the ancient replicators? They did not die out, for they are past masters of the survival arts. But do not look for them floating loose in the sea; they gave up that cavalier freedom long ago. Now they swarm in huge colonies, safe inside gigantic lumbering robots,* sealed off from the outside world, communicating with it by tortuous indirect routes, manipulating it by remote control. They are in you and in me; they created us, body and mind; and their preservation is the ultimate rationale for our existence. They have come a long way, those replicators. Now they go by the name of genes, and we are their survival machines.»: Richard Dawkins, The Selfish Gene, cit.,  pp. 18-20 Testo da noi scaricato all’URL  https://pdfs.semanticscholar.org/206e/a4e48d95acd10fb9c2bdc291811cd341c04a.pdf?_ga=2.110581445.1974409258.1572036165-369721173.1568987673; Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20191025204931/https://pdfs.semanticscholar.org/206e/a4e48d95acd10fb9c2bdc291811cd341c04a.pdf?_ga=2.110581445.1974409258.1572036165-369721173.1568987673Nostro successivo upload del file su  Internet Archive, generando gli URL https://archive.org/details/richarddawkinstheselfishgene30thanniversaryeditionwithanewintroductionbytheauthor/mode/2up e https://ia803102.us.archive.org/4/items/richarddawkinstheselfishgene30thanniversaryeditionwithanewintroductionbytheauthor/RICHARD%20DAWKINS%20THE%20SELFISH%20GENE%20%2030TH%20ANNIVERSARY%20EDITION%20WITH%20A%20NEW%20INTRODUCTION%20BY%20THE%20AUTHOR.pdf. Presso Internet Archive  è pure presente un’altra copia del Selfish Gene, URL https://archive.org/details/selfishgene00dawkrich, ma essendo il documento vincolato ad un regime di prestito online,  si è  preferito evitare a noi e ai nostri lettori questa procedura e rendere disponibile il documento senza restrizioni di sorta. In apparenza qui viene descritto un classico meccanismo di selezione darwiniano ma nelle ultime battute appare il telos del brano citato e di tutto il Selfish Gene. Non solo i geni egoistici sono i campioni, i numeri uno, i terribili e coriacissimi guerrieri  dell’ individualismo metodologico, i «replicators that survived were the ones that built survival machines for themselves to live in» ma, al di là di questa altissima esemplarità ideologica per tutti coloro che a questo individualismo si ispirano sono, ancor di più, gli autentici e materiali  animatori e ispiratori  di questa Weltanschauung, perché essi ora «swarm in huge colonies, safe inside gigantic lumbering robots,*  sealed off from the outside world, communicating with it by tortuous indirect routes, manipulating it by remote control.». Traducendo ma contemporaneamente spiegando anche qui il non esplicitamente detto: ora i geni egoistici prosperano e sciamano in gigantesche colonie e al sicuro e protetti dalle aggressioni dell’ambiente esterno perché ospitati all’interno del corpo di giganteschi e legnosi robot. Come questi geni, così sigillati entro i corpo di questi robot riescano a rapportarsi con l’ambiente più che un problema scientifico è, evidentemente, un mistero di natura teologica, come ben si evince dalla  fraseologia impiegata per descrivere questo inesplicabile rapportarsi («sealed off from the outside world, communicating with it by tortuous indirect routes, manipulating it by remote control») ma ancor più di questo crampo del pensiero, ci preme qui sottolineare un fatto fondamentale, e cioè che questi «lumbering robots» siamo noi, quasi che l’onere della denotazione della meccanicità nel processo della selezione naturale si fosse spostato dal gene, il quale anche se opera in maniera teologicamente misteriosa ha comunque una relazione dialettica con l’ambiente, all’uomo, il quale viene ridotto ad una sorta di robot da vignetta o da film fantascientifico di serie B, che si muove appunto come un automa e che, ridotto a dover servire gli algoritmi  forniti dal gene, non può che agire servilmente e meccanicamente (o meccanicisticamente se si preferisce). Subito dopo il passaggio dove i geni «swarm in huge colonies, safe inside gigantic lumbering robots» compare, come si è visto, un asterisco. Torneremo fra poco sul significato di questo asterisco ma per ora continuiamo  a focalizzarci sull’ardita immagine dell’uomo robot. In fondo, si potrebbe dire che questa è un’interpretazione azzardata del testo perché forse quello che l’autore del Selfish Gene ci voleva comunicare è che i geni si erano insediati dentro il corpo umano che ora li protegge come se fosse un legnoso ma anche duro e potente robot, e qualsiasi altra analogia fra il meccanico robot  e la nostra dimensione umana è frutto della nostra immaginazione e non è nelle intenzioni dell’autore. Ma vediamo come nel Selfish Gene non si rinuncia volentieri alla metafora: «The individual organism is something whose existence most biologists take for granted, probably because its parts do pull together in such a united and integrated way. Questions about life are conventionally questions about organisms. Biologists ask why organisms do this, why organisms do that. They frequently ask why organisms group themselves into societies. They don’t ask – though they should – why living matter groups itself into organisms in the first place. Why isn’t the sea still a primordial battleground of free and independent replicators? Why did the ancient replicators club together to make, and reside in, lumbering robots, and why are those robots – individual bodies, you and me – so large and so complicated?» (Richard Dawkins, The Selfish Gene, cit., p. 237), e i lumbering robots, siamo proprio noi, con tutte le caratteristiche e le legnose e meccanico-meccanicistiche peculiarità dei robot da fumetto; lumbering robots le cui caratteristiche meccanico-meccanicistiche  evidentemente non solo sono il tratto qualificante del genere umano  ma di tutti gli organismi  mono e pluricellulari (almeno questa condivisione col resto dei viventi viene concessa ad una povera umanità così bistrattata e mal compresa) e quindi tutti i viventi sono una sorta di macchina, ma una insensibilità meccanica, la quale, chissà perché non coinvolge il gene: forse perché  esso è l’incarnazione e il simbolo col suo egoismo dell’individualismo metodologico della società liberal-capitalistica, e quindi, in questo suo ruolo di nuova divinità non può agire come una sorta di impersonale Dio spinoziano ma deve possedere la capacità di agire teleologicamente, magari al solo scopo di creare i lumbering robots, come una sorta di nuovo Dio personale?: «This brings us to the second of my three questions. Why did cells gang together; why the lumbering robots? This is another question about cooperation. But the domain has shifted from the world of molecules to a larger scale. Many-celled bodies outgrow the microscope. They can even become elephants or whales. Being big is not necessarily a good thing: most organisms are bacteria and very few are elephants. But when the ways of making a living that are open to small organisms have all been tilled, there are still prosperous livings to be made by larger organisms. Large organisms can eat smaller ones, for instance, and can avoid being eaten by them.» (Richard Dawkins, The Selfish Gene, cit., p. 258.). Ma ora torniamo alla questione dell’asterisco, al quale, molto stranamente, alla pagina 19 dove compare il segno non segue a piè di pagina alcuna spiegazione. Ma la spiegazione appare nella sezione finale del libro intitolata “Endnotes” (che sotto questa definizione delle pagine che seguono reca la spiegazione: «The following notes refer to the original eleven chapters only. Although the text of these chapters is almost identical to the first edition, the page numbers are different as the type has been completely reset. Each note is referenced by an asterisk in the main text.»), la quale informandoci delle polemiche suscitate dal succitato passaggio già apparso nella prima edizione (noi stiamo citando dalla terza edizione), goffamente cerca di giustificare ed attenuare la polemica sui lumbering robots: «p. 19  Now they swarm in huge colonies, safe inside gigantic lumbering robotsThis purple passage (a rare – well, fairly rare – indulgence) has been quoted and requoted in gleeful evidence of my rabid ‘genetic determinism’. Part of the problem lies with the popular, but erroneous, associations of the word ‘robot’. We are in the golden age of electronics, and robots are no longer rigidly inflexible morons but are capable of learning, intelligence, and creativity. Ironically, even as long ago as 1920 when Karel Capek coined the word, ‘robots’ were mechanical beings that ended up with human feelings, like falling in love. People who think that robots are by definition more ‘deterministic’ than human beings are muddled (unless they are religious, in which case they might consistently hold that humans have some divine gift of free will denied to mere machines). If, like most of the critics of my ‘lumbering robot’ passage, you are not religious, then face up to the following question. What on earth do you think you are, if not a robot, albeit a very complicated one? I have discussed all this in The Extended Phenotype, pp. 15-17. The error has been compounded by yet another telling ‘mutation’. Just as it seemed theologically necessary that Jesus should have been born of a virgin, so it seems demonologically necessary that any ‘genetic determinist’ worth his salt must believe that genes ‘control’ every aspect of our behaviour. I wrote of the genetic replicators: ‘they created us, body and mind’ (p. 20). This has been duly misquoted (e.g. in Not in Our Genes by Rose, Kamin, and Lewontin (p. 287), and previously in a scholarly paper by Lewontin) as ‘[they] control us, body and mind’ (emphasis mine). In the context of my chapter, I think it is obvious what I meant by ‘created’, and it is very different from ‘control’. Anybody can see that, as a matter of fact, genes do not control their creations in the strong sense criticized as ‘determinism’. We effortlessly (well, fairly effortlessly) defy them every time we use contraception.»: Richard Dawkins, The Selfish Gene, cit., pp.  270-271). Ora a parte il fatto che proprio non si capisce la ragione per cui si debba tirare in ballo Gesù, la sua nascita da una vergine per dire che se questa nascita è teologicamente necessaria, deve essere ugualmente inevitabile che un genetista affermi che il gene controlli ogni aspetto del nostro comportamento (complimenti, un gran bell’argomento e non andiamo oltre), il ridicolo di tutto questo almanaccare appena esposto è l’affermazione che il robot in questione è un po’ meno roboticamente meccanico e stupido di quel che comunemente si crede perché 1) all’origine della  figura letteraria del robot, quello di Karel Čapek, il robot riesce a concepire anche sentimenti umani (fra l’altro, aggiungiamo noi, il robot di Čapek non è un dispositivo meccanico ma è stato costruito montando varie parti di corpi umani e quindi concepisce anche umani sentimenti, insomma siamo più in presenza di un essere modello il mostro del Frankenstein di Mary Shelley che alla creatura meccanica similumana dei film di fantascienza ma questo è un dettaglio che non sfiora Dawkins) e 2) gli attuali robot, quelli realmente esistenti, sono sì robot ma sempre più capaci di azioni autonome e creative proprio come gli uomini. Ma lasciando perdere nel commentare questa penosa palinodia di soffermarci ulteriormente sul tentativo di Dawkins di  buttarla in letteratura (nella quale l’autore del Selfish Gene dimostra, tra l’altro, di non essere nemmeno molto ferrato), concentriamoci un attimo sugli attuali robot e sull’intelligenza artificiale. Certamente è vero che gli attuali robot sono anche in grado di autoprogrammarsi e quindi, almeno apparentemente, di assumere verso l’ambiente un atteggiamento non meccanico-meccanicistico, è però altrettanto vero che la capacità di questi robot a rapportarsi dinamicamente con un ambiente mutevole riguarda sempre e solamente il particolare compito cui è stato assegnato il robot. Tanto per fare un esempio. È già da ora possibile che se a un robot viene fornito un algoritmo che inizialmente non gli permette di superare uno specifico compito, mettiamo vincere a scacchi, il robot sappia far evolvere questo particolare algoritmo per ottenere il risultato (ma le proprietà evolutive di questo algoritmo sono fornite ab initio dal programmatore e non sono farina del sacco del computer; oppure è possibile immaginare anche un algoritmo che pur non possedendo in sé alcuna possibilità evolutiva, venga fatto evolvere tramite il  computer, ma ciò può essere reso possibile fornendo, sempre per iniziativa del programmatore umano, un   secondo algoritmo che permetta alla macchina di intervenire sul primo  e quindi siamo punto a capo)  ma finora non è stato ancora costruito un robot che se perde a scacchi, invece di elaborare una nuova strategia, si arrabbi –  o se riteniamo quest’ultimo stato emotivo troppo legato ad un concetto eccessivamente  intimo e lirico dell’agire – rovesci il tavolo (a meno che, ovviamente, non venga dotato dal suo programmatore di  un algoritmo che gli dica di comportarsi in questo modo in caso di sconfitta, bisogna però, come da tradizione dei film di serie B, farlo diventare un vero e proprio robot umanoide, con un bel paio di braccine e piedini meccanici, piccoli ed esili in questo caso visto che l’azione fisica da eseguire non è gravosa…). In altre parole, un robot può agire solamente nell’ambito della teleologia che gli è stata assegnata dal programmatore: nel metterla in pratica può essere sovente molto più abile dell’uomo ma nell’elaborazione di una autonoma e non eterodiretta teleologia alternativa questo “cervello elettronico” rimane totalmente muto ed inetto (detto ancor meglio: non si pone nemmeno il problema di darsi uno scopo diverso da quello fornitogli dal programmatore). Facciamo un altro esempio. Un robot, come del resto un uomo, può combattere e perdere una battaglia campale (meglio, però, se questa battaglia è virtuale, finora i computer hanno solo fornito potenza di calcolo alle battaglie reali dove scorre sangue reale).  Ma mentre tutto quello che può fare un robot riguardo a questa battaglia è cercare di vincerla o perderla ed anche di elaborare nuove strategie per ottenere il positivo risultato (impiegare, cioè, algoritmi genetici e/o evolutivi che simulando, tramite la veloce computazione della macchina, una evoluzione darwiniana dei parametri costituenti l’algoritmo, questi vengono progressivamente sostituiti da altri più adeguati ad ottenere il risultato desiderato, ma, lo ripetiamo, l’algoritmo genetico o evolutivo che dir si voglia capace di evolversi   tramite la potenza computazionale della  della macchina deve essere originariamente  fornito dal programmatore), l’uomo dopo aver vinto o perso la battaglia è costretto ad andare avanti e a non riposarsi. La vittoria gli apre diversi scenari umani, politici, culturali ed economici verso i quali la macchina robot-computer non solo è assolutamente incapace ad elaborare una adeguata strategia ma, ancor peggio, è del tutto non interessata a prenderli in considerazione ignorandone l’esistenza (a meno che, lo ripetiamo ad nauseam, non venga programmata per affrontare anche queste nuove situazioni: in questa incapacità, lo ammettiamo,  molto simile a molti uomini la cui cecità meccanica-meccanicistica ad affrontare scenari diversi da quelli imposti dall’abitudine quotidiana, dalla tradizione culturale e/o dall’autorità politica non è molto diversa a quella fin qui dimostrata dai computer nell’autoassegnarsi compiti non previsti dal programmatore: epifania strategica un obiettivo-mito modello spiritus durissima coquit per la presente e futura intelligenza artificiale ma anche per molti presenti – e futuri – rappresentanti di quel singolare animale chiamato homo sapiens,  che nelle sue soventi reazioni meno creative e più stereotipate – in questi casi non assolutamente all’altezza del nome assegnatogli dagli zoologi – potrebbe benissimo essere definito homo mechanicus, con tante nostre scuse, per via di questi  numerosi casi, a Cartesio e al suo tanto beffeggiato animal machine, e ancor più associando alle nostre doverose  scuse Julien Offray de La Mettrie e il suo altrettanto dileggiato homme machine). Parimenti la sconfitta, a meno che non abbia avuto come esito la sua uccisione o la sua autoeliminazione per la vergogna (suicidio), apre  altri e del tutto inediti scenari. Per esempio, il guerriero sconfitto può abbandonare le armi e darsi, tramite opere filosofiche, letterarie e poetiche a più o meno profonde riflessioni  sulla vanità delle cose umane (ci può anche essere uno scenario alternativo dal punto di vista letterario ed esistenziale: se la sconfitta non è stata troppo pesante e il nostro guerriero è riuscito  a salvare, oltre alla pelle, anche un po’  di soldi e di salute, può pure abbandonare le pose guerriere  e melanconiche da filosofo ipocondriaco dedito a coltivare la contemptio vitae da novello esegeta dell’Ecclesiaste e, anziché declamare il lamentoso vanitas vanitatum et omnia vanitas, dedicarsi alla produzione di letteratura erotica ed alla sua concreta applicazione nella vita di ogni giorno ma questo è un altro discorso – no, anzi lo stesso… –; tutto questo per mostrare – non dimostrare! – l’amplissima gamma del paradigma comportamentale olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale che può generarsi dal vario rapportarsi dell’uomo con l’ambiente fisico-culturale, e come sia difficile – anzi impossibile – tagliare col coltello i vari aspetti della suddetto). L’uomo cioè, a differenza degli attuali computer e anche di quelli prossimi venturi, computer quantistici compresi, che dai computer realizzati non tenendo conto della fisica quantistica si differenziano per la mostruosa capacità computazionale ma sono assolutamente identici ai computer classici per quanto riguarda una autonoma attività creativa (su cui, fra l’altro, ritorneremo nel prosieguo della presente comunicazione) ha sempre storicamente mostrato di potersi comportare dialetticamente e con estrema libertà creativa rispetto alle sfide ambientali e le ultime acquisizioni  della Sintesi evoluzionistica estesa, dell’ epigenetica e della  teoria endosimbiotica  suggeriscono che anche nell’evoluzione degli organismi e delle loro relative popolazioni le cose siano andate analogamente a come l’uomo si comporta davanti alla sfide storiche, culturali e  naturali  che gli si parano di fronte. Così come nell’uomo, anche nel resto del mondo vivente l’unico schema che agisce è il paradigma dell’azione dialettico-espressiva-strategica-conflittuale (e anche del non vivente aggiungiamo: come già affermato nella presente comunicazione), dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico la legge fisica di natura non è altro che la provvisoria ed illusoria cristallizzazione di una vicenda storico-naturale dove il vero ed unico agente è il paradigma ontogenetico e creatore ex nihilo dell’azione dialettico-espressiva-conflittuale strategica) che, come abbiamo già qui affermato, si muove in una sempre cangiante e totalizzante dimensione storica e che quindi, oltre che per la sua natura espressiva che lo pone all’antitesi di qualsiasi schema meccanico, fosse solo per questa dimensione storica originante una linea di azione assolutamente imprevedibile e assolutamente non meccanica (dimensione storica in sé antimeccanica perché impossibile distinguervi causa ed effetto per il semplice fatto che 1) l’effetto, cioè uno stato originato da un certo stato  precedente, la causa,  modifica a sua volta la causa stessa – schema di azione e reazione che apparentemente potrebbe  essere risolto col termine di feedback se non fosse che, e ciò è evidente in biologia ma accade anche nella meccanica quantistica dove spesso, l’effetto previene la causa ancor prima che questa si manifesti, vedi esperimento della doppia fenditura dove le particelle, in seguito alla loro emissione, si dispongono impattando su uno schermo con uno schema ondulatorio se non osservate ma se, osservate successivamente alla loro emissione, lo schema di impatto sullo schermo è corpuscolare e caotico, con tanti saluti al meccanico paradigma temporale del post hoc ergo propter hoc ed introducendoci nell’ambito di una teleologica dialettizzante causalità (in particolare, sull’inversione dello schema causa → effetto vedi infra nota n° 16); ma ancor più importante che 2) la c.d. causa storica, è in realtà veramente una causa sui generis perché è di tutta evidenza che la sua individuazione e definizione è frutto della del tutto umana ipostatizzazione legata al post hoc ergo propter hoc, perché, in realtà, il suo manifestarsi  all’umana sensibilità dipende  della totalità storica e come la cultura dell’uomo e/o dello storico si pone – sovente errando – rispetto a questa totalità , totalità storica dove, al di là dello schema dialettico espressivo-strategico-conflittuale da noi proposto, risulta particolarmente inane lo schema di causalità legato al  post hoc ergo propter hoc. Sul fatto poi che tutte le cause, anche quelle delle scienze fisico-biologiche, rispondano ad una legalità dialettica e non meccanica, abbiamo appena già detto ma vedi anche infra nota n° 15). E detto ciò potremmo per il momento riporre il gene egoista. Se non fosse che non possiamo mancare di dare un’occhiata, anche se solo di sfuggita, al Teorema di incompletezza di Gödel (formulato da Kurt Friedrich Gödel nel 1931), il quale teorema afferma che non esiste alcun sistema formale in cui tutte le proposizioni di questo sistema possano essere dimostrate all’interno del sistema stesso. Con questo teorema veniva così rasa al suolo la speranza del matematico David Hilbert «che nel 1928, in un congresso internazionale di matematica a Bologna, aveva lanciato una sfida alla comunità dei matematici: escogitare una macchina logica che potesse dimostrare tutte le verità matematiche e, nello stesso tempo, dimostrare che il ragionamento matematico è affidabile. L’autocoerenza del sistema è fondamentale: se il sistema è incoerente, allora è possibile dimostrare sia la verità sia la falsità della stessa proposizione.» (Brunella Schettino, Avete mai sentito parlare di Kurt Gödel? (Genio sull’orlo di un abisso), Corso SICA 2006/2007, p. 11, URL presso il quale è stata presa visione del documento  http://people.na.infn.it/~murano/Abilitanti/Brunella%20Schettino%20-%20Godel.pdf, Wayback Machine:  https://web.archive.org/web/20191103082203/http://people.na.infn.it/~murano/Abilitanti/Brunella%20Schettino%20-%20Godel.pdf). Infine, nel 1935 Alan Turing sulla scorta del Teorema di Gödel confermerà l’impossibilità di costruire una macchina computazionale che possa decidere sulla verità o falsità di tutti i problemi matematici, per il semplice fatto che vi sono problemi matematici non risolvibili entro un numero finito di passaggi, cioè entro un algoritmo, e dato che le macchine computazionali, cioè quelle macchine che oggi chiamiamo computer, operano solo su algoritmi, questi problemi sono assolutamente impermeabili alla pur grandissima (ma non  infinita) potenza di calcolo del computer. Sulla scorta dei risultati di Gödel e del padre dei moderni computer Alan Touring, ci si potrebbe allora  limitare a dire che la mente umana è superiore al computer perché a differenza di questo possiede  una capacità intuitiva del tutto estranea al computer che procede solo attraverso  finiti algoritmi. Vero ma troppo poco. A meno che non si voglia far ricadere tutto i nostri ragionamenti in schemi vitalistici alla Bergson, dove l’uomo possederebbe, parafrasando l’ élan vital che rese celebre la dottrina del filosofo francese, una sorta di élan intellectuel irraggiungibile da tutti gli altri viventi e tantomeno dalle macchine computazionali o in schemi spiritualistico-evoluzionistici alla Teilhard de Chardin, dove l’uomo con le sue uniche capacità formatesi nel corso dell’evoluzione è il passaggio ineludibile per giungere al momento ultimo e più alto dell’evoluzione del Cosmo, per giungere cioè a quello che Teilhard chiama Punto Omega, che però, sempre per Teilhard non è un’astratta situazione  del nostro Universo, magari dove prevale lo spirito, ma si realizza attraverso la concreta figura di Cristo che richiama entro sé tutto il Cosmo (insomma Punto Omega che si risolve nella fine del Mondo, non proprio l’Epifania strategica del Repubblicanesimo Geopolitico…), né tantomeno degradare lo schema dialettico del Repubblicanesimo Geopolitico in una sorta di rozzo e risibile pragmatismo dove, in buona sostanza,  si afferma che – sulla scorta di un semplificato paradigma strategico-conflittuale, e quindi lasciando perdere il versante dialettico-espressivo del paradigma del Repubblicanesimo Geopolitico – l’uomo, pur più debole dal punto di vista computazionale alla macchina, è comunque a questa superiore perché l’uomo, nel caso intuisca una minaccia proveniente dalla macchina, può d’emblée e senza tanti ragionamenti o soppesando vari e complessi algoritmi spegnerla con successo mentre il contrario non è possibile (bella scoperta!, ma le scoperte del pragmatismo, tutte basate sulla divinizzazione del concetto di successo, ignorando il rapporto dialettico fra soggetto e oggetto sono tutte di questo tenore), bisogna allora  semanticamente ‘despiritualizzare’ (ed anche ‘dematerializzare’, ovviamente) il termine  ‘intuito’ ed inserirlo in un solido e realistico quadro di riferimento ontologico-epistemologico. E seguendo questa traccia possiamo così rimettere con i piedi per terra l’area filosofico-semantica del termine   ‘intuito’ affermando che con esso  non  si deve definire  altro che  l’estrinsecazione dialettico-espressiva-strategica-conflittuale dell’aspetto mentale  (sebbene molto spesso ingenuamente appesantita attraverso errate Weltanschauung materialistiche e spiritualistiche  di  valenze psicologico-psicologistiche e/o spiritualistico-spirituali o animistiche tout court: materialismo e spiritualismo: due facce della stessa medaglia antidialettica) di tutte le infinite espressioni della totalità nel loro rispecchiamento dialettico, ontogenetico, attivo e creativo, con tutte le altre manifestazioni di questa totalità e con la totalità espressiva stessa (non stiamo parlando delle passive monadi leibniziane né del rispecchiamento di leniniana memoria, entrambi caratterizzati da profonda ed antidialettica passività nel rapporto fra soggetto ed oggetto; meno il rispecchiamento leniniano di Materialismo ed empiriocriticismo per la verità, il cui telos era colpire l’ancor più antidialettico machismo ma purtroppo lo fece sulla scorta degli engelsiani  Dialettica della natura ed Anti-Dühring), un attivo rispecchiamento creatore ex nihilo, ontogenetico, ontologico ed  epistemologico che si svolge attraverso il paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale di cui abbiamo già detto ma di cui   anche l’etimo di intuire, il latino intuère, che significa guardare dentro, guardare con attenzione, ci aiuta nella  presente sottolineatura della valenza attiva del suo significato  a ripristinare o a formulare ex novo le potenzialità filosofiche e dialetticamente attive del temine stesso, come nel caso della nostra discussione sulle  macchine computazionali di intuito  appunto totalmente sfornite. Non è affatto detto che in futuro un dispositivo costruito dall’uomo non  possa attivamente incorporare dentro di sé la dialettica storicità che connota  tutti i viventi. Al momento né è solo il risultato passivo, alla stessa stregua di un martello o di un orologio, oggetti  sì immersi e frutto  della storicità ma che sono in grado di dare contributi all’olistica storicità solo attraverso una parte di questa storicità che, invece, riesce a sua volta ad incarnarla ed esprimerla dialetticamente ed attivamente, cioè l’uomo. E a questo punto siamo anche in grado di accettare intuitivamente anche il gene “egoista” di Dawkins, perché intuiamo che il termine ‘egoismo’ – misto di rappresentazione ideologica ma anche realtà nell’umana esperienza di tutti i giorni – rientra senza difficoltà in un paradigma dialettico-storico espressivo-strategico-conflittuale e accomiatandoci definitivamente dal Selfish Gene di Dawkins esponiamo l’unico ed esclusivo principio logico della  dialettica espressivo-strategica-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolico: dove il primo principio della logica aristotelica, il principio di identità, afferma che A=A il principio di non identità ontogenetico  e creatore ex nihiloma sarebbe ancora meglio dire ex suo – del Repubblicanesimo Geopolitico afferma che A A≠A A≠A ≠ A≠A A≠A ≠ A≠A≠ A≠A ≠ A≠A↔… ∞↔∞≠∞. Un tipico caso di problema irrisolvibile per un computer, ma forse di non impossibile comprensione per quegli esseri egoistici – anzi molto egoistici ma anche molto dialettici ed intuitivi solo che ci si impegni un po’ – che siamo noi.  

 

[Le successive 12 note e la sezione bibliografica verrano pubblicate nelle prossime quattro tranche del presente saggio.]

 

il giorno dopo il responso_con Gianfranco Campa

La certificazione della vittoria di Biden al Congresso e soprattutto l’epilogo della manifestazione di Washington segna con buona probabilità il tramonto di Donald Trump. Vedremo quanto a questo tramonto seguirà la vendetta. Non sarà di sicuro la fine del suo movimento, anche se incerta rimane la direzione che intraprenderà_Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vcjhqa-il-giorno-dopo-il-responso-con-gianfranco-campa.html

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la trappola…e il tramonto di un Presidente, di Giuseppe Germinario

Ieri, 6 gennaio, era il giorno annunciato; il punto di svolta di cinque anni di scontro politico negli Stati Uniti. Questo punto di svolta non è stato l’assemblea riunita del Congresso Americano che doveva certificare e che oggi 7 gennaio ha certificato l’elezione del nuovo presidente. È stata invece la manifestazione e la sua conduzione; soprattutto l’obbiettivo politico strategico che ha, meglio avrebbe dovuto informare e guidare quella iniziativa così impegnativa.

Due punti fermi:

  • il vicepresidente Pence aveva la facoltà di rinviare la certificazione del voto negli stati contestati a quegli stati stessi; entro due mesi questi ultimi avrebbero dovuto decidere entro due mesi se confermare o meno il responso

  • gli indizi che l’elezione di Biden sia il frutto di un broglio elettorale in quantità industriale sono pesantissimi. In Italia, ovviamente, non disponiamo delle prove come spesso e volentieri ci viene rimproverato strumentalmente; quelle sono in possesso dei manipolatori e del collegio di avvocati che ha contestato quelle modalità di svolgimento. Del resto Trump era stato avvertito con dovizia di particolari sin da giugno scorso di quello che si stava tramando

La manifestazione a Washington avrebbe dovuto essere uno straordinario momento di pressione e delegittimazione di una classe dirigente e di un ceto decadente e fatiscente al quale è legato con un cordone ombelicale una classe dirigente europea altrettanto fatiscente. Si è rivelata una trappola tanto tragica quanto scontata, almeno per chi ha esperienza di queste cose.

È molto probabile che, con l’assenza di un dissuasivo apparato di sicurezza appena sufficiente, si sia incentivata ed istigata la parte più radicale e irrazionale di quel movimento e di quella manifestazione; è certo però che quel movimento soffre di una carenza di guida e di strategia, di obbiettivi politici di fondo chiari che apre varchi enormi a quelle componenti irrazionali e sterilmente radicali che in più occasioni, sin dagli albori, avevano rivelato il loro cieco anarchismo. Non è un caso che il gruppo che aveva concepito e portato al successo la prima candidatura di Trump, valutando tra l’altro questo, si era immediatamente sciolto al momento dell’insediamento di “the Donald”. È quindi in quel movimento e in quella manifestazione, in chi la ha condotta che risiede la responsabilità politica di questo epilogo, compreso l’incredibile invito esplicito del Presidente ai manifestanti di raggiungere la sede del Congresso.

Questo epilogo rappresenta molto probabilmente la fine della carriera politica di Donald Trump; molto probabilmente rappresenterà la fine civile tragica del personaggio, se non a prezzo, ma non è detto che sia sufficiente, di un umiliante ritorno a Canossa, molto più degradante di quello subito ed accettato da Berlusconi. Osservando il personaggio, un epilogo quest’ultimo improbabile.

L’epilogo cruciale della manifestazione è avvenuto nel momento di una sconfitta tattica pesante, la conferma dell’elezione di Biden, ma di una situazione strategica abbastanza favorevole al movimento di Trump. Le elezioni avevano rivelato il radicamento del movimento in territori pregiudizialmente ostici sino a pochi anni fa; in comunità etniche, comprese la nera, sino ad ora appannaggio e riserva elettorale e di consenso esclusiva dei democratici; in ceti sociali sino a qualche anno fa inaccessibili al richiamo del partito repubblicano. Per raggiungere questo risultato Trump è stato capace di rivoluzionare quel partito senza però aver avuto la capacità ed il tempo di sostituire sufficientemente ed adeguatamente il suo gruppo dirigente.

Il punto di forza di questo movimento è stato ed è ancora il suo patriottismo e il nazionalismo. Due virtù che prevedevano una riconsiderazione della politica internazionale, una avversione al globalismo o quantomeno alle sue modalità di esercizio e il tentativo di ricostruire una formazione sociale più coesa ed economicamente più equilibrata.

Due virtù che però hanno guardato al passato remoto degli Stati Uniti, alla sua costituzione originaria varata da George Washington nel ‘700.

Non è, storicamente, una novità. Spesso i movimenti rivoluzionari e di trasformazione si sono attaccati al passato sotto una veste apparentemente reazionaria e conservatrice che comprendeva in essa contenuti programmatici adeguati alle esigenze di rinnovamento e alle trasformazioni in corso.

Questo movimento e i suoi gruppi dirigenti così approssimativi hanno una particolare difficoltà a coniugare questi aspetti.

La situazione degli Stati Uniti è particolarmente precaria e difficile: i competitori nello scacchiere geopolitico si stanno moltiplicando e stanno mettendo in discussione dall’interno il circuito costruito in questi ultimi quarant’anni. Un circuito, associato all’ideologia neocon e politicamente corretta strette in un paradossale sodalizio, che ha accelerato i processi interni a quel paese di polarizzazione geografica, di frammentazione ed isolamento etnici agli antipodi dell’ideale originario di “melting pot”, di degrado di intere aree geografiche e metropolitane, di scomposizione e degrado di ceti medi tipici di una fase regressiva.

Una situazione che avrebbe dovuto ancor di più spingere le menti di quel movimento a pazientare, a tessere con maggior convinzione una trama che accentuasse ulteriormente l’erosione della base sociale democratica e neocon, che tentasse un dialogo almeno larvato con le espressioni politiche dissenzienti di quella area ormai sempre più riottosa, a dispetto dell’opportunismo e del trasformismo dei suoi capi, a cominciare da Sanders e Cortez, ad accettare le logiche di appartenenza ad un partito contrapposto artificialmente all’altro.

Sull’onda dell’euforia del momento Trump e chi per lui ha scelto una strada diversa, a cominciare dalla polemica sulla natura socialista di quelle forze avverse, quando in realtà si trattava di una natura egualitaria, per altro per alcuni settori specifici della società (studenti, emarginati) che tuttalpiù sfociava facilmente in forme di assistenzialismo. Per non parlare della connotazione religiosa e messianica offerta per altri aspetti dello scontro politico. Una strada comprensibile, per le caratteristiche intrinseche del proprio movimento e per i limiti ancor più gravi dei suoi leader, ma non giustificabile, specie in una fase nella quale stanno emergendo tutte le contraddizioni che stanno mettendo a rischio la coesione e l’esistenza dello stesso partito democratico americano.

A questo si è aggiunta una ingenuità inspiegabile per un leader che ha conosciuto quattro anni di scontro politico della virulenza vissuta da Donald Trump; quello di aver fondato le aspettative di rivalsa prevalentemente su una azione legale, per quanto fondata giuridicamente, quando in realtà si tratta di uno scontro politico talmente esistenziale da coinvolgere apparati di potere ben più pervasivi, potenti ed operativi nel loro intreccio di legami.

Tutti limiti che rischiano di trasformare un movimento fondato su principi di unità nazionale e di patriottismo ostentato in un movimento in fase di ripiego disposto ad accettare e promuovere ipotesi di secessione dagli esiti tragici per se stesso e per il paese nella sua unitarietà.

Viene in particolare alla luce il limite di fondo di rappresentazione della realtà che sta guidando un movimento per altro ancora così eterogeneo e frammentato. Una rappresentazione che raffigura il conflitto insanabile tra un basso, la base popolare e produttiva ed un alto, raffigurato in un establishment arroccato, chiuso ed autoreferenziale. Quell’establishment sta scivolando sicuramente lungo questo declivio; ma è appunto un processo tutt’altro che compiuto o in fase di esaurimento. Dispone ancora del controllo pressoché totale dei centri di comando degli apparati coercitivi ed amministrativi, anche se meno nella loro base esecutiva; e una disarticolazione, un indebolimento e una sostituzione di quei centri è una parte fondamentale dell’azione politica, specie quella più “riservata”. Dispone per altro ancora di una discreta capacità di aggregazione di una parte significativa della base sociale e soprattutto del controllo maggioritario dei settori tecnologici più avanzati e delle prospettive di futuro che, nel bene e nel male, questi possono offrire.

Sta di fatto che gli Stati Uniti sono una nazione politicamente divisa in due e socialmente polarizzata sia verticalmente che orizzontalmente; una frammentazione sociale che rischia di portare ad una frammentazione politica.

Il successo di un movimento politico così alternativo non può prescindere da una azione di erosione in quei tre ambiti sucitati e dal superamento di una fase e concezione spontaneistica che induce a sottovalutare l’importanza della formazione di gruppo dirigente politico, di una élite adeguati.

Il successo più o meno pianificato della trappola dell’assalto al Campidoglio richiederà molto probabilmente il sacrificio, probabilmente tragico, di un leader; porrà certamente il movimento e i nuovi leader che la fucina del conflitto sta facendo emergere di fronte ad un bivio non più eludibile. Dalla strada che sapranno o saranno indotti a prendere dipenderà la natura e la modalità di svolgimento di un conflitto particolarmente virulento e destabilizzante, tutt’altro però che sopito e messo a tacere. Ne vedremo sicuramente delle belle, anche tragicamente belle, non solo lì, ma anche nelle implicazioni più contorte, anche qui, nel nostro paese così provincialotto e perennemente in attesa delle decisioni altrui.

Elezioni americane, una settimana di fuoco _ con Gianfranco Campa

la settimana tra il 4 e il 10 gennaio è cruciale per lo scontro politico in corso negli Stati Uniti. Deciderà dell’insediamento alla Casa Bianca, certamente non porrà fine ad una contesa che tutto lascia pensare, soprattutto le mosse di Trump, assumerà toni sempre più aspri e definitivi. I colpi bassi non mancano- Ci troviamo di fronte ad una elite decadente quanto arrogante che fatica a nascondere il lato oscuro dell’azione politica

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Lorenzo Castellani, L’ingranaggio del potere, _ a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Lorenzo Castellani, L’ingranaggio del potere, Liberilibri Macerata, pp. 240, € 17,00.

L’amministrazione, scriveva Weber, è quel “potere quotidiano” il quale, anche se quasi sempre non provvede con atti normativi primari, condiziona di più l’esistenza individuale (e collettiva). Ciò non è per lo più compreso dall’opinione pubblica – e dai soggetti che la guidano o almeno la condizionano come i media – i quali focalizzano l’attenzione sugli atti degli altri poteri (intesi à la Montesquieu): sul decreto-legge, sul D.P.C.M. (atto governativo) o sul mandato di cattura per il Sindaco o il Ministro.

Ne consegue che non è percepito come l’assetto del potere amministrativo – teoricamente servente di quelli governativo e, mediatamente, legislativo – condiziona la forma politica cioè l’assetto costituzionale. Questo libro parte da una considerazione diversa: che “Il principio di competenza ha eroso gli spazi e le responsabilità recati dal principio democratico; la tecnica e la politica si sono progressivamente sovrapposte; le comunità sono state spodestate da istituzioni lontane e burocratiche”; e prosegue “Come scrisse Carl Schmitt in Dialogo sul potere «anche il principe più assoluto deve fare affidamento su resoconti e informazioni ed è dipendente dai suoi consiglieri […] Davanti a ogni camera del potere diretto si forma un’anticamera di influssi e poteri indiretti, un accesso all’orecchio del potente, un corridoio verso la sua anima. Non c’è potere umano che non abbia questa anticamera e questo corridoio». Un’anticamera che, nel regime demo-burocratico moderno, la tecno-democrazia, è popolata da tecnici che talvolta eseguono meramente e talaltra desiderano oppure esercitano direttamente il potere”.

La tecnocrazia sia nella sua “branca” pubblica (la P.A.) sia in quella privata (che accede o influenza le funzioni pubbliche) fonda il proprio ruolo e potere sul “sapere specializzato” ossia sulla competenza “tecnica”; così la democrazia, fondandosi anche sulla competenza specialistica degli “esecutori-consiglieri” si trasforma in una tecno-democrazia, la quale da un lato si basa sulla legittimità del principio democratico, dall’altro sul possesso del sapere, cioè su un’aristocrazia non di spada, ma di penna. “La tesi di questo libro è, dunque, semplice: nelle società avanzate il principio aristocratico ha, nell’organizzazione del potere politico della società, un peso superiore rispetto a quanto comunemente si è portati a credere o ad ammettere… Questo principio aristocratico-gerarchico convive con il principio democratico-rappresentativo di cui, negli ultimi decenni, ha progressivamente eroso significativi spazi. Di conseguenza i poteri non elettivi, a carattere tecnico, oggi condizionano la vita dei cittadini e le scelte politiche allo stesso modo, se non fosse ancor di più, di quelli elettivi e rappresentativi”. Pertanto “lo sviluppo di questo potere parallelo, tuttavia, può essere compreso solo tenendo insieme i due demoni della vita politica moderna: lo Stato e il capitalismo”. Così “lo Stato-Leviatano e il capitalismo-Behemoth si corrompono a vicenda, ed in questo legame di reciproco clientelismo mirano a edificare uno stabile apparato di potere, un sistema di élites, che proprio per mantenere la sua stabilità tende a limitare la libertà di individui e comunità” e “l’osmosi tra burocrazia pubblica e grande capitalismo produce tecnocrazia, che non a caso sul piano storico si è sviluppata pienamente con l’avvento della società industriale, ma affonda le sue radici nello Stato moderno”.

Il saggio prosegue poi analizzando i vari aspetti del problema del nichilismo politico, la mentalità tecnocratica, la razionalità, spirito della politica e della burocrazia, le prospettive future. Tutti aspetti considerati con attenzione dall’autore ma non esaminati perché esulano dalla dimensione di una recensione. Ma su due punti è il caso di intervenire. Il primo è che tra le leggi (la regolarità della politica) c’è quella della classe politica (dell’aiutantato come scriveva Miglio), per cui non c’è governo senza “classe” politica. Talvolta non professionale, in altre si. Spesso riservata per nascita (in un ceto privilegiato); in altri casi dalla considerazione sociale (come per le democrazie classiche) e dall’elezione; in altri, come in molte “società idrauliche” favorita dalle mutilazioni sessuali (gli eunuchi in Cina, e nel tardo impero romano). Ma accanto a quella c’è il rapporto tra vertice e base, tra capo/i e governati, anch’esso necessario. Il problema, uno dei principali che si presentano all’uomo politico è come tener in equilibrio questi due “circuiti”. Perché a squilibrarli il rischio è che si mandi in rovina l’istituzione politica (e, spesso, la stessa comunità): come avvenne nel tardo impero romano d’occidente, la cui caduta fu co-determinata, o grandemente favorita dallo squilibrio a favore della “classe” burocratica. Dall’altro che la democrazia moderna è uno status mixtus: Schmitt la considerava tale sia per la compresenza di organi risalenti a principi politici diversi: democratico (per la nomina/elezione dei componenti dei maggiori organi di direzione politica); aristocratico (per il carattere del parlamento); monarchico (per il ruolo del capo dello Stato). E inoltre per l’equilibrio tra principi di forma politica e principi dello Stato borghese. Nell’analisi di Castellani si aggiunge la compresenza di elementi democratici e tecnocratici: un’altra antitesi da sussumere nella concezione dello Status mixtus, e da addizionare alle altre. Spesso identificata come opposizione tra politica ed economia (ma non è solo questo), specie in momenti d’emergenza come l’attuale. Resta comunque il fatto che negli stati di crisi il problema si presenta nella risposta al quis judicabit: cioè chi decide come superare la crisi?

E chi ha la forza di rispondere efficacemente è il (reale) sovrano. Che diventi poi legittimo è, come scrivevano Hauriou e Santi Romano, solo la durata a poterlo dire.

Teodoro Klitsche de la Grange

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