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L’economia statunitense si trova a un bivio cruciale nel 2025. Dopo anni di volatilità caratterizzati da una pandemia globale, tensioni geopolitiche e una storica guerra commerciale, gli economisti sono nettamente divisi nelle loro previsioni. Molti prevedevano una recessione o addirittura un periodo di stagflazione, mentre l’economia reale ha mostrato una sorprendente resilienza. Mentre gli Stati Uniti si orientano verso l’aumento delle esportazioni, la riduzione delle importazioni e la riorganizzazione della propria base industriale, il divario tra le previsioni degli esperti e i dati attuali è diventato un elemento centrale del dibattito economico.
Previsioni negative: stagflazione, recessione e incertezza
Nel corso del 2024 e del 2025, i principali economisti hanno espresso preoccupazione per diversi rischi chiave:
Allarme stagflazione: Torsten Sløk, capo economista di Apollo Global Management, ha lanciato l’allarme: gli Stati Uniti potrebbero trovarsi ad affrontare una situazione di stagflazione, una combinazione di crescita lenta e inflazione persistente. Ha attribuito gran parte di questo rischio ai dazi dell’amministrazione Trump, che ha descritto come “shock stagflazionistici” che rallentano la crescita e spingono i prezzi al rialzo. Sløk ha previsto che la crescita del PIL potrebbe scendere ad appena l’1,2% nel 2025, con un’inflazione intorno al 3% e una disoccupazione in aumento dal 4,2% a un potenziale 5% o superiore entro il 2026.
Rischio di recessione: la probabilità di una recessione è stata stimata da alcuni analisti al 25%, soprattutto perché il PIL si è contratto dello 0,3% nel primo trimestre del 2025, il primo calo dal 2022.
Incertezza politica: l’economista capo di JPMorgan, Michael Feroli, ha descritto le prospettive come “più nebulose del normale”, con l’economia che si trova ad affrontare un potenziale boom dovuto ai tagli fiscali e alla deregolamentazione, o una crisi stagflazionistica se prevarranno l’incertezza politica e le restrizioni commerciali.
Sentimento pubblico: nonostante la precedente crescita, solo il 23% degli americani aveva una visione positiva dell’economia alla fine del 2024, riflettendo un diffuso scetticismo sulle prospettive future.
La situazione attuale: contraddire i pessimisti
Nonostante questi avvertimenti, l’economia statunitense ha sfidato le previsioni più negative in diversi modi:
Le esportazioni accelerano, le importazioni diminuiscono: sulla scia delle nuove politiche commerciali e dei dazi, le esportazioni statunitensi sono aumentate mentre le importazioni sono diminuite. Questo cambiamento è in parte dovuto a misure politiche mirate volte a ridurre il deficit commerciale e a incoraggiare la produzione interna.
Contrazione del PIL, ma non crollo: sebbene il PIL si sia contratto nel primo trimestre del 2025, il calo è stato modesto , pari allo 0,3%. Molti analisti si aspettavano una flessione molto più marcata. La contrazione è ampiamente considerata una correzione dopo un periodo di crescita superiore al trend, piuttosto che l’inizio di una recessione prolungata .
L’inflazione si stabilizza: contrariamente ai timori di un’inflazione galoppante, gli aumenti dei prezzi sono rimasti relativamente stabili. La maggior parte delle previsioni prevede ora che l’inflazione si attesti intorno al 3% alla fine del 2025, un livello superiore a quello pre-pandemico, ma non ai livelli di crisi.
Il mercato del lavoro regge: la disoccupazione è leggermente aumentata, ma resta storicamente bassa, con previsioni che suggeriscono un aumento al 4,4% nel 2025 e forse al 5% nel 2026, comunque ben al di sotto dei picchi delle precedenti recessioni.
Investimenti e produttività delle imprese: la riduzione delle tariffe doganali e i nuovi accordi commerciali hanno stimolato gli investimenti delle imprese, soprattutto ora che l’inflazione è in calo e la Federal Reserve adotta una posizione più accomodante, tagliando gradualmente i tassi nel corso del 2025 e del 2026 1 .
Cambiamenti politici: reindustrializzazione e crescita trainata dalle esportazioni
L’agenda economica dell’attuale amministrazione è chiara: allontanare gli Stati Uniti da un modello dipendente dalle importazioni e orientarli verso un’economia basata sulle esportazioni e sulla produzione manifatturiera. I pilastri principali includono:
Rilancio della produzione statunitense: un rinnovato focus sulla produzione nazionale è fondamentale. Le politiche includono incentivi per il reshoring delle catene di approvvigionamento, investimenti in settori chiave e sostegno all’innovazione tecnologica.
Riorganizzazione della politica commerciale: rinegoziando gli accordi commerciali e imponendo tariffe mirate, l’amministrazione mira a ridurre la dipendenza dalle importazioni, soprattutto da parte dei rivali strategici, e ad aprire nuovi mercati per i prodotti americani.
L’immigrazione come leva economica: gli sforzi dell’amministrazione per contenere e riformare l’immigrazione mirano a rafforzare il mercato del lavoro e la crescita salariale. Nel tempo, un sistema di immigrazione più controllato potrebbe anche apportare benefici ai paesi limitrofi, incoraggiando investimenti e sviluppo nelle loro economie, riducendo potenzialmente la pressione migratoria.
Le prospettive: scenari e implicazioni strategiche
Le prospettive economiche per gli Stati Uniti nel 2025 e oltre sono caratterizzate da una netta divergenza tra potenziali scenari di espansione e di contrazione:
Scenario
Autisti
Rischi/Sfide
Probabilità
Boom della produttività
Tagli alle tasse, deregolamentazione, guadagni di produttività guidati dall’intelligenza artificiale
Esecuzione delle politiche, domanda globale, clima degli investimenti
Moderare
Stagflazione
Restrizioni commerciali, tariffe persistenti, deriva politica
Inflazione, crescita lenta, aumento della disoccupazione
Moderare
Crescita moderata
Politica equilibrata, tagli graduali dei tassi, inflazione stabile
Shock esterni, instabilità politica
Più probabilmente
Scenario di boom: se i tagli fiscali e la deregolamentazione avranno successo e se gli investimenti delle imprese continueranno ad aumentare, alimentati dall’intelligenza artificiale e dai progressi tecnologici, gli Stati Uniti potrebbero assistere a una nuova ondata di crescita della produttività e di espansione del PIL.
Rischio di stagflazione: se le tensioni commerciali dovessero intensificarsi e l’incertezza politica persistesse, il rischio di stagflazione persisterebbe. Ciò significherebbe crescita lenta, inflazione stagnante e aumento della disoccupazione, uno scenario che metterebbe alla prova sia le imprese che i decisori politici.
Crescita di base/moderata: la maggior parte delle previsioni più diffuse, comprese quelle di RSM e Deloitte, prevede una crescita degli Stati Uniti del 2-2,5% nel 2025, con un’inflazione che si stabilizzerà intorno al 2,5-3% e una disoccupazione in aumento solo modesto. Questo scenario presuppone un equilibrio tra sostegno politico e rischi esterni.
Cambiamenti strutturali e prospettive a lungo termine
Sono in atto diversi cambiamenti strutturali che potrebbero rimodellare l’economia statunitense negli anni a venire:
Fine dei tassi ultra-bassi: l’era dei tassi di interesse prossimi allo zero è finita. Si prevede che la Fed taglierà i tassi lentamente, ma la nuova normalità sarà rappresentata da costi di finanziamento più elevati, che potrebbero sostenere i risparmiatori e ridurre le bolle speculative.
Risultati della politica industriale: gli Stati Uniti stanno investendo massicciamente in settori cruciali: semiconduttori, energia verde (anche se la situazione potrebbe cambiare con una nuova leadership) e manifattura avanzata. Ciò potrebbe rendere l’economia più resiliente agli shock globali.
Afflussi di capitali esteri: gli Stati Uniti continuano a esercitare un’attrazione per i capitali globali, contribuendo a finanziare gli investimenti e a sostenere il ruolo del dollaro come valuta di riserva mondiale.
Evoluzione del mercato del lavoro: la riforma dell’immigrazione e le tendenze demografiche influenzeranno la forza lavoro. Controlli più severi sull’immigrazione potrebbero aumentare i salari nel breve termine, ma potrebbero anche creare carenze di manodopera in settori chiave se non gestiti con attenzione.
Conclusione: resilienza nell’incertezza
L’economia statunitense nel 2025 presenta un paradosso. Mentre molti economisti mettevano in guardia contro la stagnazione e la recessione, la realtà è stata più sfumata. Le esportazioni sono in aumento, le importazioni in calo, l’inflazione è stabile e il mercato del lavoro rimane solido. L’attenzione dell’amministrazione sulla reindustrializzazione e sulla crescita trainata dalle esportazioni segna un cambiamento significativo rispetto al passato, e il contenimento dell’immigrazione mira a rafforzare queste tendenze.
Tuttavia, permangono rischi significativi. Errori politici, rinnovate tensioni commerciali o shock globali potrebbero ancora ostacolare la ripresa. Il prossimo anno sarà un banco di prova per verificare se gli Stati Uniti riusciranno a transitare con successo verso un modello economico più equilibrato e resiliente, che sfrutti i propri punti di forza in termini di innovazione, capitale e produzione, gestendo al contempo le sfide di un mondo in rapida evoluzione.
L’esito finale dipenderà dall’interazione tra le scelte politiche, le condizioni globali e la capacità di adattamento delle imprese e dei lavoratori americani. Per ora, l’economia sta reggendo meglio di quanto molti temessero, il che offre un cauto ottimismo per il futuro.
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Devo scusarmi ancora una volta per aver ripreso a parlare di politica statunitense anziché di affari cinesi (forse dovrei rinominare questa newsletter), ma credo che l’ultimo articolo del professor Diao valga la pena di essere condiviso.
In questo articolo, classifica le politiche di Trump in programmi radicali “realistici” e “irrealistici”. La sua analisi rivela il metodo dietro quella che molti percepiscono come follia, in particolare le tattiche negoziali di Trump che sfruttano pressioni estreme come leva per ottenere guadagni più modesti, e il suo sistematico sfruttamento di lacune legali e debolezze istituzionali.
Ciò che rende questa analisi particolarmente preziosa è la finestra che offre sul pensiero strategico cinese. Comprendendo come gli ambienti accademici e politici cinesi percepiscono lo stile negoziale e i modelli decisionali di Trump, otteniamo informazioni cruciali sull’evoluzione della strategia di risposta di Pechino, dalla reazione al “Giorno della Liberazione” ai recenti negoziati pragmatici sui materiali delle terre rare. Questa prospettiva aiuta a spiegare le motivazioni alla base dei cambiamenti tattici della Cina nei rapporti con l’amministrazione Trump.
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Il 30 aprile 2025, il presidente Donald J. Trump ha completato i primi cento giorni del suo secondo mandato. Durante questo periodo, Trump ha lanciato una raffica di iniziative politiche radicali, sia sul fronte interno che internazionale, che hanno lasciato gli osservatori sconcertati, scioccati e a volte increduli. Solo nel giorno del suo insediamento, Trump ha firmato ben 26 ordini esecutivi, un numero record, non solo ribaltando numerose politiche chiave dell’amministrazione Biden, ma anche istituendo il cosiddetto “Dipartimento per l’Efficienza del Governo” (DOGE), progettato per tagliare le dimensioni, la spesa e i programmi del governo federale. Di fronte alla sua sconcertante serie di mosse di politica interna ed estera, gli osservatori sollevano naturalmente domande fondamentali: in che modo i programmi radicali di Trump differiscono da quelli del suo primo mandato? Quali caratteristiche distintive presentano? Come è riuscito Trump a promuovere politiche così estreme? Quale impatto potrebbero avere queste azioni e cosa ci aspetta in futuro? Basandosi su un’analisi preliminare dei programmi radicali di Trump, sia in ambito interno che estero, durante il suo secondo mandato, questo articolo cerca di rispondere a queste urgenti domande.
I. I programmi radicali di Trump e le loro caratteristiche distintive
Le attuali iniziative radicali di Trump in politica interna ed estera non solo si discostano radicalmente dagli approcci convenzionali dei precedenti presidenti americani, ma superano persino gli sforzi compiuti nel suo primo mandato. Per “agenda radicale” intendiamo iniziative politiche che si discostano radicalmente dal pensiero convenzionale e dalle prassi standard. La loro natura radicale si manifesta principalmente in due dimensioni: i mezzi impiegati e gli obiettivi perseguiti.
Queste due dimensioni danno origine a due distinte categorie di programmi radicali. La prima categoria persegue obiettivi razionali e raggiungibili – obiettivi già raggiunti e dimostratisi tali – ma impiega mezzi convenzionali spinti fino ai limiti assoluti o misure decisamente estreme. La seconda propone obiettivi senza precedenti, non dimostrati e potenzialmente irraggiungibili, con metodi di attuazione che rimangono deliberatamente vaghi, senza tuttavia escludere misure estreme. In altre parole, la prima rappresenta “programmi radicali pragmatici” che impiegano mezzi non convenzionali ed estremi per raggiungere obiettivi convenzionali e realistici, come il ritiro dalle organizzazioni internazionali, l’imposizione di tariffe mirate su specifici partner commerciali o prodotti e la sospensione degli aiuti esteri. Quest’ultima costituisce “agende radicali utopiche” che impiegano tutti i mezzi disponibili, compresi quelli estremi, per perseguire obiettivi irrealistici e irrazionali mai raggiunti prima, come l’eliminazione della cittadinanza per diritto di nascita, l’obbligo per i dipendenti federali di dimettersi senza una legge, la sospensione dell’USAID senza l’approvazione del Congresso, lo smantellamento del Dipartimento dell’Istruzione tramite decreto esecutivo, l’annessione del Canada, la richiesta a Panama di “restituire” i diritti di gestione del canale, l’acquisto della Groenlandia, l’occupazione di Gaza e l’attuazione di “tariffe reciproche” complete.
Visto da questa prospettiva, il primo mandato di Trump ha portato avanti principalmente programmi radicali e pragmatici, accompagnati da occasionali iniziative utopiche. Al contrario, mentre il suo secondo mandato presenta ancora misure radicali e pragmatiche come dazi e ritiri dai trattati, ha introdotto un numero molto maggiore di programmi radicali e utopici. Questo cambiamento spiega perché il secondo mandato di Trump appaia agli osservatori nettamente più imprevedibile e potenzialmente rivoluzionario. Ciononostante, nonostante l’evidente aumento di elementi irrealistici o irrazionali, i programmi radicali di Trump, sia in patria che all’estero, compresi quelli utopici, condividono diverse caratteristiche distintive.
(1) Sfruttare ambiguità giuridiche e lacune istituzionali. I programmi radicali di Trump sfruttano sistematicamente lacune e ambiguità nei quadri giuridici e nelle strutture istituzionali, evitando accuratamente il confronto diretto con disposizioni esplicite del diritto americano o internazionale per eludere sanzioni immediate, creando così una parvenza di “legittimità” temporanea. A livello nazionale, il suo attacco alla cittadinanza per diritto di nascita pretende di offrire una “interpretazione correttiva” del XIV Emendamento, con la pretesa di difendere il “vero” significato della cittadinanza americana. In materia di applicazione delle leggi sull’immigrazione, Trump ha ampliato l’autorità esecutiva posizionandosi come un “presidente di crisi” che difende la “sicurezza nazionale” da presunte “invasioni straniere”, autorizzando persino il supporto militare alle operazioni di immigrazione. Quando prende di mira agenzie federali, personale e programmi che ricadono sotto la giurisdizione del Congresso, Trump ha escogitato soluzioni alternative creative. Ad esempio, ha nominato il Segretario di Stato Marco Rubio come Amministratore facente funzioni di USAID, ottenendo di fatto la fusione di USAID con l’Ufficio di Stato – una riorganizzazione che normalmente richiederebbe l’approvazione del Congresso. Allo stesso modo, Trump ha fatto in modo che il Segretario al Tesoro Scott Bessent e il Direttore dell’OMB Russell Vought assumessero successivamente la carica di direttori ad interim del Consumer Financial Protection Bureau, un altro obiettivo da eliminare. Nel frattempo, Trump e il suo DOGE portano avanti il loro programma attraverso azioni esecutive: impartendo ultimatum “a un bivio” ai dipendenti federali, offrendo riscatti entro tempi specifici, e prendendo di mira specificamente quasi 200.000 nuovi assunti ancora in periodo di prova per il licenziamento – tattiche progettate per ridurre al minimo i ricorsi legali e le sanzioni.
A livello internazionale, sebbene Trump abbia annunciato o minacciato il ritiro da diverse organizzazioni internazionali, gli Stati Uniti continuano a seguire le procedure e le tempistiche di ritiro prescritte. Per quanto riguarda le rivendicazioni territoriali, i diritti giurisdizionali o il controllo delle risorse su altre nazioni, le proposte di Trump – sebbene sembrino violare la sovranità e l’integrità territoriale – enfatizzano metodi “pacifici” che richiedono il “consenso” delle nazioni interessate, come “l’acquisto” o il “trasferimento”, pur mantenendo una studiata ambiguità sul potenziale uso della forza. Le dichiarazioni deliberatamente vaghe e contraddittorie di Trump sulle opzioni militari si muovono ai margini del diritto internazionale, aiutandolo a evitare di diventare un paria nella comunità internazionale.
(2) Garantire il sostegno di base neutralizzando l’opposizione chiave. Il principio fondamentale alla base dei programmi radicali di Trump è quello di mantenere il sostegno – o almeno di evitare l’opposizione – dei suoi elettori interni critici. Le sue restrizioni sulla cittadinanza per diritto di nascita e sull’immigrazione riflettono le preferenze estetiche del movimento MAGA all’interno del Partito Repubblicano, soddisfacendo al contempo le richieste conservatrici di lunga data. I tagli alle agenzie federali, al personale e ai programmi non solo sono in linea con l’ideologia conservatrice del “governo limitato”, ma potrebbero persino piacere ad alcuni Democratici, attingendo al contempo alla profonda sfiducia degli americani nei confronti della burocrazia federale. A livello internazionale, la riduzione degli impegni globali soddisfa l’agenda consolidata del MAGA; i dazi mirati rispondono direttamente alle industrie nazionali interessate e agli elettori operai; l’espansione dell’influenza geografica americana soddisfa le aspirazioni politiche conservatrici e alcuni interessi industriali alla ricerca di nuovi mercati.
L’opposizione a questi programmi radicali proviene principalmente dalle fila dei Democratici e dai dipendenti pubblici direttamente interessati. I primi si oppongono di riflesso a causa della polarizzazione partitica; i secondi, nonostante le loro rimostranze, non hanno il capitale politico e la forza organizzativa per organizzare una resistenza efficace. La mobilitazione della società civile – come dimostrano le proteste nazionali del 5 aprile contro Trump ed Elon Musk – non ha necessariamente eroso il sostegno fondamentale a Trump. I sondaggi di metà aprile 2025, a quasi tre mesi dall’inizio del suo mandato, mostrano che Trump mantiene il 44% di consensi contro il 53% di disapprovazione, leggermente migliore rispetto ai dati del suo primo mandato (41% e 53%). Altri sondaggi indicano che la percentuale di americani che crede che il Paese stia andando nella giusta direzione è salita dal 33% al 42%, mentre il sentimento di sfiducia è sceso dal 67% al 58%. Questi numeri suggeriscono che i programmi radicali di Trump non hanno ancora generato una reazione politica incontrollabile.
L’iniziativa dei “dazi reciproci” – un programma radicale e utopico – merita una menzione speciale per aver innescato la volatilità del mercato e aver modificato l’opinione pubblica interna. Un sondaggio condotto dal 3 al 7 aprile 2025, subito dopo l’annuncio, ha rilevato che il 72% degli intervistati riteneva che avrebbe danneggiato l’economia a breve termine, contro il 22% che si aspettava benefici, mentre il 53% prevedeva danni a lungo termine e il 41% che si aspettava guadagni. Tra i repubblicani, il rapporto benefici/danni a breve termine era del 46%/44%, mentre quello a lungo termine dell’87%/10%. Un altro sondaggio condotto dal 4 al 6 aprile ha rilevato un 39% di sostegno contro il 57% di opposizione complessiva, ma un 73% di sostegno contro il 24% di opposizione tra i repubblicani. Sebbene questi numeri confermino la costante lealtà repubblicana, stanno emergendo segnali d’allarme. In concomitanza con le turbolenze del mercato e le pressioni dei donatori, Trump ha rapidamente annunciato delle modifiche – rinvii di 90 giorni per la maggior parte dei paesi ed esenzioni per l’elettronica – nel tentativo di rafforzare il sostegno e minimizzare l’opposizione.
(3) Agende nascoste dietro le dichiarazioni pubbliche. Le agende radicali di Trump spesso perseguono obiettivi ben diversi da quelli pubblicamente proclamati, esibendo spesso caratteristiche gradualiste o transazionali. Come consiglia l’antica saggezza, “giudica dai fatti, non dalle parole” (听其言,观其行) – gli obiettivi politici dichiarati pubblicamente da Trump potrebbero mascherare le sue vere intenzioni. Il suo stile negoziale favorisce “il partire da posizioni oltraggiose prima di passare alla contrattazione e al compromesso”. Per usare le parole di Trump: “Punto molto in alto, e poi continuo a spingere, spingere e spingere per ottenere ciò che voglio. A volte mi accontento di meno di quanto desiderassi, ma nella maggior parte dei casi finisco comunque con ciò che voglio… Bisogna comunque pensare, quindi perché non pensare in grande?… Un po’ di iperbole non guasta mai”. Spesso, quando lancia iniziative radicali, Trump potrebbe non aver valutato appieno gli obiettivi finali, procedendo invece in modo sperimentale: “Non mi affeziono mai troppo a un accordo o a un approccio… Tengo molte palle in aria, perché la maggior parte degli accordi fallisce, non importa quanto promettenti possano sembrare all’inizio”.
Le politiche di Trump probabilmente perseguono due scopi principali. In primo luogo, alcuni programmi radicali, una volta attuati, producono effetti cumulativi irreversibili. Trump cerca di massimizzarne la durata e la portata, ritardando al contempo i meccanismi correttivi, consentendo una trasformazione graduale attraverso cambiamenti incrementali accumulati. In secondo luogo, per i programmi radicali utopici, Trump probabilmente ne riconosce la natura irrealistica, ma li impiega strategicamente, creando una pressione senza precedenti per costringere gli avversari ad accettare esiti “di secondo piano” per evitare scenari “peggiori”, garantendo così obiettivi transazionali con investimenti americani minimi e il massimo rendimento. Che siano graduali o transazionali, questi rappresentano “frutti a portata di mano” che la disruption di Trump rende disponibili per la raccolta a costi minimi.
(4) Prendere di mira i punti critici interni mobilitando le forze esterne. I programmi radicali interni di Trump prendono strategicamente di mira i punti critici controversi per generare “effetti agghiaccianti” a cascata. La cittadinanza per nascita, ad esempio, è da tempo un elemento fondamentale nei dibattiti sull’immigrazione. Rappresenta sia la trasformazione demografica che i sostenitori del MAGA deplorano, sia una questione su cui le posizioni di parte sono saldamente radicate, garantendo a Trump un solido sostegno di base. Analogamente, prendere di mira l’USAID persegue molteplici scopi simbolici: incarna gli eccessivi impegni esteri a cui il MAGA si oppone; soffre di una persistente percezione negativa da parte dell’opinione pubblica (i sondaggi mostrano che il 60% degli americani ritiene che il governo spenda troppo poco a livello nazionale e troppo in aiuti esteri, sovrastimando grossolanamente gli importi effettivi); e non ha forti elettori interni, il che lo rende vulnerabile ad attacchi di parte senza significative reazioni negative.
La creazione di DOGE rappresenta il colpo da maestro di Trump nel mobilitare forze esterne contro la resistenza interna. Reclutando innovatori del settore tecnologico per sfidare l’ortodossia governativa, Trump inquadra il suo attacco alla burocrazia federale come modernizzazione attraverso l’efficienza aziendale, i big data e l’intelligenza artificiale. In sostanza, DOGE e iniziative simili rappresentano la contro-istituzione di Trump, che crea un proprio “stato profondo” per combattere quello tradizionale.
(5) Impegno bilaterale con collegamento multi-tema. In linea con il suo primo mandato, i programmi esteri radicali di Trump, pur coinvolgendo molteplici Paesi e questioni, creano arene bilaterali per transazioni complesse e multi-tematiche. Questo approccio garantisce che l’America negozi sempre da una posizione di forza schiacciante, collegando al contempo questioni disparate, sia internazionali che nazionali, per massimizzare la leva finanziaria. Trump intreccia problemi autentici e di lunga data con crisi artificialmente create per creare fitte reti di negoziati interconnessi.
Si consideri il Messico: sebbene i dazi sembrino essere lo strumento principale, in realtà servono da leva per negoziati globali che includono commercio, immigrazione, droga e l’accordo USMCA. Con l’Europa, l’ambito transazionale di Trump abbraccia la crisi ucraina, le risorse ucraine, le relazioni commerciali, l’acquisizione della Groenlandia e i futuri obblighi di difesa dell’Europa. L’iniziativa dei “dazi reciproci” funge di per sé da preposizionamento per i negoziati futuri, creando pressione e merce di scambio.
II. I fattori interni e internazionali dei programmi radicali di Trump
Le iniziative radicali di Trump derivano da complessi fattori interni e internazionali. Oggettivamente, la configurazione del potere interno e la posizione internazionale degli Stati Uniti forniscono sia fondamento che spazio operativo, consentendo persino l’erosione dei tradizionali sistemi di pesi e contrappesi. Soggettivamente, le caratteristiche del secondo mandato di Trump amplificano le sue tendenze preesistenti, spingendolo verso posizioni sempre più estreme.
(1) L’incessante espansione del potere presidenziale. Il potere presidenziale americano ha conosciuto un’espansione pressoché continua sin dalla sua fondazione. I padri fondatori della Costituzione, temendo la tirannia monarchica, enumerarono meticolosamente i poteri del Congresso nell’Articolo I, mentre nell’Articolo II concedevano al presidente solo un “potere esecutivo” generale. L’evoluzione storica ha invertito questo equilibrio: il Congresso rimane limitato da poteri enumerati sempre più obsoleti, mentre i presidenti ridefiniscono continuamente l’autorità esecutiva. Questa architettura costituzionale favorisce naturalmente l’esaltazione presidenziale, mentre lo sviluppo nazionale e il ruolo globale dell’America creano urgenti richieste di una leadership centralizzata e reattiva, dando origine alla “presidenza imperiale”.
Le crisi accelerano in modo particolare questa dinamica: Lincoln durante la Guerra Civile, Roosevelt che affronta la Depressione e la Seconda Guerra Mondiale, Nixon durante il Vietnam, Reagan durante le tensioni della Guerra Fredda. Dopo l’11 settembre, la “teoria dell’esecutivo unitario” ha ulteriormente rafforzato sia Bush che Obama. Ogni presidente mette alla prova i limiti del potere; in assenza di una resistenza del Congresso o dell’opinione pubblica, le prerogative imperiali vengono normalizzate. Anche di fronte a vincoli istituzionali, i presidenti invocano la necessità dell’esecutivo per giustificare interpretazioni espansive di ordini esecutivi, poteri di emergenza, condoni e privilegi. Sebbene i tribunali possano eventualmente intervenire, la natura retrospettiva del controllo giurisdizionale consente alle politiche di creare fatti irreversibili sul campo. La natura caso per caso della correzione giudiziaria consente ai presidenti di avviare molteplici iniziative più rapidamente di quanto i tribunali possano rispondere.
In politica estera, il predominio presidenziale è ancora più pronunciato. Sebbene la Costituzione conferisca specifici poteri in politica estera, il primato presidenziale si è evoluto attraverso la pratica e le circostanze, piuttosto che attraverso un mandato costituzionale. Nonostante i vincoli post-Vietnam e la crescente assertività del Congresso, i presidenti continuano a dominare l’attuazione della politica estera, nonostante l’attuale competizione tra grandi potenze. L’autorità tariffaria esemplifica questa evoluzione: sebbene la Costituzione assegni al Congresso il potere impositivo, la legislazione del XX secolo – il Reciprocal Trade Agreements Act del 1934, il Trade Expansion Act del 1962, il Trade Act del 1974 e l’International Emergency Economic Powers Act del 1977 – ha progressivamente trasferito l’autorità commerciale per migliorare l’efficienza e la flessibilità negoziale. Le misure volte a snellire i negoziati commerciali hanno invece creato squilibri fondamentali, garantendo ai presidenti un controllo quasi monopolistico sulle principali politiche economiche.
(2) Il continuo “dominio” relativo dell’America sulla scena internazionale. Proprio come il presidente americano è “dominante” nel potere interno ed estero, anche l’America, sotto la guida presidenziale, rimane in uno stato di “dominio” relativo sulla scena internazionale. Nell’attuale struttura del potere internazionale, se la comunità internazionale sia in grado di fornire le necessarie limitazioni e correzioni efficaci a un’America che persegue programmi estremisti è una sfida e un banco di prova. Sebbene l’ordine mondiale continui a subire enormi cambiamenti e la forza nazionale e lo status internazionale dell’America siano relativamente diminuiti rispetto ad altri paesi, essa conserva ancora i vantaggi differenziali e comparativi relativi di uno stato unipolare. La questione potrebbe essere meno se l’America possa guidare, piuttosto se scelga di farlo.
Trump ha risposto con decisione, accelerando lo smantellamento della leadership americana e massimizzando la pressione su tutte le nazioni, compresi gli alleati. Le risposte internazionali si scontrano con limiti intrinseci: le nazioni occidentali con profondi legami economici faticano a sostenere una resistenza globale; le grandi potenze, dando priorità al proprio sviluppo e alla stabilità strategica, evitano risposte escalation; le nazioni più piccole, incapaci di coordinare un’azione collettiva, non riescono a organizzare un’opposizione unitaria. Questo contesto di risposta vincolata incoraggia i continui test di confine di Trump.
(3) La particolarità di Trump nel suo secondo mandato. Oltre ai fattori strutturali, Trump stesso mostra caratteristiche distintive del suo secondo mandato che massimizzano il suo sfruttamento dei poteri presidenziali estesi e del primato americano. In primo luogo, Trump ha ottenuto un controllo senza precedenti sul Partito Repubblicano, trasformandolo ideologicamente e dal punto di vista del personale in un veicolo “trumpizzato” incapace di una resistenza significativa. In secondo luogo, le preoccupazioni legate al passato ora dominano la psicologia di Trump, spingendolo verso risultati “storici” a prescindere dalla loro fattibilità. In terzo luogo, i limiti di mandato eliminano i vincoli elettorali, rimuovendo le inibizioni contro l’espansione del potere. Il disprezzo costituzionale e il disprezzo per la tradizione di Trump facilitano ulteriormente le deviazioni radicali. In quarto luogo, il team di politica estera di Trump si è trasformato da “partner” del primo mandato ad “assistenti” del secondo mandato.
L’episodio della “conquista di Gaza” illustra questa dinamica. Il 4 febbraio 2025, Trump annunciò spontaneamente, durante la visita di Netanyahu, che l’America avrebbe “conquistato” Gaza – una proposta mai discussa all’interno del suo team, pura improvvisazione presidenziale che riflette l’istinto senza filtri di Trump che ora guida la politica estera americana.
III. Impatto e prospettive delle agende estreme di Trump
Sebbene i programmi radicali in evoluzione di Trump sfuggano a una valutazione completa, combinando l’esperienza del primo mandato con gli sviluppi attuali è possibile fare proiezioni caute.
A livello nazionale, le iniziative radicali di Trump aprono la strada a graduali vittorie politiche conservatrici. In primo luogo, contestare la cittadinanza per diritto di nascita e questioni divisive simili mette alla prova l’opinione pubblica e al contempo avvia procedimenti giudiziari. Sebbene i tribunali possano bloccare questi ordini, essi rivelano un sostegno latente, avviando battaglie legali che potrebbero portare a vittorie alla Corte Suprema. A metà marzo 2025, tre tribunali distrettuali federali avevano bloccato l’ordine di Trump sulla cittadinanza per diritto di nascita, spingendo la Corte Suprema a presentare ricorso diretto per ottenere un precedente rivoluzionario.
In secondo luogo, le iniziative di ridimensionamento governativo potrebbero produrre effetti “sperimentali”. La limitata portata iniziale riduce al minimo la resistenza, ma poiché il DOGE prende di mira dipartimenti chiave e interessi consolidati, le sfide giudiziarie si intensificheranno. L’aggiramento completo del Congresso sembra impossibile: persino la Corte Roberts, conservatrice, non abbandonerà la separazione dei poteri. Riconoscendo ciò, Trump persegue la paralisi dell’agenzia anziché l’eliminazione. Dimostrando che l’America funziona senza Dipartimenti dell’Istruzione attivi o USAID, Trump coltiva l’accettazione pubblica di un’eventuale abolizione. Questo approccio sperimentale, profondamente radicato nella cultura politica americana, modifica gradualmente l’opinione pubblica, creando future finestre per un’effettiva eliminazione.
In terzo luogo, sebbene il potenziale di taglio di DOGE sia limitato, qualsiasi riduzione ottenuta potrebbe rivelarsi ardua. Musk aveva inizialmente promesso tagli per 1-2 trilioni di dollari entro il 250° anniversario dell’America. DOGE dichiara tagli per 155 miliardi di dollari entro metà aprile 2025, sebbene queste cifre siano oggetto di scetticismo. Con un bilancio di 7,27 trilioni di dollari per l’anno fiscale 2025, solo 1,88 trilioni di dollari di spesa discrezionale offrono un potenziale di aggiustamento dopo aver protetto i diritti e il servizio del debito. I tagli dichiarati da DOGE rappresentano solo l’8,2% della spesa discrezionale, il che suggerisce ampi obiettivi rimanenti. Tuttavia, la spesa militare assorbe il 47% dei fondi discrezionali, mentre le somme rimanenti sostengono le operazioni essenziali. Il margine di taglio reale è minimo e politicamente teso. Eppure, qualsiasi riduzione ottenuta, una volta incorporata nelle risoluzioni e negli stanziamenti di bilancio, diventa difficile da invertire in assenza di un boom economico o di un’impennata delle entrate: l’inerzia fiscale protegge i cambiamenti di Trump.
Per quanto riguarda l’impatto estero, i programmi radicali di Trump potrebbero in parte produrre effetti transazionali. In primo luogo, le nazioni economicamente dipendenti dagli Stati Uniti finiranno per negoziare nonostante la resistenza iniziale. Sebbene Trump probabilmente non ricorrerà alla forza militare, alleati e vicini non possono resistere a una pressione economica prolungata. Nonostante l’incostanza di Trump, i calcoli schiaccianti sui tassi d’interesse portano a ripetuti compromessi.
In secondo luogo, le nazioni che affrontano sfide territoriali o di sovranità faranno concessioni concrete per evitare esiti peggiori. Pur mantenendo ferme posizioni retoriche, si impegneranno in negoziati asimmetrici, accettando le richieste realistiche di Trump per prevenire quelle irrealistiche. Anche se la Groenlandia rimanesse danese, aspettatevi il massimo controllo pratico americano.
In terzo luogo, i concorrenti strategici designati considerano il confronto americano una realtà permanente. Difenderanno interessi legittimi attraverso risposte proporzionate, pur rimanendo aperti a un dialogo reciprocamente rispettoso che porti a soluzioni accettabili.
In quarto luogo, i dazi potrebbero ristrutturare radicalmente le entrate federali, normalizzando il protezionismo. Il primo mandato di Trump ha visto le entrate doganali salire da 41,3 miliardi di dollari (anno fiscale 2018) a 71 miliardi di dollari (anno fiscale 2019), raggiungendo i 100 miliardi di dollari entro l’anno fiscale 2022. Al netto dell’inflazione, i dazi sono cresciuti dall’1% a un costante 2% delle entrate federali. La continua escalation tariffaria aumenterà ulteriormente sia gli importi assoluti che la quota di entrate. Con deficit e debito crescenti, le amministrazioni successive potrebbero preservare questi flussi di entrate anziché ridurre i dazi, soprattutto se l’impatto economico rimane gestibile.
Inoltre, le agende utopiche e radicali mettono alla prova la lealtà del team. L’episodio di Gaza ne è un esempio: nonostante la successiva esitazione di Trump, i membri del team hanno approvato all’unanimità la sua proposta spontanea, con Rubio che l’ha attivamente promossa durante le visite in Medio Oriente. Episodi simili confermano la sottomissione del team ai capricci presidenziali.
Sebbene i programmi radicali di Trump generino diversi impatti, le loro prospettive a lungo termine appaiono più distruttive che costruttive. In primo luogo, la limitazione della cittadinanza per diritto di nascita e le deportazioni di massa intensificheranno la polarizzazione e la frammentazione sociale. Dopo la sconfitta del 2024, i Democratici si trovano ad affrontare dibattiti interni sull’abbandono della politica identitaria in favore del populismo economico. L’agenda nazionalista bianca di Trump potrebbe intrappolare i Democratici in una continua opposizione incentrata sull’identità, ritardando il riallineamento politico.
In secondo luogo, governare attraverso il DOGE non è sostenibile. Interrompere le operazioni federali mina le funzioni essenziali di regolamentazione e di servizio, rischiando di innescare crisi pubbliche che generano reazioni negative. Inoltre, il DOGE – che apparentemente promuove l’efficienza razionale attraverso la governance algoritmica – funge in realtà da arma anti-establishment di Trump. Quando il DOGE finirà per minacciare gli interessi di Trump, anch’esso verrà abbandonato.
In terzo luogo, lo sfruttamento massimo del potere presidenziale da parte di Trump crea pericolosi precedenti. I futuri presidenti democratici potrebbero rispondere con misure altrettanto estreme, creando cicli di “autoritarismo competitivo” che erodono le fondamenta costituzionali e accelerano il declino americano.
A livello internazionale, i programmi radicali di Trump accelerano l’aggiustamento egemonico americano, catalizzando al contempo la trasformazione dell’ordine globale. A differenza del suo primo mandato, Trump ora enfatizza l’ottenimento del massimo beneficio dagli alleati, sottraendosi alle responsabilità. Queste crescenti lamentele all’interno del sistema guidato dagli americani ne accelerano la dissoluzione. Come ha riconosciuto Rubio parlando di “ritorno alla multipolarità”, Trump immagina che l’America continui a godere dei benefici del primato senza corrispondenti obblighi: una giungla che favorisce solo gli interessi americani, antitetica alle aspirazioni della comunità internazionale.
Inoltre, l’attenzione di Trump per l’emisfero occidentale nel suo secondo mandato – perseguendo un’espansione territoriale che ricorda il regionalismo di fine Ottocento – rappresenta una regressione storica. Quel periodo vide l’America diventare la più grande economia mondiale, pur mantenendo dazi doganali elevati e un’espansione regionale senza responsabilità globali – la “gloria imperiale” che Trump associa a William McKinley e al “Making America Great Again”. Il tentativo di Trump di ricreare questa visione anacronistica, facendo regredire l’ordine mondiale di 130 anni, non può ottenere il consenso internazionale.
IV. Conclusion
I programmi radicali di Trump rivelano traiettorie distinte per il secondo mandato. A livello nazionale, rappresentano un governo di piccole dimensioni guidato da una “presidenza imperiale” che combina populismo economico e conservatorismo culturale. A livello internazionale, manifestano un unilateralismo transazionale che mescola la Dottrina Monroe con il pensiero della Guerra Fredda, contraendosi nelle dimensioni intangibili (leadership, istituzioni) ed espandendosi in quelle tangibili (territorio, risorse).
Queste traiettorie riflettono la comprensione evoluta di Trump. Ora riconosce che i problemi dell’America sono principalmente interni: “bonificare la palude” ha la precedenza sulla ricerca di capri espiatori esterni. Allo stesso tempo, riconoscendo l’ambiziosa tempistica del MAGA, persegue una graduale trasformazione interna e guadagni transazionali all’estero, massimizzando la creazione di un’eredità.
I programmi radicali di Trump promettono certamente un cambiamento trasformativo. Eppure, storicamente, le trasformazioni americane richiedono crisi esistenziali – guerre, depressioni o conflitti civili – che forgino il consenso a partire da interessi frammentati. In assenza di tali catalizzatori, Trump riuscirà a generare uno slancio trasformativo? Più probabilmente, i programmi radicali di Trump non trasformeranno l’America, ma la resistenza ad essi potrebbe. La vera trasformazione potrebbe emergere non dalle interruzioni di Trump, ma dalle riflessioni che queste suscitano sul futuro della democrazia americana.
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All’inizio di quest’anno ho pubblicato un saggio intitolato ” American Bonaparte, American Kritarchy “, in cui avvertivo che gli Stati Uniti stavano affrontando una crisi costituzionale causata dall’eccessivo utilizzo di ingiunzioni preliminari a livello nazionale:
Con la Camera e il Senato sotto il controllo repubblicano, gli oppositori di Trump hanno fatto ricorso all’azione giudiziaria per rallentare o fermare l’esercizio muscoloso del potere esecutivo da parte di Trump, e la strategia ha funzionato.
Ognuna delle [principali iniziative politiche di Trump] è stata bloccata da un caso presso un tribunale distrettuale… Come ha fatto il potere giudiziario a diventare così potente che un giudice di un tribunale distrettuale che rappresenta 700.000 persone può bloccare unilateralmente e immediatamente l’intero governo federale prima ancora di tenere un processo?
Per rispondere a questa domanda, ho ripercorso le origini della supremazia giudiziaria fino al caso Marbury contro Madison (1803), in cui la Corte Suprema assunse per la prima volta il potere di revisione giudiziaria. Ho poi documentato la successiva comparsa di ingiunzioni preliminari a livello nazionale, da Lewis Publishing (1913) a Wirtz contro Baldor (1963) e Harlem Valley contro Stafford (1973). Ho dimostrato che quelle che erano iniziate come rare eccezioni utilizzate solo in casi di emergenza si erano metastatizzate in strumenti di routine per la guerra politica.
All’epoca in cui scrissi American Bonaparte, American Kritarchy , la seconda amministrazione Trump aveva ricevuto più ingiunzioni universali in due mesi di quante l’intera magistratura ne avesse emesse nei quattro decenni precedenti. Ho concluso il saggiocon un invito all’azione:
Permettere a un singolo giudice distrettuale di emettere un’ingiunzione che vincoli le azioni del governo federale a livello nazionale è, senza mezzi termini, un’arroganza di potere alla magistratura di gran lunga superiore a qualsiasi cosa giustificabile dal diritto costituzionale, dalla teoria giuridica o dalla storia anglo-americana…
Il giudice Thomas ha esplicitamente invitato la Corte Suprema a riesaminare l’ammissibilità di tali ingiunzioni “ se la loro popolarità continua”, segnalando che ritiene che l’Alta Corte debba frenarle.
Il giudice Gorsuch ha ironicamente affermato che l’aumento delle ingiunzioni a livello nazionale negli ultimi anni “non è normale” e “non è un’innovazione che dovremmo affrettarci ad accogliere”, in parte perché consente ai querelanti di ottenere un risarcimento molto maggiore di quello che il loro caso meriterebbe normalmente.
Con due giudici della Corte Suprema che chiedono una riforma, c’è motivo di sperare che la questione venga risolta prima che il governo degli Stati Uniti sprofondi in un contenzioso senza fine… In ogni caso, bisogna fare qualcosa.
Oggi qualcosa è stato fatto.
Il caso che ha sfidato la Kritarchy: Trump contro CASA, Inc.
Trump, Presidente degli Stati Uniti, et al. contro CASA, Inc., et al . è un caso della Corte Suprema che ha avuto origine quando il Presidente Trump ha proclamato l’Ordine Esecutivo n. 14160, intitolato “Protezione del significato e del valore della cittadinanza americana”.
Emesso il 20 gennaio 2025, l’ordinanza ha sancito una nuova politica per gli Stati Uniti: le persone nate negli Stati Uniti non sarebbero state riconosciute come cittadine se la madre era presente illegalmente o legalmente ma temporaneamente, e il padre non era né cittadino statunitense né residente permanente legale al momento della nascita. Questo provvedimento esecutivo ha messo direttamente in discussione un secolo di giurisprudenza consolidata e l’interpretazione della clausola sulla cittadinanza del XIV Emendamento.
Come prevedibile, l’Ordine Esecutivo ha innescato una valanga di cause legali. Singoli individui, organizzazioni come CASA, Inc. e una coalizione di 22 stati, il Distretto di Columbia e la città di San Francisco, hanno intentato cause separate presso i tribunali distrettuali federali di Maryland, Massachusetts e Washington. Hanno cercato di vietare l’attuazione e l’applicazione dell’Ordine Esecutivo 14160, sostenendo che violasse il Quattordicesimo Emendamento e la Sezione 201 del Nationality Act del 1940.
Ogni tribunale distrettuale, senza eccezioni, ha ritenuto l’Ordinanza Esecutiva probabilmente illegittima e, soprattutto, ha emesso ingiunzioni preliminari universali . Queste ingiunzioni hanno impedito ai funzionari esecutivi di applicare l’Ordinanza Esecutiva a chiunque , non solo ai ricorrenti nei rispettivi casi. Le Corti d’Appello, a loro volta, hanno respinto le richieste del Governo di sospendere questo provvedimento di ampia portata. Di conseguenza, il caso è stato portato dinanzi alla Corte Suprema degli Stati Uniti.
La Corte Suprema stabilisce che i giudici non possono limitarsi a pronunciarsi
La Corte, in un parere espresso dal giudice Barrett, ha iniziato riconoscendo che il crescente ricorso a ingiunzioni preliminari universali richiedeva una revisione giudiziaria:
La questione se il Congresso abbia concesso ai tribunali federali l’autorità di vietare universalmente l’applicazione di una politica esecutiva o legislativa giustifica chiaramente la nostra analisi… È facile capirne il motivo. Alla fine dell’amministrazione Biden, avevamo raggiunto “una situazione in cui quasi ogni importante atto presidenziale [veniva] immediatamente congelato da un tribunale distrettuale federale”. La tendenza è continuata: durante i primi 100 giorni della seconda amministrazione Trump, i tribunali distrettuali hanno emesso circa 25 ingiunzioni universali. Con l’aumento del numero di ingiunzioni universali, è aumentata anche l’importanza della questione.
E cosa ha detto la Corte sulla questione? In realtà, l’analisi della Corte sulla questione era praticamente identica alla mia. Partiva da una valutazione storica della portata del potere di equità conferito alle corti federali e concludeva che l’ingiunzione preliminare universale era un’innovazione recente e senza precedenti, priva di fondamento storico:
Il Judiciary Act del 1789 ha conferito alle corti federali la giurisdizione su “tutte le cause in equità” e, ancora oggi, questa legge “è ciò che autorizza le corti federali a emettere rimedi equitativi”. Sebbene flessibile, questa autorità equitativa non è arbitraria. Abbiamo sostenuto che la concessione statutaria comprende solo quei tipi di rimedi equitativi “tradizionalmente accordati dalle corti di equità” alla nascita del nostro Paese.
Dobbiamo quindi chiederci se le ingiunzioni universali siano sufficientemente “analoghe” al provvedimento emesso “’dall’Alta Corte di Cancelleria in Inghilterra al momento dell’adozione della Costituzione e dell’emanazione del Judiciary Act originario’”.
La risposta è no: né l’ingiunzione universale né alcuna forma analoga di rimedio erano disponibili presso l’Alta Corte di Cancelleria in Inghilterra al momento della fondazione… [N]ella consolidata prassi di equità in Inghilterra, non esisteva alcun rimedio “anche lontanamente simile a un’ingiunzione nazionale…”
Né le corti di equità dell’epoca fondatrice degli Stati Uniti hanno tracciato una strada diversa. Anzi, l’approccio tradizionalmente adottato dalle corti federali ostacola l’esistenza di un rimedio così ampio… L’ingiunzione universale è stata palesemente inesistente per gran parte della storia della nostra nazione. La sua assenza dalla prassi di equità del XVIII e XIX secolo risolve la questione dell’autorità giudiziaria.
Il fatto che tale assenza sia continuata fino al XX secolo rende ancora più improbabile qualsiasi affermazione di un pedigree storico.
L’opinione della maggioranza ha poi negato che le ingiunzioni universali fossero l’equivalente moderno delle vecchie “carte di pace” di equità, osservando che le azioni collettive, non le ingiunzioni universali, erano i loro veri analoghi:
Il Bill of Peace sopravvive nella sua forma moderna, ma non come ingiunzione universale. Si è evoluto nella moderna class action, disciplinata dalla Regola 23 del Regolamento Federale di Procedura Civile. 7A Wright, Federal Practice and Procedure §1751, a pag. 10 (“Fu il Bill of Peace inglese a svilupparsi in quella che oggi è nota come class action”); si veda Hansberry v. Lee, 311 US 32, 41 (1940) (“La class action fu un’invenzione dell’equità”). E sebbene la Regola 23 sia per certi versi “più restrittiva nei confronti delle azioni rappresentative rispetto ai Bill of Peace originali”, Rodgers v. Bryant, 942 F. 3d 451, 464 (CA8 2019) (Stras, J., concorrente), sarebbe comunque riconoscibile per un Cancelliere inglese.
Ha continuato negando che un’ingiunzione preliminare universale fosse necessaria per offrire un “sollievo completo”, scrivendo:
La tradizione equitativa ha da tempo accolto la regola secondo cui i tribunali in genere “possono amministrare una soluzione completa tra le parti”.
Siamo d’accordo sul fatto che il principio di risarcimento integrale abbia radici profonde nell’equità. Tuttavia, nella misura in cui gli interpellati sostengono che giustifichi l’assegnazione di un risarcimento a terzi, si sbagliano. “Risarcimento integrale” non è sinonimo di “risarcimento universale”. È un concetto più ristretto…
Consideriamo un caso archetipico: un disturbo della quiete pubblica in cui un vicino ne fa causa a un altro per aver tenuto la musica a tutto volume a tutte le ore della notte. Per garantire al ricorrente un risarcimento completo, il tribunale ha una sola opzione praticabile: ordinare al convenuto di abbassare il volume della musica, o meglio ancora, di spegnerla. Tale ordine andrà necessariamente a beneficio anche dei vicini del convenuto; non c’è modo di “eliminare solo la parte del disturbo che ha danneggiato il ricorrente”.
Tuttavia, sebbene l’ingiunzione del tribunale possa avere l’effetto pratico di avvantaggiare soggetti terzi, “tale beneficio [è] meramente incidentale”. In termini di legge, la protezione dell’ingiunzione si estende solo all’attore, come dimostrato dal fatto che solo l’attore può far valere la sentenza contro il convenuto responsabile del disturbo. Se il disturbo persiste e un altro vicino vuole porvi fine, deve intentare una causa a sua volta.
Gli imputati, sia individuali che associati, sbagliano quindi a definire l’ingiunzione universale come una mera applicazione del principio di risarcimento integrale. In base a tale principio, la questione non è se un’ingiunzione offra un risarcimento integrale a chiunque sia potenzialmente interessato da un presunto atto illecito, bensì se un’ingiunzione offra un risarcimento integrale ai ricorrenti dinanzi al tribunale.
La maggioranza ha poi respinto le argomentazioni politiche a favore e contro le ingiunzioni universali, ritenendole irrilevanti:
Come per la maggior parte delle questioni controverse, ci sono argomentazioni da entrambe le parti. Ma come per la maggior parte delle questioni di diritto, i pro e i contro delle politiche sono irrilevanti. In base al nostro consolidato precedente, il rimedio equitativo disponibile presso le corti federali è quello “tradizionalmente accordato dalle corti di equità” al momento della nostra fondazione. Nulla di simile a un’ingiunzione universale era disponibile alla fondazione, né, peraltro, per oltre un secolo. Pertanto, ai sensi del Judiciary Act, le corti federali non hanno l’autorità di emetterle.
Infine, la maggioranza ha respinto l’idea che il potere giudiziario fosse una sorta di agenzia generalizzata autorizzata a supervisionare l’esecutivo:
Alcuni sostengono che l’ingiunzione universale “fornisca alla magistratura un potente strumento per controllare il potere esecutivo”. Ma i tribunali federali non esercitano un controllo generale sul potere esecutivo; risolvono casi e controversie in conformità con l’autorità conferita loro dal Congresso. Quando un tribunale conclude che il potere esecutivo ha agito illecitamente, la risposta non è che il tribunale debba eccedere i propri poteri.
Di conseguenza, la Corte si è pronunciata a favore dell’amministrazione Trump e contro l’esercito di kritarchisti in tonaca nera che aveva paralizzato la sua presidenza:
Le istanze del Governo di sospensione parziale delle ingiunzioni preliminari sono accolte, ma solo nella misura in cui le ingiunzioni siano più ampie del necessario per fornire un risarcimento completo a ciascun attore legittimato ad agire. I tribunali di grado inferiore dovranno agire con sollecitudine per garantire che, con riferimento a ciascun attore, le ingiunzioni siano conformi a questa norma e comunque conformi ai principi di equità.
Ma, naturalmente, trattandosi della Corte Suprema, tutti avevano qualcosa in più da dire.
La Corte Suprema dichiara la Corte Suprema colpevole di oltraggio alla corte
Un’opinione della Corte Suprema a maggioranza è, per definizione, frutto del consenso; e come tale, tende ad avere toni e stili moderati e moderati. La retorica aggressiva, come quella che noi utenti di internet usiamo nei “trolling” e nelle “flame war”, è generalmente lasciata alle opinioni concordi e dissenzienti.
Raramente un’opinione della maggioranza tratta un dissenso con lo stesso sfacciato disprezzo con cui l’opinione odierna tratta il dissenso del giudice Jackson. È così straordinariamente sprezzante che mi sento in dovere di citarlo quasi per intero:
Il dissenso principale si concentra su terreni giuridici convenzionali, come il Judiciary Act del 1789 e i nostri casi di equità. Il giudice Jackson, tuttavia, sceglie una linea di attacco sorprendente che non è legata né a queste fonti né, francamente, ad alcuna dottrina.
Trascurando i limiti del potere giudiziario come una “questione tecnicamente insensibile”, offre una visione del ruolo giudiziario che farebbe arrossire anche il più ardente difensore della supremazia giudiziaria…
Non ci soffermeremo sulla tesi del Giudice Jackson, che è in contrasto con oltre due secoli di precedenti, per non parlare della Costituzione stessa. Osserviamo solo questo: il Giudice Jackson condanna un Esecutivo imperiale, pur abbracciando una Magistratura imperiale.
Il rispetto dei limiti dell’autorità giudiziaria, compresi, come rilevante in questo caso, i confini del Judiciary Act del 1789, è richiesto dal giuramento di un giudice di seguire la legge… Il giudice Jackson salta questa parte [p]erché analizzare la legge vigente implica un noioso “gergo legale”…
Il GIUDICE JACKSON farebbe bene a tenere a mente il suo stesso ammonimento: “Tutti, dal Presidente in giù, sono vincolati dalla legge”. Questo vale anche per i giudici.
Brutale.
La Corte Suprema concorda con la Corte Suprema
Trump contro CASA aveva non una, non due, ma ben tre opinioni concordi, sostenute da quattro giudici diversi. Oggi non ho tempo né spazio per approfondire queste opinioni con la profondità che meritano, quindi mi limiterò a riassumerle brevemente.
Il giudice Thomas, affiancato dal giudice Gorsuch, ha redatto un documento concorrente che ha rafforzato la posizione della maggioranza secondo cui il Judiciary Act non consente ingiunzioni universali in quanto non esiste una tradizione storica per un risarcimento così ampio. Ha sottolineato che il “principio di risarcimento completo” funge da limite massimo, non da obbligo, e ha esortato i tribunali inferiori ad adattare attentamente i rimedi ai danni subiti dai ricorrenti, mettendo in guardia contro i tentativi di replicare le ingiunzioni universali sotto una veste diversa.
Il giudice Alito ha redatto un’istanza di consenso, a cui si è unito il giudice Thomas, sollevando due questioni “irrisolte” che potrebbero compromettere il significato pratico della decisione: la disponibilità della legittimazione all’azione di terzi e la scarsa certificazione delle azioni collettive. Ha espresso preoccupazione per il fatto che, se gli stati potessero intentare azioni di terzi per conto di tutti i loro residenti per ottenere ingiunzioni di ampia portata, o se i tribunali distrettuali dovessero certificare le azioni collettive a livello nazionale senza il rigoroso rispetto della Regola 23 (che disciplina le azioni collettive), l’ingiunzione universale di fatto “ritornerebbe dalla tomba sotto le mentite spoglie di ‘risarcimento collettivo a livello nazionale'”. Ha esortato i tribunali federali a vigilare contro tali potenziali abusi.
Il giudice Kavanaugh ha redatto una terza sentenza concorrente, che ha evidenziato il ruolo della Corte come “decisore ultimo” dello status giuridico provvisorio dei principali statuti federali e delle azioni esecutive. Ha riconosciuto che i ricorrenti potrebbero richiedere un provvedimento di classe ai sensi della Regola 23(b)(2) o chiedere ai tribunali di “annullare” le norme dell’agenzia ai sensi dell’Administrative Procedure Act. Tuttavia, ha sottolineato che la decisione odierna impone ai tribunali distrettuali di seguire le procedure legali appropriate, limitando significativamente la loro capacità di concedere un provvedimento preliminare nazionale o di classe, salvo autorizzazione legale. Ha sottolineato che la Corte continuerà a essere l’arbitro finale dell’uniformità nazionale in tali questioni.
Se avete tempo, vi invito a leggere attentamente queste concordanze per intero. Sono segnali strategici che delineano il terreno per i contenziosi futuri. Ognuna di esse delinea un diverso vettore attraverso il quale gli attivisti giudiziari cercheranno di circoscrivere o superare la sentenza odierna. Studiare queste concordanze oggi vi permetterà di prevedere cosa accadrà domani.
Il presidente Trump vincerà?
Con ingiunzioni universali da parte dei giudici distrettuali che bloccavano ogni azione esecutiva, Trump era stato fermato prima di poter perseguire la piattaforma MAGA per la quale era stato eletto. La sentenza di oggi cambia le cose. È una vittoria significativa che potrebbe usare per ridare slancio alla sua agenda interna in stallo.
Ma Trump vincerà?
Vorrei saperlo. L’anno scorso, nel mio saggio ” American Eschaton – Parte III” , temevo che l’élite americana potesse usare Trump per manipolarci e spingerci a una guerra globale con il sostegno populista:
Immaginate, se volete, che i membri più intelligenti della classe dirigente abbiano concluso che Trump ha molte probabilità di vincere; immaginate, inoltre, che credano che la calamità economica sia inevitabile o che una guerra globale sia inevitabile o necessaria. Se così fosse, allora avrebbe senso consentire l’elezione di Trump e poi “accelerare” il progresso verso questi eventi. Perché?
Se si verificasse un crollo economico sotto l’amministrazione Trump (forse a causa della de-dollarizzazione), verrebbe accusato allo stesso modo in cui Herbert Hoover fu ritenuto responsabile della Grande Depressione; e proprio come le politiche economiche di Hoover sono state completamente screditate per generazioni, lo stesso accadrà per quelle di Trump. Inoltre, le condizioni economiche che ne deriverebbero potrebbero aprire la strada a un nuovo Roosevelt di sinistra con le solite promesse socialiste di migliorare la situazione.
D’altra parte, se scoppiasse una guerra globale, avere Trump in carica sarebbe praticamente l’unico modo per convincere i giovani bianchi – il cuore della nostra forza combattente – ad accettare la leva o a scendere in guerra. Non molti uomini sarebbero disposti a morire per Biden o per il globohomo, ma se Trump lanciasse l’appello e la causa sembrasse patriottica, molti (non tutti, ma abbastanza) risponderebbero.
Come potrebbe scoppiare una guerra del genere; ne ho già parlato. Trump non sembra propenso a intensificare le tensioni contro la Russia, ma sembra del tutto possibile che possa sostenere Israele se la sua guerra dovesse trasformarsi in una guerra più ampia, innescando forse una cascata di conseguenze in una guerra globale…
Queste preoccupazioni mi hanno certamente tormentato molto, mentre nelle ultime settimane ho visto la Casa Bianca assumere una posizione sempre più severa nei confronti dell’Iran.
Ma non sono del tutto certo che abbiano ragione. Non sono convinto che la recente svolta del presidente Trump verso una politica estera interventista abbia una qualche profondità ideologica. L’attivismo di Trump all’estero potrebbe semplicemente essere… ciò che accade quando un presidente al secondo mandato si sente frustrato dall’incapacità di ottenere risultati a livello nazionale. Trump non sarebbe il primo presidente degli Stati Uniti a guardare all’estero quando si trovava in difficoltà in patria. Dall’idealismo di Wilson in tempo di guerra dopo una delusione interna, agli attacchi in Kosovo di Clinton durante l’impeachment, all’intervento di Obama in Libia dopo aver affrontato una Camera repubblicana, la politica estera è sempre stata ciò che i presidenti americani fanno quando non riescono a fare ciò che vogliono a livello nazionale.
Ora, senza più i tribunali che gli legano le mani, Trump può fare ciò che vuole in patria. Ha la possibilità di dimostrare che il suo programma era più di una semplice retorica, che può tradurre la volontà populista in un cambiamento istituzionale. Ma se si lasciasse trasportare ulteriormente dai coinvolgimenti globali, sedotto dal dramma della guerra o dal plauso dell’establishment della politica estera, dimostrerebbe esattamente il contrario.
Rifletti su questo sull’Albero del Dolore.
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Praticamente ogni amministrazione presidenziale finisce prima o poi per essere un miscuglio. Trump 2.0 si è trasformato in questo miscuglio molto prima di quanto la maggior parte di noi si aspettasse. Questa realtà non ha colpito la maggior parte dei sostenitori di Trump per il semplice motivo che la maggior parte di essi è concentrata sulle guerre culturali interne, dove credono che sia in corso la guerra per la Repubblica americana. Questo è del tutto comprensibile e non è sbagliato da questo punto di vista. Nonostante abbia scritto di geopolitica negli ultimi anni, per la maggior parte della mia vita mi sono occupato di questioni sociali conservatrici. Lo sono ancora, ma mi sono anche reso conto che l’America è ora un impero internazionale – l’impero anglo-sionista – e che il futuro dell’America che conosciamo nella nostra vita quotidiana è strettamente legato al futuro del fallimentare impero anglo-sionista. Qualunque cosa comporti la devoluzione verso un mondo multipolare, quel futuro riguarderà tutti gli americani e la maggior parte del resto del mondo.
Quello che sto dicendo è ciò che ho detto più volte nel corso di questi sei mesi. Non mi soffermerò sui successi di Trump sul fronte interno. La maggior parte di questi successi dipende dalla conferma della SCOTUS. Questa sta arrivando, lentamente ma inesorabilmente. Come ho detto, qualunque cosa John Roberts possa pensare di Trump come persona, Roberts non ha intenzione di tagliarsi il naso per far dispetto alla faccia: non distruggerà ciò che resta del nostro ordine costituzionale solo per far dispetto a Trump. Come previsto, il team legale di Trump sta gradualmente vincendo la maggior parte di queste battaglie, trasformando l’ordine costituzionale americano nella direzione in cui lo stesso Roberts si è mosso, con cautela ma costantemente. Dimenticate le cause sull’immigrazione che, come previsto, stanno andando per lo più nella direzione di Trump. Le grandi cause sullo Stato amministrativo stanno cambiando radicalmente il panorama costituzionale americano, in modi che sarà difficile far regredire. Il fatto che un recente caso di diritto amministrativo si sia concluso 8-0 la dice lunga. Ottenere il controllo della spesa è, ovviamente, una questione completamente diversa, ma anche in questo caso le vittorie legali riguardanti i poteri presidenziali sulle agenzie esecutive hanno un grande potenziale.
Ci sono altre buone notizie sul fronte della DEI, ma queste sono sufficienti per le buone notizie. L’agenda interna è ciò che ha fatto eleggere Trump, agli occhi dei suoi elettori principali. Trump ha fatto un accordo per tornare nello Studio Ovale, e l’agenda interna faceva parte dell’accordo perché era ciò che avrebbe potuto vendere un’altra presidenza Trump. Tuttavia, il resto dell’accordo, la parte in gran parte non dichiarata, era la politica estera. Questa parte dell’accordo di Trump è stata stipulata con i nazionalisti ebrei miliardari e i loro cooptati pagati nello Stato profondo – Rubios, Ratcliffes, i generali e i loro sostenitori al Congresso. La parte dell’accordo relativa alla politica estera prevedeva qualcosa di simile a un regime di Biden sotto steroidi: un’azione di prepotenza e di guerra più vigorosa. Questo programma è stato attivamente falsificato per la maggior parte – Trump si è candidato apertamente come “candidato alla pace”, anche se ci sono stati accenni al vero programma. La realtà è che nel giro di pochi mesi Trump è diventato un presidente di guerra, sia dal punto di vista economico che militare.
La ragione di questa apparente trasformazione è semplice. A Trump è stato concesso di tornare alla Casa Bianca per salvare l’Impero anglo-sionista, rafforzandone le fondamenta fiscali. Il debito americano è diventato insostenibile al punto che il regno di Re Dollaro è in pericolo, e senza la continuazione dell’egemonia del dollaro l’Impero anglo-sionista si trasformerà in uno dei diversi poli di potere e influenza geopolitica – e forse non il più importante. Questo risultato è anatema per gli interessi dei nazionalisti ebrei e dei loro compagni di viaggio nelle economie finanziarizzate dell’Occidente, perché in un mondo multipolare perderanno il loro ruolo guida. La soluzione è, in sostanza, una ricolonizzazione del resto del mondo. Questo progetto è esistenziale per l’Impero.
Lo sforzo è in gran parte fallito.
Il progetto di estendere la parte americana dell’Impero alla maggior parte del Nord America. L’incorporazione del Canada, in toto o in parte, e della Groenlandia potrebbe ancora realizzarsi in futuro, fornendo una garanzia (risorse naturali) per un maggiore indebitamento a lungo termine. Il problema è che l’America ha bisogno di alleggerire il debito a breve termine.
Questo problema a breve termine avrebbe dovuto essere affrontato attraverso una combinazione di monopoli ad alta tecnologia (in particolare l’intelligenza artificiale) e tariffe d’urto. Questa combinazione avrebbe dovuto portare nuove entrate per aiutare a gestire il debito. Entrambe le iniziative sembrano essere fallite. Poco dopo l’insediamento di Trump è apparso evidente che la Cina è il Paese che svilupperà un vantaggio insormontabile nell’IA per i decenni a venire. Dopo questa delusione, lo shock e lo stupore per i dazi si è trasformato in un esercizio di corsa sulla sabbia. La Cina non si è lasciata abbattere dall’improvvisa offensiva di Trump e la sua risoluzione ha irrigidito la resistenza globale. Né ha sortito alcun effetto il tam tam di sciabole diretto alla Cina. Così l’attenzione si è spostata di nuovo sull’America che cerca di mettere in ordine la propria casa fiscale – e buona fortuna – piuttosto che far sì che il resto del mondo paghi il nostro indebitamento. Le fondamenta fiscali dell’Anglo-sionismo sono, se non altro, più deboli di quando Trump è entrato in carica. Questo non vuol dire che Trump avrebbe potuto evitarlo, ma i suoi tentativi sono stati, nel migliore dei casi, poco realistici.
Sul fronte militare, Trump ha perseguito guerre non vincenti ma molto costose. Nel processo ha distrutto completamente la propria credibilità con le potenze straniere con una politica di menzogne e di partecipazione personale a operazioni segrete – ricevere il “cercapersone d’oro” da Netanyahu è stato un nuovo minimo per un Presidente del Consiglio, cosa da cui qualsiasi Presidente dovrebbe assolutamente stare alla larga.
Durante la campagna elettorale di Trump, candidato alla pace, ha parlato molto di porre fine alla guerra anglo-sionista contro la Russia. Naturalmente, ha inquadrato la questione in modo piuttosto diverso, presentandosi, falsamente, come uno spettatore disinteressato. In realtà, una volta inaugurato, è apparso chiaro che Trump non stava affatto cercando la “pace”. Stava semplicemente cercando di attuare la strategia di ripiego di Biden di un “conflitto congelato” – convincere la Russia ad accettare una sconfitta strategica attraverso il meccanismo del “cessate il fuoco”. L’obiettivo era quello di staccare la Russia dalla Cina, di isolare la Cina. Putin è stato al gioco, ma non è stato affatto ingannato. La pace arriverà alle condizioni russe e nei tempi giusti per la Russia. Ma Trump ha peggiorato notevolmente le cose, indurendo la determinazione russa, assecondando diversi attacchi estremamente fuorvianti al territorio russo. L’idea che Trump possa mai fidarsi della Russia o della Cina è fuori discussione.
A peggiorare le cose, Trump ha giocato una partita da babbeo in Medio Oriente. Certo, questo faceva parte dell’accordo fatto con i suoi miliardari nazionalisti ebrei, ma non ci sono scuse per il percorso che ha seguito.
Come il sostegno attivo di Trump al genocidio a Gaza e alla pulizia etnica in tutta la Palestina, con un numero di morti che si avvicina al mezzo milione. Trump ha anche sostenuto il regime jihadista in quella che era la Siria, che fin dall’inizio ha massacrato cristiani e alawiti. Il mondo sta guardando ed è inorridito dalla ferocia dell’America e di Trump nei confronti di innocenti. Personalmente credo che se Trump si fosse rivolto al popolo americano avrebbe potuto sottrarre l’America a questi crimini. Ha scelto di non farlo, affidandosi invece al giudizio della politica nazionalista ebraica più estrema e disumana. La posizione dell’America nel mondo potrà mai riprendersi?
Cosa dire della farsesca, ma sempre selvaggia, guerra di Trump contro lo Yemen? Lo Yemen ha fatto il possibile per fermare l’assalto nazionalista ebraico contro la popolazione di Gaza, in gran parte indifesa. Trump ha permesso agli informatori del Mossad nello Studio Ovale di convincerlo a intraprendere una guerra sciocca e immorale in cui gli Stati Uniti sono stati umiliati sulla scena mondiale. Ha dato seguito a questa penosa performance ignorando l’intelligence statunitense a favore delle menzogne del Mossad, implicandosi personalmente nell’attacco israeliano all’Iran, gustando persino la morte dei negoziatori iraniani.
Questi disastri seriali in politica estera non mostrano alcun segno di cessazione. Trump sta facendo passare la sua guerra all’Iran come una sorta di trionfo, ma tutti sanno che è una menzogna. Trump ha assecondato le solite fantasie nazionaliste ebraiche sulla grande vittoria in arrivo, e poi è stato costretto a salvare Israele. Per tutto il tempo, il mondo ha assistito allo spettacolo di un Presidente della Repubblica che cambiava le sue narrazioni pubbliche praticamente di ora in ora. Ma questa guerra non è finita. Qualsiasi idea di un accordo in Medio Oriente che preveda un’alternativa o un concorrente alla Belt and Road Initiative cinese è fuori dalla finestra. Insieme a qualsiasi fiducia in Trump personalmente o nell’America come Paese. Trump si è anche posizionato in un territorio pericoloso dal punto di vista politico. Una recessione è probabilmente una questione di quando e non di se. Quando ciò accadrà, Trump lavorerà da una posizione di generale debolezza. Tutto questo milita fortemente contro il compito principale di Trump, che è quello di mantenere l’egemonia dell’Impero anglo-sionista:
Concludo con un estratto piuttosto lungo dell’eccellente riassunto di Simplicius sull’ultimo sfacelo in cui Trump ha coinvolto gli Stati Uniti:
Vediamo ora alcuni fatti fondamentali del conflitto:
1. Fino alla fine, non rimane un solo straccio di prova che gli aerei israeliani (o americani, se è per questo) abbiano mai sorvolato l’Iran in modo significativo in qualsiasi momento. Le affermazioni di “superiorità aerea totale” non hanno fondamento, e fino all’ultimo giorno Israele ha continuato a fare affidamento sui propri UCAV pesanti [droni d’attacco] per colpire gli obiettivi terrestri iraniani.
La prova più significativa è che Israele ha diffuso con grande entusiasmo i filmati dei suoi attacchi, quindi come mai non un solo filmato di quei filmati mostrava attacchi da parte di cacciabombardieri? Tutti i filmati provenivano da un UCAV, il che è eloquente.
Solo una clip rilasciata ieri mostrava quello che si affermava essere un jet che di notte sorvolava una città iraniana e conduceva attacchi, ma dopo una ricerca la città si è rivelata essere Bander Abbas: …
C’è da stupirsi che l’unico filmato esistente di una possibile incursione aerea sia su una città costiera letterale?
In secondo luogo, le cisterne sganciate dagli aerei israeliani sono state registrate mentre venivano lavate sulle coste iraniane più settentrionali del Caspio: …
Cosa dimostra questo?
Che gli attacchi israeliani su Teheran provengono dal Caspio, smentendo la frode della “superiorità aerea totale”.
2. Il secondo grande risultato:
È ormai chiaro che Israele si è affidato a un favorito modus operandi negli ultimi tre conflitti. Israele ha perso contro Hamas, ha perso contro Hezbollah e ha perso contro l’Iran. Ogni volta, la sua strategia per salvare la faccia è stata quella di “decapitare la leadership”, in particolare le personalità più note come Nasrallah, Haniyeh e così via, fingendo che questo fosse in qualche modo un colpo vincente.
In realtà, ogni volta non è servito a nulla. Israele ha comunque perso la battaglia a terra – o in aria, per così dire – contro l’Iran.Il putrido esercito di Israele si è dimostrato incapace di vincere conflitti reali e ha dovuto affidarsi interamente alle vittorie di pubbliche relazioni e alla banca americana per finanziare vari piani di sabotaggio e di estorsione contro figure politiche e militari del nemico.
Pensateci in questo modo: tra dieci o vent’anni, cosa si ricorderà di oggi, i nomi di alcuni “generali iraniani” a caso che Israele ha “magistralmente ucciso” con vili attacchi furtivi, o il fatto che le città israeliane sono bruciate per la prima volta, che Israele non è riuscito a disinnescare il programma nucleare iraniano e che ha fallito in ogni altro obiettivo importante che aveva, compreso il cambio di regime?
Il fatto è che Israele ha subito un’umiliazione storica che ha distrutto per sempre la sua mistica e la sua reputazione di “potenza militare”. L’Iran può ora imparare dai suoi errori, ricostruire i pochi lanciatori e sistemi AD che ha perso e potenzialmente firmare nuovi patti con Russia-Cina che possono espandere le sue capacità di difesa.
È interessante, tuttavia, che l’aeronautica iraniana non sembra aver partecipato affatto: alcuni esperti suggeriscono che l’Iran l’abbia trasferita interamente nell’estremo est del Paese e l’abbia semplicemente tenuta lontana dai pericoli per tutta la durata. Dato che anche l’aviazione di Israele non ha partecipato, si suppone che non sia stata un’idea del tutto sbagliata.
In effetti, l’Iran ha conservato magistralmente i suoi limiti e ha fatto leva sui suoi maggiori vantaggi durante questo conflitto, limitando così i danni subiti. Peccato che non sapremo mai la piena portata delle capacità missilistiche iraniane, vista la disperata protezione di Israele nei confronti di qualsiasi fuga di notizie sui danni “sensibili” degli attacchi sul suo territorio. Ma data la rapidità inusuale con cui Israele ha accettato l’offerta di cessate il fuoco, la logica impone che i danni inflitti dall’Iran siano stati significativi e insostenibili.
In breve, l’unica cosa in cui Israele ha dimostrato di eccellere è l’omicidio di civili e l’assassinio di persone con i droni mentre dormono. Basta controllare la pubblicazione da parte del WaPo di una registrazione del Mossad in cui l’agente minaccia di uccidere “moglie e figli” di un generale iraniano se non si adegua; questa è l’etica principale di Israele.
3. La vittoria dell’Iran incoraggerà i movimenti di resistenza in tutto il mondo. Questo perché, per una volta, non solo Israele è stato fatto apparire veramente vulnerabile, ma gli Stati Uniti al suo fianco sono apparsi senza spina dorsale e, in ultima analisi, deboli con i loro colpi di scena palesemente fasulli. Gli Houthi, la Cina e altri stavano osservando e non ne sono rimasti impressionati.
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La Guerra dei Dodici Giorni “Piovono Messaggi “- Gianfranco Campa Semovigo e Germinario
In questa puntata parleremo dei retroscena da dagli USA e di come Trump abbia ripreso parzialmente in mano la situazione sia per i malumori di Maga che forse per mera strategia .
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La data in cui il “sistema profondo “ha iniziato a prendere di mira Tulsi Gabbard , il primo capo dell’intelligence degli Stati Uniti ad essere esclusa dalla war room nella storia degli States.
Una relazione istituzionale storicamente inedita che farà discutere Parliamoci chiaro , senza ipocrisia , conservando eticamente l’onestà intellettuale necessaria , queste trascrizioni ufficiali dimostrano come siamo di fronte a un piano strutturato di attacco politico a più livelli , organizzato per , prima minare la credibilità e l’autorevolezza della candidata a gennaio, attraverso i media e lo stillicidio degli audit al congresso . Dalla data riscontrabile sulla slide (05-06-25)
emerge gli atti della commissione , la volontà politica del “Sistemone” di fare tutto il possibile perché #TulsiGabbard venga rimossa . Quello che abbiamo visto nella “tarantella” tra la Direttrice della CIA e Donald Trump è emblematico , a tratti decisamente surreale , ma rielaborato con categorie spietatamente realiste , oggi ,dopo gli altrettanto onirici attacchi USA ai tre siti nucleari iraniani, forse è consigliabile , sopprimendo il tifoso che alberga nei nostri istinti più bassi, riavvolgere il nastro e osservare quello che lì per lì, concentrati su altro , potrebbe esserci sfuggito . Shock spartiacque , quando tutto sembrava condannare l’esperienza Maga a una sconfitta , è arrivata la Conferenza stampa di #DonaldTrump. Il cessate il fuoco inaspettato , ha però, svelato come la crescente complementarietà sistemica delle tecnologie predittive sia oltre lo stato di test e operativamente già integrato on board , sia nelle Pre-Visioni delle simulazioni politiche e sociali, quanto nei meandri endemicamente esponenziali delle Simulazioni Geostrategiche. Per chi conosce certe dinamiche quantum-predittive ( leggete il nostro articolo qui su #X a proposito di Panantir ) , ha avuto il merito , di far emergere dalla superficie , separandola dalla schiuma opaca della sedicente “ contro informazione” il miserabile ammasso contraddizione , sarebbe dunque costruttivo uno stop analitico e molta cautela . La tempistica surreale e grottesca del Ping Pong mediatico tra un presidente irriconoscibile e la Gabbard , ricomparsa fuori tempo massimo per puntualizzare le sue stesse dichiarazioni , sono forti indizi di un escalation senza compromessi tra la corrente MAGA e il brodo primordiale NeoDem-Turbocon. Qui sotto il documento
Il documento della commissione per i servizi e sicurezza nazionale Il primo firmatario Gerald Connolly
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Ieri l’Iran si è vendicato degli “attacchi” statunitensi alle sue strutture nucleari, completando l’atto del teatro coreografico a cui abbiamo assistito. Ha lanciato l’operazione Basharat al-Fath (بشارت الفتح), che secondo quanto riferito significa “lieta novella della vittoria”, o “buona novella della conquista” se si chiede a Google, colpendo la base statunitense di Al Udaid in Qatar.
L’Iran afferma di aver utilizzato contro Al-Udeid una quantità di missili pari a quella delle bombe sganciate dagli Stati Uniti su Fordow (14).
Gli Stati Uniti sostengono che tutto è stato intercettato e, naturalmente, anche in questo caso è stato rivelato che l’intero atto è stato “concordato” tra le due parti.
In seguito, Trump ha risposto in un modo che indicava che gli andava bene lasciare che l’Iran si sfogasse un po’, al fine di concludere il percorso di uscita per tutte le parti coinvolte:
L’ultima volta che ho scritto dell’idea che il colpo a Fordow sia stato effettuato tramite una stretta di mano segreta sul canale posteriore, alcuni erano scettici. Ma ecco il video “pistola fumante” che dimostra esattamente come questo lavoro viene svolto dietro le quinte: si riferisce agli attacchi precedenti durante il primo mandato di Trump, che erano una rappresaglia per l’attacco a Soleimani, ma è ovviamente più che rilevante oggi. Osservate con attenzione:
Trump non solo spiega come l’Iran lo abbia chiamato per notificare gli attacchi, ma la sua disinvolta simpatia per questa pratica implica chiaramente la sua normalità da entrambe le parti. Insomma, capisce come funzionano queste dinamiche, ed è più che plausibile che gli stessi Stati Uniti abbiano usato la stessa cortesia per avvisare l’Iran. Il modo e la velocità con cui la “pace” è stata conclusa attesta ulteriormente la natura coreografica delle azioni dietro le quinte, poiché ogni partecipante ha svolto il proprio ruolo in modo efficiente.
Come detto, la prossima grande notizia è che le nostre previsioni erano esatte sulla ricerca da parte di Israele di un’immediata uscita dal conflitto, poiché oggi è stata finalmente conclusa una pace “trionfale”.
Le ragioni erano ovvie, come suggeriscono i titoli degli articoli precedenti: Israele è stato messo sotto scacco, la sua economia è stata devastata, il suo porto e i suoi aeroporti più importanti sono stati chiusi e, secondo alcune fonti, le sue scorte di carburante e di munizioni si sono ridotte. A parte la “superiorità” tecnica, l’Iran è un Paese di oltre 90 milioni di persone (per l’eterno dispiacere di Ted Cruz), e i 9 milioni di Israele difficilmente sarebbero in grado di condurre una guerra di logoramento contro di esso, con o senza l’aiuto degli Stati Uniti.
Gli attacchi iraniani cominciavano a sommarsi, devastando i quartieri israeliani e mettendo i cittadini contro il loro governo. Questo è uno degli ultimi colpi registrati su Beersheba:
Inoltre, l’Iran ha iniziato a distruggere i droni pesanti di Israele. Un altro lotto di diversi UCAV pesanti Hermes (droni con capacità di combattimento, piuttosto che di sorveglianza) è stato abbattuto negli ultimi due giorni:
Oltre ad altri tipi:
Anche se le informazioni sono scarse su quanti UCAV pesanti abbia in totale Israele, wiki elenca uno dei suoi modelli di punta, lo IAI Eitan, come segue:
Se i numeri sono simili per gli altri modelli come Heron ed Hermes, allora Israele potrebbe avere solo un totale di 30-45 UCAV pesanti – con circa 5-10 di essi abbattuti in questo breve conflitto, senza contare molti altri di medie dimensioni. Il fatto che Israele sembri affidarsi principalmente agli UCAV per colpire gli obiettivi militari iraniani significa che l’abbattimento di questi veicoli sostanzialmente annullerebbe le capacità offensive di Israele all’interno dell’Iran. Inoltre, sarebbe potenzialmente necessario rischiare che veri e propri aerei da combattimento si spingano più in profondità in Iran e vengano abbattuti.
Quindi, Israele stava lentamente perdendo la capacità di infliggere danni e, cosa più importante, rapidamente perdendo la capacità di riflettere i danni dei missili balistici iraniani. Pertanto, una rapida dichiarazione di “vittoria” era necessaria per chiudere la faccenda prima che l’umiliazione diventasse troppo palpabile per la popolazione generale.
Ma fino a che punto si spinge l’inganno, esattamente? La squadra di Trump continua a sostenere con veemenza che gli impianti iraniani sono stati “completamente cancellati”, assicurandosi in particolare di non lasciare la questione a ipotesi o a “conclusioni aperte” in alcun modo.
Un post molto presidenziale.
Ma si moltiplicano le prove che le capacità nucleari dell’Iran non sono state intaccate, o che hanno subito un ritardo di pochi mesi al massimo. Anche i 400 kg di “uranio arricchito” sono scomparsi, e l’Iran non ha più alcun incentivo a comunicare a nessuno dove si trovino, per evitare di essere nuovamente colpito penalmente.
In realtà, una vera e propria fuga di notizie dell’intelligence statunitense ha dichiarato apertamente che i siti non sono stati affatto danneggiati e che persino le centrifughe di Fordow sono rimaste totalmente intatte:
La Casa Bianca ha persino ammesso che si trattava di informazioni classificate dalla comunità di intelligence, ma che erano semplicemente “sbagliate”.
Inoltre, il rappresentante del programma nucleare iraniano ha dichiarato che il programma non si fermerà e continua ad essere in corso.
L’aspetto più interessante è la posizione di Trump in questo gioco. Si scopre che forse è riuscito a salvare la sua presidenza, almeno per ora, e che potrebbe aver agito in un ruolo sovversivo di “patriota”, nella misura in cui ha fatto il possibile per estromettere gli Stati Uniti dal conflitto attraverso attacchi show, mentre improvvisamente ha castigato Israele.
Inoltre, ora afferma di non cercare più un cambiamento di regime, anche se sembra sottintendere che non permetterà all’Iran di avere un programma nucleare civile, indicando ancora una volta le loro copiose riserve di petrolio, come aveva fatto l’ultima volta:
Trump non vuole più un cambio di potere in Iran perché non vuole vedere “il caos” – CNN
“Sai, gli iraniani sono ottimi commercianti, ottimi uomini d’affari, e hanno molto petrolio. Dovrebbero essere a posto. Dovrebbero essere in grado di riprendersi e fare un buon lavoro. Non avranno mai il nucleare, ma a parte questo, dovrebbero fare un ottimo lavoro”, ha detto il Presidente degli Stati Uniti.
Allo stesso tempo, ha mostrato “pietà” nel non colpire i reattori nucleari iraniani – anche se potrebbe essere più realisticamente caratterizzato come “sanità mentale”:
L’esercito statunitense, nell’attaccare il centro nucleare di Isfahan in Iran, non ha deliberatamente colpito gli edifici con i reattori di ricerca, – Bloomberg.
L’agenzia lo riferisce facendo riferimento a immagini satellitari e a quattro fonti di alto livello a Vienna.
I tre reattori del centro di Isfahan, compreso un reattore a neutroni in miniatura di fabbricazione cinese del 1991, che funziona con 900 grammi di uranio per armi, sono rimasti intatti dopo gli attacchi aerei.
I loro edifici, sotto la supervisione della salvaguardia dell’AIEA, sono sopravvissuti, mentre la maggior parte dei grandi edifici industriali circostanti sono stati distrutti.
RVvoenkor
L’altra cosa importante è che, mentre gli Stati Uniti si vantano di aver trionfato, in realtà il fuoripista potrebbe aver risparmiato agli Stati Uniti anche una futura umiliazione. I rari GBU-57 bunker buster utilizzati contro i siti iraniani secondo il WSJ sarebbero solo 20 in totale, il che significa che i 14 sganciati sull’Iran rappresentavano il 70% dell’intero arsenale statunitense di quest’arma altamente unica.
Se fosse vero, ciò significa che gli Stati Uniti hanno essenzialmente perso la capacità di danneggiare in modo significativo i siti sotterranei iraniani dopo questo attacco – che fosse “falso” o meno. Certo, gli Stati Uniti potrebbero lentamente produrne altri, ma se 20 rappresentano l’intero arsenale, possiamo solo supporre che il loro tasso di produzione sia glaciale. Per non parlare del fatto che la prossima volta l’Iran potrebbe non essere così “d’accordo” nello stendere il tappeto di benvenuto per lo squadrone di B-2A.
Vediamo ora alcuni fatti fondamentali del conflitto:
1. Fino alla fine, non è rimasto uno straccio di prova che gli aerei israeliani (o americani, se è per questo) abbiano mai sorvolato l’Iran in modo significativo in qualsiasi momento. Le affermazioni di “superiorità aerea totale” non hanno fondamento, e fino all’ultimo giorno Israele ha continuato a fare affidamento sui suoi UCAV pesanti per colpire gli obiettivi terrestri iraniani.
La prova più significativa è che Israele ha pubblicato apertamente i filmati dei suoi attacchi: come mai non un solo spezzone di questi filmati mostrava attacchi da parte di cacciabombardieri? Tutti i filmati provenivano da un UCAV, il che è indicativo.
Solo una clip rilasciata ieri mostrava quello che si diceva essere un jet che di notte sorvolava una città iraniana e conduceva attacchi, ma dopo una ricerca ho scoperto che la città era Bander Abbas:
È una sorpresa che l’unico filmato esistente di una possibile incursione aerea sia su una città costiera letterale?
In secondo luogo, le cisterne sganciate dagli aerei israeliani sono state registrate mentre venivano lavate sulle coste iraniane più settentrionali del Caspio:
Cosa dimostra questo?
Che gli attacchi israeliani su Teheran provengono dal Caspio, smentendo la frode della “superiorità aerea totale”.
2. Il secondo grande risultato:
È ormai chiaro che Israele si è affidato a un modus operandi favorito negli ultimi tre conflitti. Israele ha perso contro Hamas, ha perso contro Hezbollah e ha perso contro l’Iran. Ogni volta, la sua strategia per salvare la faccia è stata quella di “decapitare la leadership”, in particolare le personalità più note come Nasrallah e altri, e fingere che questo fosse in qualche modo un colpo vincente.
In realtà, ogni volta non ha fatto nulla. Israele ha comunque perso la battaglia sul campo – o in aria, per così dire – contro l’Iran. L’esercito putrido di Israele si è dimostrato incapace di vincere conflitti reali e ha dovuto affidarsi interamente alle vittorie di pubbliche relazioni e alla banca americana per finanziare vari piani di sabotaggio ed estorsione contro figure politiche e militari nemiche.
Pensateci: tra dieci o vent’anni, cosa si ricorderà di oggi, i nomi di alcuni “generali iraniani” a caso che Israele ha “magistralmente ucciso” con vili attacchi furtivi, o il fatto che le città israeliane sono bruciate per la prima volta, che Israele non è riuscito a disinnescare il programma nucleare iraniano e che ha fallito in ogni altro obiettivo importante che aveva, compreso il cambio di regime?
Il fatto è che Israele ha subito un’umiliazione che ha distrutto per sempre la sua mistica e la sua reputazione di “potenza militare”. L’Iran può ora imparare dai suoi errori, ricostruire i pochi lanciatori e sistemi AD che ha perso e potenzialmente firmare nuovi patti con Russia-Cina che possono espandere le sue capacità di difesa.
È interessante, tuttavia, che l’aeronautica iraniana non sembra aver partecipato affatto: alcuni esperti suggeriscono che l’Iran abbia probabilmente trasferito l’intera aeronautica nell’estremo est del Paese e l’abbia semplicemente tenuta lontana dai pericoli per tutto il tempo. Dato che anche l’aviazione di Israele non si è fatta vedere sopra il Paese, si suppone che non sia stata una manovra del tutto sbagliata.
Infatti, l’Iran ha magistralmente conservato i suoi limiti e sfruttato i suoi maggiori vantaggi durante questo conflitto, limitando così i danni subiti. Peccato che non sapremo mai la verità sulle capacità missilistiche dell’Iran, dato che Israele ha iniziato a proteggere fanaticamente qualsiasi rapporto sui danni “sensibili” degli attacchi sul suo territorio. Ma data la rapidità inusuale con cui Israele ha accettato l’offerta di cessate il fuoco, la logica impone che i danni inflitti dall’Iran siano stati significativi e insostenibili.
In breve, l’unica cosa in cui Israele ha dimostrato di eccellere è l’omicidio di civili e l’assassinio di persone con i droni mentre dormono. Basta controllare la pubblicazione da parte del WaPo di una registrazione del Mossad in cui l’agente minaccia di uccidere “moglie e figli” di un generale iraniano se non si adegua; questo è ciò che fa Israele.
3. La vittoria dell’Iran incoraggerà i movimenti di resistenza in tutto il mondo. Questo perché, per una volta, non solo Israele è stato fatto apparire veramente vulnerabile, ma gli Stati Uniti, al suo fianco, sono apparsi senza spina dorsale e, in ultima analisi, deboli, con i loro scioperi palesemente finti. Gli Houthi, la Cina e altri hanno osservato e non sono rimasti impressionati.
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Il partito repubblicano è diventato il partito della guerra (o lo è sempre stato)? Controlla le spaccature.
Da Reuters:
L’indice di gradimento di Trump è sceso al 41%, il più basso di questo mandato, secondo Reuters.
Un’ampia maggioranza di americani teme inoltre che il conflitto con l’Iran possa andare fuori controllo dopo il recente ordine di Trump di bombardare i siti nucleari iraniani.
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Infine, nessuno è così sciocco da credere che questo conflitto sia congelato per sempre. Certo, potrebbe scoppiare di nuovo nel giro di pochi mesi – o anche molto prima – soprattutto ora che i portavoce dell’establishment affermano che il programma nucleare iraniano è stato ritardato solo “di qualche mese”. Questo sta chiaramente preparando il terreno per un conveniente ritorno alle ostilità quando il regime del terrorista polacco Mileikowski avrà bisogno di un’altra rapida distrazione dal genocidio dei palestinesi in corso.
Ma se dovesse scoppiare di nuovo, l’Iran avrà probabilmente guadagnato una misura di deterrenza, dato che ha dimostrato la sua capacità di distruggere impunemente le città israeliane e ha messo in luce la mancanza di volontà degli Stati Uniti di difendere il loro protettorato di Israele. Pertanto, la prossima volta l’Iran potrebbe essere motivato a spingersi ancora più in là nel devastare Israele, in particolare dopo aver “messo a punto” i suoi sistemi missilistici dall’attuale analisi del conflitto.
Bisognerà vedere quali ripercussioni a lungo termine potrà avere Israele a causa della sua disavventura, in particolare la distruzione di molte infrastrutture nel suo porto chiave di Haifa. Alcuni sostengono quanto segue:
Il sogno di Israele di un corridoio di transito nel Mediterraneo si è infranto.
Gli attacchi iraniani con razzi e droni su Haifa hanno inferto un colpo senza precedenti alle infrastrutture vitali del regime israeliano, escludendo di fatto questo porto strategico dal commercio internazionale.
L’ambizioso progetto del Corridoio Arabo-Mediterraneo (IMEC), che mirava a trasformare il porto di Haifa in un hub di transito tra Asia, Europa e Africa, è completamente fallito a causa degli attacchi alle infrastrutture di Haifa da parte dell’Iran.
Il progetto sostenuto dagli Stati Uniti, che coinvolgeva Paesi come l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e l’India, è ora diventato un sogno irrealizzabile sulla scrivania di Netanyahu.
Tra l’altro, come altro chiodo nella falsa “guerra ombra” di Israele, il generale iraniano della forza Quds Ismail Qaani, che si diceva fosse stato “ucciso” dagli attacchi israeliani, è miracolosamente riapparso durante le celebrazioni della vittoria oggi a Teheran:
Quante altre bugie israeliane saranno districate nel tempo?
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La decisione dell’amministrazione Trump di sganciare bombe sui siti nucleari iraniani sembra essere un esercizio per cercare di avere la botte piena e la moglie ubriaca, un atteggiamento che in generale sostengo di cuore, purché non porti ad assurdità palesemente insostenibili. Spero che l’analisi dell’amministrazione, secondo la quale questo può essere un episodio isolato e gli iraniani torneranno al tavolo dei negoziati, sia corretta, anche se ho delle riserve, come documentato. Il cessate il fuoco annunciato da Trump lunedì sera è promettente, ma è stato un anno negativo per i cessate il fuoco.
Esaminiamo i possibili aspetti negativi senza l’istrionismo che alcuni dei miei compagni di viaggio si sono concessi. In primo luogo, i danni effettivi al programma nucleare iraniano restano poco chiari; una delle difficoltà che abbiamo incontrato fin dall’inizio è stata quella di non poter confermare la distruzione di questi siti senza che qualcuno sul posto potesse verificarlo. Come fare è una bella domanda, dato che le nostre capacità HUMINT, come quelle di molti Paesi occidentali (Israele è un po’ un’eccezione, ma non del tutto), sono in grave declino da decenni. Lo stesso vicepresidente afferma che non sappiamo dove si trovi l’uranio arricchito degli iraniani;
Quindi, ulteriori attacchi o una sorta di operazioni di terra limitate non sono ancora fuori discussione, anche sulla base della premessa che tutto questo riguardi solo la fine del programma nucleare. Gli stessi rischi che hanno accompagnato gli attacchi iniziali saranno presenti nelle nuove azioni, e con maggiore forza, dato che il regime iraniano è costretto a dare l’impressione di fare qualcosa in risposta. I risultati dell’attacco una tantum potrebbero di per sé offrire il tipo di giustificazione aperta per un maggiore coinvolgimento che sarebbe bello evitare. Ciò fornirà molto materiale per il mulino di coloro che sono ideologicamente inclini a ulteriori azioni, una folla che è stata presente in forze.
Il secondo motivo di preoccupazione è l’effetto che l’attacco avrà sulla credibilità diplomatica degli Stati Uniti, che significa “nessuno prenderà sul serio quello che diciamo”. Se si accetta l’affermazione dell’amministrazione che era d’accordo con gli attacchi iniziali israeliani anche mentre stava organizzando un incontro con i negoziatori iraniani il fine settimana successivo, nessuna potenza straniera crederà che gli Stati Uniti si stiano impegnando nella diplomazia in buona fede. Se si pensa che queste affermazioni siano state un’operazione di CYA, come questo autore è propenso a fare, significa che gli Stati Uniti non sono in grado di controllare i loro clienti indisciplinati e i loro alleati minori. (Tanto più che ci sono stati due episodi del genere in altrettanti mesi: l’attacco ucraino alla flotta di bombardieri strategici della Russia ha esposto gli Stati Uniti a critiche simili). Gli Stati Uniti cominciano a sembrare inaffidabili e inaffidabili come partner negoziale. In un periodo di sovraestensione militare, si sperava che si potesse ottenere di più con la diplomazia che con il potere duro.
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Queste due preoccupazioni alimentano la terza: Qual è il piano del giorno dopo? Il bombardamento di Osirak da parte di Israele nel 1981 non ha di fatto messo fine ai programmi di armi di distruzione di massa di Saddam Hussein; lo smantellamento è avvenuto solo con la Guerra del Golfo e il programma di monitoraggio delle Nazioni Unite attuato in seguito. Una sorta di programma di monitoraggio sarà necessario, con le buone o con le cattive. Non è scontato che gli iraniani siano ora più disponibili a tale monitoraggio; sembra anche più probabile che cercheranno di imbrogliare su tale programma. (Una delle lezioni alle potenze piccole e medie di questa settimana: Se pensate di avere una possibilità di avere una bomba, prendetela). Se si pensa che gli iraniani tradiranno comunque qualsiasi accordo stipulato, questo potrebbe non essere un argomento convincente, ma ciò solleva la questione del motivo per cui stavamo cercando di stipulare un accordo, e se esiste una soluzione stabile a meno di un cambio di regime con la forza, che la maggior parte delle persone a questo punto non vuole. Dividere la differenza con un approccio a medio termine di “taglio dell’erba” ha i suoi rischi e smentisce l’argomentazione secondo cui si è trattato di un caso isolato.
Non c’è da stupirsi che la retorica dell’amministrazione sia stata un po’ ovunque. I commenti del Presidente sul “CAMBIAMENTO DI REGIME” e sulla “MIGA” sono senza dubbio un colpo di coda diretto ai più importanti critici dell’attentato, ma non sono comunque molto confortanti. La portavoce del Dipartimento di Stato che dice che gli Stati Uniti sono la seconda nazione più grande sulla terra dopo Israele può essere uno sforzo per imbruttire gli israeliani e farli andare avanti da soli, ma non è una bella frase per l’amministrazione “America First”. Il commento di Vance a Meet the Press della NBC: “Non siamo in guerra con l’Iran. Siamo in guerra con il programma nucleare iraniano” – è una divertente casistica di cui seguiremo i progressi con grande interesse. “Non siamo in guerra con l’Iran, siamo in guerra con il suo esercito”; “non stiamo sganciando una bomba atomica sull’Iran, la stiamo sganciando sul suo governo a Teheran”; “non ti sto pugnalando con una bottiglia di birra rotta, sto pugnalando la tua milza”; questa linea retorica si presta a interessanti ma poco convincenti espansioni future.
Mi sbilancio e dico che questa è cattiva politica. Un messaggio poco chiaro su ciò che stiamo facendo – anzi, un messaggio poco chiaro sul fatto che siamo in guerra o meno – non tende a piacere all’opinione pubblica. I sondaggi su questi temi sono difficili, ma sembra che il Paese sia ampiamente positivo sugli scioperi e negativo sul futuro coinvolgimento. Sia per ridurre gli inviti a futuri coinvolgimenti all’estero, sia per consolidare il capitale politico in patria, sembra che la strada migliore sia quella di dichiarare la vittoria e ridurre la nostra esposizione nella regione. Il lato positivo è che abbiamo di fatto frenato il programma nucleare iraniano; cerchiamo di evitare i lati negativi.
L’autore
Jude Russo
Jude Russo è redattore capo di The American Conservative e collaboratore del The New York Sun. È un James Madison Fellow 2024-25 presso l’Hillsdale College ed è stato nominato uno dei Top 20 Under 30 dell’ISI per il 2024.
La guerra non è finita
Israele e Iran hanno concordato un cessate il fuoco. Non durerà.
Ieri sera il Presidente Donald Trump ha annunciato un “CEASEFIRE completo e totale” tra Israele e Iran. Trump sembrava esuberante. “Questa è la fine della guerra”, ha detto a Barak Ravid di Axios. “È una cosa grande e meravigliosa per Israele e per il mondo”. Alla domanda su quanto durerà il cessate il fuoco, Trump ha detto a NBC News: “Penso che il cessate il fuoco sia illimitato. Andrà avanti per sempre”.
L’eternità è un tempo molto lungo, ma il cessate il fuoco, dopo un inizio difficile, sembra stia prendendo piede alle 7 del mattino, ora di New York.
Sempre lunedì, Washington e Teheran hanno assicurato l’un l’altro che il loro recente scambio di titoli non sarebbe proseguito in un secondo round. Gli Stati Uniti hanno attaccato tre siti nucleari iraniani sabato sera e l’Iran ha risposto lunedì con missili balistici che hanno colpito un’installazione militare statunitense in Qatar. Nessun americano è stato ferito e Trump sembrava contento di lasciar perdere.
Tutto questo rappresenta una svolta positiva. Ma non fatevi illusioni: Questa guerra non è finita.
A maggio avevo previsto che gli Stati Uniti avrebbero attaccato l’Iran, piuttosto che trovare un accordo che limitasse l’arricchimento dell’uranio per il combustibile nucleare. Sebbene Trump sembrasse sinceramente intenzionato a raggiungere un accordo di questo tipo, ho pensato che Israele avrebbe fatto di tutto per sabotare la diplomazia;
“Quello che immagino è che Israele conduca degli attacchi e poi noi veniamo trascinati in guerra a loro sostegno”, ho detto in un episodio di TAC Right Now. “Loro [Israele] non possono abbattere questi reattori nucleari sotterranei da soli; hanno bisogno di bunker busters per questo, bunker busters da 30.000 libbre che richiedono bombardieri stealth B-2 Spirit”. Gli Stati Uniti, e non Israele, possiedono quei bunker-busters e i B-2 Spirit, e mi aspettavo che gli Stati Uniti li usassero a favore di Israele.
Questo fine settimana, quella previsione si è avverata. Sebbene l’intervento dell’America sembri ormai un caso isolato e Israele e l’Iran abbiano concordato un cessate il fuoco, le stesse dinamiche che il mese scorso mi avevano reso così pessimista sono ancora in gioco.
Uno dei motivi per cui un accordo con l’Iran sembra impraticabile – e il conflitto inevitabile – è che l’amministrazione Trump ha inasprito le sue richieste sul nucleare, insistendo su un divieto totale, piuttosto che su limiti, all’arricchimento interno dell’uranio da parte dell’Iran. Questo non è un punto di partenza per Teheran, che sostiene di avere il diritto sovrano, ai sensi del Trattato di non proliferazione, di arricchire l’uranio per scopi pacifici;
Il mancato raggiungimento di un accordo nucleare con l’Iran non deve essere un casus belli, ma Trump ha ripetutamente affermato che l’alternativa a un accordo è la guerra. Dal momento che l’atto di guerra dell’America di questo fine settimana non ha effettivamente “cancellato” il programma nucleare iraniano, come sostenuto, e dal momento che un accordo non sembra imminente, non possiamo certo essere certi che la pace durerà.
Un’altra dinamica chiave è ancora più importante: Israele vede Teheran come il boss finale nella sua ricerca di egemonia regionale, e il suo sforzo bellico nelle ultime due settimane non è riuscito a disinnescare completamente l’esercito iraniano o a decapitare la sua leadership civile. Israele esercita una profonda influenza negli Stati Uniti, anche sull’amministrazione Trump, e cercherà opportunità per spingere Washington alla guerra per eliminare la Repubblica Islamica.
Per ora, Israele sembra accontentarsi di una pausa, se non altro per rifornirsi di intercettori di difesa aerea in grado di abbattere i missili balistici iraniani. Ma la profonda ostilità di Israele nei confronti dell’Iran rimane;
Considerate come i più importanti sostenitori di Israele in America hanno reagito ieri sera all’annuncio di Trump. “Non esistono cessate il fuoco infiniti”, ha detto Mark Dubowitz della Foundation for Defense of Democracies. “Solo una pace permanente con l’Iran quando la Repubblica islamica non ci sarà più”. Il conduttore di Fox News Mark Levin ha aggiunto altro colore: “Odio questa parola ‘cessate il fuoco’… Ad Adolf Hitler non è stata lanciata un’ancora di salvezza”.
Oltre a queste dinamiche preesistenti, c’è un motivo in più per aspettarsi un nuovo scoppio di una guerra calda: Teheran semplicemente non può fidarsi degli Stati Uniti (o di Israele) dopo gli eventi delle ultime due settimane. Giorni prima dei previsti colloqui tra Washington e Teheran, Trump sembra aver dato il via libera all’attacco israeliano a sorpresa contro l’Iran che ha dato il via alla guerra all’inizio del mese. Alcuni rapporti hanno persino affermato che la diplomazia statunitense con l’Iran è stata uno stratagemma, una campagna di inganni creata per cullare Teheran in un falso senso di sicurezza.
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Con l’intensificarsi della guerra tra Israele e Iran, Trump ha compiuto una serie di mosse provocatorie che hanno indubbiamente infiammato l’antipatia di Teheran nei confronti degli Stati Uniti. Il presidente ha minacciato di uccidere il leader supremo iraniano; ha invitato tutti i residenti di Teheran (più popolosa di New York) a “evacuare immediatamente”; ha usato la parola “noi” quando ha descritto le operazioni militari israeliane in Iran; e ha appoggiato il cambio di regime in Iran.
Trump potrebbe davvero ancora sperare di raggiungere un accordo sul nucleare iraniano. Teheran, da parte sua, ha accettato di tornare a negoziare con Washington se Israele avesse cessato il fuoco. Ma in futuro, le aperture diplomatiche di Trump verso l’Iran incontreranno un estremo scetticismo. Per quanto riguarda la visione di Teheran su Israele: La Repubblica islamica, nel prossimo futuro, considererà Israele come un’urgente minaccia esistenziale.
Ogni americano amante della pace dovrebbe accogliere con favore il cessate il fuoco, ma a meno che le dinamiche sottostanti non cambino, nessuno dovrebbe presumere che sia stato raggiunto un equilibrio stabile. Restate sintonizzati.
L’autore
Andrew Day
Andrew Day è redattore senior di The American Conservative. Ha conseguito un dottorato di ricerca in scienze politiche presso la Northwestern University. È possibile seguirlo su X @AKDay89.
Gli Stati Uniti si stanno dirigendo verso una guerra su larga scala con l’Iran.
La decisione di Trump di unirsi alla guerra di Israele contro l’Iran colpendo gli impianti nucleari iraniani di Natanz, Fordow e Isfahan rischia di far deragliare ogni possibilità di risoluzione diplomatica del programma nucleare iraniano e di dare inizio a una guerra su scala regionale, con gli Stati Uniti in testa. È probabile che le pressioni su Trump per ulteriori attacchi aumentino a causa delle ritorsioni iraniane e degli sforzi dei falchi a Washington e in Israele per spingere il presidente ad abbracciare un cambio di regime a Teheran;
Un’ulteriore escalation dovrebbe essere evitata a tutti i costi.
Continuare su questa strada non è l’America prima di tutto. È l’America ultima. L’attuale strategia di Trump si distacca dagli obiettivi politici che si prefigge. Mette gli Stati Uniti sulla strada della guerra, non della pace. Per evitare un’altra catastrofe in Medio Oriente, Trump dovrebbe prepararsi a una ritorsione iraniana, rinunciando a un’ulteriore azione militare statunitense, porre fine al sostegno americano all’offensiva a tempo indeterminato di Israele contro l’Iran e orientarsi immediatamente verso il tentativo di rilanciare i negoziati con Teheran.
Prima che Israele iniziasse questa guerra, gli Stati Uniti e l’Iran erano impegnati in negoziati per cercare di risolvere la questione nucleare attraverso la diplomazia. Trump ha resistito alle pressioni israeliane per un attacco militare all’Iran, procedendo invece con i negoziati. Ma Trump ha ceduto alle pressioni di Israele e dei falchi di Washington, prima dando il via libera agli attacchi israeliani contro l’Iran e poi unendosi alla guerra autorizzando gli attacchi contro tre impianti nucleari iraniani.
Prima degli attacchi, Trump ha ripetutamente insistito sul fatto che l’Iran fosse a poche settimane – al massimo mesi – dall’avere un’arma nucleare. Questo nonostante la conferma da parte dell’intelligence statunitense che l’Iran non sta attualmente sviluppando un’arma nucleare e il rifiuto delle affermazioni israeliane che hanno preceduto gli attacchi di Israele. Trump ha affermato che gli attacchi americani hanno “completamente e totalmente cancellato” i siti di arricchimento primario dell’Iran. Ha anche affermato che questi attacchi sono stati un’operazione unica e non mirano a un cambio di regime, ma poi ha abbinato a questo un post sui social media dicendo: “Se l’attuale regime iraniano non è in grado di rendere l’Iran di nuovo grande, perché non ci dovrebbe essere un cambio di regime?”. Trump ha minacciato altri attacchi se l’Iran non “farà la pace”.
Ma è improbabile che il piano di Trump raggiunga gli obiettivi dichiarati;
Sebbene l’entità dei danni alle strutture prese di mira sia ancora in fase di valutazione, sembra che gli attacchi non abbiano danneggiato in modo significativo né elementi significativi dei materiali nucleari iraniani né le sue infrastrutture di produzione. Paralizzare in modo permanente le strutture nucleari iraniane non è un’operazione unica: distruggerle richiederebbe molte ondate di attacchi, il che significa un’operazione militare statunitense a tempo indeterminato sullo spazio aereo iraniano. Sebbene gli attacchi a singole strutture possano rallentare il programma, non possono eliminarlo in modo permanente; il programma è ampiamente disperso in una pletora di strutture note e probabilmente sconosciute. In effetti, diversi rapporti suggeriscono che Trump abbia dato all’Iran un preavviso e che la maggior parte dell’uranio arricchito stoccato in queste strutture sia stato evacuato prima degli attacchi. I funzionari americani hanno ammesso dopo gli attacchi di non sapere dove si trovino le scorte di uranio dell’Iran. Inoltre, i progressi in termini di ricerca e sviluppo che l’Iran ha compiuto da quando Trump ha eliminato il Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA) non possono essere bombardati. Se l’obiettivo di Trump era quello di distruggere il programma nucleare iraniano al punto da non poter essere ricostruito, questi attacchi non hanno raggiunto lo scopo;
Non è nemmeno probabile che questi attacchi costringano l’Iran a tornare al tavolo dei negoziati o a capitolare su richieste fondamentali come l’arricchimento interno. Anche se una via d’uscita diplomatica esiste ancora e può essere colta, l’Iran quasi certamente non indietreggerà dalle sue richieste nei negoziati. L’aumento della pressione da parte degli Stati Uniti ha storicamente indurito la posizione di Teheran, minando le voci più moderate. Avvertendo che un cambio di regime potrebbe essere all’orizzonte, Teheran potrebbe infatti considerare un’arma nucleare come un deterrente necessario. Se l’obiettivo di Trump era quello di indurre l’Iran a cedere ai negoziati, i suoi attacchi lo hanno probabilmente reso più difficile;
Altri due fattori saranno determinanti per lo sviluppo del conflitto: la risposta dell’Iran e il comportamento di Israele;
Nel migliore dei casi, Teheran risponde con un’azione militare simbolica, simile a quella che ha seguito l’assassinio di Qasem Soleimani da parte degli Stati Uniti nel 2020. L’Iran non ha rifiutato apertamente un ritorno ai negoziati. Nel peggiore dei casi, l’Iran risponde con la forza contro gli interessi americani, provocando a sua volta una risposta energica da parte degli Stati Uniti. L’Iran e i suoi partner potrebbero prendere di mira le truppe americane attualmente sparse in 63 basi in tutto il Medio Oriente, o l’Iran potrebbe vendicarsi prendendo di mira il traffico marittimo attraverso lo Stretto di Hormuz – scenari che potrebbero rapidamente andare fuori controllo. Un’escalation di questo tipo aumenterebbe la pressione su Trump per una risposta militare e probabilmente sarebbe una campana a morto per la diplomazia;
Washington cedendo l’iniziativa a Netanyahu rischia anche di indirizzare Trump in una direzione anatema per gli interessi statunitensi. Gli attacchi di Israele non hanno avuto lo scopo di prevenire una minaccia imminente, ma piuttosto un tentativo deliberato di sabotare la diplomazia americana in corso con l’Iran. Per Netanyahu, il problema principale è il regime iraniano. Per lui, qualsiasi accordo nucleare con Teheran è visto come una forma di appeasement e deve essere contrastato perché bloccherebbe la strada verso il cambio di regime.
Netanyahu ha lanciato il suo attacco con il dubbio pretesto di impedire all’Iran di sviluppare un’arma nucleare, una narrativa che Trump ha ora abbracciato per giustificare gli attacchi. Ma l’ampiezza dell’attacco di Israele dimostra che questo si estende ben oltre la questione nucleare. Si è trattato invece di una salva di apertura di un conflitto che Netanyahu spera possa sfociare in un cambio di regime guidato dagli Stati Uniti, cosa che il primo ministro ha promesso a Washington di perseguire per quasi tre decenni. L’attuale strategia di Trump trascura l’incentivo di Netanyahu a intensificare ulteriormente la guerra e ad attirare gli Stati Uniti più a fondo nel conflitto. Convincere Trump a colpire gli impianti nucleari iraniani è stato il suo modo di trascinare gli Stati Uniti nella guerra come parte attiva;
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Gli Stati Uniti non hanno alcun interesse strategico a facilitare la guerra di Israele contro l’Iran o a entrare in guerra con la Repubblica islamica. Sebbene l’esercito americano stia già assistendo Israele nell’intercettare i droni e i missili lanciati dall’Iran, più a lungo la campagna militare di Israele continuerà, più è probabile che un espansione della guerra o l’aumento dei costi per Israele costringeranno gli Stati Uniti ad aumentare il loro coinvolgimento. Una guerra tra Stati Uniti e Iran sarebbe disastrosa per gli interessi americani e per il Medio Oriente. La dottrina di difesa iraniana è centrata sull’impantanamento degli aspiranti invasori in una prolungata guerra di logoramento. Ciò comporterebbe pesanti perdite statunitensi e drenerebbe gli Stati Uniti di risorse critiche in un momento in cui sono sempre più estesi all’estero. Per il Medio Oriente, una guerra del genere divorerebbe la regione, destabilizzandola politicamente, economicamente e militarmente. I profondi costi umani e materiali affliggerebbero il Medio Oriente per le generazioni a venire.
Non deve essere così. La posizione in cui si trovano gli Stati Uniti è il frutto di una politica mediorientale americana fuori controllo. Decenni di profondo impegno americano nella regione e di pensiero dello status quo hanno prodotto un disastro dopo l’altro. Il problema inizia a Washington: in particolare, l’incapacità bipartisan di riconoscere che i problemi che dobbiamo affrontare in Medio Oriente sono il prodotto della nostra presenza, dei nostri partner e delle nostre politiche nella regione;
Washington è sulla strada per ripetere ancora una volta questi fallimenti;
Informazioni sull’autore
Jon Hoffman
Jon Hoffman è ricercatore in difesa e politica estera presso il Cato Institute. I suoi interessi di ricerca includono la politica estera degli Stati Uniti in Medio Oriente, la geopolitica mediorientale e l’Islam politico.
Da ieri, tutti gli analisti militari seri si sono posti la domanda: il Pentagono ha davvero inviato dei bombardieri B2 per colpire il sito nucleare di Fordow? In effetti, un’indagine approfondita ha rivelato che è proprio così! Si è trattato di un attacco “simbolico”, di cui gli iraniani conoscevano in anticipo i dettagli. Ma per capire cosa è successo, bisogna ripercorrere tutta la storia dell’operazione, dal via libera di Donald Trump alla sua realizzazione, con una gigantesca operazione di messa in scena su scala globale. La domanda è però se la guerra possa essere organizzata come un incontro di wrestling.
Ieri vi ho espresso la mia opinione su una teatralizzazione degli attacchi di Donald Trump all’Iran.
Oggi sappiamo di più sulle condizioni in cui sono avvenuti gli attacchi. La redazione ve lo ha detto stamattina: gli iraniani erano stati avvertiti degli attacchi e della loro posizione!
Ora che le immagini sono emerse, credo che la mia opinione di ieri sera sia confermata: i danni osservati finora non sono compatibili con bombe “bunker-buster” di dimensioni enormi, ma con armi a distanza più leggere che hanno causato solo danni superficiali. Anche gli iraniani erano chiaramente stati ampiamente preavvisati.
Contrariamente a chiunque affermi che non sappiamo come sarà o dovrebbe essere l’impatto di un Massive Ordnance Penetrator, abbiamo in realtà un’idea abbastanza precisa degli effetti che un’arma del genere produce al suolo, perché durante la Seconda Guerra Mondiale furono impiegate armi molto simili: la bomba Grand Slam e la Tallboy (figura 1). La Grand Slam era una bomba penetrante da 10.000 kg con 4.300 kg di esplosivo, mentre la Tallboy era una bomba da 5.400 kg con 2.400 kg di esplosivo. La GBU-57A/B Massive Ordnance Penetrator, invece, è una bomba da 12.300 kg con circa 2.400 kg di esplosivo; si dice pubblicamente che il MOP abbia una penetrazione circa il 50% migliore rispetto alla Grand Slam (60 m contro 40 m di terra), combinata con un esplosivo quasi identico a quello della Tallboy. I suoi effetti al suolo dovrebbero essere abbastanza simili a quelli di entrambe queste armi.
Che effetto hanno avuto sul terreno queste bombe sismiche della Seconda Guerra Mondiale? Beh, hanno lasciato crateri GIGANTESCHI, larghi fino a 40 metri e profondi fino a 25 metri (vedi figura 2, le conseguenze di un attacco con queste armi – certamente nel terreno, ma i loro effetti sul cemento armato sono stati altrettanto spettacolari). Se le MOP fossero state usate in Iran la scorsa notte – in particolare più colpi sparati nello stesso buco – ci aspetteremmo di vedere enormi crateri, i fianchi delle montagne esplosi e frane. Queste non sono armi subdole.
Cosa abbiamo visto in realtà quando il sole è sorto e i soliti satelliti brOSINT-IMINT hanno effettuato i loro sorvoli stamattina? Beh, permettetemi di rimandarvi alla figura 3, che mostra le cicatrici di una bomba di sei metri con un po’ di polvere sollevata sulla cresta sopra Fordow, esattamente quello che ci si aspetterebbe, per esempio, dalla testata da mille libbre di un Tomahawk o di un JASSM. È sufficiente, tuttavia, perché Trump dichiari vittoria e se ne vada.
Inoltre, sembra che gli iraniani fossero stati così ampiamente avvertiti di un attacco imminente – forse tramite canali ufficiali o semi-ufficiali – che non solo hanno evacuato le attrezzature da Fordow (figura 4, che mostra un grosso convoglio di camion avvistato sulla strada esterna prima dell’attacco), ma hanno anche interrato gli ingressi della struttura per mitigare gli effetti di un attacco contro i tunnel di accesso. Per inciso, se gli iraniani avessero effettivamente evacuato centrifughe e altri macchinari critici o persino uranio arricchito da Fordow, gli israeliani avrebbero avuto l’opportunità di colpirli durante il trasporto – un’opportunità che non sembrano essere stati in grado di chiudere, pur essendo probabilmente a conoscenza della situazione, data la portata dell’operazione e il livello di sorveglianza a Fordow. In sintesi, la mia teoria di ieri sera è, credo, confermata. Penso che si sia trattato di un attacco a basso rischio e basso impatto con munizioni autonome che ha avuto un effetto minimo sulle capacità nucleari iraniane, ma che potrebbe aprire un po’ di spazio politico per una de-escalation del conflitto o almeno ridurre la pressione politica su Trump da parte della lobby israeliana affinché faccia qualcosa per salvare Netanyahu.
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Armchair Warlord è lo pseudonimo di un ex ufficiale di artiglieria americano. È uno dei migliori analisti della guerra ucraina! Naturalmente ha seguito la guerra in Iran fin dall’inizio.
Per lui non c’è dubbio, se leggete il suo post, che i buchi lasciati dagli impatti degli attacchi americani a Fordow o negli altri siti colpiti (Natanz, Isfahan) non corrispondono agli impatti delle bombe anti-bunker di cui tutti parlavano da diversi giorni.
Di conseguenza, alcuni analisti stanno addirittura mettendo in dubbio la presenza di bombardieri B2 (in grado di trasportare bombe MOP) sul territorio iraniano nella notte di sabato.
Sabato, tutti coloro che seguono le notizie su Internet e sui social network hanno sentito parlare di bombardieri B2 che attraversavano il Pacifico, si rifornivano regolarmente e si dirigevano verso Guam, Diego Garcia e poi….. l’Iran, secondo persone ben informate (le persone che hanno visto l’uomo che ha visto il caccia che ha visto l’orso….). Nel frattempo, nessuno parlava di bombardieri americani provenienti da ovest e di sottomarini che si mettevano in posizione per sparare i Tomahawk.
Dobbiamo credere che alla fine non c’erano B2 che sorvolavano l’Iran? Ecco la risposta di Simplicius:
La grande domanda è cosa sia realmente accaduto: si è trattato di un attacco interamente simulato, come alcuni suggeriscono? Ricordiamo che non ci sono prove che i B-2 abbiano sorvolato l’Iran, mentre decine di missili Tomahawk sono stati lanciati da un sottomarino della classe Ohio a 400 miglia di distanza. Molti parlano ora della parola d’ordine del giorno, “subsidenza”, causata dalle bombe che distruggono i bunker. Ma non tutti gli esperti (…)
È possibile che i crateri provengano semplicemente dai Tomahawk lanciati dai sottomarini, anche se sembrano abbastanza grandi da provenire da un’arma molto più potente.
La mia opinione personale, tuttavia, è che molto probabilmente è stato raggiunto un accordo segreto affinché i B-2 potessero passare in sicurezza ed effettuare un “attacco dimostrativo” limitato.
Le prove?
In primo luogo, il fatto che si è trattato di un attacco su piccola scala che, anche secondo gli esperti, ha richiesto un numero di MOP (Mass Ordnance Penetrators) molto inferiore al necessario. Il problema è che, poiché metà della flotta operativa di B-2 è stata utilizzata come “diversivo”, l’altra metà (7 B-2) poteva trasportare solo 14 penetratori in totale, che dovevano essere suddivisi tra diverse strutture, tra cui Natanz, oltre a Fordow. Ciò significa che Fordow ha ricevuto solo sei attacchi, molto meno del necessario. Per riceverne di più, i B-2 avrebbero dovuto effettuare numerosi voli o prolungare la campagna, il che avrebbe potuto portare a circostanze impreviste. Annunciando un attacco “simbolico”, Trump ha probabilmente placato l’Iran in modo che non reagisse.
Donald Trump ha ritrovato i riflessi del wrestling
Tutti conosciamo il wrestling, i cui risultati sono tanto più truccati quanto più dimostrano i lottatori. In una vita precedente, Donald Trump organizzava o faceva organizzare incontri tra lottatori. In questo caso, ha chiaramente truccato gli attacchi aerei:
Circolano varie notizie secondo cui, attraverso i soliti canali segreti in Svizzera, l’amministrazione Trump avrebbe sostanzialmente informato l’Iran degli attacchi, lasciando intendere che, fintanto che l’Iran non risponderà, si tratterà di un attacco “una tantum”. Se ciò fosse vero, sarebbe una chiara indicazione che l’accordo segreto proposto richiederebbe all’Iran di lasciare passare gli attacchi statunitensi senza ostacoli e di offrire agli Stati Uniti una via d’uscita onorevole dal conflitto. Questa era una delle possibilità che avevamo previsto qualche giorno fa nel nostro articolo premium, e ora sembra sempre più probabile.
Non è la prima volta che Trump si comporta così: ricordiamo il famigerato attacco Tomahawk del 2017 alla base siriana di Shayrat, annunciato come un colpo mortale “devastante”, che si è rivelato un attacco simbolico di nessuna conseguenza, che ha lasciato qualche buca nel percorso e non ha causato danni reali. Questo è il modo di Trump di alleggerire la pressione dei neoconservatori, una sorta di test di purezza per i suoi consiglieri israeliani.
Questo è molto importante, dal momento che gli iraniani hanno avuto tre giorni di tempo, secondo Simplicius, per puntellare gli accessi ai siti che dovevano essere colpiti e proteggerli relativamente da futuri attacchi.
Aggiungo che gli analisti militari come me sono sempre più convinti che l’Iran stesse spostando l’uranio arricchito in un luogo segreto da diversi mesi.
Si tratta quindi di un’operazione truccata dall’inizio alla fine. E Simplicius conclude
Sono convinto che l’Iran abbia deciso di accettare l’offerta degli Stati Uniti e abbia lasciato passare senza ostacoli il contingente di armi per consentire qualche insignificante attacco “simbolico” a Fordow, sapendo che questo era il prezzo da pagare perché gli Stati Uniti si ritirassero dal conflitto.
Oggi circolano voci secondo cui Israele potrebbe usare questa “porta d’uscita” come pretesto per concludere un nuovo accordo e porre fine alle ostilità, visto che si è esaurito e sta perdendo una guerra di logoramento contro l’Iran.
La guerra non è un incontro di wrestling!
Non ho dubbi che Donald Trump non si sia sentito abbastanza forte contro il governo israeliano e i sostenitori di Israele negli Stati Uniti per rifiutarsi di colpire l’Iran. Dovremo tornare su cosa questo significhi per la situazione americana.
Credo che gli iraniani siano abbastanza strategici da stare al gioco degli americani! D’altra parte, non credo che questo significhi che la guerra tra Iran e Israele possa facilmente diminuire di intensità. Gli iraniani non possono accettare i discorsi di Israele sul cambio di regime, discorsi che sono stati ripresi dallo stesso Donald Trump domenica sera:
Questo lunedì mattina, gli israeliani hanno colpito Fordow, fornendo una smentita a Trump: quindi il lavoro dei bombardieri americani non sarebbe finito? Ma anche in questo caso si tratta di un’esca, in parte, poiché tutti concordano sul fatto che l’uranio arricchito è ora conservato altrove.
Lunedì la guerra tra Israele e Iran è proseguita senza sosta. Tornerò su questo argomento in un prossimo articolo.
Una frase dal grande significato: l’Occidente ha perso ogni credito con il resto del mondo!
Quando dico che l’Occidente ha perso ogni credito nei confronti del resto del mondo, non sto giocando con le parole. Sto descrivendo l’implacabile meccanismo attualmente all’opera. I primi mesi del mandato di Donald Trump hanno finalmente convinto il “Sud globale” che non possiamo più avere fiducia negli attuali detentori del potere in Nord America o in Europa occidentale. Ovviamente, questo preannuncia grandi crisi, e non solo nell’ambito del credito finanziario per un Occidente sovraindebitato. Essere consapevoli della portata della crisi che stiamo attraversando significa anche riscoprire il senso delle “fondamenta”. I popoli del mondo chiedono leader che facciano quello che dicono, ma che dicano anche quello che fanno. Per molto tempo, l’Europa e gli Stati Uniti hanno potuto vantarsi di essere dei punti di riferimento, la fonte stessa di principi con influenza universale. Ora tutto deve essere ricostruito.
Nei miei due precedenti articoli, ho parlato della teatralizzazione degli attacchi all’Iran da parte di Donald Trump e di un ” incontro di wrestling “, quindi truccato. Avrò modo di tornare sul complesso comportamento del presidente americano, che vacilla, non riuscendo a distruggere rapidamente il campo globalista. Ma qui vorrei considerare l’effetto che ha avuto in tutto il mondo il fatto che Donald Trump abbia apparentemente mancato alla parola data due volte: permettendo a Israele di attaccare l’Iran mentre i negoziati di Washington con Teheran erano ancora in corso; e poi, questo fine settimana, colpendo l’Iran anche se aveva detto che si sarebbe dato fino a due settimane per prendere una decisione.
C’è una semplice espressione francese: Un tel a perdu tout crédit! Etimologicamente, il credito è fiducia. Il significato economico del credito viene solo dopo: è perché abbiamo fiducia nella nostra capacità di rimborso che prestiamo denaro. Naturalmente, un creditore può perdere la fiducia nella capacità di rimborso del suo debitore e smettere di prestare.
Se diamo un semplice sguardo al futuro, cosa vediamo? Vediamo Stati Uniti ed Europa occidentale che hanno perso ogni credibilità nelle relazioni internazionali. Mi riferivo a Donald Trump. Ma pensiamo al nostro presidente, Emmanuel Macron, che ha invitato Pavel Durov, fondatore e CEO di Telegram, a cena all’Eliseo, per poi farlo arrestare appena sceso dall’aereo e tenerlo sotto custodia della polizia per diversi giorni. Pensate a uno dei predecessori di Donald Trump, Bill Clinton, che non ha mantenuto la promessa fatta a Mikhail Gorbaciov di non espandere la NATO verso est. Pensate ai pretesti fallaci che hanno portato allo scoppio di ogni guerra americana e della NATO dal 1991.
Qualcuno potrebbe dire: ma l’astuzia fa parte della politica; Machiavelli ce l’ha spiegata. Machiavelli è proprio l’inizio del problema. Mentre l’Europa medievale era stata costruita sulla filosofia politica dell’antichità e sulla sua distinzione tra buon e cattivo governo, Machiavelli spezzò consapevolmente il legame tra politica ed etica – pochi decenni dopo di lui, Lutero spezzò il legame tra fede e ragione. Questo, va sottolineato, spiega perché un Paese di origine protestante come gli Stati Uniti sia così “machiavellico”. Lutero ha dato potere alla ragione e ha reso possibile una “ragion di Stato”, indipendente dal rispetto dei principi fondanti dell’etica universale. Gli americani vivono secondo una dicotomia in cui ” nel Regno di Dio ” -lo stato di diritto è rispettato, ma altrove, nel “Regno di Satana”, tutto è permesso.
Ovviamente, la storia degli ultimi quattro secoli è più complessa del solo momento machiavellico come matrice di ciò che è seguito. Ci sono state potenti controinfluenze. Si pensi, ad esempio, allo straordinario lavoro della Scuola Universitaria di Salamanca, che ha formulato tutte le libertà moderne in un ambiente cattolico. Francisco Suarez ha ripreso e sviluppato il vecchio adagio romano “pacta sunt servanda”: gli accordi presi devono essere rispettati.
Allo stesso modo, guardiamo allo straordinario periodo, dagli anni ’60 agli anni ’80, in cui l’Europa ha agito da moderatore per gli Stati Uniti nella Guerra Fredda e ha creato una fiducia con l’URSS che è stata molto utile per contribuire alla fine della Guerra Fredda.
Siamo perfettamente in grado di riscoprire questi principi fondanti. Ho l’impressione, ad esempio, che l’indignazione negli Stati Uniti, in parte del movimento MAGA, dopo gli attacchi contro l’Iran, derivi dalla sensazione che non abbiamo più il diritto di fare il doppio gioco. I popoli occidentali vogliono leader che dicano ciò che fanno e facciano ciò che dicono.
Ciò di cui stiamo parlando è assolutamente essenziale. La buona fede ha risolto molti conflitti in passato. Nel 1782-83, il governo britannico negoziò e firmò la fine della guerra americana perché tutti in Europa si fidavano della parola del re di Francia, Luigi XVI! Si fidavano di lui! Fu perché mantenne la parola data nelle relazioni internazionali che il generale de Gaulle poté ospitare a Parigi i primi negoziati tra americani e vietnamiti nel 1968.
La questione è fondamentale: non solo perché chi “perde ogni credito” si condanna a non poter più finanziare il proprio debito, ma anche perché non c’è altro modo per ricostruire le nostre democrazie che tornare ai principi fondamentali del diritto romano. In questo caso, ripetiamo: PACTA SUNT SERVANDA!
La Terza Guerra Mondiale si fará : garantisce Alex Karp di Palantir
Il guru di Palantir, che non si limita a prevedere un conflitto globale, fa di più lo spacchetta in pratica con l’accuratezza di chi, nei corridoi del Pentagono, si muove come nel salotto di casa. America contro Russia, Cina e Iran, tutti insieme appassionatamente. Altro che Risiko: chiude l’epoca degli ideali, largo al software che promette la vittoria e pure la pace, se restano abbastanza nemici stesi sul campo.
Karp, con il suo tono da generale-filosofo della Silicon Valley, ci mette davanti all’evidenza: l’Occidente si è fatto sorprendere con le braghe calate, troppo impegnato a chiedersi se la guerra sia una brutta parola, mentre le potenze rivali hanno già acceso i motori dell’intelligenza artificiale e dei droni assassini. Bisogna scrollarsi di dosso i complessi: qui non è più tempo di mani pulite, serve il dito pronto sul mouse. L’AI non serve a scrivere email più in fretta, ma a schiacciare interi eserciti pixel per pixel.
Chi osa evocare la diplomazia viene archiviato tra i “buonisti da brunch”: nel nuovo romanzo geopolitico secondo Palantir, la Silicon Valley deve smettere di fare yoga e iniziare a sfornare armi a ciclo continuo. Etica? Un fastidio vintage. “La nostra software porta morte ai nemici della civiltà,” sussurra Karp con la tranquillità di chi sa che, tanto, la storia la scrivono i vincitori e i suoi sono quelli con più RAM e meno scrupoli.
Morale della favola: mentre le democrazie occidentali si interrogano su consenso, privacy e altre tenerezze, Karp è già all’ultimo capitolo. La pace? Solo dopo un aggiornamento di sistema. Il futuro, quello vero, è una Repubblica Tecnologica dove ogni cittadino è un byte nell’infinita guerra per la supremazia. Altro che ONU, benvenuti nel Nuovo Ordine Mondiale formato cloud. Così la prossima volta impareranno cosa vuol dire essere scortesi con una signora come la Master Of CIA Tulsi Gabbard .