VERSO LA GUERRA CIVILE IL TRAMONTO DELL’IMPERO USA – IV parte, di Gianfranco Campa

qui le parti precedenti: http://italiaeilmondo.com/2020/01/17/verso-la-guerra-civile-il-tramonto-dellimpero-usa_2a-parte-di-gianfranco-campa/

 

VERSO LA GUERRA CIVILE IL TRAMONTO DELL’IMPERO USA 

 

(Quarta e Ultima Parte)

 

 

I NEMICI SI SCHIERANO: LE CITTÀ STATO

 

 

 “Preferisco stare nella mia fattoria piuttosto che essere imperatore del mondo.”

 

String of sporting, music events impact traffic tonight across Bay Area - Mercury News

 

Il traffico è apocalittico! Si avanza di pochi centimetri alla volta, ogni 5 minuti. Sono le 14 e 20 di un martedì qualunque e mentre sono al volante della mia macchina, affogato nella marea di veicoli che mi accerchia, rifletto sul cambiamento che gli ultimi 30 anni hanno portato nella vita quotidiana di chi vive nella Bay Area (la Baia di San Francisco). Lo stesso ponte, nello stesso giorno e alla stessa ora, trenta anni fa riuscivo ad atrraversarlo in meno di dieci minuti; adesso se sono fortunato riesco a farcela in ¾ d’ora. All’epoca le scorribande da un parte all’altra della baia erano, per me che, lavoravo al giornale di San Francisco, prassi quotidiana, ordinaria amministrazione. Infatti fino a quando riuscivo a rientrare alla base prima delle 15:00, di solito la mia auto sulle freeways della baia scivolava piacevolmente, priva di intralci significativi. Ora pur facendo un lavoro diverso e una strada diversa, il traffico è diventato  talmente asfissiante che le corsie libere di una volta giacciono nella mia mente come un pallido ricordo. Qualche settimana fa un articolo di Business Insider sosteneva che il traffico nell’area della baia era aumentato, solo nell’ultimo decennio, dell’84%.

Il mio viaggio nell’ultima frontiera americana è terminato appena qualche giorno fa e già, non ostante il desiderio di rientrare in California dalla mia famiglia, lo stress del traffico, delle torme di auto e persone che mi cingono d’assedio mi porta un senso di soffocamento nel cuore. Con la mente rivivo il mio viaggio nell’America del Redoubt. Non ci sono più le praterie del Dakota, le montagne del Wyoming, le colline della Idaho. Non ci sono più le rade macchine che ogni tanto incrociavo nelle strade deserte in quelle immense praterie. Non ci sono più i cavalli liberi a cavalcare tra terreni incolti e selvaggi; un vero inno alla libertà. Non ci sono più i pascoli con i Bisonti e le Mucche a foraggiare. Non ci sono più i cartelloni pubblicitari che dichiarano amore eterno alle Armi, a Dio e alla Patria. Spariti i Cowboys con la pistola nella fondina attaccata al fianco, alla cintura dei jeans. Il sussurro del vento delle praterie rimane un pallido ricordo rimpiazzato dal rumore dei motori delle macchine e dei camion bloccati sulla freeway.

Mentre pazientemente attendo di avanzare centimetro per centimetro imbottigliato nel traffico, sulla mia destra osservo lo stagliarsi all’orizzonte dei grattacieli di San Francisco. In una giornata limpida come quella di oggi riesco a cogliere in tutta la sua estensione l’area urbana della baia di San Francisco; 8 milioni di persone stipate in una area geografica di appena 18,040 km2.

Il mio viaggio nell’America del Redoubt e dell’ultima frontiera mi ha sbattuto in faccia il contrasto stridente fra l’America dei grandi centri urbani e quella dei grandi spazi immensi; due mondi lontani fra di loro geograficamente, economicamente e culturalmente. Due mondi diversi, agli antipodi nel modo di interpretare la vita, la libertà, ma soprattutto la costituzione americana. Due mondi che hanno sempre fatto fatica a incontrarsi, ma che in questi ultimi anni si sono divaricati tra di loro ancora di più. I centri urbani da un lato; addensamenti di masse umane, un caleidoscopio di razze e culture che convivono sopra, sotto, nei meandri di grattacieli, di periferie e freeways; conglomerati caotici che si avviluppano per centinaia di chilometri senza interruzione. Dall’altro? Praterie, montagne, deserti, colline, laghi, piccoli paesi, spazi immensi, cieli limpidi e profondi. Tutte cose che mettono in risalto le differenze di questi due mondi, ma nonostante tutto un qualcosa li accomuna. Lontano dai grandi centri urbani, si trovano le fattorie e i terreni che producono carne, latte, formaggi; il grano, le verdure, l’acqua, cioè tutto il necessario e l’indispensabile alla vita, alla sopravvivenza dei grandi centri urbani. Due mondi lontani ma allo stesso tempo connessi da un legame esistenziale. Il primo, il mondo urbano, in particolare al secondo. La ribellione che fermenta nell’America dell’ultima frontiera, all’interno dell’America rurale renderà questo rapporto ancora più problematico, ma soprattutto mette a rischio la sopravvivenza stessa dei grandi centri urbani.

Lo scontro segue in apparenza gli schemi del confronto politico. In realtà la divisione fra repubblicani e democratici, fra destra e sinistra, fra i liberali e i conservatori, fra rossi e blu, fra i globalisti e i nazionalisti patriottici, fra lo stato ombra e lo stato costituzionale, fra Wall Street e Main Street è in realtà solo un corollario del vero scontro del quale l’America prossima futura sarà testimone e protagonista; lo scontro fra i centri urbani e le aree rurali. Lo scontro fra le città-stato e il resto del paese, lo scontro tra urbanisti e ruralisti. Queste sono le forze realmente schierate, una accanto all’altra, una contro l’altra; due forze destinate a scontrarsi in una guerra civile prossima futura. Quanto prossima?

 

***

 

Le elezioni presidenziali del 2016, con la vittoria a sorpresa di Donald Trump, hanno evidenziato una mappatura all’interno della società americana che va ben aldilà della ideologia politica. Trump ha vinto nei centri rurali mentre Hillary Clinton ha vinto, comodamente, nei centri urbani, soprattutto in quelli più grandi. La elezione di Trump ha confermato una tendenza già in corso che si era vista con il referendum in Inghilterra l’anno prima; i centri periferici e rurali avevano votato per la Brexit mentre i centri urbani avevano votato contro. La cosa si è ripetuta nelle recenti elezioni in Canada dove Justin Trudeau, ha vinto grazie ai voti dei centri urbani ma ha perso pesantemente nelle zone rurali. Il potere, il dominio conseguito, soprattutto grazie alla globalizzazione, dalle Città Stato negli ultimi decenni è ora messo in discussione.

Le città stato americane sono l’esempio più chiaro della posizione acquisita negli anni da questi centri urbani. Tra i tanti esempi Los Angeles è la città stato centro del potere mediatico; San Francisco la città stato centro del potere della new economy che ha dato vita, grazie alla Silicon valley, alla rivoluzione digitale e all’alta tecnologia; New York è la città stato di Wall Street, centro di potere finanziario e bancario. Washington è la città stato centro di potere amministrativo, politico. Boston è la città stato centro del potere intellettuale. Las Vegas il centro del divertimento.  Poi ci sono Chicago, Seattle, Detroit. Philadelphia e via discorrendo, tutti posti dove i democratici elitisti, l’establishment politico e finanziario, propinatori del concetto di globalismo si annidano e proliferano…

Con la fine della seconda guerra mondiale e l’avvento del globalismo, negli ultimi decenni la società americana ha visto la separazione fra i centri rurali e quelli urbani divaricarsi in maniera sempre più accentuata. L’ascesa al potere delle Città Stato non è nuova nella storia dell’umanità. Basta ricordare le Città Stato della Grecia e quelle dell’Italia. Il globalismo ha contribuito ad alimentare, ha sostenuto la crescita di potere economico e politico delle città stato. In questi agglomerati si annidano anche le forze elitiste che controllano i processi del globalismo. Gli elitisti che grazie alle masse urbane sotto il loro controllo, propinano le politiche che hanno plasmato l’America degli ultimi 50 anni.

In tempi di prosperità le città stato crescono, acquistano potere e dettano le linee sociali e politiche da seguire. Il cittadino di San Francisco o di New York diventa il cittadino del mondo, un cittadino non più ancorato al concetto di delimitazione, di nazionalismo, di sovranità. In altre parole il cittadino di San francisco o di New York si riflette, tanto si identifica in quello di Roma, Londra , Parigi, Tokyo, Pechino e via dicendo, quanto lo stesso è completamente alienato e distaccato dalla realtà rurale prossima che lo circonda. Chi sente il bisogno dei trogloditi del Montana, del Wyoming, del Dakota, dell’Idaho quando si ha a disposizione il mondo intero? Non è un caso che molti dei grandi centri urbani Statunitensi si trovano nello zone costiere del Pacifico o dell’Atlantico. Così si intrecciano tra di essi più facilmente rapporti, collaborazioni, scambi culturali ed economici. Si firmano trattati internazionali, mentre il resto del paese, le zone interne e rurali rimangono ancorate ad un concetto più tradizionale di società, appena sfiorate dalla globalizzazione.

Con l’avvento di Trump e della Brexit la globalizzazione è entrata in crisi. Più probabilmente ne sono la cartina di tornasole. Il processo di globalizzazione si è arrestato ed è ora entrato in una fase di decadenza; una crisi che, anche dopo l’uscita di scena di Trump, quest’anno o fra quattro anni, sarà comunque irreversibile. Così come caddero le città stato greche e italiane, così le città stato americane cadranno sotto i colpi di una crisi che si aggrava sempre di più e che fomenta la ribellione nei centri rurali del paese.

Le città stato oggi sono potenti perché raggruppano una popolazione molto più larga rispetto alle aree rurali. Globalmente parlando il 54% della popolazione vive nelle aree urbane; negli Stati Uniti arriva addirittura al 63%. Questa differenza, associata alla globalizzazione, ai trattati internazionali e al libero scambio di prodotti e di persone, alimentata ulteriormente dai grandi hub di trasporto di massa presenti nelle città stato, fa sì che il potere di queste sia molto più incisivo e decisivo rispetto alle zone rurali. La potenza delle città stato non è riuscita a fermare le elezioni di Trump poiché il sistema elettorale negli Stati Uniti ha caratteristiche peculiari rispetto al resto delle democrazie nel mondo. La costituzione americana non contempla un sistema maggioritario. In altre parole la maggioranza dei votanti non decide la presidenza; è il sistema del collegio elettorale che decide le elezioni presidenziali. Ecco perché Trump ha vinto nel collegio elettorale pur perdendo nel voto popolare con una differenza di oltre due milioni e mezzo di voti. Nonostante ciò è diventato Presidente. I padri fondatori avevano immaginato e paventato un futuro in cui il voto popolare, le masse, avrebbero influenzato e deciso le sorti per il resto del paese, tagliando fuori dalle decisioni politiche il cuore agricolo, rurale e produttivo della nazione. I padri fondatori stessi erano nazionalisti e per la maggior parte figli delle campagne. Tra di loro gente come Thomas Jefferson, George Washington, Benjamin Franklin, John adams, James Madison. Famose sone le frasi espresse da alcuni di loro sull’importanza della libertà e del significato che la terra, i suoi frutti e i suoi figli hanno sul resto della nazione:

Sembrano esserci solo tre modi per acquisire ricchezza da parte di una nazione:  Il primo è la guerra, come fecero i romani, nel saccheggio dei popoli soggiogati. Questa è la rapina. Il secondo è il  commercio, più generalmente definito barare, fregare il prossimo. Il terzo dall’agricoltura, l’unico modo onesto in cui l’uomo riceve un vero ritorno del seme gettato nel terreno, in una sorta di continuo miracolo, portato dalla mano di Dio a suo favore, come ricompensa per la sua vita innocente e la sua industria virtuosa. ” Benjamin Franklin

Penso che i nostri  futuri governi rimarranno virtuosi per molti secoli; purché siano principalmente agricoli ” Thomas Jefferson.

 “Preferisco stare nella mia fattoria piuttosto che essere imperatore del mondo.” George Washington

 

 

IL TRAMONTO DELLE CITTÀ STATO

 

“Se verranno camuffati da “semplici” nuovi residenti li riconosceremo e li smaschereremo. Se verranno armati, affamati e disperati li affronteremo…”

I nazionalisti fedeli alla costituzione sono quindi in realtà i veri eredi del concetto dell’America come inteso originariamente dai padri fondatori: potere limitato dei burocrati e quindi dei governi, antimperialismo e potere costituzionale, poteri ai cittadini garantito principalmente dalla costituzione con la garanzia del possesso delle armi e della libertà di parola.

Il potere delle città stato e quindi dei globalisti elitisti è ora in fase calante. La globalizzazione e i trattati internazionali sono in crisi e la fine della globalizzazione porterà la fine del potere delle città-stato. Le economie hanno esaurito il loro impeto espansionista, soprattutto il modello di capitalismo sfrenato; anche questo contribuisce all decadenza delle città stato. Nessuna sommatoria di potere finanziario e politico può fermare il tramonto dei centri urbani. Si aggiunge anche un altro aspetto all’equazione del tramonto delle città-stato: la crisi del tasso di natalità. Verso la fine di questo secolo, secondo alcuni studi, la popolazione mondiale comincerà a declinare. Ciò che ancora permette ad alcuni, anche se non tutti, ì grandi centri urbani americani, occidentali in genere ed asiatici di crescere è l’immigrazione, soprattutto dai paesi più poveri del terzo mondo, in particolare l’Africa e l’India. Intorno al 2040 il calo demografico, pur con la crescita immigratoria attuale, comincerà ad influire in maniera negativa sui centri urbani; questo metterà in crisi la ricchezza e la prosperità delle città-stato. Il calo demografico associato al riflusso della ricchezza contribuirà al deterioramento degli standard di vita nelle città-stato. Il calo demografico colpirà anche i centri rurali, ma la differenza fra le zone interne del paese e le zone urbane è fondamentale visto che le risorse si trovano nelle zone interne.

I centri urbani credono di essere potenti e ricchi ma mancano delle risorse primarie per sopravvivere. Le risorse che permettono ai centri urbani di operare provengono dall’interno del paese, dalle zone rurali. L’acqua, il cibo, le principali fonti di sostentamento dei cittadini metropolitani,proviene dalle sorgenti delle montagne, dei laghi, dei bacini idrici. Il grano proviene dalle praterie. La carne proviene dai ranch e dagli allevamenti di bestiame. Le verdure, l’insalata, la frutta proviene dalle campagne. Senza il contributo delle zone rurali, i grandi centri urbani farebbero fatica a sopravvivere.

Lo scontro prossimo futuro nell’America del ventesimo secolo è sì uno scontro politico costituzionale, ma si trasformerà più o meno rapidamente in uno scontro anche per il controllo delle risorse. I miliziani, i cittadini dell’ultima frontiera americana saranno pronti a respingere le orde alla ricerca di quel sostentamento che i centri urbani non potranno più offrire? Chi sono queste orde provenienti dai centri urbani? Le orde non saranno semplicemente ex-residenti delle città stato che fuggono dai centri dell’Impero in fase di disfacimento. Tra queste orde liberali progressiste, orfane delle classi globaliste, elitiste si annidano, ex funzionari dello stato burocratico, ex appartenenti ai centri di potere finanziario ed economico. Questi potenti soggetti porteranno con sé armate mercenarie arruolate fra i guerrieri della giungla urbana; ex-appartenenti alle bande criminali che infestano i centri urbani a stelle e strisce. Tra di loro ci saranno potenziali terroristi, ex-narcotrafficanti, ex-carcerati se non malavitosi in piena attività. Opposte a queste orde ci saranno i miliziani, i patrioti e i semplici residenti delle campagne e dei paesi dell’America dell’ultima frontiera.

Non è fantascienza, nè complottismo; è uno scenario di una società che quando si sgretolerà potrà affrontare scenari apocalittici. Il professore Vince mi disse “ Gianfranco, due sono gli esiti possibili, in una caduta dell’impero americano: Il primo, una fratturazione relativamente indolore; ognuno per la sua strada, noi abitanti delle praterie insieme all’America rebout da una parte, dall’altra gli stati dove i grossi centri urbani sono collocati. I quei centri si annidano i proponenti di una costituzione americana revisionata secondo le necessità e i bisogni ideologici degli elettori democratici liberali progressisti. Tieni però presente che anche in stati ultra-liberali come la California, lontano dai centri urbani, ad esempio nel nord e nella sua valle centrale, i residenti “conservatori”, i  patrioti talvolta superano di numero i liberali progressisti. La seconda possibilità, una caduta violenta che degenera in una guerra civile che porterà le orde urbane a infrangere il confine delle terre libere dell’ultima frontiera

Il cerchio a questo punto si chiude. Nel mio viaggio precedente nel profondo dell’america del redoubt, il sentimento quasi complottista che ora si annida nell’America dell’ultima frontiera appariva quasi fuori luogo, esagerato. La “fuga” di George, Vince e migliaia di patrioti come loro l’avevo interpretata come l’incapacità di adattarsi, da parte di certi dinosauri ancorati al passato, ad un mondo dinamico, ad una società in constante moto perpetuo di cambiamento.  Ora comprendiamo il sentimento e la logica dei patrioti americani. Non sono dei fanatici complottisti alla ricerca di uno scontro armato contro un invisibile e immaginario nemico; sono persone che si sono rifugiate nell’ultima frontiera per evitare di rimanere travolti dalle possibili conseguenze catastrofiche che la caduta dell’impero americano porterà a molti dei suoi figli. Ritengono la possibilità di tornare alle origini di una nazione costituzionale antiimperialista, una possibilità troppo remota; piuttosto si preparano, dovesse essere necessario, ad affrontare lo scontro civile prossimo futuro; una nuova guerra civile.

La logica di scegliere le armi e il territorio su cui scontrarsi rappresenta un vantaggio tattico importante da ponderare. Riaffiora continuamente nella mia memoria la frase di George: “Se verranno camuffati da ‘semplici” nuovi residenti li riconosceremo e li smaschereremo. Se verranno armati, affamati e disperati li affronteremo. La giungla urbana è la loro casa, ma questo è il nostro territorio. Conosciamo ogni albero, ogni ruscello, ogni montagna, ogni vallata, ogni grotta, ogni pietra di questa nostra terra. Sappiamo cosa vuol dire sopravvivere semplicemente con quello che la nostra terra ci offre. Conosciamo le tempeste di neve e di pioggia, la intensità dei terremoti, la forza e la direzione del vento, gli animali che vagano in questa nostra ultima frontiera, dell’ America libera e costituzionale. Siamo pronti!Questa è la mia collina di armageddon, da qui combatterò la mia ultima battaglia, il mio ultimo atto.” Se non sarà George a difendere la sua terra saranno sicuramente i suoi figli o nipoti a dover affrontare la guerra civile prossima futura. Tutta la sua stirpe è forgiata nella solidità di una tempra che tanto distingue i residenti dell’ultima frontiera americana. Gli americani del Redoubt; gente pacifica, cresciuta nel rispetto del prossimo e nel rispetto della libertà del vicino, altrettanto anelante all’ardente desiderio di libertà. Gente forgiata fra le praterie, le montagne, i duri inverni e il duro lavoro delle fattorie e terre. Pronta ad aiutare chiunque abbia bisogno, ma allo stesso tempo gente che se messa contro un muro, che se appena percepisce che qualcuno vuole privarli della libertà, fa scattare un istinto guerriero che li porta a difendere la propria terra e i propri cari fino alla morte. Le orde urbane avranno anche i gangster addestrati alla sopravvivenza nelle giungle di cemento, ma in queste terre dell’ultima frontiera, carichi di armi e munizioni, i patrioti non indietreggeranno di un centimetro…

Rappresenteranno l’ennesimo paradosso della storia. Saranno per alcuni versi i nuovi indiani d’America; figli, per una beffa del destino, di coloro che li hanno spossessati. Sarebbe la nemesi.

 

IL VIRUS DEL NOSTRO MALCONTENTO

 

 

“La nostra Costituzione garantisce che il diritto dei cittadini sia protetto…Ho prestato giuramento di sostenere la costituzione…

 

P.S. Sono passati quasi 4 mesi dal rientro del mio viaggio nell’america dell’ultima frontiera e la crisi del coronavirus e scoppiata travolgendo il mondo.

Ha gli occhi grandi e verdi che ricordano le praterie del Dakota. D’altronde lei stessa è figlia di quelle praterie. Nata e cresciuta nel Sud Dakota, da famiglia di agricoltori, colpita dalla tragedia della perdita del padre a soli 22 anni, ha dovuto lasciare il college per tornare a casa ad occuparsi del ranch di famiglia. Se si deve descrivere una donna che incarna lo spirito delle praterie, la cinquantenne governatrice repubblicana del Sud Dakota, Kristi Noem è la candidata per eccellenza.

La Noem si è rifiutata, con altri quattro governatori, di imporre il lockdown ai cittadini del Sud Dakota. Ha invece preferito suggerire le linee guida per evitare l’espansione del contagio e ha lasciato ai cittadini stessi la decisione, la responsabilità di gestire la crisi. I risultati fino ad ora hanno dato ragione a lei, forte anche del vantaggio di una popolazione assai diradata, mancando al Sud Dakota, centri urbani di grandi proporzioni. Comunque sia, al momento attuale, il Sud Dakota registra 2,600 casi con 21 morti.

La governatrice ha espresso il suo pensiero nei seguenti termini “La nostra Costituzione garantisce che il diritto dei cittadini sia protetto…Ho prestato giuramento di sostenere la costituzione… Il mio ruolo rispetto alla sicurezza pubblica è qualcosa che assumo seriamente. Le persone stesse sono le entità principalmente responsabili della loro propria sicurezza. Sono a loro che vengono affidate ampie libertà – sono liberi di esercitare i loro diritti, quelli al lavoro, al culto e allo svago- oppure starsene a casa se desiderano praticando il distanziamento sociale. La scelta è loro…La mia responsabilità è rispettare i diritti delle persone e dei cittadini che mi hanno eletto…

I cittadini del Sud Dakota hanno ringraziato la loro  governatrice con una parata di veicoli di fronte alla sua casa. Un omaggio e un incitamento al suo coraggio: Ambulanze, Polizia, Vigili del Fuoco, Camionisti, semplici cittadini…In altri paesi si è giustamente voluto ringraziare gli operatori sanitari; nel Sud Dakota hanno voluto invece celebrare una donna che gode del rispetto dei propri elettori e cittadini. L’immagine di una governatrice in lacrime per la intensità dell’evento ha fatto il giro dei social media.

 

Sono curioso di sentire l’opinione di Vince: lo chiamo a quasi due mesi dall’ultima volta che abbiamo parlato la telefono: ” L’ultima volta ci siamo sentiti a Natale credo? “ Mi risponde Vince prima ancora di di salutarmi con un Hello. “Si, volevo sapere se il coronavirus fino ad ora ha risparmiato te e la tua famiglia.”Gli chiedo. “Siamo in buona salute, se non ci ha ucciso l’inverno delle praterie, non penso lo farà il coronavirus…hai parlato con George?” mi risponde Vince “Si, l’ho sentito la settimana scorsa; l’ho trovato bene, anche se un po alticcio, ma in buono spirito.” rispondo a Vince. “ George! Il dottore gli ha detto di smettere con alcool e fumo ma quello continua imperterrito è più duro di una sequoia ” Esclama Vince. Chiedo a Vince la sua opinione sulla situazione in America, visto il drammatico cambio di eventi rispetto a qualche mese fa: “La crisi del Coronavirus ha solamente contribuito ad evidenziare le differenze di questa America in profonda crisi di identità . Di solito, nel passato, eventi di grande impatto hanno sempre condotto ad una unificazione di spirito ed intenti fra gli americani, coagulando il paese intorno alla causa, qualunque essa fosse. Così fu con la prima e seconda guerra mondiale. E stato cosi anche con l’undici di Settembre, anche se quella unità nazionale fu sperperata con la guerra in Iraq.  Questa volta la crisi del Coronavirus ha accentuato ancora di più le differenze nel paese. Il lockdown e le limitazioni alla libertà del cittadino ha incrementato ancora di più la convinzione, fra i patrioti, che la costituzione sia stata violata in una maniera irreparabile. Un lento, inesorabile tramonto dei valori costituzionali, accentuato da una crisi che quei valori avrebbe dovuto far rinascere. Il solco scavato è ormai irrimediabilmente troppo profondo da colmare. Il destino della nazione è segnato, mi sento addirittura di stabilire una data alla caduta. Mentre prima ero convinto che i tempi non erano quantificabili, ora sono dell’opinione che al  massimo fra quattro decenni, gli Stati Uniti D’America saranno un’entità del tutto diversa da quella attuale. Vedi anche solo come i diversi stati dell’unione si stanno muovendo per gestire la crisi del Coronavirus. La diversità di risposte e soluzioni fra i vari stati è accentuata dalle differenze politiche e sociali. I democratici approvano le misure restrittive imposte da burocrati e scienziati e forse, in uno stato come New York, queste misure sono anche necessarie; in molti Stati repubblicani le misure restrittive per il controllo della pandemia sono viste con una insofferenza enorme. D’altronde è come ingabbiare una bestia selvaggia; la bestia in gabbia tende a ribellarsi. Lo spirito americano è uno spirito pionieristico. Se i nostri antenati si fossero preoccupati dei pericoli, della morte e delle sfide che li attendevano quando partivano alla conquista dell’ignoto, sarebbero rimasti dove erano…La differenza di risposte e di interpretazioni alla crisi del Coronavirus mette in risalto, per la prima volta dal 1861, lo spirito federalista dell’Unione…”  Lo spirito federalista dell’Unione! Mi colpiscono le parole di Vince. Lui sostiene che per la prima volta dalla fine della guerra civile l’America sta tornando ad un sistema di federalismo incentrato sull’importanza degli stati e delle realtà locali rispetto al potere centrale. Parte delle problematiche che portarono alla guerra civile (1861-1865) riguardavano appunto l’interpretazione del federalismo. Molti cittadini degli Stati del Sud ritenevano che i soli governi statali avessero il diritto di prendere decisioni importanti, come per esempio la legalizzazione della schiavitù. I sostenitori dei diritti degli Stati credevano che i singoli governi statali avessero il potere sul governo centrale federale. La maggior parte degli stati del sud alla fine si separò dall’Unione perché ritenevano che la secessione fosse l’unico modo per proteggere i propri diritti. Il risultato fu appunto quella terribile guerra civile. In altre parole quello che Vince sostiene è che si stanno ricreando le condizioni per una America impostata sul potere dei singoli stati e delle realtà locali, in contrasto con le autorità federali. Un’America ante 1861, ante guerra civile insomma. “Gianfranco tante volte non ci si accorge di essere entrati  in una condizione di guerra civile fino a quando la prima pallottola non ti ha bucato la fronte..! Un’ultima cosa, Gianfranco. E’ sbagliato definire nazionalisti i patrioti. Il nazionalismo impone una interpretazione centralista del concetto di nazione. I patrioti americani credono nella costituzione, che è decana della indipendenza personale e territoriale. I patrioti amano il loro paese ma odiano la centralità burocratica di esso…” Tutto mi è ora più chiaro. Le risposte che cercavo le ho trovate lungo il mio viaggio nell’america dell ultima frontiera.

Gli Stati Uniti sono ormai entrati in uno stato di pre-guerra civile. Tempi, modi e schieramenti in questione contengono ancora elementi di incertezza; il destino è però segnato, scritto nella storia prossima futura. I miei figli e soprattutto i miei nipoti saranno testimoni di eventi epocali, dovranno solo scegliere con chi schierarsi.

 

 

 

 

 

 

Critica della critica delle armi del generale Marco Bertolini, di Massimo Morigi

Critica della critica delle armi del generale Marco Bertolini. Elementi contro  la pandemia del  Cthulhu morbus  dello  spazio psichico, culturale, sociale, politico e giuridico delle odierne democrazie rappresentative

 Di Massimo Morigi

«Se vi ricorda bene, Cosimo, voi mi dicesti che, essendo io dall’uno canto esaltatore della antichità e biasimatore di quegli che nelle cose gravi non la imitano, e, dall’altro, non la avendo io nelle cose della guerra, dove io mi sono affaticato, imitata, non ne potevi ritrovare la cagione; a che io risposi come gli uomini che vogliono fare una cosa, conviene prima si preparino a saperla fare, per potere poi operarla quando l’occasione lo permetta. Se io saprei ridurre la milizia ne’ modi antichi o no, io ne voglio per giudici voi che mi avete sentito sopra questa materia lungamente disputare; donde voi avete potuto conoscere quanto tempo io abbia consumato in questi pensieri, e ancora credo possiate immaginare quanto disiderio sia in me di mandargli ad effetto. Il che se io ho potuto fare, o se mai me ne è stata data occasione, facilmente potete conietturarlo. Pure per farvene più certi, e per più mia giustificazione, voglio ancora addurne le cagioni; e parte vi osserverò quanto promissi di dimostrarvi: le difficultà e le facilità che sono al presente in tali imitazioni. Dico pertanto come niuna azione che si faccia oggi tra gli uomini, è più facile a ridurre ne’ modi antichi che la milizia, ma per coloro soli che sono principi di tanto stato, che potessero almeno di loro suggetti mettere insieme quindici o ventimila giovani. Dall’altra parte, niuna cosa è più difficile che questa a coloro che non hanno tale commodità. E perché voi intendiate meglio questa parte, voi avete a sapere come e’ sono di due ragioni capitani lodati. L’una è quegli che con uno esercito ordinato per sua naturale disciplina hanno fatto grandi cose, come furono la maggior parte de’ cittadini romani e altri che hanno guidati eserciti; i quali non hanno avuto altra fatica che mantenergli buoni e vedere di guidargli sicuramente. L’altra è quegli che non solamente hanno avuto a superare il nimico, ma, prima ch’egli arrivino a quello, sono stati necessitati fare buono e bene ordinato l’esercito loro, i quali sanza dubbio meritono più lode assai che non hanno meritato quegli che con gli eserciti antichi e buoni hanno virtuosamente operato. Di questi tali fu Pelopida ed Epaminonda, Tullo Ostilio, Filippo di Macedonia padre d’Alessandro, Ciro re de’ Persi, Gracco romano. Costoro tutti ebbero prima a fare l’esercito buono, e poi combattere con quello. Costoro tutti lo poterono fare, sì per la prudenza loro, sì per avere suggetti da potergli in simile esercizio indirizzare. Né mai sarebbe stato possibile che alcuno di loro, ancora che uomo pieno d’ogni eccellenza, avesse potuto in una provincia aliena, piena di uomini corrotti, non usi ad alcuna onesta ubbidienza, fare alcuna opera lodevole. Non basta adunque in Italia il sapere governare uno esercito fatto, ma prima è necessario saperlo fare e poi saperlo comandare. E di questi bisogna sieno quegli principi che, per avere molto stato e assai suggetti, hanno commodità di farlo. De’ quali non posso essere io che non comandai mai, né posso comandare se non a eserciti forestieri e a uomini obligati ad altri e non a me. Ne’ quali s’egli è possibile o no introdurre alcuna di quelle cose da me oggi ragionate, lo voglio lasciare nel giudicio vostro. Quando potrei io fare portare a uno di questi soldati che oggi si praticano, più armi che le consuete, e, oltra alle armi, il cibo per due o tre giorni e la zappa? Quando potrei io farlo zappare o tenerlo ogni giorno molte ore sotto l’armi negli esercizi finti, per potere poi ne’ veri valermene? Quando si asterrebbe egli da’ giuochi, dalle lascivie, dalle bestemmie, dalle insolenze che ogni dì fanno? Quando si ridurrebbero eglino in tanta disciplina e in tanta ubbidienza e reverenza, che uno arbore pieno di pomi nel mezzo degli alloggiamenti vi si trovasse e lasciasse intatto come si legge che negli eserciti antichi molte volte intervenne? Che cosa posso io promettere loro, mediante la quale e’ mi abbiano con reverenza ad amare o temere, quando, finita la guerra, e’ non hanno più alcuna cosa a convenire meco? Di che gli ho io a fare vergognare, che sono nati e allevati sanza vergogna? Perché mi hanno eglino ad osservare che non mi conoscono? Per quale Iddio, o per quali santi gli ho io a fare giurare? Per quei ch’egli adorano, o per quei che bestemmiano? Che ne adorino non so io alcuno, ma so bene che li bestemmiano tutti. Come ho io a credere ch’egli osservino le promesse a coloro che ad ogni ora essi dispregiano? Come possono coloro che dispregiano Iddio, riverire gli uomini? Quale dunque buona forma sarebbe quella che si potesse imprimere in questa materia? E se voi mi allegassi che i Svizzeri e gli Spagnuoli sono buoni, io vi confesserei come eglino sono di gran lunga migliori che gli Italiani; ma se voi noterete il ragionamento mio e il modo del procedere d’ambidue, vedrete come e’ manca loro di molte cose ad aggiugnere alla perfezione degli antichi. E i Svizzeri sono fatti buoni da uno loro naturale uso causato da quello che oggi vi dissi, quegli altri da una necessità; perché, militando in una provincia forestiera e parendo loro essere costretti o morire o vincere, per non parere loro avere luogo alla fuga, sono diventati buoni. Ma è una bontà in molte parti defettiva, perché in quella non è altro di buono, se non che si sono assuefatti ad aspettare il nimico infino alla punta della picca e della spada. Né quello che manca loro, sarebbe alcuno atto ad insegnarlo, e tanto meno chi non fusse della loro lingua. Ma torniamo agli Italiani, i quali, per non avere avuti i principi savi, non hanno preso alcuno ordine buono, e, per non avere avuto quella necessità che hanno avuta gli Spagnuoli, non gli hanno per loro medesimi presi; tale che rimangono il vituperio del mondo. Ma i popoli non ne hanno colpa, ma sì bene i principi loro; i quali ne sono stati gastigati, e della ignoranza loro ne hanno portate giuste pene perdendo ignominiosamente lo stato, e sanza alcuno esemplo virtuoso. Volete voi vedere se questo che io dico è vero? Considerate quante guerre sono state in Italia dalla passata del re Carlo ad oggi; e solendo le guerre fare uomini bellicosi e riputati, queste quanto più sono state grandi e fiere, tanto più hanno fatto perdere di riputazione alle membra e a’ capi suoi. Questo conviene che nasca che gli ordini consueti non erano e non sono buoni; e degli ordini nuovi non ci è alcuno che abbia saputo pigliarne. Né crediate mai che si renda riputazione alle armi italiane, se non per quella via che io ho dimostra e mediante coloro che tengono stati grossi in Italia; perché questa forma si può imprimere negli uomini semplici, rozzi e proprii, non ne’ maligni, male custoditi e forestieri. Né si troverrà mai alcuno buono scultore che creda fare una bella statua d’un pezzo di marmo male abbozzato, ma sì bene d’uno rozzo. Credevano i nostri principi italiani, prima ch’egli assaggiassero i colpi delle oltramontane guerre, che a uno principe bastasse sapere negli scrittoi pensare una acuta risposta, scrivere una bella lettera, mostrare ne’ detti e nelle parole arguzia e prontezza, sapere tessere una fraude, ornarsi di gemme e d’oro, dormire e mangiare con maggiore splendore che gli altri, tenere assai lascivie intorno, governarsi co’ sudditi avaramente e superbamente, marcirsi nello ozio, dare i gradi della milizia per grazia, disprezzare se alcuno avesse loro dimostro alcuna lodevole via, volere che le parole loro fussero responsi di oraculi; né si accorgevano i meschini che si preparavano ad essere preda di qualunque gli assaltava. Di qui nacquero poi nel mille quattrocento novantaquattro i grandi spaventi, le subite fughe e le miracolose perdite; e così tre potentissimi stati che erano in Italia, sono stati più volte saccheggiati e guasti. Ma quello che è peggio, è che quegli che ci restano stanno nel medesimo errore e vivono nel medesimo disordine, e non considerano che quegli che anticamente volevano tenere lo stato, facevano e facevano fare tutte quelle cose che da me si sono ragionate, e che il loro studio era preparare il corpo a’ disagi e lo animo a non temere i pericoli. Onde nasceva che Cesare, Alessandro e tutti quegli uomini e principi eccellenti, erano i primi tra’ combattitori, andavano armati a piè, e se pure perdevano lo stato, e’ volevano perdere la vita; talmente che vivevano e morivano virtuosamente. E se in loro, o in parte di loro, si poteva dannare troppa ambizione di regnare, mai non si troverrà che in loro si danni alcuna mollizie o alcuna cosa che faccia gli uomini delicati e imbelli. Le quali cose, se da questi principi fussero lette e credute, sarebbe impossibile che loro non mutassero forma di vivere e le provincie loro non mutassero fortuna. E perché voi, nel principio di questo nostro ragionamento, vi dolesti della vostra ordinanza, io vi dico che, se voi la avete ordinata come io ho di sopra ragionato ed ella abbia dato di sé non buona esperienza, voi ragionevolmente ve ne potete dolere; ma s’ella non è così ordinata ed esercitata come ho detto, ella può dolersi di voi che avete fatto uno abortivo, non una figura perfetta. I Viniziani ancora e il duca di Ferrara la cominciarono e non la seguirono, il che è stato per difetto loro, non degli uomini loro. E io vi affermo che qualunque di quelli che tengono oggi stati in Italia prima entrerrà per questa via, fia, prima che alcuno altro, signore di questa provincia; e interverrà allo stato suo come al regno de’ Macedoni, il quale, venendo sotto a Filippo che aveva imparato il modo dello ordinare gli eserciti da Epaminonda tebano, diventò, con questo ordine e con questi esercizi, mentre che l’altra Grecia stava in ozio e attendeva a recitare commedie, tanto potente che potette in pochi anni tutta occuparla, e al figliuolo lasciare tale fondamento, che potéo farsi principe di tutto il mondo. Colui adunque che dispregia questi pensieri, s’egli è principe, dispregia il principato suo; s’egli è cittadino, la sua città. E io mi dolgo della natura, la quale o ella non mi dovea fare conoscitore di questo, o ella mi doveva dare facultà a poterlo eseguire. Né penso oggimai, essendo vecchio, poterne avere alcuna occasione; e per questo io ne sono stato con voi liberale, che, essendo giovani e qualificati, potrete, quando le cose dette da me vi piacciano, ai debiti tempi, in favore de’ vostri principi, aiutarle e consigliarle. Di che non voglio vi sbigottiate o diffidiate, perché questa provincia pare nata per risuscitare le cose morte, come si è visto della poesia, della pittura e della scultura. Ma quanto a me si aspetta, per essere in là con gli anni, me ne diffido. E veramente, se la fortuna mi avesse conceduto per lo addietro tanto stato quanto basta a una simile impresa, io crederei, in brevissimo tempo, avere dimostro al mondo quanto gli antichi ordini vagliono; e sanza dubbio o io l’arei accresciuto con gloria o perduto sanza vergogna.»: Niccolò Machiavelli, Dell’arte della guerra, libro VII, in   Mario Martelli (a cura di), Niccolò Machiavelli. Tutte le opere, Firenze, Sansoni, 1971, pp. 387-389. Se nel Principe il rapporto fra virtù e fortuna era risolta in un sempre instabile e dinamico equilibrio, con le amare parole dell’anziano condottiero Fabrizio Colonna davanti ai suoi giovani uditori che chiudono L’Arte della guerra («E veramente, se la fortuna mi avesse conceduto per lo addietro tanto stato quanto basta a una simile impresa, io crederei, in brevissimo tempo, avere dimostro al mondo quanto gli antichi ordini vagliono; e sanza dubbio o io l’arei accresciuto con gloria o perduto sanza vergogna.»), suggello finale di tutto un ragionamento   dove sì si afferma che sarebbe possibile ripetere, anche se aggiornandole alle moderne esigenze, le virtù e le forme di combattimento dei romani solo se i principi lo volessero, ma i principi non vogliono o non ne sono capaci, Machiavelli ha ormai  risolto in favore della fortuna il dinamico ed instabile rapporto e L’arte della guerra può quindi essere considerata non solo un trattato polemologico (fra poco vedremo, al contrario di quanto ha detto parte della critica moderna, non viziato dal tarlo dell’imitazione dei modelli classici ma di pressante attualità) ma anche il resoconto di un’esistenza, quella del Segretario fiorentino, dove la  grande dottrina sull’arte dello Stato non era stata accompagnata da ugual fortuna nella vita e carriera personali. E veramente ascoltando le due videointerviste e gli interventi che del generale a riposo Marco Bertolini sono pubblicate sull’ “Italia e il Mondo” (le due videointerviste: Istituzioni e sovranità. La funzione dell’esercito italiano. Ne discutiamo con il generale Marco Bertolini ( videointervista al generale Marco Bertolini a cura di Giuseppe Germinario), in “L’ Italia e il Mondo”,  19 aprile 2020, agli URL http://italiaeilmondo.com/2020/04/19/istituzioni-e-sovranita-la-funzione-dellesercito-italiano-ne-discutiamo-con-il-generale-marco-bertolini/ e                                                                                                            https://www.youtube.com/watch?time_continue=4138&v=U2r8nvufsss&feature=emb_logo, e vista l’importanza del documento  successivo nostro download e ricaricamento su Internet Archive generando gli URL https://archive.org/details/y-2mate.com-esercito-identita-e-interesse-nazionali.-una-conversazione-con-il-ge  e https://ia601405.us.archive.org/32/items/y-2mate.com-esercito-identita-e-interesse-nazionali.-una-conversazione-con-il-ge/y2mate.com%20-%20esercito%2C%20identit%C3%A0%20e%20interesse%20nazionali.%20Una%20conversazione%20con%20il%20Generale%20Marco%20Bertolini_U2r8nvufsss_360p.mp4Intervista al generale Marco Bertolini. Il concetto di sovranità e la sua declinazione in politica (videointervista al generale Marco Bertolini a cura di Giuseppe Germinario), in “L’Italia e il Mondo”, 23 maggio 2019, agli URL originari  http://italiaeilmondo.com/?s=intervista+generale                                                                          e https://www.youtube.com/watch?time_continue=694&v=65AUs7rdmZM&feature=emb_logo; successivo nostro download e ricaricamento su Internet Archive, generando gli URL  https://archive.org/details/y-2mate.com-intervista-al-generale-marco-bertolini-la-sovranita-e-la-sua-declina                                                                                                                   e                                      https://ia801504.us.archive.org/15/items/y-2mate.com-intervista-al-generale-marco-bertolini-la-sovranita-e-la-sua-declina/y2mate.com%20-%20intervista%20al%20Generale%20Marco%20Bertolini_La%20sovranit%C3%A0%20e%20la%20sua%20declinazione%20in%20politica_65AUs7rdmZM_360p.mp4. Mentre per quanto riguarda i documenti scritti, all’ URL dell’ “Italia e il Mondo” http://italiaeilmondo.com/?s=bertolini, congelamento Wayback Machine  https://web.archive.org/web/20200429143150/http://italiaeilmondo.com/?s=bertolini, si può prendere visione di Marco Bertolini,  Considerazioni in tema di Forze Armate, in “L’Italia e il Mondo”, 15 aprile 2020;   Lo scenario libico secondo il generale Marco Bertolini ( intervista al generale Marco Bertolini a cura di Giuseppe Germinario), in “L’Italia e il mondo”, 25 gennaio 2020;  Marco Bertolini, Salvate il soldato  Esposito,  in  “L’Italia e il Mondo” 25 febbraio 2019; Caos migranti. Politica in Africa e caos in Libia. Tutte le colpe della Francia (intervista al generale Marco Bertolini a cura di Paolo Vites), in “L’Italia e il Mondo” 25 giugno 2018 ma originariamente su “Il sussidiario.net. il quotidiano approfondito” 23 giugno 2018, all’URL https://www.ilsussidiario.net/news/esteri/2018/6/23/caos-migranti-politica-in-africa-e-caos-in-libia-tutte-le-colpe-della-francia/826985/, Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20200503184858/https://www.ilsussidiario.net/news/esteri/2018/6/23/caos-migranti-politica-in-africa-e-caos-in-libia-tutte-le-colpe-della-francia/826985/ e  Marco Bertolini, Ripristino della leva, in “L’Italia e il Mondo” 6 settembre 2018; Idem, Geopolitica spietata, in “L’ Italia e il Mondo” 31 dicembre 2016. N. B. : anche presso  http://italiaeilmondo.com/?s=bertolini è possibile raggiungere le due videointerviste consultabili presso http://italiaeilmondo.com/2020/04/19/istituzioni-e-sovranita-la-funzione-dellesercito-italiano-ne-discutiamo-con-il-generale-marco-bertolini/  e http://italiaeilmondo.com/?s=intervista+generale) le assonanze fra la Stimmung (ed anche fra i contenuti) dell’ Arte della guerra con questo corpus pubblicato sul presente blog sono veramente suggestive andando, in entrambi i casi, ben al di là delle indicazioni tecnico-operative necessarie a comandare un apparato militare, ma affermando l’inscindibile legame fra la tecnicalità operativa nell’organizzare lo strumento militare e/o dispiegarlo sul campo di battaglia con il fattore politico, morale e psicologico che ne è il necessario presupposto. Riassunte compendiosamente le idee espresse nel succitato corpus dal generale Marco Bertolini (e che trovano una sorta di loro summa nell’ultima succitata recente  intervista magistralmente condotta da Giuseppe Germinario) sono le seguenti: 1) contrariamente a quanto si è voluto far credere da parte dell’italica – e politicamente  interessata – incultura militare un esercito costituito solo da un piccolo numero di professionisti (come quello che si voluto far diventare l’esercito italiano) è una totale assurdità. La guerra non può essere fatta solo da ristrette élite di corpi ultraspecializzati, dietro (o meglio: davanti) a loro ci deve essere sempre un’ingente massa d’urto; e se va da sé che se questa massa d’urto non può più essere la classica indistinta “carne da cannone” modello guerre napoleoniche o prima guerra mondiale, è ancora più assurdo che la guerra possa essere un affare riservato a qualche corpo ultraspecializzato e/o ultratecnologizzato; 2) conseguentemente a questo primo indiscutibile assunto, con l’abolizione nel nostro paese della servizio militare di leva, nell’esercito italiano è iniziato un inarrestabile declino caratterizzato da A) assoluta impossibilità di essere una reale e credibile difesa dei confini nazionali ma anche di fungere da strumento operativo per supportare, anche se solo a livello di deterrenza e come risorsa di ultima istanza,  la politica estera del nostro paese, B) visti gli esigui numeri conseguiti attraverso la “professionalizzazione” dell’esercito, impossibilità di effettuare un efficace turnover e quindi, in ultima istanza, con conseguente  graduale ed inarrestabile degrado professionale di questi professionisti per una professione, quella delle armi, che tutte le qualità umane richiederebbe, tranne quella di avere uomini da impiegare sul campo con la pancetta dell’impiegato e con gli acciacchi dell’età (con altrettanto conseguente deleteria tendenza da parte di costoro a sindacalizzarsi, il che confligge col più elementare concetto di gerarchia militare), C) vista la reale ed effettiva de professionalizzazione di questi “professionisti”, loro impiego improprio in funzioni di supporto alle forze dell’ordine, cosa in sé non sbagliata in linea di principio ma assolutamente sbagliata nei modi con cui vi si è massicciamente ricorsi in Italia perché, così facendo, si riducono ancor di più i momenti addestrativi di questi professionisti; 3) importanza assoluta nel mestiere delle armi, dal più umile fante alle più alte gerarchie, del fattore etico-morale di coloro che vi si dedicano. Torniamo all’Arte della guerra. I due snodi  sui cui ruota tutto il trattato polemologico machiavelliano sono la ordinanza e il deletto, vale a dire la leva obbligatoria e la scelta e/o addestramento di questi uomini  provenienti dalla leva obbligatoria nei diversi compiti, dove nell’Arte della guerra viene cristallinamente sottolineato che la successiva cernita da questa originaria massa umana proveniente dalla leva obbligatoria deve tenere nel massimo conto la componente etica-morale del combattente, cosa che viene altrettanto cristallinamente sottolineata e ripetuta ad ogni piè sospinto anche nel corpus del generale Bartolini pubblicato sull’  “Italia e il Mondo” e che costituisce, come è di tutta evidenza, il vero e proprio endoscheletro di tutta l’argomentazione illustrata nei precedenti punti. Orti Oricellari, l’accademia filosofico-politica di Palazzo Ruccellai nata nel clima  di un tardo Rinascimento che ha intrapreso la via di inarrestabile decadenza politica e civile e che a questa decadenza cercava di reagire  e in cui il protagonista indiscusso di questo tentativo di reazione fu  Machiavelli e dove il Segretario fiorentino aveva ambientato il suo trattato sull’Arte della guerra che ha  la forma letteraria di un dialogo svolto, appunto, nell’ameno giardino di Palazzo Ruccellai fra Fabrizio Colonna (capitano di ventura dell’epoca realmente esistito ma che, nella realtà, dietro il quale si celava la figura reale di Niccolò Machiavelli, che proprio negli incontri negli Orti Oricellari con i suoi giovani discepoli aveva concepito il suo trattato) e i suoi giovani ascoltatori, e un blog di geopolitica del XXI secolo, “L’italia e il Mondo” dove, nonostante le incommensurabili differenze nelle tecniche comunicative e di  sociabilità fra questi due luoghi di elaborazione politica distanziati da cinque secoli si cerca di far rivivere quella tradizione di realismo politico repubblicano che fiorito in quel tardo Rinascimento diede inizio alla nostra modernità politica, che idealmente ed operativamente ebbe il suo terminus a quo da Machiavelli e non da Hobbes e/o Locke come vorrebbe la vulgata liberale. La giustificazione di questo impegnativo assunto viene anche dalle parole del generale Bertolini, il cui potere iconoclastico rispetto alle attuali “pappe del cuore” del paradigma politico e culturale (e mitologico) democraticisitico-liberal-liberista ci piace vedere riassunto nella seguente sua  affermazione tratta da Geopolitica spietata, pubblicata sull’ “Italia e il Mondo” in data 31 dicembre 2018: «L’esempio dell’inutile articolo 11 della Costituzione è emblematico: al di là dell’inconsistenza di un “ripudio” (della guerra) che non può che essere solo retorico, tale presa di posizione impedisce all’Italia di fare i conti (almeno a parole) con una costante della storia e toglie dignità agli strumenti militari dei quali continua comunque ad essere dotata (le Forze Armate). Conseguentemente, al nostro paese non resta che mettersi disciplinatamente al seguito di coloro che tali remore non nutrono e che continuano ad essere ben determinati a perseguire i propri interessi – ovviamente travestiti da interessi “comuni” – con tutti i mezzi, inclusi quelli bellici.» e che nella rude parresia di un vigoroso (e combattivo e conflittualistico) repubblicanesimo civile di stampo machiavelliano sembrano quasi fare da contraltare  ai mesti (e totalmente giustificati) scambi di battute dell’ultima intervista di Giuseppe Germinario a Marco Bertolini, nei quali si dispera sulla possibilità di invertire la triste situazione del nostro paese. Ma come Fabrizio Colonna (cioè Machiavelli) disperava nell Arte della guerra di compiere questo revirement, la composizione dellopera avvenuta attraverso i colloqui degli ameni giardini Orti Oricellari ed anche, si parva licet compenere magnis, il nostro continuamente proporre le ragioni di un repubblicano realismo politico, una comunicazione ed elaborazione in cui i qualificati interventi del generale Bertolini costituiscono una preziosa componente, smentiscono questo pessimismo, che può essere sì della ragione ma solo se si premetta, come fa Bertolini, che la ragione non è mai una gelida analisi avulsa dai valori ma un processo dinamico e creatore in cui i valori morali (e quindi anche politici, se per politica si intende unazione pubblica guidata dalla più profonda morale machiavelliana sempre animata alledificazione e rafforzamento, a differenza e con segno polarmente contrario dalle attuali democrazie rappresentative, di una vitale e non retorica Res Publica) rivestono massima ed unica importanza.  Di questo era consapevole Machiavelli, di questo era consapevole Clausewitz (profondo conoscitore del Segretario fiorentino: sullimportanza nel riconoscimento  nel pensiero clausewitziano dello strettissimo legame fra guerra e politica,  cfr. Peter Paret, Machiavelli, Fichte, and Clausewitz in the Labyrinth of German Idealism, “Ethics & Politics”, Vol. XVII(3), 2015,  pp. 78-95, all’ URL  https://www.openstarts.units.it/bitstream/10077/12194/1/06_E%26P_2015_3_PARET.pdf, Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20200503220857/https://www.openstarts.units.it/bitstream/10077/12194/1/06_E&P_2015_3_PARET.pdf/) e di questo è assolutamente consapevole anche Bertolini. Fosse sole per questo gli dobbiamo grande gratitudine e, assieme a questo riconoscente sentimento, una profonda fiducia su un comune e fattivo cammino contro la la pandemia da  Cthulhu morbus  dello  spazio psichico, culturale, sociale, politico e giuridico delle odierne democrazie rappresentative e   di cui le ultime vicende epidemiologiche ma soprattutto politiche e giuridiche del coronavirus non sono che lultima e più importante manifestazione e sintomo.  Ma di questo, ed anche sempre sostenuti da un retto pensiero polemologico (e quindi politico) che fu di Machiavelli, di Clausewitz e oggi rivive in Bertolini, fra non molto riparleremo.

Massimo Morigi – 4 maggio 2020

 

 

 

 

 

 

SULLE STRATEGIE DA CORONAVIRUS, di Andrea Zhok

SULLE STRATEGIE DA CORONAVIRUS

Il livello della discussione pubblica, già usualmente bassissimo, è crollato nelle ultime settimane con riferimento alle tematizzazioni relative alla corrente pandemia.
Come ho provato a spiegare in un precedente post, credo che le ragioni siano da ricercare nelle condizioni di oggettivo disagio, legate sia alla clausura sia alle preoccupazioni economiche, che hanno scatenato la ricerca psicologica di ogni giustificazione possibile che si conformasse ai propri desideri.
Se la dinamica del wishful thinking è una dinamica comune, in periodi di stress intenso e collettivo essa può divenire ‘epidemica’.
Siccome per i più – del tutto comprensibilmente – l’unico desiderio dominante ora è quello di ritornare alla ‘normalità’, qualunque straccio di argomento, qualunque pezza d’appoggio, che sembri utile a questo fine viene brandita con la forza dell’esasperazione.
E’ umano.
Non lo rende di per sé né giusto, né intelligente, ma è umano.

Ora, rispetto a questo tipo di discorsi, con le connesse polemiche, vorrei provare a fare un passo indietro, sollevando una serie di argomenti, uno alla volta, senza pretese di sistematicità, intorno all’analisi della situazione e alle strategie adottabili alla luce di ciò che sappiamo (o non sappiamo) dell’attuale epidemia.

Partiamo da un primo interrogativo. Qual è il problema rappresentato dal Covid-19? Si tratta di diversi problemi, stratificati. Il primo, più ovvio, è quello della capacità del virus di uccidere.

I) Mortalità e letalità.

La letalità, come noto, non è la mortalità, ed è per questa ragione che il 90% degli argomenti comparativi che circolano sono carta straccia.
La letalità è il rapporto tra contagiati e deceduti, ed è l’unico dato che si può cercare di avere nel corso di un’epidemia.
La mortalità è il rapporto tra popolazione totale e i deceduti totali, ed è un dato che si può valutare solo a consuntivo (per questo tutti gli argomenti che formulano comparazioni di mortalità generale sono sciocchezze: il dato sulla mortalità lo avremo tra anni).

Quanto alla letalità, essa dipende innanzitutto da cosa mettiamo al numeratore (la rilevazione dei contagiati) e poi anche da quanto affidabile è la nostra rilevazione del denominatore (chi è davvero morto per quella malattia).
Entrambi i dati per il Covid-19 sono oscillanti e instabili (siamo piuttosto sicuri che siano entrambi sottostimati, ma chi sia più sottostimato e di quanto è ignoto).
Inoltre, nel caso Covid-19, non sono comunque dati che definiscono univocamente la “pericolosità letale della malattia”, visto che tale pericolosità dipende certamente anche da:
1) quale gruppo è colpito (giovani, anziani, con o senza patologie, ma anche possibili varianti di resistenza o sensibilità etnica);
2) qual è la capacità di risposta del sistema sanitario;
3) se tutte le varianti del virus abbiano le medesime caratteristiche patogene (che il virus muti in più ceppi è certo);
4) se tutte le condizioni ambientali producano le medesime condizioni di virulenza.

La maggior parte delle comparazioni che facciamo corrono il serio rischio di essere comparazioni tra mele e pere, tra unità del tutto incommensurabili.

Finora il principale dato solido su cui c’è unanime consenso (almeno di quelli di cui vale la pena di avere il consenso) è che il virus corrente è in condizioni di incrementare la propria pericolosità toccando il punto 2), cioè oberando il sistema sanitario sino alla creazione di gravi inefficienze o paralisi. Nei casi in cui ciò è avvenuto (in due focolai lombardi e a Madrid) gli esiti fatali della malattia sono incrementati enormemente.

Inoltre la paralisi del sistema ospedaliero può naturalmente incrementare anche la pericolosità di altri malanni e incidenti.

Sul piano strategico credo che almeno questo punto possa essere dato per acquisito: crisi acute che compromettano la funzionalità della risposta del sistema sanitario vanno evitate.

Il punto 4) è un punto spesso sottostimato. Alcuni segni oggi sembrano indicare che anche il Covid-19, come molti virus respiratori, abbia un andamento stagionale. E’ interessante osservare come le ragioni per cui molti virus abbiano carattere stagionale sono ancora oggetto di mere congetture: si ipotizza che possa dipendere da un’oscillazione climatica delle difese immunitarie, o da condizioni di temperatura e umidità (o smog) che favoriscono la replicabilità e la trasmissione del virus. Ma appunto, si tratta di congetture prive di una chiara prova scientifica.
Quello che è certo è che se il virus ha un andamento legato a condizioni ambientali specifiche, allora può ben darsi che in certi luoghi e in certi momenti possa diffondersi con molto maggiore violenza che in altri, senza che noi si sia in grado di spiegare chiaramente perché.
Un dato invece oramai consolidato è che la contagiosità del Covid-19, in assenza di contenimento, è distintamente maggiore di quello dell’influenza stagionale (R0 di 1,3 per l’influenza, R0 oscillante tra il 2 e il 4 per il Covid-19).

II) Dannosità

Concentrarsi sulle implicazioni fatali del virus è tuttavia in parte fuorviante. Non sappiamo ancora molto, ma quello che sembra chiaro è che a fronte di un numero di decessi circoscritto abbiamo un numero di soggetti seriamente colpiti (bisognosi di ricovero ospedaliero) che (calcolo personale, fatto sulla base dei dati italiani) supera di 15 volte il numero dei decessi (in ospedale).
Che si tratti di un tasso di ricoveri incommensurabile con qualunque influenza a noi nota è evidente.

Che accade a chi passa attraverso una forma grave di coronavirus? Non è ancora chiaro. Premesso che solo una piccola parte muoiono, se la malattia lasci strascichi, in quale misura, e in chi, è oggetto di studio ora. Lascia sicuramente gli strascichi tipici delle polmoniti virali, il che significa un paio di mesi circa per il pieno recupero. In alcuni casi sembra colpire altri organi (reni, apparato cardio-circolatorio, sistema nervoso centrale). Ci sono sospetti che possa incrementare altre patologie (è di pochi giorni fa l’associazione fatta in UK con una forma della sindrome di Kawasaki, nei bambini).

In questo campo, parlando di un virus fino ad oggi ignoto, lo spazio per le ipotesi è sgradevolmente vasto. Può darsi che nella stragrande maggioranza dei casi tutto si risolva senza alcuna conseguenza duratura, o può darsi che non sia così. Questo spazio di variabilità lascia libero gioco all’espressione delle propensioni caratteriali delle singole persone: c’è chi è più propenso alla scommessa, all’azzardo, e chi è più propenso ad un atteggiamento prudente, conservatore. Qui non c’è purtroppo un modo per dirimere la questione sul piano razionale. L’unica cosa che però è doveroso tener ferma è appunto l’ampiezza dello spazio delle opzioni, che non giustificano né un terrorismo preliminare, né una liquidazione con un’alzata di spalle.

Una delle variabili più importanti che sembra sia necessario prendere in considerazione nel caso di Covid-19 (come e più che in altri virus) è la questione della cosiddetta “carica virale”. Per molti virus la quantità di virus con cui si viene a contatto incide in modo significativo sulla gravità del decorso. Recenti osservazioni sul Covid-19 fanno ritenere che questo fattore sia qui molto rilevante (questo spiegherebbe la maggiore gravità nell’incidenza sul personale ospedaliero, esposto a quantità maggiori di virus). L’ipotesi che è stata fatta da alcuni ricercatori è che il virus abbia due decorsi radicalmente differenti a seconda se superi o meno le vie aeree superiori. Un organismo con buone difese immunitarie e in presenza di una modesta carica virale nell’aria contiene l’infezione nell’area superiore, dando luogo ad una malattia non dissimile dalle influenze stagionali. Se invece la carica virale è elevata (e/o le difese sono basse) si scatena una polmonite, cambiando repentinamente il livello di gravità della malattia.
Questo è un aspetto di cui bisogna tenere attentamente conto quando si prendono in considerazione le ‘strategie di contenimento’.

Riassumendo provvisoriamente, prima di dedicare un post a parte alle strategie di contenimento, quello che mi pare sia possibile usare come base di partenza intorno all’aspetto medico del Covid-19 è questo:

1) Il virus ha caratteristiche chiaramente più gravi delle influenze stagionali.
2) L’entità precisa di tale gravità non è al momento precisamente quantificabile, né sono certi gli effetti di lungo periodo;
3) Gli esiti fatali sono solo un aspetto della gravità della malattia da prendere in considerazione;
4) La contagiosità del coronavirus è comparativamente elevata;
5) Il virus ha la capacità di mettere in crisi il sistema sanitario;
6) In una valutazione di ‘riduzione del danno’ non solo il fattore della diffusione dei contagi, ma anche quello della concentrazione delle cariche virali dev’essere attentamente considerato;
7) Vista l’enormità degli spazi di ignoranza relativi alla presente epidemia, bisogna rigettare sia allarmismi terroristici sia minimizzazioni consolatorie: entrambi gli estremi vanno espulsi da qualunque dibattito che si voglia produttivo.

Una volta fissati i dati da cui partire con riferimento alla minaccia rappresentata dal Covid-19 (vedi post precedente) possiamo provare ad affrontare alcuni scenari relativi alle strategie adottate o adottabili.

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I) Eradicazione o riduzione del danno?

La prima questione da discutere riguarda la strategia di fondo che è possibile o sensato adottare nei confronti dell’attuale epidemia. Le strategie di fondo sono due: la prima contempla l’eradicazione e il ritorno alla situazione precedente, la seconda contempla una convivenza con riduzione del danno nel lungo periodo.
La prima strategia è quella adottata con successo in Cina e Corea del Sud. Eradicazione non significa che non ci sia mai più nessun caso (cosa che ovviamente nessuno può mai garantire), ma che una volta azzerato per qualche giorno il contagio ci si può limitare ad una sorveglianza pronta ad intervenire prontamente, mentre il sistema riprende a funzionare come prima (salvo per maggiori controlli rispetto alle relazioni con merci e persone provenienti dall’estero). L’eradicazione non è affatto una prospettiva impossibile in Italia o in Europa. Molte regioni italiane sono a un passo dall’eradicazione (una settimana a casi zero può essere considerata una soglia che rappresenta l’effettiva eradicazione e circa metà delle regioni italiane potrebbero raggiungerla in 2-3 settimane). Una volta raggiunta quella soglia si potrebbe riaprire tutto senza particolari precauzioni, mantenendo solo un’elevata sorveglianza e limitazioni agli spostamenti rispetto a regioni che non sono a livello zero. Il problema è che per alcune regioni, in particolare Lombardia e Piemonte, l’eradicazione appare come un orizzonte assai lontano, e la prosecuzione di condizioni restrittive come le presenti per un tempo lungo e sostanzialmente indefinito è insopportabile (oltre alla questione economica, di cui sotto, si finirebbe per minare altrimenti la salute psicologica e organica della stessa popolazione che si cerca di preservare).

Questo significa che ci possono essere in Italia due strategie possibili. Premesso che perseguire attraverso un blocco perdurante una strategia di eradicazione per tutto il paese è impercorribile, delle due l’una: o si adotta una strategia di riduzione del danno (convivenza) per tutto il paese, o si adotta una strategia differenziata a livello regionale (Molise e Basilicata, ed esempio, potrebbero essere ritenute Covid-free in pochi giorni, e riprendere una vita normale, salvo che per gli spostamenti interregionali; Sardegna, Calabria e Valle D’Aosta sono ad un passo; Sicilia, Umbria, Friuli Venezia Giulia, Puglia potrebbero fare la stessa scelta tenendo duro qualche giorno in più; altre ancora si rassegnerebbero da subito ad una strategia di riduzione del danno). Naturalmente in tutte le regioni prossime all’eradicazione, anche una strategia di riduzione del danno può portare all’eradicazione, solo su tempi un po’ più lunghi.

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II) Trade-off ‘economia-vita’?

Si è sentito e si sente spesso parlare della necessità di bilanciare le esigenze della sicurezza con quelle dell’economia. Questa impostazione però, così definita, è sbagliata. È sbagliata sia perché le esigenze di sicurezza non limitano soltanto le ragioni dell’economia, ma anche quelle di una buona vita per molti (i costi della clausura non sono solo economici), sia perché né l’economia, né una buona vita possono funzionare semplicemente tappandosi il naso e ‘sacrificando la salute/sicurezza’. Si tratta di un’impostazione priva di senso.

Da un lato, le persone non possono restare in gabbia all’infinito, dall’altro è completamente illusorio pensare che un ‘via libera’ governativo possa far riprendere magicamente le transazioni economiche sui livelli precedenti. È terribilmente ingiusto e amaro, ma è un dato di fatto che per molte attività non ci sarà nessun ritorno alla normalità, quali che siano le disposizioni ministeriali. Soprattutto nei settori del turismo e della ristorazione, e in molti settori del commercio, una riduzione durevole della circolazione è da mettere in conto. Questo perché i calcoli ‘costi benefici’ (sui generis) non li fanno solo le aziende, ma anche le persone. Per le cose necessarie o essenziali si può correre un rischio, per quelle inessenziali o di diporto, molto meno. Dunque, dopo il danno dei mesi scorsi, per molti settori non ci si può aspettare nessuna ripartenza col botto. E qualunque recrudescenza dei contagi porterebbe, che il governo intervenga o meno, ad una rarefazione delle uscite. Va da sé che una eventuale ripresa di diffusione del contagio su grande scala – con conseguente compromissione del servizio sanitario – non potrebbe che richiedere un ritorno a Square 1, con ripristino di blocchi estesi nel tempo e nello spazio. Ovvero una catastrofe.

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III) Strategie

Quali sono le strategie disponibili e, rispetto a quanto proposto finora dal governo, ci sono dei correttivi possibili e consigliabili?

III.1) Il governo propone aperture circoscritte, scaglionate nel tempo, in modo da poter controllare l’insorgere di eventuali nuovi focolai. Di per sé, nelle sue linee generali, questa strategia è l’unica sensata, e scommette sulla possibilità di conservare, attraverso le precauzioni imposte (mascherine, distanziamento) il tasso di contagio R0 al di sotto di 1. È una scommessa sensata. Con il conforto della bella stagione, visto che è certo che la diffusione dei virus respiratori in spazi aperti è rara, e visto che il Covid-19 sembra mostrare le caratteristiche di un virus stagionale, è ben possibile che queste aperture scaglionate consentano di proseguire una tendenza positiva, arrivando all’autunno con livelli di contagio molto bassi su tutto il territorio nazionale.

III.2) Rispetto a quanto deciso dal governo, questo scaglionamento sarebbe potuto avvenire in modo differenziato a livello regionale. Invece che porre delle date generiche, che di per sé non hanno molto senso, si sarebbe potuto far dipendere i livelli di apertura dal tasso di contagi. Per quanto l’iniziativa dalla Regione Calabria sia da stigmatizzare per le forme, è vero che nelle regioni prossime a zero contagi almeno le attività all’aperto (che non implicano assembramenti) potrebbero riaprire subito.

III.3) Rispetto a quanto deciso dal governo, i sistemi di intervento sanitario precoce e domiciliare dovrebbero essere attivati sistematicamente, su tutto il territorio nazionale, e dovrebbero essere accompagnati da direttive precise sulle procedure di contenimento in caso di necessità di spegnere un focolaio. Non è chiaro se qualcosa in questo senso sia stato fatto. Se è stato fatto non è stato comunicato. Sono stati commessi errori gravi con la prima ondata del virus, ma in qualche misura scusabili per la scarsa conoscenza delle caratteristiche del medesimo; ma un secondo errore sul piano degli interventi sanitari sarebbe imperdonabile.

III.4) Rispetto a quanto deciso dal governo, la famosa ‘app’ per rintracciare i contatti dovrebbe essere resa obbligatoria. La debolezza oggettiva dell’esecutivo si vede in questo come in altri comportamenti: di fronte alle pressioni abbozza e cede. Questa app, nelle forme ampiamente descritte sui media, presenterebbe rischi per la privacy infinitamente inferiori a quelli che corriamo da anni davanti all’uso commerciale delle nostre informazioni. Va bene richiedere cautele e controlli pubblici, ma qui La levata di scudi libertaria è e resta una pagliacciata. Quella app, se adeguatamente funzionante e di uso generalizzato, sarebbe una garanzia di poter spegnere qualunque nuovo focolaio. E una volta superata la crisi la si può disinstallare (oppure cambi lo smartphone, se ritieni che la Spectre brami conoscere i tuoi spostamenti). Qui limitarsi alla ‘moral suasion’ renderà la app inutile e renderà molto più probabile la necessità di procedere a blocchi più estesi.

III.5) Rispetto a quanto finora detto dal governo manca un importante chiarimento. Non sappiamo come evolverà la situazione da qui all’autunno. Potrebbero essere scoperte cure miracolose, o il virus potrebbe magicamente scomparire da sé. Oppure no. Potremmo avere una tendenza al riaccendersi stagionale dell’infezione sul modello dell’influenza, senza la disponibilità di cure efficaci. In questo secondo scenario dobbiamo mettere in conto una ripresa dell’attività a settembre, quando con il peggioramento delle condizioni atmosferiche la tendenza agli assembramenti in luoghi chiusi crescerà esponenzialmente. Dovrebbero riprendere scuole ed università a pieno ritmo. Tutte le attività che nei mesi estivi hanno potuto approfittare del bel tempo, svolgendosi all’aperto (dalle attività sportive ai bar) si ritroveranno a dover giocare indoor. L’uso di mezzi di trasporto personale a scarso impatto (piedi, bicicletta, motorino) si ridurrà a favore dei mezzi pubblici.
Se arriveremo a settembre con livelli di circolazione del virus ancora elevati sarà un bel problema. In quest’ottica dovrebbero essere avviati sin d’ora progetti per trasferire tutto ciò che può essere trasferito in ‘smart working’.

Per quanto riguarda la scuola, bisognerebbe prendere in considerazione la possibilità che si ripresentino condizioni emergenziali. Visto l’enorme impatto sugli spostamenti e sugli assembramenti che scuola e università hanno, bisognerebbe studiare attentamente piani alternativi che non compromettano la preparazione degli alunni (come di fatto è avvenuto, nonostante gli sforzi dei docenti, in questi mesi), e che non si limitino a scommettere sul fatto che “andrà tutto bene”. Il tema è enorme e non ci provo neppure a impostarlo qua, ma è assolutamente cruciale. Sanità e scuola sono i due settori che sono stati tagliati di più negli scorsi anni, nel nome di un efficientamento delle risorse – che vuole dire fare i miracoli con risorse scarse. Per la scuola questo ha significato ridurre e concentrare le sedi, diminuire il rapporto tra docente e studenti, stipare gli studenti in aule inadeguate. Tutto questo e molto altro sarà da ripensare, ed il momento per farlo è ora.

III.6) Nota finale. Gli interventi del governo sono migliorabili. Sono soprattutto enormemente migliorabili sul piano degli aiuti economici, dove però interviene il Moloch della questione europea.
Ma chiunque in questa fase, per l’usuale tornaconto elettorale, gioca al gioco del ‘liberi tutti’, del ‘riapriamo tutto’ purchessia, senza farsi carico di spiegazioni dettagliate su quali scenari prefigura per gli italiani, è un irresponsabile, indegno di esprimersi sulla scena pubblica, da cui dovrebbe scomparire.

https://www.facebook.com/andrea.zhok.5/posts/1525015561013171

UN GIURISTA EUROSCOMODO, di Teodoro Klitsche de la Grange

UN GIURISTA EUROSCOMODO

Il 17 aprile scorso è venuto a mancare Giuseppe Guarino, illustre giurista ed avvocato, oltre che deputato e più volte ministro. In tempi di MES e di euro-furberie, buona parte dei commenti a caldo (specie sui media ad elevata diffusione) hanno voluto ricordare che era un europeista. Dato che purtroppo oggigiorno l’aggettivo non accomuna tanto ad Adenauer, Martino, Monnet e ai “padri fondatori”, ma a qualche grigio euroburocrate o a governanti nazionali euroasserviti , il rischio di equivocare il pensiero di Guarino, strumentalizzandone la figura, è alto. Per la verità, scendendo nell’audience, i “coccodrilli” sul giurista sono più equilibrati, e ricordano come avesse criticato l’andazzo preso dall’Unione europea nell’ultimo trentennio, che aveva tradito – in larga parte – la visione dei fondatori.

E lo fece da giurista, sostenendo l’invalidità di atti dell’U.E., contrari ai trattati e alla “funzione” dell’Unione europea.

Il saggio che sviluppa in modo più completo le tesi critiche di Guarino è “Cittadini europei e crisi dell’euro”, pubblicato nel 2014 dall’Editoriale Scientifica. La recensii quasi subito nel numero 55 (on-line) di “Behemoth”. Dopo poco tempo l’editore (mi si disse su segnalazione del prof. Guarino) chiese l’autorizzazione a pubblicarla anche (in stampa) sulla rivista “Diritto comunitario e degli scambi internazionali”.

In tempi in cui pompose mediocrità, per lo più affette da complesso euroancillare cercano di perseverare (anzi di aggravare) negli errori che il prof. Guarino con tanto acume (giuridico e politico) stigmatizzava, mi sembra utile riproporla ai lettori.

Teodoro Klitsche de la Grange

Giuseppe Guarino, Cittadini europei e crisi dell’euro, Editoriale scientifica, Napoli 2014, pp. 185, € 14,00.

 

Questo è un libro denso di idee, E quel che parimenti interessa, aderenti alla realtà: quella da cui molti giuristi, in specie quelli più à la page, rifuggono.

È scritto da un giurista dotato di visione non limitata al proprio ambito scientifico (in genere strettamente inteso). La cui tesi di fondo è che i guai provocati dall’euro (che siano guai è sicuro, e Guarino cita – all’uopo – ripetutamente i dati, drammaticamente sconfortanti, della stagnazione dei paesi dell’area “euro”), siano dovuti ad un regolamento, illegale perché contrario al TUE (Maastricht), che ha realizzato un vero e proprio golpe. Scrive l’autore “Il golpe è stato attuato a mezzo del reg. 1466/97. Per la formazione del regolamento, come si è detto, si è fatto ricorso alla procedura di cui agli artt. 103, n. 5 e 189 c) TUE che, nello stesso momento in cui è stata utilizzata, è stata anche violata perché ce se ne è avvalsi per uno scopo diverso dall’unico previsto.

La procedura di cui agli artt. 103, n. 5 e 189 c) TUE in nessun modo avrebbe potuto essere impiegata per modificare norme fondamentali del Trattato. L’essersene avvalsi configura una ipotesi non di semplice illegittimità, bensì di incompetenza assoluta. Gli atti adottati sono di conseguenza non illegittimi, ma nulli/inesistenti”. Il che comporta, a ragionare con precisione e consequenzialità giuridiche, la responsabilità degli organi dell’Unione e delle persone fisiche che lo hanno posto in essere. Per cui abrogare il predetto regolamento attraverso un contrarius actus non è nulla di illegale o illegittimo, ma è semplicemente il ripristino di una situazione di legalità internazionale, perché le norme mutate dal regolamento 1466/97 sono disposizioni di Trattato internazionale. Ma cosa ha prescritto il regolamento 1466/97 in violazione sia delle norme dei Trattati sia degli obiettivi dell’Unione, come dei diritti degli Stati. Scrive Guarino: “Quanto all’Unione è stato modificato, in modo radicale ed irreversibile, l’obiettivo principale, consistente (artt. 2 e 3 TUE) nel conseguimento di uno sviluppo dalle caratteristiche e secondo le modalità previste nei suddetti articoli e nell’aver abrogato, per aver regolato in modo diverso la intera materia, l’art. 104 c) TUE, contenente la disciplina dei mezzi di cui gli Stati si sarebbero potuti avvalere per l’adempimento all’obbligo di promuovere sviluppo.

Quanto agli Stati la illecita variazione consiste nell’averli privati, con l’abrogazione degli artt. 102 A, 103, 104 c) TUE, nonché degli altri connessi, a mezzo di norme (quelle del reg. 1466/97) regolanti in modo diverso l’intera materia , degli unici poteri politici ad essi attribuiti in funzione alla conduzione economica dell’Unione”, e aggiunge l’autore che ciò “ha inciso sul carattere fondamentale dell’Unione, in assenza del quale gli Stati non sarebbero stati legittimati a parteciparvi, quello della democraticità. È l’affermazione che tra tutte genera la massima incredulità”.

L’acuto giurista sostiene che, per rimediare, e data la comprovata dannosità dell’attuale disciplina dell’euro, tra l’altro non conforme al TUE, ma in violazione dello stesso, occorre,per i paesi a rischio, un’uscita concertata dalla moneta unica, che non ha nulla di illegale, dato che significa il passaggio da paese senza deroga a paese con deroga, come ce ne sono – allo stato – undici nell’U.E. La soluzione migliore sarebbe che lo facessero di concerto quattro o cinque Stati. Meglio se tra i promotori ci fossero la Francia e l’Italia.

Ci sono tante cose in questo libro, e con dispiacere il recensore, ratione officii le  deve tralasciare per concentrarsi su due che colpiscono più di altre i giuristi, e che sottolinea per i lettori.

La prima che Guarino, a proposito della disciplina dell’euro, la definisce robottizzata: ossia di una moneta che non ha – sopra – un vertice politico decidente e decisivo, ma solo una regolazione normativa. Ma se è così (e così è) la regolamentazione dell’euro ha un pregio: verificare sul piano fattuale la non praticabilità di un assetto fondato sulla perfezione (bontà, saggezza) della normazione, senza un potere che diriga e all’occorrenza ne deroghi. L’idea del nomos basileus applicata, nel caso, alla moneta comune, si è rivelata illusoria . Il pensiero va a de Maistre e al suo giudizio tranchant  “il n’est pas au pouvoir de l’homme de créer une loi qui n’ait besoin d’alcune axception”. L’eccezione  serve di tanto in tanto: ma la necessità di adeguarsi ai cambiamenti è costante. E la regolamentazione dell’euro non ne ha tenuto conto; essendo stato pensato (e ri-pensato) in un periodo di cambiamento, ha una disciplina che poteva essere congrua in periodi di stabilità – come quello dalla fine del secondo conflitto mondiale al crollo del comunismo – non lo è quando la situazione si “mette in movimento” (ossia negli ultimi vent’anni), per cui occorrono flessibilità, adeguamenti; cioè decisioni. Il tutto ricorda la critica che un altro acuto giurista, Hauriou, rivolgeva ad Hans  Kelsen e al normativismo: che il giurista austriaco aveva immaginato un sistema statico, e per ciò inadatto alla vita, che è movimento ed alla quale il diritto si deve adeguare.

Ma come ci si può adeguare se il potere “adeguatore”, cioè quello politico, manca? Essere guidati dall’impersonalità della norma, piuttosto che dalla personalità della decisione è una prospettiva forse seducente, ma del tutto irreale, come salire su un automobile senza conducente:prima o poi si va a sbattere. É quello che hanno constatato gli europei. Si è sognata – nel XX secolo, la “Costituzione senza sovrano” (Kirkheimer – e tanti altri, dopo) per verificare che senza sovrano  non può funzionare neppure la moneta.

La seconda: a prescindere dalla lettera della normativa, farcita di buone ed appetibili intenzioni è al contenuto effettivo, e al senso delle norme che deve guardarsi. Come scrive Guarino “la modifica introdotta dal reg. 1466/97 rispetto al TUE (Maastricht), sul piano formale, è consistita nell’abrogazione di un diritto-potere, quello degli Stati di concorrere alla crescita con la propria “politica economica”, concorrendo così anche alla crescita dell’Unione, sostituendola con un obbligo/obbligo, gravante sugli Stati, avente come contenuto il pareggio del bilancio a medio termine, da conseguirsi nel rispetto di un programma predeterminato. Gli elaboratori delle norme non si sono resi conto delle conseguenze che sarebbero derivate dall’aver messo a base del sistema, un “obbligo” al posto di un “potere”. Di conseguenza il sistema ha leso la libertà degli Stati, ossia delle comunità di decidere come, quanto e in quali direzioni crescere. La libertà politica comunitaria è in primo luogo quella di scegliere scopi, mezzi e forme del vivere comune e si chiama sovranità; adesso non “va di moda” ma non se ne può prescindere, ancor meno di quanto si possa fare a meno della libertà individuale.

Nel complesso un libro che si consiglia di leggere dato il surplus di idee che lo connota. In un coro di banali cortigianerie agli idola ed ai potenti (economici, burocratici e politici) di turno sentire qualcuno che non canta nel coro (ed è molto intonato) è salutare e necessario.

Teodoro Katte Klitsche de la Grange

il monolite, di Giuseppe Masala

La logica è un monolite ineludibile. E nella questione dei piani di salvataggio dei paesi mediterranei dell’euro questo fatto emerge in tutta la sua stringente drammaticità.
La Spagna ha margini per agire dal punto di vista del debito pubblico ma ha il sistema bancario che è un colabrodo sovraesposto nei confronti dei paesi emergenti e potrebbe essere necessaria (io direi che sarà necessario senza dubbio) un salvataggio del sistema bancario da parte dello stato che a quel punto avrebbe bisogno di ricorrere al Mes (tutto questo si è già verificato nel 2011), la Grecia ad andar bene farà un -10% di Pil ed è già debitrice del Mes ma con il calo di gettito per pagare le rate del Mes dovrebbe procedere ad ulterirori tagli dal bilancio dello stato acuendo la crisi oppure richiedendo un nuovo finanziamento dal Mes per pagare le rate del prestito del Mes già ottenuto. L’Italia se farà un -10% (ma potrebbe andare peggio) sarà al bivio: o non fa piani di salvataggio ed accettare la distruzione di parte del suo tessuto produttivo e finanziario oppure dovrà ricorrerrere al Mes. Potrei continuare parlando di Portogallo e Irlanda ma tralascio per brevità.
C’è anche il problema che il Mes ha capitale versato che è una parte del capitale sottoscritto. Il primo che farà richiesta prenderà i soldi, ma quando il secondo, il terzo e forse il quarto chiederà i soldi e questi non ci sono e sarà necessario chiamare le cifre sottoscritte ma non versate dai paesi aderenti che succede? Il primo che ha preso i soldi dovrà rifinanziare il Mes? Per esempio se l’italia prende 100 per prima poi dovrà riversare 40 quando la Spagna chiederà i soldi e a loro volta Spagna e Italia dovranno riversare altri 10 a testa quando sarà la Grecia a chiedere i soldi al Mes (peraltro per poter ripagare le rate del Mes acceso nel 2011)?
Non basta. Poi c’è il Recovery Fund che deve essere finanziato se nascerà: dunque i paesi che richiedono il Mes dovranno versare parte di quanto preso per finanziare il Recovery Fund per poter prendere a prestito soldi dal Recovery Fund che poi verranno – ironizzo – ripagare magari facendo un altro prestito al Mes che però non ha i soldi che dovranno essere versati dagli stati tramite un aumento di capitale che gli stati in crisi non possono sostenere e dovranno magari utilizzare i fondi del Recovery Fund oppure tramite l’accensione di un prestito al Fondo Monetario Internazionale che però a quel punto farebbe intervenire la sezione psichiatrica dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per andare a Bruxelles – possibilmente al suono della Fiera dell’Est di Branduardi -, prenderli e rinchiuderli tutti in un manicomio. Amen.

La logica è ineludibile e qui stiamo parlando di un delirio di gente totalmente pazza oppure di cinici che hanno preso tempo con un piano senza capo ne coda in attesa degli eventi.

 

S&P conferma il rating dell’Italia a BBB. Gli americani continuano a tenderci la mano e peraltro si confermano onesti. Di che aggiustamento strutturale può mai aver bisogno un paese che è in avanzo di Bilancia Commerciale e di Saldo Partite Correnti per decine di miliardi e con un Niip in pareggio. Colpevole solo di essere prigioniero di trattati deliranti – senza capo ne coda – che pongono la misura debito pubblico in rapporto al pil come parametro per valutarne la stabilità finanziaria non considerando che se abbiamo un Niip in pareggio significa che la Repubblica Italiana ha un debito nei confronti dei suoi cittadini che però sono la Repubblica Italiana stessa. Senza contare il fatto che se valutassero il debito pubblico dovrebbero degradare a spazzatura il debito degli Usa, del Giappone e dell’Uk per dare l’ambitissima AAA al Congo che ha un invidiabile (sic) rapporto debito/pil del 30%.

Tutto il mondo sta dicendo che i nordeuropei sono o completamente pazzi o dei criminali.

Commentario all’intervista ad Antonio de Martini. Contro la superstizione.., di Massimo Morigi

Commentario all’intervista ad Antonio de Martini di Giuseppe Germinario. Contro la superstizione ed oltre il coronavirus per un nuovo posizionamento internazionale dell’Italia

 

Di Massimo Morigi

 

In data 17 aprile 2020 il blog di geopolitica “L’Italia e il Mondo” ha pubblicato la videointervista Conversazione fra Giuseppe Germinario e Antonio de Martini. Crisi epidemica, implicazioni, conseguenze, opzioni politiche. L’URL dell’ “Italia e il Mondo” presso il quale si può prendere visione dell’intervista è http://italiaeilmondo.com/2020/04/17/le-nuove-strade-aperte-dal-coronavirus-con-antonio-de-martini/#disqus_thread come è pure possibile visionare il documento presso YouTube all’URL https://www.youtube.com/watch?time_continue=5937&v=lEMtpmevFJU&feature=emb_logo.  Nell’augurio che l’ “Italia e il Mondo” protragga in saecula saeculorum la sua opera di risveglio del pensiero geopolitico e che la prima piattaforma commerciale di condivisione di documenti audiovisivi tenga a bada la sua natura commerciale, cioè non decida di punto in bianco di eliminare quei documenti che possono vantare meno contatti e quindi di scarsa potenzialità pubblicitaria, ma anche alla luce di un elementare principio di cautela, vista la fondamentale importanza dell’intervista per lo sviluppo del dibattito e (si spera) dell’azione per raddrizzare la schiena del nostro paese, piegata per ultimo dal coronavirus ma della cui tragica condizione  questo agente patogeno è solo la classica goccia che fa traboccare il vaso, dopo  scaricamento dell’intervista si è provveduto al suo ricaricamento presso il maggiore e più prestigioso archivio senza scopo di lucro di raccolta di documentazione digitale, generando così gli URL di Internet Archive  https://archive.org/details/y-2mate.com-le-nuove-strade-aperte-dal-coronavirus-con-antonio-de-martini-l-emtpmev-fju-360p-1  e https://ia801401.us.archive.org/5/items/y-2mate.com-le-nuove-strade-aperte-dal-coronavirus-con-antonio-de-martini-l-emtpmev-fju-360p-1/y2mate.com%20-%20Le%20nuove%20strade%20aperte%20dal%20coronavirus%2C%20con%20Antonio%20de%20Martini_lEMtpmevFJU_360p%20%281%29.mp4, presso i quali non solo l’intervista può essere ugualmente apprezzata ma soprattutto, si spera, il fondamentale documento possa superare quella marxiana “critica rodente dei topi”, nel presente caso non più i piccoli roditori che metaforicamente assalirono l’ Ideologia tedesca ma i ben più temibili e reali roditori dell’universo internettiano che fanno sì che, o per ragioni di sfinimento personale di chi mantiene ed organizza pur fondamentali siti in Rete (e lo ripetiamo per l’ennesima volta, cento di questi giorni all’ “Italia e il Mondo” uno dei pochissimi siti che nel panorama Italiano ed internazionale sappia senza estremismi ma anche senza timidezze dare diffusione ad una concreta cultura politica realista) o per ragioni di bieco tornaconto commerciale (i. e. YouTube e fratellini imitatori) questi documenti, non importa il loro valore, in media abbiano una aspettativa di vita di non più di cinque anni. Tuttavia, siccome dello spirito della Conversazione fra Giuseppe Germinario e Antonio de Martini tutto si può dire (e dal nostro punto di vista non se ne può dire che bene) tranne che sia animata da un malintesa ambizione di passare ai posteri ma è, invece, tutta protesa a fornire concrete indicazioni per il presente, noi che invece ben volentieri gli accordiamo la qualità definita dall’oraziano Exegi monvmentvm aere perennivs, veniamo ora ad enuclearne i  passaggi principali. Se si volesse dare una definizione filosofico-politica della conversazione, definizione che con questo attributo iniziale immaginiamo desti già un moto di ripulsa allo spirito concretissimo (ed acutissimo) di de Martini, si potrebbe dire che essa, al di là della contingenza del coronavirus, non è altro che un dialogo contro la superstizione. Giustificheremo fra poco questa affermazione, apparentemente sorprendente visto che la parola ‘superstizione’ non viene pronunciata una sola volta nel corso del lungo scambio di battute, più di un’ora e tre quarti, fra Antonio de Martini e Giuseppe Germinario. L’intervista inizia con un excursus storico di de Martini sulle epidemie medievali del Vecchio continente, resoconto di de Martini del quale non facciamo il sunto completo perché non si vuole togliere il piacere a chi lo voglia conoscere di apprenderlo dalle vive (ed espressivamente vivaci, il che non guasta) parole dell’intervistato ma dalle quali si nota già dal breve accenno che segue  l’abissale scarto rispetto alle attuali narrazioni sul coronavirus che ad ogni piè sospinto ci vengono giornalmente propinate dall’attuale tristo sistema di informazione di massa. Ma come, al posto del parere dell’immancabile versipelle virologo e/o epidemiologo di turno, de Martini ci riferisce di un Visir di Granada  che nel XIV secolo aveva riconosciuto la natura contagiosa della peste e che alla luce di questa consapevolezza aveva preso opportune ed efficaci misura di quarantena. Ma come, al posto delle supercazzole e delle c…te sesquipedali sui cambiamenti climatici  che avrebbero favorito la diffusione e persino la nascita dell’attuale morbo (sempre a cura dei soliti superesperti virologi e/o epidemiologi da pronto intervento di rimbambimento delle masse, corpi  d’ élite e d’assalto del thumberghismo di massa) sempre de martini ci riferisce che un tal’altro Visir coevo al primo pensava invece alla peste come una sorta di punizione divina e si rifiutava di prendere provvedimenti efficaci (oggi,  ci permettiamo noi di integrare il ragionamento di de Martini ma senza tema di stravolgerlo nella sua saggezza storicistica,  siccome siamo definitivamente secolarizzati, caduta la punizione divina, c’è invece la punizione di Gea, il pianeta vivente, una bella mossa à la Thumberg per installare fra le masse un senso di colpa in versione anticonsumista e oscurare la realtà di una peste sorta per una globalizzazione senza regole e favorita dal sempre più marcato infiacchimento dello Stato nella sua capacità di controllo del territorio e della salute pubblica, una senso di colpa anticonsumistico  le cui irrazionali involuzioni psicologiche   non sono più le classiche espiazioni corporali medievali o l’inettitudine  del secondo Visir  ma la sotterraneamente esaltata dai mass media come momento catartico tragica compressione dei consumi tramite le odierne apparentemente scientifiche italiche quarantene generalizzate – in realtà,  e per fortuna, solo una tragica parodia di quelle ben più serie e totalitarie made in China –  che assieme al morbo rischiano anche di fare scomparire il paziente, ma tant’è).  Ma, il gustosissimo excursus storico di de Martini che, proprio per la sua mentalità storico-storicista, fa intrinsecamente piazza pulita di un approccio alla situazione espertocentrica, non è altro che la premessa al nucleo duro dell’intervista, che non ruota attorno a considerazioni epidemiologiche, virali (o presunte tali) ma vuole svolgere una radicale riflessione in merito all’attuale collocamento internazionale dell’Italia, argomento, in ultima analisi, assai più importante dell’attuale crisi sanitaria e dall’impostazione del quale dipendono – questo il parere di de Martini e, modestamente anche il nostro – anche gli esiti della fuoruscita più o meno positiva dell’Italia dall’attuale crisi sanitaria. Detto in estrema sintesi. De Martini ritiene che sia giunta l’ora di prendere il toro per le corna ed approfittare dell’attuale crisi dell’Unione europea, evidenziata come non mai dalla crisi del coronavirus, per cercare di stringere un’alleanza sempre più stretta, economica, monetaria, politica e militare, con coloro che hanno girato le spalle alla UE, cioè con il Regno Unito (in questa nuova alleanza foriera di uno spacchettamento in direzione atlantica di parte del Vecchio continente – ma, grande novità rispetto all’egemonismo monocratico statunitense nato nel secondo dopoguerra, via quella che de Martini continua icasticamente, e con grande realismo politico,  a chiamare la “perfida Albione” – delle nazioni meridionali del Vecchio continente, l’Italia, sempre sue icastiche e colorite parole, «deve mettere la trippa e l’Inghilterra le ossa» e dove la trippa dovrebbe essere e la posizione strategica dell’Italia nel Mediterraneo e, soprattutto, la sua capacità –  per la verità allo stato solo potenziale e derivante dalla sua  grande tradizione di realismo politico unita ad una fine ed unica mentalità dialettico-universalistica di marca cattolica e dalle sue realizzazioni risorgimentali ma non altrettanto, purtroppo, dagli ultimi settant’anni di vita repubblicana andanti in senso diametralmente opposto a questi grandi lasciti – di recitare, anche se di concerto con gli altri paesi del sud Europa, un ruolo egemonico e di traino in questo riorientamento strategico; mentre le ossa britanniche sarebbero  le sue capacità e pulsioni imperialistiche mai sopite, “perfida Albione”, appunto: non si potrebbe immaginare linguaggio ed approccio mentale più lontani dall’odierna “pappa del cuore” che impera nell’attuale pensiero politico, diffuso poi a rincoglionimento delle masse dai grandi mezzi di informazione). Si può essere più o meno d’accordo con questa radicalità di pensiero, ma quello che qui conta è che, contrariamente alla informazione massificata, questa intervista si presenta come una delle rarissime occasioni non sprecate di cui sono a conoscenza per riflessioni politiche e strategiche  sul coronavirus  che non facciano perno sui soliti esperti d’avanspettacolo, che poi, come si è visto, esperti non lo sono per niente (in primis, ovviamente, i soliti virologi, ma last but not the least, anzi, i soliti pensatori mainstream di destra o sinistra non importa che ora non sanno far altro che  tacere o dare a ragione a questo o a quel virologo a seconda che questi sia più o meno favorevole ad un più o meno radicale blocco delle attività produttive, blocco plaudito dal pensatore di sinistra, avversato da quello più a destra: ma come si diceva una volta, il problema è politico e non certo tecnico-sanitario, e ora  come non mai l’attuale occupazione della  carica di Presidente del Consiglio da parte di un  personaggio che esprime lo zero assoluto del ‘politico” e la perfetta incarnazione, attraverso i suoi Dpcm sanitari, dello schmittiano “legislatore motorizzato” dimostra la verità di questo assunto). Ed affermando che, a scanso di equivoci, io sono personalmente totalmente d’accordo anche con questa parte più direttamente politica dell’intervista a de Martini, vengo per ultimo a giustificare l’affermazione  iniziale che l’intervista è un dialogo adversus suspertitionem. Lasciando ai lettori il piacere di completare tutti i passaggi del ragionamento, limitiamoci qui ad affermare che il significato etimologico di ‘superstizione’ ci indica la credenza che vi siano momenti e/o istanze superiori –  o, meglio, presunte tali –  di fronte al quale l’uomo, soprattutto quello comune e non vicino ai misteri, sacri o profani che siano, deve chinare la testa. L’intervista a de Martini è un potentissimo farmaco contro la moderna superstizione scientifica essendo formata ed informata al superiore pensiero storico-strategico, l’unica forma mentis ed agendi che diede inizio all’ evoluzione da ominide a homo sapiens e, nello specifico, l’unica Weltanschauung-filosofia della prassi che non solo  può permettere al nostro paese di non uscire completamente distrutto dall’attuale morbo ma anche di liberarsi dai morbi ideologici democraticistici  degli ultimi settant’anni (verso i quali, vedi sempre l’intervista,  de Martini nutre, e a ragione, una profondissima avversione). Sulle forme politiche ed organizzative di come questo pensiero storico-strategico certamente all’altezza di un mondo sempre più violentemente policentrico e dinamico possa concretamente prendere la direzione indicata da Antonio de Martini, come da consolidata esortazione di prammatica, si dichiara aperto il dibattito (e  ancora più auspicabilmente l’azione)  e, per ora, proprio per questo de hoc satis

 

Massimo Morigi – 26 aprile 2020

 

 

 

 

 

 

 

Essere, avere e potere nella crisi, di Dominique Strauss-Kahn, a cura di Roberto Buffagni

Qui sotto la traduzione di un importante saggio di Dominique Strauss-Kahn, già direttore del FMI ed influente opinionista, liquidato da quell’incarico per uno scandalo sessuale appositamente costruito. La sua prospettiva è distante dal punto di vista del blog; cionondimeno l’analisi e gli spunti che offre sono molto interessanti per individuare i mutamenti di paradigma in corso nei centri decisionali_Giuseppe Germinario

https://www.leclubdesjuristes.com/blog-du-coronavirus/libres-propos/letre-lavoir-et-le-pouvoir-dans-la-crise/?fbclid=IwAR2Hz9MV49hy-11KvemmoULZR-2jCeMhKCZw_tzv1-jX7j8djpZuPtDR2aI

Essere, avere e potere nella crisi, di Dominique Strauss-Kahn

di Dominique Strauss-Kahn, ex ministro dell’Economia e delle finanze, ex amministratore delegato del Fondo monetario internazionale

 

Questo importante articolo è stato scritto da Dominique Strauss-Kahn, ex capo del FMI, per l’influente rivista Politique Internationale, che lo pubblicherà nel prossimo numero (numero di primavera). Un ringraziamento speciale a Patrick Wajsman per aver autorizzato la sua distribuzione e Dominique Strauss-Kahn che lo accetta a beneficio dei lettori del blog del Club des juristes.

 

La crisi sanitaria che stiamo vivendo è diversa da qualsiasi altra conosciuta dalle generazioni precedenti. Le rievocazioni della grande peste nera del 1348 o dell’influenza spagnola del 1918-1919 sono interessanti in quanto ci consentono di ripensare le conseguenze delle pandemie. Ma non dicono nulla sulla resilienza di una società la cui economia è integrata a livello globale e che ha perso quasi tutta la memoria del rischio di infezione.

 

Anzitutto, se la crisi attuale è diversa, è per la velocità di diffusione di questa malattia. Tre mesi dopo l’inizio della crisi sanitaria, quasi la metà della popolazione mondiale è chiamata in isolamento. Anche se la contagiosità del virus ha probabilmente avuto un ruolo in questo passaggio, dallo stadio epidemico a quello della pandemia, la globalizzazione, contrassegnata dall’accelerazione della circolazione delle persone, è al centro del processo di propagazione (1). Anche i tempi di reazione dei paesi sviluppati, i cui sistemi sanitari sono stati rapidamente sommersi, devono senza dubbio essere incolpati. Attesta la mancanza di lungimiranza e una – infondata – fiducia nella capacità dei sistemi sanitari di proteggere in maniera massiccia la loro popolazione, ottenendo al contempo dispositivi di protezione e test di monitoraggio da  fornitori esteri, principalmente cinesi. Non c’è dubbio che questo non fosse inevitabile. Taiwan, con la sua esperienza in precedenti epidemie, aveva molti dispositivi di protezione (2), le sue capacità di produzione e un dipartimento dedicato alla gestione delle malattie infettive in grado, in particolare, di gestione rapida, e applicazioni di condivisione dei dati sui pazienti infetti. È senza dubbio normale che un sistema sanitario non sia realizzato per far fronte a un’esigenza brutale e temporanea. Ma, in questo caso, è importante che sia reattivo, cioè capace di reindirizzare la sua offerta e mobilitare riserve predefinite e identificate. Questa agilità sembra mancare.

 

L’altra differenza strutturale tra questa crisi sanitaria e le crisi precedenti è la sua entità. Molte persone hanno prima cercato di mettere in prospettiva la gravità della situazione ricordando il numero di decessi dovuti all’influenza stagionale, alle epidemie di HIV ed Ebola e persino alle conseguenze sulla salute di pratiche di dipendenza come l’alcool o tabacco. Oltre a non conoscere le conseguenze letali di Covid-19 fino a quando non avremo interrotto la sua trasmissione, avanzare questo tipo di argomento equivale a ignorare la natura globale e assoluta di questa pandemia. Globale in quanto nessuna area geografica è più risparmiata e perché la pandemia attraversa una demografia mondiale che non ha paragoni con quella del 1919: il semplice numero di individui chiamati a rimanere a casa è oggi il doppio del la popolazione mondiale totale durante l’episodio di influenza spagnola. Assoluto, perché è ovvio che nessuno può considerarsi al sicuro dal rischio di contaminazione.

 

Ed è quest’ultima specificità della crisi sanitaria che la distingue da tutti gli episodi precedenti: il suo carattere altamente simbolico colpisce e sconvolge una popolazione mondiale che aveva quasi dimenticato il rischio di infezione. In questo, mina l’accogliente comfort in cui i paesi economicamente sviluppati si sono gradualmente accomodati. La morte non solo era diventata distante a causa della maggiore aspettativa di vita, ma era anche diventata intollerabile, come dimostrato dalla riluttanza a ingaggiare truppe di terra nei conflitti più recenti. Il “valore” della vita umana è aumentato considerevolmente, nell’inconscio collettivo dei paesi più ricchi. Oggi stiamo realizzando la precarietà dell’essere. Questa crisi dell’essere avrà certamente conseguenze considerevoli che potrebbe essere troppo presto per affrontare qui, ma è anche indicativa di una crisi di avere e una crisi di potere la cui analisi è necessaria per guidare le decisioni da prendere.

 

Una crisi di avere

Abbiamo conosciuto crisi economiche. Ma questa è diverso. Questa recessione è solo in parte molto simile a quella che abbiamo vissuto, perché che mescola uno shock all’offerta e un altro alla domanda.

 

Uno shock sull’offerta e uno shock sulla domanda.

 

Difficilmente possiamo evitare le conseguenze in termini di impieghi dello shock sull’offerta. Ciò deriva dalle istruzioni di confinamento che, per impostazione predefinita, si sono rivelate essenziali dal punto di vista sanitario. Con una parte della forza lavoro confinata per un periodo indefinito, è inevitabile che la produzione diminuisca. Le aziende ridimensioneranno, altre chiuderanno. Questi lavori vanno persi, probabilmente per molto tempo. Questo è ciò che accade in caso di catastrofe naturale, ma di solito colpisce solo una parte dell’economia.

 

Alcune di queste compagnie potrebbero essere salvate dallo stato. E il ricorso a “nazionalizzazioni temporanee”, che io non immaginavo se non in rari casi in cui fosse in gioco l’indipendenza nazionale (3), può salvarne alcune, ma non tutte.

 

Lo shock alla domanda ha ovviamente diverse cause cumulative. Il reddito di una parte della popolazione che sta svanendo, il consumo ritenuto non essenziale che viene rinviato, ciò che è reso impossibile dal confinamento e, poiché “le mie spese sono le tue entrate”, la domanda si indebolisce ulteriormente. Questo è il noto ciclo della recessione.

 

A questo si aggiunge la fusione degli attivi finanziari. In una recessione classica, la gestione più saggia delle attività finanziarie è attendere il ritorno alla normalità, se non è necessario vendere per un motivo o per l’altro. Qui, il ritorno alla normalità non sarà come prima. Alcuni attivi finanziari scenderanno a zero perché le società che rappresentano chiuderanno in proporzioni maggiori rispetto alle crisi precedenti. Questa fusione degli attivi  finanziari rinvia a comportamenti precauzionali che deprimono ulteriormente la domanda complessiva. Questo “rischio di rovina” di alcuni risparmiatori era in gran parte scomparso dalla Grande Depressione, e qui è tornato.

 

È questa simultaneità di shock di domanda e offerta che rende la situazione attuale così eccezionale e così pericolosa.

 

A breve termine, le perdite sono inevitabili.

Negli Stati Uniti, ci sono volute solo due settimane per disoccupare quasi 10 milioni di americani. In Europa, 900.000 spagnoli hanno già perso il lavoro. In Francia, l’INSEE stima che un mese di reclusione dovrebbe costarci 3 punti del PIL. Nessuno è stato risparmiato. E a sentire il FMI: “Non abbiamo mai visto l’economia mondiale fermarsi. È molto peggio della crisi del 2008 “. Queste cifre terribili portano alcuni ad adottare una griglia di letture marziali della nostra crisi. I governi, le Nazioni Unite, il FMI, parlano tutti di una “guerra” contro Covid-19. Tuttavia, un conflitto armato non sembra necessariamente riflettere la natura della paralisi economica che ci colpisce. Più che una distruzione di capitale, è un’evaporazione della conoscenza, specialmente quella nascosta nelle aziende che andrà necessariamente in bancarotta, il che deve essere temuto. Più che un reindirizzamento della produzione verso un’economia di guerra, stiamo assistendo a un coma organizzato e una disintegrazione sostenuta ma probabilmente duratura delle catene di approvvigionamento.

 

Per i paesi più fragili, la pandemia promette di essere catastrofica. Un certo numero di esportatori di materie prime, in primo piano i produttori di petrolio, stanno entrando in crisi con un livello insufficiente di riserve valutarie. Il prezzo di un barile è sceso sotto i $ 20 e il prezzo del rame, del cacao e dell’olio di palma è precipitato dall’inizio dell’anno. Per i paesi che beneficiano in gran parte delle rimesse dall’estero (4), il 2020 potrebbe registrare un netto calo dei consumi e degli investimenti. Per quanto riguarda le destinazioni turistiche, queste dovranno sopravvivere a una cessazione quasi totale dell’attività economica nella prima parte dell’anno (5).

 

Questa battuta d’arresto economica rischia di riportare milioni di persone della “classe media emergente” in condizioni di estrema povertà. Tuttavia, più povertà implica anche più morti. I paesi africani sono più giovani, ma anche più fragili, con i più alti tassi di malnutrizione, infezione da HIV o tubercolosi nel mondo, il che potrebbe rendere il coronavirus ancora più letale. Inoltre, dove i paesi sviluppati possono adottare drastiche misure di confinamento, ciò è spesso impossibile nei bassifondi urbani sovraffollati, dove è difficile accedere all’acqua corrente e dove smettere di lavorare o andare al mercato per comprare cibo non è un’opzione. L’esperienza di Ebola ha dimostrato che la chiusura delle scuole – adottata da 180 paesi in tutto il mondo – spesso si traduce in abbandono permanente, gravidanza non intenzionale e istruzione sacrificata per una generazione di studenti

 

Potremmo evitare queste drammatiche conseguenze? Senza dubbio non del tutto, ma sicuramente in parte sì, se siamo in grado di evitare gli effetti cumulativi della recessione combattendo il collasso della curva della domanda aggregata.

 

I limiti dell’azione monetaria

La risposta è iniziata e le banche centrali stanno facendo la loro parte per inondare il mercato di liquidità. A differenza della crisi del 2008, questi ultimi sono stati particolarmente rapidi e coordinati. A partire dal 3 marzo, la Fed ha abbassato i tassi di 50 punti base, seguita dalla Banca d’Inghilterra l’11 e il 19 marzo. Il 15 marzo, i tassi della Fed scendono a zero. Allo stesso tempo, vengono implementati interventi non convenzionali utilizzando gli strumenti sviluppati dal 2008. Il 18 marzo la BCE ha annunciato un programma per l’acquisizione di titoli per una dotazione totale di 750 miliardi di euro. Il coordinamento delle banche centrali, sotto la guida della FED, contrasta con la risposta sconclusionata della Casa Bianca. Il 15 marzo, la Fed ha esteso i suoi swap a nove nuovi paesi che devono fronteggiare una evaporazione del dollaro prima di aprire un meccanismo di pronti contro termine per le banche centrali che desiderano scambiare i loro buoni del tesoro statunitensi con dollari (6).

 

Ma ciò influenzerà solo indirettamente le economie emergenti che non hanno una banca centrale in grado di svolgere questo ruolo. D’altro canto, è possibile utilizzare un meccanismo che ha già dimostrato la sua efficacia nella crisi finanziaria globale: i diritti speciali di prelievo dell’FMI (7). Niente impedisce di riattivarli; niente, tranne l’allergia americana a qualcosa che assomiglia all’azione multilaterale, un’allergia che la tiepidezza degli europei non aiuta a controbilanciare (8). La riduzione del debito per i paesi a basso reddito e la massiccia emissione di DSP sono ora un passo necessario per contribuire a evitare una catastrofe economica, le cui conseguenze si estenderanno oltre le sponde del Mediterraneo.

 

Prima dell’attuale crisi, l’Europa stava già lottando per far fronte all’afflusso di alcune centinaia di migliaia di migranti che si sono abbattuti sulle sue porte. Cosa succederà quando, spinti dal crollo delle loro economie nazionali, ci saranno milioni di persone che tenteranno di farsi strada? Sebbene ciò possa sembrare molto lontano dall’attuale emergenza, anche se l’opinione pubblica ha altre preoccupazioni da affermare, è dovere di chi è al potere anticipare le crisi dopo la crisi. Per gli europei, unire le forze per estendere l’efficacia delle misure monetarie che adottano per i paesi emergenti, a cominciare dall’Africa, è una necessità assoluta.

 

Tuttavia, l’azione monetaria ha i suoi limiti e, come nel caso di qualsiasi calamità naturale, è necessario mobilitare il sostegno di bilancio. In parte lo sono stati, e meccanismi di supporto come l’estensione della disoccupazione parziale in Francia sono un passo nella giusta direzione. Ma sono insufficienti di fronte all’entità dello shock. Non si può sostenere l’offerta finanziando solo l’offerta ed è probabilmente la più grande debolezza del piano di sostegno originale di Trump (9). Inoltre, mentre nel 2009 la Cina aveva lanciato un titanico piano di ripresa per sostenere la sua economia e guidare la crescita globale, il paese sembra per il momento più circospetto. È vero che il margine di manovra cinese oggi è più debole: la crescita si è indebolita e il debito totale del paese, pubblico e privato, supera il 300% del PIL, contro il 170% prima della crisi “subprime”. Tanto che le misure annunciate da Pechino non superano attualmente l’1,2% del PIL.

 

Naturalmente, parte di questo supporto provocherà un rialzo dei prezzi. Quando l’offerta è limitata dal contenimento, la capacità di produzione è necessariamente limitata. Ma questa pressione al rialzo sui prezzi, oltre a non essere sgradita altrove, costituirà un supporto per il sistema produttivo tanto efficace quanto le misure finanziarie che gli verranno offerte.

 

Questo è mostrato nel grafico I. In questa presentazione classica delle curve della domanda e dell’offerta aggregata con uno shock sulla domanda probabilmente più forte di quello sull’offerta, vediamo come parte delle perdite di produzione è impossibile da evitare a breve termine, ma anche come il danno può essere limitato da un’adeguata azione politica sulla domanda. Inoltre, il rischio di non fare nulla può peggiorare notevolmente la situazione. Il calo della domanda, non compensato da misure di sostegno, creerà un secondo shock dell’offerta e così via. La spirale deflazionistica è quindi in corso con le sue conseguenze funeste.

 

Inevitabilmente, queste misure di sostegno alla domanda non saranno pienamente efficaci fino a quando il contenimento non sarà gradualmente rimosso, consentendo di riavviare la produzione. Ma devono essere immediatamente al lavoro, da un lato per essere in atto quando arriva il momento, dall’altro per combattere l’ansia dei consumatori, che può soltanto spingerli a tesaurizzare quel che possiedono, l’esatto contrario di ciò che è desiderabile.

 

 

A medio e lungo termine, sparigliamento delle carte

a /La globalizzazione degli scambi è stata ovviamente accompagnata da una nuova divisione internazionale di produzione. Il costo del lavoro relativamente basso nelle economie emergenti combinato con lo sviluppo dei media è stato la fonte di una crescita senza precedenti nel commercio internazionale. Questo vale per quasi tutti i settori, a partire dall’industria automobilistica ed elettronica.

 

Oggi è in gioco questa divisione internazionale del lavoro. Le critiche non sono nuove e la crisi sanitaria agisce principalmente come rivelatore. C’erano molti detrattori.

 

Per alcuni, considerati idealisti, era messa in questione l’assurdità ecologica di transitare merci venti volte da un’estremità all’altra del pianeta, in particolare per le catene del valore degli alimenti. Per gli altri, considerati dottrinari, si trattava della denuncia di un sistema che consentiva agli abitanti dei paesi ricchi di continuare a trarre profitto della rendita coloniale. La globalizzazione è la “fase suprema del capitalismo”, in un certo senso. Altri, considerati pessimisti, erano interessati alla sicurezza dell’approvvigionamento. Stiamo ovviamente pensando alla sicurezza sanitaria; Il 90% della penicillina consumata nel mondo è prodotta in Cina. Ciò vale anche per le terre rare, per le quali la Cina ha di fatto il monopolio della produzione, sebbene si tratti di componenti essenziali per l’intero settore dell’elettronica e delle comunicazioni.

 

Tutti avevano in parte ragione ed è molto probabile che la crisi porterà a forme di trasferimento della produzione, regionali se non nazionali.

 

La globalizzazione in questione non è l’apertura al mondo né la coscienza di un’umanità planetaria, questa progredisce lentamente per molto tempo, è ciò che Hubert Védrine chiama la globalizzazione americana di questi ultimi decenni: “Quello iniziato nel dopoguerra, che ha accelerato con il riorientamento della Cina verso il mercato da parte di Deng nel 1979, poi con la coppia Thatcher-Reagan nei primi anni ’80 e la deregolamentazione finanziaria sotto l’influenza della Scuola di Chicago, e che alla fine si diffuse negli anni successivi alla scomparsa dell’URSS alla fine del 1991, una scomparsa che gli occidentali interpretarono – a torto! – come la fine della storia. (10) ”

 

Questa globalizzazione non ha solo fatto perdenti. I dipendenti dei paesi emergenti che lavorano nei settori di esportazione (e di rimbalzo gli altri) hanno ovviamente beneficiato di un aumento del loro tenore di vita legato a salari più elevati. Per quanto riguarda i consumatori dei paesi sviluppati, non hanno esitato a lungo prima di a rivolgersi a questi prodotti importati, per la rendita che contenevano.  E questo consumatore non rinuncerà facilmente a una parte significativa del suo potere d’acquisto.

 

Il trasferimento di parte della produzione avrà un costo, ma la crisi che stiamo vivendo potrebbe essere sufficiente per renderla pedagogica.

 

b / Al di là delle forme che la globalizzazione prenderà, la crisi potrebbe consentire alle economie sviluppate di sbloccare lo stallo in cui si è persa la crescita economica.

 

Il dibattito è noto ed è stato ripreso da Larry Summers nel 2014 (11). Usando il termine introdotto da Hansen nel 1939, descrive un ritorno alla stagnazione secolare che aveva alimentato così tanto il dibattito dopo la crisi del 1929: è un equilibrio di sottoccupazione da cui le economie non sono in grado di emergere, a causa di un basso tasso di interesse associato a un’inflazione pressoché inesistente nei mercati dei beni e dei servizi quando il prezzo degli attivi finanziari è, al contrario, significativamente aumentato. Il progresso tecnico rilascia pochi nuovi prodotti, le innovazioni portano principalmente al risparmio di capitale, gli investimenti rallentano ed è impossibile ripristinarli perché i tassi di interesse sono già a zero. I risparmi sono quindi sovrabbondanti. Rallenta la crescita economica a causa della mancanza di significativi investimenti pubblici, limitati dal debito già considerato eccessivo in termini di rapporti debito / PIL considerati insostenibili. Negli ultimi decenni, l’ingegneria finanziaria ha risolto l’equazione causando ricorrenti crisi finanziarie che mascherano la realtà dell’economia reale.

 

Di fronte a questa situazione di stagnazione più o meno sperimentata da tutte le economie sviluppate, la crisi economica, distruggendo capitale, può fornire una via d’uscita. Le opportunità di investimento create dal crollo di parte dell’apparato produttivo, come l’effetto del prezzo delle misure di sostegno, possono rilanciare il processo di distruzione creativa descritto da Schumpeter. Il suo imprenditore vincerebbe così sul campo la battaglia teorica che aveva intrapreso molto tempo fa, sia contro stagnazionisti ottimisti come Keynes, sia contro i pessimisti come Marx.

 

Questo rinnovo dell’offerta è reso possibile da uno shock tanto violento da giustificare le misure adottate dai governi a favore del settore produttivo. Esse saranno risibili senza misure a breve termine di sostegno alla domanda, ma essenziali per la ricostruzione dell’apparato produttivo.

 

c / Un altro elemento deve essere preso in considerazione: quello delle disuguaglianze.

 

A livello nazionale, alcune professioni possono lavorare – almeno in parte – a casa, per altre è molto più difficile se non impossibile. Ma questo non influisce su diverse parti della popolazione allo stesso modo. Il grafico II (12), che riguarda gli Stati Uniti, illustra questa situazione che giustifica un maggiore sostegno a favore dei dipendenti meno qualificati.

 

 

 

A livello internazionale, negli ultimi anni è stata posta molta enfasi sul fatto che, mentre la crisi dei subprime aveva comportato un notevole aumento delle disparità tra individui, d’altra parte le disuguaglianze tra i paesi stavano diminuendo costantemente. L’attuale crisi rischia di mettere completamente in discussione questa osservazione. A breve termine, a causa delle possibili, e purtroppo probabili, conseguenze della crisi sulle economie di molti paesi a basso reddito. A medio termine, perché il trasferimento di determinate attività, che è molto probabile che accada, sarà a loro spese. Questo è ciò che rende ancora più essenziale il supporto a queste economie che già menzionato.

 

d / Il futuro economico, difficile in ogni caso, è in gran parte nelle nostre mani.

 

I governi hanno già iniziato ad agire come mostrato nella Figura II (13). Ma questo grafico mostra diversi punti deboli.

 

 

Innanzitutto, l’entità molto diversa degli stimoli già decisi (in rosso). Quindi, la parte preponderante presa dalle garanzie sui prestiti, che è certamente utile, ma si riferisce solo in modo molto indiretto al sostegno della la domanda dei più poveri. Infine, la mancanza di coordinamento nella risposta, mentre ciò che aveva reso un successo il rilancio 2009 è l’ampio coordinamento tra i principali attori (14).

 

L’Unione Europea ha la possibilità, e per me il dovere, di fornire elementi di risposta, ma la molle risposta del Consiglio europeo del 26 marzo e la pantomima dell’Eurogruppo non portano all’ottimismo. Il punto principale è quello della messa in comune del bilancio tra gli Stati membri al fine di poter realizzare azioni significative (15).

 

Tre strumenti sono in discussione all’interno dell’Eurogruppo:

 

sostegno di circa 100 miliardi di euro per meccanismi di sostegno parziale della disoccupazione a breve termine;

un mandato più forte conferito alla BEI che può prestare o garantire prestiti;

un adattamento all’attuale situazione del meccanismo europeo di stabilità (16).

Tuttavia, ognuna di queste opzioni manca dell’argomento centrale che è una risposta di bilancio aggregata per non compromettere la sostenibilità del debito dei paesi più fragili. Ovviamente, tutto ciò ci riporta al dibattito sulla creazione di coronabond e, più in generale, sulla capacità di indebitamento dell’Unione, la cui assenza si fa crudelmente avvertire oggi. È anche una questione politica: la BCE non sarà in grado di mutualizzare i debiti per lungo tempo attraverso operazioni di mercato senza che si manifesti un esplicito sostegno politico.

 

Sono possibili due modi. La prima sarebbe una richiesta esplicita degli Stati di monetizzare l’eccedenza di debiti; ma è rimettere in causa l’indipendenza della banca centrale. Il secondo è andare avanti con coloro che vogliono emettere congiuntamente nuovi debiti al fine di finanziare sia i costi della risposta sanitaria immediata, della solidarietà internazionale che sarà necessaria, in particolare verso l’Africa, sia infine un piano di risanamento massiccio una volta superata l’emergenza sanitaria. La scelta è quindi semplice, l’uno o l’altro di questi due tabù deve essere spezzato: l’indipendenza della banca centrale o l’unanimità degli Stati membri.

 

Perché ciò di cui abbiamo bisogno in questo momento è:

 

  • richiedere piani di sostegno nell’ordine di grandezza della produzione persa (diversi punti del PIL solo per il 2020). Questi devono basarsi, sia per le famiglie che per le imprese, su un reale sostegno alla loro liquidità attraverso misure fiscali e di bilancio;
  • coordinamento di tali politiche con le azioni svolte dalle banche centrali in materia monetaria;
  • uno strumento per mobilitare risorse di bilancio e debito congiunto in Europa. Senza mutualizzazione, la risposta di bilancio sarà insufficiente;
  • un’azione concertata a livello internazionale, compresa l’estensione di questa liquidità oltre i paesi sviluppati.

Una crisi di potere

È forse la più inquietante. Crisi della sovranità, che pertiene all’autonomia degli Stati in un mondo in cui le istituzioni multilaterali stentano a organizzare il processo decisionale necessario su scala globale. Crisi rappresentativa, colpisce anche per l’esercizio del potere, la garanzia delle libertà pubbliche e la legittimità delle autorità, in particolare nelle democrazie. Ma non sono la crisi sanitaria e l’epidemia di Covid-19 a creare queste crisi. Rivelano solo punti deboli che già esistono ampiamente.

 

La crisi getta una luce dura sulla relatività della nostra sovranità.

 

Sottolinea una dipendenza tecnologica che, per ignoranza o orgoglio nazionale, tendiamo a sottovalutare.

 

Questo ovviamente vale in campo sanitario. Scopriamo, sbalorditi, che gran parte della nostra offerta di medicinali dipende dalla Cina. Lasciando che questo paese diventi la “fabbrica del mondo” non ci siamo arresi in aree essenziali per garantire la nostra sicurezza?

 

Ci sono segnali allarmanti anche all’interno di un insieme molto integrato come l’Unione Europea. La carenza di curaro necessaria per l’intubazione di persone in gravi condizioni sembra in parte dovuta all’origine italiana e spagnola degli ingredienti. È chiaro che nell’Unione, in futuro questa situazione potrebbe trovare soluzioni. Ciò è meno semplice quando si tratta di materiali, tra cui tecnologie avanzate in cui è evidente la dipendenza dagli Stati Uniti.

 

Ma questa dipendenza sanitaria rinvia a una più grave dipendenza tecnologica. L’opinione pubblica è consapevole, ma forse noncurante, della scarsa sicurezza delle comunicazioni e in particolare degli smartphone. Che cosa sa dei contratti tra i nostri servizi di intelligence e Palantir, la società fondata da Peter Thiel? L’intelligenza artificiale fa paura, a ragione o in torto, ma senza dubbio i cittadini preferirebbero che le garanzie fornite dai funzionari che avevano eletto non fossero così dipendenti dal potere straniero e, quanto meno, è probabile che vorrebbero essere informati. Che dire dell’uso di Windows al Ministero della Difesa? Non potendo ritrovare una sovranità digitale ormai perduta, potremmo almeno indirizzare i nostri investimenti verso il software libero, che offre una garanzia di indipendenza. L’Europa, e anche la sola Francia, se non seguita, potrebbe rapidamente contribuire in modo significativo a questo bene comune digitale. Questo punto va ben oltre i soli problemi di sicurezza. Daniel Cohen (17) sottolinea giustamente un’evoluzione verso il capitalismo digitale che questa crisi può accelerare. L’indipendenza nazionale o europea non può essere misurata solo dall’esistenza di una capacità nucleare.

 

La crisi sanitaria alimenta i vecchi impulsi nazionalisti. Per evitarlo, non possiamo accontentarci delle tradizionali esplosioni liriche sugli orrori del fascismo, da un canto, e sull’universalità della condizione umana dall’altro. Se noi, sulla scala delle nostre nazioni, siamo troppo deboli per competere, allora l’Unione europea riacquista il suo pieno significato. Lungi dal riconoscere la sua morte, come alcune persone si sforzano di proclamare, il nuovo interesse mostrato dai popoli europei per il concetto di sovranità può dare all’Europa una seconda possibilità.

 

La frammentazione della globalizzazione che la crisi è suscettibile di causare costituisce un’opportunità inaspettata per riprendere in mano le redini. Ci vuole una volontà popolare, ed essa era diventato così debole che nulla sembrava possibile in questa Unione appesantita dall’allargamento, ostacolata dalla burocrazia e delegittimata dal suo presunto carattere non democratico. Il graduale ritorno dell’egoismo nazionale stava lentamente uccidendo i sogni dei fondatori. I sovranisti di ogni genere ci sono andati a nozze, omettendo di  dire alla gente che non c’è ritorno alla sovranità se non condividendola con altri europei, come ha dimostrato la creazione dell’euro. Ma l’impossibile contabilità dei benefici della costruzione europea non è riuscita a convincere  cittadini sempre più dubbiosi di averne ottenuti.  Così che in questa crisi, l’inefficacia dell’azione europea ha dato argomenti a tutti i suoi detrattori. Nel settore sanitario come in quello economico, l’assenza di una visione politica ha impedito qualsiasi azione preventiva e il potere dell’egoismo nazionale sta ritardando le misure necessarie.

 

Ci voleva uno shock perché riemergese la vera natura dell’Unione; quella del rifiuto di abbandonare i valori collettivi e un modello di società che definisce un’identità. È questa identità che si è fusa nella globalizzazione, e che può rinascere dalla sua frammentazione. Questo shock, ora lo abbiamo. Una rinascita è possibile a due condizioni: che la solidarietà europea si affermi nella risposta alla crisi sanitaria, che uomini e donne portino e incarnino un risveglio dell’Europa politica. I prossimi giorni, settimane e mesi ci diranno se queste condizioni sono state soddisfatte. La sfida è grande, poiché l’Europa ha perso la sua credibilità. Sarà necessario convincere proponendo un metodo Monnet del dopoguerra sanitaria, capace di risultati visibili da tutti, che giustifichino trasferimenti calibrati di sovranità.

 

La crisi pone anche la questione democratica in termini nuovi.

 

Il nostro modello democratico, derivante dalla rivoluzione industriale, ha già subito molti danni. È fondamentalmente un modello di democrazia rappresentativa: si basa sul consenso a delegare il potere che dà il diritto di voto a uomini e donne che lo eserciteranno per nostro conto. Eleggiamo rappresentanti che riteniamo in grado di attuare la politica a cui aspiriamo e di cui ci fidiamo. Tuttavia questo consenso, come questa fiducia, è sempre più sotto attacco, l’aria del tempo è meno nell’interesse generale che nell’accumulo di interessi particolari (18).

 

C’è voluta una combinazione di diversi fattori per arrivarci. Innanzitutto, e soprattutto, la delusione legata ai risultati meno felici del previsto; ma anche lo sviluppo di social network che danno a tutti la sensazione fallace di sapere meglio di chiunque altro cosa fare; il lento passaggio da un mandato di rappresentanza a un mandato imperativo a causa della pressione diretta e talvolta fisica che questi stessi social network consentono; infine, la lenta scomparsa di organi intermedi come sindacati e partiti politici. Tutto ha contribuito alla lenta decrepitudine della democrazia rappresentativa.

 

È questa cachettica democrazia parlamentare, nata due secoli fa, che la crisi sanitaria ha colpito in pieno.

 

La gestione della crisi sanitaria ha quindi causato una crisi rappresentativa. Se, come afferma Max Weber, “uno stato è una comunità umana che rivendica il monopolio sull’uso legittimo della forza fisica su un determinato territorio” (19), questo monopolio trova la sua legittimità in quella della rappresentazione. Questo era già in questione prima della crisi. È stato messo alla prova dalla crisi.

 

Può essere facilmente ammesso Il principio che, in tempi di crisi, le democrazie possano ricorrere a misure coercitive “su una base eccezionale”, ma la questione dei limiti non manca di essere sollevata da parte dell’opinione. Ovunque, la domanda che sta al cuore del pensiero di Giorgio Agamben: “Possiamo sospendere la vita per proteggerla?” Ho trovato una risposta temporanea: vale a dire la vita (e persino l’economia) prima delle libertà pubbliche. Ma sarà lo stesso in futuro se le misure autoritarie, a partire dal contenimento, dovessero durare o essere rinnovate?

 

La democrazia deriva dal modo di salire al potere più che dal suo esercizio (20). Tuttavia, queste misure di emergenza hanno due conseguenze. Il primo è che la linea di demarcazione tra democrazie e regimi autoritari è confusa. Il secondo è che i governi eletti democraticamente potrebbero essere tentati di usare la crisi per una varietà di scopi: cercare di passare a un regime meno democratico (Ungheria) o gestire altri problemi interni (India, Algeria). In molti paesi, la vita democratica è sospesa dal rinvio delle elezioni come in Polonia o in Bolivia, con il caso particolare della Francia.

 

I tempi di crisi hanno spesso portato a una forma di unità nazionale. In una certa misura, il senso di urgenza e la necessità di sopravvivere hanno provocato un’esplosione di lealtà tra i cittadini. Il più delle volte, le persone hanno sostenuto le forti decisioni prese dal loro governo con consenso / accettazione se non con entusiasmo (21), (22). Tuttavia, nella maggior parte dei regimi democratici, le decisioni sono messe in discussione, le istruzioni sono disattese e, in generale, la pertinenza delle misure raccomandate dagli esperti che, in altri periodi, sarebbero state date per scontate, è ampiamente messa in discussione.

 

Tanto che ci si può legittimamente domandare se la nozione di programma politico abbia ancora un significato. Poiché i funzionari eletti non sono in grado di fare ciò che hanno promesso, i cittadini non si fidano più di loro e intendono intervenire in qualsiasi momento nel processo decisionale; ci allontaniamo molto dalla democrazia rappresentativa per tendere verso forme più o meno organizzate di democrazia diretta. Il rischio è quindi quello di tutto il populismo; verità e ragione contano meno dell’azione anche quando si basa solo sulla passione. Benda ci ha insegnato a quali drammi questo ha portato inesorabilmente  (23).

 

Al contrario, nella maggior parte dei regimi non democratici, la legittimità del potere è conferita dalla capacità dei leader di proteggere il loro popolo e mantenere l’ordine sociale piuttosto che garantire le loro libertà. Nella maggior parte di questi paesi, le autorità hanno imposto una risposta forte e rapida alla crisi e in cambio vediamo una certa sensazione di sostegno e unità nazionale tra la popolazione (Cina, Vietnam, Giordania, ecc.). In altre parole, non solo la fine della crisi potrebbe segnare un indebolimento della legittimità delle autorità pubbliche nelle democrazie, ma allo stesso tempo un rafforzamento del potere nelle autocrazie.

 

Per la rapidità della sua insorgenza e l’impetuosità della diffusione del virus, la crisi sanitaria ha imposto misure legislative e regolamentari di una portata senza precedenti nelle nostre democrazie. In molti paesi, l’esecutivo si è sentito autorizzato a prendere misure di sorveglianza di massa o liberticide utilizzando tecnologie finora riservate all’intelligence militare o antiterroristica! In generale, queste misure in deroga alle libertà pubbliche sono piuttosto ben accolte, persino acclamate dai cittadini che lo vedono come un arsenale che protegge la loro sicurezza.

 

Il fatto che i governi favoriscano l’efficienza non è una specificità della crisi sanitaria. Il fatto che i cittadini siano meno attenti alla salvaguardia dei loro diritti fondamentali riflette senza dubbio l’ansia di fronte al nuovo flagello dopo decenni di assenza di avversità collettive. Queste misure eccezionali e temporanee devono assolutamente rimanere tali. Tuttavia, negli ultimi anni, va detto che altre misure prese in nome della lotta al terrorismo sono passate, quasi nell’indifferenza generale, dallo status di misure eccezionali e temporanee a quello della legge ordinaria.

 

Dobbiamo stare attenti a non indebolire permanentemente lo stato di diritto in nome dell’urgenza di combattere il virus. Lo scorso autunno (ma sembra già così lontano), François Sureau ha ricordato che “lo stato di diritto, nei suoi principi e nei suoi organi, è stato progettato in modo tale che né i desideri del governo né le paure del popolo” potranno travolgere le basi dell’ordine pubblico, e prima di tutto la libertà ”(24).

 

All’indomani della crisi, le questioni politiche saranno quindi numerose. Quali schemi saranno percepiti come capaci di gestire bene la crisi? Quale transizione dovrebbe essere attuata per tornare da misure eccezionali alla vita normale? Se durante la crisi sanitaria non hanno agito all’unisono, quale credibilità avranno i regimi democratici, nella gestione di altre crisi come la sfida climatica o la migrazione?

 

E se gli egoismi nazionali dominano durante la gestione della crisi sanitaria, come impedire all’ondata di populismi nazionali di travolgere tutto sul suo cammino? Inoltre, la cooperazione internazionale non è solo un elemento di un’efficace gestione della crisi, ma una condizione di sopravvivenza democratica dopo di essa.

 

Senza dubbio stiamo entrando in un altro mondo

Un’altra economia: il ritorno dei regolamenti?

 

L’attuale periodo è di disordine, e ovviamente si pone la questione di quale direzione prenderemo quando la crisi sanitaria sarà terminata. Negli ultimi trenta anni, la causa è stata ascoltata. Stavamo assistendo alla vittoria sfrenata del liberalismo economico alla fine della storia di Francis Fukuyama (25). Ma quelli che guardano alla storia tenendo presente il lungo termine oggi trovano motivo per tornare all’idea che il liberalismo ha sicuramente vinto. La lezione tenuta da Karl Polanyi (26) tre quarti di secolo fa è che il liberalismo economico è una fase di disorganizzazione tra due periodi più regolati. Ciò si afferma periodicamente, come parentesi, fino a quando non viene imposta la necessità di nuovi regolamenti, perché i fenomeni economici non sono indipendenti dal resto dell’evoluzione della società.

 

In 150 anni abbiamo conosciuto tre grandi cicli di regolazione del capitalismo. Quello che, proveniente dal XIX secolo, termina con la prima guerra mondiale, dà il via a un altro regolamento basato sulla produzione di massa in un mondo lacerato dal risveglio del nazionalismo e abitato dalla costruzione della democrazia. E poi è arrivata una terza fase perché, contrariamente a quanto previsto da Polanyi, il mercato non è crollato con la crisi del 29 o dopo la seconda guerra mondiale. È che dopo il 1945, la generalizzazione dello stato sociale, l’emergere del dominio americano e la cancellazione del fascismo modellarono le nuove norme dei decenni successivi. Verso la fine degli anni ’70, iniziò una nuova rottura. Colpisce il mondo della produzione, le idee politiche e la scena internazionale. L’emergere della tecnologia dell’informazione, l’ondata liberale di rifiuto delle imposte e il crollo del comunismo hanno segnato la fine del periodo socialdemocratico.

 

Pertanto, abbiamo conosciuto per quasi due secoli un susseguirsi di fasi organiche durante le quali domina un modo di organizzazione dell’economia e della società e fasi critiche durante le quali questi regolamenti restano senza fiato e poi svaniscono , per lasciare il posto ad altri. L’ultima grande regolamentazione collettiva è stata quella dello stato sociale. Non c’è più alcun dubbio che sia finita. E nonostante un lieve balbettio all’indomani della crisi dei subprime, nulla è venuto a sostituirlo.

 

Tra queste fasi di regolazione, i vecchi schemi stanno crollando, l’organizzazione collettiva è in ritirata, gli individualismi ritrovano diritto di cittadinanza. Fino a quando uno shock enorme consentirà alla storia di riguadagnare i propri diritti e gli uomini scolpiranno il quadro della nuova società. Sono queste le strutture  che dobbiamo ricostruire oggi.

 

Questi regolamenti non risparmiano alcuna attività umana, ma al di là del tradizionale spazio di cooperazione economica, ci sono diverse aree in cui la necessità di una regolamentazione è essenziale.

 

Innanzitutto, ovviamente, nel campo dell’organizzazione sanitaria. Paradossalmente, è in quest’area che la cooperazione internazionale ha iniziato a svolgersi nel 1851 con il primo Regolamento sanitario internazionale. La riforma del 2005 ha rafforzato l’indipendenza del direttore generale dell’OMS, ma è necessario fare molto di più, in particolare nel suo coordinamento con l’OMC.

 

Il ruolo dell’OMS può in particolare essere importante nell’attuazione di politiche di prevenzione più attive. Non appena le pandemie non compaiono più come rischi trascurabili, “Black Swans” per usare l’espressione usata nel campo dei rischi finanziari, si afferma fortemente la necessità di tenere conto di queste politiche nelle scelte pubbliche.  Lo smantellamento, da parte di Donald Trump, della cellula responsabile della sicurezza sanitaria alla Casa Bianca dimostra che non ci siamo ancora arrivati.

 

La crisi sanitaria può anche creare l’opportunità di una nuova mobilitazione per combattere i cambiamenti climatici. Al di là dei legami tra clima e salute pubblica, le misure adottate nel contesto della lotta contro la pandemia stanno trasformando il dibattito sui vincoli di bilancio che ci imponiamo come sul controllo del comportamento individuale. Ma esiste anche un collegamento con altre aree di conservazione ambientale e in particolare la conservazione della biodiversità. La distruzione degli ecosistemi da parte dell’inquinamento, la progressiva limitazione dei luoghi in cui vivere o le imprese proibite favoriscono le zoonosi (trasmissione delle patologie dall’animale all’uomo), come hanno dimostrato molti esempi recenti.

 

Ma anche se accettiamo la plausibile ipotesi di una frammentazione della globalizzazione, queste diverse politiche possono essere solo globali. Poi arriva la domanda fastidiosa che attraversa qualsiasi interrogativo sulle conseguenze della crisi sanitaria: c’è un posto per il multilateralismo? E oltre, possiamo concepire un’azione multilaterale che non riguardi solo gli Stati ma che si svilupperebbe tra le regioni o anche le grandi metropoli?

 

Un altro paradigma

 

a / Un cambiamento nel rapporto tra gli Stati: quale nuovo equilibrio geopolitico?

 

Se resta da sperare che la crisi sia la fonte di una rinnovata cooperazione a livello globale ed europeo, è importante esaminare le sue conseguenze più immediate per le relazioni internazionali.

 

Il primo deriva dal vuoto di potere che l’attenzione sulla crisi sanitaria dei principali governi renderà ogni giorno più visibile. Finché sono, come tutti, sommersi dalla pandemia, i gruppi armati sembrano aver scelto di ritirarsi. Ma non appena le condizioni lo consentiranno, non vi è dubbio che i conflitti ricominceranno proprio mentre i principali attori si occuperanno principalmente della loro situazione interna. Si teme che sia così in Siria come in Libia, nel Sahel come nello Yemen. Tanto più che molti Stati scossi dalla crisi troveranno ancora più difficile che in passato esercitare le loro responsabilità sovrane.

 

In questo contesto, è probabile che vi sia una forte tentazione, per alcuni Stati, di aumentare la loro influenza internazionale. La Cina, la Russia in misura minore, hanno già colto questa opportunità distribuendo aiuti medici principalmente ai paesi europei. Alla fine della crisi sanitaria, la competizione ideologica riprenderà con forza in una situazione in cui le popolazioni avranno voglia di intervento statale e di potere forte. Intrappolati tra la loro riluttanza verso qualsiasi azione multilaterale e il loro confronto con Pechino, gli Stati Uniti faranno fatica a evitare una ridistribuzione delle carte, ma ovviamente molto dipenderà dalle elezioni di novembre. La Cina non è in grado di esercitare la leadership mondiale, ma non è certo che gli Stati Uniti ne siano ancora capaci.

 

È quindi chiaramente una frammentazione della globalizzazione che è ragionevole aspettarsi, e potrebbe essere l’occasione per l’Europa, se riuscirà a mettersi insieme.

 

b / La crisi dell’essere porterà a un cambiamento nel rapporto tra uomini?

 

Perché sia possibile un rimescolamento delle carte, il rischio di pandemia deve permeare profondamente, ma soprattutto durevolmente, la sensibilità globale collettiva. La metafora della guerra, che è stata ampiamente utilizzata, può essere applicata solo durante il periodo della mobilitazione: la maggior parte degli studi (27) suggerisce che non può esserci armistizio, né tanto meno una liberazione. Non è quindi solo uno sforzo bellico a lungo termine, ma anche un reinserimento nella coscienza collettiva, la permanenza di un rischio di pandemia infettiva. Di fronte a una tale minaccia strutturante e universale, è probabile che vedremo un profondo cambiamento nelle preferenze collettive.

 

Prima probabile evoluzione delle nostre preferenze collettive: il rapporto con la temporalità. Entrare in un mondo caratterizzato da un pericolo infettivo implica la correzione delle nostre carenze e la realizzazione della nostra incapacità, soprattutto in Europa, di dare realtà al principio di precauzione e coltivare l’approccio preventivo. L’ embolizzazione dei sistemi sanitari dei paesi sviluppati è solo il sintomo di una visione politica a breve termine che si crede premunita contro eventi reali imprevisti grazie alla sola esistenza di mercati interconnessi e reattivi di beni e servizi. Le decisioni future non potranno esonerarsi dall’iscrivere, anzitutto nei bilanci, misure a lungo termine, né da un approccio strategico sistematizzato ai vari settori prioritari della vita delle persone.

 

Al di là di questo primo aspetto, il rischio di infezione ci ricorda con forza l’evidenza dell’interdipendenza tra individui. Questo è l’intero paradosso dell’attuale confinamento: isolati in casa, gli individui non hanno mai lavorato così tanto per il ripristino del collettivo. La salute di tutti non è più, come nel caso delle malattie cardiovascolari e degenerative, la conseguenza del comportamento individuale: dipende dalla responsabilità di ciascuno nei confronti del collettivo e, al contrario, dalla capacità del collettivo di prendersi cura della salute del minimo dei suoi membri. La caratteristica dei virus che questa pandemia ci ricorda, è di non riconoscere confini, né sociali né politici: nessuna barriera, nessun muro proteggerà durevolmente le società da un rischio di contagio, da un “cluster” pronto sciamare.

 

Oltre al necessario rafforzamento del ruolo dell’OMS nell’attuazione delle politiche di prevenzione attiva, questa ricomparsa del sentimento di interdipendenza deve essere accompagnata, in modo che non emerga una società di sfiducia generale. Un recente sondaggio (28) sull’accettabilità di un’applicazione telefonica per tracciare i contatti dei gestori Covid-19 mostra che quasi il 75% degli intervistati installerebbe probabilmente questo tipo di applicazione, se esistesse. Quale apprezzamento sociale verrebbe fatto di un individuo che rifiuta di installare una tale applicazione? Questo rifiuto dovrebbe essere semplicemente autorizzato quando rischia di mettere in pericolo il collettivo? È probabile che questa crisi sanitaria e la sua penetrazione nell’immaginario collettivo stimolino l’emergere di una società di trasparenza medica: è quindi possibile che in futuro il movimento delle persone sia soggetto alla produzione di test di immunità, come la carta di vaccinazione internazionale attualmente richiesta al confine di molti stati. Ma c’è tutto un mondo, tra un semplice taccuino di cartone e i dati del tuo telefono cellulare. Affinché il sistema di trasparenza individuale che si raccomanda di adottare non si trasformi in una società della sfiducia, le autorità pubbliche devono svolgere un ruolo attivo, al fine di garantire non solo l’anonimato degli utenti, ma anche la cancellazione dei set di dati (29). Questo fermo posizionamento pubblico deve costituire la base di un nuovo “sistema provvidenziale” sul quale costruire la fiducia e un rinnovato patto civile.

 

 

 

[1] Jin Wu, Weiyi Cai, Derek Watkins e James Glanz, “Come è uscito il virus”, The New York Times, 22 marzo 2020

 

[1] Anche la Francia ha un vasto stock strategico. Creato nel 2007, lo stabilimento per la preparazione e la risposta alle emergenze sanitarie nel 2009, nel contesto dell’epidemia di H1N1, un miliardo di maschere anti-proiezioni, destinate ai malati, e 900 milioni di maschere di protezione, chiamata “FFP2”. Nel 2013 è stata modificata la dottrina della gestione degli stock strategici, con il trasferimento della protezione dai lavoratori ai datori di lavoro. Nel 2016, le missioni dell’EPRUS sono state integrate in un nuovo istituto di sanità pubblica francese.

 

(3) Cfr. Fondazione Jean Jaurès .

 

(4) Come Haiti, ad esempio, di cui il 32% del PIL nel 2018 proviene da questi trasferimenti

 

(5) Alle Maldive, in casi estremi, il 75% del PIL dipende direttamente e indirettamente dal turismo e le riserve valutarie non superano i 2 mesi di importazioni.

 

(6) Di cosa potrebbe beneficiare la Cina, che non ha accesso agli swap.

 

(7) Aumentano le riserve delle banche centrali

e consentire ai paesi in via di sviluppo di ottenere “valute forti”.

 

(8) La Francia ha finalmente presentato una proposta in tal senso

 

(9) Da allora, l’assegno per $ 1.500 per tutte le famiglie ha migliorato la situazione.

 

(10) Terra Nova, marzo 2020

 

(11) Larry Summers “Prospettive economiche statunitensi: stagnazione secolare, isteresi e limite inferiore zero”, Economia aziendale, 49, pagg. 65-73, 2014

 

(12) Paolo Surico e Andrea Galeotti, “L’economia di una pandemia: il caso di Covid-19”, London School of Economics, 2020

 

(13) Paolo Surico e Andrea Galeotti, ibidem.

 

(14) Già nel gennaio 2008, il FMI aveva annunciato a Davos la necessità di uno stimolo fiscale globale. Prenderà forma al G20 del 2009 a Londra e ha salvato milioni di prevedibili disoccupati.

 

(15) Su questi punti, vedi Shahin Vallée “Nota macro: opzioni per l’Eurogruppo e un possibile percorso graduale verso coronabond”, 2 aprile 2020

 

(16) Questo meccanismo, creato nel 2012, può mobilitare fino a 700 miliardi di euro. Talvolta viene erroneamente descritto come un FMI europeo. La principale differenza con l’FMI deriva dal fatto che le risorse del MES stanno prendendo in prestito risorse e non risorse monetarie. Non è un Fondo monetario europeo ma un Fondo di bilancio europeo.

 

(17) Daniel Cohen, “La crisi del coronavirus segnala l’accelerazione di un nuovo capitalismo, il capitalismo digitale”, Le Monde, 2 aprile 2020

 

(18) Max Weber, in Economia e società, insiste sul fatto che la sottomissione volontaria specifica a qualsiasi forma di socializzazione dipende dalle qualità che il dominato presta a chi lo comanda.

 

(19) Max Weber, “Politik als Beruf”, 1919

 

(20) Se ciò che caratterizza la democrazia è la modalità di acquisizione del potere e non il suo esercizio (Adam Przeworski et al., “Democrazia e sviluppo: istituzioni politiche e benessere nel mondo, 1950-1990”, vol.3, Cambridge Univ. Press, 2001) quindi il carattere democratico delle nostre società non è in discussione.

 

(21) “Nelle democrazie, il rapporto tra cittadini e governo si basa sul triumvirato di conformità, consenso e legittimità”. Hardin, “Conformità, consenso e legittimità”, in Boix & Stokes, Politica comparata

 

(22) Chi avrebbe potuto immaginare che quando, 18 mesi fa, la rivolta dei giubbotti gialli in Francia nacque tra l’altro da indignazione contro il limite di velocità a 80 km / h, considerato liberticida.

 

(23) Julien Benda, “La trahison des clercs”, 1927, ristampa Les cahiers rouges, Grasset, 2003

 

(24) François Sureau “Senza libertà”, Tract, Gallimard, 2019

 

(25) Francis Fukuyama, “La fine della storia e l’ultimo uomo”, The Free Press, 1992

 

(26) Karl Polanyi, “La grande trasformazione. Le origini politiche ed economiche del nostro tempo “, Gallimard, 1944

 

(27) Gideon Lichfield, “Non torneremo alla normalità”, MIT, 2020

 

(28) https://045.medsci.ox.ac.uk/user-acceptance, Università di Oxford, 31 marzo 2020

 

(29) Ciò che l’Europa è stata in grado di attuare con l’adozione precursore del GDPR

 

38° podcast_Il bersaglio grosso, di Gianfranco Campa

Quando, ormai quattro anni fa, apparve sulla scena politica statunitense un personaggio politico apparentemente estraneo ai circoli che ci avevano assuefatti ormai per decenni, le sue filippiche contro il multilateralismo, il globalismo e il principale beneficiario degli assetti mondiali ad essi conseguenti, la Cina, apparivano ancora come fastidiose e rozze dissonanze. Eppure già allo scadere della presidenza Obama qualche disorientamento e la crescente situazione di stallo già spingevano per un cambio di paradigma. Quelle affermazioni apparentemente estemporanee avevano però un limite nella loro vulgata o sottintendevano qualcosa di più essenziale. Puntavano l’attenzione sul dito piuttosto che sulla luna; probabilmente nascondevano la luna dietro il dito; ancora meglio, il lato luminoso della luna impediva di conoscere quello più oscuro e intrigante. Il problema di fondo non era l’emersione di un rivale temibile, la Cina, quanto il fallimento del progetto egemonico mondiale americano e gli enormi scompensi nelle formazioni sociali, nella fattispecie quella americana, creati dai processi di globalizzazione ad esso connessi. Il successo duraturo di Trump, a prescindere dalla stessa eventualità di una sua rielezione, non è altro che la constatazione dell’avanzare di un mondo multipolare, dell’emersione quindi di più potenze. “L’America prima di tutto” comporta quindi la rinnovata capacità di una nuova classe dirigente statunitense di giostrare tra queste contraddizioni e tra le logiche e gli interessi di questi paesi emergenti per riaffermare e mantenere la propria potenza e, soprattutto, consolidare la propria coesione sociale e politica. L’esito positivo non è ancora scritto nel finale di spartito, ma la posta in palio inizia ad essere più definita e circoscritta. Il podcast di Gianfranco Campa si presta a due interpretazioni. Uno più emotivo e forse semplicistico, tende a ridurre il confronto ai due giganti riservando al resto il ruolo di comparse o figuranti. L’altra, di più difficile lettura, è che, comunque, l’emersione di nuovi soggetti crea situazioni di rivalità, di conflitto e di affinità mutevoli tra tutti i protagonisti prima che il processo arrivi a consolidarsi e cristallizzarsi in sodalizi più stabili. Gli scompensi, i dissesti, le tragedie e le riconformazioni riguarderanno tutte le formazioni sociali, non solo quella americana. La Cina, quindi, oltre ad essere un soggetto assoluto di competizione, inizia ad apparire anch’essa un oggetto. Il prevalere di una o dell’altra interpretazione non dipende dall’autore ma dall’atteggiamento manicheo, dogmatico o pragmatico del lettore. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

le nuove strade aperte dal coronavirus, con Antonio de Martini

La conversazione è lunga; la segregazione in casa aiuterà certamente all’ascolto. Il titolo è un po’ paradossale. Il resto lo farà la pacatezza delle argomentazioni offerte da Antonio de Martini. E’ tempo di scelte. Dall’esterno le pressioni, le sollecitazioni a compierle si intensificano. Ad un quadro sempre più dinamico si contrappone una classe dirigente tremebonda ed arruffona, abbarbicata all’attesa e alla conferma di vecchi schemi e sistemi di relazione ormai deleteri. La crisi epidemica in corso si sta rivelando un vero e proprio acceleratore delle dinamiche in corso della geopolitica, quindi anche della geoeconomia. Una posizione di attesa o, nel peggiore dei casi, abbarbicata agli schemi classici della diplomazia e delle relazioni internazionali è il modo migliore per un paese di diventare oggetto piuttosto che protagonista. Rimane, purtroppo, la cieca propensione della nostra classe dirigente. Ne discutiamo con Antonio de Martini. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

 

Il fantasma di Westphalia, di Giuseppe Masala

Il fantasma di Westphalia

tratto da facebook

Alla fine il peccato originale dell’Europa nata con Maastricht (quella del Trattato di Roma e del Mercato Unico andava benissimo) è il fatto che lede tutti i precetti sui quali si fonda l’Europa moderna e contemporanea stabiliti nel Trattato di Westphalia(1648): (a) pluralismo, (b) principio di sovrantà nazionale, (c) non-interferenza nei fatti altrui, (4) equilibrio tra le potenze. E’ stata creata una moneta unica imponendo dei parametri tecnici che premiavano gli stati che gestivano le finanze pubbliche sotto l’aspetto nominale (per esempio la Germania) e punendo con ferocia belluina quelli che gestivano le finanze pubbliche sul piano reale (per esempio l’Italia) e già in radice così si è creato un sistema che non rispetta l’equilibrio tra potenze di Westphalia. Anzichè correggere l’errore con la crisi del 2008 si è deciso di percorrere questa strada con maggior violenza introducendo il Fiscal Compact, il Mes, il Patto di Stabilità e Crescita rendendo sempre più inaccettabili le violazioni del principio di non ingerenza. In altri termini, non è che a Roma sono tutti stupidi, è certo che gli faceva venire l’ulcera vedere Dombrovski che faceva il maestrino e che pretendeva sull’unghia rientri dello 0,1% calcolati su un modello econometrico. Un umiliazione inaccettabile, a maggior ragione se data dal rappresentante di un paese che vive di contributi EU (di cui l’Italia è contributore netto), di investimenti esteri e dove – addirittura – anche il pattugliamento aereo è garantito (con costi a carico) dall’aviazione militare dei paesi Nato compresa quella di quel paese sottoposto a pubblica gogna contabile in sede europea.
Poi è arrivata la crisi greca dove alla logica eterna secondo la quale è vero che il debitore inadempiente deve essere punito lo deve essere anche il creditore incauto si è preferito legare la Grecia al Mes ledendone la sovranità platealmente. Tutto questo per consentire ai creditori incauti (soprattutto tedeschi e francesi) di rientrare di tutta la cifra dovuta.
Da lì è scattato un meccanismo inesorabile, dettato dalle leggi ferree della storia europea: la Gran Bretagna è entrata nell’orbita USA con relativa uscita dalla UE avendo capito che questa non è un consorzio tra pari ma un meccanismo infernale a vantaggio dei paesi centrali.
Ora c’è il problema italiano. Se verrà legata alla UE tramite il Mes, ovvero ingerendo nel suo processo democratico, si esacerberanno gli animi della Gran Bretagna, degli USA e della Russia che certamente non vogliono un Italia ridotta a semicolonia a vantaggio dei tedeschi. Se invece l’Italia uscirà dalla UE causandone la disgregazione rimarranno inimicizie e rancori che dio solo sa in cosa sfoceranno. Servirebbero dei grandi politici che smontino questa pazzia prima che sia troppo tardi. Servirebbero soprattutto a Berlino, dove dovrebbero accettare pacificamente il ridimensionamento geopolitico ed economico. Non vedo nessuno all’orizzonte in grado di fare questo.

L’unica cosa chiara è che affidare un delicatissimo trattato come quello di Maastricht (e seguenti) a degli economisti convinti di sorpassare le ferree leggi storiche europee con idiozie quali il rapporto debito/pil e deficit/pil (peraltro indici privi di qualsiasi fondamento scientifico anche in economia) è stata la più grande follia degli ultimi cinquanta anni. Follia figlia peraltro di un’epoca che si è caratterizzata – sbagliando – per l’egemonia della techne (dove c’è anche l’economica) sulla psiche (dove senz’altro c’è la Storia).

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