La complessità di un mondo multipolare. Videointervista a Pierluigi Fagan_1a parte

Qui sotto il link della prima delle tre parti dell’intervista. Pierluigi Fagan ha svolto per oltre venti anni la professione di imprenditore e manager. Da oltre tredici si è dedicato intensamente allo studio in vari campi, privilegiando in particolare l’ambito filosofico e teorico-politico. Nel 2016 ha pubblicato un libro edito da Fazi dal titolo: VERSO UN MONDO MULTIPOLARE, il gioco di tutti i gioche nell’era Trump. Buon ascolto

REPLICA    DI MASSIMO MORIGI A “CIRCA IDENTITÀ E UNIVERSALISMO: DIALOGHI REPUBBLICANI” DI ALESSANDRO VISALLI

REPLICA DI MASSIMO MORIGI A “CIRCA IDENTITÀ E UNIVERSALISMO: DIALOGHI REPUBBLICANI” DI ALESSANDRO VISALLI

(AGLI URL http://italiaeilmondo.com/2018/03/20/circa-identita-e-universalismo-dialoghi-repubblicani-di-alessandro-visalli/ E https://tempofertile.blogspot.it/2018/03/circa-identita-e-universalismo-dialoghi.htmlWebCite: http://www.webcitation.org/6y9MwYd6S E http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F03%2F20%2Fcirca-identita-e-universalismo-dialoghi-repubblicani-di-alessandro-visalli%2F&date=2018-03-24)

Caro Visalli, in questa mia ulteriore  replica alle tue ultime stimolanti considerazioni sul problema identitario mi permetto di citarti iniziando dal finale del tuo articolo dove vi si afferma: «l’idea di libertà come egoismo non limitato, spesso connessa internamente con lo scientismo, è strutturalmente e geneticamente connessa con l’inibizione dell’azione collettiva e milita contro quella che Taylor chiama la “libertà pubblica”. La “libertà privata” atomistica impedisce l’affermazione della “libertà pubblica”, l’autorealizzazione individualista con la lealtà collettiva. La questione è dunque politica.» Sono d’accordo in tutto e per tutto, specialmente nell’ultima frase dove si dice che il problema dell’identità ruota totalmente intorno alla politica. Ma, come si dice, “il diavolo è nei dettagli” ed è quindi necessario chiarire molto bene cosa si intende per ‘politica’ e come si intende la natura della ‘politica’. Ora la mia forte impressione è che per politica nel tuo ultimo contributo s’intenda un’attività culturale  che si contrappone alla naturalità dell’uomo, la quale naturalità umana, sovente agonistica e violenta, se ben diretta da una “buona politica” riesce a mettere la sordina agli spiriti belluini dell’uomo (fra i quali primeggia l’autoriconoscersi dei gruppi umani con specifiche identità); se invece eccitata da una “cattiva politica” funge da tragico moltiplicatore di queste tendenze violente e distruttive. Su questo punto dissento radicalmente. Non è questa la sede per ripercorrere partitamente l’epistemologia che sotto la definizione di ‘Repubblicanesimo Geopolitico’ è stata sviluppata per contestare alla radice la suddivisione, originata in primo luogo dalla rivoluzione scientifica galileana, fra natura e cultura, due punti di vista di conoscenza della realtà che possono venire unificati alla luce del modello dell’azione dialettico-conflittuale-strategica (modello dell’azione dialettico-conflittuale-strategica per il quale si rimanda, per chi ne voglia  per sommi capi ripercorrere la teoria,  a Repubblicanesimo Geopolitico Anticipating  Future Threats. Dialogo sulla moralità del Repubblicanesimo Geopolitico più breve nota all’intervista del CSEPI a La Grassa (di Massimo Morigi), agli URL https://archive.org/details/MARXISMO_345  e https://ia601909.us.archive.org/4/items/MARXISMO_345/MARXISMO.pdf ; WebCite:    http://www.webcitation.org/6o8vF7WLt  e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601909.us.archive.org%2F4%2Fitems%2FMARXISMO_345%2FMARXISMO.pdf&date=2017-02-09; ResearchGate: https://www.researchgate.net/publication/309427489_Repubblicanesimo_Geopolitico_Anticipating_Future_Threats_Dialogo_sulla_Moralita_del_Repubblicanesimo_Geopolitico_piu_Breve_Nota_all%27Intervista_del_CSEPI_a_La_Grassa_di_Massimo_Morigipdf: DOI: 10.13140/RG.2.2.11532.72320  e  a Dialecticvs Nvncivs. Il punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico attraverso i Quaderni del Carcere e Storia e Coscienza di Classe per il rovesciamento della gerarchia della spiegazione meccanicistico-causale e dialettico-conflittuale, per il rinnovamento degli studi marxiani e marxisti e per l’Aufhebung della gramsciana   e   lukacsiana   Filosofia   della  Praxis, agli URL https://archive.org/details/DialecticvsNvncivs_201701  e https://ia801509.us.archive.org/26/items/DialecticvsNvncivs_201701/Dialecticvs%20Nvncivs.pdf; WebCite:  http://www.webcitation.org/6o8wW4znJ e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia801509.us.archive.org%2F26%2Fitems%2FDialecticvsNvncivs_201701%2FDialecticvs%2520Nvncivs.pdf&date=2017-02-09; ResearchGate: https://www.researchgate.net/publication/313278043_Dialecticvs_Nvncivs_Il_punto_di_vista_del_Repubblicanesimo_Geopolitico_attraverso_i_Quaderni_del_Carcere_e_Storia_e_Coscienza_di_Classe_per_il_rovesciamento_della_gerarchia_della_spiegazione_meccanici: DOI: 10.13140/RG.2.2.29749.47842. Dialecticvs Nvncivs è stato inoltre pubblicato anche sul presente  blog  “L’Italia e il Mondo”,  agli URL   http://italiaeilmondo.com/2016/12/13/dialecticus-nuncius-di-massimo-morigi/ e http://italiaeilmondo.com/category/agora/; WebCite: rispettivamente http://www.webcitation.org/6oBwn5kXP e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2016%2F12%2F13%2Fdialecticus-nuncius-di-massimo-morigi%2F&date=2017-02-11 e http://www.webcitation.org/6oBx5xZNt e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2Fcategory%2Fagora%2F&date=2017-02-11), e non è nemmeno la sede per argomentare che non solo la cultura politica ma anche la cosiddetta cultura scientifico-naturalistica devono ripartire dallo Zoòn Politikòn  aristotelico dove, almeno per rimanere alle scienze umane, è di tutta evidenza che per lo stagirita il ‘politico’ (o il sociale a seconda dalla traduzione, ma è altrettanto chiaro che si tratta di un problema di traduzione tutto nostro, perché per Aristotele evidentemente tale distinzione non avrebbe avuto senso) è tutto fuorché non naturale e non costitutivo della naturalità (e quindi della politicità e/o della socialità) dell’uomo, ma forse non è inutile sottolineare che a modesto giudizio dello scrivente questa artificiosa suddivisione fra natura e cultura (e quindi, per diretto riflesso, fra natura e politica), è responsabile della discutibile affermazione che «Quel che possiamo provare a nominare come ‘i popoli’ (che poi a grandi linee sono solo le loro élite e le clientele ad esse connesse in vario modo, e quindi facenti parte del ‘modo di produzione’ tributario ad esse) hanno sempre sviluppato una loro specificità, e quindi ciò che oggi chiamiamo una loro ‘identità’, ma quanto ad avvertirla il passo non è sempre automatico», dove l’elemento discutibile non è tanto la giusta sottolineatura del fatto che «le élite e le clientele», detto in parole povere, “ci marciano” sul sentimento identitario dei gruppi umani ma quello che sembra sottintendere il passaggio testé citato, e cioè che il senso – e il bisogno – di identità dei gruppi umani sia un prodotto di pretta natura  “culturale” ed essendo come tale politico, cioè frutto di una “cattiva politica”, può essere curato e domato da una “buona politica” che ponga ai vari gruppi umani altri obiettivi che non siano identitari, vale a dire la ricerca all’interno di questi gruppi di una maggiore giustizia. Ora su questo punto occorre essere molto chiari. Non c’è bisogno di ricorrere ad esempi storici per mostrare che le élite sul bisogno identitario ci abbiano “marciato” ma è un terribile errore prospettico affermare che le élite abbiano ad arte creato questo bisogno del quale, mi scuso per il gioco di parole, non c’era alcun bisogno e che in natura sarebbe addirittura inesistente. Non è qui il caso di fare un corso di antropologia culturale in sessantottesimo ma è di tutta evidenza non solo che l’evoluzione dell’homo sapiens (per limitarci alla specie che per ovvie ragioni conosciamo meglio ma il discorso è per lo meno estendibile anche ad altre specie animali che hanno sviluppato strategie di sopravvivenza di gruppo, cioè in pratica tutte, e non escludiamo le specie vegetali) sia dal punto di vista biologico che culturale è avvenuta all’interno di gruppi che avevano sviluppato linguaggi specifici e quindi identità escludenti gruppi concorrenti dotati di altre espressioni linguistiche e/o di trasmissione di informazioni ma è anche altrettanto evidente che senza questo presa di coscienza di alterità rispetto agli altri gruppi umani (coscienza di alterità culturale e naturale al tempo stesso) non ci sarebbe stata alcuna evoluzione umana (sull’inestricabile nesso fra l’evoluzione culturale, la sua trasmissione di generazione in generazione e su come questa  evoluzione-trasmissione culturale abbia fortissime ricadute anche nella modificazione del genotipo non solo della specie umana ma anche delle altre specie animali, in uno schema che riprende,  integra e sviluppa dialetticamente sul modello darwiniano di pura selezione meccanica il precedente schema lamarkiano dove l’organismo ed il gruppo in cui questo organismo è collocato svolgono un ruolo attivo e culturalmente mediato e non solo passivo come nel darwinismo, si consigliano, oltre al Dialectical Biologist di Richard Lewins e Richard Lewontin – Richard Lewins, Richard Lewontin, The Dialectical Biologist, Harvard University Press, 1985 –  i fondamentali lavori di Eva Jablonka sull’epigenetica, in particolare Eva Jablonka, Marion J. Lamb,  Evolution in Four Dimensions: Genetic, Epigenetic, Behavioral, and Symbolic Variation in the History of Life, Bradford Books/The MIT Press. 2005). Concludo  con Hannah Arendt citando il suo  Sulla rivoluzione dove la filosofa politica tedesca esule negli Stati uniti per ragioni razziali e assunta  poi la cittadinanza statunitense, parlandoci del   miracolo non miracolo dell’azione (non miracolo perché evento totalmente terreno, miracolo perché l’azione consente all’uomo di vincere la sua mortalità sia attraverso il lustro che gli può conferire una grande e gloriosa azione ma, soprattutto, perché l’agire dà inizio ad una catena infinita di eventi che va oltre la vita dell’uomo), lega quest’azione al principio naturale della generazione vitale e della  crescita, generazione vitale e crescita  che a loro volta sono hic et nunc possibili solamente qualora si instauri, di generazione in generazione, una  consapevole  tradizione di passaggio  di queste possibilità creative e di azione. In questo discorso Hannah Arendt sovrapponeva il paradigma culturale dell’antica Roma all’azione dei padri fondatori degli Stati uniti, e in questa sorta di anacronismo non si fa molta fatica ad intravedere il problema identitario di un’ebrea tedesca che aveva perso la sua patria e doveva trovarsene e crearsene un’altra. Ma nonostante l’anacronismo di paragonare in On Revolution (Hannah Arendt, On Revolution, The Viking Press, 1963) Roma antica agli Stati unti, queste parole  di Hannah Arendt, volendo andare al di là delle peculiari  situazioni storiche  che vi vengono trattate  e comparate, la tradizione culturale-religiosa della Roma antica e  la rivoluzione americana, costituiscono uno dei più grandi contributi in merito alle dinamiche identitarie (indubbiamente autoperformative, quindi culturali, ma non per questo innaturali, anzi esattamente il suo contrario) e all’errore che si  commette qualora queste dinamiche vengano considerate come una sorta di epifenomeno culturale trattabile con giuste politiche piuttosto che come un bisogno naturale e culturale dell’uomo e indispensabile non solo per la sua evoluzione ma anche perché la sua natura rimanga una natura umana e quindi in grado di crescere, generare e creare, contrapponendosi quindi alla meccanizzazione della sua cultura e della sua psiche; una meccanizzazione che, sia detto per inciso, non è iniziata con la rivoluzione industriale ma è l’inevitabile portato, verificatosi in tutte le epoche dell’uomo, dell’azione delle elite, ma non in quanto queste intendono “marciare” sui problemi indentitari ma quando questi gruppi ristretti, in nome di astratti principi, intendono annullare e gettare nel bidone della storia il naturale e culturale bisogno identitario  dei gruppi umani: «Nella persona dei senatori romani continuavano ad essere presenti i fondatori di Roma, e con loro era presente lo spirito della fondazione, il cominciamento, il principium e il principio di quelle res gestae che da quel momento in poi formeranno la storia del popolo romano, giacché l’auctoritas, la cui radice etimologica è augere, accrescere e aumentare, dipendeva dalla vitalità dello spirito di fondazione, in virtù della quale era possibile aumentare, accrescere ed ampliare le fondamenta che erano state gettate dai progenitori. L’ininterrotta  continuità di questo accrescimento e l’autorità insito in esso potevano realizzarsi solo attraverso la tradizione, ossia attraverso la trasmissione, lungo la linea ininterrotta di successori, del principio stabilito all’inizio. Essere in questa ininterrotta linea di successori significa a Roma possedere autorità; e restare legati al principio dei progenitori in pio ricordo e con spirito conservatore significava avere pietas romana; essere “religioso” ovverossia “legato” alle proprie radici.» (Hannah Arendt, Sulla rivoluzione, Torino, Einuadi , 2006, pp. 230-231). Se si vuole uscire  da una visione meccanicista dell’uomo e della politica (espressione politico-ideologica della quale, il liberalismo-liberismo che vede la possibilità dell’espressione della creatività dell’uomo solo entro uno pseudo libero mercato dove operano liberamente  pseudo individualità: individualismo metodologico, ed espressione scientista della stessa nella c.d.  sociobiologia  che chiude gli occhi di fronte al legame dialettico fra organismo, gruppi di organismi e l’ambiente che viene modificato, oltre a modificare, dagli organismi stessi ) e, nel contempo, non ricadere nella “pappa del cuore” del politicamente corretto dei “sacri” principi politici universalistici nati dalla rivoluzione dell’ ’89 del Secolo decimo ottavo ma senza per questo rifugiarsi stolidamente in un reazionarismo da alleanza fra trono e altare e degli allegri compagni del pensiero controrivoluzionario (e sui rischi di una frequentazione troppo entusiasta dei quali, Joseph-Marie de Maistre, Louis de Bonald, Juan Donoso Cortés,  la paradigmatica vicenda politica ed umana  del giuspubblicista fascista Carl Schmitt ha molto da insegnarci), penso che queste parole di Hannah Arendt costituiscano un perfetto viatico e, perché no? non per mettere irenicamente d’accordo ma per fornire una medesima “fusione d’orizzonti” fra le posizioni espresse dal sottoscritto  e quelle magistralmente illustrate dall’amico Alessandro Visalli.

 

P.S.  Per completezza di comprensione di questa mia ultima risposta ad Alessandro Visalli, non è forse inutile ripercorrere i primi passi di questo dibattito teorico sul problemi identitari avvenuto sull’ “Italia e il mondo”. Ovviamente, per brevità e per non iniziare un altro intervento, si tratta di un andare a ritroso solamente bibliografico, lasciando i commenti e le riflessioni ai lettori. Tutto è iniziato con l’ottimo contributo di Roberto Buffagni sui tragici fatti di Macerata per poi continuare fra commenti e risposte del sottoscritto e di altri lettori dell’ “Italia e il mondo” – che hanno toccato anche il tema del malefico mito identitario che va sotto il nome di antifascismo –  sino all’odierna mia risposta ad Alessandro Visalli (non si danno i titoli dei vari interventi e contributi ma solo gli URL e i “congelamenti” su WebCite): http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/; http://www.webcitation.org/6x87pr86F; http://www.webcitation.org/6x886y1nC;http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/; http://www.webcitation.org/6x9EFQqT4;http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/; http://www.webcitation.org/6xCnA0lmK; http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/; http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/#comments; http://www.webcitation.org/6xInS3p6S; http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F02%2F07%2Fintorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni%2F%23comments&date=2018-02-17; http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/; http://www.webcitation.org/6xJAwBIIo;http://www.webcitation.org/6xJBK3kDc;http://italiaeilmondo.com/2018/02/20/letture-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni-di-alessandro-visalli/;http://www.webcitation.org/6xQLEqyD5;http://italiaeilmondo.com/2018/02/20/letture-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni-di-alessandro-visalli/#comments; http://italiaeilmondo.com/2018/02/20/letture-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni-di-alessandro-visalli/#comments;http://www.webcitation.org/6xWZB8SPD;http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F02%2F20%2Fletture-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni-di-alessandro-visalli%2F%23comments&date=2018-02-26; http://italiaeilmondo.com/2018/02/23/considerazioni-a-margine-di-lettura-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni_-di-massimo-morigi/; http://www.webcitation.org/6xcbBIQNN;http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F02%2F23%2Fconsiderazioni-a-margine-di-lettura-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni_-di-massimo-morigi%2F&date=2018-03-02; http://italiaeilmondo.com/2018/03/01/identita-e-universalismo-un-dialogo-di-alessandro-visalli/; http://www.webcitation.org/6xcaJuM6L; http://italiaeilmondo.com/2018/03/04/replica-a-identita-e-universalismoun-dialogo-dal-punto-di-vista-del-repubblicanesimo-geopolitico-di-massimo-morigi/; http://www.webcitation.org/6xfajD50m;http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F03%2F04%2Freplica-a-identita-e-universalismoun-dialogo-dal-punto-di-vista-del-repubblicanesimo-geopolitico-di-massimo-morigi%2F&date=2018-03-04;http://italiaeilmondo.com/2018/03/10/a-proposito-delle-elezioni-del-4-marzo-di-massimo-morigi/; http://www.webcitation.org/6xqFvZtVo;http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F03%2F10%2Fa-proposito-delle-elezioni-del-4-marzo-di-massimo-morigi%2F&date=2018-03-11;http://italiaeilmondo.com/2018/03/18/dal-xxi-podcast-di-gianfranco-campa-suggestioni-sullodierna-natura-della-democrazia-e-sul-mito-dellantifascismo-di-massimo-morigi/;http://www.webcitation.org/6y1nzhUck;http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F03%2F18%2Fdal-xxi-podcast-di-gianfranco-campa-suggestioni-sullodierna-natura-della-democrazia-e-sul-mito-dellantifascismo-di-massimo-morigi%2F&date=2018-03-19.

 

 

Massimo Morigi – 24 marzo 2018

 

 

 

 

 

NOTE SU DIPENDENZA DEGLI STATI E GLOBALIZZAZIONE, di Teodoro Klitsche de la Grange

NOTE SU DIPENDENZA DEGLI STATI E GLOBALIZZAZIONE

Indice:

1) Posizione del problema; 2) Dipendenza giuridica e politica; 3) Forme e regolarità politiche; 4) Sovranità e indipendenza: Bodin 5) Transizione di epoche e idee della globalizzazione; 6) Loro inconvenienti; 7)  Fini della politica; 8) Conclusione.

1.0 Il pianeta è diviso tra tanti Stati sovrani, i quali formalmente – ossia sul piano giuridico – sono uguali, ma la cui differenza di potere reale ne riduce – correlativamente – la possibilità di esercitare (parzialmente) prerogative e diritti, in applicazione del detto di Spinoza per cui tantum juris quantum potentiae.

Santi Romano (tra i tanti) scriveva che «essendo la comunità internazionale, di regola, paritaria, nel senso che i suoi membri non dipendono l’uno dall’altro, ciascuno di essi… si dice che ha una sovranità perché non è in una posizione subordinata verso altri soggetti»[1]. Tuttavia, proseguiva, tale regola non è assoluta[2]; ma derogarne è sicuramente un’eccezione[3]. Ed occorre distinguere «l’appartenenza ad un’unione amministrativa o alla Società delle nazioni, tanto meno una semplice alleanza, non significa da per sé perdita della sovranità. Viceversa, gli Stati soggetti a protettorato o alla tutela della Società delle nazioni sono eccezionalmente degli Stati internazionalmente non sovrani, cioè subordinati agli Stati protettori o alla Società medesima, che, rispetto ad essi, sono quindi sovrani». Secondo il giurista siciliano, contrariamente all’opinione di altri «la verità è invece che lo Stato protetto, come quello tutelato, non assume solo obbligazioni singole e determinate, ma entra in un complesso “status subiectionis”, si sottomette ad altri soggetti per una sfera più o meno ampia della sua personalità, e tutto ciò riguarda non la sua libertà nel campo dei rapporti veramente obbligatorii, ma la sua posizione d’indipendenza, la sua sovranità e, come conseguenza, anche la sua capacità».

Effetto della mancanza di sovranità è «la limitazione della capacità internazionale degli Stati protetti o tutelati: limitazione che si ha anche…. verso i terzi, il che conferma (trattarsi)… di una posizione personale»[4].

Tale limitazione di capacità non è incompatibile con la personalità internazionale[5]; come conferma, scrive Santi Romano, la condizione degli Stati vassalli (dell’Impero ottomano).

Diverso era il regime giuridico delle colonie, in particolare perché la presenza dello Stato colonizzatore si estendeva anche all’amministrazione interna e diffusa dei territori coloniali.

Tutte tali classificazioni hanno il connotato comune di essere giuridiche – e non solo politiche – e di tradursi in modificazioni degli ordinamenti (e dei collegamenti tra questi) e della normativa conseguente.

Tuttavia, vi sono altre forme di dipendenza assai note, che rispettano formalmente il carattere sovrano dello Stato dipendente[6].

Così ad esempio all’epoca della Guerra Fredda si parlava di «Stati-satellite» in relazione agli Stati dell’Est europeo a regime comunista, quali nazioni egemonizzate da una grande potenza, ma formalmente sovrane (tale carattere era, di rimando, attribuito da oltre cortina a Stati facenti parte della Nato, come Italia e Germania Ovest). Tenuto conto che il dominio politico della potenza egemone nell’Est europeo era esercitato attraverso «partiti fratelli» (comunisti) più che regolamentato in istituti giuridici (i quali comunque, non mancavano) il termine era adeguato alla realtà politica. Com’era naturale, il crollo del comunismo fu anticipato dalla de-comunistizzazione di alcuni di tali Stati e la regolamentazione giuridica dello stato di «satellite», seguì la fine politica dei partiti comunisti.

Stato-fantoccio è un concetto assai prossimo a quello di Stato-satellite. Per lo più l’espressione è usata per Stati – o regimi politici – che devono la loro esistenza a un soggetto più potente, quasi sempre un altro Stato. Spesso è un modo per esercitare l’occupazione militare: in altri casi, anche se il rapporto di «filiazione» tra Stato fantoccio e sconfitta – occupazione militare è (quasi) una regolarità, lo Stato-fantoccio subentra all’occupazione. Non è detto tuttavia che tale carattere implichi una subordinazione giuridica (anzi in genere non esiste) ma è dovuto a motivi politici e militari. Stati-fantoccio hanno ottenuto spesso anche il riconoscimento non solo delle potenze occupanti (o ex-occupanti) ma anche di Stati terzi.

2.0 La distinzione tra l’una e l’altra categoria di Stati per così dire «a sovranità limitata»  (o a indipendenza relativa) consiste sotto il profilo giuridico, dalla assenza, nel primo caso (protettorati, colonie) di una (completa) capacità internazionale, e sul piano interno dalla presenza di organi di «controllo»            (in effetti di governo o meglio – secondo i casi – di sorveglianza del governo) nominati dallo Stato protettore (ovvero dominante); nella seconda invece la capacità internazionale è piena e l’intromissione nelle attività di governo interne è esercitata (quasi) sempre per influenza politica sull’attività e spesso sulla nomina delle cariche di governo e/o di (alta) rilevanza politica.

Ovviamente in tale ultima classe, vale quanto scriveva Santi Romano per il protettorato (v. sopra): la forma e gli istituti concreti che il dominio politico può assumere non consente di tracciare confini netti; in astratto la differenza degli uni e degli altri è distinguibile agevolmente, in concreto no. Questo soprattutto perché il concetto di dipendenza politica è più ampio e determinante, ovvero è difficile che una dipendenza giuridica non si traduca in politica; nonché – e anche come conseguenza, perché le forme che il dominio assume possono cambiare senza che ne muti la sostanza. L’Egitto moderno ad esempio fu giuridicamente un protettorato della Gran Bretagna solo per pochi anni durante il primo conflitto mondiale, e poi fino al 1922. Ciò non toglie che prima e dopo la Gran Bretagna ne condizionava la politica in modo determinante, di guisa che l’Egitto «indipendente» fu teatro di battaglie tra potenze dell’Asse ed alleati nella seconda guerra mondiale, a quasi vent’anni dalla concessa «indipendenza».

3.0 Le forme (giuridiche) di dipendenza tra gli Stati (o tra Stati ed altri territori) costituiscono un reperto archeologico dopo la fine della seconda guerra mondiale e la decolonizzazione. È difficile trovare un trattato di diritto internazionale, di recente pubblicazione, che li prenda in esame. In qualche modo è comprensibile, atteso che di Stati protetti e di colonie (in senso giuridico, ben s’intende) non risulta che ne esista uno.

Peraltro l’esistenza di unità politiche «dipendenti» si riscontra costantemente nella storia. Lo erano la Giudea, l’Arabia Nabatea, l’Armenia (e altri) ai tempi dell’Impero romano. La Cipro dei Lusignano dipendeva da Venezia, la Transilvania dall’Ungheria nel Medioevo. Le repubbliche rivoluzionarie e poi i regni napoleonici dopo la rivoluzione francese dalla Francia. E così fino alla seconda guerra mondiale (ed oltre).

Tuttavia tale (apparente) assenza – a noi contemporanea – non significa che il rapporto di dominio sia venuto meno. Vale pur sempre la regolarità del politico esposta da Tucidide nel famoso dialogo tra gli ambasciatori ateniesi e i maggiorenti di Melo[7]. Pertanto il dominio (e la differenza tra rapporti di forza che presuppone) si esercita in modo diverso. Ciò per varie ragioni.

In primo luogo perché così viene occultato: non traducendo in istituti giuridici il rapporto di comando-obbedienza, questo è meglio nascosto. Si ubbidisce meglio e con minor resistenza a chi non comanda palesemente e con frastuono di «grida». Inoltre così è attenuata anche la responsabilità: uno Stato sovrano – anche se satellite o fantoccio – è responsabile pienamente dei propri atti (e omissioni), una colonia o un protettorato no (o non pienamente).

4.0 I giuristi, come Santi Romano, pongono il problema in termini giuridici (capacità-personalità); a un pensiero politico realista occorre qualcosa di diverso: più sein che sollen. Si può definire – com’è stato fatto – la sovranità come «competenza sulle competenze»; la si può denotare in un elenco di attività e funzioni (le vraies marques di Bodin); o come decisione sull’idea di diritto che debba valere nella comunità, o semplicemente negandola come fa Kelsen.

Ma, a basarla sul dato reale e concreto, la migliore definizione la si ricava da Sieyés, nelle sue considerazioni sulla Nazione, applicabili alla sovranità «La Nazione esiste prima di ogni cosa, essa è l’origine di tutto. La sua volontà è sempre conforme alla legge, essa è la legge stessa. Prima di essa e al di sopra di essa non c’è che il diritto naturale… una nazione non può né alienare né interdire a se stessa la facoltà di volere; e qualunque sia la sua volontà, non può perdere il diritto di mutarla qualora il suo interesse lo esiga»[8]. È il volere libero, il connotato sostanziale del sovrano.

La stessa impostazione che dava Bodin della sovranità ruota intorno alla volontà del sovrano ed ai suoi limiti, ovvero se sia obbligato dai trattati con gli Stati esteri; o dalla legge; o dalla costituzione; o dal diritto naturale[9].

Bodin si pone anche il problema se possa dirsi sovrano un principe che sia feudatario o tributario e inizia affermando «Abbiamo detto poc’anzi che si può dire sovrano solamente chi non dipende, eccezione fatta per Dio, altro che dalla sua spada. Se uno dipende da altri non è più sovrano»[10].

Nel capitolo successivo, dopo aver dato una soluzione così semplice (sovranità = non dipendenza da altri) Bodin espone quali sono le vraies marques de la souveraineté. E scrive: «Infatti, chi non riterrebbe sovrano colui che possa dettar legge a tutti i suoi sudditi, decidere la guerra e la pace, nominare tutti gli ufficiali e magistrati del paese, levare taglie e affrancare chi meglio creda, dar la grazia a chi abbia meritato la morte? Che altro ancora si può richiedere per considerare sovrano un principe?»[11]; ma subito dopo ritorna sullo stretto rapporto sovranità/indipendenza «come potrebbe essere sovrano chi riconosca la giurisdizione di un superiore il quale possa annullare i suoi giudizi, modificare le sue leggi, castigarlo se commette abusi?»[12] e aggiunge, in sostanza, che il tutto è un principio d’ordine[13].

Anche quando scrive della prima marque (cioè del potere di dare, modificare, abrogare le leggi) specifica «Perciò possiamo concludere che la prima prerogativa sovrana è il potere di dare la legge a tutti in generale e a ciascuno come singolo; ma ancora questo non è sufficiente, se non si aggiunge: “senza il bisogno del consenso di nessuno”. Se il principe dovesse attendere e osservare il consenso di un superiore, non sarebbe che un suddito; se di un uguale, avrebbe un compagno di potere; se dei sudditi, del senato o del popolo, non sarebbe sovrano».

Quando poi scrive di un’altra marque, quella di nominare gli alti magistrati, afferma: «Ma ho parlato di ufficiali più alti o di primi magistrati, perché in realtà non vi è Stato ove non sia permesso ai più alti magistrati e a certi corpi e collegi di eleggere qualche ufficiale minore»[14]; così quando tratta del potere di giudicare in ultima istanza (cioè – anche – di annullare le sentenze) sostiene «Ma, al contrario, quando il principe sovrano lascia il suo suddito o vassallo il potere del diritto di giudizio in ultima istanza, o addirittura delle prerogative sovrane che apparterrebbero a lui, egli fa del suddito un principe sovrano»[15].

Bodin doveva cercare di ricondurre alla propria teoria dello Stato (moderno) proiettata nell’avvenire, istituti e rapporti giuridici esistenti in un’età di transizione tra il vecchio ordine feudale (policratico) e il nuovo ordinamento statale; peraltro, forse perché era un giurista, finiva in qualche misura, anche nel cadere in un eccesso di giuridificazione della sovranità[16].

5.0 La teoria di Bodin elaborata, come scritto, in un’epoca di transizione (Hauriou chiamava epoche le diverse fasi di una civiltà o «era»; così l’epoca medievale o quella del rinascimento[17]), può essere rivisitata per valutare la situazione contemporanea anch’essa di transizione (assai avanzata) tra l’ordine westphaliano e uno futuro di cui si percepiscono i contorni.

All’uopo le maggiori differenze tra il vecchio e nuovo ordine sono:

1) Il carattere della globalizzazione. Ovviamente questa non è nata con la fine dell’ordine di Yalta (o con internet), come spesso creduto. Va avanti almeno dalle gradi «scoperte» dei navigatori europei dell’inizio dell’età moderna. La differenza tra il tempo di Filippo II e Elisabetta I e l’attuale è che, fino a qualche decennio fa la globalizzazione era «gestita» o meglio «regolata» e «limitata» dagli Stati (dalla politica): tutela cui si sta sottraendo (o meglio si è già in notevole misura) sottratta.

Il primato dell’economia nella politica si sviluppa riducendo la capacità ordinatrice della seconda e quindi degli Stati.

2) La diffusione dei soggetti «politici».  Non sono solo partiti e movimenti partigiani, ma anche lobbies e centri di potere economico e finanziario, sette e chiese. Qualcuno potrebbe obiettare: nulla di nuovo. E in effetti una situazione del genere ha più punti di contatto con l’assetto policratico dei feudatari, delle gilde e degli ordini monastico-militari che con l’età moderna.

3) Le ideologie pacifiste e la diffusione di forme di guerra «alternativa». Ossia non violente o comunque a «bassa intensità».

Il lavoro che ne tratta è l’ormai «classico» «Guerra senza limiti» dei colonnelli cinesi Quiao Liang e Wang Xiangsui. Quel che ne consegue è che simili forme di guerra rientrano facilmente nella disponibilità di soggetti non-politici (nel senso sopra precisato). Come scrivono i colonnelli suddetti «Quando la gente comincia ad entusiasmarsi e a gioire proponendo per la riduzione di forze militari come mezzo per la risoluzione dei conflitti, la guerra è destinata a rinascere in altre forme e su di un altro scenario, trasformandosi in uno strumento di enorme potere nelle mani di tutti coloro che ambiscono ad assumere il controllo di altri paesi o aree. In tal senso esistono fondate ragioni per sostenere che l’attacco finanziario di George Soros all’Asia Orientale, l’attacco terroristico di Osama Bin Laden all’ambasciata militare in Sudan, l’attentato chimico alla metropolitana di Tokyo da parte dei discepoli  di Aum Shiri Kyo e i disastri perpetrati ai danni della rete da personaggi come Morris Jr., il cui livello di distruzione non è certo secondario a quello di una guerra, rappresentano una “semi-guerra”, una “quasi-guerra” e una “sotto-guerra”, vale a dire la forma embrionale di un altro genere di guerra»[18].

4) Il potere indiretto. Diversamente dagli imperi europei dell’era moderna dove la potenza colonizzatrice (e dominante) aveva responsabilità per la gestione dei territori soggetti, nel caso delle forme di dominio contemporanee, proprio perché esercitato più con strumenti politici che formalizzate giuridicamente, la responsabilità della potenza (o del potere) egemone non è giuridicamente configurabile. Anche se poi è chiaro che dietro a certi belligeranti e a certe guerre, vi sono potenze che «tirano i fili». Ma è una situazione estremamente comoda quella di uno Stato (o altro soggetto) che esercita un potere senza assumerne la responsabilità. Per questo è molto ricercata e sviluppata in questo tempo di pacifismo imperante (e d’ipocrisia diffusa), anche se non sconosciuta nei secoli passati.

5) Il consenso di terzi nell’esercizio di prerogative sovrane. È questo, come scrive Bodin che de-sovranizza il principe (v. sopra citato rif. nota 11). Nella realtà la dipendenza politica di uno Stato da un altro si è sviluppata, nel corso del XX secolo, in forme diverse, prima sconosciute o comunque meno frequentate.

Tipica è la dipendenza «ideologica» (a partire dalle repubbliche giacobine), dopo la pausa del XIX secolo, è aumentata nel secolo passato; il fattore d’incremento principale è stato il partito (e quindi lo Stato) totale, in effetti anche transnazionale. Com’è evidente nel comunismo «organizzato» prima nel Comintern e poi nel Cominform, ma anche nella diffusione, già nel secondo anteguerra, di partiti fascisti, giunti per lo più al potere nei rispettivi Stati a seguito dell’occupazione militare delle potenze dell’Asse.

La stessa dipendenza economica è incrementata (ideologicamente). Se si reputa ottimale un assetto libero-scambista, questo, in generale è preferibile: ma se si vuole negare che uno Stato abbia il diritto d’imporre limitazioni alla circolazione di merci, servizi e persone, anche nei casi di necessità estrema (eccezione), non lo è. Al contrario: il tutto riduce drasticamente la legittimità del  potere politico, il quale istituito per il conseguimento del bene comune, trova in questo la propria regola di comportamento.

Altri tipi di dipendenza – spesso correlativi alla «permeabilità» degli Stati, si possono sviluppare attraverso il progresso tecnologico: se i due bravi colonnelli sopra citati configurano un atto di guerra con attacchi informatici, il relativo mezzo può essere utilizzato come strumento d’influenza e quindi di dipendenza.

Il potere mediatico può ottenere lo stesso risultato: anche in tal caso la corrispondente forma di guerra, ossia la guerra psicologica può convertirsi, in periodo di pace, in un’influenza/dominio sull’opinione pubblica di un popolo, determinandone scelte e orientamenti.

6) La negazione del nemico. L’aspirazione diffusa alla pace, convertita in «dottrina» dalle ideologie pacifiste che hanno come connotato comune di aver trovato l’elisir per eliminare la lotta (i mezzi sono diversi secondo l’una o l’altra)[19] comporta anche la negazione del nemico; ma la lotta è una condizione generale della politica, e l’ostilità (attuale o potenziale) ne è il corollario (e il presupposto).

La negazione del nemico è l’altra faccia di quella della guerra (convenzionale o meglio, tradizionale): solo assai più radicale. Per cui si crede che evitando la prima venga meno anche il secondo; nella realtà anche mancando quella la competizione per il potere tra diversi gruppi umani rivali continua ad esistere, e a generare altre forme di lotta per il potere: quelle, sopra ricordate, dei «bravi colonnelli» cinesi.

7) Pluralismo e responsabilità. Il pluralismo e le creazioni di aree – per lo più riferibili al diritto privato (quello che Hauriou chiamava droit commun – internazionale per natura) – attraverso Tribunali internazionali, costituiscono altre occasioni appetibili di rendere permeabili gli Stati. Ancor di più quando norme e decisioni internazionali divengono vincolanti attraverso meccanismi appositi, previsti anche per disposizione costituzionale (come l’art. 10 della nostra Costituzione). La responsabilità del sovrano è così dispersa – come il potere – nell’organizzazione policratica e nelle riserve di competenza correlate. Un’esigenza e assetto condivisibile ma che crea delle ghiotte opportunità di influenza.

Nella realtà il diritto, sia che consista in trattati che in decisioni di Corti interne o internazionali, secondo il pensiero politico (e giuridico) classico non poteva prevalere sulla politica e sulla necessità di protezione della comunità che la connota. Vale in generale ciò che diceva Bismarck dei trattati «Nessuna grande nazione potrà essere indotta a sacrificare la propria esistenza sull’altare della fede nei patti».

8) L’economia cosmopolitica e l’economia politica. Scriveva Friedrich List che i primi economisti come «Quesnay, che fece sorgere per primo l’idea della libertà universale del commercio, fu il primo ad allargare le ricerche su tutto il genere umano, senza però tener conto del concetto di nazione»[20].

In realtà List capiva assai bene come tra economia «cosmopolitica» e «politica» il fundamentum distinctionis era proprio l’insopprimibilità della politica come essenza (à la Freund) e come protezione dell’esistenza e conseguimento del bonum commune. Se le idee di Adam Smith sono astrattamente fondate, sono del tutto applicabili solo in un contesto senza guerra e senza volontà di dominio (cioè nel collodiano paese dei balocchi o qualche utopia del genere). Infatti scrive di Smith «Anche se, qua e là, parla della guerra, succede solo di passaggio e assai raramente. Tutti i suoi argomenti si basano sulla pace eterna…Evidentemente Adam Smith ha concepito la pace come pace eterna al modo dell’abate di St. Pierre». E lo stesso J. B. Say, il quale «chiede esplicitamente, per poter concepire l’idea della libertà di commercio, che si ammetta l’esistenza di una Repubblica Universale»[21]; e che se avesse scritto di economia politica (e non cosmopolitica) «difficilmente avrebbe potuto fare a meno di partire dal concetto e dalla natura della nazione e di dimostrare quali cambiamenti essenziali l’economia del genere umano deve subire per il solo fatto che il genere umano è suddiviso in nazionalità distinte, formanti un fascio di forze e di interessi, e poste, nella loro libertà naturale, di fronte ad altre società simili a loro»[22].

E List sostiene che «Tutti gli scrittori teorici hanno ripetuto questo errore. Anche Sismondi chiama l’economia politica “la science qui se charge du bonheur de l’espèce humaine”». Differente è la politica. Questa ha il compito di proteggere l’esistenza (particolare) di una comunità umana e come conseguire il bene comune della stessa[23].

Ed è perciò concettualmente e (spesso) oggettivamente contrapposta al principio cosmopolitico. List ricorda che Thomas Cooper «nega perfino l’esistenza della nazionalità. Egli chiama la nazione “una invenzione grammaticale fatta solo per evitare perifrasi, una cosa inesistente (a non entity) che esiste solo nelle teste degli uomini politici”»[24] affermazione che l’economista tedesco considera coerente «perché è chiaro che se si ammette l’esistenza della nazione, con la sua natura ed i suoi interessi, si presenta anche la necessità di modificare l’economia della società umana in relazione a questi interessi speciali»[25].

E proseguiva insistendo sugli inconvenienti, per l’economia di una nazione, che possono derivare dal differente grado di sviluppo con le altre; onde per beneficiare realmente di un sistema di libero scambio internazionale occorre che le comunità nazionali raggiungano «un uguale grado di civiltà, di formazione politica e di potenza»[26]; per cui «Perché la libertà di commercio possa agire liberamente e naturalmente, occorre prima di tutto che i popoli meno progrediti vengano portati, mediante interventi  di vario genere, allo stesso livello di sviluppo al quale è pervenuta l’Inghilterra»[27].

List, che è considerato spesso un avversario del laissez-faire, appare più esattamente come un realista difensore delle insopprimibili esigenze e presupposti della politica (e del politico).

9) I diritti umani. Che dei diritti umani e delle loro violazioni si sia fatto un uso improprio (per l’intervento negli affari – un tempo interni – degli Stati sovrani) è cosa spesso affermata e nota. Già Hobson stigmatizzava l’analogo uso, da parte della Gran Bretagna nel XIX secolo dell’affermazione che «la nostra politica imperiale e coloniale è animata dalla volontà di diffondere in tutto il mondo le arti del libero autogoverno di cui godiamo in patria» e la contestava affermando che «alla vasta maggioranza dei popoli del nostro impero noi non abbiamo attribuito alcun vero potere di autogoverno, né abbiamo alcuna seria intenzione di farlo, né d’altra parte crediamo seriamente che sia possibile farlo» dato che «dei trecentosessantasette milioni di sudditi che vivono fuori dalle isole britanniche, non più di undici milioni, ossia uno su trentaquattro, hanno una qualche forma di autogoverno per quanto riguarda la legislazione e l’amministrazione»[28] e che «da quando le prime luci del nuovo imperialismo negli anni settanta hanno dato piena coscienza politica all’impero, è divenuto un vero luogo comune del pensiero liberale sostenere che la missione imperiale dell’Inghilterra è quella di diffondere l’arte del libero governo»[29].

Un giudizio simile mutatis mutandis, merita l’uso strumentale dei diritti umani.

  1. Le idee sopra elencate sono le principali giustificazioni ideologiche di una globalizzazione che cerca di eliminare (o ridurre) i limiti che la politica e gli Stati possono porle.

In effetti le controindicazioni che una situazione del genere possa provocare sono già indicate nel pensiero politico (ed economico) di cui gli autori sopra ricordati costituiscono una (quantitativamente) piccola parte.

Il primo di tali inconvenienti è che l’ordine mondiale globalizzato non si pone – o non lo fa adeguatamente – il presupposto e la conseguenza che si accompagnano a quello: ossia il potere e la responsabilità.

Maurice Hauriou sosteneva che «il potere è una libera energia della volontà che si fa carico d’intraprendere il governo di un gruppo umano attraverso l’ordine ed il diritto»[30]. In tale definizione, proseguiva, vi sono tre elementi essenziali: 1) che il potere è una libera energia della volontà; 2) che il potere è un imprenditore di governo; 3) e che lo fa con la creazione dell’ordine e del diritto. Nelle concezioni globalizzatrici, a parte il richiamo all’idea d’impero, d’altra parte non meglio precisata, questa è soprattutto di assai dubbia praticabilità. Infatti in primo luogo si pone il problema di chi è lo Stato imperiale. Forse gli USA? E allora perché, malgrado guerre umanitarie e interventi di peace-keeping, non riescono a «normalizzare» i popoli (e gli Stati) occupati dalla NATO (o da coalizioni di Stati membri della NATO)[31]. E Cina e Russia che fanno?

Per cui l’idea d’impero – data la scarsa probabilità che la «testa» ne siano gli USA, diventa evanescente, ma più realistica. Così nel notissimo saggio di A. Negri e M. Handt, «Impero» in cui la forma di governo dell’Impero è una galassia formata da organizzazioni di Stati, Banca             mondiale, clubs vari e multinazionali[32]. È chiaro che un sistema siffatto, in effetti policratico, è «governabile» solo a prezzo di guerre, talvolta «tradizionali» (anche se mascherate da «operazioni di polizia internazionale»), più spesso asimmetriche (nel senso dei colonnelli cinesi più volte ricordati): a regolarlo sono assai più i rapporti di forza che il diritto.

Per cui come un governo siffatto possa garantire un’impresa di governo attraverso l’ordine e il diritto è difficile da immaginare. Di fatto non c’è un governo nel senso di un centro di riferimento in fatto e in diritto irresistibile; non c’è neppure una volontà, che richiede di essere personale (o pluripersonale) di un organo deputato a decidere (parlamento, consiglio dei ministri, Capo dello Stato), ma solo procedure informali riconducibili ad accordi, evidentemente fondati sui rapporti di forza; non c’è neanche un ordine, intesto nel senso di ordine sotto un’autorità (e una gerarchia) riconosciuta[33]; ne è configurabile un diritto – almeno completamente – perché questo va comunque distinto – come scriveva Hauriou – in droit disciplinaire (quello emanato dall’istituzione e basato sul rapporto di comando-obbedienza) e droit commun (quello fondato sulla socievolezza umana e quindi internationale)[34]. E il droit disciplinaire qui  manca (il che non significa che non vi sia il rapporto comando-obbedienza).

  1. Scrive Freund peraltro che il bene comune – scopo dell’azione politica – si distingue, secondo il presupposto dell’amico/nemico (e del comando/obbedienza) nei due aspetti della sicurezza esterna e della concordia interna. Ma, in una società globalizzata la prima ha un senso depotenziato, almeno se la globalizzazione è intesa, come generalmente ritenuto, quale percorso per eliminare guerra e ostilità. Una volta che si fantastica di toglierle di mezzo, il problema (si immagina) è risolto. Quindi niente Stati (in senso westphaliano) né «politica» in un mondo globalizzato.

Quanto alla concordia interna, fondata più sul presupposto del comando-obbedienza, che su quello dell’amico-nemico, questo appare un obiettivo ancor più difficile da conseguire per un potere globalizzatore. Alla base di quella c’è il romano idem sentire de re publica, cioè la condivisione in un gruppo umano della fiducia in istituzioni, valori, interessi nonché la consapevolezza di una comune appartenenza (per lingua, tradizione, religione). Ovviamente tutti tali elementi determinano la particolarità e la specificità del gruppo politico, come tale già contrapposto ad un potere che si pretende universale[35].

Peraltro, nel processo di formazione delle unità politiche è l’idem sentire, o per dirla alla Payne, il common sense comunitario che favorisce e determina il costituirsi dell’unità politica e non viceversa (o per lo meno è questo il percorso normale e maggiormente praticato).

Questo in una società planetaria manca o è carente e inidoneo a costituire una base di consenso e condivisione a un potere universale, mentre fondamentalisti, nazionalisti, gruppi etnici (e così via) tuttora hanno la capacità di costituire sintesi politiche. Finché le identità delle varie comunità saranno così diverse è bizzarro pensare che, nella modestia di un sentire comune «universalista» si possa costituire (qualcosa che somigli a) una unità politica.

In Europa le ultime costituite, cioè Italia e Germania, a parte i fattori unificanti (lingua, territorio, «razza», consuetudini, e per l’Italia la religione cattolica), hanno richiesto un’opera di convinzione dello spirito pubblico durata oltre mezzo secolo (almeno: dall’età napoleonica a oltre metà dell’800); e comunque diverse guerre. Pretendere di costruirne anche solo un surrogato a tavolino e con la collaborazione di banche e burocrazie è frutto di aspirazioni scambiate per realtà possibili.

  1. Senza le condizioni possibili per realizzare l’unità politica, come può fondarsi un ordine internazionale «globalizzato»?

Machiavelli nel Principe scriveva che «Dovete adunque sapere come e’ sono dua generazioni di combattere: l’uno, con le legge; l’altro, con la forza. Quel primo è proprio dello uomo; quel secondo, delle bestie. Ma perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo: pertanto ad uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo»[36]. Tale passo è stato interpretato in più modi e d’altra parte il pensiero denso e la scrittura efficace e concisa del Segretario fiorentino esprimono spesso meno parole che giudizi: uno dei quali è quello, ripreso secoli dopo da de Maistre che dove non c’è sentenza c’è lotta. Istituzioni (politiche) leggi, sentenze e ciò che presuppongono (cioè consenso, idem sentire, tradizione e così via) sono sistemi per produrre ordine e decisioni alternativi alla lotta. Giudizio che anche nei tempi presenti appare confermato. Dopo la caduta dell’ordine di Yalta – che era un ordine di sistemi politici «regionali» (occidente, comunismo, e – al massimo – «terzo mondo») le guerre convenzionali e «innovative» appaiono aumentate, ed estese a regioni del pianeta prima risparmiate, come l’Europa orientale, il Caucaso e parte del Medio Oriente. Dei soggetti «guerreggianti» oltre agli Stati e ai movimenti di liberazione nazionale, abbiamo un po’ di tutto.

D’altra parte la stessa invocazione alla «pace» e alla riduzione degli armamenti appare diventata uno strumento di guerra. Se la deterrenza della guerra consiste nel fatto che i contendenti possono arrecarsi danno reciproco, il limitare giuridicamente la possibilità di reazione è il tentativo di usare del diritto per impedire – nella maggior parte dei casi – la resistenza alla forza, e così cristallizzare i rapporti di potere, mantenendone le ineguaglianze.

Il che è soprattutto temibile nel caso di guerre condotte con mezzi non violenti, come quelle descritte dai «bravi colonnelli». Il tutto finisce col somigliare ad una rivisitazione attualizzata alla situazione contemporanea dei Trattati ineguali tra potenze europee ed asiatiche dell’800.

Con in più due caratteri specifici: che – per lo più, ciò serve a ridurre i rischi dell’aggressore, il quale, se sa di non dover subire una reazione violenta, può tranquillamente esercitare l’azione non violenta. E la seconda, usuale, che il tutto più che nei trattati è sancito attraverso la persuasione dell’opinione pubblica. La pace (intesa come non-violenza) è così mezzo di dominio.

Che «forza» e «legge» siano modi di combattere, come scrive Machiavelli, ossia d’imporre la propria volontà, è spesso dimenticato; così del pari, è – anche se in misura minore – trascurato che forza e legge sono anche modi di governare, non (totalmente) alternativi, ma piuttosto complementari. La «legge» senza forza è inutile: la forza senza legge è arbitrio violento.

Nella realtà occorrono entrambi. Se la combinazione di forza e regola è la normalità del governo dei gruppi umani, così come il potere responsabile è l’ordinatore ideale, quello che si profila nel mondo globalizzato appare tra i meno preferibili. Perché si risolve nell’affidare prevalentemente alla forza e all’astuzia (del potere esistente) il massimo della potenza disponibile senza la prospettiva che possa riuscire a creare un ordine che sia veramente tale.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

 

[1] V. Corso di diritto internazionale, Padova 1933, p. 115.

[2] V. «poiché la regola dell’indipendenza internazionale dei soggetti, non è assoluta, ma ha delle eccezioni, ne viene che un soggetto può assumere una posizione di superiorità verso un altro, in base allo stesso diritto internazionale, e quindi si possono avere degli Stati che sono titolari di una potestà sovrana di mero diritto internazionale su Stati che, per la loro posizione sempre internazionale, sono subordinati ai primi e per ciò non sovrani. Così, p. es., nel protettorato» op. loc. cit.

[3] V. «Come si è visto, che un soggetto sia per diritto internazionale sovrano rispetto ad un altro non sovrano, nel senso che su questo eserciti una potestà, non è la regola, ma l’eccezione» op. cit.

[4] Op.cit., p. 117; e conclude «data la grande varietà che il protettorato può assumere, è difficile formulare principii generali, ma si può affermare che essi implicano sempre una limitazione della capacità di diritto e inoltre la perdita in taluni casi, o la diminuzione in altri, della capacità di agire».

[5] Op. cit., p. 118

[6] Anche giuridicamente, ma solo fino a un certo punto. Diversamente dallo «status» dei protettorati, le limitazioni vi sono, ma a parte la minore entità, non si traducono in una condizione stabile e regolata da dipendenza, ma a modifiche secondarie, ma talvolta significative, dei diritti degli stessi. Così le collaborazioni tra amministrazioni civili e militari.

[7] «Le nostre opinioni sugli Dei, la nostra sicura scienza degli uomini ci insegnano che da sempre, per invincibile impulso naturale, ove essi, uomini o Dei, sono più forti, dominano» v. La guerra del Peloponneso trad. it. di P. Sgroj V, 105/110.

[8] Qu’est-ce le tiérs État trad. it. di G. Troisi Spagnoli, in Opere Tomo I, Milano 1993, pp. 255-257.

[9] Scrive Bodin «Se dunque il principe sovrano è per legge esente dalle leggi dei predecessori, ancor meno egli sarà obbligato a osservare le leggi e le ordinanze fatte da lui stesso: si può ben ricevere la legge da altri, ma non è possibile comandare a se stesso, così come non ci si può imporre da sé una cosa che dipende dalla propria volontà, come dice la legge: nulla obligatio consistere potest, quae a voluntate promittentis statum capit; ragione necessaria, che dimostra in maniera evidente come il re non possa essere soggetto alle leggi» Six livres de la République, trad. it. di M. Isnardi Parenti, Torino 1988, p. 360.

[10] Op. cit., p. 407 (il corsivo è nostro).

[11] Op. cit., p. 480.

[12] Op. cit., p. 481.

[13] «E in breve abbiamo dimostrato le assurdità intollerabili che conseguirebbero se i vassalli fossero sovrani, anche nel caso che non abbiano nulla che non dipenda da altri; e che cosa avverrebbe se si considerassero uguali il padrone e il servitore, il signore e il suddito, chi presta giuramento di fedeltà e chi lo riceve, chi comanda e chi è obbligato all’obbedienza» (il corsivo è nostro) op. loc. cit.

[14] Op. cit., p. 503.

[15] Op. cit., p. 511 (il corsivo è nostro).

[16] V. J. Freund secondo cui «i giuristi, seguiti da certi filosofi della politica, hanno cercato di spogliare della sovranità il comando. E Bodin è in parte responsabile di questa opera» L’essence du politique, Paris 1965, p. 117.

[17] V. La science sociale traditionnelle, rist. in Ecrits sociologiques, Dalloz, Paris 2008, p. 233 ss.

[18] Guerra senza limiti, L.E.G., Gorizia 2001, p. 39 e i colonnelli aggiungono «Comunque si scelga di definirla, questa nuova realtà non può renderci più ottimisti che in passato. Ciò perché la riduzione delle funzioni della guerra in senso stretto non implica affatto che quella guerra abbia cessato di esistere. Anche nella cosiddetta era postmoderna e post-industriale la guerra non sarà mai eliminata del tutto. E’ solo tornata a invadere la società in modi più complessi, più estesi, più nascosti e sottili», op. loc. cit. (il corsivo è nostro).

[19] V. Sul pacifismo e sulla pace le considerazioni di Freund, op. cit., pp. 620 ss; v. A. Salvatore, Il pacifismo, Roma 2010. In genere sull’incompatibilità tra sovranità dei popoli e globalizzazione v. l’attento studio di Alain de Benoist, Oltre la sovranità, Arianna Editrice, Bologna 2012, in particolare pp. 97-106.

[20] Das nationale system der Politischen Ökonomie, trad. it. Di H. Avi e P. Tinti Milano 1972, p.149 (il corsivo è nostro); e prosegue «Quesnay tratta evidentemente dell’economia cosmopolitica, cioè di quella scienza che insegna come tutto il genere umano può raggiungere il benessere, mentre per contro l’economia politica ed altre scienze si limitano ad insegnare come solo una data nazione possa raggiungere il benessere, la civiltà e la potenza, nelle condizioni mondiali date e per mezzo della sua agricoltura, industria e commercio. Adamo Smith diede alla sua dottrina la medesima estensione, ponendosi il compito di giustificare l’idea cosmopolitica dell’assoluta libertà del commercio mondiale… Adamo Smith non si pose il compito di trattare dell’oggetto dell’economia politica, vale a dire della politica che ogni paese deve seguire per fare dei progressi nelle sue condizioni economiche. Egli intitola la sua opera: Della natura e delle cause della ricchezza delle nazioni, cioè di tutte le nazioni delle quale si compone il genere umano. In una parte speciale della sua opera egli parla dei diversi sistemi dell’economia politica, ma solo con l’intenzione di dimostrare la loro vanità e per provare che al posto dell’economia politica o nazionale deve subentrare l’economia universale».

[21] E prosegue «Quei principi, però, che riguardano gli interessi di nazioni intere come tali ed in rapporto alle altre nazioni, formano invece l’economia pubblica (économie publique). Mentre l’economia politica tratta gli interessi di tutte le nazioni, di tutta la società umana in generale», op.cit., p. 50 (i corsivi sono nostri).

[22] Op. loc. cit. (il corsivo è nostro).

[23] Come scrive Freund: «qual è il bene specifico dell’attività politica… come Hobbes non cessa di ripetere il bene comune dello Stato e quello del popolo che formano insieme una collettività politica. In effetti se gli uomini continuano a vivere in collettività politiche, è perché vi trovano un interesse. Ci sono forti probabilità che se la natura umana non trovasse alcuna soddisfazione (bien) in tale genere di vita nessuna unità politica potrebbe essere stabile e durevole», v. Qu’est ce-que la politique, Paris 1965,p. 38.

[24] Op. cit., p. 151.

[25] Op. loc. cit..

[26] Op. cit., p. 155.

[27] Op. cit., p. 159.

[28] V. Imperialism. A study, trad. it., di L. Meldolesi, Milano 1974, p. 102.

[29] Op. cit., p. 105.

[30] Précis de droit constitutionnel, Sirey, Paris 1929, p. 14.

[31] Volutamente ho rispolverato il termine di «normalizzazione» di bresneviana memoria, perché, malgrado tutto, l’intervento del 1968 in Cecoslovacchia del patto di Varsavia (cioè di un vero impero regionale) riuscì a ricondurre all’«obbedienza» una nazione riottosa, senza che ciò degenerasse in guerre civili o partigiane: fu un intervento di successo, come, in passato, molti del XIX secolo. Che poi il comunismo sia imploso è un fatto che trascende la dimensione politica e strategica dell’ordine nell’impero sovietico: il crollo del comunismo è dovuto all’incompatibilità del sistema con i presupposti del politico e, più in generale, con le innate tendenze dell’uomo.

[32] Il carattere informale e non strutturato del potere globalizzatore è stato notato da molti. Tra i quali ricordiamo F. Cardini, La Globalizzazione, Rimini 2004; G. Ferrara, Derubati di sovranità, Vicenza 2014.

[33] Che è poi il senso agostiniano di ordine e di pace «la pace della città è l’ordinata concordia dei suoi cittadini nel comandare e nell’obbedire; la pace della città celeste è la più perfetta e armoniosa concordia nel gioire di Dio e nel godere vicendevolmente in Dio; la pace di tutte le cose è la tranquillità dell’ordine. E l’ordine è la disposizione degli esseri uguali e disuguali che assegna a ciascuno il posto che gli conviene» v. De civitate Dei, trad. it., Roma 1979, p. 1161.

[34] V. M. Hauriou, op. cit., p. 97 ss.

[35] Come scrive M. Veneziani Comunitari o liberali, Laterza, Bari 2006,p. 105 «Da una parte la globalizzazione congiunta all’internazionalismo porta a superare i confini territoriali; ma può esistere una comunità illimitata, che coincide alla fine con l’umanità? Puoò esistere cioè una comunità che non riconosce tratti specifici, provenienze condivise, tradizioni comuni ma solo la comune appartenenza al genere umano? Più giusto in questo caso è parlare di cosmopolitismo e non di democrazia comunitaria»; il che pone il problema del politico e della sua pretesa estinguibilità.

[36] Principe XVIII (il corsivo è nostro).

CAMBIO DI GUARDIA: L’ASCESA DEI MASTINI-SI PREPARA LO SCONTRO FINALE, di Gianfranco Campa

CAMBIO DI GUARDIA: L’ASCESA DEI MASTINI-SI PREPARA LO SCONTRO FINALE

 

Il Consigliere alla Sicurezza Nazionale, generale H.R. McMaster  è stato rimpiazzato dall’ex ambasciatore alle Nazioni Unite John Bolton. Il cambio di guardia avverrà ufficialmente il 9 aprile. Bolton è il terzo consigliere nazionale a servire l’Amministrazione Trump.

La notizia è considerata positiva da molti sostenitori del Presidente, visto che McMaster viene identificato come un globalista, era stato raccomandato da John Mccain e messo vicino a Trump come portavoce dell’establishment repubblicano. McMaster aveva rimpiazzato il tanto compianto Generale Michael Flynn. Nè McMaster, nè John Bolton, posseggono la mite e prudente personalità di Flynn. Flynn era una colomba, McMaster un falco e Bolton un’aquila, pericolossisima!

La caccia alle streghe orchestrata dallo stato ombra e l’avvicinamento delle elezioni di medio termine, a novembre, con i sondaggi che danno i Democratici vittoriosi nel riprendersi il controllo almeno della Camera, forse anche del Senato, aprono la strada alla concreta possibilità che un impeachment del presidente diventi più che probabile. In questo contesto ormai di pura sopravvivenza, Trump sta accelerando i tempi nel liberarsi di infiltrati, traditori, tiepidi sostenitori. L’intensificazione degli attacchi  a Trump e alla sua famiglia non lascia scelta al Presidente; il tempo stringe, si deve circondare di personaggi assolutamente fedeli e affidabili.

Per questo Tillerson è stato rimpiazzato con Pompeo, politicamente un mastino, geopoliticamente un falco. Per chi non lo sapesse anche il capo del servizio legale di Trump, John Dowd, ieri si è dimesso, causa l’attrito con il Presidente per l’assunzione, nel team di legali di Trump, di Joseph diGenova. DiGenova è un altro mastino non da ridere, un forte critico del russiagate; ha attaccato, pubblicamente, più volte sia  l’FBI che il Dipartimento di Giustizia. Dowd, in qualità di principale avvocato, rappresentava Trump nelle indagini del Consigliere Speciale Robert Mueller. Dowd negli ultimi nove mesi, aveva suggerito a Trump di collaborare con le indagini. L’uscita di Dowd e l’arrivo di Joseph diGenova segna una chiusura totale a Muller e apre la fase successiva del Russiagate, cioè la preclusione di ogni collaborazione di Trump con Muller e l’inasprimento dello scontro.

Torniamo alle dimissioni di McMaster. Il rapporto fra McMaster e Trump non è mai stato idilliaco. Si sono scontrati molte volte su questioni geopolitiche e di sicurezza nazionale. Nonostante le smentite, voci affidabili di corridoio, indicano che McMaster era anche un traditore e sarebbe stato lui a far trapelare, segretamente, i tabulati della telefonata Putin-Trump al Washington Post. Provo una sensazione di rigetto nel dover difendere un neo-conservatore, falco, portaborse dell’establishment; ma l’uscita di scena di McMaster e l’arrivo di Bolton non è una buona notizia in termini di rapporti con la Russia, con l’Europa e nello scacchiere medio orientale. McMaster era sì un neocon, ma nonostante le critiche alla Russia, non aveva alzato la voce più di tanto; era soprattutto uno dei pochi nel circolo di Trump che voleva tenere in piedi, insieme a Tillerson, l’accordo con l’Iran o perlomeno modificarlo senza comprometterlo del tutto.

Sia Pompeo, sia Bolton sono sempre stati fedeli a Trump, addirittura prima ancora che diventasse presidente. Molteplici sono state le uscite televisive pro-Trump di Bolton durante le presidenziali. Bolton è un caso a sé. Ha servito nell’amministrazione Bush, è un falco dalla testa ai piedi, un personaggio pericoloso; in paragone fa sembrare Mccain una colomba timida. Nonostante questo Bolton con l’establishment non è mai andato d’accordo. Considerarlo un neocon sarebbe infatti sbagliato. Bolton è un uomo che viaggia per suo conto, su un binario personale e separato. Troppo irrequieto per identificarsi in un gruppo piuttosto che in un altro. Bolton è il capitano della propria nave; solo che la nave di Bolton è piena di esplosivo. Basta leggere i suoi tweet per rendersi conti dell’inflessibilità politica del personaggio. Suggerisco ai lettori di andare a leggersi i tweet di Bolton contro la Russia, la Corea del Nord, l’Iran e via dicendo. Tra l’altro Bolton qualche mese fa aveva scritto un articolo sul Wall Street Journal dove auspicava una attacco preventivo, nucleare, contro la Corea del Nord. Anche l’Europa dovrà stare attenta a come si muove.

Joseph diGenova, John Bolton, Mike Pompeo, sono i mastini di cui Trump si sta circondando. La fase sperimentale di dialogo, compromesso con l’establishment, con lo stato ombra e i poteri forti è finita. Questi tre personaggi sono stati scelti in base alla loro dura tempra, alla incondizionata e provata fedeltà a Trump, senza tenere in considerazione le loro ideologie politiche e geopolitiche.  Una squadra assemblata con un unico scopo in mente: Guerra totale, sia essa giuridica contro Muller con diGenova, sia essa militare con Bolton, sia essa di spionaggio e geopolitica con Pompeo. Questo è un consiglio di guerra, non di pace. A questi tre personaggi , ne sono convinto, ne seguiranno altri, Non mi sorprenderei se anche Jeff Sessions pagasse di persona questa controffensiva Trumpiana in atto ormai su tutti i fronti. Trump ha deciso! Se e` destinato a cadere, non lo farà in silenzio ma si porterà con sé molte teste. Quando un uomo viene messo con le spalle al muro, qualsiasi reazione e possibile. Quale sara` il prezzo da pagare per noi comuni mortali è ancora tutto da vedere; se dovesse però succedere qualcosa di brutto, sappiamo chi ringraziare per aver istigato questo ambiente così tossico, cominciando dai mass-media.

 

i soliti attori, la solita musica di Gianfranco Campa

 I SOLITI ATTORI

 

La storia del Cambridge Analytica, va inserita, in chiave più generale, nello scontro tra stato ombra e Trump. Se il Russiagate tarda a dare i risultati sperati, se il pettegolezzo dell’attrice porno tarda a decollare ed infiammare le platee mediatiche, ecco che lo “scandalo” della Cambridge Analytica dovrebbe in teoria risultare finalmente deleterio per Trump. Dovrebbe intaccare la credibilità del presidente americano e aizzare le folle che navigano sulle piattaforme social contro Trump stesso, mettendolo in rotta di collisione con milioni di utenti inferociti per la manipolazione della loro privacy. L’aspettativa è che le orde barbariche invadano le piazze pubbliche con forconi e torce invocando la testa di Donald Trump. Così a due giorni dall’annuncio del licenziamento di McCabe, a un giorno dalle elezioni di Putin in Russia, cioè dopo l’ennesimo colpo pesante inflitto allo stato ombra, per puro caso, senza alcuna intenzione, accidentalmente, casualmente, fortuitamente, senza nessuna pianificazione, per una semplice concomitanza, senza nessun nesso, scoppia lo scandalo del Facebook-Gate. Da quattro giorni di fila i titoloni sullo scandalo Cambridge Analytica/ Facebook catturano le prime pagine dei maggiori quotidiani italiani e stranieri; neanche Neil Armstrong buonanima, con la sua passeggiata lunare riuscì a catturare i principali titoli dei quotidiani per tanti giorni consecutivi.

In modo drammatico, i titoloni dei giornali, ci rivelano come i collaboratori di Trump avrebbero manipolato Facebook, accedendo ai dati privati dei suoi utenti in modo da favorire Trump e consegnandogli la tanto sospirata vittoria presidenziale. Secondo le “scioccanti” rivelazioni degli strilloni mediatici, Facebook avrebbe ottenuto informazioni personali di un largo numero dei propri utenti tramite un quiz sulla personalità, usando una Applicazione (App) creata da Aleksandr Kogan, di conseguenza Cambridge Analytica si sarebbe impossessata di questi dati per esaminarli e metterli a disposizione di Steve Bannon, allora direttore della campagna presidenziale di Trump. Tutto questo per aiutare Trump a vincere le elezioni. I dati sarebbero stati usati per studiare i comportamenti delle persone individuate per meglio identificarle e bersagliarle con post mirati a influenzarli politicamente. Una grave interferenza nella vita privata dei cittadini i quali, ignari ,si sarebbero poi recati, come zombi, ai seggi per votare Trump anziché la pura, innocente, incorruttibile, pacifica, signora Hillary Clinton. La democrazia è minacciata da Steve Bannon, da Facebook, da Cambridge Analytica.  Mi aspetto da un momento all’altro la richiesta a gran voce di un nuovo procuratore speciale il quale, spento il Russiagate, possa indagare ora sul “Facebook-Gate.”  Tra l’altro non poteva mancare neanche la connessione diabolica con la Russia, visto che Aleksandr Kogan, il creatore dell’app, è nato in Russia, vive negli Stati Uniti e all’epoca dei fatti lavorara per l’Università di San Pietroburgo. Sicuramente il nostro emerito procuratore speciale, Robert Muller, si metterà subito a disposizione per trovare il nesso con il Russiagate. Niente di più orgasmico, per lo stato ombra; trovare una ragione per alimentare questa farsa delle collusioni Trump-Russia.

La denuncia di queste attività illegali, sarebbe arrivata grazie a un ex lavoratore, contrattualmente indipendente, del Cambridge Analytica: Christopher Wylie. Oppresso dal senso di colpa Mister Wylie si trasforma nell’eroe che ha denunciato queste losche attività, essendo proprio colui che aveva la responsabilità di analizzare i dati provenienti da facebook generati tramite l’app sulla personalità. Lo scandalo è stato alimentato anche da un video segreto registrato e trasmesso dal canale televisivo Britannico Channel 4 nel quale si sente e si vede l’amministratore delegato della Cambridge Analytica, Alexander Nix , ammettere di aver interferito in più di trenta elezioni sparse per il mondo. Cosi`ai nostri eroi della Channel 4 vanno accreditati i meriti di questa nuova crociata per la purificazione del mondo digitale dalle cimici social-trumpiane.

Alla fine però, scavi e scavi, trovi il nostro caro eroe George Soros, sempre presente in questi impeti rivoluzionari, siano essi digitali, armati, oppure colorati. Quando qualche settimana fa Soros fu attaccato dal Guardian per il suo coinvolgimento finanziario nel movimento anti-brexit, il Channel 4 pubblicò un’intervista, una serie di articoli e di video tesi a riabilitare la figura di Soros.

https://www.channel4.com/news/factcheck/why-the-conspiracy-theories-about-george-soros-dont-stack-up

Si scopre che Channel 4 ha un interesse diretto a screditare facebook poiché, come riferisce il link postato sotto, secondo l’articolo del The Guardian, Channel 4 ha aderito ad un’alleanza tra le più grandi emittenti europee (c’è anche Mediaset) per pubblicare annunci pubblicitari sui loro servizi di video-on-demand (VOD), nel tentativo di contrastare Google e il dominio di Facebook nella pubblicità online. Una cosa non necessariamente negativa per l’Europa, ma che dimostra la totale mancanza di onestà ideologica di Channel 4. Agli amministratori di Channel 4 non interessa per niente la protezione della privacy degli utenti Facebook; lo scandalo offre loro semplicemente una possibilità di assestare un colpo a Facebook, diretta concorrente, per indebolirla.

https://www.theguardian.com/media/2017/nov/13/channel-4-tv-ad-alliance-google-facebook

Per finire, Channel 4 sarebbe stato uno dei canali principali di supporto agli elmetti bianchi e ai “moderati” ribelli Siriani. Channel 4 è recidiva. Il canale 4 britannico è stato uno strumento di promozione della narrazione inerente la “rivoluzione” in Siria. La Russia, in particolare, è stata demonizzata dal Channel 4. I signori di Canale 4 si prestano alla perfezione alla narrazione Sorosiana anti-Trump e anti-Russa.

http://21stcenturywire.com/2016/10/09/channel-4-joins-cnn-in-normalising-terrorism-then-removes-video/

http://21stcenturywire.com/2018/02/01/white-helmets-channel-4-bbc-guardian-architects-war/

Naturalmente ci sono due pesi e due misure quando si parla dei mass media allineati con i poteri forti. La campagna presidenziale di Obama nel 2012 fece lo stesso uso di dati personali estrapolati dai siti digitali e fu grazie a quella mossa che Obama sconfisse Mitt Romney quando gli stessi sondaggi alla vigilia delle elezioni lo davano per sconfitto. Obama condusse una campagna all’avanguardia, da ventunesimo secolo, mentre quella di Romney era ancora ancorata a tecniche tradizionali. Tra le altre cose, mentre nel caso di Cambridge Analytics, l’applicazione usata per estrarre i dati era stata sviluppata e apparteneva a una terza entità, quella sviluppata per attingere a milioni di dati personali, principalmente numeri di telefono di utenti, fu sviluppata personalmente dal team presidenziale di Obama, direttamente dall’allora quartiere generale della sua campagna presidenziale a Chicago. Ma mentre la violazione della privacy, avvenuta estrapolando dai dati di facebook i numeri di telefono, non generò nessuna indignazione, quella del team di Trump ha provocato il terremoto politico-mediatico. Sotto potete osservare due titoli: uno del Washington Post che nel 2013 riportava la notizia di come l’accesso dei dati avesse portato alla vittoria Obama; l’altro, quello del New York Times, relativo alla storia di Cambridge Analytica. Il titolo del Post è celebrativo, mentre quello del New York Times è di condanna, denunciando la strumentalizzazione fatta dai collaboratori di Trump. Qualcuno di voi rammenta l’indignazione e la trepidazione di questa gentaglia sulla violazione della privacy e la manipolazione dei dati personali nel 2012? Neanche io. La differenza sta tutta qua, nella interpretazione e manipolazione delle notizie distribuite dai mass media; due titoli due misure insomma. Quando lo faceva Barack era considerata puro genio, quando lo ha fatto Trump si sono strappati le vesti.

L’aspetto beffardo è che la gente è talmente ingenua da credere che facendo un test della personalità su facebook e quindi consegnando di fatto i propri più intimi dati, questi stessi dati personali siano poi in qualche modo protetti. Ci prestiamo a divulgare ogni tipo di informazioni personali nel cyberspace, incluso i selfie fatti dal cesso; poi ci meravigliamo se i nostri dati sono a disposizione di entità estranee.

Siamo quindi, come al solito, di fronte alla già consolidata tattica usata per screditare Trump.  Giustificare la sconfitta della Clinton attribuendola a interferenze di fantomatici blogger Russi, governi stranieri, torbide manovre mediatiche, insanità mentali, turpitudini morali; il tutto nel tentativo di delegittimare Trump. Ecco che allora una entità come Facebook, da sempre nelle grazie e nelle tasche di politici e politiche liberal-progressisti, viene ora usata e sacrificata come strumento di attacco a Trump. Sulla inclinazione pro-liberale di facebook non ci sono dubbi, visto che da ormai almeno tre anni, Facebook conduce una campagna anti-conservatrice. Voglio solo ricordare i molteplici episodi di aperta militanza pro-Hillary Clinton durante le ultime elezioni presidenziali da parte di Facebook. Basta per esempio leggere le emails, hackerate e pubblicate da Wikileaks, dell’amministratore delegato di Facebook, Cheryl Sandberg. Nelle emails fra Sandberg e John Podesta, il manager della campagna elettorale di Clinton dichiarava a Podesta che lei, con entusiasmo, guardava a una collaborazione per far eleggere la prima donna presidente, Hillary Clinton.

La prima a gioire per le disgrazie di Facebook è quindi la destra americana, da sempre ostacolata, oscurata ideologicamente da Facebook. L’attacco a Facebook rientra nel classico caso del cane che si morde la coda; la sinistra che soffre di una malattia autoimmunitaria, una punizione inflitta a se stessi. La disperazione delle élite-liberali, l’odio verso Trump li sta consumando dal di dentro, portandoli ora a mangiarsi i loro stessi figli, cioè i Mark Zuckerberg, gli Cheryl Sandberg, ect . Dubito che questa storia del Cambridge Analytica distruggerà Facebook, certamente se dovesse accadere non saranno i sostenitori di Trump a versare lacrime di dolore.

 

 

 

realtà ed illusioni, di Giuseppe Germinario

Dopo quarantotto ore di sapiente attesa il Presidente degli USA Trump ha telefonato a Putin congratulandosi per la sua rielezione e concordando un prossimo incontro ufficiale.

Tutto lascerebbe pensare ad un semplice rituale; nel migliore dei casi ad una aspirazione estemporanea puntualmente frustrata dalla schizofrenia con la quale viene condotta la battaglia politica negli Stati Uniti di questi ultimi due anni.

Il contenuto e il tono differisce intanto dal patetico appello rivolto, sempre telefonicamente, da Macron e dagli evidenti imbarazzi di gran parte delle più importanti cancellerie europee.

L’iniziativa segue di qualche giorno la rimozione di Rex Tillerson da Segretario di Stato, il riallineamento di Session, Ministro della Giustizia, su una posizione di più adeguata difesa di Trump dagli attacchi forsennati.

Il primo avrebbe dovuto garantire la politica di apertura e di trattativa serrata con la Russia, il secondo avrebbe dovuto proteggere Trump dalle pruderie inquisitorie e anzi condurre una politica di radicale riorganizzazione degli apparati investigativi e di intelligence interna; entrambi hanno fallito o mostrato gravi incertezze.

Un riposizionamento tuttavia non ancora concluso e che probabilmente arriverà a minacciare la posizione di alcuni militari presenti nelle posizioni centrali dello staff presidenziale. Un riposizionamento il quale non mancherà di scatenare, ormai come un riflesso condizionato, la canea abituale che imperversa ad ogni atto politico.

http://www.informationliberation.com/?id=58129

Sono tutti segnali che denotano la volontà di passare da una resistenza sorda e passiva, quanto logorante, ad un confronto aperto, dalle linee di condotta, almeno nelle intenzioni, più lineari.

Il momento cruciale, del resto, si sta avvicinando e numerosi indizi, tra i quali alcune recenti elezioni locali, lasciano intendere la concreta possibilità di un esito negativo per il Presidente americano alle prossime elezioni di medio termine.

Un esito che nel migliore dei casi lo paralizzerebbe, nel peggiore lo porterebbe direttamente verso l’impeachement.

Nei prossimi articoli vedremo come i partiti, le forze politiche e i centri di potere si stanno attrezzando in vista di questa scadenza cruciale.

Quello che appare sorprendente è il carattere forsennato degli attacchi; è l’impronta autoreferenziale dei comportamenti politici di centri disposti a tutto; pronti a sacrificare anche parti importanti delle proprie coorti pur di distruggere l’avversario. Le ultime vicende legate a Facebook e alla gestione della rete di dati sono solo l’inizio di una epurazione distruttiva ben più profonda e sconvolgente.

Politiche e condotte che rischiano di compromettere seriamente il delicato e precario equilibrio sul quale si fonda l’attuale formazione sociale americana.

L’iniziativa di Trump sottende probabilmente qualcosa di ben più profondo e radicale, per quanto confuso ed incerto.

In presenza di questo scenario così dinamico e ricco di opportunità, le logore classi dirigenti degli stati europei più importanti cosa fanno?

Anziché lanciarsi in una politica autonoma di apertura verso la Russia, auspicano una ripresa parziale delle relazioni commerciali mantenendo fermi i paletti della politica antirussa più ottusa di questi ultimi anni: riarmo della NATO nella area baltica, sostegno al regime guerrafondaio ucraino, procrastinazione della guerra sempre meno civile e sempre più di ingerenza in Siria, condanna degli aspetti “antidemocratici” del regime russo, mantenimento dell’attuale regime commerciale con gli Stati Uniti.

Un importante esponente dell’Istituto Affari Internazionali, un centro studi italiano, ma di filiazione americana, arriva addirittura a comparare apertamente la positiva linearità della politica estera del precedente Presidente Obama, suscettibile di condurre Putin ad un accordo politico duraturo con il mondo occidentale con la schizofrenia e l’aperta ostilità russofoba della politica estera di Trump.

Un vero e proprio insulto alla realtà di questi ultimi dieci anni di sconvolgimenti geopolitici.

Un mese fa ci ha pensato Lavrov con insolita chiarezza a mettere i puntini sulle ì di questa politica.

Sergey Lavrov e i punti fermi della politica estera russa_a cura di Germinario Giuseppe

Trump ci ha messo certamente del suo ad alimentare queste ambiguità. Quello che appare chiaro, però, è che gli aspetti più ostili e schizofrenici della sua politica estera sono il risultato dell’incertezza dell’esito dell’aspro conflitto presente tra i centri strategici americani e della necessità di legarsi da parte di Trump ad alcuni di essi pur di garantirsi la sopravvivenza. Da qui deriva probabilmente l’eccessiva esposizione verso la componente israelo-saudita in Medioriente e l’accentuazione dell’ostilità verso l’Iran.

Non c’è dubbio, però, che la maggiore pressione verso una aperta ostilità antirussa sia venuta dalla forsennata campagna del Russiagate promossa dai democratici e dai neocon americani.

L’atteggiamento delle decadenti classi dirigenti europee deve servire da monito.

Il sodalizio tra esse e il vecchio establishment americano è forte e fondato su interessi ancora ben radicati nelle formazioni sociali europee. Interessi che non sono in grado più di garantire coesione, stabilità e prospettive di sviluppo all’insieme delle formazioni sociali; pur tuttavia riescono ad assicurare la sopravvivenza di importanti settori dell’economia, degli apparati amministrativi, della coorte mediatica ormai sempre più arroccati nei propri fortilizi.

Le carriere e le ambizioni dei portatori di questi interessi si fondano, probabilmente, su una attesa ed una illusione: la possibilità concreta di una sconfitta di Trump nei prossimi mesi e il ripristino del precedente statu quo.

Una aspettativa che esporrà i paesi europei alle peggiori intemperie con poche difese e con la costrizione di doversi schierare con uno dei due contendenti americani, nel caso meno infausto con quello meno pervasivo, piuttosto che indurre a ricercare una propria autonoma strada tra i diversi attori emergenti.

Non si tratta ben inteso di adottare scelte politiche e soluzioni miracolose ed indolori; piuttosto si deve puntare a prendere o riprendere il controllo delle proprie leve più importanti e ricostituire il controllo in economia delle filiere nei settori fondamentali. Su queste basi, quindi, procedere ad una ricollocazione nel contesto geopolitico internazionale e ad una ridefinizione del sistema di relazioni in Europa.

Sulle filiere è proprio quello che sta facendo Trump. Si tratterebbe di seguirlo. Delle leve gli Stati Uniti dispongono già il controllo. Per le loro classi dirigenti si tratta “soltanto” di contendersele.

In Europa alcuni paesi, in primis Germania e Francia, stanno tentando l’operazione; soltanto però parzialmente e ai danni dei paesi più fragili politicamente. Altri, come, l’Italia, sono ancora in una fase di disarmo accondiscendente e deprimente.

I segnali di novità, per altro, di una formazione di nuovi gruppi dirigenti non mancano; sono però ancora troppo deboli e ambigui rispetto alla gravità della contingenza politica. Denotano, in particolare, per quanto riguarda quelle in buona fede, una terribile sottovalutazione di cosa significhi detenere l’effettivo controllo delle leve di governo e di potere

Circa identità e universalismo: dialoghi repubblicani, di Alessandro Visalli

Prosegue il dibattito tra identità e universalismo con tutte le sue implicazioni riguardanti le scelte politiche strategiche di questi ultimi decenni. Un confronto che ha coinvolto in particolare, oltre all’autore dello scritto in calce e indirettamente il professor de la Grange, Roberto Buffagni e Massimo Morigi. Buona lettura_Giuseppe Germinario

Circa identità e universalismo: dialoghi repubblicani.

https://tempofertile.blogspot.it/2018/03/circa-identita-e-universalismo-dialoghi.html

Su Italiaeilmondo, un dialogo con Roberto Buffagni, prima, e dopo con Massimo Morigi si sta sviluppando sulla linea del confronto tra tradizioni culturali e punti di vista diversi ma capaci di reciproco riconoscimento. La cosa era partita da un commento ai fatti di Macerata di Roberto Buffagni che avevo riletto nella mia tradizione come “scontro di secolarizzazioni”, dal quale è nata un’altra linea di dibattito interessante sulle pagine di Sinistrainrete (l’ultima puntata è questa); questo dibattito incrocia quello sulle “due Europe”, anche esso avviato da Buffagni, cui replicai con “lo scontro tra due europe” e quindi le repliche dello stesso Buffagni (qui e qui).

Ciò che è in questione nell’intreccio dei tre dialoghi è la questione della forma di universalismo verso la quale manifestare lealtà, entro il sistema di tensioni non risolte della nostra cultura e valutando le forze in campo, e la sua concrezione geopolitica nel progetto europeo e mondiale, da una parte, e nella risposta alla crescita (per ragioni interne che riassumo nello schema delle “due economie politiche”) della mobilità della ‘forza lavoro’, dall’altra. Si tratta di questioni dirimenti per il posizionamento politico contemporaneo.

Sulla linea dello “scontro di secolarizzazioni”, dunque sul registro dell’immigrazione, Massimo Morigi replica in “Considerazioni al margine” attraverso una densa lettura della tradizione politica italiana imperniata sul momento risorgimentale e nella fattispecie la figura di Mazzini. Commentando questo pezzo avevo quindi scritto “Identità e universalismo”, nel quale venivano richiamati pochi momenti della grande questione tra autenticità e autonomia che struttura il pensiero politico europeo dei moderni nella sua formazione (attraverso snodi come Rousseau, Kant, Herder ed Hegel, per dire), e viene ripresa ed attualizzata nel dibattito sul multiculturalismo negli anni novanta e in quello sul comunitarismo. Nella chiusa, in quelli che necessariamente anche per il mezzo possono essere solo pochi appunti volanti, avevo scritto che oggi l’unica teoria della giustizia possibile, dunque, è quella che è in qualche modo progettata (rischiosamente) a partire dalle caratteristiche che lo sviluppo storico concreto ha depositato nell’oggi, per come queste si sono date, cioè, dal sedimento dei conflitti e dei successi o fallimenti nell’ottenere riconoscimento da parte delle diverse soggettività.

Probabilmente anche l’unica possibile pratica politica.

Massimo Morigi risponde con un pezzo che riprende questi temi dal punto di vista del “repubblicanesimo geopolitico” e sceglie di manifestare “l’estrema e multilaterale debolezza” del mio argomento giudicato centrale: l’interpretazione di Charles Taylor della tensione tra autenticità e autonomia nella nostra cultura. E soprattutto la tesi del nostro che vi sia una discontinuità tra la lettura dell’autenticità come progetto, sia pure costantemente sfidato da eteronomia (in quanto è autentico in effetti chi non sottopone a riflessione l’essere in cui si trova collocato), dei moderni e quella delle generazioni precedenti. In altre parole, che l’identità sia da leggere in modo diverso per un moderno e per un uomo colto premoderno. Con le parole di Morigi:

Il passo di Visalli testè citato sembra quindi suggerire, assieme a tutto il tono del suo intervento, che il problema dell’identità dei popoli, e di riflesso degli individui che questi popoli compongono, ha inizio in epoca moderna, legato prevalentemente ai fenomeni di secolarizzazione e di progressiva riduzione della dimensione del sacro.

L’obiezione è che, se pure di nazione e della relativa identità si cominciò a parlare con un tono diverso anche a seguito della sfida napoleonica e in ambiente tedesco prima con Herder e poi con i “Discorsi alla nazione tedesca” di Fichte, in evidente polemica con l’universalismo illuminista (che con Napoleone era imperialismo, se visto dall’alto lato delle baionette), l’identità nazionale agonistica preesiste, e di molto. Gli esempi di Morigi sono i greci contro i persiani, gli ebrei, i romani, e quindi dell’idea di Italia che emerge nel medioevo (sia pure tra pochi intellettuali, tra i quali cita Dante e Baldassar Castiglione, o, ovviamente, Machiavelli).

D’altra parte l’interlocutore finisce per concordare con la conclusione:

Scrive Visalli in conclusione del suo pregevole commento al mio articolo: «L’unica teoria della giustizia possibile, dunque, è quella che è in qualche modo progettata (rischiosamente) a partire dalle caratteristiche che lo sviluppo storico concreto ha depositato nell’oggi, per come queste si sono date, cioè, dal sedimento dei conflitti e dei successi o fallimenti nell’ottenere riconoscimento da parte delle diverse soggettività. Probabilmente anche l’unica possibile pratica politica.» Per quanto da indegno erede del  crociano storicismo assoluto io sia del tutto hegelianamente diffidente verso ogni teoria, anche se sotto forma di ‘teoria della giustizia’, calata sulla “realtà effettuale”, non ho alcuna difficoltà a riconoscermi nello spirito di questa affermazione, il cui nucleo è il sacro rispetto che si deve avere di quell’ “astuzia della ragione” che consiste nel secolare deposito storico di aspirazioni e tradizioni apparentemente contraddittorie ma che proprio nella loro contraddittorietà – ed anche mutua violenza e volontà nel passato e, purtroppo, anche odierna, di sopprimersi – formano oggi, del tutto analogamente a come avviene per gli altri popoli, la nostra identità come individui e come popolo.

Tenendo per buono questo finale accordo, probabilmente conviene però spendere qualche parola sul contesto nel quale viene individuata la discontinuità tra moderni e classici che ha colpito Morigi. Sostiene infatti questi che sia “assolutamente da respingere come storicamente inesatta l’idea che i popoli per sviluppare ed avvertire una propria identità, …, abbiano dovuto aspettare il XVIII secolo”, e specificamente “di una identità avvertita come agonistica rispetto alle altre”.

Ora, ci sono molti modi di reagire a questa osservazione:

  •   – da una parte ‘l’agonismo’ tra le organizzazioni più o meno statuali e le nazioni è ovviamente un fatto della storia. Ma entrambi i termini sono anacronistici, se utilizzati prima della modernità nella quale si forma lo Stato-nazione, in riferimento alle entità politiche e società preesistenti.
  • Dall’altra la specie umana è sempre stata formata da individui, ma non sempre questi hanno concepito se stessi e i gruppi nei quali erano immersi nello stesso modo. Il legame sociale è sempre mutato e ancora muta portando con sé l’insieme delle istituzioni, dei valori e delle norme sociali, quindi anche le identità rese possibili da queste. Anche parlare di ‘popolo’, al singolare, prima della modernità contemporanea, con la potenza dei suoi mezzi di comunicazione, per dirne una, rischia di proiettare esperienze contemporanee sul passato in modo indebito.

Quel che possiamo provare a nominare come ‘i popoli’ (che poi a grandi linee sono solo le loro élite e le clientele ad esse connesse in vario modo, e quindi facenti parte del ‘modo di produzione’ tributario ad esse) hanno sempre sviluppato una loro specificità, e quindi ciò che oggi chiamiamo una loro ‘identità’, ma quanto ad avvertirla il passo non è sempre automatico. Parlare dei ‘greci’ (una realtà molto più fratturata di quanto ci piaccia sapere, e la cui tradizione ci viene trasmessa da pochissime fonti, quasi tutte ateniesi, relative a poco più di un secolo e praticamente tutte di parte aristocratica, a partire dalla linea principale dei filosofi e dei drammaturghi) come di un ‘popolo’ opposto ai ‘barbari’ (prendendo per buona la retorica imperiale ateniese e poi macedone) richiede una certa distanza, avvicinandosi l’immagine si frammenta. Egualmente per i ‘romani’, il non-stato più multiforme, politicamente, giuridicamente, etnicamente e culturalmente, dell’antichità.

Diciamo che bisognerebbe entrare molto dettagliatamente nel merito, ed interrogare le fonti con occhio ed orecchio attento alle differenze, che spesso baluginano nei dettagli, più che alle presunte somiglianze (che possono facilmente essere proiezioni).

Ma anche l’osservazione di Charles Taylor va ascoltata nel suo proprio contesto, ovvero entro l’ambiente di discorso al quale il filosofo e storico canadese reagisce. Intanto dalla disciplina principale nella quale interviene: filosofia morale. All’ambiente culturale: Oxford prima USA, dopo. Quindi al periodo: anni settanta per gli studi hegeliani, ottanta per la teoria del linguaggio e dell’azione, l’epistemologia, e poi teoria dell’identità moderna al finire degli anni ottanta, e storia delle idee negli anni a cavallo del millennio. I suoi libri più famosi sono “Hegel”, 1975, “Radici dell’Io”, del 1989, e “L’età secolare”, del 2009.

Si tratta di un autore che avvia la sua riflessione sulla scorta di quell’evento epocale che fu la pubblicazione di “Una teoria della giustizia” di John Rawls del 1971. La ripresa della più antica tradizione contrattualista, in aperta polemica con l’allora egemone teoria morale utilitarista, nel libro epocale di Rawls determina infatti negli anni seguenti una completa ridefinizione del campo. La teoria politica liberale ne viene del tutto riscritta; quella linea genealogica che aveva Hobbes e Locke come padri, poi Kant e J.S. Mill, è riaggiornata da Rawls tenendo fermi i suoi caposaldi: concezione naturalistica dei diritti, libertà individuale come non interferenza, autonomia in senso personale e non collettivo, eguaglianza di principio, democrazia. Ma viene creata anche una coerente cornice intellettuale per far posto a quelle modifiche che il novecento aveva imposto a partire dal new deal: le libertà positive e la redistribuzione, quindi per fare spazio alla ‘questione della giustizia’. Il liberalismo di Rawls fa infatti perno sulla questione dell’eguaglianza, la determina come problema, mentre il liberalismo utilitarista classico si limitava a porre la questione della ‘libertà’ (negativa). Le questioni che diventano rilevanti sono a questo punto soprattutto due: la neutralità o meno dello Stato rispetto a diverse visioni del bene; la natura dei beni che vanno redistribuiti. Del primo problema la discussione si sviluppa con Dworkin, Ackerman, Nagel, Scanlon, ma anche Nozick. Del secondo si discute con i proceduralisti, ad esempio con Ackerman e Habermas (ne avevamo parlato qui).

Ma su questo terreno nasce anche una diversa controversia che esce dal campo liberale, e in alcune versioni attacca direttamente l’impostazione neo-kantiana di Rawls facendo uso di argomenti neo-hegeliani. È un attacco dall’esterno (mentre il primo era dall’interno), ed impegna gli anni tra ottanta e novanta. Si tratta della ripresa di motivi classici, della teoria della virtù, o comunque non liberali, da parte di una nuova famiglia di critici che sono stati etichettati come ‘comunitari’. Gli autori più rilevanti sono Alasdair MacIntyre, di cui leggeremo “Dopo la virtù”, del 1981; Michael Walzer, di cui leggeremo “Sfere di giustizia”, del 1983; Michael Sandel, “Il liberalismo e i limiti della giustizia”, 1982. La tesi a grandissime linee è che non si può presumere, se si pone la questione della giustizia, che lo stato si mantenga neutrale tra opposte concezioni del bene, o della vita buona, perché queste costituiscono gli individui che sono sempre situati ed incarnati in esse.

Charles Taylor è un esponente di seconda generazione di questa reazione all’astratto proceduralismo liberale. Ciò che scrive sulle radici dell’io e la storia delle idee che lo hanno costituito nella modernità va quindi necessariamente inquadrato in questa polemica.

Per il nostro l’identità in senso moderno si caratterizza dall’avere contemporaneamente tre caratteristiche: la percezione dell’interiorità, l’affermazione della vita come comune ed in comune, l’idea della moralità come naturale. Nello spazio morale si determina quindi un ‘io’ quando riusciamo a comprendere che cosa sia per noi di importanza cruciale e quindi in un certo senso quando sappiamo ‘dove’ siamo. Quando diventa possibile assumere una posizione e trovarsi in un orizzonte nel quale possiamo stabilire, di volta in volta, e caso per caso, che cosa è da tenersi per buono, quindi cosa dobbiamo fare o avversare. In altre parole noi siamo in quanto ci stanno a cuore delle questioni e non altre, in quanto siamo dotati di autointerpretazioni che non sono completamente esplicite, e in quanto siamo immersi in relazioni. Nessuno può essere descritto senza fare riferimento a quelli che lo circondano (T., “Radici dell’io”, p. 52). Dunque l’io esiste solo all’interno di ‘reti di interlocuzione’, e non nell’astratto e disincarnato vuoto immaginato dai ‘diritti civili’ liberali. E non esiste staticamente, ma solo narrativamente, sapendo non solo ‘dove siamo’ ma anche ‘dove andiamo’ e ‘da dove’.

Anche Taylor, in effetti, sviluppa una critica allo scientismo di cui è imbevuto il liberalismo naturalista (e le scienze economiche) e valorizza la strategia di Aristotele (come MacIntyre), tendente a definire come ‘vita buona’ quella che “combina nel più alto grado possibile tutti i beni cui aspiriamo” (idem, p.93).

Ecco che la ‘meglior forma’ evocata da Morigi trova una possibile cornice: la ragion pratica evocata ha a che fare con il racconto biografico, con la possibilità, esercitando una forma narrativa di ragione, di mostrare che una data soluzione tiene insieme meglio ciò che ci è caro, risolve meglio le contraddizioni presenti, dissolve confusioni ricorrenti.

Nel capitolo dodicesimo del suo libro sulle radici dell’io Taylor compie una digressione sulla spiegazione storica che direttamente chiarisce il dubbio che Morigi avanza. Il percorso ricostruttivo nel quale indulge (parlando di Cartesio, Locke, Montaigne e via dicendo) non è né una spiegazione ‘idealista’ né una spiegazione storica strictu sensu. Non cerca di dimostrare causazioni diacroniche, come propone ad esempio il marxismo, ma cerca solo di enucleare quali caratteristiche siano state capaci di far affermare la nuova idea di identità (p.256). La relazione tra le idee-forza (ovvero capaci di motivazione e di emergere come parte della autointerpretazione narrativa) e i meccanismi di causazione, è dunque riconosciuta come complessa e passante per pratiche sociali concrete, per l’applicazione di ciò che si può o non può fare. L’ambizione non è di risolverla.

Il seguito vede un ampio racconto che passa per la razionalizzazione del cristianesimo, esemplificata e condensata da Locke e poi le teorie dei sentimenti morali della scuola scozzese, Shaftesbury, Hutcherson, dalla quale emerge la categoria ‘dell’economico’ come ordine provvidenziale (gioverebbe anche ricordare Genovesi) che si autoregola. Quindi per gli orizzonti frantumati della perdita di dio (cui dedica il ben più ponderoso “L’età secolare”) e l’illuminismo radicale nel quale si afferma una idea di ragione autoresponsabile, strettamente connessa con la nuova ragione scientifica (Newton) e con l’affermazione dell’utilitarismo (p.410). Per il ‘controilluminismo’ di Rousseau e la nozione di ‘autonomia’ messa a fuoco da Kant fissa l’ideale di essere razionali, ma anche per la svolta espressivistica di Herder (p. 459) e l’idea di avere in effetti delle profondità interiori.

Da Darwin muove quindi la definitiva affermazione di un ordine senza ordinatore che mette a sistema la visione morale dello scientismo, affermando la secolarizzazione, che si può riassumere nell’enunciato “non si deve credere ciò di cui non si hanno prove sufficienti”. Un concetto di drammatica importanza, nel definire ciò che può essere e ciò che invece deve recedere, che si fonda su due idee-forza per Taylor: la libertà come razionale autoespressione e l’eroismo dell’incredulità. Da qui emerge una sorta di esigenza morale rovesciata: quella di non credere.

Il passo successivo è l’espressionismo postromantico di Schiller, Baudelaire, Schopenauer e Kierkegaard, ma anche Dostoevskij e Nietzsche. E la ricerca di una via di uscita dal mondo meccanico in Husserl, Heidegger, Adorno.

Il punto per Taylor, nel contesto non di una ricerca storica ma di una rimemorazione delle radici dell’io (anche se la relazione causale è incerta e la stessa composizione multiforme) è che “una società di persone tese [solo] all’autorealizzazione e le cui affiliazioni vengono considerate sempre più come revocabili non può sostenere quell’identificazione forte con la comunità politica che la libertà pubblica richiede” (p.617).

Insomma, il punto è precisamente quello evocato nel post “Ripensare i fondamenti: ‘libertà’”: l’idea di libertà come egoismo non limitato, spesso connessa internamente con lo scientismo, è strutturalmente e geneticamente connessa con l’inibizione dell’azione collettiva e milita contro quella che Taylor chiama la “libertà pubblica”. La “libertà privata” atomistica impedisce l’affermazione della “libertà pubblica”, l’autorealizzazione individualista con la lealtà collettiva.

La questione è dunque politica.

dal XXI podcast di Gianfranco Campa suggestioni sull’odierna natura della democrazia e sul mito dell’antifascismo Di Massimo Morigi

Leviathan, Behemoth, Giobbe, Giovenale, Schmitt, Kelsen, Neumann e Thomas Hobbes: dal XXI podcast di Gianfranco Campa suggestioni sull’odierna natura della democrazia e sul mito dell’antifascismo

Di Massimo Morigi

Quis custodiet ipsos custodes? è la chiusa del podcast n. 21 (Parte II) – Chi per primo chiuderà il cerchio? di Gianfranco Campa e con questa citazione prima dalle Satire di Giovenale e poi divenuta paradigmatica del confronto Kelsen-Schmitt in merito al Custode della Costituzione del giuspubblicista fascista di Plettenberg (Carl Schmitt, Der Hüter der Verfassung, Duncker u. Humblot, 1931) nel quale Kelsen molto acutamente mostrò la contraddizione schmittiana di far poggiare la tutela della costituzione (nello specifico la Costituzione della repubblica di Weimar) sull’organo monocratico del presidente della Repubblica (e da qui la domanda di Kelsen “chi controllerà i custodi stessi?”), si ha il singolare e straniante effetto, non solo letterariamente assai suggestivo ma anche molto potente dal punto di vista euristico, che dall’attuale feroce lotta di potere politico-giudiziaria in corso oggi negli Stati uniti per rovesciare Donald Trump si viene trasportati nel clima dell’epoca della Repubblica di Weimar con i suoi altrettanto feroci scontri fra gli agenti strategici politici ed economici e che vedevano il popolo tedesco come massa di manovra per alimentare questi scontri. Sappiamo come andò a finire: nessuno riuscì a custodire niente e nessuno e prevalse un potere apparentemente monolitico e, come già si poteva dire allora usando un lessico preso a prestito dalla politologia fascista italiana, totalitario. Ma a questo punto del nostro ragionamento sovviene un’altra suggestione, non presa direttamente a prestito dalle parole del podcast n. 21 di Gianfranco Campa, ma dalla situazione che questo podcast magistralmente rappresenta, e cioè la situazione di assoluto caos che regna fra i poteri della Res publica degli Stati uniti d’America, una repubblica che una scienza politica immolatasi al formalismo giuridico descrive come improntata e forgiata sul principio della divisione dei poteri ma che, in realtà, è basata sullo scontro anarchico e feroce fra questi poteri. E questa situazione di feroce ed anarchico scontro di poteri ha profondissime analogie, solo se si voglia scavare più a fondo di quello che dolosamente non fanno le odierne scienza politica e filosofia politica mainstream, con la dinamica reale dello scontro di potere nel regime nazista secondo la magistrale interpretazione datane da Franz Leopold Neumann, il quale nel suo Behemoth. The Structure and Practice of National Socialism (Franz Neumann, Behemoth. The Structure and Practice of National Socialism, London, Victor Gollancz, 1942), sovvertendo la vulgata che il potere nazionalsocialista era caratterizzato da una ferrea monoliticità al cui vertice stava il Führer, affermava che questo era caratterizzato da una situazione di caotica policrazia, insomma era caratterizzato da una feroce lotta di potere fra i vari organi dello stato e i vari potentati nazisti, una lotta di potere nella quale Hitler non era il feroce burattinaio manovratore di tutti i fili ma, bensì, una specie di terribile e venerato idolo ai piedi del quale si svolgevano autonome e feroci lotte di potere. Sul solco della tradizione ebraica, in particolare il libro di Giobbe, poi anche ripresa da Thomas Hobbes nel Leviathan e nel Behemoth (rispettivamente, Thomas Hobbes, Leviathan or The Matter, Forme and Power of a Common-Wealth Ecclesiasticall and Civil, 1651 e Id. Behemoth: the history of the causes of the civil wars of England, and of the counsels and artifices by which they were carried on from the year 1640 to the year 1660, 1681), e sulla traccia della quale il filosofo inglese utilizza l’immagine del leviatano per rappresentare l’ordine politico da instaurare contro il disordine rappresentato dalla bestia Behemoth, Beemoth rappresenta il caos e volendo terminare con le suggestioni letterarie ma che ritengo abbiano più forza euristica e dialettica delle mille fregnacce che ci vengono propalate dall’attuale scienza politica, è veramente forse qualcosa di più di un’anacronistica analogia affermare che Behemoth possa essere la mitica bestia che contemporaneamente meglio rappresenta il nazismo e l’attuale lotta di potere negli Stati uniti. E questo non per dire, come da stanca vulgata da agit-prop, che gli Stati uniti, popolo tutto e sue istituzioni, sono nazisti ma per dire, molto più semplicemente, una più elementare verità, che vale anche per tutti gli altri paesi del perimetro delle moderne democrazie industriali ed in particolare per l’Italia e che è la seguente: qualora la retorica sulla democrazia e sui diritti umani non sia seguita da una reale maturazione a livello di massa della consapevolezza sull’intrinseca natura di scontro strategico della politica, questa politica, o meglio questa natura strategica, come vera e propria pulsione repressa, assume manifestazioni caotiche violente, non produttive perché razionalmente non riconosciute, e, in ultima istanza, con esiti totalitari, e che alla fine, come nel nazismo, assumono formalmente veste tetragona e compatta (nel nazismo e nel fascismo un riconosciuto e dispiegato diretto totalitarismo del potere, nelle democrazie, sempre un totalitarismo del potere ma formalmente mediato dalle forme istituzionali dell’esercizio del potere, ma forme istituzionali considerate indiscutibili per ogni luogo, tempo e circostanza, e quindi in sé totalitarie), ma che in realtà, sotto la veste dell’uniformante – e reale in entrambi i casi – totalitarismo, non sono altro che il pieno dispiegamento delle caotiche pulsioni conflittuali che le retoriche democratiche ed universalistiche hanno cercato inutilmente di rimuovere e camuffare. In Italia fino all’altro ieri vigeva il Behemoth della retorica antifascista. Il fatto che ora sembra che di questo antifascismo non si sappia ormai più cosa farne, non è certo nostalgia per un ritorno ad una vecchia tragedia ma bensì il tentativo, magari in forme non teoricamente mature, di uscirne definitivamente, avendo percepito che il vecchio caos fascista aveva trovato nella retorica dell’ apparente anticaos antifascista, forma italica degenerata della retorica dirittoumanistica e democraticistica, il suo modo di sopravvivere. Oltre che per la puntuale ed iconoclasta ricostruzione – autenticamente rivoluzionaria ed iniziatica rispetto ai media informativi mainstream – della feroce lotta di potere attualmente in corso nella grande “democrazia” americana, anche di queste suggestioni dobbiamo essere grati dalle cronache americane di Gianfranco Campa. Massimo Morigi – 18 marzo 2018

La ricerca della protezione: appunti sul 4 marzo, di Alessandro Visalli

La ricerca della protezione: appunti sul 4 marzo.

Si può partire da molte cose per spiegare la fragorosa slavina di domenica che ha travolto tutta la sinistra italiana: in primis la sua magna parte era da molto tempo più liberale che socialista, e parteggiava abbastanza chiaramente per la metà tranquilla e garantita della società; la piccola quota di LeU, fattasi ancora minore, è risultata essere in tutte le sue componenti troppo indecisa e in alcune anche compromessa con la formazione di provenienza per essere credibile per l’altra metà del cielo; del resto anche la piccolissima, ai conti ancora più del previsto, PaP si è rivelata troppo confusa e sotto troppi profili inadeguata per rappresentarla, ed anche questa alla fine ha finito per guardare solo il proprio ombelico. In tutto non è arrivata al 25% degli elettori, cioè a poco più del 15% degli elettori.

Uscendo da questa spiegazione politicista si può anche partire da guardare al nesso tra movimenti sociali e culture politiche; cioè tra quello scivolamento verso il basso almeno del 20% che non si percepisce più classe media (per cui oggi possono sentirsi tranquilli solo il 40% ca, e invece si sentono deboli almeno il 50% della popolazione). Dunque dalla molla che nel silenzio si stava caricando, come dice Bagnasco, e che alla fine è scattata.

Come sta avvenendo in tutto l’occidente, anche in Italia continua insomma quella che Spannaus ha chiamato la rivolta degli elettori. Dal 2016 abbiamo avuto prima la brexit, poi l’elezione di Trump, quindi il preavviso non ascoltato delle elezioni italiane del 2013 e dell’esplosione del M5S, un evento che nel 2014 in “trovare la forma” mi sembrava indicare, ‘come in uno specchio’ il sorgere di un nuovo assetto, un nuovo equilibrio che sorgeva da qualche parte ed iniziava ad aggregarsi. Poi abbiamo avuto il referendum italiano che ha spezzato la traiettoria di Renzi; le elezioni francesi nelle quali la Le Pen è stata fermata (ma solo al ballottaggio), ma al contempo è emersa una sinistra nuovamente attenta alle ragioni del socialismo in Mélenchon (come in Inghilterra in Corbyn e in USA in Sanders), separandosi chiaramente da un centro liberale ricostituito in Macron; persino quelle tedesche, in cui le formazioni centrali sistemiche sono ulteriormente arretrate.

Siamo quindi da qualche anno su quello che si potrebbe chiamare “un crinale”, la pallina sta andando una volta di qua ed una volta di là.

 
Elezioni 4 marzo: rapporto tra reddito pro capite e consenso al M5S

Commentando questi eventi Carlo Formenti parla dell’esplosione della rabbia delle ‘periferie’, cioè di classi subordinate schiacciate dal riassetto sistemico in corso e incazzate in particolare con la sinistra, “che le ha consegnate alla repressione del capitale globale preoccupandosi solo di difendere i diritti civili di minoranze colte e benestanti”. Le sinistre di tradizione socialista sono, insomma, diventate esclusivamente liberali e ormai difendono ostinatamente un insediamento sociale, erroneamente considerato maggioritario, riconducibile solo a classi medie ‘riflessive’, urbane, sempre più anziane. Ne è chiara immagine il multiculturalismo e la difesa della cosiddetta “società aperta” (e competitiva) ed anche il cosmopolitismo di marca borghese spacciato per internazionalismo. Del resto anche le sinistre più o meno ‘radicali’, come LeU e soprattutto PaP scontano un complessivo e radicale disorientamento strategico; l’incapacità di individuare gli snodi essenziali della situazione e di impostare un discorso politicamente e socialmente coerente. In queste condizioni il 15% del corpo elettorale è una dimensione più che appropriata (ma può ancora scendere).

Lo sfondo è chiaro: la fase di rilancio dell’accumulazione, attraverso la finanziarizzazione, l’interconnessione e l’aumento della dipendenza, e l’estensione del dinamismo che si è avuta nel trentennio dal 1980 al 2010 si è risolta in un 66% degli italiani che (indagine Demos, 2016) reputa “inutile fare progetti per il futuro”. La scheletrica ed irresponsabile antropologia del pensiero liberista non ha capito che l’incertezza ed il rischio non sono pungoli che rendono più attivo e produttivo l’uomo; se superano una certa soglia si sopportabilità, al contrario, lo spengono. Un “futuro incerto e carico di rischi”, come quello percepito incombente e minaccioso da due nostri compatrioti su tre, induce infatti quello che Mullainthan e Safir, in un bel libro del 2013 “Scarcity”, chiamano “effetto tunnel”. La scarsità percepita “cattura la mente”, inducendola a concentrarsi solo sull’assoluto presente. Ma non si tratta di ottimizzazione, come presume tanta letteratura scritta nel chiuso dei propri dipartimenti da ricchi professori: è al contrario una “inibizione”. Gli psicologi chiamano con questa parola (per questo tra virgolette) quella capacità della mente di eliminare le possibilità alternative, rendendole invisibili. In altre parole, concentrarsi su una cosa urgente e vitale (come affrontare un predatore, o pagare la prossima bolletta della luce) “ci rende meno capaci di pensare ad altre cose che contano”; è quella che si chiama “inibizione dell’obiettivo”. Tutti i fini e le considerazioni che sarebbero altrimenti importanti (migliorare la propria competenza con un corso professionale, fare quell’investimento che pure indurrebbe grandi risparmi, curare le relazioni sociali per aumentare le proprie opportunità, …) scompaiono dalla nostra stessa vista. Mentre nei paper dei vari Lucas o quelli di Prescott, si immagina che il consumatore definisca sempre ‘aspettative razionali’ sul futuro, calcolando tutte le implicazioni di ogni politica e anticipandole nella sua azione, la maggioranza di essi è invece concentrata sul “tunnel”. La mente non è, cioè, occupata a fare complessi calcoli costi-benefici ma dalle scadenze.

È questo che alla fine impedisce qualunque progettualità, inclusa la ribellione, che spinge a vivere in un eterno attimo presente, carico di angoscia e risentimento inespresso.

Ma improvvisamente il 4 marzo, in fondo inaspettatamente, questo fondo magmatico si è espresso. L’umore nero del paese profondo, quello che la sinistra neppure riesce ad immaginare e per il quale non ha proprio le parole (risolvendosi a reiterare stanchi cliché come ‘razzismo’, ‘populismo’, ‘nazionalismo’, anche ‘fascismo’) si è improvvisamente addensato come una sorta di nuovo popolo che si separa nel paese, mettendo a punto un linguaggio, dei blocchi emotivi, nei bar, nelle strade, nei negozi, negli uffici, nelle piazze. Un ‘popolo’ che si è identificato nei ‘non’, nelle differenze dal potere, dalla politica, dalla finanza, dalla grande impresa, dalla globalizzazione, dalla tecnologia industriale, dalle <caste>, dal denaro. Anche dai meridionali, dagli immigrati, dagli altri ed estranei,

Chiaramente questa “cultura” appare agli occhi ed alle orecchie di quelli che una volta sarebbero stati chiamati <gli integrati>, cioè dei colti e formati, dei tranquilli, di chi non cambia spesso lavoro, di chi ha l’orizzonte sereno di un percorso tracciato, o delle risorse per farsi il futuro che si vuole, strana ed un poco aliena. Appare sconnessa, contraddittoria, mal costruita, oscura e per certi versi temibile; sembra pericolosa.

Questa reazione, di cui tutte le sinistre sono espressione (anche quelle ‘radicali’) non capisce nulla e non si vede che in questo c’è del nuovo. Rischia, più o meno tutta insieme, di fare la fine di De Maistre con la Rivoluzione Francese, cioè slittamento per slittamento, di trovarsi alla corte di Alessandro di Russia.

Questa reazione al plebeismo di questa ‘rivolta’ (che non è ancora una ‘rivoluzione’, di qualunque segno, e forse mai lo sarà), per ora identificabile come un ‘momento Polanyi’ con singolari e rischiose analogie con gli anni trenta (quando intellettuali allora di sinistra, come Sombart, indicarono la svolta), porta in altre parole molti a cercare di arroccarsi entro il sistema sfidato. La scelta di LeU, di utilizzare i profili istituzionali dei Presidenti di Camera e Senato e di enfatizzare in ogni occasione la propria ‘responsabilità’ suona infatti a molte orecchie come chiara scelta del campo. Un campo affollato e in via di restringimento, nel quale non c’è spazio e nel quale il 3% raggiunto appare già come un risultato notevole.

Ma anche PaP, che ha inteso restarvi fuori, rigetta il plebeismo. Invece di fare tesoro della ‘tecnica della spugna’ del M5S, della capacità di addensare i sentimenti, le parole, le pulsioni e di solidificare i vapori diffusi, ha ripetuto i suoi slogan identitari. Peraltro divergenti in modo radicale gli uni dagli altri, a causa di un rassemblement costruito necessariamente troppo in fretta e senza un vero centro.

Del resto se anche fosse vero, ma credo che questo sia parte del problema, che come scrive il mio amico Riccardo Achilli “ogni crisi e ogni fase di transizione generano, nel nostro popolo, sottoprodotti di scarto, come il giustizialismo, il plebeismo, il qualunquismo, l’avventurismo, l’anarco-individualismo”, bisogna comunque chiedersi in modo più attento perché tutto questo si è risolto nel 55% dei consensi alle forze antisistema rappresentate da M5S (32%), Lega di Salvini (17%) e la più tradizionale Fratelli d’Italia (4,5%), il primo, terzo e quinto partito, mentre le forze responsabili che hanno guidato la seconda repubblica sono scese al 40%, con il PD (18%) e Forza Italia (14%), insieme all’appendice, e considerata tale, di LeU (3%).

Ci sono naturalmente molte, diverse, spiegazioni, ma torniamo agli “snodi della situazione”; in sostanza mi pare di poter dire che la sinistra liberale (tra cui va annoverata anche LeU, che ne è solo la propaggine più radical) fatica a confrontarsi con le conseguenze de:

  • la nuova ‘piattaforma tecnologica del capitalismo’ e con le sue conseguenze sul mondo del lavoro e la distribuzione,
  • l’accelerazione dei processi di disarticolazione che ne sono parte e dei fenomeni di mobilità, con le loro radicali e crescenti conseguenze (qui viene rigettato, in nome di un cosmopolitismo verniciato di internazionalismo il tema dirimente dell’immigrazione, su cui abbiamo di recente letto Sahra Wagenknecht),
  • l’Europa nel contesto del processo di ricomposizione egemonica in corso (che avevamo chiamato “la grande partita”),
  • lo smottamento della base sociale della democrazia e l’attacco al suo ‘carisma’.

Certo chiunque fatica a confrontarsi davvero con queste forze. Tanto più quanto cerca di leggerle con gli occhiali costruiti per altre ‘piattaforme tecnologiche’ (quella fordista in primis, ma anche quella post-fordista che si sta radicalizzando andando oltre se stessa e revocando via via anche i compromessi che la costituivano, come la flessibilità in cambio del lavoro), per società ancora solide che si stanno rivelando stremate e per un progetto internazionale che presumeva un’omogeneità politica e culturale prospettica che si allontana verso modelli multipolari di difficile interpretazione. Lo smottamento della base sociale della democrazia è solo il necessario suggello a questa molteplice frana.

Dunque il 4 marzo è venuta giù la slavina che seguiva al disgelo lento di forze accumulate nel lungo tempo degli ultimi trenta anni.

Il sud Italia si è unito, come mai si era visto in precedenza, garantendo maggioranze che si possono definire ‘bulgare’ al M5S, che in alcuni territori ha superato il 60% dei consensi. Il nord Italia ha visto l’affermazione impetuosa della Lega, che è cresciuta di oltre quattro volte, portandosi ad un’incollatura dal secondo partito, in caduta libera.

Quelle espresse dal M5S al sud e dalla Lega al nord sono, a tutta evidenza, due diverse forme di politica ‘maggioritaria’ (secondo la definizione che ne dà un manifesto della politica elitaria e tecnocratica come “Lo Stato regolatore” di Majone) e di ricerca di protezione, armate l’una contro l’altra.

Il miracolo del 4 marzo è cioè figlio dell’improvviso manifestarsi, ad un livello qualitativamente superiore, di quella che Laclau chiamerebbe due diverse “faglie di antagonismo”, entrambe originate dalla sofferenza e dalla paura che la metà inferiore della piramide sociale vive. Quindi da due diverse domande di protezione. Sinteticamente dalla protezione dal mercato, da una parte, e dallo Stato tassatore (eventualmente anche europeo), dall’altra.

Il lavoro che il M5S, da una parte, e Salvini dall’altra (gli indiscutibili vincitori), hanno fatto è per entrambi di identificare, in qualche modo nominare, un obiettivo centrale per orientare le energie disattivate dalla crisi. Questo ha consentito a molti di trovare la ragione per oltrepassare l’inibizione che la pressione insopportabile dell’incertezza e della scarsità porta con sé nell’identificazione chiara di un colpevole. Si tratta di un’operazione, non ha molta importanza qui se cosciente o ‘trovata’ solidificando vapori diffusi, propriamente politica (che anzi ne è il proprio) di costruzione di egemonia. La creazione di un profilo individuale nella rappresentazione politica.

La sfida che questo ‘doppio popolo’, manifestatosi nelle urne, pone in primo luogo nella modalità della sua costruzione, alla logica razionale del discorso liberale corrente è tutto in questo ‘eccesso’. Majone ci insegna che la politica ‘madisoniana’ (per la cui radice storica rimando a questo testo di Alan Taylor) nella quale abbiamo vissuto in particolare gli ultimi trenta anni è necessariamente parsimoniosa nella ricerca del consenso, anzi in sostanza ne fa a meno. Cerca di legittimarsi da un’altra fonte (ed infatti proliferano i meccanismi per ottenere la licenza d’uso a buon prezzo, con meno voti possibili, con i più diversi trucchi ‘maggioritari’), come dice il politologo italoamericano nella credibilità dei risultati anziché nella delega della maggioranza. La fonte della legittimità, per la generazione di politici cresciuta negli ultimi decenni, non è davvero il consenso degli elettori, e la responsabilità verso i Parlamenti, ma la verità della tecnica ed i risultati, in ultima analisi il successo. Non è affatto un caso che l’Unione Europea sia quello che è: di questa logica è il distillato più puro al mondo. In essa si ha un netto e pulito rovesciamento, perché a ben vedere sono i governi che controllano i Parlamenti attraverso gli schermati organismi europei (come gli Eurogruppi o il Consiglio Europeo), cfr. Majone, cit. p.168. E per farlo ricorrono anche a ‘fiduciari’ (dei mercati-sovrani, non certo dei cittadini) che non sono legati da vincoli di mandato ma sono “indipendenti”, il migliore esempio è la BCE (di cui presto avremo notizie). La mossa vincente è disperdere il potere fra istituzioni differenti (una mossa antica ed in effetti fondativa dell’assetto politico moderno, come si vede dal libro di Taylor sulla democrazia americana delle origini) il più possibile al sicuro dall’opinione dei cittadini.

La questione non è astratta, perché c’è un nesso forte e sistematico tra la possibilità di politiche redistributive (che necessitano di uno Stato forte, ‘gestore’ come dice, e di politiche attive ed energiche) e la loro legittimazione, che deve necessariamente passare per maggioranze politiche altrettanto attive ed energiche. Indebolirle, frammentando il potere e portandolo oltre le braccia degli elettori (cioè passare allo “Stato [solo] regolatore”) implica una diversa fonte di legittimità, ancorata non al voto della maggioranza ma all’efficacia credibilmente rivendicata, cioè al sapere tecnico. Questi organismi sono quindi in effetti “creati deliberatamente in modo da non renderli direttamente responsabili verso l’elettorato o i rappresentanti elettivi” (Majone, cit. p.169).

Allora quel che anche la liberale LeU non ha capito davvero è che la questione del populismo democratico non è aggirabile, in particolare se si vuole pensare a politiche redistributive e di protezione. Nella logica corrente queste non sono possibili, e per ragioni sistematiche che vanno anche oltre il mero economico.

Quando si conferma l’abbandono delle politiche ‘populiste’ (o ‘maggioritarie’, ovvero volte a ricercare il consenso delle maggioranze, della plebe) è necessario restringere la politica in favore di un potere amministrativo che trae altrove la sua legittimità (in una idea di “ragione” posta prima del discorso stesso, in qualche modo nelle cose e nei saperi tecnici che le rappresentano).

Se, invece, si corre il rischio dell’eccesso si può ricostruire un politico. È quello che hanno fatto davanti ai nostri occhi stupefatti sia il M5S sia Salvini.

Non c’è alcuna speranza per la sinistra se non supera se stessa e impara.

SPIGOLATURE_ A CURA DI GIUSEPPE GERMINARIO

Qui sotto un breve post di Antonio de Martini sull’uso politico e geopolitico della logistica legata al sistema agroalimentare e sulle risorse di base necessarie alla vita delle comunità. In allegato il link ad un significativo documento stilato da tre studiosi americani e relativo all’argomento. Il testo è in inglese, ma con un traduttore si riesce comunque a coglierne il senso generale.

E’ il prodromo ad una prossima intervista_Giuseppe Germinario

PROSSIMA FERMATA, IL CAIRO, di Antonio de Martini

Ovvio che un documento accademico scritto da ben tre studiosi americani ( di differente origine nazionale e religiosa) di una prestigiosa università , sia una seria base di meditazione.

In particolare se il documento mostra che esiste una relazione precisa tra le rivolte arabo-africane degli ultimi anni e il prezzo internazionale del grano condizionato dalla borsa merci di Chicago.

Se si aggiunge a questa vicenda che oggi con la Diga RENAISSANCE etiopica ( lavoro terminato ma che non eroga elettricità, dato che Addis Abeba continua ad avere solo tre giorni a settimana di corrente, trattiene solo l’acqua del Nilo) si vuole ripetere il terribile gioco con l’Egitto e il Sudan, il quadro è più chiaro.

Nota a margine dell’autore. La Siria, negli anni, ha costruito una serie di silos enormi per non farsi ricattare nella vendita del grano annuale aI brokers internazionali. Il primo bombardamento punitivo di Obama sulla Siria non ha riguardato basi militari o colonne di rifornimento all’hezbollah, ma proprio i silos del grano che evitavano l’obbligo a vendere nelle date fissate dai contratti Continental Grain.
Miracolosamente nel precedente decennio, in quelle date, il prezzo del grano di riferimento crollava alla…borsa merci di Chicago e i siriani subivano regolarmente ingenti perdite.

http://necsi.edu/research/social/food_crises.pdf

Qui sotto, invece, un arguto commento di Pierluigi Fagan riguardante la natura e il retroterra politico-culturale del renzismo presente nel panorama politico italiano sin dagli albori della Repubblica

TAKE OVER. La Physocephala vittata è un insetto che depone le uova dentro il corpo della vittima, poi se ne ciba dal di dentro e la induce a sotterrarsi prima di spirare di modo da trovarsi casa e cucina pronte per far passare una felice e protetta infanzia alla propria prole. Negli anni ’80, tempi di scalate di giovani raider, si prendeva il potere di una azienda, la si svuotava dal di dentro e nonostante ovviamente si fosse perso molto dell’originario valore, rimaneva pur sempre una infrastruttura base che si sarebbe dovuta altrimenti costruire ex novo con molta maggiore fatica.

Così Renzi col PD, una formazione politica nata grande, composta da molte tribù politiche al suo interno e con un vasto quanto eterogeneo elettorato esterno. Renzi ha indotto alla secessione l’anima ex-PDS ed ora cercherà di fare altrettanto con gli ex Ulivo/Margherita di cui pure si era posto come riferimento. Colpiva ieri sentire l’istituzionale e felpato Zanda parlare con toni inalberati e velenosi anche a nome di Franceschini, Gentiloni ergo Mattarella, delle dimissioni a parole e non nei fatti.

Alcuni hanno avanzato l’ipotesi che Renzi si sarebbe fatto un suo En Marche ma costoro non hanno calcolato quanto difficile sia una start-up e quanto rischioso sia proporsi per una adesione attiva. Una cosa è chiedere un voto espressamente per sé, altra cosa è chiedere un voto per conto di una nebulosa simbolica a cui molti sono affezionati, che sia perché progressista o socialdemocratica o social cristiana o di sinistra moderata e responsabile o social moderna o riformista migliorista o altro dei vari concetti di cui quella tradizione è tentativo (mal riuscito) di sintesi.

Non è solo la differenza tra fare una cosa daccapo e modificare una cosa che già c’è, non è solo preferire di risultare ambiguamente al centro di una serie di proiezioni ideali piuttosto che esporsi dichiaratamente in un modo preciso che esclude altrettanto precisamente altre opzioni, è che -conti alla mano- ciò che davvero rappresenta politicamente Renzi in quanto idee ovvero il “liberalismo progressista”, in Italia, pesa storicamente molto poco. Il liberalismo progressista ha lontana origine nella mentalità dei fondatori della Gran Loggia di Londra che fondò la moderna massoneria a partire dall’Inghilterra. Certo non il 18% che oggi ha, ma neanche un 8% che forse avrebbe sotto altro marchio. Anche dovesse alla fine ritrovarsi con un PD al 10%, ne avrebbe sempre un saldo attivo, rispetto al lancio di un nuovo marchio.

Ieri Renzi, ha dato colpa della sconfitta a coloro che gli hanno bocciato il referendum e poi a coloro che gli hanno impedito di andare ad elezioni prima sfruttando l’onda lunga della vittoria di Macron in Francia. La prima è semplicemente una stupidaggine perché non c’è alcuna ragione logica per sostenere quella affermazione, la seconda è addirittura un insulto all’intelligenza elettorale, come a dire “la gente è stupida, intontita dal successo di Macron mi avrebbe scambiato per lui e mi avrebbe votato sull’onda dell’entusiasmo e dell’imitazione gregaria.”. Poi ha ribadito i suoi punti forti, tutte dicotomie di cui lui è il bene e tutti gli altri il male, congegno retorico tipicamente demagogico.

Gli ex-ex comunisti li ha fatti fuori, ora vedremo cosa succede con gli ex-ex democristiani, pezzi meno facili. Un po’ dispiace, dispiace per gli amici ed amiche che continuano a votare pur con i maldipancia quel simbolo di una galassia valoriale che aveva i suoi perché, dispiace per il disequilibrio che induce nel quadro politico, dispiace per il significato politico davvero misero di questa storia troppo anni ’80. Questa l’essenza del furbo provinciale toscano, una modernità mal masticata a metà tra Fonzie e Gordon Gekko che sta divorando dal di dentro il corpaccione cristiano-social-democratico, in nome di una esuberante volontà di potenza che si ispira ai valori del liberalismo anglosassone risciacquati in Arno e supportata da una tribù di giovinastri altrimenti anonimi proiettati al vertice del mondo che conta. Una storia molto italiana, direi.

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