dal XXI podcast di Gianfranco Campa suggestioni sull’odierna natura della democrazia e sul mito dell’antifascismo Di Massimo Morigi

Leviathan, Behemoth, Giobbe, Giovenale, Schmitt, Kelsen, Neumann e Thomas Hobbes: dal XXI podcast di Gianfranco Campa suggestioni sull’odierna natura della democrazia e sul mito dell’antifascismo

Di Massimo Morigi

Quis custodiet ipsos custodes? è la chiusa del podcast n. 21 (Parte II) – Chi per primo chiuderà il cerchio? di Gianfranco Campa e con questa citazione prima dalle Satire di Giovenale e poi divenuta paradigmatica del confronto Kelsen-Schmitt in merito al Custode della Costituzione del giuspubblicista fascista di Plettenberg (Carl Schmitt, Der Hüter der Verfassung, Duncker u. Humblot, 1931) nel quale Kelsen molto acutamente mostrò la contraddizione schmittiana di far poggiare la tutela della costituzione (nello specifico la Costituzione della repubblica di Weimar) sull’organo monocratico del presidente della Repubblica (e da qui la domanda di Kelsen “chi controllerà i custodi stessi?”), si ha il singolare e straniante effetto, non solo letterariamente assai suggestivo ma anche molto potente dal punto di vista euristico, che dall’attuale feroce lotta di potere politico-giudiziaria in corso oggi negli Stati uniti per rovesciare Donald Trump si viene trasportati nel clima dell’epoca della Repubblica di Weimar con i suoi altrettanto feroci scontri fra gli agenti strategici politici ed economici e che vedevano il popolo tedesco come massa di manovra per alimentare questi scontri. Sappiamo come andò a finire: nessuno riuscì a custodire niente e nessuno e prevalse un potere apparentemente monolitico e, come già si poteva dire allora usando un lessico preso a prestito dalla politologia fascista italiana, totalitario. Ma a questo punto del nostro ragionamento sovviene un’altra suggestione, non presa direttamente a prestito dalle parole del podcast n. 21 di Gianfranco Campa, ma dalla situazione che questo podcast magistralmente rappresenta, e cioè la situazione di assoluto caos che regna fra i poteri della Res publica degli Stati uniti d’America, una repubblica che una scienza politica immolatasi al formalismo giuridico descrive come improntata e forgiata sul principio della divisione dei poteri ma che, in realtà, è basata sullo scontro anarchico e feroce fra questi poteri. E questa situazione di feroce ed anarchico scontro di poteri ha profondissime analogie, solo se si voglia scavare più a fondo di quello che dolosamente non fanno le odierne scienza politica e filosofia politica mainstream, con la dinamica reale dello scontro di potere nel regime nazista secondo la magistrale interpretazione datane da Franz Leopold Neumann, il quale nel suo Behemoth. The Structure and Practice of National Socialism (Franz Neumann, Behemoth. The Structure and Practice of National Socialism, London, Victor Gollancz, 1942), sovvertendo la vulgata che il potere nazionalsocialista era caratterizzato da una ferrea monoliticità al cui vertice stava il Führer, affermava che questo era caratterizzato da una situazione di caotica policrazia, insomma era caratterizzato da una feroce lotta di potere fra i vari organi dello stato e i vari potentati nazisti, una lotta di potere nella quale Hitler non era il feroce burattinaio manovratore di tutti i fili ma, bensì, una specie di terribile e venerato idolo ai piedi del quale si svolgevano autonome e feroci lotte di potere. Sul solco della tradizione ebraica, in particolare il libro di Giobbe, poi anche ripresa da Thomas Hobbes nel Leviathan e nel Behemoth (rispettivamente, Thomas Hobbes, Leviathan or The Matter, Forme and Power of a Common-Wealth Ecclesiasticall and Civil, 1651 e Id. Behemoth: the history of the causes of the civil wars of England, and of the counsels and artifices by which they were carried on from the year 1640 to the year 1660, 1681), e sulla traccia della quale il filosofo inglese utilizza l’immagine del leviatano per rappresentare l’ordine politico da instaurare contro il disordine rappresentato dalla bestia Behemoth, Beemoth rappresenta il caos e volendo terminare con le suggestioni letterarie ma che ritengo abbiano più forza euristica e dialettica delle mille fregnacce che ci vengono propalate dall’attuale scienza politica, è veramente forse qualcosa di più di un’anacronistica analogia affermare che Behemoth possa essere la mitica bestia che contemporaneamente meglio rappresenta il nazismo e l’attuale lotta di potere negli Stati uniti. E questo non per dire, come da stanca vulgata da agit-prop, che gli Stati uniti, popolo tutto e sue istituzioni, sono nazisti ma per dire, molto più semplicemente, una più elementare verità, che vale anche per tutti gli altri paesi del perimetro delle moderne democrazie industriali ed in particolare per l’Italia e che è la seguente: qualora la retorica sulla democrazia e sui diritti umani non sia seguita da una reale maturazione a livello di massa della consapevolezza sull’intrinseca natura di scontro strategico della politica, questa politica, o meglio questa natura strategica, come vera e propria pulsione repressa, assume manifestazioni caotiche violente, non produttive perché razionalmente non riconosciute, e, in ultima istanza, con esiti totalitari, e che alla fine, come nel nazismo, assumono formalmente veste tetragona e compatta (nel nazismo e nel fascismo un riconosciuto e dispiegato diretto totalitarismo del potere, nelle democrazie, sempre un totalitarismo del potere ma formalmente mediato dalle forme istituzionali dell’esercizio del potere, ma forme istituzionali considerate indiscutibili per ogni luogo, tempo e circostanza, e quindi in sé totalitarie), ma che in realtà, sotto la veste dell’uniformante – e reale in entrambi i casi – totalitarismo, non sono altro che il pieno dispiegamento delle caotiche pulsioni conflittuali che le retoriche democratiche ed universalistiche hanno cercato inutilmente di rimuovere e camuffare. In Italia fino all’altro ieri vigeva il Behemoth della retorica antifascista. Il fatto che ora sembra che di questo antifascismo non si sappia ormai più cosa farne, non è certo nostalgia per un ritorno ad una vecchia tragedia ma bensì il tentativo, magari in forme non teoricamente mature, di uscirne definitivamente, avendo percepito che il vecchio caos fascista aveva trovato nella retorica dell’ apparente anticaos antifascista, forma italica degenerata della retorica dirittoumanistica e democraticistica, il suo modo di sopravvivere. Oltre che per la puntuale ed iconoclasta ricostruzione – autenticamente rivoluzionaria ed iniziatica rispetto ai media informativi mainstream – della feroce lotta di potere attualmente in corso nella grande “democrazia” americana, anche di queste suggestioni dobbiamo essere grati dalle cronache americane di Gianfranco Campa. Massimo Morigi – 18 marzo 2018

Geopolitica dell’acqua: verità controcorrente di Aymeric Chauprade (traduzione di Roberto Buffagni)

Geopolitica dell’acqua: verità controcorrente

di Aymeric Chauprade

Conferenza tenuta l’8 febbraio 2013 alla Webster University (USA) di Ginevra, come introduzione al Forum dedicato all’acqua come fattore nelle relazioni internazionali.

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Quando Alexandre Vautravers mi ha chiesto di introdurre questo colloquio sull’acqua e la sicurezza, confesso che sulle prime ho sentito una piccola reticenza ad accettare, non perché a chiedermelo era Alexandre (che è uno spirito libero, impossibile da incasellare), tutt’al contrario: ma perché con il passare degli anni, ho imparato a non mettere acqua nel mio vino, e dunque a non mettere acqua… nella mia geopolitica!

Come molti, ho cominciato con le idee dominanti e alla moda sul tema, quelle che si sentono dappertutto, nei dibattiti, nei media, e che è facile riassumere con semplicità: “nel pianeta mancherà l’acqua e per l’acqua gli uomini si faranno la guerra.” Ma voi lo sapete come funziona il mondo: quando non se ne sa un gran che, si seguono le idee dominanti, ma poi, quando si conduce uno studio personale sull’argomento, si scoprono cose che non vanno necessariamente nella stessa direzione. Tra i numerosi libri che ho letto, ce n’è uno che vi raccomando particolarmente: Pour en finir avec les histoires d’eau1 di Jean de Kervadoué e Henri Voron.

Stamattina nuoterò di nuovo controcorrente, e spero che il mio intervento sarà utile introduzione a un dibattito che si vuole esigente, alieno dalle mode, e libero nelle sue conclusioni. Il mio intento sarà quello di rammentare alcune verità idrogeologiche che bisognerà tenere ben presenti in questa giornata di lavori.

Mentre nelle opinioni pubbliche si alimenta l’idea che il problema sarà la rarefazione dell’acqua, dobbiamo cominciare a constatare che oggi, e senza dubbio ancor più domani, è l’eccesso d’acqua che uccide e ucciderà, ben più della sua scarsità.

La catastrofe ecologica che ha mietuto più vite umane negli ultimi tre anni non è stato lo tsunami di Fukushima, ma una inondazione in Pakistan che ha ucciso più di 20.000 persone, ha causato profughi a milioni e sommerso una superficie di 200.000 km, il 40% del territorio francese.

Prendete l’Indo, che da solo misura 1.081.000 kmed è lungo 3.180 km. La sua portata media annua alla foce è di 4.000 m3/s, cioè 120 miliardi di m3 l’anno. La precipitazione di 100 mm di pioggia sulla metà a monte del suo bacino (500.000 km2) genera un volume d’acqua pari a 50 miliardi di m3 in pochi giorni, cioè a dire la metà della portata lorda annuale media. Le inondazioni catastrofiche diventano inevitabili, e la portata della piena abituale nel mese d’agosto può moltiplicarsi fino a 10 volte, da 4.000 a 40.000m3/s. L’acqua può salire molto in alto, e inondare superfici considerevoli.

Nelle gole dello Yangzi Jiang, che un tempo si chiamava Fiume Azzurro, l’altezza delle acque ha avuto variazioni di più di 60 mt. Nel Douro inferiore, in Portogallo, nel dicembre 1990, le acque sono salite a più di due metri sopra gli argini. In Francia, i livelli record in rapporto allo zero delle scale ufficiali hanno raggiunto, per la Garonna 8,32 mt. a Tolosa e 11,70 ad Agens, per la Loira i 7,52 a Tours, per la Senna gli 8,60 al ponte d’Austerlitz a Parigi, per il Rodano gli 8,30 ad Avignone.

Ma non è nulla, a paragone del Mississippi, che a valle di Cairo, nel 1882 ha sommerso più di 9 milioni di ettari, cioè una superficie maggiore dei territori di Belgio e Olanda insieme.

Lo Yangzi Jiang ha allagato superfici paragonabili nel 1931 e 1954, e in quelle occasioni pare abbia distrutto le abitazioni di più di 20 milioni di persone. Per la sola alluvione del 1931, si sarebbe dovuta piangere la morte di più di 100.000 persone.

L’acqua è una risorsa minacciosa, e in realtà, è più facile lottare contro la siccità che contro le inondazioni. Le piene sono improvvise, mentre la siccità è lenta e progressiva. Le piene distruggono abitazioni, riserve di grano e di fieno, uomini e bestiame, quando la siccità al massimo li costringe a spostarsi.

Ora che ho ricordato questa realtà, che secondo gli idrologi rischia addirittura d’aggravarsi, vorrei dare qualche cifra, anche in questo caso per smentire dei miti troppo diffusi.

Esistono tre grandi serbatoi d’acqua sulla Terra: il mare, la terra e l’aria (l’atmosfera).

Il Mare è il serbatoio di gran lunga più voluminoso, 1.338 milioni di miliardi di m3 (o tonnellate d’acqua): il mare, che è la principale fonte di evaporazione, e dunque delle piogge.

Poi c’è la Terra, che rappresenta 48 milioni di miliardi di m3, cioè il 3,5% della massa di acqua marina.

E qui, facciamola finita con i miti a proposito di certi ghiacciai in fusione.

Sulla Terra, ci sono 33 milioni di miliardi di m3 d’acqua immobilizzata sotto forma di ghiaccio; e tenete presente che su questi 33, ce ne sono già 32,6 che costituiscono l’Antartico e la Groenlandia, che non sono ghiaccio, ma che si possono considerare una forma di roccia fissa sul posto da 15 milioni di anni, la temperatura media della quale è di – 70°, e che è diversissima dal ghiaccio dei ghiacciai alpini e dell’Himalaya, i quali rappresentano soltanto 600.000 miliardi di m3.

E’ vero che secondo alcuni questi ghiacciai continentali si ritirano, a causa del riscaldamento climatico osservato a partire dal 1850; ciononostante, l’errore del grande pubblico è credere che a causa del ritiro di certi ghiacciai, diminuisca il volume d’acqua disponibile nei fiumi a valle di essi. E’ falso. Nel caso del Rodano, ad esempio, da 150 anni non si osserva alcuna riduzione della portata media.

E’ importante tenere presente che l’immagazzinamento provvisorio d’acqua, in un lago o sotto forma di ghiaccio, non cambia per nulla il ciclo dell’acqua.

Con o senza ghiacciai, le montagne del mondo sono dei castelli d’acqua. Anche senza ghiacciai, tutte le montagne immagazzinano acqua nei periodi umidi per restituirla nei periodi secchi. Nessun ghiacciaio alimenta il Rio delle Amazzoni, il fiume più possente al mondo, o l’Orinoco, o il Rio de la Plata in Argentina; lo stesso vale per il Nilo, il fiume più lungo del mondo, il Congo, lo Zambesi, i grandi fiumi siberiani, il Mississippi o il San Lorenzo.

Ritorniamo dunque ai nostri 48 milioni di miliardi di m3 d’acqua dolce, dai quali toglieremo i 33 di ghiacci; ci resteranno 15 veri milioni di miliardi di acqua dolce (laghi, fiumi, falde freatiche, zone umide) ciò che risulta, per 7 miliardi di esseri umani, in uno stock di acqua dolce personale di 2 milioni di m3; sapendo che ogni francese consuma in media 100 m3 d’acqua all’anno, se anche vivesse 100 anni, il suo consumo sarebbe di 10.000 m3 su un potenziale di 2 milioni: vale a dire, lo 0,5%.

E’ importante ricordare queste cifre, perché anche se sappiamo che le cose sono più complicate, questo ci porta a relativizzare il peso relativo della presenza umana nel ciclo dell’acqua a livello planetario, e soprattutto a distinguere bene il cosiddetto problema globale dell’acqua dai problemi locali legati all’acqua, problemi che non voglio affatto sottovalutare.

Per riassumere la mia filosofia sul problema dell’acqua: i problemi sono locali, ma la menzogna è globale.

Proseguo sui serbatoi. Ho parlato del mare, della terra, ma non dimentichiamo il terzo serbatoio, l’atmosfera, che è il meno ricco dei tre, 1700 miliardi di m3 sotto forma di vapore, di goccioline d’acqua e ghiaccio che formano le nubi.

Sorvolo sui dettagli, ma negli scambi tra questi tre serbatoi consiste quel che si chiama il ciclo dell’acqua, che, naturalmente, è equilibrato: ecco perché il livello dei mari è costante.

Fatti tutti i calcoli, tenendo conto dell’acqua che cade, di quella che evapora, di quella che torna al mare con i fiumi, si arriva a quella che chiamo l’abbondanza lorda mondiale, cioè a dire la quantità disponibile per l’Umanità nel suo insieme: 47.000 miliardi di m3 all’anno, cioè a dire 6700 m3 per ciascuno dei 7 miliardi di esseri umani. Questi 6700 m3 sono una media, perché per un francese, la disponibilità è di 2800 m3 per abitante; e di questi 2800 m3 a testa, il francese medio (non solo lui, ma anche le sue industrie, i suoi servizi, etc.) ne consuma solo 100 m3 all’anno.

E qui, di nuovo torniamo alla realtà, e tiriamo il collo alle false idee veicolate dall’ideologia mediatica.

Bisogna tenere presente che le famiglie, le industrie, i servizi, le città di tutte le dimensioni restituiscono all’ambiente naturale praticamente il 100% dell’acqua che usano. L’acqua non fa che scorrervi, per essere poi sottoposta a nuovo trattamento: dunque, ad essere consumato non è l’acqua, ma un servizio di distribuzione dell’acqua potabile. Non bisogna confondere l’acqua e il servizio di fornitura dell’acqua: non sono la stessa cosa.

Il solo vero consumo d’acqua, quella che non torna al mare, è l’irrigazione, perché in questo caso l’acqua evapora, e non torna più allo stato liquido nel suo bacino. Ora, tutti sanno che oggi, l’irrigazione ha soltanto un piccolo ruolo nell’agricoltura mondiale.

Eppure, vengono continuamente spacciate delle falsità. Prendiamo questa affermazione di Claude Allègre: “Se tutti gli uomini del pianeta consumassero tanta acqua di fiume quanta ne consumano gli europei, questo prelievo costituirebbe la metà della portata media dei fiumi. Se poi la popolazione mondiale aumentasse del 50%, passando a 9 miliardi, e il livello di vita si elevasse dappertutto al livello di vita europeo, allora l’uomo preleverebbe l’80% della portata dei fiumi.”

Da queste affermazioni traspaiono, oltre alla sempiterna colpevolizzazione dell’europeo, e all’ideologia malthusiana conforme alla quale la crescita demografica è necessariamente un flagello, parecchi errori scientifici. Si lascia credere, anzitutto, che i fiumi siano l’unica risorsa idrica, ciò ch’è inesatto, poiché il 60% delle acque continentali viene dalle falde freatiche. Poi, queste affermazioni lasciano credere che tutta l’agricoltura sia irrigata, che l’allevamento non esiste, che un miglioramento dei livelli di vita comporti necessariamente un aumento proporzionale dei consumi d’acqua. Ora, il consumo dei fiumi francesi è modesto rispetto alla loro portata (3%), e il prelievo non aumenterà, perché l’irrigazione non si svilupperà che in misura molto marginale. D’altronde, da una ventina d’anni i consumi domestici di acqua in Francia diminuiscono, mentre il tenore di vita è raddoppiato. Anche qui vi rimando alle notevoli analisi di Jean de Kervasdoué e Henri Voron.

E’ assolutamente impossibile che l’umanità consumi l’80% dell’acqua dei fiumi e faccia evaporare 47.000 miliardi di m3 all’anno. Per riuscirci, si dovrebbero irrigare 4 miliardi di ettari supplementari, cioè a dire 80 volte la superficie della Francia, per una media di consumo d’acqua per ettaro di 10.000 m3. Ne conseguirebbero raccolti supplementari per 20 miliardi di tonnellate di cereali, quando oggi l’umanità ne produce e consuma soltanto 2,5 miliardi. D’altronde, ad oggi le terre arabili coprono solo 1,4 miliardi di ettari, cioè il 10% delle terre emerse. Non si vede come si potrebbero moltiplicare per 2,5.

I continenti non sono abbastanza grandi per accogliere più di 5,4 miliardi di ettari di terre arabili!

Dunque, se vogliamo affrontare il problema geopolitico dell’acqua, del quale non mi sogno di negare l’esistenza, bisogna cominciare a non massacrare la verità scientifica (idrologica, in questo caso), e anche a diffidare di questo pensiero globalizzante che ha il solo scopo di ficcare in testa alla gente che “per i problemi globali ci vuole un governo globale”.

Globalmente, l’accesso all’acqua non è un problema e non lo sarà, anche con la tensione demografica. Lo ripeto: il problema futuro saranno piuttosto le alluvioni che le siccità. Quanto alla fusione di certi ghiacciai, essa non minaccia in alcun modo il ciclo dell’acqua. Il BRGM2 ci dice che il volume delle falde freatiche mondiali è di 10 milioni di miliardi di m3, cioè a dire 1,5 milioni di m3per abitante nelle sole falde freatiche. Queste acque sotterranee costituiscono il 60% delle acque continentali; e le falde più profonde, a debole capacità di rinnovo, restano dove sono da più di 70.000 anni.

Un’altra impostura nel modo di trattare il problema dell’acqua è che si presenta la diga come un problema, una fonte di conflitti fra gli Stati a monte e gli Stati a valle. Anche qui, il peso dell’ideologia: la diga è come la frontiera, è un muro, e ai nostri giorni i muri non piacciono; l’ideologia dominante ama solo la circolazione senza vincoli, la circolazione degli uomini, la circolazione delle merci, la circolazione delle acque, anche quando sono alluvioni… Il sogno preferito dell’ideologia dominante, subito dopo il meticciato, è proprio la circolazione.

Ora, al contrario di quel che si afferma di solito, le dighe per la produzione di energia idroelettrica non consumano acqua. La diga viene attraversata dal volume totale d’acqua, che transita sia attraverso le turbine, sia attraverso il canale di scarico delle piene. Le perdite per evaporazione, in dighe di questo tipo, sono modestissime o nulle, perché a quelle altitudini fa freddo, anche nelle zone tropicali.

Non solo le dighe non consumano acqua, ma recuperano la sua energia e lottano contro l’erosione. Contribuiscono al contenimento delle piene. La diga non sbarra la via all’acqua, la trattiene provvisoriamente.

Ciononostante, gli Stati a valle non tollerano che gli Stati a monte facciano delle dighe, come l’Egitto e il Sudan che vogliono impedire all’Etiopia di costruire dighe sul Nilo Azzurro, come il Laos, la Cambogia e la Tailandia che si preoccupano dei progetti cinesi sul Mekong. O come l’Uzbekistan che si irrita contro il Tagikistan.

Il vero oggetto di questi conflitti non è l’acqua, è l’elettricità, perché lo Stato a valle non vuole vedere lo Stato a monte produrre la sua propria elettricità, che poi dovrà pagargli a prezzo di mercato. E’ una classica gelosia tra vicini.

Allora fa fine saltare addosso alla Cina e criticarla per la sua diga delle Tre Gole3.

Si dimentica che le Tre Gole sono sul fiume Yangzi Jiang, il più lungo fiume dell’Asia, e senz’altro il più pericoloso del mondo. La verità è che la diga delle Tre Gole ha migliorato la situazione, pur senza annullare il rischio di piene catastrofiche. La capacità della diga, disgraziatamente, è insufficiente a un’efficacia preventiva del 100%. Raccoglie soltanto 34 miliardi di m3, cioè meno del 4% dell’acqua convogliata alla sua imboccatura ogni anno. Gli sversamenti possono ancora superare i 100.000 m3/s, e raggiungere, a valle, i 17 metri di altezza dal livello del suolo. Nel settembre 1998, prima della costruzione della diga, al centro di Wuhan l’onda di piena ha raggiunto i 29 metri, causando la morte di migliaia di persone. Ma la diga regola le piene medie, il che è già molto, e produce 85 miliardi di kWh, l’equivalente di 20 centrali nucleari o di 50 milioni di tonnellate di carbone all’anno.

Bisognerà che un bel giorno i radical-chic4 d’occidente, installati nei loro comfort dopo due secoli di domesticazione dei fiumi e di progressi in materia di trattamento delle acque, autorizzino finalmente i popoli di Asia, d’America Latina e persino d’Africa ad apportare gli stessi miglioramenti. Proprio gli stessi radical-chic d’Europa che si attestano su posizioni dogmatiche in quasi tutti i campi scientifici, che si tratti del gas di scisto, degli OGM o di tutte le altre possibilità che la scienza degli ingegneri ci offre, e che ha costruito la potenza dell’Occidente e la sua superiorità sulle altre civiltà dal XVI secolo in poi. Com’è come non è, gli unici progressi scientifici che si augura questa gente sono quelli che permetterebbero di distruggere lo statuto della famiglia come base della nostra civiltà.

Qualche anno fa, come molti studiosi di geopolitica, sono stato sensibile al tema dell’acqua. Come tutti, amo la Natura, e mi sono detto che forse, qui c’era un vero problema ecologico. Ma bisogna fare, anzi rifare dell’idrogeologia, prima di fare dell’idropolitica, come bisogna rifare la climatologia prima di impegnarsi a testa bassa nell’ideologia del riscaldamento globale di origine antropica. Nel 2009, alla frontiera che separa la repubblica Dominicana da Haiti, nelle piantagioni di banani inondate dal lago salato Enriquillo (che fa da frontiera tra i due paesi vicini) ho scoperto che non esistevano soltanto mari chiusi in via di prosciugamento come il mare d’Aral, del quale si parla sempre, ma che questo lago immenso, invece, si estendeva ogni giorno di più. Insomma, tale e quale ai ghiacciai. Certi si riducono, mentre altri si estendono. Eppure, ai miei figli si parla solo dei primi.

Il professor Aron Wolf, citato da Bjorn Lomborg, faceva notare, dopo aver analizzato le crisi mondiali del XX secolo, che su 412 conflitti catalogati tra il 1918 e il 1994, solo 7 avevano l’acqua come causa parziale, e che in 3 casi su quei 7 non è stato sparato un solo colpo. Un po’ pochino per annunciare la prossima “guerra dell’acqua”.

Insomma, l’acqua è certamente una fonte di conflitto geopolitico, e oggi bisognerà chiedersi che ruolo ha l’acqua nel conflitto israelo-palestinese, nelle relazioni Turchia/Siria/Iraq, interrogarsi sull’acqua in Asia centrale, sul Nilo Bianco, il Nilo Azzurro e tanti altri casi, ma appena cominciate a interessarvi seriamente dei problemi idrogeologici, comprenderete che praticamente tutti questi casi hanno soluzioni scientifiche, e che una guerra costerà sempre molto più cara di parecchi impianti di dissalazione.

Spingiamo più oltre la riflessione. Perché si fa credere alle opinioni pubbliche che qualcosa di essenziale alla loro vita (che cosa c’è di più essenziale dell’acqua?), d’insostituibile, che può suscitare violente reazioni dell’istinto di sopravvivenza, si sta rarefacendo, quando è falso?

Credo che proprio qui la questione dell’acqua in quanto “problema globale” coincida con quella del terrorismo come “problema globale”, e con tutti i “problemi globali”.

Da un canto si spingono alla guerra i popoli confinanti facendo loro credere che sono investiti da un problema geopolitico, quando invece obiettivamente (scientificamente) non è affatto così, dall’altra gli si spiega che la soluzione è globale, e che dunque ci vuole una potenza globale, un potere mondiale, per spegnere questo conflitto.

Da un canto si spinge verso la guerra, dall’altro si spinge verso l’estinzione della sovranità statale.

Chi ha interesse, insomma, a creare disordine per installare più facilmente il suo nuovo ordine globale? Chi ha interesse a destabilizzare i paesi emergenti, a sbarrare la via al multipolarismo che si sta costruendo, a mettere i bastoni fra le ruote a chi vuole incamminarsi sulla via del progresso scientifico e della domesticazione delle forze della Natura che l’Occidente ha imboccato tre secoli fa?

1 Jean de Kervasdoué, Henri Voron, Pour en finir avec les histoires d’eau : L’imposture hydrologique, Paris: Plon 2012

 

2 Bureau de Recherche Géologiques et Minières : http://www.brgm.fr/ [N.d.T.]

 

4 Traduco così l’espressione usata dall’Autore, che in Italia non è di uso corrente: “bobos”. “Radical-chic” non indica esattamente la stessa cosa: in francese, “bobos” cioè “bourgeois-bohéme” designa le persone relativamente agiate e istruite che professano valori “di sinistra” soprattutto nel campo dei diritti delle minoranze, della libertà sessuale, etc. In Italia, il “bobo” corrisponde con una certa precisione al lettore ideale di “la Repubblica”. [N.d.T.]

testo originale non più disponibile on line

Publié par Aymeric Chauprade le 16 août 2013 dans Articles – 6 commentaires

Une conférence donnée à la Webster University (USA) de Genève, le 8 février 2013, en introduction au Forum consacré au facteur de l’eau dans les relations internationales.

Quand Alexandre Vautravers m’a demandé de venir introduire ce colloque sur l’eau et la sécurité, j’avoue d’abord avoir eu une petite réticence, non parce que c’était Alexandre (c’est un esprit inclassable et libre), bien au contraire, mais parce qu’avec le temps j’ai appris à ne pas mettre d’eau dans mon vin, et donc pas d’eau… dans ma géopolitique !

Comme beaucoup, j’ai commencé avec les idées dominantes et à la mode sur ce thème, celles que l’on entend partout dans les colloques, les médias, et qui peuvent se résumer de manière simple : « la planète va manquer d’eau et les hommes se feront la guerre pour l’eau ». Mais vous savez comme le monde fonctionne : quand on ne sait pas grand-chose, on suit les idées dominantes, puis quand on travaille soi-même le sujet, on découvre des choses qui ne vont pas forcément dans le même sens. Parmi les nombreux livres que j’ai lus, il y a en un un que je vous recommande en particulier : Pour en finir avec les histoires d’eau de Jean de Kervasdoué et Henri Voron.

Ce matin je vais encore nager à contre-courant et j’espère que mon intervention sera une introduction utile pour un colloque qui se veut exigeant, loin des modes, et libre dans ses conclusions. Mon but sera de rappeler quelques vérités hydrologiques qu’il faudra garder en tête durant cette journée.

Crédit photo : Kingbob86 via Wikimedia (cc)

Alors que l’on développe dans les opinions publiques cette idée que la raréfaction de l’eau sera le problème, il faut commencer par constater qu’aujourd’hui, et sans doute demain plus encore, c’est l’excès d’eau qui tue et tuera encore beaucoup plus que le manque d’eau.

La catastrophe écologique la plus meurtrière de ces 3 dernières années n’a pas été le tsunami de Fukushima, mais une inondation au Pakistan qui a tué plus de 20 000 personnes, en a déplacé des millions et noyé une surface représentant 40% de la superficie de la France soit 200 000 km2.

Prenez le bassin versant de l’Indus qui mesure à lui seul 1 081 000 km2 et qui une longueur de 3180 km. Son débit moyen annuel à l’embouchure est de 4000 m3/s soit 120 milliards de m3 par an. Le ruissellement intégral de 100 mm de pluies sur la moitié amont du bassin versant, à savoir 500 000 km2, génère un volume d’eau de 50 milliards de m3 en quelques jours, soit la moitié de l’abondance brute annuelle moyenne. L’inondation catastrophique est inévitable et le débit de crue habituel habituel au mois d’août peut alors être multiplié par 10 fois, de 4000 m3/s à 40000m3/s. L’eau peut alors monter très haut et inonder des surfaces considérables.

Dans les gorges du Yangzi Jiang, l’ancien fleuve Bleu, en Chine, la hauteur des eaux a varié de plus de 60 m. Dans le Douro inférieur, au Portugal, en décembre 1909, les eaux ont monté de plus de 26 m au-dessus de l’étiage. En France, les niveaux records par rapport aux zéros des échelles officielles ont atteint, pour la Garonne 8,32 m à Toulouse et 11,70 à Agen, pour la Loire, 7,52 à Tours, pour la Seine 8,60 au pont d’Austerlitz à Paris, pour la Rhône, 8,3 à Avignon.

Mais cela est rien à côté du Mississipi qui, à l’aval de Cairo, a submergé en 1882, 9 millions d’ha soit plus que la surface de la Belgique et de la Hollande réunies.

Le Yangzi Jiang s’est répandu sur des étendues comparables en 1931 et 1954 et, en ces circonstances, aurait détruit les habitations de plus de 20 millions de personnes. Pour la seule crue de 1931, on aurait déploré plus de 100 000 morts.

Crédit photo : KoS (cc)

L’eau est une ressource menaçante et il est en réalité plus facile de lutter contre la sécheresse que contre les inondations. Les crues sont soudaines et violentes et la sécheresse est lente et progressive. Les crues détruisent les habitations, les réserves de grain et de paille, les hommes et le bétail, alors qu’au pire la sécheresse les déplace.

Maintenant que j’ai rappelé cette réalité qui risque même de s’aggraver d’après les hydrologues, je voudrais maintenant donner quelques chiffres, là encore pour casser quelques mythes trop répandus.

Il y a trois grands réservoirs d’eau sur terre : la mer, la terre et l’air (l’atmosphère).

La Mer est le réservoir de loin le plus volumineux, 1338 millions de milliards de m3 (ou de tonnes d’eau). Cette mer qui est donc la principale source d’évaporation et donc de pluies.

Et puis il y a la Terre qui représente 48 millions de milliards de m3 ce qui représente 3,5% de la masse de l’eau de mer.

Tordons ici le coup à quelques mythes à propos de la fonte de certains glaciers.

Il y a 33 millions de milliards de m3 immobilisés sous forme de glace sur Terre et gardez bien à l’esprit que sur ces 33 il y en a déjà 32,6 qui sont l’Antarctique et le Groenland et qui ne sont pas de la glace mais que l’on peut considérer comme une forme de roche en place depuis 15 millions d’années, dont la température moyenne est de -70% et qui est très différente de la glace des glaciers alpins et Himalaya lesquels ne représentent que 600 000 milliards de m3.

Oui ces glaciers continentaux reculent pour certains, du fait du réchauffement climatique observé depuis 1850; mais, pour autant, l’erreur souvent faite par le grand public est de croire que parce que certains glaciers reculent alors le volume d’eau disponible dans les fleuves à l’aval de ces glaciers baisse. C’est faux. Dans le cas du Rhône par exemple, on n’a observé aucune réduction du débit moyen depuis 150 ans.

Il est important d’avoir en tête que le stockage provisoire de l’eau dans un lac ou sous la forme d’un glacier ne change rien au cycle de l’eau. 

Avec ou sans glacier, les montagnes du monde sont des châteaux d’eau. Même sans glaciers, toutes les montagnes stockent de l’eau pendant les périodes humides pour la restituer en périodes plus sèches. Il n’y a pas de glacier pour alimenter l’Amazone, le fleuve le plus puissant du monde, pas plus que l’Orénoque ou le Rio de la Plata en Argentine ; c’est aussi le cas du Nil, le fleuve le plus long du monde, du Congo, du Zambèze, des grandes fleuves sibériens, du Mississipi et du Saint-Laurent.

Donc revenons à nos 48 millions de milliards de m3 d’eau douce sur lesquels on retirera nos 33 de glace et il nous reste quand même 15 vrais millions de milliards d’eau douce (lacs, rivières, fleuves, nappes phréatiques, sols humides) ce qui fait quand même, pour 7 milliards d’être humains, un stock d’eau douce personnel de 2 millions de m3 sachant qu’un Français consomme en moyenne chaque année 100 m3, même s’il vit 100 ans, cela représente 10 000m3 de consommation sur un potentiel de 2 millions soit 0,5%.

Il est important de rappeler ces chiffres car même si nous savons que les choses sont plus compliquées, cela nous amène à relativiser la trace humaine dans le cycle de l’eau, au niveau global (planétaire) et surtout à bien différencier le soit-disant problème global de l’eau des problèmes locaux liés à l’eau, problèmes que je ne veux surtout pas minorer.

Pour résumer ma philosophie sur le problème de l’eau : les problèmes sont locaux mais le mensonge est global.

Je continue sur les réservoirs. J’ai parlé de la mer, de la terre, n’oubliez pas le troisième réservoir, l’atmosphère, qui est le moins doté des trois réservoirs, 17000 milliards de m3 sous forme de vapeur, de fines gouttelettes d’eau et de glace et qui forment les nuages.

Je passe les détails, mais le jeu entre ces trois réservoirs est ce que l’on appelle le cycle de l’eau, il est équilibré évidemment, ce qui fait que le niveau de la mer est constant.

Quant on a fait tous les calculs, en prenant en compte l’eau qui tombe, celle qui s’évapore, celle qui retourne à la mer par les fleuves, on arrive à ce que l’on appelle l’abondance brute mondiale, c’est à dire finalement la disponibilité pour l’Humanité et elle est de 47 000 milliards de m3 par an soit 6700 m3 par an pour chacun des 7 milliards d’être humains. Ces 6700 m3 sont une moyenne car pour un Français, la disponibilité est de 2 800m3par habitant et si je vous dis que ce que ce Français (c’est-à-dire lui-même mais aussi, ses industries, ses services…) consomme c’est seulement 100 m3 par an sur ces 2 800m3.

Là encore revenons aux réalités et tordons le cou aux fausses idées véhiculées par l’idéologie médiatique.

Il faut avoir en tête que les ménages, l’industrie, les services, les villes de toutes tailles rendent au milieu naturel pratiquement 100% de l’eau qu’ils utilisent. L’eau ne fait que passer ; elle est retraitée ; donc ce qui est consommé ce n’est pas l’eau mais un service de distribution d’eau potable. Il ne faut pas confondre l’eau et le service de l’eau. Ce n’est pas la même chose.

La seule vraie consommation d’eau, celle qui ne retourne pas à la mer, c’est l’irrigation, car dans ce cas l’eau est alors évaporée et ne se retrouve pas à l’état liquide dans son bassin versant. Or tout le monde sait que l’irrigation constitue aujourd’hui une petite part dans l’agriculture mondiale.

Pourtant des contre-vérités sont sans cesse colportées. Prenons cette affirmation de Claude Allègre : « Si tous les hommes de la planète consommaient autant d’eau des fleuves que les Européens, ce prélèvement constituerait la moitié du débit des fleuves en moyenne. Si en outre, la population mondiale augmentait de 50%, passant à 9 milliards, et que le niveau de vie s’améliorait partout pour se mettre à niveau des Européens, alors l’homme prélèverait 80% de l’eau des fleuves ».

De ces propos transparaissent, outre la sempiternelle culpabilisation de l’Européen, et l’idéologie malthusienne selon laquelle la croissance démographique est nécessairement un fléau, plusieurs erreurs scientifiques. Ils laissent d’abord croire que les fleuves sont les seules ressources en eau, ce qui n’est pas exact puisque 60% de l’eau des continents tient aux nappes phréatiques. Ensuite, ces propos laissent penser que toute agriculture est irriguée, que l’élevage n’existe pas, que la hausse des niveaux de vie s’accompagne nécessairement d’une hausse parallèle des consommations d’eau. Or les consommations dans les fleuves français, sont faibles par rapport à leur débit (3%) et ces prélèvements n’augmenteront pas car l’irrigation ne se développera que très marginalement. D’ailleurs, depuis une vingtaine d’années, les prélèvements domestiques d’eau baissent en France alors que le niveau de vie a doublé. Là encore je vous renvoie aux analyses remarquables de Jean de Kervasdoué et Henri Voron.

Il est absolument impossible que l’humanité consomme 80% de l’eau de ses fleuves et évapore 47 000 milliards de m3 d’eau par an. Pour cela il faudrait irriguer 4 milliards d’ha supplémentaires soit 80 fois la surface de la France sur une base de consommation en eau de 10 000 m3 par ha. On pourrait y récolter 20 milliards de tonnes de céréales supplémentaires alors que l’humanité ne produit et consomme aujourd’hui que 2,5 milliards de tonnes. Par ailleurs, les terres arables ne couvrent que 1,4 milliards d’ha à ce jour soit environ 10% des terres émergées. On ne voit pas comment les multiplier par 2.5

Les continents ne sont pas assez grands pour accueillir plus de 5,4 milliards de terres arables!

Donc si nous voulons aborder les problèmes géopolitiques de l’eau, que je ne nie pas évidemment, il faut commencer par ne pas massacrer la vérité scientifique (hydrologique en la matière) et même par se méfier de cette pensée globalisante qui n’a d’autre but, que de mettre dans la tête des gens « qu’à problème global il faut gouvernement global ».

Globalement, l’accès à l’eau n’est pas un problème et ne le sera pas, même avec la tension démographique. Je le répète, le problème à venir sera davantage la crue que la sécheresse. Quant à la fonte de certains glaciers, elle ne menace en rien le cycle de l’eau. Le BRGM nous dit que le volume des nappes phréatiques mondiales est de 10 millions de milliards de m3 soit 1,5 million de m3 dans les nappes pour chaque habitant. Ces eaux souterraines constituent 60% des eaux continentales et les nappes les plus profondes à faible capacité de renouvellement sont là depuis 70000 ans.

Une autre imposture du traitement du problème de l’eau est celui du barrage que l’on présente comme un problème, une source de conflits entre États amont et État aval. Là encore, le poids de l’idéologie joue, le barrage, c’est comme la frontière, c’est un mur, et l’on n’aime pas les murs de nos jours ; l’idéologie dominante n’aime que la circulation sans contrainte, la circulation des hommes, la circulation des biens, la circulation des eaux, même quand il s’agit d’eaux en crues… Plus que la circulation l’idéologie ambiante ne rêve que de métissage.

Or contrairement à ce qui est souvent affirmé, le barrage hydroélectrique ne consomme pas d’eau. Il est traversé par la totalité du volume d’eau qui transite soit par les turbines, soit par l’évacuateur de crues. Les pertes par évaporation sur le plan d’eau de ce type de barrages sont faibles, voire nulle, car il fait froid en altitude, même en zones tropicales.

Non seulement les barrages ne consomment pas d’eau mais ils récupèrent son énergie et luttent contre l’érosion. Ils participent à la maîtrise des crues. Le barrage ne barre pas l’eau, il la retient provisoirement.

Pourtant, les États aval ne supportent pas que les États amont fassent des barrages, tels l’Égypte et le Soudan qui veulent empêcher l’Ethiopie de construire des barrages sur le Nil bleu, tels le Laos, le Cambodge et la Thaïlande qui s’inquiètent des projets chinois sur le Mékong. Comme encore l’Ouzbékistan qui se fâche contre le Tadjikistan.

Le vrai sujet de ces querelles ce n’est pas l’eau, c’est l’électricité, l’État aval n’ayant pas envie de voir l’État amont produire sa propre électricité qu’il devra payer lui au prix du marché. C’est une jalousie classique de voisin.

Alors il est de bon ton de tomber sur le dos de la Chine et de la critiquer pour son barrage des Trois Gorges.

On oublie ce qu’est le fleuve Yangzi Jiang, plus long fleuve d’Asie et sans doute le fleuve le plus dangereux du monde. La vérité c’est que le barrage des Trois Gorges a amélioré la situation, sans avoir supprimé le risque de crues catastrophiques. Sa capacité est malheureusement insuffisante pour être efficace à 100%. Il ne stocke que 34 milliards de m3, soit moins de 4% de l’eau charriée à l’embouchure chaque année. Les débits peuvent encore dépasser 100 000 m3/S et atteindre en aval une côte de 17 m au dessus du niveau de la plaine. En septembre 1998, avant la construction du barrage, la côte de 29 m a été atteinte au centre de Wuhan, causant la mort de milliers de personnes. Mais il régule les crues moyennes et c’est déjà beaucoup et il a produit 85 milliards de kWh, l’équivalent de 20 tranches de centrales nucléaires ou de 50 millions de tonnes de charbon par an.

Il faudra un jour que les bobos d’Occident, installés dans leur confort après deux siècles de domestication des fleuves et de progrès en matière de retraitement des eaux, autorisent enfin les peuples émergents d’Asie, d’Amérique Latine et même d’Afrique à procéder aux mêmes améliorations. Ces bobos d’Europe qui campent sur des positions dogmatiques dans presque tous les domaines scientifiques, qu’il s’agisse du gaz de schiste, des OGM ou de toute autre possibilité que la science des ingénieurs nous apporte et qui a fait la puissance de l’Occident et sa supériorité sur les autres civilisations depuis le XVIème siècle. Bizarrement, les seuls progrès scientifiques que souhaitent ces gens sont ceux qui permettraient de détruire le statut de la famille comme socle de notre civilisation.

La mer d’Aral en 2003. Crédit photo : Staecker (cc)

Il y a quelques années, comme beaucoup de géopolitologues, j’ai été sensible au thème de l’eau. J’aime la Nature comme nous tous, et je me suis dit qu’il y avait peut-être un vrai problème écologique de ce côté-là. Mais il faut refaire de l’hydrologie avant de faire de l’hydropolitique, comme il faut refaire de la climatologie avant de s’engager tête baissée dans l’idéologie du réchauffisme d’origine anthropique. En 2009, à la frontière séparant la République dominicaine et Haïti, dans les bananeraies inondées du lac salin Enriquillo (qui fait frontière entre les deux pays voisins), j’ai découvert qu’il n’y avait pas que des mers fermées en voie de rétraction comme la mer d’Aral, dont on parle tout le temps, mais que ce lac immense, lui, s’étendait chaque jour davantage. Comme pour les glaciers donc. Certains rétrécissent, pendant que d’autres s’étendent. Pourtant, à mes enfants on ne parle que des premiers.

Le professeur Aaron Wolf cité par Bjorn Lomborg faisait remarquer, après avoir analysé les crises mondiales du XXème siècle, que sur 412 conflits répertoriés entre 1918 et 1994, seulement 7 eurent l’eau comme cause partielle et que dans 3 cas sur 7 aucun coup de feu ne fut même tiré. Cela fait quand même léger pour nous annoncer “la guerre de l’eau” à venir.

Alors bien sûr, l’eau est une source de litige géopolitique et il faudra s’interroger aujourd’hui sur la place de l’eau dans le conflit israélo-palestinien, sur les relations Turquie/Syrie/Irak, sur l’eau en Asie centrale, sur le Nil bleu et le Nil blanc et tant d’autres cas, mais à partir du moment où vous vous penchez sur les problèmes hydrologiques, vous comprenez que pratiquement tous les cas considérés ont des solutions scientifiques et qu’une guerre coûtera toujours beaucoup plus cher que plusieurs usines de désalement.

Poussons la réflexion plus loin. Pourquoi fait-on croire aux opinions publiques que quelque chose d’essentiel à leur vie (quoi de plus essentiel que l’eau ?), d’incontournable, qui peut susciter des réactions violentes de survie, va se raréfier alors que c’est faux ?

Je crois que c’est là que la question de l’eau en tant que “problème global”, rejoint celle du terrorisme comme “problème global”, et de tous les problèmes globaux.

D’un côté on pousse des peuples voisins à la guerre en leur faisant croire qu’ils ont un problème géopolitique alors qu’objectivement (scientifiquement) ils n’en ont pas, de l’autre on leur explique que la solution est globale, qu’il faut donc une puissance globale, un pouvoir mondial, pour éteindre ce conflit.

D’un côté on pousse à la guerre, de l’autre on pousse à l’extinction de la souveraineté étatique.

Qui aurait donc intérêt à créer ainsi du désordre pour mieux installer son nouvel ordre global ? Qui donc a intérêt à déstabiliser les émergents, à barrer la route à la multipolarité qui se met en place, à gêner ceux qui veulent emprunter le chemin du progrès scientifique et de la domestication des forces de la Nature que l’Occident commença à emprunter il y a trois siècles?

Aymeric Chauprade

L’Italia nella transizione globale ed epocale, di Gennaro Scala

Qui sotto un contributo alla lettura, offerta dal sociologo Gennaro Scala, delle recenti vicende politiche italiane alla luce delle dinamiche di conflitto e confronto geopolitico. Buona lettura_Germinario Giuseppe

L’Italia nella transizione globale ed epocale*

Siamo nel pieno di una transizione che è allo stesso tempo globale ed epocale. Per comprendere tale transizione dobbiamo ritornare indietro, fino alla nascita del mondo moderno che avviene proprio in Italia, precisamente nelle città di Venezia, Genova, Milano e Firenze, e che mostra già in Venezia una vocazione all’espansione commerciale a-territoriale e priva di limiti. Lo storico marxista e globalista Immanuel Wallerstein esaltava nel suo I volume sul “moderno sistema-mondo” quale dimostrazione di precoce modernità e “grande saggezza” la decisione di Venezia, che aveva dato un contributo decisivo alla sconfitta di Costantinopoli, attraverso la flotta e il finanziamento commerciale della IV crociata, di non assumersi l’eredità dell’Impero bizantino, preferendo piuttosto assicurarsi solo lo sbocco sui principali porti commerciali. Dopo la sconfitta delle città italiane, all’inizio del XVI secolo, la palla passerà alle altre potenze dell’epoca, che seppur meno ricche delle città italiane (secondo Braudel la sola Genova ancora nel XVI secolo aveva una ricchezza maggiore dell’intera Francia), ma che erano riuscite, a differenza dell’Italia, a costituirsi come stato unitario (vedi in merito la fondamentale correzione di Charles Tilly al metodo marxiano che insieme alla concentrazione del capitale considera la concentrazione del potere coercitivo – Stato – quale seconda variabile decisiva per la comprensione delle dinamiche delle società moderne.) Con la progressiva scomparsa dell’eredità del Sacro Romano Impero, le due principali potenze, il cui conflitto determinerà le sorti dell’Europa saranno la Francia e l’Inghilterra, il cui secolare conflitto si concluderà con la sconfitta di Napoleone e con la vittoria delle tendenze centrifughe all’interno dell’Europa, cioè con la tendenza a risolvere i conflitti interni dell’Europa attraverso l’espansione esterna che diventerà globale, mentre le tendenze centripete (cioè volte al raggiungimento di un ordine interno all’Europa), troveranno in Napoleone la maggiore quanto inadeguata espressione, a causa dell’approccio fondamentalmente militaristico (vedi in merito il fondamentale lavoro di Victoria Tin-Bor Hui, War and State Formation in Ancient China and Early Modern Europe).

Con straordinario intuito il grande storico inglese Arnold Toynbee, considerato che quando scrisse il suo libro Civiltà al paragone, qualche anno dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’Unione Sovietica, appena uscita vincitrice dalla II guerra mondiale, sembrava costituirsi come l’affermarsi in scena di una potenza “comunista” stabile, ipotizzò che in realtà il comunismo era stato il modo in cui la civiltà russa-ortodossa aveva reagito ad una minaccia mortale, attraverso l’adozione di un’ideologia frutto della crisi della civiltà europea. Sia la civiltà russa-ortodossa che la civiltà sinica sono uscite vincitrici dalla prova del fuoco della modernità, adottando tramite delle rivoluzioni, gli aspetti delle società occidentali necessari al fine di costituire quella potenza industriale e militare atta a far fronte all’espansionismo occidentale. Mentre non sono riuscite a superare questa prova la civiltà islamica e la civiltà africana, il che sarà fonte di enormi problemi in futuro (ad es. il fatto che il continente africano sia in piena espansione demografica, si ritiene che raddoppierà la popolazione in trenta anni, va vista all’interno di un conflitto demografico tra civiltà).

Dopo il “crollo dell’Unione Sovietica” era sembrato alla potenza guida dei paesi occidentali che si potesse rilanciare l’espansionismo globale e che gli Usa, con l’alleanza dell’Europa, potessero diventare l’unica potenza globale. Invece, come già oggi evidente, era stato solo un processo attraverso cui la Russia si era liberata dell’involucro comunista, utilizzato all’uopo per far fronte alla “minaccia mortale” di cui parlava Toynbee, ma non più adeguato agli scopi della potenza russa. Quindi il “crollo del comunismo” è stata una crisi di trasformazione che ha riportato sulla scena mondiale la potenza russa senza più i limiti dell’ideologia comunista.

Con la crisi del mondo bipolare Usa-Urss (iniziato prima del “crollo del muro” vero e proprio, quando già, a chi ha strumenti di informazioni più efficaci rispetto ai mass media, l’Unione Sovietica appariva in crisi irreversibile) le classi dominanti occidentali avevano perso lo stimolo fondamentale che aveva portato, fino alla fine degli anni sessanta a curare l’ordine interno, il consenso e l’inclusione della classi popolari (termine con cui intendo sia le classi medie che inferiori)e a trattare con le loro rivendicazioni. Iniziava la lunga fase del cosiddetto neo-liberismo che è stato soprattutto un lungo e micidiale attacco alle conquiste delle classi popolari, mirante alla loro esclusione e subordinazione (il vero obiettivo della precarizzazione dei rapporti di lavoro). Questo attacco è stato dovuto al fatto che le classi dominanti occidentali, scomparso il loro nemico principale, hanno ritenuto che non fosse più necessario conservare il consenso all’interno.

L’epoca seguita al crollo dell’Unione Sovietica è già terminata. Con il progressivo ritorno in scena della potenza russa, chiaritosi definitivamente con il decisivo intervento nella crisi siriana che ha evitato alla Siria una sorte simile a quella dell’Iraq, della Jugoslavia e della Libia, si è visto che gli Usa, come guida del mondo “occidentale”, non possono aspirare ad essere l’unica potenza mondiale. Essi dovranno fare i conti con l’esistenza della Russia e della Cina.

L’Italia è un pezzo minore, seppur non del tutto marginale, dell’Occidente. Queste elezioni italiane che hanno visto il prevalere dei partiti “populisti” vanno viste in questa fase di transizione di cui una tappa, sicuramente più importante, sono state le elezioni statunitensi che hanno visto la vittoria di Trump (il cui significato anch’esso epocale, quale fine dell’epoca della globalizzazione, ho cercato di delineare in un intervento in occasione della vittoria di Trump*). L’Italia mostra una fase avanzata di questa crisi all’interno delle nazioni europee, mentre in altre essa sembra ancora ad uno stadio iniziale, anche se il sistema politico ad es. della Germania, con l’allenza tra CDU e SPD, è già entrato in una crisi profonda. Il “populismo” è un riflesso di questa trasformazione in corso, che rende necessario curare l’ordine interno e l’inclusione delle classi popolari. Anche se il “populismo” la rappresenta in modo del tutto inadeguato, e di meglio non ci si poteva aspettare, data la distruzione di ogni cultura, non solo politica, un vero e proprio rimbecillimento collettivo, che si è avuto in questi ultimi decenni in “occidente” Mentre il “protezionismo” è necessario per difendere le industrie occidentali dalla globalizzazione che si è rivelata un boomerang (è oggi la Cina a dichiararsi a favore della globalizzazione). E’ evidente che tanto la Lega che il M5S sono inadeguati ad affrontare i problemi del paese, tuttavia almeno con essi resta la possibilità di un miglioramento, mentre invece l’Italia sarebbe sicuramente affondata nelle mani dell'(anti)berlusconismo, cioè il sistema politico basato sulla pseudo-opzione berlusconi sì/berlusconi no che ha asfissiato il contesto politico italiano per vent’anni, mentre gli apparenti contendenti hanno poi finito per allearsi, con gli ultimi governi basati sul sostegno di Pd e Fi.

Il significato del “populismo” è questo: le classi dominanti devono capire che è necessaria un’inversione di rotta, verso la cura dell’ordine interno che recuperi il consenso delle classi popolari, se invece continuerà la disgregazione interna dei paesi occidentali essi perderanno la sfida globale del domani rispetto ad altre civiltà che sono più compatte per il fatto stesso che sono in crescita. Il rischio maggiore è che le classi dominanti non siano in grado di compiere questa inversione di rotta e vogliano invece risolvere questa crisi attraverso la Tecnica, cioè attraverso l’utilizzo di armi terribili (Putin ha detto qualche giorno fa con la massima chiarezza di essere in grado di neutralizzare, con la realizzazione di nuove armi tra cui un nuovo tipo di missile intercontinentale, questo obiettivo). Il compito comune della politica in “occidente” è oggi realizzare questa inversione di rotta, e il compito di tutte le persone di buona volontà in tutto il mondo è evitare i rischi immani di uno scontro di civiltà.

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* Questo intervento molto sintetico riprende, per quanto riguarda il quadro storico, alcuni temi trattati più ampiamente in altri scritti interventi pubblicati in internet, tra i quali principalmente:

Il paradigma machiavelliano oltre i soliti schemi ideologici
1) http://www.lintellettualedissidente.it/filosofia/niccolo-machiavelli-paradigma/
2) http://www.lintellettualedissidente.it/filosofia/niccolo-machiavelli-paradigma-2/

3) http://www.lintellettualedissidente.it/filosofia/niccolo-machiavelli-paradigma-3/

Ripensare la rivoluzione francese

http://www.opinione-pubblica.com/ripensare-la-rivoluzione-francese/

Il paradigma machiavelliano (video)

https://www.youtube.com/watch?v=cXIRTx6oMdQ

Per quanto riguarda l’analisi della vittoria di Trump

Endgame for globalization

https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=58220

Letture sul dramma di Macerata: lo scontro delle secolarizzazioni, di Alessandro Visalli

Tratto con l’autorizzazione dell’autore da https://tempofertile.blogspot.it/2018/02/letture-sul-dramma-di-macerata-lo.html

articolo inerente di Visalli http://italiaeilmondo.com/2018/02/20/letture-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni-di-alessandro-visalli/

Il mio amico Roberto Buffagni ha una ipotesi circa i fatti di Macerata, nelle Marche, in cui si è consumato un doppio orrendo fatto di cronaca: alcuni criminali di origine nigeriana, dediti a quanto sembra a spaccio di stupefacenti, avrebbero ucciso una povera ragazza anche essa dedita all’uso, dunque una cliente, e poi, forse per occultarne il cadavere, l’avrebbero fatta a pezzi e abbandonata in campagna. Successivamente un criminale italiano, a scopo di vendetta razziale, ha sparato su passanti di colore e si è quindi consegnato, avvolto in un tricolore.

Le indagini non sono concluse, e la dinamica non è completamente confermata, ma in alcune versioni emerge l’ipotesi, sposata da Buffagni nel suo pezzo, che l’omicidio sia stato in qualche modo una forma pervertita e corrotta di secolarizzazione (ovvero di utilizzo a fini economici di riti tradizionali) delle forme religiose tradizionali dell’area di provenienza degli attori. Certo, come sostiene Giorgio Cingolani, professore a contratto dell’università di Macerata ed antropologo, è del tutto prematuro connettere questi pochi fatti a ritualità pervertite o, come dice, a “personalizzazioni del rito ad opera di soggetti specifici”, ed è certamente improprio immaginare che questi fenomeni, dove si danno, siano di massa o “tradizionali”.

Al momento le indagini, quando l’udienza di convalida non si è neppure tenuta, non confermano, né escludono queste ipotesi, ma, come scrive la Repubblica: “restano invece aperti tutti i dubbi sul movente dell’omicidio: dal tentativo di stupro finito male al sacrificio rituale, ipotesi che gli inquirenti non escludono ma per le quali, al momento, non hanno prove”.

Tra l’altro giova ricordare che la Nigeria, il più popoloso stato africano, settimo al mondo, è sede di antica civilizzazione e dispone di un PIL di tutto rispetto (435 miliardi di dollari), maggiore di quello del Sud Africa; dal punto di vista religioso per lo più la popolazione è cristiana e mussulmana, solo l’1,4% è animista. La Nigeria, sin dal 1200 d.c. si specializza nell’essere un terminale commerciale essenziale tra il nord-africa (e poi gli occidentali) e l’Africa profonda, nel traffico degli schiavi e nell’economia di saccheggio che ne consegue. Dal 1600 gli occidentali fondano porti dedicati a tale tratta che diventa gradualmente egemone nel 1800 (in particolare diretta alle americhe). Dal 1901 è un protettorato e poi una colonia inglese, nel 1960 diviene indipendente e federale (36 stati). L’economia nigeriana è la prima del continente, la 26° nel mondo. Il settore agricolo determina il 22% del PIL, mentre il settore manifatturiero il 7%, il settore petrolifero determina il 15% del PIL ed il terziario il 52% (banche, cinema e telecomunicazioni).

 
Isaac Newton

L’unica cosa certa di questa vicenda è che una ragazza è morta, alcuni immigrati hanno tentato di occultare il cadavere, dissezionandolo, e un italiano in preda ad esaltazione ha tentato di fare giustizia sommaria su altri innocenti scelti a caso.

La vicenda mostra dunque un tessuto di violenza che attraversa la nostra società, messa sotto tensione dagli effetti di diversi sradicamenti e sul quale ci dovremmo interrogare.

Ma è anche vero, per quanto marginale e certamente non di massa, che in alcune aree centroafricane lo stesso sradicamento e troppo rapida secolarizzazione, sotto la spinta dell’esposizione senza filtri ai mercati ed al potere della tecnica (e del capitale), sta provocando fenomeni di perversione delle forme rituali tradizionali. Ci sono associazioni, tra cui la ALCR (questa la sua pagina Facebook), attiva in Gabon, che denunciano coraggiosamente gli omicidi rituali, spesso condotti per banali ragioni di successo economico in un contesto di elevata frammentazione etnica (circa 40 gruppi) e di religioni animiste (20% della popolazione) o sincretiche come il Bwiti, anche se il 75% della popolazione è identificata come cristiana. Si tratta comunque di poche centinaia di casi, spesso ricondotti a non meglio precisati “cultisti” (questo un articolo nigeriano), ma sono spia del disagio di una troppo rapida, e subalterna, trasformazione.

 
ALCR

Non ci sono dunque prove che l’episodio di Macerata sia connesso con i crimini che a volte si verificano nei paesi di provenienza e che le forze dell’ordine locali, le chiese e le religioni locali, e le associazioni combattono con vigore.

Ma il dibattito con Buffagni si è egualmente sviluppato come se tale ipotesi fosse possibile. In questo link la sua ripresa su Sinistrainrete. E in essa la reazione di due lettori, Eros Barone e Mario Galati, che con diverse sfumature richiamano al primato dell’economico di marxista memoria. In particolare Galati accusa la conversazione che è linkata nell’articolo e cui rinvio, di “scorrere tutta entro la dimensione pulsionale e sacrale dell’uomo”, fino a concepire la storia stessa solo come “storia religiosa”, ignorando o subordinando la “produzione e riproduzione della vita materiale”. In particolare, con riferimento al mio dire, si chiede se “constatare la persistenza di pulsioni primordiali e del senso del sacro possa spiegare la storia?” e, ancora, se “stabilire il nesso tra razionalismo e sviluppo capitalistico equivalga forse a rigettare il pensiero scientifico, in quanto semplice statuto disciplinare, paradigma convenzionale, o che dir si voglia?” Non mi è immediatamente chiaro cosa significhi “pensiero scientifico come statuto disciplinare, o paradigma convenzionale”, in quanto il pensiero scientifico è una sorta di habitus mentale e un insieme molto largo e comprensivo di pratiche sociali dotate di meccanismi verbali di inclusione ed esclusione; una cosa che va molto oltre lo statuto di una o più “discipline” e di convenzioni. Attraversa i “paradigmi” (nel senso di Thomas Khun) e non ne è incluso o rappresentato.

Ma la domanda sarebbe qui se il razionalismo occidentale sia, o meno, connesso con lo sviluppo storico del capitalismo, e se il riconoscimento di questa connessione debba portare direttamente a rigettare il pensiero scientifico, evidentemente in favore del primato di pulsioni o di sacralità (o, come dice Barone, del comunitarismo etnico). E, con le parole del professore di filosofia Eros Barone, al netto degli insulti o dei posizionamenti identitari, riassunti nell’etichetta di “dialettica e materialismo storico” ed ancora più nell’evocazione di passaggio dell’inferno (cui si contrappone simbolicamente un paradiso evidentemente rappresentato dal comunismo), se si debba alla fine parlare solo “dei rapporti di proprietà”, ed a questi ricondurre il fondo del conflitto e di ogni differenza.

Lo schema di Barone è molto tradizionale: è alla fine l’imperialismo che genera, alleva e fa prosperare la “prole mostruosa” del “bellicismo espansionista, del razzismo differenzialista, e del comunitarismo etnocentrico”. Prole che può essere sconfitta solo da un “vasto fronte popolare” in grado di fare l’operazione esattamente inversa a quella condotta dal capitale: unire ciò che questo vuole dividere (proletariato autoctono e immigrato), e dividere ciò che vuole unire (borghesia e proletariato). In altre parole è compito dei comunisti riportare lo scontro sul piano delle differenze di classe, proletari contro borghesi in relazione alle strutture di produzione imposte dal capitale, rigettando come false tutte le differenze di tipo etnico o culturale. Come si possa fare, senza farsi carico di comprendere il punto di vista e la percezione delle classi popolari, e continuando a ritenere di avere in toto il monopolio della Verità, mi sembra difficile da immaginare.

In questa direzione va comunque anche la richiesta di Galati di trovare piuttosto direzioni nelle quali agire, senza restare inchiodati alle carenze delle dimensioni primordiali e l’insufficienza di precarie “civilizzazioni”.

 
Gabon, articolo

Colgo l’invito a parlare prima di tutto delle condizioni materiali: anche se il fenomeno è disuniforme quanto ad impatto quantitativo (ma tende, per le modalità stesse che diremo, a concentrarsi, risultando differentemente percepito per i diversi gruppi sociali ed areali), la dinamica delle emigrazioni ed immigrazioni determina una complessiva ‘economia politica’ che è caratterizzata da importanti fenomeni di corruzione degli assetti sociali e culturali, di gestione come oggetti d’uso dei corpi estratti, e di potenziamento dello sfruttamento a causa dei normali meccanismi di creazione del valore di scambio. Per comprenderlo bisogna però fare prima una mossa, che ha qualcosa a che fare con il discorso che faremo su razionalismo e capitalismo: smettere di vedere le ‘economie povere’ come un vuoto. Una dimensione eguale alla nostra, ma con meno denaro. Se si inquadra, facendo uso di cecità educata da economisti, in questo modo l’emigrazione e la stessa trasformazione dell’ambiente di provenienza dei flussi umani immigrati alla fine è solo questione di razionalizzazione e sviluppo.

Propongo una diversa ipotesi interpretativa: che, cioè, sia più utile inquadrare il fenomeno come un progressivo allargamento dello spazio dominato e controllato dal mercato, e per esso dalla finanza, nell’intreccio di due “economie politiche” reciprocamente rimandantesi. Quella che avevo chiamatoeconomia politica dell’immigrazione”, la nostra, che fa scaturire una insaziabile e crescente spinta estrattiva e insieme di trasformazione (spingendo l’uomo a ripensarsi come ‘forza lavoro’, adattandosi alla relativa disciplina) che via via incorpora ‘risorse’ (umane) per fornire risposta ad una domanda di lavoro debole e disciplinato, insaziabilmente prodotta dall’attuale economia interconnessa e finanziarizzata (allo scopo di tenere in movimento la macchina deflazionaria contemporanea), nella quale tutti sono sempre in concorrenza con tutti sotto il pungolo del capitale mobile e continuamente valorizzante. È essenziale in questo senso che il meccanismo del recupero di margini di valorizzazione, attraverso la riduzione costante dei costi (in primis del costo più ‘inutile’, quello del lavoro), sia sempre in movimento; sia sempre un poco più veloce del paese vicino. Quindi è essenziale che il lavoro sia un poco più debole, un poco più disciplinato, giorno dopo giorno, anche a costo di espellere e sostituire chi non abbia la possibilità materiale di piegarsi, o non voglia. Il ricatto davanti al quale ci troviamo tutti è semplicemente che l’unica alternativa, in condizione di piena mobilità dei capitali, è che ad andarsene siano invece i processi produttivi. Dunque non resta che importare forza lavoro sempre più debole, per rendere debole quella che c’è, o lasciare tutti a casa. L’effetto di questa dinamica, trascinata dalla valorizzazione differenziale nella metrica della finanza che mette in contatto e costringe alla competizione il mondo intero, è che è nelle aree del lavoro debole che si concentra, in diretto contatto con coloro i quali sono sfidati e pungolati a ‘maggiore efficienza’ (che normalmente significa minori compensi a parità di lavoro produttivo), l’attrazione di ‘forza lavoro’ sostitutiva. Il processo è strutturalmente simile per i lavoratori-raccoglitori dei pomodori nelle piane pugliesi, o campane, per i lavoratori-manifatturieri nei cantieri navali o nelle fabbriche e fabbrichette in subappalto disseminati nelle nostre periferie industriali, per i lavoratori-domestici che sono nelle nostre case e per i lavoratori-professional che sono messi in competizione con le piattaforme. Ha dunque ragione chi dice che il problema è nel rapporto di forza con il capitale, ma nello stesso momento ha torto: perché nel dirlo non si fa carico davvero della materialità del problema nei luoghi in cui si determina.

Questa dinamica di attrazione differenziale, ulteriormente accentuata dal meccanismo stesso dell’attrazione (influenzato dal percorso, come dicono gli economisti, e quindi dalla preesistenza di reti di relazione, strutture sociali di accoglienza, “diaspore”) che tende ad accrescere la presenza dove è già maggiore, esercita obiettivamente una pressione al disciplinamento che è letto come oggettivamente violento (anche se la fonte non è nei corpi dei concorrenti per il lavoro debole ma in ciò che lo rende tale). Nessuno può riaprire una relazione sentimentale con le classi popolari se non comprende questa dinamica, se si limita intellettualisticamente a qualificare come brutti, sporchi e cattivi, e razzisti, coloro che se ne sentono vittime.

 
Il subcomandante Marcos

Nel suo testo “la IV guerra mondiale è cominciata”, Rafael Sebastián Guillén Vicente, noto come “il subcomandante Marcos”, denuncia questa situazione in questo modo:

“Il risultato di questa guerra di conquista mondiale è una grande giostra di milioni di migranti in tutto il mondo. ‘Straniere’ nel mondo ‘senza frontiere’ promesso dai vincitori della III Guerra Mondiale [ndr la guerra fredda], milioni di persone subiscono la persecuzione xenofoba, la precarietà del lavoro, la perdita dell’identità culturale, la repressione poliziesca, la fame, il carcere e la morte. ‘Dal Rio Grande americano allo spazio Schengen ‘europeo’, si conferma una doppia tendenza contraddittoria: da un lato, le frontiere si chiudono ufficialmente alle migrazioni di lavoro, per l’altro, interi rami dell’economia oscillano tra l’instabilità e la flessibilità, che sono i mezzi più sicuri per attrarre la manodopera straniera’ [Alain Morice, op, cit.]. Con nomi diversi, subendo una differenziazione giuridica, dividendosi una eguaglianza miserabile, i migranti o rifugiati o delocalizzati di tutto il mondo sono ‘stranieri’ tollerati o rifiutati. L’incubo della migrazione, quale che sia la causa che la provoca, continua a rotolare e a crescere sulla superficie del pianeta. Il numero di persone che sarebbero di competenza dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati [Acnur] è cresciuto in modo sproporzionato dai due milioni del 1975 a più di 27 milioni nel 1995. Distrutte le frontiere nazionali [dalle merci], il mercato globalizzato organizza l’economia mondiale: la ricerca e il disegno di beni e servizi, così come la loro circolazione e il loro consumo sono pensati in termini intercontinentali. In ogni parte del processo capitalista il ‘nuovo ordine mondiale’ organizza il flusso di forza lavoro, specializzata e no, fin dove ne ha bisogno. Ben lontani dal subire la ‘libera concorrenza’ tanto vantata dal neoliberismo, i mercati del lavoro sono sempre più condizionati dai flussi migratori. Quando si tratta di lavoratori specializzati, e anche se questa è una parte minore delle migrazioni mondiali, questo ‘travaso di cervelli’ rappresenta molto in termini di potere economico e di conoscenze. Però, si tratti di forza lavoro qualificata o semplice manodopera, la politica migratoria del neoliberismo è più orientata a destabilizzare il mercato mondiale del lavoro che a frenare l’immigrazione. La IV Guerra Mondiale [il riassestamento neoliberale], con il suo processo di distruzione/spopolamento e ricostruzione/riordinamento provoca lo spostamento di milioni di persone. Il loro destino sarà di continuare ad essere erranti, con il loro incubo sulle spalle, e di rappresentare, per i lavoratori impiegati nelle diverse nazioni una minaccia alla loro stabilità nel lavoro, un nemico utile a nascondere la figura del padrone, e un pretesto per dare senso all’insensatezza razzista che il neoliberismo promuove”.

Ma questa “economia politica” si affianca a quella “dell’emigrazione”, la “ricostruzione/riordinamento” si affianca alla “distruzione/spopolamento”. Perché le persone che sono ‘aspirate’ in occidente dalla domanda di lavoro debole, alimentano anche il trasferimento di poveri surplus monetari che insieme alla trasformazione dei pochi settori produttivi in industria da esportazione estranea al tessuto locale e dipendente dai capitali esteri, attraggono e corrompono, disgregandole, aree ancora relativamente esterne al circuito della valorizzazione, contribuendo a “monetizzarle”, ovvero a ricondurle entro il circuito astratto e impersonale del capitale e della sua logica. In qualche misura questo paradosso è stato oggetto di analisi della tradizione marxista sin dal suo avvio, e delle esitazioni dei suoi padri.

Questo processo va infatti inteso come “razionalizzazione”, ed alfine giudicato una sia pure dura necessità (come inclinava a pensare il vecchio Engels)? Oppure un non necessario sacrificio, un calice che potrebbe anche passare, se si avesse il tempo di prendere il proprio percorso (come inclinava a pensare il vecchio Marx, ma non il giovane)? Ha ragione lo zapatista e neo-anarchico Marcos o il marxista Negri?

In altre parole, questa ‘economia’ che, come avevamo scritto, corrompe in basso, gestisce in mezzo e sfrutta in alto è senza alternative, perché in fondo coerente con la direzione della Storia? O è solo coerente con quelli che chiamavo i “campi sentimentali” dei millennials (e dei loro profeti), che individualisticamente vedono la mobilità attraverso le frontiere come liberazione?

Ma la dura realtà, ben oltre gli immaginati campi del desiderio, o le palingenesi storiche, parla del semplice fatto che è la piena libertà di movimento dei capitali, nelle attuali condizioni e infrastrutture tecnico-legali (che significa anche sistema delle “città globali” di cui parla Sassen), che porta necessariamente, insieme alla libertà di spostamento delle merci (nelle condizioni della rivoluzione informatica), a quella insostenibile segmentazione delle catene produttive nei settori tradabili (o mobili) su lunghe filiere logistiche disegnata espressamente per massimizzare lo sfruttamento dei fattori non mobili (ambiente e lavoro), i quali restano al contrario localmente sempre abbondanti in senso relativo. E’ in questo contesto generale che interviene la libertà di movimento anche dei lavoratori, per tenere sempre abbondante il fattore poco mobile, dunque per tenerlo in condizioni di subalternità.

In altre parole, se nei settori in cui le produzioni sono rivolte a mercati globali (dunque in cui le merci, ovunque prodotte, possono essere vendute su ogni mercato alle stesse condizioni), si riesce a garantire anche la piena mobilità dei fattori produttivi capitale e conoscenza, si ottiene che questi possano andare sistematicamente a rintracciare quelle condizioni locali di relativa abbondanza del fattore mancante (lavoro ed ambiente) in modo che il saggio di sfruttamento complessivo sia massimo. Ciò a fronte del ricatto di non collocarsi lì ma andare dal secondo migliore e via dicendo.

L’immigrazione, dunque la resa in condizione mobile anche del lavoro, adempie precisamente questa funzione; a questo punto il capitale può generare ovunque le desiderate condizioni di inflazione (e quindi debolezza) del fattore che gli manca per valorizzarsi.

Si tratta di un meccanismo ovvio e di semplicissima e materiale geometria, all’opera da secoli e del tutto noto a Marx:

«Il progresso industriale che segue la marcia dell’accumulazione, non soltanto riduce sempre più il numero degli operai necessari per mettere in moto una massa crescente di mezzi di produzione, aumenta nello stesso tempo la quantità di lavoro che l’operaio individuale deve fornire. Nella misura in cui esso sviluppa le potenzialità produttive del lavoro e fa dunque ottenere più prodotti da meno lavoro, il sistema capitalista sviluppa anche i mezzi per ottenere più lavoro dal salariato, sia prolungando la giornata lavorativa, sia aumentando l’intensità del suo lavoro, o ancora aumentando in apparenza il numero dei lavoratori impiegati rimpiazzando una forza superiore e più cara con più forze inferiori e meno care, l’uomo con la donna, l’adulto con l’adolescente e il bambino, uno yankee con tre cinesi. Ecco diversi metodi per diminuire la domanda di lavoro e rendere l’offerta sovrabbondante, in una parola per fabbricare una sovrappopolazione. … L’eccesso di lavoro imposto alla frazione della classe salariata che si trova in servizio attivo ingrossa i ranghi della riserva aumentandone la pressione che quest’ultima esercita sulla prima, forzandola a subire più docilmente il comando del capitale» (Il Capitale, Libro, I, 7,25)

Questo docile comando del capitale (che, giova ricordarlo, non è persona ma meccanica) trasmette, attraverso la connessione indotta dai flussi di merci, denaro e persone (e, perché no, armi), i suoi effetti di corruzione attraverso la razionalizzazione e la divisione tra deboli. Questa corruzione si manifesta sia nei luoghi di estrazione sia in quelli di ricollocamento, dunque bisogna evitare entrambi gli errori: quello di considerare che se la lotta tra poveri favorisce lo sfruttamento degli uni e degli altri, allora bisogna negare che ci sia competizione, e quello di reagire solo difendendosi dai poveri più poveri.

Trovare un corso di azione non è facile, e per farlo abbiamo bisogno delle più rilevanti forze che siamo in grado di mettere in campo e dello Stato. Dobbiamo definire la nostra responsabilità, verso noi stessi e verso l’umano.

 
Samir Amin

L’economista marxista Samir Amin, in “La crisi”, del 2009, sottolinea la necessità di combattere quella tendenza intrinseca del capitalismo, ovvero del meccanismo di creazione del valore come differenziazione ed accumulazione, che crea periferie, schiacciandole. La macchina produttiva fa dell’uomo e della natura risorse, costringendolo nel tempo lineare e razionalizzato, misurabile, della scienza e con ciò ad alienarlo (si veda anche Lohoff, qui). Amin, già nel testo del 1973, “Lo sviluppo ineguale”, sostiene che in fondo il modo di produzione capitalista, che è interpretato come una forma storica creatasi in occidente in un contesto particolarmente predatorio, e di qui dispiegatasi nel resto del mondo travolgendo altre forme di organizzazione sociale (tra le quali le promettenti forme di protocapitalismo orientali, più lente e molto meno individualiste), lungi dall’essere una necessità storica (si può leggere su questo anche l’ultimo Marx) esprime invece una forma di razionalità specifica, connaturata ai suoi propri rapporti sociali ma anche limitata da questi. Le caratteristiche essenziali del modo di produzione capitalista (la generalizzazione della “forma-merce”, l’assunzione di tale forma da parte della “forza-lavoro”, quindi la reificazione e la proletarizzazione dell’uomo fatto produttore di merci, la finalizzazione ad essa delle attrezzature produttive tutte), si ritrovano peraltro intatte anche in molte forme di esperienza socialista reale, che è quindi un “capitalismo senza capitalisti”.

In altre parole, se entro il modo di produzione capitalista, fino a che si resta entro la sua logica, appare alla fine comunque razionale, e quindi invincibile, il calcolo economico e la competizione, con essa diventano anche inevitabili i rapporti sociali che esso determina (o meglio, che lo fondano); con la sua logica viene anche una specifica forma di gerarchia sociale. Comprendendo il capitalismo, invece, come figura storica (e non sopra-storica) diventa possibile accedere ad un piano di critica più profondo. Il calcolo economico, indiscutibile sul piano della valorizzazione del valore (e quindi della sua accumulazione, nel contesto dei rapporti sociali dati), diventa irrazionale se si tiene al centro il principio di una altra socialità: se la ricerca dell’autonomia porta a porre al centro la natura e la società tutta. Il calcolo economico, come scrive nel 1973 Amin, diventa allora riconoscibile come “irrazionale dal punto di vista sociale”.

Allora come si esce dalla trappola dell’intreccio delle due “economie politiche” (che possono anche essere scalate nel rapporto intraeuropeo tra paesi ‘arretrati’ come il nostro e ‘locomotive’ come la Germania, che estrae e reinserisce a fini di disciplinamento le nostre “risorse umane”)? Ovvero dalla trappola del sottosviluppo che si proietta su tutto il pianeta? La condizione per uscire dalle condizioni di “sottosviluppo” (ovvero da forme di organizzazione sociale, prima che economiche, rese subalterne e funzionalizzate da una logica esterna nella quale possono solo perdere sempre), è dunque necessariamente di uscire anche dalla “mondializzazione capitalistica”. Dove è il secondo termine ad essere qualificante: di “sganciarsi”, dunque.

Ma una parte non secondaria dello “sganciamento” è concettuale: riconoscere che l’illuminismo, con tutti i suoi meriti che non si negano, è anche il progetto di instaurare il capitalismo. Precisamente di insediare, al posto delle forme sociali precedenti, ormai disfunzionali (diagnosi che, come ovvio, autori come Burke, De Maistre ed altri contestano), una nuova società, fondata sulla ragione, anziché sulle consuetudini sociali e le forme di vita consolidate e immersive; una società capace di determinare in sé l’emancipazione dell’individuo. Individuo che quindi deve essere libero di operare, nella cornice di leggi, nel “modo economico” (ovvero entro l’ambiente competitivo dei “mercati”) e di scegliere attraverso la forma politica della democrazia (anche essa individuale, in qualche modo nella forma di un “mercato politico”). Ma come “i due versanti del progetto sono entrambi legittimati ricorrendo alla Ragione”, così questo si autodefinisce come “instaurazione di una Ragione trans-storica e definitiva – la fine della storia, dopo una preistoria priva di ragione” (Amin, p.77). Questa è la radice ideologica della rivoluzione borghese dalla quale anche i padri del marxismo (in particolare quelli che camminano nelle orme di Engels) hanno fatto fatica a vedere, e quindi a liberarsene (nell’unico modo in cui ci si libera di una idea: capirla).

Veniamo ora al punto che ci consentirà di rileggere la discussione con Buffagni in modo diverso: proprio per Samir Amin parte della rivoluzione deve interessare il mondo tradizionale agricolo, nel quale è impegnato ancora la gran parte dell’umanità (e la cui distruzione provoca le ondate migratorie). Se si guarda con attenzione si vede che l’agricoltura industrializzata del nord attiva un meccanismo di drenaggio strutturale, per il quale i profitti del capitale impiegato dagli agricoltori vengono sistematicamente intercettati dai segmenti dominanti del capitalismo industriale (la rete distributiva e di trasformazione) e finanziario (tramite il meccanismo del debito), situati necessariamente a monte, invece l’agricoltura povera del sud resta intrappolata in ancora più aspre condizioni di dominazione (dal capitale internazionale), e tanto più si modernizza tanto più espelle individui ormai inutili.

Ancora il subcomandante Marcos:

“La IV Guerra Mondiale sul terreno rurale, per esempio, produce questo effetto. La modernizzazione rurale, che i mercati finanziari esigono, punta a incrementare la produttività agricola, però quel che ottiene è distruggere le relazioni sociali ed economiche tradizionali. Risultato: esodo massiccio dai campi alle città. Sì, come in una guerra. Intanto, nelle zone urbane si satura il mercato del lavoro e la distribuzione diseguale del reddito è la ‘giustizia’ che spetta a coloro che cercano migliori condizioni di vita”.

Alla fine l’auspicata, dai fautori dello sviluppo, modernizzazione accelerata dell’agricoltura del sud creerebbe quindi, nel medio termine, eserciti immani di “inutili” come effetto della semplice logica propria della valorizzazione. Gli ‘inutili’ saranno però anche sradicati culturalmente, e costretti violentemente entro una logica del valore che non comprendono.

Dunque se bisogna che lo sviluppo (in quanto ‘sociale’ ed ‘umano’, e non ‘economico’) sia inclusivo e non escludente, bisogna anche che a lungo sopravviva un’economia contadina effettiva, cosiddetta “di sussistenza”, i cui rapporti con “i mercati” restino protetti e regolati. La prima forma di rivoluzione in molte parti del mondo è dunque il diritto all’accesso alla terra (anche superando le forme gerarchiche tradizionali, rivolte alla creazione di élite estrattive più che tributarie). Per tornare all’esempio della Nigeria, il più ricco paese africano (soggetto come tutti alle dinamiche estrattive del capitalismo contemporaneo), e quello che tutto sommato dalla decolonizzazione ad oggi ha conservato la sua unità politica, le risorse minerarie e la connessione con l’economia internazionale passano entrambe a vantaggio del sud cristiano, lasciando isolato il nord mussulmano nel quale opera il Boko Haram e dal quale muovono due milioni e mezzo di sfollati, con quindicimila richieste di asilo in Italia nel 2015 e una tratta di giovani donne molto ben organizzata. Le rotte nigeriane (vedi qui) partono dai porti costieri, hanno un nodo nella città del nord Kano (4 ml di abitanti), e di lì transitano ad Agadez, nel basso Sahara, di qui in tre tappe si arriva alla città-prigione libica di Sabha e infine a Tripoli. La politica economica del governo nigeriano è orientata agli investimenti stranieri, concentrati su industrie di esportazione (anche verso il resto del continente) ed una importazione interamente rivolta ai consumi distintivi di imprenditori, mercanti, alta burocrazia. Il petrolio (che vale il 90% delle esportazioni, e nel quale opera l’ENI) ha determinato la distruzione ambientale di vaste zone e l’incremento dei prezzi con conseguente esodo rurale e concentrazione di immense masse in slums suburbani. Risultano al 2010 il 20% degli addetti al settore primario (ca 40 milioni) e il 10% di disoccupazione maschile (50% femminile).

Si tratta quindi di una sfida complessa e multidimensionale, per la quale bisogna fare bene attenzione a non confondere “cosmopolitismo” (borghese) con “internazionalismo” (delle lotte nelle condizioni locali). Cioè di non perdere di vista la logica dell’uniformazione gerarchica, sotto un’unica Ragione (quella della legge del valore), propria di una oligarchia che esercita una sorta di “imperialismo collettivo”, la cui meccanica si nutre di una spontanea solidarietà tra frammenti “nazionali” che gestiscono un sistema mondiale di fatto.

Ma questa dinamica, dell’intreccio tra due ‘economie politiche’ nelle quali gli uomini vengono estratti e funzionalizzati alla logica della valorizzazione astratta resta strettamente connessa con le infrastrutture concettuali della modernità, in cui il loro “lavoro concreto” si fa “astratto” e ricondotto a metriche che espellono, non trovandovi più posto, le altre dimensioni della vita, riducendole o colonizzandole. Tra queste il tempo astratto, lineare ed omogeneo, e il relativo spazio. Si tratta di vere e proprie infrastrutture concettuali messe a punto, in un processo coestensivo alla trasformazione della società e l’estendersi delle reti commerciali e di capitale, e delle relative tecniche, che sono state messe a punto nella lunga evoluzione della rivoluzione scientifica, tra il 1500 ed il 1700. Da allora il tempo che conta è quello misurabile e la misura è in esatto rapporto con la produzione di merci e con la possibilità del salario e del profitto.

Ogni lavoro, sempre e di chiunque, è quindi la riduzione del tempo ad una quantità puramente astratta e reificata di tempo speso, che rende scambiabili tra di loro i relativi prodotti. Cioè il ‘lavoro’ in quanto astrazione forma la sostanza del valore, nella misura i cui esso incorpora nel suo stesso concetto la misura nel tempo astratto. In altre parole, il lavoro non crea il valore in modo ovvio e banale, come il panettiere fa il pane in modo tale che il cumulo di pane finisca per rappresentare, in rei, il lavoro ormai trascorso, dunque “morto”; al contrario, misurare il pane come prodotto di un “tot” di lavoro, determinando rispetto ad esso il suo valore, presuppone quella che Lohoff chiama “l’astrazione di un’astrazione”: l’esistenza, cioè, di un concetto di tempo, ordinato, astratto e lineare, che separa la vita stessa in sfere distinte, e che sarebbe stato inattingibile per una persona prima della modernità. Non era ‘lavoro’ nel nostro senso quel che si svolgeva, ma parte inseparabile degli obblighi, delle relazioni e degli affetti, che costituiva la persona stessa. Parte, cioè, del suo ruolo nel mondo; era, come dice: intimamente legato alla totalità della sua esistenza (si può leggere in proposito “La nozione di persona”, di Marcel Mauss).

Ora, la tesi di Buffagni è, in fondo, questa: che le persone, dei criminali certamente ma anche degli alienati perché incapaci di sopportare la reificazione delle loro vite, che hanno condotto l’azione orrenda di Macerata si possano interpretare come disadattati alla forma di secolarizzazione che viene imposta dalla nostra società (anche nella ‘economia politica dell’emigrazione’, anche qui, dalla quale sono fuggiti, per ricadere in quella ‘dell’immigrazione’). E che la loro rozza reazione sia di secolarizzare malamente la loro cultura, piegandone i riti alle esigenze pervertite che trovano nell’oggi.

Sia vero o meno che ciò che è fattualmente accaduto a Macerata corrisponda a questa ipotesi, essa è in linea generale possibile.

Quel che dunque nel dialogo con la lettura del fatto come emergere di un profondo tenebroso non domesticato (sia nel criminale nigeriano sia nell’italiano), e come un fallimento della cultura e delle istituzioni, di Buffagni, mi pare quindi da rimarcare è che può esservi incluso il fatto che l’uomo sfugge al razionale e si ancora nei riti. L’uomo è molto di più, come dice Sahlins; e pensare altrimenti è il “grosso sbaglio” dell’idea occidentale di natura umana. In altre parole, con i poveri mezzi a disposizione i disgraziati attori della vicenda urlano che ci sono dei nessi più larghi che li costituiscono, che loro guardano e si riconoscono, ovvero fondano la loro vita, in un cosmo più ampio. La perversione dei criminali nigeriani è di immaginare mezzi creati in un contesto animista per ottenere obiettivi che solo l’adattamento alla metrica del valore occidentale può dare, e di forzare per questo i mezzi, trascinandoli fuori del loro senso. La perversione del criminale italiano è di capire il gesto dei primi come lesione di una immaginaria purezza, e di ricondurla a simboli per i quali spendere sangue.

È qui che si inseriva la mia replica a Buffagni: il radicale altro che potrebbe essere incluso nei fatti di Macerata è che l’uomo sfugge al destino di essere completamente sussunto nella tecnica e per essa nella creazione di valore del capitalismo. Nella riduzione del mondo ad oggetti e di se stessi ad erogatori, secondo metriche lineari, di ‘lavoro’ e per questo di ‘valore’. Inoltre che questo enorme risultato è provocato da uno schermare e disincantare il mondo che ha richiesto secoli e non è mai del tutto riuscito. L’estrazione violenta di uomini e donne da mondi ancora non completamente incorporati nell’occidente, mondi ‘arretrati’ e per questo deboli e periferici, rende quindi in contatto dentro la ‘gabbia d’acciaio’ della modernità, radicamenti diversi.

È un tema davvero difficile, con il quale si sta misurando anche la filosofia più specialistica (abbiamo letto, ad esempio, Habermas in “Verbalizzare il sacro”): come scrive il grande filosofo tedesco la religione, tutte le forme rituali, sono in qualche modo dei contrafforti, di socialità prediscorsiva, davanti al rischio di costringere tutto l’umano entro l’oggettivazione scientista e la razionalità strumentale e per questo funzionale ai “mercati”. Questi rischiano alla fine di disseminare un mondo di naufraghi disperatamente orfani e incapaci delle più elementari prestazioni di solidarietà e reciproco riconoscimento che sono indispensabili anche a fondare quella che chiama la normatività post-metafisica: il riconoscimento reciproco come persone capaci di azione e volontà autonome, in linea di principio in grado di scegliersi insieme il destino nella forma dell’autolegislazione.

In altre parole, e più semplici, senza conservare delle fonti autonome dalla ragione funzionale (che si riconduce necessariamente alla logica schiacciante della valorizzazione) anche la democrazia finisce per essere incorporata come tecnica dall’economico e ridotta a vuoto involucro. È, più o meno, ciò che accade al progetto europeo.

Nella risposta a Buffagni ripercorrevo quindi la storia, sommariamente, della riduzione del reale al numerabile ed alla legalità scientifica. Ovvero, come scriveva Koyrè l’espulsione dalla legalità scientifica di tutti i ragionamenti e delle esperienze basate su concetti come: perfezione, armonia, significato, fine.

Non si tratta però, come teme Galati di rifiutare la scienza, nessuno potrebbe farne a meno e comunque nemmeno vorremmo. Si tratta invece di sfuggire anche all’inconsapevole religione del capitalismo (Benjamin, “Il capitalismo come religione”) che disgrega tutte le altre, sostituendole con pallidi feticci.

Un modo per diventare sensibili alle alternative ed a ciò che ci sta succedendo sotto gli occhi (unitamente ai suoi costi umani) è quindi di connettere il discorso sulla disgregazione interna della società africana per effetto della ‘seconda secolarizzazione’, quella giovane, indotta dalla ferrea logica del capitale internazionale alla prima, ‘quella vecchia’, che allunga i suoi tentacoli.

Che cosa fare?

Serve un vasto progetto di scala internazionale; connesso con politiche industriali a guida pubblica e non di mercato, che rovescino la logica dello sviluppo che sfrutta la lotta tra poveri e che costantemente riadattino verso il lavoro povero la composizione organica del capitale; una logica, in grado di orientare anche lo sviluppo tecnologico, che faccia uso di opportuna repressione finanziaria per creare condizioni di scarsità invertite, nelle quali non sia il capitale a potersi spostare liberamente ed indefinitamente scegliendosi dallo scaffale i lavoratori di volta in volta più consoni, al minor prezzo, ma il lavoro a trovarsi in condizioni di scarsità relativa e quindi attivare una dinamica ascendente (maggiore costo del lavoro, investimenti, aumento della produttività) che possa favorire il riposizionamento dei sistemi-paese su segmenti di valore e ricchezza superiori. In questa dinamica potrebbe darsi anche il miracolo che nuova forza-lavoro (che, però, sono anche persone, con la loro cultura) progressivamente sposti verso l’alto quella esistente, invece di rigettarla nella disoccupazione, la rabbia e l’intolleranza. Ma questo schema prevedrebbe anche autonomia, dunque di fuoriuscire dallo schema imperialista europeo e da quello, più in generale, di quella che Amin chiama “la triade” (USA, Giappone, Europa), eventualmente con i suoi soci minori.

In altre parole, bisogna rimettere radicalmente in questione le “quattro libertà” del progetto europeo. Che sono oggettivamente preordinate alla meccanica, incorporata nella logica del capitale e non necessariamente voluta o progettata da alcuno, della creazione costante di ‘eserciti di riserva’ pronti a prendere il posto dei renitenti locali (ovvero di chi avanzasse l’assurda pretesa di trarre dal suo lavoro quanto basta ad una vita sicura e dignitosa).

L’incastro delle due “economie politiche” osservate (e della terza, quella dell’”emigrazione” dai paesi semiperiferici come i nostri ed i paesi “core”) nella dinamica “emigrazione/immigrazione/emigrazione” sta infatti devastando il mondo e sta facendo saltare ogni possibile patto sociale, ed in modo necessario in quanto si tratta di un meccanismo strutturale intrinseco alla dinamica necessaria del capitale.

L’anziano Marx si pose questo problema nel suo dialogo, che prese diversi anni della sua vita, con i populisti russi, di cui l’esempio più noto è la lettera a Vera Zasulic e quella alla «Otecestvennye Zapiski», che è del 1877. Davanti al problema della conservazione della obšcina, ovvero della forma tradizionale di vita (che, comunque aveva circa cento anni di vita, essendo scaturita da una riforma delle forme medioevali) che prevedeva proprietà collettiva e strutture comunitarie (come oggi in alcune aree agricole asiatiche e africane). Marx resta profondamente incerto, alla fine risolvendosi verso il tentativo di tenere insieme individualità (frutto della modernità) e forme comunitarie. Questo Marx, scrive anche la prefazione all’edizione russa del “Manifesto”, nel 1882, che “l’odierna proprietà comune rurale russa potrà servire di punto di partenza per un’evoluzione comunista”. Ovvero scrive che la comunità rurale, questa forma tradizionale, non moderna, non progressiva nel senso comune del termine, questa forma che è un residuo “della originaria proprietà comune della terra” (residuo delle forme premoderne, dunque), può passare “direttamente” alla forma più “alta” del socialismo. Può passarci per un movimento interno, guidato dalla prassi rivoluzionaria ma anche dalla continuità, può unire conservazione e rivoluzione.

Elaborando un’idea che viene ripresa da Samir Amin (ed in modo esplicito) il Marx nel suo penultimo anno di vita (un anno di intensi studi storici ed antropologici), dice insomma che la forma comunistica, più “alta”, può manifestarsi grazie alla disponibilità di abilità, raziocinio, consuetudini e sapienza e tecnica, ad avere tempo (quel che non avrà), evitando di percorrere la stessa drammatica strada che l’occidente ha seguito. La strada della modernizzazione capitalistica non è un destino inevitabile, via proletarizzazione ed estensione del modello della ‘città’, dello sfruttamento della città nei confronti della campagna.

L’ipotesi che propone Marx per risolvere il dilemma è che, senza passare sotto le forche caudine del sistema capitalistico, i contadini ne potrebbero utilizzare ed integrare le acquisizioni positive. Così come non è necessario superare tutte le fasi tecnologiche (dal telaio meccanico, a quello a vapore, poi ai bastimenti a vapore, poi le ferrovie, e via dicendo) od organizzative (prima le fiere, poi le borse merci, poi le banche, le società per azioni, …) per impostare un sistema economico avendole ormai davanti pronte tutte.

Questo è il senso, a ben vedere, in cui si capisce l’ultima frase della prefazione del 1882:

“la sola risposta oggi possibile [al problema] è questa: se la rivoluzione russa servirà di segnale a una rivoluzione operaia in occidente, in modo che entrambe si completino, allora l’odierna proprietà comune rurale russa potrà servire di punto di partenza per un’evoluzione comunista”.

Se la rivoluzione, invece, in Russia resterà sola, costretta a competere con le potenze capitaliste, in termini di confronto geopolitico e produttivo, non avremo “il completamento” reciproco e la comune potrebbe essere schiacciata (come fu, dalla collettivizzazione).

Non è andata affatto così, anche perché Engels, quando Marx andrà a Highgate, riporterà la barra al centro, e riaffermerà la sua versione del materialismo storico, oltre i dubbi e le sfumature del “vecchio Nick”.

Potremmo, almeno noi, tentare di essere meno schematici?

GEORGE SOROS, LA PARABOLA DI UN FILANTROPO_ di Gianfranco Campa e Giuseppe Germinario

Anche quest’anno George Soros ha avuto a disposizione, probabilmente si è concesso, a Davos oltre un’ora di vaticinio. Un privilegio di minuti concesso solo a numero selezionatissimo di astanti. Ad ascoltarlo e vederlo viene in mente questa frase di Melville:  «Dal cuore dell’Inferno, io ti trafiggo! In nome dell’odio, sputo il mio ultimo respiro su di te, maledetta bestia!» Ha avuto modo di prendersela con il carattere monopolistico di Google e Facebook, con la loro capacità di manipolazione, controllo e selezione dei flussi di dati e di formazione degli orientamenti personali e delle società. Un pericolo estremo soprattutto se tale propensione dovesse trovare sostegno e accondiscendenza in regimi autoritari come Russia e Cina. Giudica i Bitcoin, buon per lui, un prodotto troppo speculativo. Soros è però fiducioso: « E’ solo questione di tempo prima che il loro monopolio sia interrotto. La loro fine verrà con le regole e le tasse. E la loro nemesi sarà la commissaria Ue alla concorrenza, Margrethe Vestager» L’Unione Europea, con essa i vecchi e nuovi leader dell’Europa Occidentale, ha quindi per il momento sostituito gli Stati Uniti nel ruolo di paladina della libertà . Cosa intendano per tutela della libertà i novelli templari lo lasciano intuire la composizione e le intenzioni dei vari Comitati di Salute Pubblica in procinto di essere costituiti. Strano, perché la campagna contro la disinformazione è comunque partita dagli “ambienti più politicamente corretti” statunitensi i quali più si sono distinti nella partigianeria ossessiva. In mancanza di una sponda istituzionale solida e sicura a casa propria non resta che affidarsi, al momento, agli epigoni di qua dell’Atlantico. Non che il problema sia irrilevante. Sia Facebook che soprattutto Google, ma anche sempre più i gestori della rete stanno assumendo uno straordinario e crescente potere di manipolazione non solo dei comportamenti individuali, civili e politici, ma anche, attraverso il controllo dei flussi di dati e dei comandi, dello stesso sistema produttivo e di comunicazione. Un controllo che potrebbe limitare la libertà di movimento e di azione di altri manipolatori, come Soros, adusi ad altre e ben più diversificate pratiche, anche le più prosaiche. Le varie “primavere” sparse nel mondo sono lì a ricordarcelo. Per questo “Padre del Globalismo”, tra i tanti, si tratta però di una contingenza, di un accidente destinati ad esaurirsi rapidamente nell’onda lunga della storia “Reputo chiaramente l’amministrazione Trump un pericolo per il mondo, ma lo considero puramente un evento transitorio che scomparira` nel 2020, se non prima. Do al presidente Trump credito per il modo brillante di motivare la sua base, ma per ogni numero di sostenitori c’è un numero egualmente motivato di oppositori. Per questo mi aspetto una valanga democratica nelle elezioni di medio termine 2018″ Con i diciotto miliardi di dollari ( http://italiaeilmondo.com/2017/10/22/un-torrido-inverno-di-giuseppe-germinario/ ) attualmente messi a disposizione dalla sua Open Society, George Soros saprà dare sicuramente il suo personale contributo, con le buone o le cattive, alla “motivazione” e all’afflato ideale dei novelli fustigatori. Dovesse richiedere il sacrificio di qualche martire, tanto meglio; ogni libertà, specie la propria, richiede un tributo e un sacrificio, meglio se di altri. Da parte sua il portafogli, da altri in mancanza di questo o di altro può essere sufficiente la vita. Anche in Italia, negli ambienti più insospettabili, gli adepti non mancano e dopo le elezioni numerosi usciranno allo scoperto. Qualcuno, addirittura, trepida per le sue condizioni di salute; vedi la “Stampa” di oggi.

Qui sotto i link relativi all’intervento di George Soros_ Gianfranco Campa-Giuseppe Germinario

Il triangolo imperfetto_Un anno di Trump_19° podcast, di Gianfranco Campa

Ad un anno dal suo insediamento alla Casa Bianca si può tentare un primo bilancio della azione di Donald Trump. Gianfranco Campa, all’inizio del suo intervento, ci rivela le fondamenta e le ragioni di interesse che consentono l’instabile equilibrio tra il Presidente, il vecchio establishment neoconservatore repubblicano e l’imprescindibile elettorato più militante e critico verso la vecchia guardia. La definitiva defenestrazione di Bannon, grazie anche ai suoi incredibili harakiri, ha spianato la strada ad un accordo, per quanto difficoltoso, sulla politica interna che ha consentito di portare avanti buona parte del programma presidenziale già dal primo anno di insediamento. Un dinamismo i cui risultati stanno incrinando le certezze di vittoria del Partito Democratico Americano alle prossime elezioni congressuali di medio termine.

Molto più controverse e contraddittorie risultano essere le linee di politica estera. Appare insolitamente evidente l’esistenza di più canali diplomatici e di diversi centri strategici in diretta competizione tra loro e su linee divergenti e contraddittorie; come pure l’esistenza di canali alternativi di comunicazione con i competitori geopolitici non corrispondenti ai canali ufficiali. Una fase nella quale le logiche apparenti stridono con quelle più profonde e riservate. Un chiaro indizio che l’equilibrio faticoso e precario in questo ambito coinvolge forze molto più potenti e temibili in una condizione molto più sfavorevole rispetto alle intenzioni dichiarate da Trump nella sua campagna elettorale. Su questo piano si riscontreranno i maggiori effetti della defenestrazione di Bannon. Antonio de Martini, nel post precedente pubblicato su questo sito, ha rivelato con particolare perspicacia l’essenziale della reale posta in palio riguardante l’uso “del bottone più grosso” http://italiaeilmondo.com/2018/01/14/il-bottone-piu-grosso-di-antonio-de-martini/ . Si profila un equilibrio tra poteri, soprattutto dello stato profondo che sembra concedere qualcosa di significativo sul piano interno in cambio di una “armonizzazione” maggiore delle intenzioni trumpiane con i canoni classici della politica estera e della diplomazia americane. Sono comunque equilibri dinamici che non consentiranno comunque il ritorno allo “statu quo ante” sia per il rafforzamento progressivo degli altri attori geopolitici, ad eccezione ahimè degli stati europei, che per i diversi assetti interni alla potenza tuttora prevalente. Sta di fatto che anche su questo piano, la tattica de “l’America first” con l’indebolimento dell’approccio multilaterale e la rinegoziazione su base bilaterale dei trattati con gli USA sta modificando pesantemente e in maniera duratura le modalità e i contenuti delle relazioni internazionali. A prescindere dal suo esito tutt’ora incerto, penso che ricorderemo per tanto tempo questa presidenza. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

 

https://soundcloud.com/user-159708855/podcast-episode-1

Il bottone più grosso, di Antonio de Martini

La campagna anti Trump che cerca di mettere in dubbio la sua stabilità mentale ha un obbiettivo politico strategico decisivo per il futuro del mondo.

Esiste una iniziativa legislativa mirante a togliere al Presidente il controllo ultimo della valigetta nucleare e riaffidarlo nelle mani dei militari, incluso il “diritto” di sferrare il primo colpo nucleare.

Ai tempi della guerra del Vietnam Daniel Ellesberg, un pentito pianificatore nucleare civile del Pentagono, scrisse un libro ” Il giorno del giudizio” e Hollywood intervenne nel dibattito col film ” Il dottor Stranamore” e riuscirono a imporre, assieme ad altri interventi, il controllo civile sul grilletto nucleare.

Ellesberg pagò un prezzo personale esorbitante per questa scelta che il mondo militare visse come un tradimento ( un po’ come quello di Manning ai giorni nostri).

Oggi, il complesso militar industriale sta andando alla riscossa e vuole che sia un generale a decidere in sede tecnica se ricorrere al colpo nucleare e – se necessario per primi – ossia togliere al Presidente eletto la decisione di ricorrere o meno alla guerra nucleare preventiva.

Si tratta del più grave pericolo di tutti i tempi per la pace e la libertà del mondo intero perché prevede la rinunzia al controllo democratico su pace e guerra.

Gli argomenti tecnici addotti a favore di questa scelta sono risibili dato che il continente americano è inattaccabile e non invadibile.
Si sta quindi ricorrendo ad argomenti emozionali che prevedono la distruzione dell’immagine del Presidente degli Stati Uniti.

Ecco il perché delle continue mosse di delegittimazione verso Trump, che non è meglio o peggio di altri Presidenti ; la caccia alle streghe che ha terrorizzato Hollywood e paralizzato la sua capacità di influenzare la pubblica opinione in senso emozionale contrario.

Di qui, come risposta, il falso allarme nucleare di ieri alla Hawaii che ha dimostrato come sia facile premere il bottone sbagliato se la decisione venisse affidata a un tecnico.

Siamo al paradosso di un Trump che diventa un presidio di libertà e democrazia e dei media controllati dal complesso militar industriale che
cospira, sotto gli occhi di tutti, per impadronirsi del potere di iniziare una guerra a piacimento.

Benvenuti nel XXI secolo.

Tutto finisce a questo mondo, anche gli imperi_ di Roberto Buffagni

 

Italiaeilmondo ha appena pubblicato, qui: http://italiaeilmondo.com/2018/01/08/il-piano-a-il-piano-b-il-piano-c_-le-attenzioni-su-trump-a-cura-di-giuseppe-germinario/  un’ interessante e preoccupante intervista a Roger Stone, che ci permette di sbirciare dal buco della serratura uno scorcio della violenta lotta di potere in corso a Washington. Alla radice di questo scontro c’è un nodo di importanza storica: l’Impero americano ha superato il culmine della sua parabola ascendente, è overextended, incerta la sua egemonia mondiale, in crisi il suo sistema di alleanze e la sua coesione interna; e la sua potenza militare, per quanto tuttora insuperata, colleziona da decenni vittorie operative e sconfitte strategiche. Le risposte possibili alla sfida sono due: un rilancio di potenza espansiva, o un ripiegamento strategico. La prima risposta può rivelarsi una fuga in avanti dalle conseguenze imprevedibili e potenzialmente rovinose, la seconda un consolidamento in apparenza saggio, ma in realtà più pericoloso della fuga in avanti, perché di fatto irrealizzabile.

I due campi non coincidono al millimetro con i due grandi partiti americani, anche se nel Partito Democratico la vocazione mondialista è maggioritaria e consolidata, e la tradizione nazional-conservatrice, per quanto minoritaria, non è del tutto spenta nel Partito Repubblicano. Gli interpreti più autentici della risposta “rilancio di potenza” sono i neoconservatori, un gruppo di potere “mondialista” ideologicamente coeso ma politicamente bipartisan. I sostenitori della risposta “ripiegamento strategico” sono un gruppo di potere grosso modo “nazionalista”, ideologicamente frammentato, politicamente radicato nell’ala dissenziente del Partito Repubblicano e nella galassia apartititica della Alt-Right.

L’urgenza di dare una risposta al problema storico dell’Impero si è manifestata nell’ascesa alla Presidenza di Trump, un uomo estraneo all’establishment imperiale; la violenta reazione dell’establishment illustra quanto alta sia la posta in gioco, e gareggiando in avventatezza con la sconclusionata direzione politica di Trump, rischia di scassare e delegittimare le istituzioni statunitensi.

Che una decisa sterzata alle strategie imperiali americane sia necessaria, sembra chiaro. Il problema è che la politica, come in generale la vita umana, è tragica perché non si fa con il senno di poi, ma nell’angoscia dell’ignoranza e dell’incertezza, e sotto il gravame delle scelte, degli errori e delle colpe del passato. Ad esempio: è possibile cambiare non solo direzione, ma natura dell’Impero americano? Perché un consolidamento difensivo imperiale, come quello proposto da E. Luttwak nel suo recente libro La grande strategia dell’impero bizantino[1], sembra sì una scelta prudente e quasi obbligata: ma non è affatto detto che sia una scelta possibile. Sin dalla loro nascita, gli Stati Uniti d’America si trovano di fronte due vie possibili: repubblica (confederale, aristocratica, centripeta) o impero (federale, democratico, centrifugo). Il bivio è così profondamente inciso nell’immaginazione americana che lo ritroviamo, tale e quale tolto il nodo della schiavitù, nella saga di maggior successo di tutta la storia del cinema, Guerre stellari. Per ottant’anni gli USA sono riusciti a rinviare la scelta della via da imboccare, ma il 12 aprile 1861 il momento della scelta è arrivato, ed è costato circa 750.000 caduti sul campo, più la morte di un numero imprecisato di civili e uno strascico di divisioni e rancori non ancora riconciliati. Stime recenti valutano le sole perdite sul campo in un 10% di tutti i maschi in età militare  (20-45 anni) al Nord, 30% al Sud.

La vittoria dell’opzione federale ha deciso anche la natura sui generis dell’Impero americano: un impero democratico e ideocratico (vi si appartiene per adesione ideologica, non per radicamento territoriale, etnico, storico), e dunque costantemente espansivo, non ecumenico (centro di un mondo) ma tendenzialmente universale: il simbolo immaginale più profondamente impresso nella psiche americana, da allora in poi, sarà la Frontiera, che sempre va inseguita e sempre si allontana, come l’orizzonte dominato dallo sguardo dell’animale totemico degli USA, l’aquila marina incisa sul Grande Sigillo del Governo Federale americano[2].

In estrema sintesi e sul piano strettamente politico, il dubbio è questo: è possibile all’Impero sui generis americano rinunciare all’espansione illimitata, riconvertirsi e consolidarsi in una repubblica nazionale che si limita a dominare il Continente e a intervenire nel mondo solo quando sono in gioco i suoi interessi vitali? Perché dalla fine della Guerra di Secessione in poi, le molteplici e profonde linee di frattura politica interne alla madrepatria imperiale – fra Stati e governo federale, fra Stati del Nord e del Sud, fra etnie, lingue e razze, fra centri e periferie, fra confessioni religiose, fra confessioni religiose e laicismo politically correct, etc.  –  non hanno innescato conflitti incomponibili perché tutte le mille frizioni latenti sono state deviate e risolte nell’espansione imperiale: ideologica, militare, economica, e last but not least psichica; perché gli USA sono un impero euforico e geneticamente ottimista: il tono del suo umore è maniaco-depressivo, e la fine della fase maniacale lo precipita in una depressione psichica che innesca una crisi politica profonda, come dimostra l’altra crisi che, dopo la Guerra di Secessione, ha messo a rischio l’esistenza simbolica degli USA: la Grande Crisi del 1929.

L’Impero statunitense può essere distrutto soltanto dall’interno, come sapeva bene il suo fondatore Abraham Lincoln: “Dovremmo temere che qualche gigantesca potenza militare d’oltreoceano lo attraversi e ci schiacci in un colpo? Mai! Tutti gli eserciti di Europa, Asia e Africa congiunti, con tutti i tesori della terra (escluso il nostro) a finanziarli, con un Bonaparte a comandarli, mai riuscirebbero con la forza a bere un sorso del fiume Ohio o a tracciare un sentiero sul Blue Ridge, neanche se ci provassero per mille anni. Da dove dobbiamo temere che venga, allora, il pericolo? Rispondo. Se mai il pericolo ci raggiungerà, esso dovrà scaturire in mezzo a noi; non può venirci da fuori. Se la distruzione è il nostro destino, dovremo noi stessi esserne autori e responsabili. Dovremo per sempre vivere come nazione di uomini liberi, o morire suicidi.”[3]

La situazione odierna degli USA di Trump, insomma, richiama alla mente per analogia la situazione dell’URSS di Gorbacev, un altro impero sui generis perché (in parte) ideocratico, scosso da una crisi profonda. Per ricordare quanto grave fosse la crisi dell’URSS, ecco alcune testimonianze in diretta di membri della sua classe dirigente dell’epoca:

L’ottusità del paese ha raggiunto un picco: dopo, c’è solo la morte. Nulla è fatto con cura. Rubiamo a noi stessi, prendiamo e diamo mazzette, mentiamo nei nostri rapporti, sui giornali, dal podio, ci rivoltoliamo nelle nostre menzogne e intanto ci conferiamo medaglie a vicenda. Tutto questo dall’alto in basso, e dal basso in alto.” N.I. Ryzkov, segretario e capo del Dipartimento economico del Comitato centrale con Ju. I. Andropov, e K.U. Cernenko, poi primo ministro con M.S. Gorbacev.

Sono anni che tradisco me stesso, dubito e mi indigno tacitamente, cerco ogni tipo di scuse per addormentare la mia coscienza. Tutti noi, soprattutto la classe dirigente, conduciamo una vita doppia se non tripla: pensiamo una cosa, ne esprimiamo un’altra e ne realizziamo un’altra ancora.” E. V. Jakovlev, giornalista, ambasciatore dell’URSS in Canada, collaboratore di M.S. Gorbacev.

Nessun nemico avrebbe potuto conseguire quello che abbiamo conseguito noi con la nostra incompetenza, ignoranza e autoincensamento, con il nostro separarci dai pensieri e dai sentimenti della gente comune.” Generale Markus Wolff (“Mischa”), capo dei servizi segreti della D.D.R.[4]

E’ a questa crisi caotica e dissolutiva che Gorbacev tentò di rispondere. Ora sappiamo com’è andata, cioè molto male: ma non tentare una risposta, continuare come prima era impossibile. Era possibile rispondere alla crisi consolidando anziché dissolvendo? Quanta parte di responsabilità hanno avuto i limiti personali di Gorbacev e della sua cerchia nell’esito infausto della riforma imperiale? Sarebbe bastato che al timone dello Stato ci fosse un uomo migliore? Per concludere l’analogia: Trump è forse il Gorbacev americano?

Altri imperi, prima del sovietico e dell’americano, hanno tentato di rispondere alle crisi storiche che li hanno colpiti, di solito all’inizio della parabola discendente, dopo aver superato il culmine della potenza e dell’espansione. All’Impero romano riuscì, con Adriano, il consolidamento difensivo, che garantì secoli di equilibrio; ma la crisi interna, economica e politica, non si arrestò, e con i Severi giunse al punto di non ritorno: il segno fatale fu l’emigrazione di percentuali significative di cittadini romani dalle zone amministrate dai funzionari imperiali alle zone amministrate dai barbari, le cui pretese fiscali erano assai più miti di quelle degli esattori romani:[5] se ne angosciava sul letto di morte l’imperatore Settimio Severo. L’impero spagnolo entrò nella sua crisi storica, economica e politica, pochi decenni dopo aver raggiunto la sua massima espansione con le conquiste americane. E’ un monito istruttivo rileggere le proposte di riforma economica e politica degli gli arbitristas della Scuola di Salamanca[6], diverse delle quali, esaminate con il senno di poi, sembrano diagnosticare con precisione i problemi di fondo e proporre soluzioni brillanti: eppure, sempre col senno di poi, sappiamo come andò.

Oggi, come allora i sudditi dell’Impero romano o spagnolo, non sappiamo come andrà. Vedremo, e per la verità non vedremo soltanto, perché purtroppo non siamo seduti nelle poltrone di un cinema per assistere all’emozionante kolossal La crisi dell’Impero americano, ma ci troviamo in una periferia non troppo lontana dal centro imperiale e per nulla esente dalle conseguenze delle sue scelte, giuste o sbagliate che siano.

L’unica cosa che sappiamo, come già allora sapevano i romani e gli spagnoli, è che tutto finisce, a questo mondo: anche gli imperi, e anche noi.

[1] V. qui una buona recensione: http://www.imperobizantino.it/la-grande-strategia-dellimpero-bizantino-di-edward-n-luttwak/

[2] https://it.wikipedia.org/wiki/Stemma_degli_Stati_Uniti_d%27America

[3] Abraham Lincoln, 27 gennaio 1838, discorso agli studenti dello Young Men’s Lyceum di Springfield, Illinois:  “The Perpetuation of Our Political Institutions”. Qui il testo originale: “Shall we expect some transatlantic military giant to step the ocean and crush us at a blow? Never! All the armies of Europe, Asia, and Africa combined, with all the treasure of the earth (our own excepted) in their military chest, with a Bonaparte for a commander, could not by force take a drink from the Ohio or make a track on the Blue Ridge in a trial of a thousand years. At what point then is the approach of danger to be expected? I answer. If it ever reach us it must spring up amongst us; it cannot come from abroad. If destruction be our lot we must ourselves be its author and finisher. As a nation of freemen we must live through all time or die by suicide.”.

[4] Citazioni tratte da Andrea Graziosi, L’Urss dal trionfo al degrado, Il Mulino, Bologna 2008.

[5] . Salviano di Marsiglia, De Gubernatione Dei, V, 5, 22. V. anche gli storici citati da S. Mazzarino ne La fine del mondo antico, Milano 1988, da Orosio a Prisco.

[6]  V. qui un riassunto ben fatto: http://spainillustrated.blogspot.it/2012/01/arbitrismo-politico-economico.html

MACRON Micròn_1a parte, di Giuseppe Germinario

OSPITE A CASA PROPRIA

Giugno 2017, Salone Internazionale du Bourget! Emmanuel Macron, neoeletto Presidente della Repubblica scende dall’A400M, appena atterrato. Ad accoglierlo affabile il tedesco Thomas Enders, PDG (Drettore Generale) della società, già Consorzio Airbus: “Bienvenue Monsieur le Président (benvenuto Signor Presidente)”. Da Macron la gelida inattesa risposta: “ En France, personne ne me souhaite la bienvenue. Je suis chez moi (In Francia nessuno mi porge il benvenuto. Sono a casa mia).” In un attimo emerge alla luce del sole un conflitto sordo quanto drammatico, giocato tutto all’interno della direzione della società AIRBUS, senza che trapelasse alcunché di significativo all’esterno che non seguisse il solito canovaccio della lotta alla corruzione e della moralizzazione dei comportamenti imprenditoriali. Solo il settimanale “Marianne”, a partire dallo scorso agosto, ha osato pubblicare due allarmati dossier. Eppure son quasi dieci anni che una delle poche imprese strategiche europee, ad iniziale guida franco-tedesca, diretta concorrente del colosso aeronautico americano Boeing, sta subendo una progressiva mutazione. Con la nomina, di competenza tedesca e patrocinio di Angela Merkel, di Enders, personaggio dalle note simpatie iperatlantiste e dai dichiarati legami con gli ambienti americani della NATO, si susseguono una serie di atti e strategie univoci ed inequivocabili. Si opera per sganciare la società dalla influenza dei due maggiori azionisti, lo stato francese e quello tedesco, il primo dei quali tra l’altro generoso donatore delle fondamentali tecnologie di base aerospaziali ed elettroniche, in modo tale da consentire strategie di mercato aziendali “autonome”; si teorizza, per tanto, di puntare sul mercato del trasporto aereo più ricco, quello nordamericano; si sceglie di conseguenza di insediare un grande stabilimento negli Stati Uniti e di trasferire dalla Francia alla Silicon Valley californiana il centro ricerche; si attinge a piene mani dalla DARPA, l’agenzia statunitense incaricata della ricerca e del trasferimento ad uso civile della tecnologia militare americana; si compromette e paralizza l’intera rete commerciale e di mediazione di Airbus con un’opera, guarda un po’, di moralizzazione innescata inizialmente da alcuni giornali tedeschi e proseguita da campagne giudiziarie e mediatiche di ambienti angloamericani. Il paladino Enders, fatto pressoché unico e inaudito, arriva addirittura ad autodenunciarsi preventivamente, presso organi giudiziari americani ed inglesi, con contestuale consegna di una immensa mole di documenti e dati interni suscettibili di essere utilizzati a man bassa, più prima che poi, dal concorrente americano. Nelle more si assiste ad una sospetta transumanza di propri consulenti verso rinomati studi legali angloamericani. In pratica una sorta di lenta migrazione oltreatlantico. Si insinua in quegli ambienti per tanto il sospetto che si punti a far diventare Airbus una semplice costola della Boeing o di qualche altro gruppo americano lasciando ai cinesi, quindi, il ruolo di competitori minori nel settore, almeno per un ragionevole periodo di anni.

Un esito che nelle more porterebbe inesorabilmente l’industria aeronautica italiana verso una ulteriore marginalizzazione, vedendo di fatto ridimensionata la sponda americana.

Basterebbe molto meno per regolare seduta stante simil galantuomini; si attende invece la normale scadenza del mandato nel 2019 per puntare ad un avvicendamento.

Non si tratta per altro di una dinamica del tutto imprevedibile ed originale. Cito giusto un esempio significativo del recente passato.

Alla fine degli anni ’50, i canadesi furono vittima di qualcosa di simile. Con il sistema Arrow, un potentissimo motore a reazione incapsulato in un’adeguata struttura avionica e con l’organizzazione di una apposita compagnia aerea, il Canada sarebbe stato in grado di surclassare velocemente le compagnie aeree civili degli altri paesi e di alterare pericolosamente gli equilibri militari dell’epoca. La pronta azione politica della classe dirigente e dello stato profondo americani riuscirono in pochi mesi a far trasferire inopinatamente da quel paese tecnologie, produzioni, capitali e personale qualificato. Quelle tecnologie trovarono di fatto piena e matura applicazione, negli Stati Uniti, solo dalla seconda metà degli anni ’70, guarda caso all’indomani del pantano vietnamita.

Se dal punto di vista della novità tecnologica quell’esperienza fu molto più significativa, dal punto di vista economico, commerciale e dell’autonomia ed egemonia politica lo è di gran lunga maggiore quella attualmente in corso. Tanto più che il Gruppo Airbus ha da tempo iniziato a muovere i primi significativi passi anche nell’ambito della produzione militare.

L’epilogo della vicenda, ormai nemmeno più così lontano, contribuirà significativamente a collocare realisticamente le ambizioni politiche dei due principali paesi dell’Unione Europea e ad inquadrare, nella fattispecie, con maggior obbiettività e crudezza, il personaggio Macron.

Le critiche sulla sua “grandiloquence” (magniloquenza) non proprio corrispondente alle capacità e agli atti concreti prodotti cominciano già ad affiorare sulle bocche di personaggi sempre più autorevoli.

LE AMBIGUITA’ NEFASTE DELLA MERKEL E DEI SUOI EPIGONI

Presa a sé la vicenda Airbus può ancora essere considerata come una anomalia, sia pure grave, in un contesto di rafforzamento del sodalizio franco-tedesco; un sodalizio, quello specifico ricercato e tanto invocato con Angela Merkel, considerato un tassello, di più il pilastro essenziale sul quale fondare la politica estera ed interna francese.

Le recenti elezioni tedesche hanno intanto reso certamente più fragili le spalle ed innescato ormai il declino del personaggio incaricato di tessere le fila europeiste.

L’audacia insospettabile che aveva pervaso il leader tedesco all’indomani della vittoria di Trump è rapidamente rientrata assieme all’assordante silenzio calato nei suoi confronti, anche se le frequentazioni e le affinità elettive con Obama non sono certamente cessate.

Ci sono, tuttavia, altri indizi ed elementi sostanziali, in aggiunta all’affaire Airbus, a far sospettare un rapporto franco-tedesco in realtà molto più problematico e molto meno paritario ed un sodalizio tedesco-americano molto più solido delle apparenze ed altrettanto poco paritario. Eccone alcuni; i prossimi fuochi artificiali ne porteranno alla ribalta altri, ivi compreso il tentativo di recupero di rapporti privilegiati con la Gran Bretagna.

Intanto il clamoroso annuncio dell’acquisto tedesco di un centinaio di aerei militari F35 americani; come si possa conciliare tale scelta, economicamente, politicamente e militarmente così impegnativa con i propositi strombazzati di progettazione di futuri modelli di aereo militare europei pare un compito più di aruspici che di strateghi militari. In realtà, secondo le ultime smentite, la notizia è frutto della pesante pressione dei comandi dell’aeronautica militare tedesca, alquanto significativa, all’acquisto, ma ancora contrastata da parte dei vertici politici del Ministero

La politica di cooperazione europea di difesa (PESCO) viene annunciata come il proposito finalmente operativo di una strategia integrata ed autonoma di difesa militare europea che copra tutti gli ambiti sino ad arrivare alla creazione di un complesso militare-industriale europeo proprio. I diciassette progetti di cooperazione rafforzata coincidono in realtà clamorosamente con la costruzione dei Centri Operativi di Eccellenza (COE) così caldamente raccomandati dal Comando della NATO, più in particolare dai generali e strateghi americani più influenti. Di questi progetti, quattro, in particolare tre dei più importanti, saranno a guida tedesca con grave smacco alle ambizioni francesi: la gestione medica, la mobilità delle forze armate, il Centro Operativo di Risposta Rapida e la formazione il centro di elaborazione strategica. Una scelta strategicamente ancora più rilevante se si considera il peso militare dei due paesi ancora ampiamente favorevole ai francesi e il nesso sempre più evidente tra le esigenze di mobilità, ossessivamente caldeggiate dagli ambienti americani, delle unità militari e i programmi di infrastrutture civili (vie di comunicazione, logistica) sostenuti dall’Unione Europea in particolare lungo i corridoi definiti dalla NATO.

I propositi di cooperazione europea militare rafforzata, consentiti dai trattati europei, stanno spingendo la Germania ad integrarsi, in posizione di comando, con i paesi satelliti della propria area di influenza diretta e notoriamente nel contempo più filoatlantisti, piuttosto che con la Francia.

La stessa vicenda della deroga all’utilizzo in Europa degli erbicidi glifosati, osteggiata da Francia e Italia e avvallata dall’Unione Europea grazie all’inaspettato sostegno tedesco, concomitante tra l’altro con il processo di acquisizione della americana Monsanto da parte del Gruppo Bayer tedesco lascia intravedere la solidità di un  mercimonio che lascia pochissimo spazio alla praticabilità delle ambizioni di Macron.

Una direttrice già percorsa in questo articolo http://italiaeilmondo.com/2017/09/20/deutschland-uber-alles-di-giuseppe-germinario-versione-integrale/

Come si vedrà nella seconda parte dell’articolo, Macron corre seriamente il rischio di cadere in un primo tempo nella fanfaronesca prosopopea in cui era rapidamente scivolato, in un contesto per altro ben più favorevole legato all’interventismo di Obama, Sarkozy ed in un secondo nel grigiore opaco e dimesso di Holland. Per un esteta, quale si dichiara Macron, il rischio di scivolare dalla esaltazione della complessità al groviglio inestricabile della confusione è sempre più reale.

Si vedrà come anche gli altri fronti operativi aperti dal Presidente, in particolare quello della politica interna, della politica estera subsahariana e mediorientale e quello del rapporto con la potenza egemone almeno nell’area occidentale, gli Stati Uniti rischiano di farlo pendere verso questa china.

Sotto questa luce le analogie e le diversità con la situazione italiana assumeranno caratteristiche più nette.

Non è detto che dalla coscia di Giove nascano necessariamente dei invincibili. Lo Jupiteriano Macron servirà da esempio o da monito alle ambizioni dei futuri leader scalpitanti, pronti alla ribalta.

Guerra di secessione americana-le ragioni del protezionismo, a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto la traduzione di un interessante articolo del professore americano Thomas Di Lorenzo riguardante i motivi profondi della drammatica guerra di secessione interna agli Stati Uniti deflagrata a metà ‘800.

 Il saggio è importante per almeno due motivi.  https://www.paulcraigroberts.org/2017/12/01/professor-dilorenzo-explains-real-cause-war-northern-aggression/

Il primo riguarda il contributo ulteriore che riesce ad offrire, pur in una produzione letteraria ormai copiosa, sulle cause scatenanti di un evento sanguinoso e tragico, che portò alla morte violenta di circa il 3% della popolazione statunitense, concentrata nella sua parte più vitale e ammantato di una retorica umanitaria ed antirazziale in gran parte fuorviante rispetto a quel contesto storico; evento epocale, propedeutico alla irresistibile ascesa di quello stato nell’agone geopolitico mondiale.

Il secondo aiuta indirettamente a collocare più realisticamente e pragmaticamente il dibattito sul rapporto tra globalizzazione e protezionismo.

Il termine di globalizzazione tende ad essere identificato con il processo di liberalizzazione degli scambi. Con globalizzazione si dovrebbe intendere, invece, la possibilità e capacità incrementata di relazione, comunicazione e scambio resa possibile dagli impressionanti sviluppi della tecnologia in spazi talmente estesi e lassi di tempo talmente ridotti, impensabili sino a quaranta anni fa. Il processo di globalizzazione non comporta l’eliminazione e l’irrilevanza progressiva di regole, norme, imposizioni di fatto e compromessi che conformino tali scambi, tutt’altro; i campi di normazione e di azione si estendono in ambiti sino a poco tempo fa impensabili. Il discrimine che determina le peculiarità di sviluppo di questo processo è tra una situazione di dominio egemonico di una potenza sulle altre ed una nella quale sono più potenze a contendersi il predominio e le rispettive aree di influenza all’interno delle quali comunque avviene il gioco dei vari centri strategici e dei vari stati nazionali.

Nel primo caso è più facile che la normazione sia più uniforme, ma comunque conformata dando priorità alla visione e agli interessi della forza dominante; tendenzialmente l’ambito economico e le strategie politiche all’interno di esso assumono un carattere più autonomo.

Nel secondo la mediazione, i contrasti e la regolazione sono sicuramente più faticosi, imprevedibili e contraddittori. Ma sempre di regolazione si tratta. Gli Stati Uniti, specie nella periferia e nella semi periferia, sono presentati ostinatamente come i paladini del liberalismo tout court, quando sono in realtà i campioni di un liberalismo alquanto selettivo e di una definizione di regole e consuetudini conformi alle loro esigenze di sviluppo e di successo. Sarebbe interessante analizzare con cura e competenza le loro modalità operative e regolative. Sono un esempio, ma certamente anche gli altri soggetti politici, gli altri stati ambiscono ai medesimi obbiettivi, secondo le ambizioni e le possibilità delle rispettive classi dirigenti (qui di seguito un testo dove tratto più estesamente l’argomento ( http://italiaeilmondo.com/2016/10/02/globalizzazione-e-stati-nazionali/  – http://italiaeilmondo.com/category/dossier/globalizzazione-e-stati-nazionali/ ). Ogni stato ed ogni formazione sociale che abbia  voluto tentare la strada dello sviluppo e della crescita di potenza ha tentato di stabilire al proprio interno e nelle relazioni esterne particolari norme e filtri che consentissero il proprio sviluppo industriale.

La guerra di secessione americana rappresenta certamente un paradigma per tentare di inquadrare queste dinamiche. Un paradigma, però, che non deve nascondere l’attuale complessità dell’azione politica dei centri strategici. Allora la contesa riguardava praticamente l’entità delle barriere doganali e le modalità di funzionamento delle giovani istituzioni americane; oggi le contese riguardano apparati e ambiti operativi molto più sofisticati e complessi all’interno dei quali le barriere citate assumono un ruolo secondario e spesso distorcente. Gli Stati Uniti, ancora oggi, con le vicende legate all’avvento della presidenza Trump appaiono l’epicentro di questo scontro. A titolo di esempio per definizione parziale, riguarda la difesa del know-how, della conoscenza, della tecnologia, della determinazione degli standard di applicazione, delle caratteristiche dei prodotti, della regolazione dei flussi finanziari, dei dati, delle comunicazioni, dei confini entro i quali gli stati hanno giurisdizione. Tutto questo presuppone l’esistenza, non l’abolizione o l’indebolimento degli stati nazionali, come ancora sentiamo predicare soprattutto negli ambienti della sinistra, mondialista o del particulare che sia. Le modalità di sviluppo delle loro relazioni e dei loro conflitti sono, quindi, una chiave interpretativa fondamentale delle vicende del mondo. Buona lettura_ Germinario Giuseppe

PS_ Per la traduzione, per motivi di tempo, ho corretto le imprecisioni più vistose del traduttore utilizzato. Segnalate eventualmente ulteriori errori ed imperfezioni

guerra-civile-americana-27617055Il professor DiLorenzo spiega la vera causa della guerra dell’aggressione nordica

1 ° dicembre 2017 | Categorie: Contributi ospiti | Tag: | Stampa questo articolo

Il professor DiLorenzo spiega la vera causa della guerra dell’aggressione nordica

Le cause della “guerra civile” nelle parole di Abraham Lincoln e Jefferson Davis
Di Thomas DiLorenzo
, 30 novembre 2017
https://www.lewrockwell.com/2017/11/thomas-dilorenzo/the-causes-of-the- guerra civile-in-the-parole-di-Abraham-Lincoln-e-Jefferson-Davis /

“Quando [gli stati] entrarono nell’Unione del 1789, accompagnarono il loro ingresso con l’innegabile riconoscimento della facoltà del popolo di riprendere l’autorità delegata ai fini di quel governo, ogni volta che, a loro parere, le sue funzioni erano pervertite e i suoi fini sconfitti . . . gli Stati sovrani qui rappresentati si sono separati da quella Unione, ed è un grave abuso di linguaggio definire tale atto ribellione o rivoluzione. “ -Jefferson Davis, Primo discorso inaugurale, Montgomery, Alabama, febbraio 1861.

“Quindi . . . l’Unione è perpetua  ed [è] confermata dalla storia dell’Unione stessa. L’Unione è molto più antica della Costituzione. È stato formato, infatti, dallo Statuto nel 1774. È stato maturato e confermatoo dalla Dichiarazione d’Indipendenza nel 1776. È stato ulteriormente consolidato e la fede di tutti i tredici Stati si è espressa e impegnata espressamente nella affermazione che dovrebbe essere perpetua . . . . Da queste considerazioni risulta che nessuno Stato. . . può uscire legalmente dall’Unione. . . e quelli che agiscono. . . contro l’autorità degli Stati Uniti sono insurrezionali o rivoluzionari. . . “
-Abraham Lincoln, primo discorso inaugurale, 4 marzo 1861.

Queste due dichiarazioni di Abraham Lincoln e Jefferson Davis nei rispettivi discorsi inaugurali evidenziano forse la causa principale della guerra per prevenire l’indipendenza del Sud: Davis credeva, come fecero i padri fondatori, che l’unione degli stati fosse un’unione volontaria creata quando gli Stati liberi, indipendenti e sovrani hanno ratificato la Costituzione, come stabilito dall’articolo 7 della Costituzione; Lincoln affermò che non era volontaria; era più simile a quella che le generazioni future avrebbero conosciuto come Unione Sovietica – tenute insieme dalla forza e dallo spargimento di sangue. Murray Rothbard ha deriso la teoria di Lincoln circa l’unione americana non volontaria con una teoria dell’unione “Venere velenosa” descritta nel suo saggio, “Just War”. Infatti, nello stesso discorso Lincoln ha usato le parole “invasione” e “spargimento di sangue” per descrivere cosa sarebbe successo con qualsiasi stato che avesse lasciato la sua unione “perpetua”. La sua posizione era che dopo aver combattuto una lunga guerra di secessione dal tirannico impero britannico, i fondatori si voltarono e crearono uno stato centralizzato quasi identico, di tipo britannico, dal quale non ci sarebbe mai stata alcuna via di fuga.

Per quanto importante fosse questo problema, Jefferson Davis annunciò al mondo che una questione altrettanto importante se non più importante era il tentativo del Nord di usare finalmente i poteri dello stato nazionale per saccheggiare il Sud, con una tariffa protezionistica come suo principale strumento di predazione. Come ha affermato nel suo primo discorso inaugurale, il popolo del Sud era “ansioso di coltivare la pace e il commercio con tutte le nazioni”. Tuttavia:”Non c’è motivo di dubitare che il coraggio e il patriottismo del popolo degli Stati confederati si troveranno pronti a qualsiasi misura di difesa che potrebbe essere richiesta per la loro sicurezza. Dedicati alle attività agricole, il loro principale interesse è l’esportazione di una merce richiesta in ogni paese manifatturiero. La nostra politica è la pace e il commercio più libero che le nostre necessità consentiranno. È allo stesso modo il nostro interesse, e quello di tutti coloro a cui vorremmo vendere e da cui compreremmo, che ci dovrebbe essere la minor quantità di restrizioni praticabili sull’interscambio di merci. Non può esserci che poca rivalità tra noi e qualsiasi comunità manifatturiera o di navigazione, come gli Stati nordoccidentali dell’Unione americana. ”

“Deve seguire, quindi, che l’interesse reciproco dovrebbe invitare alla buona volontà e alla gentilezza tra loro e noi. Se, tuttavia, la passione o la lussuria del dominio dovessero offuscare il giudizio e infiammare l’ambizione di questi Stati, dobbiamo prepararci a fronteggiare l’emergenza e mantenere, con l’ultimo arbitraggio della spada, la posizione che abbiamo assunto tra le nazioni della terra.”

Per inserire queste affermazioni nel contesto, è importante capire che il Nord stava più che raddoppiando il tasso medio delle importazioni in un momento in cui almeno il 90% di tutte le entrate fiscali federali proveniva dalle tariffe sulle importazioni. Il livello di tassazione federale era più che raddoppiato (dal 15% al 32,7%), come accadde il 2 marzo 1861, quando il presidente James Buchanan, il protezionista della Pennsylvania,commutò l’ordinanza tariffaria di Morrill in legge; una legge che fu pervicacemente promossa da Abraham Lincoln e il Partito Repubblicano. (La delegazione della Pennsylvania era una componente chiave per la nomina di Lincoln. Prima della convention repubblicana mandò un emissario privato, il giudice David Davis, in Pennsylvania con copie originali di tutti i suoi discorsi in difesa delle tariffe protezionistiche degli ultimi venticinque anni per convincere gli stessi protezionisti della Pennsylvania, guidati dal produttore / legislatore d’acciaio Thaddeus Stevens, che era il loro uomo. Ha conquistato la delegazione della Pennsylvania e in seguito ha nominato Davis alla Corte Suprema.

Da quando entrarono in vigore la Tariffa del 1824 e la “Tariffa degli abomini” ancor più protezionistica del 1828, con una aliquota media del 48%, il Sud protestava e minacciava persino l’annullamento e la secessione dal saccheggio protezionistico, come fece la Carolina del Sud nel 1833 quando fu formalmente annullata la “Tariffa degli abomini”. I voti al Congresso su queste tariffe erano completamente sbilanciati in termini di sostegno settentrionale e opposizione meridionale – sebbene vi fossero piccole minoranze di protezionisti del Sud e commercianti liberi del Nord, specialmente a New York in quest’ultimo caso.

Il Sud, come il Mid-West, era una società agricola che veniva saccheggiata due volte dalle tariffe protezionistiche: una volta pagando prezzi più elevati per i manufatti “protetti” e una seconda volta riducendo le esportazioni dopo che le alte tariffe impoverivano i loro clienti europei ai quali era proibitivo vendere negli Stati Uniti a causa delle tariffe elevate. La maggior parte dei prodotti agricoli del Sud – quasi il 75% circa in alcuni anni – era venduta in Europa.

La Carolina del Sud annullò la tariffa degli abomini e costrinse il presidente Andrew Jackson ad accettare un tasso tariffario inferiore, di compromesso, introdotto per più di dieci anni, a partire dal 1833. Il Nord non aveva ancora il potere politico di saccheggiare il Sud, un atto che molti statisti del Sud ritenevano talmente una grave violazione del patto costituzionale da giustificare la secessione. Ma nel 1861 la crescita della popolazione nel Nord e l’aggiunta di nuovi stati del Nord, avevano dato al Nord stesso un potere politico sufficiente per saccheggiare il Sud e il Mid-West agricoli con tariffe protezionistiche. La Tariffa Morrill era passata alla Camera dei Rappresentanti durante la sessione del 1859-60, molto prima che qualsiasi stato meridionale si fosse separato, e era segnato sul muro che era solo una questione di tempo prima che il Senato degli Stati Uniti ne seguisse l’esempio.

La Costituzione Confederata ha messo fuori legge completamente le tariffe protezionistiche, chiedendo solo una modesta “tariffa di entrata” del dieci percento circa. Un atto talmente orribile per il “Partito delle grandi cause morali” che i giornali affiliati al Partito repubblicano nel Nord chiesero il bombardamento dei porti del Sud prima della guerra. Con una tariffa del Nord nella fascia del 50% (l’aumento tariffario che sarebbe intervenuto alla firma di Lincoln dei dieci articoli legislativi; e tale sarebbe rimasta per i successivi cinquanta anni) rispetto alla tariffa media del 10% meridionale, hanno capito che molto del commercio del mondo sarebbe passato attraverso i porti del Sud, non del Nord, e per loro è stato questo il motivo di guerra. “Ora abbiamo i voti e intendiamo saccheggiarti senza pietà; se resisti invaderemo, conquisteremo e soggiogheremo “è essenzialmente ciò che diceva il Nord.

Né Lincoln né il partito repubblicano si sono opposti alla schiavitù del sud durante la campagna del 1860. Si sono solo opposti all’estensione della schiavitù nei nuovi territori. Questo non era a causa di alcuna preoccupazione per la condizione degli schiavi, ma faceva parte della loro strategia di saccheggio perpetuo. Gli agricoltori del Mid-West, come gli agricoltori meridionali, sono stati duramente discriminati dalle tariffe protezionistiche. Anche loro sono stati doppiamente tassati dal protezionismo. Questo è il motivo per cui il Mid-West (chiamato “il Nord-Ovest” nel 1860) ha fornito una seria resistenza antebellum allo schema yankee di saccheggio protezionistico. (Il Mid-West ha anche fornito alcune delle più efficaci opposizioni al regime di Lincoln durante la guerra, essendo la casa dei “Copperheads”, così chiamato come un termine diffamatorio del Partito Repubblicano). Questa opposizione è stata annacquata, tuttavia, quando il Partito Repubblicano sostenne la politica di impedire la schiavitù nei territori, preservandoli “per il libero lavoro bianco” secondo le parole dello stesso Abraham Lincoln. I Mid-Western erano razzisti come chiunque altro a metà del diciannovesimo secolo, e la stragrande maggioranza di loro non voleva che i neri, liberi o schiavi, vivessero in mezzo a loro. Lo stato dell’Illinois di Lincoln aveva modificato la sua costituzione nel 1848 per proibire l’immigrazione di neri liberi nello stato, e Lincoln stesso era un “manager” della Illinois Colonization Society, che usava i dollari delle tasse statali per deportare il piccolo numero di neri liberi che risiedeva nello stato. La stragrande maggioranza di loro non voleva che i neri, liberi o schiavi, vivessero in mezzo a loro.

Anche i braccianti bianchi e le masse di contadini non volevano la concorrenza per il loro lavoro da neri, liberi o schiavi che fossero; il Partito Repubblicano era felice di assecondarli. Poi c’è il “problema” degli schiavi nei Territori che gonfia la rappresentanza congressuale del Partito Democratico a causa della clausola della Costituzione dei tre quinti. Con una maggiore rappresentanza democratica, il saccheggio protezionista sarebbe diventato molto più problematico da raggiungere.

Questa strategia fu spiegata nella relazione della commissione per gli affari esteri degli Stati Confederati d’America il 4 settembre 1861:

“Mentre la gente del Nord-Ovest, essendo come la gente del Sud, un popolo agricolo, era generalmente contraria alla politica tariffaria protettiva – la grande strumentalizzazione settoriale del Nord. Erano alleati del sud, per sconfiggere questa politica. Quindi è stato solo parzialmente, e occasionalmente di successo. Per renderlo completo e per rendere il nord onnipotente a governare il Sud, la divisione nel Nord doveva essere sanata. Per realizzare questo progetto, e per sezionare il Nord, iniziò l’agitazione riguardante la schiavitù africana nel Sud. . . . Di conseguenza, dopo il rovesciamento della tariffa del 1828 [cioè la tariffa degli abomini], con la resistenza della Carolina del Sud nel 1833, l’agitazione riguardante l’istituzione della schiavitù del sud. . . è stato immediatamente avviato nel Congresso degli Stati Uniti. . . . Il primo frutto di [questo] dispotismo settoriale. . . era la tariffa recentemente approvata dal Congresso degli Stati Uniti. Con questa tariffa la politica protettiva si rinnova nelle sue forme più odiose e oppressive, e gli Stati agricoli sono resi tributari agli Stati manifatturieri “.

Il primo discorso inaugurale di Lincoln: “Pay Up or Die!”
Il primo discorso inaugurale di Abraham Lincoln fu probabilmente la più forte difesa della schiavitù del Sud mai fatta da un politico americano. Cominciò dicendo che in “quasi tutti i discorsi pubblicati” aveva dichiarato che “non ho alcuno scopo, direttamente o indirettamente, di interferire con l’istituzione della schiavitù negli Stati in cui già esiste”. Credo di non avere alcuna diritto legale di farlo, e non ho alcuna inclinazione a farlo. “Ha poi citato la Piattaforma del Partito Repubblicano del 1860, pienamente approvata, che proclamava che” il mantenimento inviolato dei diritti degli Stati, e in particolare il diritto di ciascuno Stato per ordinare e controllare le proprie istituzioni nazionali. . . è essenziale per quell’equilibrio di potere da cui dipendono la perfezione e la resistenza del nostro tessuto politico. . .” (enfasi aggiunta). “Istituzioni domestiche” significava schiavitù.

Lincoln quindi si impegnò a far rispettare la legge sugli schiavi fuggiaschi, che in effetti fece durante la sua amministrazione, restituendo dozzine di schiavi fuggiaschi ai loro “proprietari”. Soprattutto, sul finire del suo discorso approvò i sette paragrafi dell’emendamento Corwin alla Costituzione, già approvati da Camera e Senato e ratificato da diversi stati. Questo “primo tredicesimo emendamento” proibirebbe al governo federale di interferire in ogni modo con la schiavitù del sud. Avrebbe inciso esplicitamente la schiavitù nel testo della Costituzione. Lincoln affermò nello stesso paragrafo che riteneva che la schiavitù fosse già costituzionale, ma che non aveva “alcuna obiezione al fatto che fosse reso esplicito e irrevocabile”.

Nel suo libro La squadra dei rivali Doris Kearns-Goodwin usa fonti primarie per documentare che la fonte dell’emendamento non era in realtà il deputato dell’Ohio Thomas Corwin ma lo stesso Abraham Lincoln che, dopo essere stato eletto ma prima di essere insediato, incaricò William Seward di ottenere l’emendamento attraverso il Senato degli Stati Uniti dominato dal Nord; cosa che ha fatto. Altri repubblicani videro che anche la Camera dei rappresentanti dominata dal Nord avrebbe votato a favore.

Così, il giorno in cui fu insediato, Abraham Lincoln offrì la più forte e intransigente difesa della schiavitù del Sud immaginabile. Egli annunciò efficacemente al mondo che se gli stati del Sud rimanessero nell’unione e si sottomettessero a essere saccheggiati dall’impero protezionista dominato dagli yankee, allora il governo degli Stati Uniti non avrebbe mai fatto nulla contro la schiavitù.

La risoluzione Aims War of the Senate degli Stati Uniti riecheggiava le parole di Lincoln secondo cui la guerra NON riguardava la schiavitù, ma il “salvataggio dell’unione”; una contesa che Lincoln ripeteva molte volte, inclusa la famosa lettera al direttore del New York Tribune Horace Greeley in cui diceva pubblicamente ancora una volta che questo scopo era “salvare l’unione”; il non fare nulla contro la schiavitù. In realtà il regime di Lincoln distrusse completamente l’unione volontaria dei padri fondatori. “Salvando l’Unione” intendeva costringere il Sud a sottomettersi al saccheggio protezionistico, non preservando l’unione altamente decentralizzata e volontaria della generazione fondatrice basata su principi come il federalismo e la sussidiarietà.

In drammatico contrasto, sulla questione della riscossione delle tariffe, Abraham Lincoln fu violentemente intransigente. “Niente” è più importante del passaggio della tariffa Morrill, come aveva annunciato a un pubblico della Pennsylvania poche settimane prima. Niente. Nel suo primo discorso inaugurale ha affermato nel diciottesimo paragrafo che “[T] qui non deve essere spargimento di sangue o violenza, e non ce ne sarà nessuno a meno che non sia forzata l’autorità nazionale”. Di cosa avrebbe potuto parlare? Cosa causerebbe “l’autorità nazionale” a compiere atti di “spargimento di sangue” e “violenza” contro i propri cittadini americani? Il presidente non fa un giuramento in cui promette di difendere le libertà costituzionali dei cittadini americani? In quale modo ordinare atti di “spargimento di sangue” e “violenza” nei loro confronti è coerente con il giuramento presidenziale per l’ufficio che aveva appena assunto,

Lincoln spiegò nella successiva frase: “Il potere confidato in me sarà usato per tenere, occupare e possedere la proprietà e i luoghi appartenenti al Governo, e per raccogliere i doveri e le imposte; ma al di là di ciò che potrebbe essere necessario per questi oggetti, non ci sarà nessuna invasione, nessuna forza sarà usata contro la gente da nessuna parte “(enfasi aggiunta). I “doveri e imposte” a cui si riferiva erano le tariffe da riscuotere secondo la nuova legge Morrill. Se ci dovesse essere una guerra, disse, la causa della guerra sarebbe in realtà il rifiuto degli Stati del Sud a sottomettersi al saccheggio della tassa federale appena raddoppiata, una politica che il Sud stava periodicamente minacciando di annullare con la stessa secessione finita per i precedenti trentatré anni.

In sostanza, Abraham Lincoln stava annunciando al mondo che non avrebbe fatto marcia indietro verso i secessionisti del Sud come aveva fatto il presidente Andrew Jackson accettando una riduzione negoziata della tariffa degli abomini (negoziata dall’idolo e dall’ispirazione politica di Lincoln, Henry Clay, autore della Tariffa degli Abomini in primo luogo!). Ha promesso “violenza”, “spargimento di sangue” e guerra alla riscossione delle tariffe, e ha mantenuto la sua promessa.

Thomas J. DiLorenzo è professore di economia alla Loyola University nel Maryland e autore di The Real Lincoln.

 

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