L’energia non è una merce, ma una infrastruttura pubblica
Tutti i danni che subiamo dalle privatizzazioni nel mercato dell’energia
Davide Gionco
21.04.2022
L’acqua, le infrastrutture pubbliche e l’energia
Nel 2011 gli italiani votarono a larga maggioranza (95,8%) a favore del referendum per il mantenimento del controllo pubblico sui servizi idrici.
La maggioranza degli italiani aveva capito che l’acqua è un bene comune fondamentale, senza del quale non possiamo vivere, la cui disponibilità non può dipendere dagli interessi economici di soggetti privati.
Senza acqua non possiamo sopravvivere come esseri umani e non possiamo produrre il cibo che mangiamo. Senza acqua molte aziende dovrebbero fermare la loro produzione, non avremmo il turismo, non avremmo i servizi pubblici. Senza acqua non potremmo neppure produrre energia elettrica tramite la combustione di gas, idrocarburi o carbone.
Se venisse a mancare l’acqua in un certo territorio del paese, quel territorio si spopolerebbe in brevissimo tempo, obbligando gli abitanti ad emigrare verso altri territori.
La disponibilità di acqua è un bene comune, una infrastruttura fondamentale da cui dipende la vivibilità e la sostenibilità economica del nostro Paese.
Analogamente alla disponibilità di acqua, un paese moderno non può sussistere senza disporre dell’accesso comune, a prezzi abbordabili, ai prodotti alimentari fondamentali, ad una rete stradale, ai servizi sanitari, all’istruzione di base, alle telecomunicazioni.
L’accessibilità ai servizi energetici, intesi come disponibilità di energia elettrica e come disponibilità di combustibile per produzione di energia termica, è con ogni evidenza una questione fondamentale per la sussistenza del nostro paese.
Senza energia, infatti, non possiamo garantire livelli di comfort accettabili nelle abitazioni, ma soprattutto non possiamo garantire la produzione di beni e servizi di cui abbiamo bisogno per vivere, dalla produzione di cibo, ai servizi sanitari, alla scuola, alla sicurezza, alle costruzioni, ecc.
La lungimiranza dei politici della Prima Repubblica
La classe politica che guidò l’Italia nel secondo dopoguerra, portandola dalle rovine della guerra al miracoloso boom degli anni ’60-’70, aveva le idee molto chiare riguardo al ruolo fondamentale delle infrastrutture pubbliche nello sviluppo del Paese.
A titolo esemplificativo richiamiamo le motivazioni espresse nel 1962 (“Nota aggiuntiva”) da Ugo La Malfa riguardo alla creazione dell’ENEL (Ente Nazionale per l’Energia Elettrica), tramite la nazionalizzazione di 11 aziende private del settore.
Il problema di fondo da risolvere era in primo luogo che le 11 aziende private miravano unicamente a realizzare i propri profitti, per cui tendevano a creare degli oligopoli o addirittura dei monopoli, per poi massimizzare i prezzi di vendita, non avendo gli acquirenti privati delle alternative. E questo fattore risultava penalizzante per la competitività delle aziende che si trovavano obbligate a pagare prezzi troppo elevati per l’energia elettrica.
In secondo luogo quelle aziende private del settore elettrico non avrebbero mai esteso il servizio alle zone più arretrate del Paese, in quanto non redditizio per i loro bilanci. Ma nessuno sviluppo economico delle aree arretrate del Paese sarebbe mai stato possibile senza avere accesso alla rete elettrica.
La soluzione ovvia, per la lungimirante classe politica del tempo, fu l’acquisizione di quelle aziende private e la loro nazionalizzazione. Dopo di che vi fu un piano nazionale di investimenti, con la realizzazione delle linee ad alta tensione, dei collegamenti con le nazioni estere e, infine, la decisione del 1967 di mettere l’ENEL sotto la sorveglianza diretta del CIPE (Comitato Interministeriale di Programmazione Economica), di concerto con il Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato.
Era chiaro a tutta la classe dirigente del tempo che l’energia elettrica non era una merce come tante altre, che poche aziende private potevano vendere per realizzare i propri profitti. Tali profitti, infatti, sarebbero stati ben poca cosa rispetto ai danni economici per mancata crescita causati all’intero Paese.
Il fatto di garantire a tutti, su tutto il territorio ed ad un prezzo “politico”, uguale per tutti e non esposto alle (inevitabili) manovre speculative dei rivenditori privati era un requisito fondamentale affinché decine di migliaia di imprese private potessero sviluppare la loro capacità di produrre beni e servizi di ogni genere.
La decisione del 1962 fu probabilmente fra le più determinanti per innescare l’incredibile boom economico italiano degli anni 1960.
Per ragioni del tutto analogo Enrico Mattei rifondò l’ENI stringendo tutta una serie di accordi internazionali, che consentirono all’Italia di approvvigionarsi di petrolio in modo continuo ed a prezzi controllati, senza essere esposti alle azioni speculative delle famose “sette sorelle” del petrolio (Exxon, Mobil, Texaco, Socal, Gulf, Shell, BP). Con molta probabilità questa azione fu la causa principale della morte in dinamiche mai chiarite dello stesso Mattei. Con la stessa logica i successori di Mattei alla guida dell’ENI stipularono accordi per la fornitura di gas con la Russia, con l’Algeria e con la Libia. L’obiettivo era sempre lo stesso: assicurare all’Italia un adeguato approvvigionamento di energia a prezzi abbordabili.
Il fondamento teorico di questa visione politica furono con ogni probabilità le pubblicazioni dell’economista Paolo Sylos Labini, il quale nel suo libro del 1956 “Oligopolio e progresso tecnico” spiegava come l’esistenza di poche imprese oligopoliste su fattori produttivi chiave, come ad esempio la distribuzione di energia, potesse di fatto impedire lo sviluppo di molte altre aziende. La soluzione proposta è che fosse lo Stato a prendere il controllo delle aziende distributrici di energia, in modo da eliminare l’obiettivo del massimo profitto e finalizzandole a garantire a tutti la fornitura di base dell’energia.
Non il prezzo più basso, ma prezzi stabili e approvvigionamento certo
Siccome il mercato internazionale dell’energia, in particolare del petrolio (dato che l’Italia decise presto di svincolarsi dal carbone) è sempre stato soggetto a speculazioni e fluttuazioni in conseguenza di cambiamenti geopolitici, ENEL ed ENI avevano il mandato di operare, per quanto possibile, per garantire prima di tutto l’approvvigionamento certo di energia, fondamentale per non rischiare l’arresto delle attività produttive. Il secondo obiettivo, per quanto possibile, era quello di garantire prezzi il più possibile stabili. Tale obiettivo era importante, perché anche le eccessive fluttuazioni dei prezzi dell’energia possono creare dei problemi al settore produttivo. Infatti l’eccessiva fluttuazione del costo dell’energie rende difficile la determinazione dei costi di produzione e, quindi, anche la pianificazione industriale.
Questo significa che, a livello politico-economico, è meglio per le industrie avere un prezzo dell’energia mediamente un po’ più altro, ma stabile, piuttosto che un prezzo dell’energia fortemente altalenante, anche se mediamente inferiore.
Per questo motivo l’ENI, che si occupava dell’approvvigionamento di energia primaria, tendeva a stipulare con i soggetti esteri dei contratti di fornitura di 20-30 anni, a prezzi concordati.
Questo tipo di contratti, peraltro, risultavano convenienti anche per i fornitori esteri, i quali potevano essere certi di ammortizzare i loro investimenti, come ad esempio quelli necessari per realizzare un gasdotto di 4000 km dalla Siberia settentrionale all’Italia.
I geni dell’Unione Europea e le liberalizzazioni
Fatte salve le eccezioni del 1974 (crisi energetica causata dalla guerra del Kippur) e del 1979-80 (crisi energetica causata dalla rivoluzione in Iran e poi dalla guerra Iran-Irak), nelle quali le oscillazioni dei prezzi dell’energia furono inevitabilmente scaricate sugli utilizzatori, il meccanismo dell’energia pubblica a prezzo controllato ha dimostrato di funzionare bene per diversi decenni.
Dopo di che, nel 1992, l’Italia sottoscrive il Trattato di Maastricht di istituzione dell’Unione Europea ed i successivi trattati che hanno via via ceduto sempre più poteri alle istituzioni europee.
Le prime richieste, già degli anni ’90, messe in atto convintamente da personaggi dal nome di Romano Prodi e Mario Draghi, furono quelle di privatizzare le grandi compagnie energetiche nazionali.
Tutto questo senza grandi analisi economiche, ma sulla base dell’assioma neoliberista per cui “privato è più efficiente e costa meno”.
Da quel momento ENI ed ENEL pensarono sempre di meno a garantire energia a prezzo controllato a cittadini e imprese in Italia e sempre di più a realizzare utili per i propri azionisti, come tutte le altre multinazionali del mondo.
Non stiamo dicendo che, quando ENI ed ENEL erano pubbliche, non ci fossero sprechi ed inefficienze. Ma stiamo dicendo che, come la storia ha dimostrato, gli obiettivi “statutari” di garantire l’approvvigionamento di energia a tutti gli italiani ed a prezzi controllati venivano assicurati, senza ridurre sul lastrico delle famiglie e senza portare alla chiusura le fabbriche a causa di un eccessivo aumento dei costi dell’energia.
L’aumentare del grado di privatizzazione nel settore dell’energia ha portato dapprima alla moltiplicazione del numero di rivenditori, portando in Italia non alla riduzione dei prezzi, ma soprattutto ad una riduzione della trasparenza nel settore, con la moltiplicazione di truffe e dei contratti-capestro venduti telefonicamente ad ignari consumatori e responsabili di piccole imprese, che non potevano essere specialisti di contratti energetici.
Il livello di privatizzazioni ha raggiunto il suo culmine la scorsa estate 2021, con l’attualizzazione della finanziarizzazione del mercato europeo del gas naturale.
Da allora il prezzo di vendita al dettaglio del gas non viene più determinato dai prezzi dei contratti di fornitura a lungo termine sottoscritti dall’ENI (o società omologhe di altre nazioni) con Russia, Algeria & c., ma dalle contrattazioni giornaliere presso la borsa TTF (Title Transfer Facility) di Amsterdam, dove centinaia di soggetti privati scambiano quantitativi virtuali di gas, con liquidazione attuale o differita (futures).
Il risultato di queste “riforme” non è stata la diminuzione del prezzo del gas in Europa, ma è stato un aumento medio del prezzo unito a fortissime oscillazioni del prezzo.
Le conseguenze del provvedimento europeo, dopo un anno di “liberalizzazioni”, dovrebbe portare immediatamente a fare retromarcia, essendo evidente che le dinamiche della finanza speculativa si adattano molto male ad un mercato fatto di rigidità strutturali come quello del gas naturale.
Ma non lo faranno, perché probabilmente l’obiettivo delle lobbies finanziarie che la fanno da padrone negli uffici di Bruxelles era proprio l’aumento delle rendite finanziarie nel settore dell’energia. Le rendite finanziarie vengono garantite sia dagli alti prezzi, sia dalle frequenti fluttuazioni dei prezzi.
Per questi soggetti l’energia è una merce come tante altre, mentre per cittadini ed imprese è quasi come l’aria che respiriamo, di cui non possiamo fare a meno.
I contratti oil-link e gas-to-gas
Per spiegare le ragioni delle disfunzionalità delle liberalizzazioni europee nel mercato dell’energia, in particolare del gas naturale, dobbiamo prima di tutto comprendere le tipologie di contratti di acquisto del gas naturale.
Siccome oltre il 40% dell’energia elettrica prodotta in Italia è generata dalla combustione di gas naturale, il prezzo del gas naturale incide direttamente sul prezzo dell’energia termica (riscaldamento, produzione industriale), sia indirettamente, causando un aumento del prezzo dell’energia elettrica.
La quasi totalità del gas naturale importato in Italia è acquistato all’ingrosso da 3 operatori: ENI, Enel ed Edison. Questi operatori hanno stipulati dei contratti a lungo termine (durata 20-30) per grandi quantitativi di gas. Vengono definiti “oil-link” in quanto generalmente il prezzo di acquisto del gas è modulato in funzione dell’andamento del prezzo del petrolio (oil in inglese).
La caratteristica più importante di questi contratti non è solo la relativa stabilità del prezzo, ma è il fatto che gli ordinativi di grandi quantità di gas vengono fatti tenendo conto delle previsioni di consumo dell’Italia (famiglie, imprese e produzione di energia elettrica) e tenendo conto delle possibilità di stoccaggio del gas in Italia. I fornitori esteri, per il fatto di utilizzare condotte del gas di un certo diametro, hanno una capacità di punta di consegna del gas limitata, quindi prevedono la consegna anticipata del gas durante i periodi a bassa domanda (primavera, estate, autunno) in modo da fare fronte alla domanda di picco invernale. Un’altra caratteristica di questi contratti è il “take or pay” ovvero che il gas ordinato deve essere pagato, anche se poi non ne viene richiesta la consegna, per il fatto che il fornitore non può garantire di essere in grado di consegnare la stessa quantità in seguito, a causa dei limiti di capacità dei gasdotti.
Il concetto di fondo di questi contratti è la pianificazione, la quale consente di ottimizzare l’uso degli impianti sia lato paese fornitore, sia lato paese consumatore, nonché di tenere abbastanza sotto controllo i prezzi.
Pianificazione è ciò che è necessario per assicurare ad un paese di 60 milioni di abitanti, famiglie e industrie, il necessario approvvigionamento di energia.
Questo tipo di contratti sono stati la norma dagli anni ’70, con le prime forniture di gas dall’estero, fino allo scorso anno 2021. Dopo di che l’Unione Europea ha “liberalizzato” il mercato del gas naturale, consentendo a molti piccoli soggetti di stipulare dei “mini-contratti” di acquisto di gas, con il prezzo di acquisto slegato dal prezzo del petrolio e per questo denominati “gas-to-gas”.
Il prezzo di acquisto del gas viene quindi stabilito dal fornitore sulla base degli ordinativi che riceve.
Il prezzo di vendita del gas sul mercato europeo viene deciso dalle contrattazioni giornaliere presso la sopra citata borsa TTF di Amsterdam, con il meccanismo del prezzo marginale.
In sostanza, nelle regole di incontro fra domanda e offerta, i prezzi di vendita del gas vengono gradualmente aumentati fino a soddisfare tutta la domanda di gas, dopo di che il prezzo della “quota finale” di gas venduta per soddisfare la richiesta degli ultimi acquirenti di gas viene utilizzato come prezzo di vendita di tutto il gas.
Facciamo un esempio per spiegare meglio: se il 50% del gas viene acquistato dai venditori a 25 €/MWh e poi un altro 45% al prezzo di 50 €/MWh e infine il restante 5% viene acquistato al prezzo di 75 €/MWh, tutto il gas messo in vendita viene prezzato a 75 €/MWh, consentendo grandi utili a chi lo ha acquistato a 50 €/MWh e ancora di più per chi lo ha acquistato a 25 €/MWh.
Fra i venditori di gas non ci sono soltanto i produttori (Gazprom & c.), ma ci sono anche tutti gli investitori che hanno acquistato precedentemente gas ad un prezzo inferiore che ora lo rivendono ad un prezzo superiore.
Così come fra gli acquirenti di gas non ci sono soltanto coloro che poi lo distribuiscono a famiglie e imprese, ma ci sono anche coloro che lo acquistano oggi, per poi rivenderlo a domani ad un prezzo superiore.
E, come sempre avviene nei mercati finanziari, ci sono coloro che guadagnano sulle vendite allo scoperto e sui futures, scommettendo sulle variazioni future dei prezzi del gas.
Data la possibilità di realizzare grandi utili finanziari, la domanda di gas verso i pochi produttori di gas reale è stata “drogata” dalla stipula di moltissimi contratti a breve termine, definiti contratti “spot”, della durata di poche settimane o addirittura di un solo giorno.
Lo scopo di questi contratti non è garantire l’effettiva consegna di gas agli utenti finali, ma unicamente realizzare dei profitti finanziari.
Quindi, senza la minima pianificazione, i produttori di gas hanno ricevuto dei contratti di acquisto di gas “spot” che non tenevano per nulla conto della capacità di consegna fisica del prodotto.
Di conseguenza hanno fissato dei prezzi di vendita molto elevati, sia per fare maggiori utili, sia per scoraggiare questo tipo di contratti totalmente disfunzionali per il loro mercato.
Anche perché in questi contratti di breve termine “gas-to-gas” non esiste l’impegnativa al ritiro della merce, se non viene pagata.
Il risultato è stato che questi prezzi “marginali” relativi a contratti di ordinativi di gas “teorici”, gas che in molti casi non è mai stato né pagato né consegnato, hanno determinato il prezzo marginale del gas naturale nella borsa di Amsterdam e, quindi, il prezzo di vendita del gas a livelli mai visti sul mercato europeo.
Naturalmente le incertezze sulle future forniture di gas, a causa del conflitto in Ucraina e delle sanzioni europee alla Russia, hanno ulteriormente esasperato queste dinamiche che erano in atto già a partire dalla scorsa estate.
Per chi fosse interessato ad approfondire ulteriormente la questione consigliamo la lettura di questo articolo.
I danni causati all’economia italiana
Queste disfunzionalità derivanti dal cambiamento dei metodi di quotazione del gas in Europa hanno già causato e stanno causando danni immensi all’economia italiana.
Stiamo parlando di un “furto”, tutt’ora in corso, del valore di alcune decine di miliardi di euro a carico delle nostre famiglie e delle nostre imprese.
Alcune imprese particolarmente energivore (acciaierie, fonderie, vetrerie, ceramica, cemento, legno e carta) hanno già ridotto o addirittura arrestato la produzione, in quanto con questi prezzi dell’energia non sono in grado di produrre a prezzi che i loro clienti possano sopportare.
Questo ci costa fin d’ora un aumento della disoccupazione.
Il rincaro del gas naturale e dell’energia elettrica (prodotta bruciando gas) ha già portato ad un aumento considerevole dei prezzi al consumo, così come alla riduzione dei margini di guadagno di moltissime imprese.
Non essendoci le condizioni per un aumento dei salari, questo porterà ad un aumento della povertà in Italia (oltre agi attuali 5 milioni di poveri assoluti).
Ma i danni peggiori ci arriveranno dalla mancanza di pianificazione.
Stanti gli attuali alti prezzi di acquisto del gas e stante la perdita di quote di mercato da parte dei grandi distributori storici, come ENI, in questo momento nessuno ha interesse ad acquistare gas a prezzi elevati per immagazzinarlo in vista del prossimo inverno.
Il rischio reale è che il prossimo inverno ci ritroviamo con scorte insufficienti di gas, perché non ce ne sarà abbastanza per soddisfare la domanda di punta del prossimo inverno.
A quel punto Mario Draghi, per coprire il misfatto, ci dirà che “abbiamo deciso” di applicare delle sanzioni alla Russia per la guerra in Ucraina, per cui dovremo “fare sacrifici” e rinunciare ad una parte rilevante (20-25%) delle forniture di gas, per “punire Putin”.
Questo mentre in realtà la vera causa della carenza di gas del prossimo inverno saranno le dinamiche speculative e prive di pianificazione del mercato del gas europeo.
Il risultato, inevitabile, sarà un ulteriore aumento dei prezzi del gas in Italia, questa volta a causa della scarsa disponibilità di fronte alla domanda. Il tutto unito al razionamento del gas, per cui molte imprese dovranno forzatamente ridurre la propria produzione e licenziare del personale.
Lo stesso avverrà con l’energia elettrica, dato che con la scarsa disponibilità di gas sarà necessario razionare anche l’energia elettrica (prepariamoci a delle interruzioni periodiche), oltre al fatto che la pagheremo a prezzi mai visti.
Tutto questo lo scriviamo ora, che siamo ancora in tempo a cambiare le regole di determinazione dei prezzi e per reintrodurre dei criteri di pianificazione nelle forniture di gas.
Che qualcuno intervenga, prima del disastro nel nostro Paese, a preservare l’infrastruttura pubblica che è l’energia.
Le autorities dell’energia o la Magistratura.