Italia e il mondo

TASSONOMIA PRIMA DEGLI IDEALTIPI DELLE PRINCIPALI FORME DEL POTERE POLITICO IN CONFORMITÀ ALLA DIALETTICA DEL PARADIGMA  REALISTICO DEL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO A PROPOSITO DE  LE QUESTIONI RUSSE AL DI LÀ  DELL’UCRAINA DI    GEORGE    FRIEDMAN_di Massimo Morigi

TASSONOMIA PRIMA DEGLI IDEALTIPI DELLE PRINCIPALI FORME DEL POTERE POLITICO IN CONFORMITÀ ALLA DIALETTICA DEL PARADIGMA  REALISTICO DEL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO A PROPOSITO DE  LE QUESTIONI RUSSE AL DI LÀ  DELL’UCRAINA DI    GEORGE    FRIEDMAN

  Di Massimo Morigi

Non c’è nulla di nascosto che non sarà svelato,

né di segreto che non sarà conosciuto.  

Pertanto ciò che avrete detto nelle tenebre,

sarà udito in piena luce;

e ciò che avrete detto all’orecchio nelle stanze più interne,

sarà annunziato sui tetti.

Luca 12, 2-3

          Le questioni russe al di là dell’Ucraina di George Friedman, pubblicato per “L’Italia e il Mondo” in data 16 novembre 2025 (Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20251129211554/https://italiaeilmondo.com/2025/11/16/le-questioni-russe-al-di-la-dellucraina-di-george-friedman/?lcp_pagelistcategorypostswidget-3=9#lcp_instance_listcategorypostswidget-3) e nel suo testo originale in inglese in data 11 novembre 2025 per “Geopolitical Futures” (Russia’s Issues Beyond Ukraine, all’URL https://geopoliticalfutures.com//pdfs/russias-issues-beyond-ukraine-geopoliticalfutures-com.pdf, file PDF caricato su Internet Archive generando gli URL  https://archive.org/details/russias-issues-beyond-ukraine-geopoliticalfutures-com  e  https://ia601704.us.archive.org/3/items/russias-issues-beyond-ukraine-geopoliticalfutures-com/russias-issues-beyond-ukraine-geopoliticalfutures-com.pdf, copiaincolla del documento PDF su file Word e caricato su Internet Archive generando l’URL https://archive.org/details/problemi-della-russia-al-di-la-ucraina), è un documento di estremo interesse per due ordini di motivi. Il primo, e va detto molto chiaramente, non tanto per gli spunti di  analisi geopolitica che offre ai suoi lettori ma proprio per il suo contrario, vale a dire per la intima natura opaca ed omissiva di questo testo che ce lo connota come un ottimo esempio di propaganda e disinformazione pro il c.d. occidente, e questo tanto più dispiace perché George Friedman ha saputo in passato, pur con la sua dichiarata ferrea appartenenza a quelle che lui riteneva le ragioni degli Stati Uniti, fornirci ottime prove (ben volentieri si concede che oggi queste ragioni, vista la appena malamente celata guerra civile che percorre sempre più gli Stati Uniti con le conseguenti ripercussioni a livello di gruppi strategici di questo paese che continuano la loro guerra civile anche sul terreno della politica estera, siano a Friedman sempre più difficili da esplicitare, e forse anche in ciò va trovata la ragione dell’opacità del documento).

          La seconda ragione di interesse, è che è proprio la profonda manchevolezza del documento che ci consente, proprio come in un negativo fotografico o, ancor meglio, attraverso la sua negazione e il suo superamento dialettico, di mettere ulteriormente a fuoco la nostra definizione di democrazia come ‘polioligarchia competitiva’ (sulla sostituzione del termine ‘democrazia’, parola politologicamente di nullo valore descrittivo ed euristico e carica di una malcelata e ancor peggio sviluppata teologia politica, col termine ‘polioligarchia competitiva’, che ancor meglio e assai più realisticamente del termine ‘poliarchia’ di Robert Dahal si presta a rappresentare le forme che il potere assume sotto i c.d. regimi democratici mettendo in luce, al contrario che in Dahal, che le ‘democrazie’ non sono una sorta di polifonia fra gruppi di  potere – e da qui poliarchia – ma uno scontro fra grandi agenti strategici alfa e quindi anarchici in cui il popolo, il gruppo strategico omega, ha il solo ruolo dell’illusione del potere unicamente perché viene regolarmente convocato ad elezioni contrassegnate dal  voto segreto e formalmente libero, cfr.  Massimo Morigi, Confrontando Agatocle con Netanyhau commentando Israele-Italia di Cesare Semovigo, in “L’Italia e il Mondo”, 15 ottobre 2025, Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20251129193338/https://italiaeilmondo.com/2025/10/15/confrontando-agatocle-con-netanyahu-commentando-israele-italia-di-cesare-semovigo_di-massimo-morigi/?lcp_pagelistcategorypostswidget-3=5#lcp_instance_listcategorypostswidget-3; Id., Todo Modo, in “L’Italia e il Mondo”, 8 novembre 2025, Wayback Machine:   https://web.archive.org/web/20251123084830/https://italiaeilmondo.com/2025/11/08/todo-modo_di-massimo-morigi/?lcp_pagelistcategorypostswidget-3=9#lcp_instance_listcategorypostswidget-3     e Id.,  Breve nota  intorno allo stimolante intervento Patria? Alcune idee in ordine sparso, in “L’Italia e il Mondo”, 12 novembre 2025, Wayback Machine:   https://italiaeilmondo.com/2025/11/12/breve-nota-intorno-allo-stimolante-intervento-patria-alcune-idee-in-ordine-sparso_di-massimo-morigi/?lcp_pagelistcategorypostswidget-3=9#lcp_instance_listcategorypostswidget-3. Infine sui gruppi strategici alfa e sui gruppi strategici omega si rinvia sempre a Id., Teoria della distruzione del valore, all’URL di Internet Archive https://archive.org/details/MarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore ed anche pubblicato sull’ “Italia e il Mondo” in data 4 febbraio 2017 e documento raggiungibile  tramite la Wayback Machine all’URL https://web.archive.org/web/20170205031134/https://italiaeilmondo.com/2017/02/04/teoria-della-distruzione-del-valore-teoria-fondativa-del-repubblicanesimo-geopolitico-e-per-il-superamentoconservazione-del-marxismo-di-massimo-morigi/).

          Due i passaggi che maggiormente segnalano le criticità del documento in questione e per quanto riguarda la sua inconcludente analisi geopolitica è il seguente, che si cita come il successivo nell’originale in inglese, proprio in chiusura dell’articolo. Scrive quindi Friedman: «All this is to say that Russia’s obsession with its western border has come at the expense of its southern border, the countries along which are interested in reaching an accommodation with the United States. Russia has neither the ability nor the interest to act on two borders at once. Normally, this would lead a nation to moderate attention to the war it is not winning and try to reduce future threats on the other borders. So far, this is not what Russia is doing.» Ora, se è del tutto chiaro che se da una parte siamo di fronte ad un mondo rovesciato, perchè la Russia, contrariamente a quanto impavidamente sostiene Friedman, sta vincendo la guerra che la Nato conduce per procura contro di lei attraverso la vittima sacrificale dell’Ucraina, dall’altro lato siamo in presenza anche di una debole analisi geostrategica, perché se è vero come è vero e come si sostiene all’inizio dell’ articolo  che la Russia è in difficoltà nella parte meridionale del Caucaso in ragione della pervasiva ed infiltrante azione degli Stati Uniti, non si capisce proprio perché la Russia dovrebbe lasciar perdere l’Ucraina, forse perché non sta vincendo la guerra?, ma a questo punto, come già rilevato, siamo in presenza di un “sogno bagnato” di George Friedman e di tutto il c.d. occidente che non si capisce perché venga ancora pubblicamente rappresentato, se solo perché non si riesce a cambiare registro propagandistico o anche perché, e sarebbe ancora più grave, gli stessi propagandisti sono caduti vittime della loro propaganda (probabilmente per tutti e due i motivi, anche se profilandosi sempre più una vittoria schiacciante della  Russia è assai verosimile che questo mondo a rovescia venga ammanito alle masse più per cinismo che per una residua convinzione).

          Veniamo quindi al secondo passaggio significativo del documento dove George Friedman afferma: «China’s willingness to stop companies from buying Russian oil should be seen as a gesture of goodwill ahead of hopefully better relations with Washington. This makes sense because the Chinese economy needs access to U.S. markets. China is undergoing significant economic problems, including potentially declining exports, a real estate crisis and high unemployment in certain population segments. Should China decide the obvious – that if tensions result in massive tariffs, it will need better relations with the U.S. – it will probably spurn Russia, especially if there is little economic fallout in doing so.» Anche qui si rileva un ottimo esempio di mondo al contrario quando si afferma che la Cina vuole interrompere l’importazione di petrolio russo, perché se è vero come è vero che alcune grosse compagnie petrolifere cinesi a conduzione statale hanno interrotto le importazioni, ciò non equivale ad una interruzione delle attività volte all’incremento delle importazioni energetiche dalla Russia ma, anzi, ad un potenziamento della c.d. flotta fantasma cinese che sin dagli inizi delle prime sanzioni ha garantito la vendita della Russia alla Cina delle sue risorse energetiche, e questo illusorio rifiuto della Cina di acquistare da adesso in poi, dopo il diciannovesimo pacchetto di sanzioni, petrolio russo molto difficilmente è compatibile col fatto che subito dopo le sanzioni Cina e Russia hanno stipulato un accordo per una sempre una più stretta collaborazione energetica per gli anni a venire. Si consulti a questo proposito la nota della “Tass” del 4 novembre 2025 Russia, China to continue boosting energy cooperation (all’URL https://tass.com/economy/2039035, copiaincolla del documento  su file Word e successivo suo caricamento  su Internet Archive generando l’URL  https://archive.org/details/tass-russia-cina) e per quanto riguarda il rafforzamento della flotta fantasma, giusto perché non si dica che noi si è propensi ad affidarci alle menzioniere e traditrici fonti provenienti dal nemico,  volentieri si rinvia ad “Intellinews” che in data 17 novembre 2025 pubblica l’articolo di Mark Buckton China’s LNG tanker shadow fleet – reality or fiction? (Wayback Machine:  https://web.archive.org/web/20251129213117/https://www.intellinews.com/china-s-lng-tanker-shadow-fleet-reality-or-fiction-411750/?source=russia%2F%3Flcp_pagelistcategorypostswidget-3=9#lcp_instance_listcategorypostswidget-3) dove, appunto, si ragiona intorno al ruolo chiave che nei tempi a venire ricoprirà la flotta fantasma per incrementare le esportazioni energetiche dalla Russia verso la Cina e, infine, siccome ben sappiamo che la disinformatia del nemico è sempre in agguato come il demonio che si rifugia anche nei luoghi più venerati e quindi ritenuti ingenuamente sicuri, si rinvia a “Bloomberg”, il Santa Sanctorum del turbocapitalismo finanziario e perciò luogo sicuramente bonificato dagli spiriti malvagi putiniani e russofili, che in data 12 novembre 2025 pubblica a firma di Stephen Stapczynski China Ratchets up Efforts to Import Blacklisted Russian LNG (Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20251121071239/https://www.bloomberg.com/news/articles/2025-11-12/china-ratchets-up-efforts-to-import-blacklisted-russian-lng), il cui argomento sono gli sforzi cinesi per rafforzare la sua flotta fantasma per aggirare le sanzioni energetiche contro Russia. 

           Fuori dagli scherzi e non dilungandoci quindi in ulteriori facili facezie facenti leva sul timore  che anche “Bloomberg” sia infiltrato da pericolosi comunisti e assatanati putiniani (ma semmai rilevando che la cecità di Friedman sulla flotta fantasma è praticamente condivisa da tutti i principali mass media occidentali, per  comparire l’argomento, come s’è visto, soprattutto su organi specialistici e non riservati alla massa, e quindi, da questo punto di vista, Friedman avrebbe potuto dare “qualcosina” di più…), è preferibile porre sotto attento scrutinio, proprio perché la sua ingenuità è per noi foriera di interessanti e nuove integrazioni di teoria politica e/o geopolitica, il passo appena citato da “Geopolical Futures”dove si manifesta in pieno la speranza di Friedman che la Cina, per il  suo passato di rapporti tumultuosi verso la Russia ed anche in ragione di motivazioni economiche, deciderà alla fine di rinunciare alla sua attuale alleanza militare ed economica con la Russia per volgersi, quindi, con rinnovato interesse verso gli Stati Uniti.  Ma, a parte il fatto che in politica e a maggior ragione nelle scienze sociali e, soprattutto, in geopolitica ricorrere solo ai precedenti storici ma non calati nella concreta ed attuale situazione costantemente in dialettica evoluzione è sempre uno scarso viatico per rappresentare (o nel caso di Friedman, per sperare)  futuri possibili scenari (more solito, richiamiamo il famoso motto di Lenin, pietra angolare dell’impostazione filosofico-procedurale del realismo politico ‘analisi concreta della situazione concreta’), quello che qui rileva è che Friedman non tiene conto di due cose, e la prima riguarda la sua cecità  (e di tutti i think tank occidentalisti) verso la sempre più tumultuosa multipolarizzazione dello scenario internazionale che fa sì che le potenze emergenti siano strutturalmente orientate a concepire le proprie alleanze proprio in funzione di questa frammentazione antiegemonica e quindi rifiutando di allacciare stretti legami con la potenza unipolarmente egemone della globalizzazione post ’89, o detto ancor più semplicemente, la Cina, per poter continuare a crescere economicamente e geostrategicamente, deve contendere e strappare ogni centimetro di terreno agli Stati Uniti e deve, altresì, stringere alleanze con coloro che dopo il secondo conflitto mondiale agli Stati Uniti si sono palesemente opposti, e fra questi in primis la Russia (l’unico momento di un reale e profondo appeasement con gli Stati Uniti è stato sotto Gorbaciov e poi Eltsin, non a caso il periodo di peggiore involuzione politico-sociale della Russia e, a questo proposito, tornano alla mente le parole di Kissinger ‘To be an enemy of the US is dangerous, but to be a friend is fatal’), una Russia che con l’odierna vittoriosa guerra contro la Nato si presenta quindi come la prima potenza militare del globo e perciò anche per questo come partner appetibile per la Cina, al contrario degli Stati Uniti,  che oltre al sempre più evidente declino socio-economico, connotati dalla sempre più scemante capacità nel dispiegamento diretto della violenza sullo scenario internazionale (la Russia afferma di essere la seconda potenza militare preceduta dagli Stati Uniti, una falsa modestia se teniamo conto che a livello degli armamenti nucleari è la prima al mondo, esibita solo per non dare ulteriore legna per il fuoco della propaganda occidentalista).

           Il secondo elemento di cui non tiene conto Friedman e che denunciando non tanto una precisa volontà di diffondere false rappresentazioni e/o di autoilludersi ma proprio una debolezza dell’odierna teoria politologica mainstream  (e quindi di riflesso della geopolitica) nell’elaborare le “categorie del politico” e per questo di grandissimo interesse,  è la sua illusione che gli Stati Uniti possano essere ritenuti proprio per la loro intrinseca natura “democratica” partner  affidabili o, comunque, “migliori” per stringere alleanze (anche se non espressamente formulato, è questo il pregiudizio che non solo informa l’articolo ma anche tutta la sua precedente produzione), derivante invece questa inaffidabilità proprio dalla natura del potere politico di questo paese. Come prima detto,  negli ultimi interventi sull’ “Italia e il Mondo” è già stata fornita una definizione alternativa e più realistica di tutte quelle forme di espressione del potere politico che nel c.d. occidente vengono sbrigativamente ed illusoriamente accomunate col termine di ‘democrazia’, non essendo la c.d. democrazia rappresentativa un forma di esercizio del potere espressione della volontà popolare ma, molto più realisticamente, una ‘polioligarchia competitiva’,  cioè una lotta fra oligarchie confliggenti  per l’occupazione del potere ricorrendo a votazioni libere e segrete che coinvolgono il popolo ma nel quale il popolo cessa di aver alcun ruolo significativo nel godere i frutti della sua scelta una volta cessata la consultazione elettorale.

          Ora è chiaro che il paradigma della ‘polioligarchia competitiva’ è una sorta di tipo ideale molto generico e che è quindi necessario designare al suo interno altri subtipi ideali che rappresentino ancora più concretamente le varie realtà raccolte sopra la generale, per quanto del tutto realistica nella sua impostazione teorica,  definizione di ‘polioligarchia competitiva’. E tradotto tutto ciò per quanto riguarda la “democrazia” degli Stati uniti, oltre ad affermare, tanto per sfatare i miti sulla democrazia in quel paese e sulla democrazia in generale, che essa è una ‘polioligarchia competitiva’, possiamo ulteriormente precisare che essa è una ‘polioligarchia stasistico-competitiva’, in cui  il primo lemma dell’aggettivo composto della nuova definizione testè introdotta deriva   dalla traslitterazione  del sostantivo στάσις da cui  stasis, significando στάσις in greco antico guerra civile, e con questa definizione della “democrazia” americana si designa quindi  una polioligarchia in cui alle “democratiche” elezioni (e comunque sistematicamente macchiate da  brogli, sovente decisivi nel determinarne l’esito) vengono affiancati nella gestione e/o produzione del potere non solo piccole vere e proprie guerre civili armate all’interno della società ma anche l’assassinio politico che non è un elemento occasionale ma, come i brogli, anch’esso sistemico.

          Posta quindi questa definizione della natura polemogena della “democrazia” americana, è allora di tutta evidenza che a meno non si sia di fronte a rapporti di natura coloniale (come nel caso dell’Italia e, in misura minore, degli altri paesi europei) è del tutto sconsigliabile stringere da parte di altre potenze rapporti e/o alleanze di lunga durata con un sistema politico conformato ad un modello ‘polioligarchico stasistico-competitivo’ come quello degli Stati Uniti, che proprio in ragione della sua strisciante ma onnipresente guerra civile in atto al suo interno presenta conseguentemente una altissima instabilità e l’impossibilità perciò di onorare i suoi impegni. E ciò risulta tanto più vero se consideriamo la natura del potere “democratico” della Russia. (Sulla natura polemogena della “democrazia” americana, o, meglio detto, della ‘polioligarchia stasistico-competitiva’ statunitense, fondamentale il rinvio ai vari interventi che su podcast ed anche su YouTube Gianfranco Campa svolge da sempre per “L’Italia e il Mondo”. Non potendo citarli tutti, si segnala, fra i tanti, l’ultimo video pubblicato sull’ “Italia e il Mondo” in data 25 novembre 2025, Gianfranco Campa, con Pino Germinario e Cesare Semovigo, Compagni di scuola – USA scontro finale, sull’ “Italia e il Mondo” alla pagina del blog all’URL https://italiaeilmondo.com/2025/11/25/compagni-di-scuola-usa-scontro-finale-gianfranco-campa/, con rinvio della pagina all’URL di rumble https://rumble.com/v727t3u-compagni-di-scuola-usa-scontro-finale-gianfranco-campa.html e a quello di YouTube https://www.youtube.com/watch?v=FQlQ9eU4awg; nostro download del documento video e successivo caricamento su Internet Archive generando gli URL https://archive.org/details/clipto-ai-video-downloader-compagni-di-scuola-usa-scontro-finale-gianfranco-campa e https://ia802306.us.archive.org/34/items/clipto-ai-video-downloader-compagni-di-scuola-usa-scontro-finale-gianfranco-campa/Clipto%20AI%20video%20downloader_COMPAGNI%20DI%20SCUOLA%20-%20Usa%20scontro%20finale%20-%20Gianfranco%20Campa.mp4, ricorrendo  anche a questa piattaforma  di preservazione scientifica  della memoria digitale vista l’estrema importanza del documento.)

          Dal mainstream propagandistico occidentale la “democrazia” russa è stata definita ridicolmente come una ‘democratura’ volendo con ciò significare che sotto la parvenza di un sistema democratico con elezioni formalmente libere, segrete e competitive fra partiti concorrenti, la sua realtà è quella di una dittatura al cui vertice c’è Putin (altra ridicolaggine che non merità nemmeno un approfondimento teorico è quando la propaganda occidentalista straparla e vaneggia sui potentati economici russi definendoli oligarchi, con ciò volendo sottolineare un ulteriore elemento di non democraticità della Russia: quando si dice che il bue dà del cornuto all’asino…).  Ora abbandonando come si è fatto con la definizione iniziale di ‘polioligarchia competitiva’ la mitologia democratica e passando poi secondo questa più realistica terminologia alla definizione della “democrazia” americana come ‘polioligarchia stasistico-competitiva’, si può ben dire sulla natura del potere politico russo che essa si manifesta come una ‘polioligarchia pseudocompetitiva’, con ciò volendo  affermare che Putin non è un dittatore ma il rappresentante più alto in grado di una fortemente strutturata ed unitaria oligarchia politica verso la quale è responsabile e deve rendere conto   ma anche segnalando che un potere così fortemente strutturato come quello russo contempla sì elezioni realmente libere, segrete  e competitive fra diversi partiti ma che queste elezioni, proprio per la natura fortemente strutturata dell’oligarchia politica russa e, ultimo ma non meno importante, anche per il fatto che questa oligarchia viene percepita dalla stragrande maggioranza del popolo russo non come una classe sovraordinata ad esso ma come effettivamente preoccupata del bene comune, sono praticamente un proforma e del tutto superflue per la scelta da parte del corpo elettorale dei governanti. E seguendo sempre la linea classificatoria che si dipana dalla ridefinizione di ‘democrazia’ come ‘polioligarchia competitiva’ (e facendo notare che questa nuova classificazione è ad un tempo diretta conseguenza del paradigma del Repubblicanesimo Geopolitico per il quale unico elemento per comprendere una società è seguire le reali dinamiche del potere con la conseguenza che dal punto di vista di questa analisi integralmente realista non esiste un potere politico contrapposto alla libertà individuale ma esiste un potere politico che non solo si dirama dai vertici istituzionali di questa società ma che informa anche le espressioni individuali degli uomini che sono situati in questa società e che quindi la libertà altro non è che il frutto della dialettica del potere proveniente dall’alto con quello che risale dal basso –  sul ‘Repubblicanesimo Geopolitico’ e, in particolare, su questa dialettica del potere dall’alto verso il basso e viceversa che dal punto vista teorico disconosce radicalmente la contrapposizione semantico-assiologica fra potere e libertà, sempre valido il rinvio alle sue due prime espressioni aurorali  apparse sul “Corriere della Collera” del compianto grande studioso di geopolitica e mazzininano Antonio De Martini l’11 novembre 2013 e il 26 novembre 2013, Massimo Morigi, Alla ricerca della identità italiana e Id., Repubblicanesimo Geopolitico. Alcune delucidazioni preliminari, entrambi i documenti consultabili attraverso la Wayback Machine all’URL http://web.archive.org/web/20240416010147/https://corrieredellacollera.com/2013/11/23/alla-ricerca-dellidentita-italiana-di-massimo-morigi/  –   e facendo sempre notare, ultimo ma non meno importante, che con questa ridefinizione del Repubblicanesimo Geopolitico del paradigma del potere e della libertà si rende quasi del tutto insignificante la distinzione classica della politologia e della dottrina costituzionalista fra forme di Stato e forme di governo, essendo questa una distinzione puramente epifenomenica e storicamente accidentale, sovrastrutturale si sarebbe detto un tempo, delle reali dinamiche del potere la cui dialettica investe contemporaneamente l’oligarchia e il popolo nel loro reciproco rapporto, e per ultimo sottolineando anche che questo nuovo paradigma interpretativo delle forme del potere rende del tutto superfluo il concetto di ‘Stato profondo’, almeno nella sua accezione più mitologica che lo vede come una sorta di metastasi che all’interno dello Stato si opporrebbe alle decisioni del popolo formulate attraverso il “libero” processo elettorale contemplato nelle c.d. democrazie rappresentative), possiamo anche definire la forma del potere politico della Cina  come una ‘polioligarchia autoritario-non competitiva’, e  con questo volendo quindi segnalare che  le elezioni che si svolgono in Cina danno vita ad una serie successiva di elezioni dove ad ogni passaggio si eleggono assemblee che eleggono altre più ristrette assemblee, selezionando così nelle varie prove elettorali  i membri ritenuti più meritevoli e provenienti quasi esclusivamente dalle file del Partito comunista cinese o ad esso graditi ed esplicitamente reputati non oppositori ma anzi collaboratori  dello stesso (questa forma di potere viene definito in Cina  sistema di “cooperazione multipartitica e consultazione politica”, nel quale possono esistere ed esistono anche altri partiti oltre al Partito comunista ma questi devono collaborare lealmente col PCC) ma che, come nel caso russo – in cui, invece, siamo in presenza di un reale multipartisimo anche, se, de facto, non rappresentano queste varie forze  la proposta di una reale oligarchia politico-sociale alternativa a quella al potere –, il Presidente della Repubblica Popolare Cinese che scaturisce dopo questi vari passaggi elettorali è tutto fuorchè un dittatore alla Stalin, Mussolini od Hitler molto semplicemente perché egli è espressione organica maturata attraverso vari passaggi, anche se sapientemente guidati dall’alto ma anche con un minimo grado di autonomia da parte di queste assemblee via via nominate, dell’oligarchia che guida il paese e che quindi semplici atti d’imperio anarchici ed irresponsabili come nel caso dei dittatori appena noninati non sono nemmeno concepibili e soggiungendo, infine, che, proprio perché in Cina la dialettica fra oligarchia e popolo è improntata alla fiducia del basso verso chi comanda, il termine ‘autoritario’, nel caso in specie, non sta a designare un subire passivamente del popolo le imposizioni che provengono dall’alto ma, molto più semplicemente che, in accordo con la filosofia confuciana che informa tutta la società cinese, il popolo cinese si riconosce e conferisce autorevolezza in ragione del fatto che essi sono ritenuti capaci, onesti e preoccupati del bene comune, così come impone la filosofia confuciana condivisa da tutta la società. (E per quanto riguarda le forme del potere politico al cui vertice possiamo porre dittatori come i sunnominati Stalin, Hitler o Mussolini, pur nella a volte radicale differenza di narrazione ideologica che le hanno ispirate, possiamo facilmente parlare di ‘polioligarchia monocratico-anticompetitiva’, una forma politica,  cioè, con al vertice un dittatore non solo fieramente avverso ad una  dialettica reale fra l’oligarchia che lo sostiene  e il basso della società ma anche e soprattutto ad una qualsivoglia verifica elettorale del suo potere personale. Non parleremo diffusamente in questa comunicazione  della ‘polioligarchia monocratico-anticompetitiva’ in riferimento al problema del totalitarismo  – ma come si evince dalla  definizione stessa, per quanto qui si parli di un partito unico, rimane il primo termine della definizione, ‘polioligarchia’ perché, nonostante quanto sostenga l’ideologia ufficiale, all’interno dell’unica oligarchia politica permessa dimorano e confliggono varie sottooligarchie fra loro in lotta, mentre nel secondo elemento della definizione, con ‘anticompetitiva’ si indica espressamente un rifiuto assoluto della consultazione elettorale attraverso la quale la base non oligarchica possa contribuire a costituire l’oligarchie e/o le sue sottooligarchie, cosa che non accade nella ‘polioligarchia autoritario-non competitiva’ cinese che, come si è visto, prevede forme, anche se molte attenuate e con vari passaggi intermedi, di elettorato attivo da parte dei non appartenti alle oligarchie apicali al potere per la scelta dei membri della oligarchia prevalente o di  quelle con le prime collaboranti –. Ma ritornando allo specifico della problematica del totalitarismo o meno all’interno del paradigma della ‘polioligarchia monocratico-anticompetitiva’, questo non connota, per esempio, le dittature latinoamericane, la Spagna clericofascista e reazionaria di Francisco Franco o il  Portogallo dell’Estado Novo di António de Oliveira Salazar, tutti regimi a bassa mobilitazione popolare e quindi, per definizione, non totalitari. Su questo aspetto antimobilitatore di alcune ‘polioligarchie monocratico-anticompetitive’ e con le analogie che possono essere fatte con le attuali c.d. democrazie rappresentative, cioè con le ‘polioligarchie competitive’, anch’esse connotate da una forte pulsione antimobilitatoria, classico esempio le sempre più basse percentuali di partecipanti alle elezioni e, ancor più eclatante, l’espressamente voluta  ed imposta, da parte delle polioligarchie al potere – o delle oligarchie ad esse apparentemente all’opposione ma in realtà collaboranti nel sostenere il sistema e nel rifiutare qualsiasi dialettica reale con chi di queste oligarchie politiche non fa parte –, smobilitazione e atomizzazione di ogni forma di aggregazione politico-sociale durante il periodo del Covid e sul problema del totalitarismo, si tornerà, però, più diffusamente  in prossime comunicazioni.)

          Alla luce quindi di questa nuova tassonomia del potere delle tre attuali superpotenze, è facile concludere che l’elemento decisivo che impedisce alleanze o della Russia o della Cina con la declinante superpotenza statunitense deriva ineluttabilmente direttamente dal fatto che le forme politiche della Russia e della Cina avendo un alto grado di stabilità proiettato in un lunghissimo periodo di tempo non potranno mai stringere alleanze strategiche con la superpotenza americana che in ragione della sua natura ‘polioligarchica stasistico-competitiva’ che comporta nei fatti una diuturna ancorchè mai esplicitamente riconusciuta guerra civile accompagnata da episodi di terribile e plateale violenza politica e quindi, in conclusione, per l’ intrinseca instabilità e rissosità che tende a sfociare addirittura nel delitto politico e nella sedizione per azione diretta delle sue classi dirigenti oligarchiche, non è assolutamente in grado di proporre col minimo di credibilità ad alcuno di pari od analogo grado di potenza politico-militare ma di immensamente superiore livello di stabilità politico-sociale alcun accordo di lungo respiro. (Non si potrebbe produrre un esempio più illuminante della guerra civile che sotto la cenere cova negli Stati Uniti  per divampare da un momento all’altro  del seguente  video postato sull’account X della Senatrice Elissa Slotkin in data  18 nov 2025,  dove 6 ex membri  delle forze armate e della CIA  e ora politici del Partito democratico esortano coloro che sono attualmente membri attivi   delle forze armate e dei  servizi segreti a non obbedire agli ordini del Presidente Donald Trump qualora questi siano contro la Costituzione o contro la la legge. La descrizione alla pagina del video molto eloquentemente recita: «We want to speak directly to members of the Military and the Intelligence Community. The American people need you to stand up for our laws and our Constitution. Don’t give up the ship.» Durante il video le esortazioni a voce ad eventualmente disobbedire sono accompagnate, per rendere ancora più martellante ed incisivo il messaggio, da didascalie che ripetono parola per parola quanto viene detto. Questo video su X, della durata di 1 minuto e 30 secondi, ha ricevuto al 28 novembre 2025 più di 18 milioni di visualizzazioni, è visionabile all’URL di X https://x.com/SenatorSlotkin/status/1990774492356902948?s=20 e, vista la sua importanza storica, è stato scaricato e poi caricato su Internet Archive generando gli URL https://archive.org/details/ex-oprj-z-96p-bkr-9l-b e https://ia601209.us.archive.org/0/items/ex-oprj-z-96p-bkr-9l-b/ExOprjZ96pBKr9lB.mp4.  Sempre in data 18 novembre 2025 il New York Post ha postato una versione più lunga del video su YouTube di 2 mimuti e 51 secondi che al suo esordio ha ricevuto più di 75 mila visualizzazioni e la dicitura di presentazione del video recita: «Democrats to Troops: Don’t Follow Unlawful Orders.» Il documento è visionabile all’URL https://www.youtube.com/watch?v=5Iux161DZAA e,  sempre per i motivi di cui sopra, download del documento e ricaricamento del file su Internet Archive generando gli URL https://archive.org/details/clipto-ai-video-downloader-democrats-to-troops-dont-follow-unlawful-orders  e https://ia902306.us.archive.org/10/items/clipto-ai-video-downloader-democrats-to-troops-dont-follow-unlawful-orders/Clipto%20AI%20video%20downloader_Democrats%20to%20Troops%20%20Don%E2%80%99t%20Follow%20Unlawful%20Orders.mp4.)

          Ma la  ‘polioligarchica stasistico-competitiva’ statunitense certamente è in grado di imporre il suo giogo alla polioligarchia competitiva italiana totalmente asservita ai diktat atlantici, che proprio in ragione di questa sua dipendenza dalle istruzioni che provengono da oltreoceano può ancor meglio essere definita come una ‘polioligarchia eterodiretto-competitiva’, con ciò volendo significare da un lato che la scelta del popolo sulle oligarchie che lo dovranno governare è sì libera e reale ma che, qualsiasi sia l’oligarchia scelta che lo dovrà governare, questa non risponde più agli interessi di chi la ha scelta ma a quelli dei gruppi strategici esteri, in primis a quelli statunitensi, ai quali questa oligarchia, di destra o sinistra non importa, ha  da sempre consegnato la sovranità nazionale (ciò lo si vede bene nel caso dell’attuale guerra Russia-Nato, dove la destra al governo profonde sempre più risorse, anche quelle che non ha, all’Ucraina e dove la sinistra all’opposizione dice, in pratica, che si potrebbe fare di più e con più entusiasmo democratico, che poi questi sforzi comportino la rovina dei conti pubblici e l’impoverimento del popolo chissene… tanto l’importante è la difesa dell’occidente e della democrazia, evviva!, e di coloro che sulla guerra lucrano  dal punto di vista economico e politico –  burocrati e politici europei in primis, allegramente uniti al  coro della compagnia cantante degli oligarchici politici italiani e delle italiche ed europee industrie degli armamenti). E volendo risalire indietro nel tempo ed anche affinare il paradigma della ‘polioligarchia competitiva’ adeguandolo non solo allo sviluppo storico del caso italiano ma anche alle altre realtà politiche “democratiche” ma sotto  pesante vincolo neocoloniale (cioè i paesi dell’Unione europea, de facto sotto dominio coloniale statunitense), c’è per ultimo da aggiungere che la nostra ‘polioligarchia eterodiretta competitiva’ non è che l’ultima evoluzione/degenerazione della originaria ‘polioligarchia democompetitiva’, dove da un lato la mitologia democratica riusciva a fare da contraltare alla natura fortemente parassitaria ed autoritaria, detto il termine ‘autoritario’ questa volta in senso unicamente derogatorio, della oligarchia che veniva eletta ed anche che, comunuque fortemente parassitaria l’oligarchia che veniva eletta, essa manteneva un certo grado di autonomia e di dignità alle direttive che provenivano  d’oltreoceano (vedi, come esempio di questo residuo di dignità nazionale, la politica estera propugnata dai vari Fanfani, La Pira, Moro, la tragica fine del Presidente dell’ENI  Enrico Mattei che volendo dare autonomia energetica all’Italia e  realizzare questo proposito pestando i calli ai grandi cartelli petroliferi statunitensi e britannici e favorendo i movimenti di decolonizzazione i cui paesi erano sfruttati dalle grandi compagnie petrolifere, venne eliminato il 27 ottobre 1962 nell’attentato mentre volava col   jet dell’ENI sul cielo di Bascapè; si rifletta anche su Bettino Craxi, il Presidente del Consiglio che osò schierare a Sigonella i carabinieri contro i Marines e che, in questo quadro della sua dichiarata politica filopalestinese – e nel quadro più generale che dopo la caduta del Muro di Berlino, i grandi agenti strategici atlantici non ritenevano più utile servirsi delle vecchie classi dirigenti italiane anticomuniste –, si spiega la sua eliminazione attraverso Mani Pulite, solo politicamente e non anche fisicamente ma, come si dice, quello che conta è il risultato…, e, infine, su Aldo Moro e sul suo assassinio attraverso la bassa manovalanza delle Brigate Rosse, dove vale la pena ricordare che le ricerche del rapito che non condussero alla sua liberazione furono condotte in maniera molto singolare e che presenta molti e mai chiariti lati oscuri. Ancora lontani da Mani Pulite e dal cambio di paradigma USA verso la più grande forza di sinistra, certamente per il grande fratello d’oltreoceano il compromesso storico non s’aveva da fare in quel lontano 1978…).

           Si conclude con una domanda (retorica ma non troppo), dando assolutamente per assodato (o almeno, dando assolutamente per scontato secondo il punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico, visti i miei precedenti interventi al riguardo) che Giuseppe Mazzini non fu quella sorta di santino liberaldemocratico che ci vogliono ammanire coloro che improvvidamente, seppur sinceramente, si dichiarano i loro attuali eredi politici ma semmai il critico più feroce dell’attuale impostazione liberaldemocratica basata sull’idolatria dei diritti individuali, sul misconoscimento, de facto, dei diritti sociali  e sul dichiarato progetto  del progressivo annientamento non solo del concetto di ‘popolo’ ma, soprattutto, della sua vitalità aggregativa, compiendo, insomma, la sua vera e propria  uccisione politico-sociale in piena conformità con l’individualismo metodologico delle odierne c.d. democrazie rappresentative, individualismo metodologico la cui filosofia, retorica e pratica social-culturale è la totalitaria sovrastruttura politico-filosofica delle attuali ‘polioligarchie competitive’ e, nello specifico, dell’attuale italica ‘polioligarchia eterodiretto-competitiva’, come giudicherebbe oggi egli e quale forma politica preferirebbe – escludendo, ovviamente, la nostra attuale italica  ‘polioligarchia eterodiretto-competitiva’ per assoluta incompatibilità con tutti principi per i quali si battè tutta la vita e radicale negazione e tradimento dell’obiettivo più importante per il quale Mazzini sacrificò tutta la sua esistenza, l’indipendenza nazionale – Giuseppe Mazzini fra quelle che odiernamente si presentano come protagoniste sullo scenario politico internazionale, la ‘polioligarchia stasistico-competitiva’ americana, la ‘polioligarchia pseudocompetitiva’ russa e la ‘polioligarchia autoritario-non competitiva’ della Cina?  Certamente non è corretto  divinare su chi ci ha preceduto e ha vissuto in situazioni tanto diverse dalle nostre cosa direbbe a noi oggi, perché nella nostra situazione concreta siamo noi che dobbiamo fornire un’analisi concreta che ci guidi nel nostro operare, diversamente,  ci si avventurerebbe in una pratica teorica che non avrebbe nulla né della realistica filosofia della prassi di Antonio Gramsci, cui il Repubblicanesimo Geopolitico ben volentieri riconosce euristiche fondamentali precursioni dialettiche, né dell’altrettanta dialettica e, a sua volta, sua romantica  precorritrice esortazione ‘pensiero e azione’ di mazziniana memoria, diversamente il nostro non sarebbe più uno sforzo dialettico ispirato al realismo politico ma una sorta di invocazione spiritica, cosa che fanno oggi egregiamente coloro che pretendono di sposare Mazzini con l’individualismo metodologico che è il telos delle nostre tristi attuali ‘polioligarchie competitive’ occidentali.

          Ma una cosa si può sicuramente affermare: la visione del mondo di Giuseppe Mazzini è al nadir di quella di George Friedman, e così dicendo non mi riferisco solo al suo antiliberalismo ma anche al suo realismo politico, un realismo politico, quello di Mazzini, che ebbe sempre come stella polare un cosmopolitismo di libere nazioni repubblicane affratellate all’insegna dell’assiologica diade  ‘Dio e popolo’ e mosse armoniosamente nel loro sviluppo interno e nello stringere sempre più stretti legami reciproci all’insegna dell’intrisicamente realistico e dialettico paradigma politico-sociale ‘pensiero e azione’, mentre il realismo di George Friedman è un realismo unicamente ispirato a quello che questo pur valente studioso ritiene essere l’interesse degli Stati Uniti, sempre più difficile da focalizzare come si è visto, acclarata la sempre più marcata natura polioligarchico stasistico-competitiva di questo paese. I veri realisti politici sono, insomma, coloro che nelle contraddizioni del proprio momento storico sanno intravvedere soluzioni valide non solo per il proprio tempo ma, soprattutto, quelle che possono illuminare un futuro che ancora non c’è ma che trae le sue ragioni più profonde e feconde proprio dall’Aufhebung delle contraddizioni del proprio presente storico. E sotto questo punto di vista, George Friedman non c’è ma Giuseppe Mazzini c’è. Ora e sempre.

Massimo Morigi, dicembre 2025, nel tempo  del Solstizio d’inverno vel  Dies Natalis Solis Invicti

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L’ultima mossa energetica degli Stati Uniti potrebbe aggravare le tensioni tra Russia e Turchia_di Andrew Korybko

L’ultima mossa energetica degli Stati Uniti potrebbe aggravare le tensioni tra Russia e Turchia

Andrew Korybko5 dicembre
 
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Se i piani degli Stati Uniti andassero a buon fine, la Russia non solo perderebbe decine di miliardi di dollari di entrate annuali, ma le tensioni con la Turchia potrebbero diventare ingestibili se venisse meno la complessa interdipendenza energetica che finora ha tenuto unite le due nazioni, con il rischio di destabilizzare il Caucaso meridionale e l’Asia centrale.

Zelensky ha annunciato il mese scorso che l’Ucraina importerà GNL americano dalla Grecia attraverso il gasdotto “Vertical Gas Corridor“. Questo progetto integra i piani congiunti della Polonia e degli Stati Uniti in materia di GNL e, in misura minore, quelli della Croazia, al fine di gettare le basi affinché il GNL americano sostituisca completamente il gas russo nell’Europa centrale e orientale (CEE). Sebbene sia molto più costoso, i responsabili politici del continente stanno assecondando questa scelta con il pretesto della sicurezza energetica, ma la pressione esercitata dagli Stati Uniti su di loro ha probabilmente giocato un ruolo importante nella loro decisione.

L’ultima mossa strategica degli Stati Uniti in materia di energia potrebbe anche porre fine ai piani della Russia relativi al hub del gas turco. Questi erano stati annunciati alla fine del 2022 dopo i colloqui tra Putin ed Erdogan, ma Bloomberg ha riferito lo scorso giugno che erano stati accantonati a causa di difficoltà tecniche nell’approvvigionamento dell’Europa centro-orientale dalla Turchia e di disaccordi tra quest’ultima e la Russia. Nessuna delle due parti ha confermato la notizia, ma ora che gli Stati Uniti hanno conquistato una quota maggiore del mercato CEE attraverso il gasdotto “Vertical Gas Corridor”, le probabilità che questo hub venga costruito sono diminuite.

Alex Christoforou di The Duran ha scritto un post approfondito su X a questo proposito, sottolineando in particolare che “il Mediterraneo orientale (Israele e Cipro) sta osservando con attenzione l’avvio di questo corridoio verticale, poiché potrà essere utilizzato per vendere il gas EastMed in Europa in futuro”. Il termine “EastMed” si riferisce al progetto di gasdotto sottomarino omonimo per l’esportazione delle enormi riserve di gas offshore di Israele verso l’UE. Il suo completamento, combinato con il GNL statunitense, eliminerebbe probabilmente per sempre la necessità di gas russo nell’Europa centro-orientale.

A rendere la situazione ancora più preoccupante per la Russia, Reuters ha riportato il mese scorso che “Il cambiamento nella politica energetica della Turchia minaccia l’ultimo grande mercato europeo della Russia e dell’Iran“, sottolineando come l’aumento della produzione interna e delle importazioni di GNL potrebbe ridurre notevolmente il futuro fabbisogno di gas russo della Turchia attraverso il TurkStream. Le minacce di sanzioni di Trump nei confronti di tutti coloro che continuano a importare energia russa senza dimostrare di essersi affrancati da essa, che potrebbero assumere la forma di dazi fino al 500%, potrebbero accelerare questa tendenza.

La Russia non solo perderebbe decine di miliardi di dollari di entrate annuali se tutti i piani americani sopra citati avessero successo, ma le tensioni con la Turchia potrebbero diventare ingestibili se venisse meno la complessa interdipendenza energetica che finora ha tenuto unite le due nazioni. Si prevede già che la Turchia inietterà l’influenza occidentale nell’Asia centrale attraverso il nuovo corridoio TRIPP, ponendo così sfide lungo l’intera periferia meridionale della Russia, il che complicherà ulteriormente i rapporti tra Turchia e Russia.

Se la loro complessa interdipendenza energetica dovesse indebolirsi entro quella data, ad esempio se i loro piani relativi al gas hub rimanessero sostanzialmente congelati o venissero ufficialmente cancellati e la Turchia iniziasse a importare meno gas russo dal TurkStream, allora la Turchia potrebbe sentirsi incoraggiata a sfidare la Russia in modo più aggressivo su questo fronte. Dopo tutto, lo scenario in cui la Russia interrompe le esportazioni di gas per costringere la Turchia a fare concessioni durante una crisi sarebbe meno efficace, il che potrebbe portare a posizioni turche più intransigenti che aumentano il rischio di guerra.

La Russia dovrebbe quindi cercare di rilanciare i propri piani relativi al gas hub e raggiungere un accordo con gli Stati Uniti, magari nell’ambito del grande accordo che stanno cercando di negoziare in questo momento, per assicurarsi la quota di mercato del gas russo in Turchia e possibilmente ripristinarne una parte nell’Europa centro-orientale. Ciò richiederebbe quasi certamente che la Russia scendesse a compromessi su alcuni dei suoi obiettivi massimalisti in Ucraina, e la parola degli Stati Uniti non può essere data per scontata, poiché i futuri presidenti potrebbero invalidare qualsiasi accordo, ma la Russia dovrebbe comunque considerare questa possibilità invece di escluderla.

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Putin ha inviato alcuni messaggi velati al Pakistan nella sua intervista con i media indiani

Andrew Korybko5 dicembre
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Il loro scopo è far capire al Pakistan che l’India è e sarà sempre il principale partner della Russia nell’Asia meridionale, quindi nessuno lì o altrove dovrebbe pensare che il miglioramento delle relazioni russo-pakistane sia in qualche modo rivolto contro l’India o che assumerà mai tali forme.

Putin ha rilasciato una lunga intervista ai canali televisivi Aaj Tak e India Today alla vigilia della sua visita in India . L’intervista ha toccato un’ampia gamma di argomenti e, pur non rivolgendosi direttamente al Pakistan, ha comunque inviato alcuni messaggi velati. Il primo è stato quando ha dichiarato che “l’India è un importante attore globale, non una colonia britannica, e tutti devono accettare questa realtà”. Tra i difficili rapporti indo-americani e il rapido riavvicinamento tra Pakistan e Stati Uniti , il messaggio è che l’India non si lascerà costringere o contenere.

Questo punto è stato rafforzato aggiungendo che “il Primo Ministro Modi non è uno che soccombe facilmente alle pressioni… La sua posizione è ferma e diretta, senza essere conflittuale. Il nostro obiettivo non è provocare conflitti; piuttosto, miriamo a proteggere i nostri diritti legittimi. L’India fa lo stesso”. Ricordiamo che il Pakistan ha accusato l’India di aggressione per aver reagito in modo convenzionale dopo l’ attacco terroristico di Pahalgam , attribuendo la colpa a Islamabad, eppure Putin ha semplicemente lasciato intendere che ciò fosse in realtà giustificato e legale.

L’India ha fatto molto affidamento sulle attrezzature russe durante la guerra che ne è seguita , ma sarebbe sbagliato supporre che la loro attuale cooperazione tecnico-militare sia rivolta contro il Pakistan, come sostengono alcuni esperti filo-occidentali legati alla sua giunta militare di fatto allineata all’Occidente. Putin ha chiarito che “né io né il Primo Ministro Modi, nonostante alcune pressioni esterne che subiamo, abbiamo mai – e voglio sottolinearlo, voglio che lo sentiate – avvicinato la nostra collaborazione per lavorare contro qualcuno”.

A Putin è stato poi chiesto dell’approccio della Russia nei confronti delle “questioni fondamentali irrisolte tra gli stati membri chiave” della SCO, al che ha risposto che “condividiamo la comune comprensione di avere valori comuni radicati nelle nostre credenze tradizionali, che sostengono le nostre civiltà, come quella indiana, già da centinaia, se non migliaia, di anni”. Il messaggio qui è che l’India è un’antica civiltà-stato , non una nuova e artificiale creazione postcoloniale come sostengono alcuni revisionisti pakistani.

Gli è stato anche chiesto come la Russia si bilancia tra India e Cina, a cui ha risposto esprimendo ottimismo sulla risoluzione delle divergenze. Ha iniziato, in modo significativo, affermando: “Non credo che abbiamo il diritto di interferire nelle vostre relazioni bilaterali” e ha concluso ribadendo che “la Russia non si sente autorizzata a intervenire, perché questi sono affari bilaterali”. Ciò contraddice educatamente la recente proposta politicamente fuorviante del suo ambasciatore in Pakistan di mediare tra India e Pakistan.

L’ultimo messaggio velato di Putin al Pakistan è stato quando ha affermato: “Per raggiungere la libertà (per coloro che credono che sia stata loro negata), dobbiamo usare solo mezzi legali. Qualsiasi azione che implichi metodi criminali o che danneggi le persone non può essere sostenuta… In queste questioni, l’India è nostra piena alleata e sosteniamo pienamente la lotta dell’India contro il terrorismo”. Di conseguenza, è contrario al ricorso alla criminalità e al terrorismo da parte di alcuni separatisti del Kashmir , ergo al pieno sostegno della Russia alla risposta dell’India all’attacco terroristico di Pahalgam.

Nel complesso, questi messaggi mirano a trasmettere al Pakistan che l’India è e sarà sempre il principale partner della Russia nell’Asia meridionale, quindi nessuno, né lì né altrove, dovrebbe pensare che il miglioramento delle relazioni russo-pakistane sia in alcun modo rivolto contro l’India o che possa mai assumere tali forme. Anche la fazione politica pro-BRI del suo Paese, responsabile di aver inviato segnali contrastanti sulle relazioni russo-indiane, come spiegato nelle sette analisi qui elencate , dovrebbe prendere nota di quanto affermato.

Il flirt della NATO con attacchi informatici preventivi contro la Russia è incredibilmente pericoloso

Andrew Korybko2 dicembre
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Gli inglesi potrebbero istigare questa iniziativa a provocare una crisi per rovinare la rinascimentale “Nuova distensione” tra Russia e Stati Uniti, ma anche se fallisse, l’Europa continentale sarebbe comunque indebolita se gli Stati Uniti si facessero da parte quando la Russia reagisse, e questo potrebbe favorire anche i loro interessi.

A ottobre si è valutato che ” la triplice risposta della NATO all’ultimo allarme russo aumenta il rischio di una guerra più ampia “. A quel punto, il blocco stava prendendo in considerazione l’armamento di droni di sorveglianza, la semplificazione delle regole di ingaggio per i piloti di caccia e lo svolgimento di esercitazioni NATO proprio al confine con la Russia. Tutte e tre le opzioni sono ancora in programma, ma recenti resoconti di Politico e del Financial Times suggeriscono che ora si stia discutendo di una politica finora impensabile, che potrebbe essere molto più pericolosa.

Il primo riportava che “gli alleati, dalla Danimarca alla Repubblica Ceca, consentono già operazioni informatiche offensive” contro la Russia da parte dei loro servizi di sicurezza nazionale, il che costituisce il contesto in cui il Ministro degli Esteri lettone e, cosa interessante, il Ministro della Difesa italiano stanno sollecitando una maggiore “proattività”. Il secondo citava poi il Presidente del Comitato Militare della NATO, Giuseppe Cavo Dragone, il quale sosteneva che ipotetici “attacchi informatici preventivi” potrebbero essere considerati un'”azione difensiva” da parte del blocco.

Dragone ha tuttavia chiarito che “è più lontano dal nostro normale modo di pensare e di comportarci”. Ciononostante, l’importanza di questi recenti rapporti sta nel fatto che suggeriscono che alcuni membri della NATO potrebbero lanciare unilateralmente tali “attacchi preventivi” contro la Russia o farlo in una nuova “coalizione dei volenterosi”, entrambe le opzioni aumenterebbero il rischio di ritorsioni russe, che potrebbero catalizzare un nuovo ciclo di escalation potenzialmente incontrollabile. È quindi meglio per loro non farlo affatto.

Non è chiaro quanto seriamente se ne stia discutendo all’interno della NATO, ed è possibile che i rapporti citati facciano parte di un’operazione psicologica a scopo di deterrenza, dato il timore patologico del blocco che la Russia stia pianificando operazioni informatiche su larga scala contro di loro, ma è preoccupante che se ne parli. Ci sono tre ragioni per cui ciò accade, la prima delle quali è che la NATO è ancora ufficialmente un'”alleanza difensiva”, ma qualsiasi osservatore onesto sa già che di fatto è un’alleanza offensiva dalla fine della Vecchia Guerra Fredda.

La seconda è che queste deliberazioni contraddicono direttamente la politica di coesistenza pacifica con la Russia che Trump spera di promulgare alla fine del conflitto ucraino, che ora sta finalmente cercando di porre fine con entusiasmo attraverso la sua tanto attesa costringere Zelensky a fare qualche concessione a Putin. Se questo dovesse avere successo e gli Stati Uniti coesistessero pacificamente con la Russia, gli “attacchi informatici preventivi” dei membri europei della NATO contro la Russia potrebbero costringere gli Stati Uniti a lasciarli a bocca asciutta in caso di rappresaglia.

Lo scenario sopra descritto si collega all’ultima ragione per cui queste deliberazioni politiche sono così preoccupanti, ovvero che qualcuno sembra manovrare i fili dietro le quinte per provocare una crisi con questi mezzi. Dato che dietro le fughe di notizie russo-americane di Bloomberg, volte a far deragliare i colloqui sul quadro di 28 punti dell’accordo di pace russo-ucraino degli Stati Uniti , ogni sospetto dovrebbe essere nuovamente rivolto a loro, in quanto maestri storici di complotti divide et impera e provocazioni sotto falsa bandiera.

Considerando tutto ciò, si può quindi concludere che il flirt della NATO con “attacchi informatici preventivi” contro la Russia sia probabilmente fomentato dagli inglesi, che vogliono completare i preparativi in ​​modo che possano essere eseguiti su suo ordine in futuro. Lo scopo sarebbe quello di provocare una crisi per rovinare la rinascente ” Nuova Distensione ” russo – americana , ma anche se questo fallisse, l’Europa continentale sarebbe comunque indebolita se gli Stati Uniti si facessero da parte in caso di rappresaglia russa, e questo potrebbe favorire anche gli interessi britannici.

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Il viaggio di Putin in India arriva in un momento reciprocamente opportuno

Andrew Korybko4 dicembre
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Ciò rafforzerà i loro atti di bilanciamento complementari per evitare una dipendenza sproporzionata dalle superpotenze americana e cinese nel contesto della transizione sistemica globale verso una multipolarità complessa.

Putin è alla sua prima visita di Stato in India in quattro anni, dopo aver visitato quello che la Russia considera il suo partner strategico speciale e privilegiato nel dicembre 2021. All’epoca si era valutato che cercassero di guidare un nuovo Movimento dei Paesi Non Allineati (Neo-NAM), la cui essenza è stata introdotta dall’India attraverso la sua piattaforma ” Voce del Sud del Mondo ” all’inizio del 2023. Lo scopo è quello di contrastare le tendenze alla bi-multipolarità sino-americana , promuovendo la tripla – polarità come trampolino di lancio verso la multipolarità complessa ( multiplexità ).

In parole povere, questo significa che Russia e India aiutano congiuntamente i paesi relativamente più piccoli a trovare un equilibrio tra le superpotenze americana e cinese, ma la Russia è stata subito costretta ad avviare la sua speciale operazione che ha portato a una guerra per procura con la NATO. Nel corso del conflitto ucraino , la Russia si è avvicinata così tanto alla Cina che ora si può dire che i due abbiano formato ufficiosamente un’Intesa, ma l’India ha aiutato preventivamente la Russia a evitare una dipendenza sproporzionata da essa.

Ciò è stato ottenuto attraverso l’acquisto su larga scala di petrolio russo a prezzo scontato e la ridefinizione delle priorità del corridoio di trasporto nord-sud attraverso l’Iran per ampliare il loro commercio nel settore reale. Nonostante le divergenze Nonostante le notizie circa il rispetto delle recenti sanzioni statunitensi per limitare gli acquisti di cui sopra, l’India resta impegnata a evitare la dipendenza sproporzionata della Russia dalla Cina per timore che ciò possa portare la Cina a costringere la Russia a limitare le esportazioni di armi all’India per risolvere la controversia sui confini a suo favore.

L’inaspettata pressione degli Stati Uniti sull’India sotto Trump 2.0 è intesa come punizione per non essersi sottomessa al ruolo di maggiore vassallo degli Stati Uniti di sempre, ma ha avuto l’effetto indesiderato di ricordare ai politici indiani come la Russia non abbia mai fatto pressione sul loro Paese, dando così nuovo impulso all’espansione dei loro legami. È in questo contesto che Putin visita l’India, che avviene anche nel contesto della rinascente ” Nuova Distensione ” russo – americana messa in atto dall’accordo di pace in 28 punti di Trump con l’Ucraina .

La pressione degli Stati Uniti sull’India potrebbe presto attenuarsi se i politici iniziassero a comprendere il suo ruolo cruciale nel bilanciamento tra Russia e Cina. Questo accordo è nell’interesse del Paese, scongiurando lo scenario in cui la Russia diventi l’appendice cinese delle materie prime per accelerare la sua traiettoria di superpotenza e, di conseguenza, un rivale più temibile nella definizione dell’ordine mondiale emergente. Facilitare passivamente la visione condivisa di tripla-multipolarità tra Russia e India potrebbe quindi essere considerato vantaggioso dagli Stati Uniti.

Il viaggio di Putin in India giunge quindi in un momento reciprocamente opportuno, poiché rafforzerà i loro complementari equilibri per evitare rispettivamente una dipendenza sproporzionata dalle superpotenze cinese e americana. Ciò aiuterà entrambe le parti a raggiungere accordi migliori con le due superpotenze, migliorando la propria posizione negoziale e promuovendo al contempo la transizione sistemica globale verso la multiplessità, che contestualizza ciò che Fëdor Lukyanov di Valdai intendeva quando descriveva i loro legami come “un modello per un mondo post-occidentale”.

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La vendita degli F-35 degli Stati Uniti all’Arabia Saudita potrebbe essere parte del piano definitivo di Trump per rilanciare l’IMEC

Andrew Korybko4 dicembre
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Ciò potrebbe rendere più facile per l’Arabia Saudita normalizzare le relazioni con Israele anche in assenza dell’indipendenza palestinese e quindi ripristinare la fattibilità politica di questo megaprogetto geoeconomico.

L’annuncio che gli Stati Uniti venderanno gli F-35 all’Arabia Saudita è uno sviluppo monumentale. Israele è l’unico paese dell’Asia occidentale a schierare questi caccia all’avanguardia, quindi il suo “vantaggio militare qualitativo” potrebbe essere eroso di conseguenza, ergo il motivo per cui l’IDF si è ufficialmente opposta . Axios ha riferito che Israele vuole che la vendita sia subordinata alla normalizzazione delle relazioni tra Arabia Saudita, idealmente attraverso gli Accordi di Abramo, o almeno alla garanzia da parte degli Stati Uniti che gli F-35 non saranno schierati nelle regioni occidentali dell’Arabia Saudita vicine a Israele.

Non è ancora chiaro se gli Stati Uniti accolgano queste richieste, ma ciò che è molto più chiaro è che l’Arabia Saudita avrà un ruolo più importante nella strategia regionale degli Stati Uniti, il che riporta il Regno nell’orbita statunitense dopo aver diversificato le sue partnership negli ultimi anni, ampliando i legami con Russia e Cina. L’Arabia Saudita si stava già muovendo verso un riavvicinamento con gli Stati Uniti dopo gli ultimi quattro anni di relazioni difficili sotto Biden, come dimostrato dalla sua riluttanza ad aderire formalmente ai BRICS dopo essere stata invitata nel 2023.

L’ultima guerra di Gaza scoppiata poco dopo, che si è evoluta nella prima guerra dell’Asia occidentale tra Israele e l’Asse della Resistenza guidato dall’Iran e si è conclusa con la sconfitta di quest’ultimo , ha ostacolato i progressi sul ” Corridoio economico India-Medio Oriente-Europa ” ( IMEC ) dal G20 di quell’anno. La portata geoeconomica dell’IMEC richiede in modo importante la normalizzazione dei rapporti israelo-sauditi per facilitare questo processo, che gli Stati Uniti potrebbero ora cercare di mediare dopo aver posto fine alla guerra di Gaza che ha interrotto questo processo precedentemente in rapida evoluzione.

L’impegno dell’Arabia Saudita a investire quasi mille miliardi di dollari nell’economia statunitense, in aumento rispetto ai 600 miliardi di dollari concordati durante la visita di Trump a maggio, può essere interpretato come una tangente per ottenere le migliori condizioni possibili. Trump potrebbe quindi cercare di costringere Bibi a fare almeno delle concessioni superficiali sulla sovranità palestinese in Cisgiordania, in modo che il principe ereditario Mohammad Bin Salman (MBS) non “perda la faccia” accettando la normalizzazione delle relazioni tra i due Paesi senza che la Palestina diventi prima indipendente.

Allo stesso tempo, la vendita di F-35 all’Arabia Saudita e il conferimento dello status di “Maggiore alleato non NATO” potrebbero essere sufficienti per convincere MBS ad abbandonare anche la minima domanda implicita di cui sopra, soprattutto perché l’IMEC è indispensabile per il futuro post-petrolifero del suo Regno e per il relativo programma di sviluppo ” Vision 2030 “. Se gli Stati Uniti mediassero un accordo israelo-saudita che porti a rapidi progressi nell’implementazione dell’IMEC, potrebbero promuovere l’IMEC come sostituto del Corridoio di Trasporto Nord-Sud (NSTC) dell’India con Iran e Russia.

Gli Stati Uniti hanno già revocato la deroga alle sanzioni Chabahar per l’India prima di reintrodurla , prima come forma di pressione durante i colloqui commerciali e poi come gesto di buona volontà man mano che si facevano progressi, ma si può sostenere che questa deroga miri a reindirizzare l’India dall’NSTC all’IMEC come mezzo per contenere la Russia. Dopotutto, l’NSTC consente all’India di aiutare la Russia a controbilanciare l’ espansione dell’influenza turca in Asia centrale tramite il TRIPP , quindi una deroga a tempo indeterminato è estremamente improbabile anche in caso di un accordo commerciale indo-americano.

Sarebbe più facile per l’India accettare questa concessione geoeconomica, che potrebbe essere ricambiata da concessioni tariffarie da parte degli Stati Uniti, se l’IMEC tornasse a essere vitale e potesse quindi sostituire l’NSTC. Affinché ciò accada, gli Stati Uniti devono prima mediare la normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita, a cui potrebbero ora dare priorità dopo aver mediato la fine della guerra di Gaza e raggiunto la loro ultima serie di accordi con il Regno. L’accordo tra Stati Uniti e Arabia Saudita sugli F-35 potrebbe quindi far parte del piano finale di Trump per rilanciare l’IMEC.

È discutibile se l’Azerbaijan stia segretamente spedendo Su-22 in Ucraina

Andrew Korybko3 dicembre
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Una corretta alfabetizzazione mediatica può aiutare le persone a distinguere con maggiore sicurezza la varietà di prodotti informativi a cui sono esposte e quindi a ridurre le probabilità di cadere nella trappola delle fake news.

A fine novembre, il quotidiano britannico Daily Express ha affermato che l’Azerbaigian sta segretamente inviando cacciabombardieri Su-22 in Ucraina attraverso una rotta tortuosa che attraversa Turchia, Sudan e Germania. È la stessa rotta attraverso la quale un oscuro sito di notizie online ruandese ha affermato a fine settembre che l’Azerbaigian sta segretamente armando l’Ucraina con armi leggere e droni. La notizia è diventata virale all’epoca dopo essere stata ripresa da organi di stampa russi come Sputnik , nel mezzo delle tensioni russo-azere allora in corso .

Le stesse tensioni si sono presto placate dopo che Putin ha incontrato il suo omologo Ilham Aliyev per un colloquio a Dushanbe a margine del vertice dei leader della CSI, dopo il quale il suddetto rapporto è stato raramente menzionato da molti di coloro che fino a quel momento avevano contribuito a diffonderne la massima informazione. La sua sostanza è sempre stata sospetta a causa dei costi aggiuntivi e dei tempi di spedizione connessi a un percorso così tortuoso rispetto all’impiego di percorsi più diretti via terra o ferrovia attraverso Turchia, Bulgaria e Romania.

Ciononostante, il blog militare russo Rybar – che funge anche da sorta di think tank – ha dato credito a tale notizia in uno dei suoi post su Telegram dell’epoca, ma poi ha curiosamente contestato l’ultima affermazione secondo cui i Su-22 sarebbero stati spediti tramite questa rotta. Secondo loro, i Su-22 sono molto vecchi, l’Ucraina non ne ha nemmeno bisogno (nemmeno per i pezzi di ricambio) e il Daily Express è una pubblicazione sensazionalistica il cui paese trae vantaggio dalla creazione di nuove tensioni nei rapporti con la Russia.

A dire il vero, i rapporti russo-azeri non sono ancora buoni, nonostante il loro incipiente riavvicinamento, con la percezione di una minaccia non convenzionale da parte della Russia nei confronti dell’Azerbaigian che rimane elevata a causa del suo ruolo nel facilitare l’iniezione di influenza occidentale guidata dalla Turchia lungo l’intera periferia meridionale della Russia . Questo processo viene portato avanti attraverso la ” Trump Route for International Peace and Prosperity ” (TRIPP), che faciliterà la logistica militare della NATO in Asia centrale e quindi il possibile adeguamento delle sue forze armate ai suoi standard.

Secondo Aliyev , l’Azerbaigian ha già raggiunto questo obiettivo all’inizio di novembre , e avendo appena aderito all’annuale Incontro Consultivo dei Capi di Stato delle Repubbliche dell’Asia Centrale, poi ribattezzato ” Comunità dell’Asia Centrale “, potrebbe aiutare Paesi come il Kazakistan a seguirne l’esempio. In parole povere, l’Azerbaigian rappresenta effettivamente una minaccia latente non convenzionale per gli interessi strategici della Russia in Asia Centrale, ma ciò non significa automaticamente che ogni notizia sulle sue politiche anti-russe sia vera.

Di conseguenza, è discutibile se l’Azerbaigian stia segretamente inviando Su-22 in Ucraina, soprattutto attraverso la complicata rotta tricontinentale che un tabloid britannico ha affermato essere utilizzata a questo scopo. In assenza di prove, infatti, questo rapporto potrebbe benissimo essere un’operazione di intelligence britannica volta ad esacerbare la sfiducia tra Russia e Azerbaigian allo scopo di provocare una “reazione eccessiva” da parte della Russia che catalizzi un ciclo autoalimentato di escalation reciproche. Gli osservatori dovrebbero quindi essere molto scettici.

In fin dei conti, resoconti provenienti da fonti sospette come questo di un tabloid britannico e persino quello precedente di quell’oscuro notiziario online ruandese potrebbero sembrare credibili a prima vista, poiché corrispondono alle aspettative di alcuni lettori, ma questo è un motivo in più per dubitare delle loro affermazioni. Una corretta alfabetizzazione mediatica può aiutare le persone a distinguere con maggiore sicurezza la varietà di prodotti informativi a cui sono esposte e quindi a ridurre le probabilità di cadere in errore e cadere vittima di fake news.

La “Comunità dell’Asia Centrale” potrebbe ridurre l’influenza regionale della Russia

Andrew Korybko2 dicembre
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Questo nuovo gruppo potrebbe promuovere un più forte senso di identità regionale condivisa tra i suoi membri, persino etnica in senso pan-turco (il Tagikistan è l’eccezione), rispetto a quello che condividono con la Russia attraverso il loro passato imperiale e sovietico, con tutto ciò che ciò comporta per l’elaborazione delle politiche future.

Le Repubbliche dell’Asia Centrale (RCA) rientrano nella “sfera di influenza” russa per ragioni storiche, economiche e di sicurezza. La prima deriva dalla loro storia comune sotto l’Impero russo e l’URSS, la seconda dall’Unione Economica Eurasiatica (UEE) a guida russa, a cui partecipano Kazakistan e Kirghizistan, mentre la terza è legata all’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO) a guida russa, che include le Repubbliche e il Tagikistan. L’influenza della Russia, tuttavia, è diminuita negli ultimi anni.

La sua comprensibile priorità allo speciale L’operazione ha creato l’opportunità per la Turchia di espandere la propria influenza attraverso l'”Organizzazione degli Stati Turchi” (OTS), a cui partecipano Kazakistan, Kirghizistan e Uzbekistan, con il Turkmenistan in qualità di osservatore. L’OTS è nata come gruppo di integrazione socio-culturale che ora promuove anche la cooperazione economica e persino in materia di sicurezza, sfidando così l’UEE e la CSTO. Anche gli Stati Uniti hanno compiuto importanti passi avanti negli scambi commerciali all’inizio di questo mese, durante l’ultimo vertice C5+1.

Questi sviluppi sono stati notevolmente facilitati dalla normalizzazione dei rapporti tra Armenia e Azerbaigian, mediata dagli Stati Uniti, e dal conseguente “Trump Route for International Peace & Prosperity” ( TRIPP ), presentato durante il vertice dei tre leader alla Casa Bianca all’inizio di agosto. Ciò porterà essenzialmente la Turchia a iniettare influenza occidentale lungo l’intera periferia meridionale della Russia, soprattutto attraverso il previsto aumento delle esportazioni militari, che minaccia di porre serie sfide latenti alla Russia .

L’ ultima mossa su questo fronte è stata quella delle RCA di invitare l’Azerbaigian a partecipare alla loro riunione consultiva annuale dei capi di Stato e di rinominarla “Comunità dell’Asia Centrale” (CCA), casualmente subito dopo l’incontro con Trump. L’integrazione regionale è sempre positiva, ma in questo caso potrebbe anche ridurre l’influenza regionale della Russia. Questo perché tutti e sei potrebbero trattare con la Russia come gruppo anziché individualmente. Ciò potrebbe portare a posizioni negoziali più dure se incoraggiati dalla Turchia e dagli Stati Uniti.

L’inclusione dell’Azerbaigian suggerisce che condividerà la sua esperienza nella gestione delle tensioni di quest’estate con la Russia e fungerà da supervisore dell’alleato turco all’interno del CCA per allinearlo il più possibile all’OTS (ricordando che il Tagikistan, paese non turco, non ne è membro). Questo probabile ruolo, unito alla tempistica dell’annuncio del CCA subito dopo il C5+1 e tre mesi dopo la presentazione del TRIPP, suggerisce che il paese voglia riequilibrare i rapporti con la Russia e potrebbe fare affidamento sulla guida dell’Azerbaigian se ciò dovesse causare tensioni.

La Russia svolge ancora un ruolo economico enorme nelle cinque RCA e garantisce la sicurezza di tre dei sei membri della CCA attraverso la loro adesione alla CSTO. Putin ha inoltre ospitato i leader delle RCA all’inizio di ottobre, durante il Secondo Vertice Russia-Asia Centrale, dove si è impegnato ad aumentare gli investimenti. Esistono quindi limiti concreti in termini di portata e rapidità con cui la CCA potrebbe riequilibrare i rapporti con la Russia, quindi non ci si aspetta nulla di drammatico a breve, ma una certa riduzione dell’influenza russa potrebbe essere inevitabile.

Questo perché il CCA potrebbe promuovere un più forte senso di identità regionale, persino etnica in senso pan-turco (il Tagikistan è l’eccezione), rispetto a quello che condividono con la Russia attraverso il loro passato imperiale e sovietico, con tutto ciò che ciò comporta per la futura definizione delle politiche. Ciò è in linea con gli interessi della Turchia, che prevede di diventare una Grande Potenza eurasiatica attraverso la sua nuova influenza in Asia centrale tramite il TRIPP e l’OTS, e che a sua volta promuove il grande obiettivo strategico degli Stati Uniti di contenere la Russia.

Una provocazione lituana con i droni ha quasi fatto fallire il viaggio di Witkoff e Kushner a Mosca

Andrew Korybko3 dicembre
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Se non fosse stato abbattuto sopra la città di confine bielorussa di Grodno e fosse invece passato in Polonia diretto al Centro congiunto di analisi, addestramento e istruzione NATO-Ucraina, come hanno rivelato i dati di volo recuperati, avrebbe potuto scatenare una crisi che avrebbe rovinato i rinati colloqui di pace.

L’inviato speciale di Trump per la Russia, Steve Witkoff, e suo genero Jared Kushner, entrambi protagonisti di un ruolo importante nei negoziati per l’ accordo di pace di Gaza , hanno incontrato Putin al Cremlino per cinque ore martedì. Il loro viaggio avrebbe potuto essere ostacolato, tuttavia, se una provocazione lituana avesse avuto successo. Un drone spia occidentale all’avanguardia è stato abbattuto domenica sulla città di Grodno, al confine con la Bielorussia occidentale, ma i dati di volo recuperati indicavano che avrebbe dovuto raggiungere la Polonia occidentale.

Il percorso lo avrebbe portato a Bydgoszcz, che ospita il Centro congiunto di analisi, addestramento e istruzione NATO-Ucraina , per poi tornare indietro per lo stesso percorso. Questo avrebbe potuto a sua volta scatenare una crisi, poiché i guerrafondai occidentali avrebbero certamente riportato l’incidente in modo errato, forse utilizzando dati di volo e radar manipolati, per affermare che la Russia avesse lanciato il drone dalla Bielorussia. Potrebbero persino aver mentito sul fatto che si trattasse di un drone armato, al fine di drammatizzare al massimo l’incidente e far deragliare i colloqui allora imminenti.

Diversi presunti droni russi sono entrati in Polonia circa due mesi e mezzo fa in un incidente che è stato presumibilmente attribuito al disturbo della NATO in vista delle esercitazioni Zapad 2025 , ma che è stato sfruttato dallo “stato profondo” polacco in un fallito tentativo di manipolare il presidente per spingerlo a dichiarare guerra alla Russia. Da allora, il presidente bielorusso Alexander Lukashenko e il suo capo del KGB Ivan Tertel hanno confermato che il loro Paese desidera un “grande accordo” con gli Stati Uniti, che includerebbe naturalmente un accordo di de-escalation con la Polonia.

Gli accordi sopra menzionati potrebbero potenzialmente essere parte di un grande compromesso russo-statunitense per porre fine al conflitto ucraino, ma se l’accordo polacco-bielorusso in esso contenuto dovesse essere improvvisamente sabotato, allora potrebbe essere più difficile raggiungere qualcosa di più significativo. Qui sta tutta l’importanza dell’ultima provocazione lituana con i droni, che non è stata la prima da quando Tertel ha affermato nell’aprile 2024 che la Bielorussia ha sventato un attacco con droni contro Minsk da lì, ovvero per rovinare l’intera sequenza diplomatica.

Dopotutto, lo scenario di un presunto drone russo (forse “armato”) lanciato dalla Bielorussia e abbattuto durante il tragitto verso il Centro congiunto di analisi, addestramento e istruzione NATO-Ucraina praticamente alla vigilia del viaggio di Witkoff e Kushner a Mosca sarebbe sensazionale. Non solo, ma il presidente del Comitato militare della NATO, Giuseppe Cavo Dragone, ha appena rivelato che il blocco sta prendendo in considerazione ” attacchi (cyber) preventivi ” contro la Russia come “risposta” alla sua “guerra ibrida”, che avrebbe potuto seguire.

In un simile contesto, le crescenti tensioni tra Russia e Occidente avrebbero reso impossibile il viaggio di Witkoff e Kushner a Mosca, infliggendo così un colpo potenzialmente letale all’ultima – e forse ultima – spinta di Trump per la pace in Ucraina. Ricordando come gli inglesi siano stati probabilmente i responsabili delle recenti fughe di notizie russo-americane di Bloomberg, come sostenuto qui , volte a sabotare i loro colloqui, è possibile che dietro questa provocazione ci fossero anche questi storici maestri del divide et impera e delle provocazioni sotto falsa bandiera.

Se Trump è seriamente intenzionato a raggiungere un accordo con Putin, allora dovrebbe dichiarare pubblicamente che gli Stati Uniti non saranno trascinati in una guerra con la Russia se i membri della NATO lanciassero una sorta di “attacco preventivo” contro di essa in risposta a incidenti sospetti come presunte incursioni di droni. Non farlo rischia di incoraggiare gli orchestratori (britannici?) di quest’ultima provocazione a riprovarci più e più volte, finché non riusciranno finalmente a innescare una crisi che rovinerebbe tutto ciò che sta cercando di ottenere e porterebbe il mondo sull’orlo di una guerra totale.

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Controllo dei danni: duro colpo all’UE mentre il regime marcio della von der Leyen vacilla_di Simplicius

Controllo dei danni: duro colpo all’UE mentre il regime marcio della von der Leyen vacilla

Simplicius 5 dicembre
 
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La cricca dell’UE sta subendo alcune gravi battute d’arresto, per non parlare dei colpi inferti alla sua credibilità ormai logora.

In primo luogo, c’è stato il fatto che il Belgio ha ufficialmente respinto i suoi piani di pirateria per rubare beni russi, il che è stato un duro colpo per i funzionari dell’UE.

Due titoli giustapposti per ottenere un effetto:

Ora anche il Belgio è una “risorsa russa”, come si può vedere dalla sceneggiatura ridicolmente banale.

Il primo ministro belga ha rivelato in un’intervista che le “minacce” russe sembrano averlo spaventato.

Bart De Wever: «Mosca ci ha fatto sapere che se i suoi beni saranno sequestrati, il Belgio e io ne subiremo le conseguenze per l’eternità…».

La dichiarazione completa è ancora più interessante: leggete in particolare le parti in grassetto:

Domanda: La questione dei beni russi “congelati” sta assorbendo molto del suo tempo e delle sue energie. È giusto?

La pressione che circonda questa questione è incredibile. Ho un team che ci lavora giorno e notte. Sarebbe una grande storia: prendere i soldi dal cattivo, Putin, e darli al buono, l’Ucraina. Ma rubare beni congelati da un altro paese, il suo fondo sovrano, non è mai stato fatto prima. Si tratta di denaro appartenente alla Banca Centrale Russa. Persino durante la Seconda guerra mondiale, il denaro della Germania non fu confiscato. Durante una guerra, i beni sovrani vengono congelati. E alla fine della guerra, lo Stato sconfitto deve cedere tutti o parte di questi beni per risarcire i vincitori. Ma chi crede davvero che la Russia perderà in Ucraina? È una favola, un’illusione totale. Non è nemmeno auspicabile che perda e che l’instabilità si insedi in un paese che possiede armi nucleari. E chi crede che Putin accetterà con calma la confisca dei beni russi? Mosca ci ha fatto sapere che, in caso di sequestro, il Belgio e io, personalmente, ne sentiremmo gli effetti “per l’eternità”. Mi sembra un periodo piuttosto lungo… Anche la Russia potrebbe confiscare alcuni beni occidentali: Euroclear ha 16 miliardi in Russia. Anche tutte le fabbriche belghe in Russia potrebbero essere sequestrate.

Come si può vedere, la decisione di non giocare con il denaro della Russia si basa interamente sulla convinzione che la Russia vincerà sicuramente la guerra e, di conseguenza, non potrà essere costretta a pagare tali risarcimenti in quanto “sconfitta”.

Come se ciò non bastasse a tormentare la malvagia UE, questa settimana un’importante indagine per frode ha scosso le fondamenta dell’Unione Europea, con l’arresto improvviso di diversi funzionari di alto rango sotto la supervisione sempre più compromessa della von der Leyen, suscitando richieste di un quarto voto di sfiducia per la stessa Regina del Marciume:

https://www.politico.eu/articolo/ursula-von-der-leyen-indagine-per-frode-federica-mogherini-stefano-sannino-servizio-europeo-per-l’azione-esterna/

Politico riporta:

Ursula von der Leyen sta affrontando la sfida più difficile per la responsabilità dell’UE da una generazione ― con un’indagine per frode che coinvolge due dei nomi più importanti di Bruxelles e che minaccia di esplodere in una crisi su vasta scala.

L’annuncio da parte della Procura europea che l’ex capo della diplomazia dell’UE e un alto diplomatico attualmente in servizio presso la Commissione von der Leyen erano stati arrestati martedì è stato sfruttato dai suoi critici, che hanno rinnovato le richieste di sottoporre la Commissione a un quarto voto di sfiducia.

Sembra che una sorta di guerra civile tra élite sia scoppiata all’interno delle mura fatiscenti dell’UE, e sicuramente ci aspetta uno spettacolo divertente.

Come se non bastasse, anche la guerra civile tra l’UE e gli Stati Uniti è altrettanto accesa, con una serie di nuove misure UE

https://www.welt.de/politik/ausland/article693195ea385250ff9e53ae54/ guerra-in-ucraina-trascrizione-telefonica-trapelata-lei-gioca-con-noi-dovrebbe-merz-detto-sugli-americani-.html

ZeroHedge riassume come segue:

La trascrizione trapelata della telefonata tra i leader europei che discutevano su come proteggere il governo Zelensky e gli interessi di Kiev è stata pubblicata giovedì dalla rivista tedesca Der Spiegel.

Secondo quanto riferito, alla conversazione hanno partecipato anche il cancelliere tedesco Friedrich Merz, il segretario generale della NATO Mark Rutte, il presidente finlandese Alexander Stubb e, naturalmente, Zelensky.

Il passaggio chiave dimostra il profondo timore dei funzionari europei in preda al panico:

Secondo la trascrizione, il finlandese Stubb sembrava essere d’accordo con Merz. “Non possiamo lasciare l’Ucraina e Volodymyr soli con questi tizi”, ha detto, riferendosi apparentemente a Witkoff e Kushneril che ha suscitato l’approvazione di Rutte.

“Sono d’accordo con Alexander: dobbiamo proteggere Volodymyr [Zelenskyy]”, ha affermato il segretario generale della NATO. La NATO ha rifiutato di commentare quando è stata contattata da POLITICO.

È chiaro che gli europei sono disposti a tutto pur di proteggere Zelensky dalle macchinazioni del team di Trump, con Macron in particolare che esprime il timore che gli Stati Uniti “tradiscano” l’Ucraina. Purtroppo, a questa compagnia di buffoni manca solo un numero per diventare un circo:

Ci sono state alcune notizie interessanti sul fronte del petrolio russo e delle sanzioni.

Il corrispondente per l’energia e le materie prime di Bloomberg scrive:

Commercio di petrolio Matryoshka:

Goldman Sachs afferma che le esportazioni di petrolio da Lukoil e Rosneft sono diminuite di circa 1,1 milioni di barili al giorno, ma **contemporaneamente** le esportazioni da altre “società non soggette a sanzioni” russe sono aumentate di 1,0 milioni di barili al giorno.

“Le reti commerciali petrolifere russe si stanno riorganizzando rapidamente”, afferma la banca.

Ops.

Altro:

Le esportazioni russe di petrolio via mare sono nuovamente in aumento

Bloomberg cerca goffamente di descrivere la situazione:

Mosca fatica a fornire petrolio greggio a causa delle sanzioni statunitensi: le spedizioni via mare sono aumentate di un quinto in tre mesi.

Secondo l’agenzia, la Russia ha mantenuto costantemente le consegne a oltre 3 milioni di barili al giorno, ma ci sono problemi con il trasporto e lo scarico.

Il tempo medio di trasporto del greggio ESPO da Kozmino ai porti cinesi è aumentato a 12 giorni per le navi caricate a novembre (in precedenza non superava gli 8 giorni).

Sulla base dei dati di tracciamento delle navi, la Russia ha spedito 3,46 milioni di barili al giorno nelle quattro settimane terminate il 30 novembre, circa 210.000 barili in più rispetto alla settimana precedente.

Si tratta del primo aumento da quando gli Stati Uniti hanno annunciato, a metà ottobre, le sanzioni contro i giganti petroliferi Rosneft PJSC e Lukoil PJSC, riconosce l’agenzia.

Il volume medio giornaliero delle spedizioni della scorsa settimana è salito a 3,94 milioni di barili al giorno, circa 690.000 barili al giorno in più rispetto alla settimana precedente.

In media mensile, il valore lordo delle esportazioni russe è rimasto invariato a 1,13 miliardi di dollari a settimana, con volumi di esportazione più elevati che hanno compensato il nono calo consecutivo dei prezzi medi.

Sul fronte della battaglia, il quotidiano tedesco BILD ha ora ammesso che le forze russe hanno intrappolato oltre 1.000 soldati dell’AFU a Mirnograd:

https://www.bild.de/politik/ausland-und-internationales/ ci-tiri-fuori-da-qui-o-ci-fornisca-aiuto-richiesta-di-aiuto-da-myrnohrad-692ef5a446f39b6230ff8638

Il portavoce Julian Roepcke si lamenta:

Berlino – Una drammatica richiesta di aiuto è giunta da Myrnohrad, la città vicina a Pokrovsk, che la Russia ha conquistato lunedì dopo 14 mesi di intensi combattimenti. Qui, più di 1.000 soldati ucraini continuano a difendere le rovine della città, che un tempo contava 41.000 abitanti.

Ma con la conquista di Pokrovsk, la situazione dei membri di cinque brigate ucraine a Myrnohrad è nuovamente peggiorata. Un soldato ucraino nella città ha dichiarato a BILD:

“Ad essere sinceri, la situazione è critica. La logistica è gestita esclusivamente da droni e complessi robotici terrestri. È persino difficile procurarsi il cibo.”

L’articolo sottolinea che alle truppe non è consentito lasciare la zona:

Più di 1000 soldati ucraini resistono ancora a Myrnohrad, non possono lasciare la città che è quasi completamente circondata

Il soldato racconta a BILD:

Un calderone incombe

Secondo il soldato, che desidera rimanere anonimo, gli attivisti del gruppo “DeepState” hanno presentato un quadro realistico della situazione. Secondo loro, la Russia ha praticamente interrotto completamente la logistica terrestre per i soldati ucraini a Myrnohrad.

Il fatto è che si profila all’orizzonte un calderone dal quale potrebbe non esserci scampo nel giro di pochi giorni.

È tutto molto interessante, dato che molte fonti filo-ucraine continuano ad affermare che nella città rimangono solo “un paio di centinaia” o meno di soldati ucraini.

Un importante canale militare ucraino ha confermato la gravità della situazione e ha dichiarato che l’agglomerato è di fatto completamente circondato:

Il Ministero della Difesa russo ha persino pubblicato un video altamente modificato che mostra quelli che sarebbero i momenti salienti di una presunta “resa di massa” delle truppe ucraine, come riferito nel post sopra citato:

Un altro canale importante scrive:

Un presunto soldato ucraino intrappolato a Mirnograd implora sua madre con voce tremante:

Si spera per lui che ci sia un’altra resa di massa in stile Azovstal, in cui le truppe riescano a sopravvivere. Tuttavia, a giudicare dai video recenti, sembra che rimarranno invece sepolti per sempre nella città abbandonata. Ecco una compilation che mostra come la Russia stia ora radendo al suolo le AFU intrappolate a Mirnograd con bombe termobariche ODAB:

Nel frattempo, in Ucraina, la famigerata deputata Mariana Bezugla ha definito Pokrovsk-Mirnograd circondata e ha persino chiesto le dimissioni di Syrsky:

Pokrovsk è stata ceduta, Mirnograd è circondata, Syrsky dovrebbe essere destituito — dichiarato alla Rada

“Pokrovsk è già stata conquistata e Mirnograd è completamente circondata. I russi si stanno avvicinando a Zaporizhzhia e sono già da tempo a Konstantinovka”, ha dichiarato il deputato Bezuglaya dalla tribuna della Rada.

Ha chiesto le dimissioni del generale Syrsky, la riforma dello Stato Maggiore e una verifica contabile nell’esercito.

A questo punto, la cosa più interessante sarà vedere quali saranno le ripercussioni politiche una volta che Mirnograd e l’intero agglomerato simbolico cadranno definitivamente. Ciò avviene in un momento che può essere considerato una sorta di “tempesta perfetta”, vista la crisi politica che ora ha coinvolto Zelensky, con le epurazioni della NABU e il recente licenziamento di Yermak pochi giorni fa.

Sembra che più la guerra va avanti, più diventa chiaro quanto fossero davvero assurde le previsioni dell’Occidente sia sulla Russia che sulla guerra.

Ma l’ultima lezione da imparare riguarda fino a che punto la Russia può e vuole spingersi in Ucraina, fino a quando l’Ucraina stessa non diventerà parte della Russia, se l’Occidente continuerà a tergiversare e a perdere tempo con l’assurda e ipocrita “soluzione”, in cui le richieste fondamentali e immutate della Russia vengono ignorate ripetutamente, mentre gli obiettivi vengono modificati di poco solo per guadagnare tempo nella speranza che un deus ex machina “miracoloso” salvi l’Ucraina all’ultimo minuto. Con l’ultimo colpo inferto da Bruxelles ai sogni di pirateria dell’UE, sembra che tutti questi miracoli si stiano rapidamente esaurendo.

Quindi, ci resta solo l’inevitabile e definitiva lezione.


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Da soli con i nostri pensieri_di Aurelien

Da soli con i nostri pensieri.

Perso nel supermercato delle opinioni.

Aurelien3 dicembre
 
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Poiché parte della mia ultima saggio sosteneva che gli opinionisti e i politici spesso non avessero idea di cosa potesse significare realmente una “guerra” con la Russia, ho deciso di rimboccarmi le maniche e dare un’occhiata ad alcuni articoli recenti dei media sull’argomento. E in effetti, in tutte le parti dello spettro politico, e indipendentemente dalle simpatie, sembrava che molti scrittori avessero poca idea di ciò di cui stavano parlando e poca consapevolezza di avere poca idea di ciò di cui stavano parlando. È così fin dall’inizio della crisi, e ciò riflette il fatto che capire cosa sta succedendo in Ucraina, perché è successo e come potrebbe evolversi, è oggettivamente difficile, e richiede conoscenze acquisite, riflessione e, idealmente, esperienza personale: una combinazione, insieme al tempo necessario per sviluppare idee, che non si trova spesso al giorno d’oggi.

Poi mi è venuto in mente che l’Ucraina non era l’unico caso in cui l’intellighenzia di oggi (se così si può chiamare) sembrava essersi semplicemente arresa, rifugiandosi in slogan e insulti. In un’epoca in cui più persone che mai sono teoricamente più istruite e in cui su Internet sono disponibili informazioni apparentemente illimitate, sembriamo meno capaci intellettualmente di affrontare, per non parlare di comprendere, le grandi questioni rispetto al passato. E questo vale dalle produzioni della cultura popolare fino agli annunci e alle azioni dei governi e delle organizzazioni internazionali. In Francia, ad esempio, siamo ormai da mesi in una crisi politica, senza alcuna prospettiva che il Parlamento approvi un bilancio, figuriamoci che raggiunga la maggioranza, ma la copertura mediatica è sporadica e, nella migliore delle ipotesi, incentrata sulle personalità: è tutto troppo surreale e complicato. Parliamo invece di cose che pensiamo di capire.

Altri esempi sono facili da trovare. Problemi come il cambiamento climatico, l’esaurimento delle risorse naturali, gli effetti del Long Covid o il progressivo collasso economico e sociale degli Stati occidentali non ci sfuggono, ma le nostre società e i responsabili delle decisioni sembrano intellettualmente paralizzati di fronte a essi. Da un lato, il cambiamento climatico e il degrado ambientale stanno accelerando, dall’altro, le autorità municipali promuovono il riciclaggio e la piantumazione di alberi. Sì, ogni piccolo gesto è utile, lo so, ma troppe di queste misure mi sembrano tentativi di riti magici, in qualche modo destinati a influenzare un problema che non riusciamo a comprendere adeguatamente, figuriamoci a pensare a come affrontarlo. E si può avere tutta la volontà politica del mondo, ma se non si capisce cosa si sta facendo, perché e come, tutta quella volontà è inutile. E noi non lo capiamo. Legarsi con del nastro adesivo alle opere d’arte e chiedere ai governi di “fare qualcosa” è solo una dimostrazione di fallimento intellettuale e sconfitta da parte propria.

Il filo conduttore dei principali problemi del mondo odierno è che sembrano talmente complessi da renderci impossibile anche solo iniziare a comprenderli. In parte è una questione di semplice scala. Sappiamo che il livello del mare sta aumentando e potremmo anche renderci conto che molte città importanti del mondo si trovano su coste basse. Ma siamo in grado di affrontare, intellettualmente, le possibili conseguenze dell’inondazione dell’area metropolitana di Lagos, dove vivono circa venti milioni di persone? Da dove potremmo iniziare? E come faranno le società ad affrontare il problema dei milioni di bambini il cui sistema immunitario è stato danneggiato dal Covid quando erano piccoli, che non potranno mai lavorare e che avranno bisogno di cure mediche per sessanta o settant’anni? Queste domande, e ce ne sono molte altre, sono in realtà troppo grandi per essere contemplate, e la nostra attuale classe politica e la casta professionale e manageriale (PMC) non sono intellettualmente attrezzate per comprenderle, tanto meno per affrontarle.

Le conseguenze pratiche di questo fallimento sono tipiche del modo in cui funziona la psicologia umana: invece di almeno cercare di affrontare i problemi più gravi che temiamo di non poter risolvere, ci rifugiamo in problemi che possiamo affrontare e, in linea di principio, fare qualcosa, qualsiasi cosa, al riguardo. Per molti versi, il ridicolo battito dei tamburi di guerra in Europa (il militarismo dei tradizionalmente antimilitaristi) è un tentativo di trasformare i problemi molto complessi e minacciosi dopo la sconfitta, alcuni dei quali ho discusso molte volte, in qualcosa che la leadership politica e il PMC pensano di capire, grazie ai film di Hollywood e alle presentazioni in Powerpoint. Almeno sanno come creare denaro, comprare cose e avere consulenti che sviluppano piani ambiziosi e irrealizzabili. Ma non chiedete loro di risolvere problemi pratici reali: è troppo difficile. Questa mentalità si applica a tutti i livelli: la vostra università potrebbe perdere personale di alta qualità, avere problemi ad attrarre studenti e necessitare di una massiccia ristrutturazione dei suoi laboratori scientifici, ma tutto questo è troppo difficile. Ma quello che potete fare è avviare una campagna diffamatoria contro il vice-rettore per costringerlo a dimettersi e farlo sostituire da una donna. Ecco fatto, avete ottenuto qualcosa. Anzi, direi che la crescita dell’identità politica riflette essenzialmente la crescente incapacità della nostra società di risolvere problemi seri e la conseguente attrazione verso quelli banali che pensate di poter effettivamente gestire.

Come siamo arrivati a questo punto? Ci vorrebbe un libro intero per spiegarlo, ma vorrei solo citare alcuni fattori che hanno contribuito a questa situazione. Uno è sicuramente la mentalità manageriale delle ultime due generazioni, che ha insegnato a un’intera classe a credere che armeggiare con i problemi equivalga in qualche modo a risolverli e che, in ogni caso, non esistono problemi che non si possano risolvere con una presentazione in Powerpoint. Un altro è il declino della conoscenza autentica e delle capacità pratiche, a scapito delle credenziali il cui unico scopo è quello di ottenere un lavoro migliore, o addirittura un lavoro in generale. Un terzo è l’enorme enfasi che oggi viene data ai risultati finanziari e la convinzione che essi siano in qualche modo “reali” nel senso che le inondazioni o le malattie infettive sono reali. E naturalmente al giorno d’oggi ci sono pochi premi per chi cerca effettivamente di affrontare i problemi fondamentali, poiché ciò presuppone sia un interesse per i risultati reali piuttosto che per quelli finanziari, sia la volontà di guardare al lungo termine, cosa che la nostra società non fa più. Il risultato è che collettivamente si chiude un occhio sui problemi che sono semplicemente troppo complicati per essere compresi dalla nostra società. Dopotutto, potrebbe succedere qualcosa. Nel frattempo, se questi sono gli ultimi giorni, dobbiamo prendere ciò che possiamo finché possiamo.

Ma credo che ci sia anche una serie di questioni più profonde, legate alla nostra visione del mondo, o più precisamente alla sua mancanza. Soprattutto, siamo passati – per dirla in parole semplici – dalla visione tradizionale secondo cui tutto era collegato alla visione moderna secondo cui nulla è collegato. L’idea di guardare ai problemi in modo olistico, che è sopravvissuta all’ascesa della scienza moderna almeno per un certo periodo, è ormai completamente scomparsa, e in realtà abbiamo difficoltà a ricordare quanto il mondo sembrasse complesso e interconnesso, ammesso che lo abbiamo mai imparato. Abbiamo perso l’abitudine intellettuale di considerare la relazione tra i problemi, come ci incoraggiavano a fare le precedenti credenze religiose, sociali e politiche. Ora tutto arriva al dettaglio, come un pacco di Amazon, scollegato dal resto del mondo e da qualsiasi quadro più ampio. È come se ogni problema fosse affrontato per la prima volta, privato di ogni contesto e storia.

Questo avrebbe stupito i nostri antenati, per i quali tutto era collegato e le azioni compiute qui avevano conseguenze là. Forse abbiamo sentito vagamente parlare della Grande Catena dell’Essere, o del fatto che un tempo il mondo era incantato, ma abbiamo ben poca idea di cosa significasse. Immaginate quindi, se volete, il mondo (e l’universo, nella misura in cui esisteva una distinzione) come un tutto interconnesso. È come un gigantesco libro scritto da Dio, in cui sono conservate tutta la conoscenza e tutta la verità, e in cui ogni cosa riflette e influenza ogni altra cosa. Una volta imparato a leggere questo libro, tutta la conoscenza è a nostra disposizione. La verità, in altre parole, è lì dentro, e noi dobbiamo semplicemente capire come interpretarla. I segni e i simboli abbondano (si capisce perché Umberto Eco abbia iniziato come medievalista), e tutti i fenomeni naturali, dal volo degli uccelli alla forma delle piante ai segni nel cielo, trasmettono informazioni a chi vuole capire.

È quindi logico pensare che la divinazione potesse aiutare a spiegare il presente e persino fornire indicazioni sul futuro. Che si utilizzassero calcoli astrologici altamente sofisticati o che si gettassero semplicemente delle monete, si attingeva alla struttura e ai processi sottostanti dell’universo stesso, che era un tutto integrato e che funzionava secondo leggi che gli esseri umani potevano apprendere e comprendere. Inutile dire che oggi siamo quasi infinitamente lontani da quella situazione.

In realtà, non tutti la pensano così, e la tesi di Weber sul “disincanto del mondo” (che egli considerava un progresso, tra l’altro) è stata oggetto di molte critiche negli ultimi tempi. Ma in realtà la parola usata da Weber, Entzauberung, deriva dalla parola Zauber (sì, come nell’opera di Mozart) e significa in realtà “smagizzare”. Vale a dire che la tradizionale visione olistica e magica dell’universo, fatta di cause e corrispondenze, come sopra così sotto, come sotto così sopra, è stata sostituita da relazioni casuali e spesso inspiegabili, del tutto meccanicistiche, tra fenomeni non correlati e privi di vita. Il fatto che oggi le persone leggano l’oroscopo o che i libri sul buddismo e sulla Wicca continuino ad essere popolari è solo un fenomeno sociologico, una piccola ribellione, se volete, contro il paradigma contemporaneo dominante di un universo senz’anima e privo di significato. (Se l’universo fosse un libro, l’edizione odierna sarebbe scritta da Samuel Beckett). Abbiamo perso l’Universo Magico e non lo riavremo indietro, anche se chi conosce le culture di alcune parti dell’Africa e dell’Asia sa che esse ne hanno conservato molto più di noi. Le conseguenze più ampie di ciò meritano di essere prese in considerazione.

Cosa abbiamo invece? Beh, non molto, perché è molto difficile dare un senso a ciò che accade nel mondo senza poter contare almeno su alcune basi intellettuali generali, che ormai non abbiamo più. Diverse religioni hanno creduto che i loro libri sacri fornissero queste basi. Così il cristianesimo ha ereditato dal giudaismo una serie di interpretazioni della Bibbia su quattro livelli, di cui solo il primo rappresentava il significato letterale, mentre gli altri erano allegorici. (Ha aggiunto l’idea che tutto nel Nuovo Testamento fosse prefigurato da un episodio dell’Antico Testamento e che il resto della storia fosse stato predetto lì). Allo stesso modo, parte del fascino dell’Islam fondamentalista è che ha effettivamente una visione del mondo coerente e totalizzante e che i suoi scritti contengono, o possono essere fatti divulgare, le risposte a ogni domanda che si possa mai voler porre. Nella misura in cui tali visioni del mondo persistono, esse agiscono, tra le altre cose, come un corpus di credenze e pratiche che danno al mondo, anche se in modo imperfetto, un significato continuo e coerente. (Inutile dire che comprendere il potere continuo delle religioni fondamentaliste, nel mondo musulmano ma anche in alcune parti dell’Africa subsahariana e degli Stati Uniti, è troppo difficile intellettualmente per la nostra società, quindi gli esperti ricorrono a spiegazioni banali e riduttive che sono almeno alla loro portata).

Eppure, già da molto tempo, chiunque si avventurasse nel mondo degli studi biblici rimaneva sorpreso nello scoprire quanto fosse fragile e contingente il testo. I monaci di Eco probabilmente utilizzavano la Bibbia Vulgata, una raccolta del IV secolo redatta da vari autori in greco, ebraico e latino, che a volte includeva traduzioni di traduzioni e che era in competizione con altre versioni. Questo era già abbastanza grave, ma come ha sottolineato Charles Taylor, l’ascesa del protestantesimo, con la sua sfiducia nei confronti dei rituali e della gerarchia ecclesiastica, la sua enfasi sui legami personali con Dio e sulla lettura attenta della Bibbia, e il “pensare con la propria testa” sul suo significato, non solo ha contribuito a creare il nostro mondo moderno, individualista e privo di magia, ma ha anche permesso di estrarre una varietà quasi infinita di significati contrastanti dalle diverse traduzioni, con il crollo del controllo precedentemente centralizzato dell’interpretazione biblica. Le conseguenze più ampie non sono state sempre positive, e le abitudini intellettuali che ne sono derivate hanno ancora oggi delle ripercussioni.

Il sistema più totalizzante a cui il mondo occidentale moderno si sia mai avvicinato è il comunismo. Dico volutamente “comunismo” e non “marxismo”, perché il marxismo è un sistema di pensiero e di analisi che è sempre esistito indipendentemente dai particolari sistemi politici, e continua ad esistere. Esso vive o muore in base al suo potere esplicativo, proprio come le leggi del moto di Newton non sono state invalidate dal design difettoso dei primi motori a razzo. Mentre il marxismo pratico era un hobby intellettuale e sociale per i pensatori della classe media, il comunismo era un sistema completo presente a tutti i livelli della società. Tendiamo a pensare all’Unione Sovietica in questo contesto, ma per molti versi i paesi con partiti politici di massa forniscono esempi migliori. Cinquant’anni fa, in Francia o in Italia, dove i partiti comunisti attiravano forse un quinto dell’elettorato, essi erano di fatto Stati paralleli, che spesso controllavano intere città e regioni, con i propri media, i propri festival, la propria etica di servizio e persino le proprie attività educative. Inoltre, facevano parte di un sistema internazionale diretto da Mosca che, come la Chiesa cattolica medievale, non tollerava alcun dissenso. Quando si verificavano eventi preoccupanti, come la repressione della rivolta ungherese del 1956, giornali, riviste, funzionari locali del partito, illustri intellettuali e commentatori radiofonici e televisivi erano pronti a dire alla gente che non doveva preoccuparsi e che Mosca aveva ragione.

In Occidente, alla fine degli anni ’60 questo sistema aveva iniziato a perdere slancio e i partiti “marxisti”, per come li conoscevo allora, stavano diventando circoli di discussione litigiosi, dove le battute sul tenere conferenze annuali nelle cabine telefoniche non erano del tutto infondate. Ma vale la pena sottolineare che i partiti comunisti erano presenti in tutto il mondo (il che, a mio avviso, confuta la facile argomentazione di Bertrand Russell secondo cui il comunismo era solo un’eresia cristiana). Tralasciando la Cina come esempio speciale, uno degli effetti modernizzanti del colonialismo e dei mandati della Società delle Nazioni tra le due guerre fu la diffusione di idee progressiste e di sinistra in società profondamente tradizionali. A un certo punto, il Partito Comunista Indonesiano era il terzo più grande al mondo, e i suoi omologhi conducevano un’esistenza vigorosa, anche se clandestina, negli ex Stati ottomani come l’Iraq e la Siria. Questi movimenti possono essere visti come tentativi di ricreare l’effetto totalizzante della religione, ma in un contesto laico, per aiutare i progetti di modernizzazione e di costruzione della nazione. Il fallimento della politica di stampo occidentale, compreso il marxismo, nel mondo arabo è riconosciuto come la spiegazione principale dell’attuale interesse per l’Islam politico fondamentalista, in quanto, di fatto, l’unico sistema politico che non è stato ancora sperimentato e l’unica possibilità per le società intrappolate tra modernismo e tradizione di trovare una spiegazione coerente del mondo.

In Occidente, il marxismo è diventato un’impresa di nicchia, con alcuni pensatori potenti e importanti e alcune cose molto rilevanti da dire sul mondo, ma al giorno d’oggi senza una struttura generale o addirittura una visione condivisa del mondo. I suoi discendenti, dal miserabilismo marcusiano alla cupa politica identitaria, hanno di fatto diviso la società in fazioni sempre più piccole e in lotta tra loro, negando persino la possibilità di un cambiamento positivo e di un’evoluzione, poiché, secondo loro, il dominio del capitalismo/della società dei consumi/del patriarcato/dei gruppi razziali e delle strutture di potere in generale è totale. Proprio quello che ci vuole quando si ha bisogno di essere rallegrati e motivati. Almeno il comunismo aveva una visione.

Non sorprende quindi che le persone si sentano così sole, aggrappandosi a qualsiasi sistema esplicativo riescano a trovare per orientarsi e dare un senso agli eventi che accadono, scegliendo talvolta sistemi piuttosto eccentrici o addirittura pericolosi. In teoria non dovrebbe essere così. L’era secolare ci ha liberati dal giogo della Chiesa, si dice qui, i sistemi educativi gerarchici sono stati fatti saltare in aria e sostituiti dal “co-apprendimento”, e l’autorità tradizionale è derisa e diffidata. Quindi la strada è aperta affinché ciascuno di noi possa giungere alle proprie conclusioni e affermare le proprie opinioni, nella gloriosa indipendenza intellettuale personale della nostra società liberale.

Ora è importante ammettere che la premessa iniziale del pensiero liberale in questo ambito era che le persone (o almeno le élite liberali) dovessero essere libere di avere ed esprimere opinioni personali, specialmente in materia politica, anche se tali opinioni non erano gradite alle autorità. E per un certo periodo, questo è stato probabilmente il modo in cui funzionavano molte società occidentali, anche se oggi tale libertà sta rapidamente scomparendo. Ma lo scopo più ampio era quello di promuovere la posizione di gruppi relativamente piccoli e istruiti che volevano sfidare il sistema politico esistente e sostituirlo con uno che desse loro più influenza, oltre a minare il potere della Chiesa. Non era una licenza per chiunque di dire ciò che voleva e di avere qualsiasi opinione desiderasse. I liberali al potere si rivelarono repressivi quanto i monarchici, e infatti gli Stati liberali videro la crescita di burocrazie, di “esperti”, di università e istituzioni accademiche alle quali ci si aspettava che ci si rimettesse, un po’ come alla Chiesa. E, per essere equi nei confronti del liberalismo due volte nello stesso paragrafo, era vero che a quei tempi tali istituzioni e individui erano spesso coscienziosi e facevano del loro meglio: un’altra cosa che abbiamo perso.

La progressiva emancipazione del liberalismo dai vincoli e dalle influenze esterne ha prodotto l’effetto che ci si poteva aspettare. L’attacco anche al solo tentativo di trovare una qualche verità accettabile e utilizzabile, la decostruzione di tutto fino a quando la decostruzione non ha divorato se stessa e, soprattutto, la creazione e il sostentamento ossessivi dell’individuo alienato, senza passato, senza storia, senza cultura e senza società, senza alcuna funzione se non quella del consumo, hanno prodotto una società in cui siamo abbandonati in nome della libertà. Ha anche, logicamente, distrutto le strutture intermedie a cui le persone potevano affidarsi in passato per un’interpretazione coerente degli eventi. L’argomento è essenzialmente lo stesso che ci incoraggia a essere “amministratori delegati della nostra vita”, a organizzare la nostra pensione, ad “assumerci la responsabilità” del nostro benessere mentale e fisico. È una servitù sotto le spoglie della libertà, che ci impone responsabilità che pochi di noi sono in grado di gestire e ci priva delle strutture di sostegno del passato. Il risultato è quello di renderci meno potenti e più dipendenti.

Naturalmente, molte persone non la vedono in questo modo, o almeno credono di non vederla così. L’individualismo è sempre stato una causa popolare (come diceva la battuta della mia adolescenza: “Papà, perché non posso essere anticonformista come tutti gli altri?”). Ma come per molte cose, la sua effettiva attuazione risulta essere un po’ più complicata di quanto pensassimo. Si possono naturalmente fare dichiarazioni altisonanti sull’indipendenza e sull’essere un individuo, capitano del proprio destino, padrone della propria anima, ecc. Una che mi viene in mente è tratta dalla famosa poesia di AE Housman, che pur essendo “uno straniero e spaventato/in un mondo che non ho mai creato” affermava tuttavia che:

Le leggi di Dio, le leggi dell'uomo,
Lui può rispettarle, se vuole e può;
Io no: che Dio e l'uomo decreti
Le leggi per sé stessi e non per me.

Eppure Housman condusse una vita particolarmente infelice, ed è difficile sostenere che la sua indipendenza aggressivamente vantata gli abbia effettivamente portato molti benefici. In realtà, la maggior parte dei "ribelli" autocoscienti (Baudelaire è un altro buon esempio) hanno condotto vite di miserabile fallimento, perché hanno trascorso troppo tempo a ribellarsi e non abbastanza a cercare di costruirsi una vita alternativa praticabile.

La presentazione standard, suppongo, sarebbe: “Non prendo le mie opinioni dagli altri, considero tutti i fatti e decido da solo”. Va bene, ma come si fa esattamente? Su quali basi? Dopo tutto, un paio di secoli fa, la libertà che i liberali chiedevano era essenzialmente quella di poter esprimere opinioni impopolari senza essere penalizzati. Non credo (e questa è l’ultima volta che oggi mi mostro equo nei confronti del liberalismo) che abbiano mai previsto un’anarchica libertà totale, senza alcun accordo spesso sui fatti più elementari. Eppure è così che molte persone, specialmente gli individualisti aggressivi, vedono effettivamente le cose oggi. Ho già menzionato alcune questioni di alto profilo, ma qui voglio discutere un caso più dettagliato, proprio perché esprimere un giudizio al riguardo richiederebbe conoscenze che non possiedo e che, in realtà, pochissime persone possiedono.

All’inizio di quest’anno, gli Stati Uniti hanno effettuato un bombardamento su quelli che hanno definito impianti di ricerca sulle armi nucleari in Iran. Sono state fatte dichiarazioni sul numero e sul tipo di aerei coinvolti e sui risultati ottenuti. Molti aspetti, tra cui il coinvolgimento di altre nazioni, non sono ancora chiari e probabilmente non lo saranno mai. (Ho visto una dichiarazione ufficiale del Pentagono la scorsa settimana, ed è per questo che mi è tornato in mente). Per scrivere qualcosa di intelligente su questo episodio, l’ideale sarebbe avere una formazione in aviazione militare e pianificazione delle missioni, una buona conoscenza teorica degli effetti delle armi a penetrazione profonda sganciate dall’aria, una buona comprensione dei sistemi di difesa aerea iraniani, una comprensione altrettanto buona delle contromisure elettroniche statunitensi, abilità nell’interpretazione delle fotografie satellitari, competenza nella geologia della regione, una buona idea della configurazione dei tunnel costruiti dagli iraniani e, preferibilmente, aver ispezionato personalmente i danni. È chiaro che nessuno può avere tutte queste conoscenze: anche i governi possono solo fingere di averne una parte. Eppure, l’episodio è stato descritto in modo approfondito, spesso da persone con poca o nessuna conoscenza dei dettagli tecnici.

Da dove hanno tratto le loro opinioni? Beh, per lo più hanno citato o riprodotto silenziosamente argomenti di altri commentatori con almeno una certa conoscenza tecnica in uno o più di questi settori. C’era un’ampia varietà di analisi tra cui scegliere, quindi come fa un opinionista generalista, che scrive per i media o per il proprio sito Internet, a valutare tutti i fatti e decidere autonomamente? Dopo tutto, il fondamento della fiducia nel valore del giudizio individuale è l’idea che tutti i fatti siano in linea di principio conoscibili e che gli esseri umani, in quanto animali razionali, possano esprimere un giudizio su di essi. Da una parte c’è la dichiarazione ufficiale del governo degli Stati Uniti dopo l’operazione, dall’altra c’è un esperto di “geostrategia” e altrove ancora c’è un fisico che un tempo lavorava alla progettazione di armi. A chi credere e quale pensiero riprodurre: come decidere? (Sono felice di poter dire che non conosco la verità su questo episodio e non mi sento in dovere di esprimere un giudizio al riguardo. Ma d’altra parte il mio sostentamento non dipende da queste cose).

Ebbene, si dà il caso che sappiamo molto su come gli esseri umani decidono tra spiegazioni contrastanti: in poche parole, lo fanno emotivamente. Come ha ampiamente dimostrato Daniel Khaneman, che ho già citato in precedenza, prendiamo la maggior parte delle nostre decisioni in modo rapido ed emotivo, basandoci sull’istinto. Queste decisioni, che egli ha definito decisioni di tipo 1, sono il residuo di un’epoca in cui la vita era più pericolosa e le decisioni rapide e istintive potevano salvarti la vita. Tuttavia, la maggior parte delle decisioni importanti che dobbiamo prendere nella vita sono in realtà decisioni di tipo 2, in cui dobbiamo considerare attentamente le prove. In parole povere, possiamo dire che la maggior parte delle persone prende decisioni di tipo 1 su chi credere quando dovrebbe prendere decisioni di tipo 2. Vale a dire: questa persona mi piace, la sua politica è simile alla mia, attacca obiettivi che anche io detesto, quindi deve avere ragione su questo tema. E in pratica, data la spaventosa complessità di quasi tutte le crisi internazionali, questo è tutto ciò che si può realmente fare: la possibilità di “decidere da soli” consiste in pratica solo nel decidere soggettivamente a chi credere.

Stranamente, questo ci riporta al Medioevo. Sorprendentemente spesso, quando gli esperti vengono messi in discussione, citano una fonte che ritengono autorevole o che dovrebbe essere trattata come tale. Si tratta della tradizionale pratica dell’argomento dall’autorità, che di solito assume la forma “X è un esperto di A, B è un esempio di A, quindi le opinioni di X su B devono essere corrette”. Nonostante sia un evidente errore logico, è una forma di argomentazione che si incontra ancora molto spesso oggi. (La sua forma estrema ha il meraviglioso nome di ipsedixitism, ovvero “l’ha detto lui stesso”, quindi non c’è discussione). Tuttavia, nel Medioevo c’erano “autorità” riconosciute (in particolare Aristotele) che non venivano contestate. In generale, era attraverso i loro scritti che erano considerati autorevoli: “autore” deriva dalla stessa radice di “autorità”. Ovviamente anche la Bibbia era un’autorità, ma la Chiesa insisteva sul monopolio delle letture autorevoli della stessa. In entrambi i casi, così come nelle società tradizionali in generale, e come ho sottolineato in uno dei miei primi saggi, l’autorità era in realtà basata su qualcosa di relativamente coerente, come l’età e l’esperienza, la preminenza intellettuale o anche la semplice antichità (più era antica, meglio era). Oggi non è più così: da un lato c’è un ufficiale militare esperto che dice che i russi stanno subendo terribili perdite in Ucraina, dall’altro c’è un ufficiale militare esperto che dice che non è vero. Chi crediamo dipende essenzialmente da ciò che vogliamo sentirci dire. È molto improbabile che abbiamo le competenze e le informazioni necessarie per valutare le loro argomentazioni.

Ovviamente ci sono alcune cose che possiamo fare per “pensare con la nostra testa”, ma nella maggior parte dei casi richiedono l’accesso a fatti e tecnologie che la persona comune non possiede, motivo per cui, in realtà, la persona comune non può semplicemente “prendere una decisione”. (Non mi riferisco alle “fake news” e simili). A volte, però, un po’ di pensiero logico può aiutare. Ad esempio, durante la crisi del Kosovo del 1999, quando era difficile ottenere informazioni concrete di qualsiasi tipo, circolò la notizia che la polizia serba aveva massacrato venti insegnanti in un villaggio e lasciato i loro corpi in un fosso. Come al solito, le persone presero posizione in base alle loro predisposizioni emotive. Ma quando ci abbiamo riflettuto, il numero ci è sembrato molto alto. Dopo tutto, ipotizzando un rapporto alunni-insegnanti ragionevolmente generoso di 35-1, stiamo ipotizzando una o più scuole con 700 alunni, anche supponendo che ogni singolo insegnante sia stato ucciso. Sembrava improbabile che ci fossero molti villaggi in Kosovo con 700 bambini in età scolare, o addirittura 700 abitanti in totale. E a tempo debito è emerso che il rapporto era stato travisato e che erano stati trovati venti corpi, uno dei quali si riteneva fosse un insegnante.

È possibile farlo su scala più ampia se si desidera davvero “pensare con la propria testa”, ma per farlo occorrono tempo e risorse che pochi di noi possiedono. Un importante studio (risalente ormai a qualche anno fa, ma la situazione non può che essere peggiorata) ha dimostrato che molti dei fatti e delle cifre citati su questioni controverse e di grande rilevanza, come la tratta di esseri umani e le morti causate dai conflitti, non sono tanto esagerati quanto semplicemente inventati, e passati di mano in mano fino a quando non vengono citati da un’organizzazione rispettabile o da un governo, a quel punto diventano canonici. Le ONG e gli attivisti giustificano le loro esagerazioni, e persino le loro vere e proprie invenzioni, sostenendo di “richiamare l’attenzione” su un problema, ma ovviamente il risultato è quello di dare il via a una corsa inutile e di cattivo gusto per dimostrare che il mio problema è più grave del tuo. E qualsiasi tipo di scetticismo indagatore viene spesso attaccato con ricatti emotivi (“Immagino che tu pensi che la tratta di esseri umani non sia un problema, allora!”).

Ma puoi fare la stessa cosa da solo, in chiave minore, se sei disposto a impegnarti un po’. Spesso è interessante cliccare sui link presenti negli articoli polemici, che, secondo le normali buone pratiche, dovrebbero rimandare a fonti autorevoli. In realtà, spesso rimandano semplicemente a un altro articolo che dice la stessa cosa, che a sua volta può citare un altro articolo che dice la stessa cosa, e alla fine non si arriva mai a nessuna prova concreta. Ma alla maggior parte delle persone non importa, ovviamente, purché l’articolo dica loro ciò che vogliono sentire.

Ora, ci sono argomenti – quelli etici, per esempio – che dipendono meno dalle prove e in cui presumibilmente c’è più spazio per “decidere cosa pensare”. Prendiamo ad esempio l’aborto. Dopotutto, siamo stati tutti feti, siamo tutti nati e la maggior parte degli adulti ha figli. Quindi ci si aspetterebbe che in un sondaggio su un migliaio di persone si trovasse un gran numero di opinioni diverse, spesso con diverse sfumature. Ma in pratica, tutte queste indagini mostrano un raggruppamento attorno a una piccola manciata di posizioni, spesso caratterizzate da un profondo coinvolgimento emotivo e da un rifiuto veemente e violento delle altre opinioni. Ma questo è solo un caso estremo della tendenza delle persone a rifugiarsi in silos emotivi, aggrappandosi a una delle opinioni più comuni con cui si identificano istintivamente.

La violenza con cui tali emozioni vengono espresse deriva in ultima analisi dalla paura. La nostra società non apprezza né si fida degli argomenti logici, e sorprendentemente poche persone sono in grado di costruire un argomento logico senza aiuto: quindi non ci sono molte possibilità di “decidere da soli”. Eppure la nostra società dice alle persone che dovrebbero “mettere in discussione tutto” e “giungere alle proprie conclusioni”. Si tratta ovviamente di ipocrisia: ci sono sempre più idee che non possono essere messe in discussione e in cui giungere alle proprie conclusioni ti rende molto impopolare. La realtà è che la costruzione di argomentazioni logiche non è un’abilità con cui nasciamo, e la volontà di sostenere e difendere opinioni genuinamente personali è un buon modo per rendersi odiosi da tutte le parti. Oggi è convenzionale santificare George Orwell, ma ai suoi tempi era una figura marginale, poco conosciuta prima della pubblicazione di Animal Farm. La sua insistenza nel giungere alle proprie conclusioni e nell’esprimerle (spesso attingendo alle proprie esperienze personali) lo rese impopolare non solo alla destra, per le sue opinioni socialiste, ma anche alla sinistra, allora dominata dai comunisti e dai loro simpatizzanti. Oggi avrebbe difficoltà a trovare un pubblico consistente (“da che parte stai, George?”).

Se prendessimo sul serio il concetto di “pensare con la propria testa”, allora dovremmo adottare misure per aiutare le persone a farlo. Negli ultimi cinquant’anni lo slogan è stato “insegnare ai bambini a pensare”, piuttosto che introdurli ai sistemi di pensiero. Poiché mi sono occupato un po’ di istruzione, ho chiesto occasionalmente alle persone quale sarebbe il programma di studi per questo e come verrebbe insegnato. Mormorii, mormorii, insegnare ai bambini a mettere in discussione tutto è la risposta più comune, e come abbiamo visto è profondamente ipocrita. In realtà, non si tratta di “insegnare ai bambini a pensare”, ma piuttosto di insegnare loro che non riceveranno alcun aiuto nel loro sviluppo intellettuale e che quindi sono tenuti a “pensare con la propria testa”, proprio come ci si aspetta che scelgano tra polizze assicurative dettagliate e complesse o valutino i rischi legati all’assunzione di vari farmaci. Nessuno li aiuterà.

È interessante immaginare come sarebbe effettivamente strutturato un programma del genere. Per cominciare, includerebbe la logica formale, sia per consentire alle persone di costruire argomentazioni coerenti sia, cosa ancora più importante, per riconoscere gli errori logici nelle argomentazioni altrui. La maggior parte delle persone non ha idea di cosa siano realmente l’argomentazione logica e l’analisi logica, e ascoltarne degli esempi per la prima volta può provocare una sensazione di affogamento e di terra che crolla sotto i piedi. (“Ma non può essere giusto!”) Come dico agli studenti, bisogna stare molto attenti a seguire le catene di ragionamenti logici, perché potrebbero condurvi in luoghi dove non avevate intenzione di andare. È molto meglio partire da una conclusione accettabile e costruire un ragionamento plausibile a sostegno di essa. Studierebbero anche la retorica, anche in questo caso non tanto per apprendere le tecniche retoriche quanto per identificare l’uso improprio della retorica da parte degli altri. La logica e la retorica, ovviamente, erano due delle tre branche del Trivium medievale: la terza, la grammatica, che aiutava a esprimersi in modo chiaro, oggi sarebbe probabilmente inaccettabile da insegnare. Insieme al Quadrivium (Aritmetica, Astronomia, Geometria e Musica), costituivano le “capacità di pensiero” dell’epoca, che consentivano agli studiosi di organizzare la Disputatio, altamente complessa e formalizzata. Suppongo che questo sia ciò che significa “insegnare ai bambini a pensare”. È un peccato che non lo facciamo più, ma piuttosto neghiamo il concetto stesso di significato se non come funzione del potere, definiamo le parole in modo che significhino ciò che vogliamo, consideriamo la logica una forma di oppressione e poniamo Ciò che Sento al vertice della verità, ammesso che accettiamo che la verità possa esistere.

Quindi siamo estranei e spaventati in un mondo che non abbiamo mai creato, in una misura che Housman non avrebbe mai potuto immaginare. Il mondo è ufficialmente privo di significato, l’individuo ha solo lo status di consumatore in un universo cieco guidato dal mercato, la storia non può essere discussa, la cultura è una forma di oppressione e l’unico concetto condiviso del mondo è un scientismo materialista ottocentesco volgarizzato, un universo morto di atomi che si scontrano ciecamente. Questo rende alcune persone infelici. Ma viene loro detto che sono loro i responsabili della loro felicità o infelicità e che quindi dovrebbero “pensare con la propria testa”, in questo come in tutti gli altri ambiti. Ma come in tutti gli altri ambiti, è una bugia: tutto ciò che ci viene dato è una scelta artificiale tra quelle che Orwell chiamava “piccole ortodossie puzzolenti che ora contendono le nostre anime”. Ma Orwell era abbastanza antiquato da pensare in termini di anime.

Bernard Lugan tra Algeria, Mali e Nigeria

Gli articoli in calce di Bernard Lugan riguardano una area strategicamente importante per l’Italia, soprattutto in conseguenza della dissennata politica di sanzioni contro la Russia. Il cosiddetto “piano Mattei” rientra nel novero delle ardue intenzioni, piuttosto che nella strategia, del Governo Italiano di esercitare una propria influenza in una area di fatto destabilizzata a compensazione della sua fuga suicida dalla Russia. Un tentativo che, in sovrappiù, per avere una qualche possibilità di successo intende appoggiarsi saldamente e dichiaratamente agli Stati Uniti, paese ancora potente, ma dotato di una buona dose di discredito in quell’area, anche se non a livello della Francia. Sottolineano, altresì, i problemi e le contraddizioni che assillano la presenza della Russia in quell’area, al pari di quelle della Cina, che fanno giustizia dell’aura messianica esagerata che viene loro attribuita da certa area antiatlantista e antimperialista presente in Europa e in Italia_Giuseppe Germinario

Operata su richiesta delle autorità maliane, la partenza delle forze francesi ha aperto la strada al GSIM (Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani). Affiliato ad Al-Qaeda, il GSIM è in realtà autonomo dalla centrale che dirige questa nebulosa terroristica. Sebbene si richiami all’Islam rigorista, la sua presa di controllo da parte del capo tuareg Iyad agh Ghali ha reso il GSIM un movimento prima etno-islamista e poi jihadista. Tuttavia, data la situazione sul campo, la domanda che sorge spontanea è se Iyad agh Ghali sia alle porte del potere in Mali. A questo proposito, alcuni media hanno annunciato l’imminente caduta di Bamako. Un annuncio che sembra prematuro per due ragioni principali: 1) La prima è chiaramente etnica. Apparendo come il braccio armato dei Tuareg, il JNIM non può che suscitare il rifiuto da parte dei sudisti, in particolare dei Bambara. Ecco perché, da alcune settimane, il GSIM sta cercando di presentarsi come un movimento islamico-nazionalista multietnico. Tenuto conto della memoria collettiva, l’impresa sembra complessa… 2) Con un numero di effettivi che, secondo le fonti, varia tra i 5.000 e i 10.000 uomini, il GSIM non sembra in grado di lanciare un assalto diretto alla capitale maliana. Ricordiamo che nel giugno 2025, dopo aver fallito davanti a Timbuctù il 1° luglio, a Kayes, il GSIM ha subito una grave sconfitta lasciando sul campo decine di morti. Anche in difficoltà, i 40.000 uomini delle Forze armate maliane (FAMa) mantengono infatti una superiorità numerica e materiale, beneficiando teoricamente del fuoco di copertura del contingente russo. A questo proposito, dato che da diverse settimane i russi dell’Africa Corps sono curiosamente assenti dal campo di battaglia, la domanda che sorge spontanea è se Mosca non abbia già deciso la fine dell’attuale regime maliano. Il futuro ci dirà di più. Se Bamako è il suo obiettivo, la strategia migliore per il GSIM sarebbe quella di lasciare che la città crolli dall’interno, sia attraverso manifestazioni, sia attraverso un blocco alimentare e di carburante, sia attraverso il caos o, in primo luogo, attraverso un cambio di regime. Lo scoppio della rivalità all’interno dell’esercito tra Assimi Goïta e Sadio Camara, ministro della Difesa, potrebbe infatti essere il segnale di una rivoluzione di palazzo. Una tale evoluzione potrebbe sbloccare la situazione politica aprendo la strada a negoziati che potrebbero portare a una coalizione che riunisca una parte della giunta, una parte della società civile e alcuni elementi “jihadisti”. Una soluzione che consentirebbe di guadagnare tempo, ma che salverebbe la faccia a tutti i protagonisti e potrebbe permettere alla Russia di non perdere le posizioni acquisite dopo l’espulsione o l’autoespulsione della Francia.

NIGERIA: GUERRA ETNICA O CONFLITTO RELIGIOSO?

In geopolitica, la semplificazione porta spesso a confusione. Di fronte ai massacri che stanno avvenendo in Nigeria, mettere in primo piano, come ha fatto il presidente Trump, la spiegazione religiosa, ovvero musulmani contro cristiani, nasconde il fondo del problema, le sue origini, il suo svolgimento e le possibilità di risoluzione.

In Nigeria, paese totalmente artificiale, gli attuali massacri si svolgono in due regioni diverse e la spiegazione di questi drammi non è la stessa. Così, nel nord-est del paese, dove imperversano Boko Haram e lo Stato Islamico (EIAO), è errato parlare di una guerra tra cristiani e musulmani, poiché la popolazione è musulmana per oltre il 95%. Al contrario, nella regione del Middle Belt, con epicentro la città di Jos, la spiegazione è diversa. La regione si trova infatti su un triplice confine:

– geografico tra il Sahel e gli altipiani centrali;

– etnico tra gli allevatori Peul e gli agricoltori sedentari;

– religioso perché mette in contatto la zona musulmana settentrionale e quella cristiana meridionale.

Otto Stati federali, Benue, Kaduna, Plateau, Adamawa, Torobe, Gombe, Bauchi e Nasarawa, sono coinvolti in questa guerra ricorrente che da secoli, e persino dal Neolitico, vede contrapposti i pastori Peul-Fulani, oggi musulmani, e gli agro-pastori sedentari, oggi cristiani. Prima dell’Islam e del Cristianesimo, due religioni importate, l’una nel XVIII secolo e l’altra alla fine del XIX, e come in tutto il Sahel e il peri-Sahel, pastori nomadi e agricoltori sedentari si scontravano. Lo scontro assunse proporzioni considerevoli quando, nel XVIII e XIX secolo, i sudisti subirono le incursioni schiaviste dei sultanati peul-fulani. Un ricordo molto vivo tra gli abitanti del sud, che vedono nelle attuali migrazioni dei PeulFulani un ritorno ai tempi antichi, prima della colonizzazione liberatrice. Gli scontri e i massacri a cui assistiamo oggi sono infatti chiaramente il prolungamento di quelli dell’epoca precoloniale e si inseriscono nella lunga storia etnica della regione. Non rendersene conto porta a semplificazioni, approssimazioni e risposte facili ma ben lontane dalla realtà. Non dimentichiamo infatti che alla fine del XVIII secolo la regione di Jos, allora popolata esclusivamente da animisti, resistette all’avanzata del regno musulmano di Sokoto e che, alla fine del XIX secolo, quando stavano per essere soggiogati, i Birom e i popoli a loro affini sfuggirono alla conquista nordista diventata musulmana solo grazie all’arrivo degli inglesi. Si convertirono allora al cristianesimo (protestantesimo) per marcare bene la loro differenza con i vicini nordisti. In realtà, come in tutto il resto del Sahel, assistiamo attualmente alla ripresa di un movimento secolare verso il mondo sudanese, movimento che era stato temporaneamente bloccato dalla colonizzazione europea alla fine del XIX secolo.

A questi strati sedimentari storici e poi religiosi si aggiunge oggi il problema causato dalla demografia suicida del Sahel-Sudan, che amplifica le conseguenze del peggioramento climatico e alimenta la guerra per l’uso della terra. Tanto più che la regione, essendo sia agricola che pastorale, costituisce, come appena detto, un confine geografico tra il nord saheliano e il sud sudanese formato da una savana arbustiva. Ecco perché gli scontri frontali tra le etnie nomadi convertite all’Islam da due o tre secoli e quelle sedentarie convertite al Cristianesimo da un secolo si verificano proprio al confine, a contatto tra le due zone di compenetrazione economica ed etnico-confessionale. Governato politicamente dai cristiani, lo Stato del Plateau, dove si trova il promontorio di Jos, costituisce un punto di attrito perché, di fronte ai pastori musulmani peul, qui si ergono le etnie indigene cristiane. Nello Stato dell’Altopiano sono i Berom e i Tarok, nello Stato di Adamawa i Bachama e gli Yandang, in quello di Benue i Tiv, gli Idoma e gli Igede, nello Stato di Nasarawa gli Eggon e in quello di Taraba i Jukun. Questo movimento si ritrova in tutta l’Africa occidentale. Per memoria, in Mali e Burkina Faso sono, tra gli altri, gli agricoltori Songhay, Dogon o Mossi a confrontarsi con gli allevatori Peul. Ma la differenza è che, essendo questi due paesi in gran parte musulmani, non è possibile avanzare la comoda spiegazione della guerra religiosa. In Nigeria, la secolare opposizione tra pastori e agricoltori è amplificata dal federalismo. La Nigeria, Stato federale, è infatti divisa in 36 Stati in cui l’etno-democrazia elettorale conferisce il potere alle etnie più numerose, con la conseguenza che le politiche sono condotte a esclusivo vantaggio di queste ultime. Nella regione dei due Stati di Benue e Taraba, dove gli agricoltori maggioritari sono al potere, sono state approvate leggi anti-transumanza, che consentono l’allevamento solo in ranch recintati e il trasporto del bestiame solo su rotaia o su camion. Il risultato è che il flusso della transumanza è stato deviato verso gli Stati di Nasarawa e Adamawa, dove l’intensificarsi degli scontri tra pastori e agricoltori è diventato una vera e propria guerra. E poiché gli uni sono musulmani e gli altri cristiani, gli osservatori parlano con sconcertante semplicismo di guerra religiosa. Per memoria, la Nigeria è un puzzle umano composto da diverse decine di popoli divisi religiosamente in 43% di musulmani, 34% di cristiani e 19% di animisti.

MALI: VERSO IL COLLASSO?

Nel 2021, dopo aver chiesto il ritiro delle truppe francesi, la giunta maliana guidata dal colonnello Assimi Goïta ha firmato un accordo strategico con la Russia. Quattro anni dopo, il regime maliano è praticamente assediato nella capitale, Bamako.

In Mali, nel 2021 tutto era rose e fiori perché la Russia aveva promesso mari e monti… ma nel 2025 la sicurezza che era reale ai tempi di Barkhane è ormai solo un lontano ricordo, il Paese non ha più né cibo né carburante, mentre l’elettricità è razionata. Il crollo economico e della sicurezza è tale che il futuro è molto cupo. Dal 2024, la capitale Bamako subisce persino un blocco che non dice il suo nome, perché il cordone ombelicale che la collega al Senegal viene regolarmente tagliato. I prezzi sono quindi esplosi, con un litro di benzina – quando disponibile – il cui prezzo è quasi triplicato e una carenza di prodotti alimentari e di prima necessità. Al di fuori di Bamako, il nord è sotto il controllo dei tuareg di Iyad Ag Ghali, mentre il centro e il sud sono quasi interamente amministrati dai gruppi prevalentemente fulani affiliati al JNIM (Jama’at Nusrat al-Islam wal-Muslimin) che controllano le arterie che collegano Bamako-Ségou-Mopti-Timbuktu. A nord, il regime di Bamako ha dichiarato chiaramente guerra a tutte le fazioni tuareg, come dimostra l’annuncio dello scioglimento del Gruppo di autodifesa tuareg Imghad e alleati (GATIA) deciso il 30 ottobre 2025. Fondato nel 2014, il GATIA era composto da tuareg non secessionisti che formavano una milizia collegata all’esercito maliano. Il suo storico capo era il generale Ag Gamou, il cui braccio destro Fahad Ag Almahmoud è stato ucciso il 1° dicembre 2024 da un drone maliano. Con questa eliminazione, la giunta di Bamako ha quindi tagliato i ponti con i suoi unici alleati tuareg, quelli che, a differenza dei separatisti tuareg del MNLA (Movimento Nazionale per la Liberazione dell’Azawad), volevano mantenere l’Azawad (il nord del Mali) all’interno della Repubblica del Mali. Inoltre, il GATIA era membro della Piattaforma dei movimenti del 14 giugno 2014 di Algeri, che era la coalizione dei gruppi armati filo-governativi. Di fatto, Bamako è quindi impegnata nella politica del peggio con i tuareg, e questo proprio nel momento in cui la leadership di Iyad Ag Ghali è stata ripristinata su tutti i movimenti indipendentisti tuareg.

RUSSIA-ALGERIA, VERSO LA ROTTURA?

Il deterioramento delle relazioni tra Algeri e Mosca è emerso chiaramente il 31 ottobre 2025 davanti al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, quando il rappresentante della Russia non ha posto il veto al piano che riconosceva di fatto la sovranità marocchina sul Sahara cosiddetto “occidentale”. In realtà, si tratta dell’inizio di uno sconvolgimento della geopolitica regionale. Un’evoluzione iniziata nel 2021 a seguito di tre gravi errori diplomatici algerini.

La rottura tra i due storici alleati Russia e Algeria sembra essere definitiva, mentre dall’indipendenza l’Algeria non aveva mai smesso di allinearsi alle posizioni, ieri dell’URSS e poi della Federazione Russa, che fornisce alla sua armata la maggior parte delle attrezzature. I primi due errori diplomatici che hanno rotto il patto di amicizia tra l’Algeria e la Federazione Russa risalgono al 2021.

1) Il primo risale all’aprile 2021, quando l’Algeria ha rifiutato di aprire il suo porto di Mers el-Kébir alla flotta russa in rotta verso la Siria, che aveva chiesto semplicemente di potersi rifornire. Anche se nessun comunicato ufficiale lo ha dimostrato, la Russia ha preso molto male quello che considerava un tradimento da parte di questo alleato regionale che aveva sempre sostenuto. Da quel momento, Mosca capì che l’Algeria non era un partner affidabile. E, poiché la sua marina aveva bisogno di un punto d’appoggio nel Mediterraneo e non voleva dipendere esclusivamente da quello di Tartus, in Siria, la Russia iniziò a interessarsi al porto in acque profonde di Tobruk, nella Cirenaica. Tuttavia, l’uomo forte di quella parte della Libia, il generale Haftar, che era un alleato di Mosca, aveva una grave controversia con l’Algeria, che sosteneva il regime di Tripoli che lui stesso combatteva. Inoltre, attraverso i Tuareg libici, Algeri cercava di impedirgli di prendere il controllo della parte occidentale del Fezzan. Senza dimenticare che sullo sfondo si poneva la questione territoriale non risolta della parte più occidentale del Fezzan, zona ricca di idrocarburi, ma territorio libico un tempo annesso all’Algeria francese e di cui l’Algeria indipendente aveva ereditato il controllo.

2) Il secondo grande errore diplomatico algerino risale all’inizio dell’estate 2021, quando, sostenute dalla Russia, le forze del generale Haftar avanzavano verso Tripoli. Nel mese di giugno 2021, in preda al panico, il presidente Tebboune dichiarò allora molto imprudentemente che l’Algeria era pronta a intervenire in Libia per fermare l’avanzata dell’alleato della Russia… La rottura era quindi ufficiale. Avendo capito di aver segato il ramo su cui poggiava il suo potere, nel giugno 2023 il presidente Tebboune effettuò una visita di Stato a Mosca per cercare di «dissipare i malintesi». Dopo essere stato ricevuto dal presidente Putin, la stampa algerina non ha trovato superlativi abbastanza forti per salutare il ritorno della “tradizionale amicizia” tra i due paesi. Ma due mesi dopo, la Russia, che non aveva dimenticato nulla, si oppose all’ingresso dell’Algeria nel BRICS. Senza pietà, Serge Lavrov, ministro degli Affari esteri russo, dichiarò il 24 agosto 2023: «Allarghiamo le nostre fila con coloro che condividono la nostra visione comune». Così sia!

3) Ad aggravare ulteriormente la rottura tra Mosca e Algeri, già in atto, alla questione libica si è aggiunta quella del Mali, paese in cui gli interessi dell’Algeria e della Russia sono diametralmente opposti. Mosca sostiene infatti il regime maliano, che sta combattendo sia contro i tuareg che contro i gruppi terroristici armati. Dall’altra parte, l’Algeria ha una politica costante che consiste nel sostenere tutte le rivendicazioni regionali che consentono di indebolire i suoi vicini, in modo da non essere essa stessa colpita dai propri problemi etnici.

Mi spiego meglio. Il Sahara, che non è mai stato algerino poiché l’Algeria è una creazione coloniale francese, è la patria dei Tuareg. Tuttavia, poiché questi ultimi vivono principalmente in Algeria, tutti i problemi che si presentano ai loro cugini in Libia, Mali o Niger hanno naturalmente delle ripercussioni. Ecco perché, al fine di garantire la pace tra i propri Tuareg, Algeri intende esercitare una “sovranità” su quelli dei paesi vicini… Il risultato è che gli interessi regionali della Russia e dell’Algeria si scontrano. L’ultima gaffe algerina risale a lunedì 13 ottobre 2025, quando, durante una conferenza stampa tenuta a Mosca davanti alla stampa araba, il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov è stato interpellato da una giornalista algerina della televisione pubblica AL24 News, che dipende direttamente dalla direzione della comunicazione della presidenza algerina. Quest’ultima ha accusato la Russia di aver commesso crimini contro i civili maliani uccisi da elementi dell’Africa Corp, un’unità militare russa che ha sostituito i paramilitari di Wagner. La risposta del ministro degli Esteri russo è stata allo stesso tempo tagliente e piena di umorismo: «La sua domanda è stata ben preparata e lei l’ha letta in modo perfetto». Il sottinteso è che il regime algerino che l’ha redatta le ha chiesto di porla. «Per quanto riguarda i timori dell’Algeria sulla presenza dell’Africa Corp nei paesi del Sahel, le preciso che la nostra presenza militare in Mali risponde a una richiesta delle autorità legittime di quel paese», ha aggiunto Serguei Lavrov. Ha poi aggiunto che le tensioni esistenti tra il Mali e l’Algeria risalgono all’epoca coloniale, quando i confini artificiali furono tracciati dal colonizzatore francese. Con questa affermazione, Serguei Lavrov ha diplomaticamente fatto capire ai leader algerini che il loro Paese deve i propri confini alla colonizzazione, sollevando al contempo il problema dell’intangibilità dei confini coloniali, un tabù per l’Algeria, Paese fatto di pezzi e bocconi. La conseguenza della progressiva rottura tra Russia e Algeria è che Mosca si sta ormai allontanando sempre più dalle posizioni algerine. Incapace di reagire, ridotto all’impotenza, il «sistema» algerino sta morendo dall’interno, schiacciato dalle proprie contraddizioni e rovinato dalle prevaricazioni della sua nomenklatura. Un’agonia che ha conseguenze internazionali e che provoca l’isolamento dell’Algeria, nonché la sua emarginazione sulla scena internazionale.

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La nuova ricchezza delle nazioni_di Jared Cohen

La nuova ricchezza delle nazioni

Come il capitale strumentale sta ridisegnando il mondo.

3 dicembre 2025, ore 19:02 Visualizza commenti (0)

Di Jared Cohen, presidente degli affari globali presso Goldman Sachs e co-direttore del Goldman Sachs Global Institute, e George Lee, co-direttore del Goldman Sachs Global Institute.

An illustration shows two men against a bright yellow background. One man wears a Western-style business suit and the other wears a black robe and white head covering. The men are shaking hands. Each holds a briefcase with money spilling out, the left man's briefcase shaped like the United States' and the right man's like the Arabian Peninsula.
Un’illustrazione mostra due uomini su uno sfondo giallo brillante. Uno indossa un abito occidentale, l’altro una tunica nera e un copricapo bianco. I due uomini si stringono la mano. Ognuno tiene in mano una valigetta da cui fuoriescono banconote: quella dell’uomo a sinistra ha la forma degli Stati Uniti, quella dell’uomo a destra quella della penisola arabica.

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Il capitale e l’arte di governare sono sempre stati collegati. Ma dall’alba del capitalismo moderno, la ricchezza complessiva del mondo e il benessere medio dell’umanità sono aumentati in modo spettacolare. Lo stesso vale per l’accesso degli Stati al capitale e la loro disponibilità a impiegarlo per raggiungere fini politici, una tendenza particolarmente forte nei periodi di rapida crescita economica, cambiamento tecnologico e rivalità tra grandi potenze.

Oggi i responsabili politici considerano la geoeconomia una questione di sicurezza nazionale, sostenendo le loro strategie geopolitiche con investimenti attraverso fondi sovrani, campioni nazionali e partnership pubblico-private.

Chiamatelo l’ascesa del capitale strumentale: l’uso di fondi statali per perseguire il duplice obiettivo di generare rendimenti finanziari e proiettare il potere dello Stato. Questo capitale è paziente, a lungo termine e in linea con le agende nazionali e internazionali di particolari leader. Il modo in cui i paesi investono è, sempre più, il modo in cui competono. In questo nuovo paradigma, i governi sono più che semplici regolatori dei mercati; ora sono tra i proprietari di asset e gli allocatori di capitale più influenti nell’economia globale.

In nessun altro luogo questo è più evidente che in Medio Oriente. Mentre lo sviluppo di alcuni paesi della regione è stato frenato dalla presenza di gruppi estremisti o dalla mancanza di risorse, le ricche monarchie arabe del Golfo hanno intrapreso un percorso chiaro verso la prosperità. Questi paesi sono stabili, dotati di risorse e in grado di perseguire programmi economici che sono in gran parte isolati dai conflitti della regione. La loro ascesa è una delle tendenze più importanti nella geopolitica e nella finanza globale.

L’avvento moderno dei fondi sovrani è al centro di questa rivoluzione. Il Kuwait ha istituito il primo fondo sovrano al mondo nel 1953. Il modello kuwaitiano si è diffuso in tutto il mondo e da allora i fondi sovrani mediorientali hanno guidato i flussi di capitale globali. Secondo Global SWF, nei primi nove mesi del 2025 gli investitori sovrani mediorientali hanno rappresentato ben il 40% del valore delle operazioni degli investitori statali a livello globale, con operazioni per un totale di 56,3 miliardi di dollari. I fondi sovrani mediorientali hanno più di 5,6 trilioni di dollari in asset in gestione, il che renderebbe questi pool di capitali collettivamente la terza economia più grande al mondo. Entro il 2030, tale cifra dovrebbe salire a 8,8 trilioni di dollari.

Ben 170 fondi sovrani in tutto il mondo, dalla Cina alla Norvegia e a Singapore, detengono oltre 14 trilioni di dollari in attività. I mandati dei fondi sovrani stanno cambiando insieme alla loro portata. Per gran parte della loro storia, questi fondi hanno seguito strategie di investimento passive, assecondando in larga misura le tendenze macroeconomiche. Oggi, un numero crescente di questi fondi sovrani si è trasformato in allocatori di capitale attivi e motori di ampi mandati tecnologici e geoeconomici che rappresentano alcune delle scommesse più ambiziose e ad alto rischio al mondo. Il cambiamento più aggressivo sta avvenendo tra le monarchie del Golfo del Medio Oriente, dove spesso è un piccolo gruppo di leader politici e la loro cerchia ristretta, e non solo i gestori degli investimenti, a decidere dove, quando e perché effettuare gli investimenti.

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La portata e l’ambito del capitale strumentale stanno creando nuovi ambiti di concorrenza e cooperazione. Stanno reindirizzando la capacità degli Stati verso la diversificazione economica, il vantaggio tecnologico e l’influenza geopolitica. Se il modello dovesse durare, potrebbe rimodellare non solo il Medio Oriente, ma anche l’architettura della finanza globale e la pratica della politica.


A black-and-white engraving illustration shows men gathered around a table. One man seated hands another standing a piece of paper. They wear ornate period clothes from the early 1600s, including doublets, puffy breeches, and large circular ruffled collars.Un’illustrazione incisa in bianco e nero mostra alcuni uomini riuniti attorno a un tavolo. Un uomo seduto porge un foglio di carta a un altro in piedi. Indossano abiti decorati dell’epoca risalenti agli inizi del 1600, tra cui farsetti, calzoni a sbuffo e grandi colletti circolari arruffati.

Raffigurazione di Henry Hudson, esploratore e navigatore inglese, mentre riceve l’incarico dalla Compagnia Olandese delle Indie Orientali, intorno al 1609. Kean Collection/Getty Images

Una delle prime espressioni di capitale strumentale risale alla Repubblica Olandese nel XVI e XVII secolo. Durante la rivolta contro la Spagna asburgica, nota come Guerra degli Ottant’anni, le province ribelli fondarono una nuova società: la Compagnia Olandese delle Indie Orientali.

La società era finanziata da investitori privati ai quali erano state assegnate azioni di una delle prime società quotate in borsa al mondo. Ma anche il governo olandese sosteneva la Compagnia Olandese delle Indie Orientali, consapevole della necessità di entrate per finanziare la guerra d’indipendenza. Al centro di questa operazione c’era il monopolio concesso dal governo alla società sul commercio in Asia, uno dei mercati in più rapida crescita al mondo.

Questo precedente trova riscontro anche oggi, poiché i governi di tutto il mondo utilizzano fondi e influenza statali, spesso attraverso imprese pubbliche o investimenti strategici in società private, per raggiungere obiettivi economici e geopolitici nazionali, in particolare in settori critici come la tecnologia e le infrastrutture.

Il Piano Marshall è stato un esempio successivo di capitale strumentale su larga scala. Proposto durante l’amministrazione del presidente degli Stati Uniti Harry Truman nel 1947, il Piano Marshall ha stanziato 13,3 miliardi di dollari (circa 150 miliardi di dollari attuali) per ricostruire le economie dell’Europa occidentale devastate dalla guerra. Il denaro era un aiuto estero, ma promuoveva anche gli interessi degli Stati Uniti. In un momento in cui gli Stati Uniti erano l’unica potenza industriale le cui industrie non erano state devastate dalla guerra, una Europa rinata avrebbe offerto mercati per le esportazioni statunitensi, rafforzato la preminenza globale del dollaro e ridotto il fascino del comunismo nei primi giorni della Guerra Fredda.

Il Piano Marshall utilizzò capitali mirati per plasmare gli equilibri di potere del dopoguerra. Anche l’attuale competizione tra grandi potenze dipende dalla capacità degli Stati di impiegare capitali su larga scala per consolidare alleanze, sviluppare capacità industriali e stabilire le regole di un ordine emergente.

Questa logica divenne ancora più evidente con il protrarsi della Guerra Fredda. Era un’epoca caratterizzata da un’integrazione economica limitata dal punto di vista geografico, ma da un’intensa concorrenza globale. Con la fine della guerra del Vietnam, gli Stati Uniti divennero diffidenti nei confronti dei coinvolgimenti militari nel Pacifico. Allarmata dalla prospettiva di essere abbandonata e cercando di rafforzare il suo legame ormai logoro con Washington, Taiwan, allora un’economia prevalentemente agricola, investì nella tecnologia.

A man is silhouetted from behind as he stands in front of a colorful wall-sized screen with photos of semiconductor chips and workers displayed on it.Un uomo è ripreso di spalle mentre si trova davanti a uno schermo colorato a tutta parete su cui sono proiettate immagini di chip semiconduttori e lavoratori.

Un visitatore osserva uno schermo che mostra immagini di chip semiconduttori e wafer elettronici al Museo dell’Innovazione della Taiwan Semiconductor Manufacturing Company a Hsinchu, Taiwan, il 21 novembre 2024. I-Hwa Cheng/AFP via Getty Images

La strategia era semplice: come ha scritto l’autore Chris Miller nel suo libro Chip War, “Più impianti di semiconduttori ci sono sull’isola e più legami economici ci sono con gli Stati Uniti, più Taiwan sarà al sicuro”.

Con il passaggio della Guerra Fredda all’era della distensione e la graduale eliminazione degli aiuti economici agli Stati Uniti a Taiwan negli anni ’60 e ’70, l’isola ha privilegiato il commercio rispetto agli aiuti. Nel 1968, Texas Instruments ha approvato il suo primo stabilimento a Taiwan. Cinque anni dopo, il governo taiwanese fondò l’Industrial Technology Research Institute, guidato da Morris Chang. Con 100 milioni di dollari provenienti dal Fondo nazionale per lo sviluppo, Chang lanciò poi la Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (TSMC).

La fusione tra capitale statale e innovazione tecnologica, sostenuta dai ricercatori universitari e dagli investitori e imprenditori del settore privato, ha gettato le basi dell’ecosistema tecnologico degli Stati Uniti nell’era della Guerra Fredda, caratterizzata dalla competizione tra grandi potenze. Alla fine degli anni ’60, Washington ha sostenuto lo sviluppo di tecnologie come ARPANET, la prima rete informatica avanzata, e l’ecosistema innovativo della Silicon Valley che, insieme ad aziende come TSMC, avrebbe definito l’attuale panorama tecnologico globale.

Le due maggiori economie mondiali, Stati Uniti e Cina, esercitano oggi la maggiore capacità di influenzare i flussi globali di merci e capitali, sia attraverso investimenti che strumenti economici quali controlli sulle esportazioni e dazi doganali. Entrambe, in modi nettamente diversi ma talvolta convergenti, utilizzano la diplomazia economica non solo per favorire la crescita, ma anche per ottenere un vantaggio strategico laddove gli strumenti militari o diplomatici risultano insufficienti o troppo costosi.Trump and Takaichi stand side-by-side behind a desk. Trump wears a dark suit and red tie and Takaichi wears a light-colored skirt suit. Both hold up large folders holding signed documents. Behind them are six U.S. and Japanese flags and candelabras on tall gilt stands in front a red-draped and ornate white and gold wall.Trump e Takaichi sono in piedi fianco a fianco dietro una scrivania. Trump indossa un abito scuro e una cravatta rossa, mentre Takaichi indossa un tailleur gonna chiaro. Entrambi tengono in mano grandi cartelle contenenti documenti firmati. Dietro di loro ci sono sei bandiere statunitensi e giapponesi e candelabri su alti supporti dorati davanti a una parete rossa drappeggiata e decorata in bianco e oro.Biden stands in a large industrial room in a dark suit alongside other men and women, who stand behind a large metal-framed quantum computer.Biden è in piedi in un grande locale industriale, vestito con un abito scuro, accanto ad altri uomini e donne che stanno dietro a un grande computer quantistico con telaio metallico.

A sinistra: Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il primo ministro giapponese Sanae Takaichi mostrano i documenti firmati per un accordo sui minerali critici durante un incontro a Tokyo il 28 ottobre. Andrew Harnik/Getty Images   A destra: Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden osserva un computer quantistico durante la visita alla sede IBM di Poughkeepsie, New York, il 6 ottobre 2022. IBM ha ospitato il presidente per celebrare l’annuncio di un investimento di 20 miliardi di dollari in semiconduttori, informatica quantistica e altre tecnologie all’avanguardia nello Stato di New York. Mandel Ngan/AFP via Getty Images

Negli ultimi mesi, Washington ha concluso accordi relativi a minerali critici e semiconduttori, ampliando al contempo i patti di investimento con paesi dal Giappone al Golfo. Pechino ha intensificato la sua politica industriale per assicurarsi la leadership in settori strategici e puntare all’autosufficienza. Con il suo modello di governance centralizzato e di partito-Stato, ha unito sussidi, politica industriale e aziende statali di punta per passare dall’essere la fabbrica del mondo a diventare il concorrente tecnologico emergente a livello mondiale.

Mentre Pechino mobilita capitali statali per dominare settori strategici, Washington fa affidamento principalmente su mercati dei capitali profondi e sul dinamismo imprenditoriale, rafforzati dagli investimenti pubblici. Ciò ha coinciso con un dibattito decennale sulla politica industriale, in cui lo Stato finanzia sempre più spesso progetti pubblici su larga scala, riduce i rischi degli investimenti privati e affronta le carenze del mercato in settori quali la ricerca e lo sviluppo, anche se non sempre con la stessa portata o con lo stesso approccio dall’alto verso il basso di Pechino.

Questa spinta industriale assume forme diverse, ma continua attraverso le varie amministrazioni. Il CHIPS and Science Act dell’era Biden ha stanziato 39 miliardi di dollari per la produzione nazionale di semiconduttori, mentre l’Inflation Reduction Act ha cercato di catalizzare più di 3 trilioni di dollari nel settore dell’energia pulita. La U.S. International Development Finance Corporation, istituita nel 2019 durante la prima amministrazione Trump in parte per competere con l’iniziativa cinese Belt and Road, ha ridefinito il finanziamento allo sviluppo degli Stati Uniti per promuovere gli investimenti in settori strategici, una forma di capitale statale. E gli accordi di investimento sono stati una caratteristica di spicco del secondo mandato del presidente Donald Trump.

La competizione è tutt’altro che conclusa: è una caratteristica determinante degli affari globali. Mentre il divario tra le economie statunitense e cinese si sta ampliando con l’aumento del prodotto interno lordo degli Stati Uniti, entrambi i paesi stanno raddoppiando gli investimenti statali, in particolare nei settori ad alta intensità di capitale come l’intelligenza artificiale, dove i mercati pubblici e privati, così come i governi, stanno convogliando migliaia di miliardi di dollari.

Negli ultimi anni hanno fatto la loro comparsa nuovi attori in questa competizione: paesi i cui investimenti talvolta rivaleggiano con quelli delle due maggiori economie mondiali.


A sign in Arabic stands in a sandy open field in front of newly constructed skyscrapers surrounded by cranes. The sky above is entirely clear of clouds.Un cartello in arabo si trova in un campo sabbioso aperto di fronte a grattacieli di recente costruzione circondati da gru. Il cielo sopra è completamente sgombro da nuvole.

Edifici adibiti a uffici sorgono nel cantiere del nuovo King Abdullah Financial District a Riyadh, in Arabia Saudita, il 20 giugno 2018. Il progetto fa parte dell’iniziativa Vision 2030 del Paese. Sean Gallup/Getty Images

L’ascesa degli altri paesi, dal Sud-Est asiatico all’America Latina, ha coinciso con l’arricchimento del Golfo. Ciò è avvenuto anche durante un’evoluzione politica che ha ridefinito la traiettoria della regione. A metà degli anni 2010, una generazione più giovane di leader in Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar e, più recentemente, Kuwait è salita al potere. Questi leader devono affrontare due cambiamenti fondamentali: la transizione energetica globale, che nei prossimi decenni potrebbe erodere la linfa vitale delle loro economie basata sui combustibili fossili, e l’ascesa di nuovi produttori di energia che vanno dall’America Latina agli Stati Uniti, che ora sono il maggior produttore mondiale di petrolio greggio.

Di fronte a un contesto macroeconomico diverso, questi nuovi leader del Golfo hanno modificato i mandati relativi alla ricchezza nazionale. Ora, gli investimenti di capitali in Medio Oriente non mirano solo a ottenere rendimenti, ma promuovono lo sviluppo nazionale e la diversificazione economica. Essi determinano il modo in cui le nazioni del Golfo si posizionano tra le grandi potenze e guidano sempre più l’economia dell’innovazione, con trilioni di dollari a livello globale che vengono convogliati in settori come l’intelligenza artificiale.

Il Golfo è ben lungi dall’essere un blocco monolitico. I membri del Consiglio di cooperazione del Golfo condividono alcune caratteristiche, ma le loro strategie riflettono le identità e le priorità nazionali. Molti monarchi del Golfo prevedono di governare per decenni e continueranno a definire i propri piani e a seguirne l’attuazione. Di conseguenza, questi leader investono con orizzonti temporali a lungo termine che li distinguono da altre categorie di allocatori di capitale.

L’espressione più chiara di questa dinamica è la Vision 2030 dell’Arabia Saudita, lanciata dal principe ereditario Mohammed bin Salman nel 2016 nel tentativo di costruire una “società vivace, un’economia fiorente e una nazione ambiziosa”. Il principe ereditario, nipote del fondatore dell’Arabia Saudita moderna, re Abdulaziz, sta guidando un programma di trasformazione nazionale per l’unica economia del G-20 del mondo arabo e sede dei due luoghi più sacri dell’Islam.

Il successo del programma sarà determinato dai risultati ottenuti sul territorio nazionale. Con oltre 35 milioni di cittadini, di cui quasi due terzi hanno meno di 30 anni, il regno si trova ad affrontare una realtà demografica molto diversa da quella dei suoi vicini del Golfo, più piccoli. Le circostanze interne implicano che Riyadh debba creare posti di lavoro nel settore privato in nuovi settori quali il turismo, l’intrattenimento, lo sport e le scienze della vita. Ciò significa trasformare un vasto panorama e un modello socioeconomico tradizionale dominato dalle famiglie di commercianti e dai sussidi statali in uno che promuova l’imprenditorialità e attragga livelli sempre più elevati di competenze straniere, turismo e investimenti.

Per saperne di più

Le riforme sociali sono legate a tali risultati economici. Un decreto reale del 2017 ha concesso alle donne saudite il diritto di guidare e viaggiare senza la presenza di un tutore maschio. Sempre più donne stanno entrando nel mondo del lavoro, ma questi cambiamenti non riguardano solo diritti a lungo negati. Una maggiore inclusione alimenta la crescita, riduce la fuga dei cervelli e può aumentare il consenso pubblico per le riforme economiche, anche se alcuni elementi più tradizionalisti della società saudita si oppongono ad alcuni aspetti della modernizzazione.

La politica estera e la tecnologia sono diventate strumenti di prosperità interna. L’Arabia Saudita coltiva rapporti sia con il suo garante della sicurezza, gli Stati Uniti, sia con la Cina, il suo principale partner commerciale. Il regno sta diventando un hub commerciale e logistico sempre più importante, che collega le economie in crescita dell’Asia, in particolare l’India, con l’Europa.

Sta inoltre investendo centinaia di miliardi di dollari nell’intelligenza artificiale, compresi nuovi data center e campioni dell’IA come Humain. La spinta di Riyadh verso una maggiore leadership nell’IA è una scommessa sul fatto che questa tecnologia generica possa dare impulso a tutti i settori della sua economia in fase di diversificazione e che essa presenti vantaggi unici non solo grazie al suo accesso al capitale, ma anche attraverso un contesto normativo flessibile e un’abbondanza di energia a prezzi accessibili.

Vision 2030 ha ottenuto risultati notevoli nel suo primo decennio. La modernizzazione dell’Arabia Saudita l’ha resa irriconoscibile agli occhi di molti che la conoscevano prima. Il suo Fondo di investimento pubblico ha superato i 1.000 miliardi di dollari di asset nel 2025.

Tuttavia, poiché Riyadh dimostra di non essere solo un investitore ma anche un costruttore, il programma continua ad affrontare e ad adattarsi a nuove sfide. Il deficit fiscale del Paese dovrebbe attestarsi al 3,3% del PIL nel 2026 e potrebbe aumentare se i prezzi globali del petrolio non dovessero salire, riducendo le entrate del governo. La bilancia estera dell’Arabia Saudita è messa a dura prova da progetti interni ad alta intensità di capitale che richiedono ingenti importazioni di macchinari, tecnologia e competenze, il che ha ridotto drasticamente il surplus commerciale del regno. Di conseguenza, i megaprogetti della Vision 2030, come Qiddiya, Diriyah e la prevista megalopoli futuristica di Neom, hanno subito un rallentamento o una significativa riduzione, poiché i prezzi globali del petrolio sono rimasti bassi e il regno sta valutando la propria strategia e capacità. Ma si tratta più di una ricalibrazione che di un cambiamento radicale, che riflette il desiderio del regno di fare spazio a un portafoglio crescente di scommesse a lungo termine.

Tali pressioni non fanno che aumentare la spinta verso la diversificazione economica. Un regno meno dipendente dalle entrate petrolifere potrebbe agire in modo più indipendente nella geopolitica, sviluppare più forme di influenza e leva, e posizionarsi come hub regionale per gli investitori di tutti i settori. La visita del principe ereditario a Washington a novembre e gli impegni di Trump a Riyadh con i massimi dirigenti tecnologici degli Stati Uniti a maggio hanno sottolineato come le riforme economiche stiano ancorando il regno alle architetture di sicurezza statunitensi.

Men and women stand around a large table covered in a detailed diorama with grids of buildings and streets lined with trees and greenery.Uomini e donne sono in piedi attorno a un grande tavolo ricoperto da un diorama dettagliato con griglie di edifici e strade fiancheggiate da alberi e vegetazione.

Gli ospiti osservano un modello del più grande centro dati degli Emirati Arabi Uniti, attualmente in costruzione, visto ad Abu Dhabi il 3 novembre. Giuseppe Cacae/AFP via Getty Images

Ma tra gli Stati del Golfo, gli Emirati Arabi Uniti, un Paese con una popolazione e un territorio molto più ridotti rispetto all’Arabia Saudita, hanno compiuto i progressi più rapidi verso la diversificazione economica. Il loro approccio lungimirante alla tecnologia è stato particolarmente distintivo. Nel 2017, Abu Dhabi ha nominato il primo ministro dell’IA al mondo. L’anno successivo ha lanciato la società G42, oggi il suo fiore all’occhiello nazionale nel campo dell’IA. Nel 2023, l’Advanced Technology Research Council di Abu Dhabi ha rilasciato Falcon, uno dei primi grandi modelli linguistici in lingua araba, estendendo la portata tecnologica degli Emirati Arabi Uniti agli oltre 400 milioni di persone che parlano arabo nel mondo.

Questi investimenti iniziali hanno dato agli Emirati un vantaggio competitivo. Con circa il 70% della produzione del Paese derivante da settori non petroliferi e del gas, i suoi leader non vogliono perdere il primato di economia più diversificata della regione. Per anni, le aziende globali hanno trasferito il proprio personale e le sedi regionali negli Emirati Arabi Uniti, iniziando da Dubai nei primi anni 2000 e ora ad Abu Dhabi, che è diventata una capitale commerciale oltre che politica. Oggi Abu Dhabi è la città più ricca del mondo in termini di fondi sovrani, guadagnandosi il soprannome di “Abu Dhabi Inc“.

Un ecosistema di sofisticati fondi sovrani guida diversi aspetti dell’economia degli Emirati Arabi Uniti e alimenta una gamma sempre più ampia di ambizioni. L’Abu Dhabi Investment Authority (ADIA), fondata nel 1976, è uno dei fondi più grandi e influenti al mondo, con un orizzonte di investimento a lungo termine e una posizione di leadership nelle classi di attività alternative. La società statale Mubadala Development Company è stata lanciata nel 2002 con l’obiettivo di diversificare l’economia. Dopo una fusione nel 2017, la nuova Mubadala Investment Company ha deciso di puntare sul futuro, investendo in oltre 50 paesi in settori che vanno dall’aerospaziale ai semiconduttori. MGX è un veicolo di investimento incentrato sull’intelligenza artificiale, co-fondato nel 2024 da Mubadala e G42, che insieme hanno anche lanciato una società integrata di assistenza sanitaria, M42ADQ, fondata nel 2018, funge da veicolo di Abu Dhabi per la trasformazione economica interna in tutti i settori. E nel 2023, gli Emirati Arabi Uniti hanno lanciato Lunate, una piattaforma di investimento alternativa, sottolineando la crescente fiducia del Paese in un mondo finanziario sempre più diviso.

La portata di questi fondi è in espansione, posizionando il Paese come uno dei principali motori mondiali dei flussi di capitali transfrontalieri. E mettendo in mostra le sue capacità e la sua portata in tutte le classi di attività e i temi, Abu Dhabi si sta posizionando sempre più come punto di ingresso per navigare nella regione e nel suo panorama sovrano in evoluzione.

Gli Emirati Arabi Uniti stanno anche cercando di utilizzare l’IA per diventare un nodo strategico nell’infrastruttura globale, al fine di costruire relazioni costruttive con le principali potenze, compresi gli Stati Uniti. Allo stesso tempo, stanno diventando un intermediario influente negli ecosistemi tecnologici occidentali e asiatici, influenzando persino le tendenze degli investimenti globali nella catena del valore dell’IA. Con una dipendenza così elevata dal capitale strumentale per la raccolta di fondi, le aziende private stanno scoprendo sempre più che la decisione di Abu Dhabi di investire, o meno, influenza la percezione più ampia da parte degli Stati sovrani sul fatto che siano sopravvalutate o che abbiano un prezzo adeguato.

Sebbene possano favorire la creazione di un mercato, gli investimenti sovrani degli Emirati Arabi Uniti hanno anche posto il Paese sotto i riflettori geopolitici. Sotto la pressione dei funzionari statunitensi di entrambi i principali partiti, i leader degli Emirati hanno lavorato per tagliare i legami tecnologici con la Cina. Alla fine del 2023, il CEO di G42 Peng Xiao ha dichiarato al Financial Times: “Per poter approfondire il nostro rapporto, a cui teniamo molto, con i nostri partner statunitensi, non possiamo semplicemente fare molto di più con i [precedenti] partner cinesi”. Xiao ha aggiunto: “Non possiamo lavorare con entrambe le parti. Non possiamo”.

Sebbene permangano alcune preoccupazioni, la revoca da parte degli Stati Uniti, nel mese di maggio, della norma sull’AI diffusa durante l’era Biden, che avrebbe limitato le esportazioni di chip di fascia alta verso gli Stati del Golfo come gli Emirati Arabi Uniti, è avvenuta pochi giorni prima della visita di Trump nella regione e ha aperto la possibilità di un aumento delle esportazioni di chip.

Ortberg and Trump, in dark suits, smile and interact at one end of an ornate flower-covered table. Thani and another man wearing white robes and head coverings smile as they watch. All sit in ornate chairs. A U.S. flag is displayed at left behind the desk and a Qatari flag at right.Ortberg e Trump, in abiti scuri, sorridono e interagiscono a un’estremità di un tavolo decorato e ricoperto di fiori. Thani e un altro uomo che indossa abiti bianchi e copricapo sorridono mentre osservano. Tutti siedono su sedie decorate. Una bandiera degli Stati Uniti è esposta a sinistra dietro la scrivania e una bandiera del Qatar a destra.

Il CEO della Boeing Kelly Ortberg (a sinistra) è seduto alla sinistra di Trump (al centro a sinistra) e dell’emiro del Qatar Sheikh Tamim bin Hamad Al Thani (al centro a destra) durante la cerimonia per la firma di un accordo commerciale al Palazzo Reale di Doha il 14 maggio. Brendan Smialowski/AFP via Getty Images

L’ascesa del Qatar è più recente, ma non per questo meno notevole. Per molti, Doha è entrata sotto i riflettori con i Mondiali di calcio maschili del 2022. A quel punto, un Paese grande all’incirca quanto il Connecticut aveva costruito infrastrutture in grado di accogliere milioni di turisti e ospitare eventi di rilevanza mondiale. Ciò è stato possibile grazie all’aiuto di aziende nazionali di spicco, costruite attraverso investimenti sovrani effettuati da entità come la Qatar Investment Authority. La Qatar National Bank ha circa 20 milioni di clienti in 28 paesi, Al Jazeera vanta un pubblico globale di 430 milioni di persone e Qatar Energy genera oltre 43 miliardi di dollari di ricavi all’anno. Qatar Airways impiega più di 50.000 persone e possiede una delle flotte cargo più grandi al mondo. L’anno scorso quasi 53 milioni di persone hanno viaggiato attraverso l’aeroporto internazionale Hamad, rendendolo uno degli aeroporti più trafficati della regione.

Finora, il limite di Doha non è finanziario, ma geopolitico e demografico. L’Arabia Saudita può dare lavoro a milioni di suoi cittadini e sta lavorando per fornire posti di lavoro a molti altri milioni. Il Qatar, con poco più di 300.000 cittadini e una popolazione significativa di lavoratori migranti, non può farlo. Gli Emirati Arabi Uniti attraggono da tempo talenti da tutto il mondo. Il Qatar non lo fa da così tanto tempo né su scala altrettanto ampia. Per colmare il divario demografico, Doha punta a raddoppiare il numero dei suoi campioni nazionali con l’obiettivo di attrarre nei prossimi dieci anni fino a 2,5 milioni di lavoratori qualificati in settori quali il turismo, l’istruzione, la sanità, l’ospitalità, la tecnologia finanziaria e l’intelligenza artificiale. Education City, un cluster di campus universitari internazionali lanciato nel 2003, è fondamentale per questa strategia, poiché forma sia studenti qatarioti che stranieri per lavorare nelle industrie locali.

La geopolitica può però complicare le cose. Il Qatar confina con l’Arabia Saudita e si trova dall’altra parte del Golfo rispetto all’Iran. Dal 2017 al 2021, un blocco guidato dagli Emirati Arabi Uniti e dall’Arabia Saudita ha fatto seguito alle accuse di sostegno ai gruppi islamisti. E quest’anno, missili iraniani hanno sorvolato Doha prima di colpire una vicina base aerea statunitense nel Paese. Il Qatar ha cercato di bilanciare questa pressione schierandosi su più fronti delle divisioni politiche, una strategia che alcuni hanno definito “neutralità tattica”.

I diplomatici del Qatar hanno stretto alleanze influenti e suscitato polemiche impegnandosi a livello globale, in particolare nella mediazione di conflitti che coinvolgono più parti. Doha ha facilitato i negoziati tra Russia e Ucraina, nonché tra Ruanda e Repubblica Democratica del Congo. Ha ospitato i leader dei talebani e di Hamas, spesso su richiesta di Washington, suscitando critiche ma anche rafforzando la propria influenza e il proprio potere. Più recentemente, la leadership del Qatar ha svolto un ruolo di primo piano nei negoziati per il rilascio degli ostaggi israeliani detenuti da Hamas a Gaza, nonché nel piano di pace per il territorio.

Gli investimenti e il ruolo di mediazione del Qatar gli hanno fatto guadagnare il sostegno delle grandi potenze. Per rafforzare i suoi già stretti legami con gli Stati Uniti, Doha ha finanziato la costruzione della base aerea di Al Udeid, oggi la più grande installazione militare statunitense nella regione. Nel 2022, gli Stati Uniti hanno designato Doha come importante alleato non NATO. Tre anni dopo, subito dopo un attacco israeliano contro obiettivi di Hamas nella sua capitale, Doha ha ottenuto un impegno di sicurezza dagli Stati Uniti e ha annunciato piani per la costruzione di una nuova  struttura dell’aeronautica militare dell’Emirato del Qatar nell’Idaho. Nel frattempo, il fondo sovrano del Qatar, che vale oltre 500 miliardi di dollari, esplora opportunità di investimento in tutto il mondo, compresi Stati Uniti, Europa e Cina.

Il modello di capitale strumentale, introdotto per la prima volta da Stati come l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e il Qatar, si sta diffondendo. Nel 2020, l’Oman ha incoronato il suo primo nuovo sultano in cinquant’anni e ha lanciato la sua Vision 2040. Il Kuwait sta ora introducendo riforme economiche e di governance guidate dal secondo fondo più grande della regione, la Kuwait Investment Authority. Il piano di investimenti da 17 miliardi di dollari del Bahrein negli Stati Uniti si basa sul suo Accordo di integrazione e prosperità globale in materia di sicurezza. E se gli Accordi di Abramo dovessero espandersi, i prossimi passi potrebbero includere una più profonda integrazione economica e maggiori investimenti, con Israele che sposterebbe ancora una volta l’equilibrio geopolitico della regione.

Il capitale strumentale sta dando alle monarchie del Golfo – e agli Stati geopolitici in bilico a livello globale – la capacità di agire al di sopra del loro peso demografico o militare, proprio come ha fatto il petrolio nel XX secolo. La differenza ora è che questa tendenza è accelerata da due fattori significativi: l’interdipendenza strategica tra Stati Uniti e Cina, che sono i principali partner commerciali e i principali concorrenti l’uno dell’altro, e l’emergere dell’intelligenza artificiale generativa come tecnologia trainante dell’economia che necessita delle abbondanti risorse di capitale ed energia così diffuse nel Golfo.

Oggi, questa capacità sta sia riformando le circostanze interne delle monarchie del Golfo sia conferendo loro influenza in ogni settore e area geografica, dai chip alla concorrenza tra Stati Uniti e Cina, rendendo gli investimenti di capitale una leva geopolitica in modi nuovi.


Trump in a dark suit is flanked by two men in robes and a woman in a long dress and head scarf. They walk between ornate flowered columns down a long hallway.Trump, in abito scuro, è affiancato da due uomini in toga e da una donna con un abito lungo e un velo sul capo. Camminano lungo un corridoio decorato con colonne ornate di fiori.

Trump (al centro a destra) visita la Grande Moschea dello Sceicco Zayed, accompagnato dal principe ereditario Sheikh Khaled bin Mohamed bin Zayed Al Nahyan (a destra), ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti, il 15 maggio. Brendan Smialowski/AFP via Getty Images

I fondi sovrani esistono da oltre settant’anni e le allocazioni di capitale guidate dallo Stato da secoli. Ma l’ascesa del capitale strumentale sta ora ridefinendo le relazioni degli Stati con la finanza globale e il modo in cui competono a livello mondiale.

Non tutti i fondi sovrani seguono le stesse regole. Il Carnegie Endowment ha osservato come la crescita dei fondi sovrani aumenti il rischio che essi fungano anche da “canali di corruzione, riciclaggio di denaro e altre attività illecite”.& nbsp;Poco dopo l’inizio dell’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Russia nel 2022, il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha sanzionato il Fondo nazionale di ricchezza del Paese e il Fondo russo per gli investimenti diretti, affermando che quest’ultimo era “ampiamente considerato un fondo nero per il presidente Vladimir Putin ed è emblematico della più ampia cleptocrazia russa”.

Ma mentre gli Stati con capitali cercano opportunità di investimento in tecnologie e regioni critiche in tutto il mondo e cercano di attrarre investimenti stranieri da nuovi partner, i responsabili politici occidentali hanno la possibilità di identificare interessi comuni e allineare gli investimenti sovrani a valori democratici quali trasparenza, responsabilità e rispetto della dignità umana individuale, corteggiando gli Stati geopolitici indecisi in modi nuovi.

Anche i proprietari di fondi sovrani possono fare il punto sulle proprie partnership. La politica statunitense in Medio Oriente cambia da un’amministrazione all’altra. Senza sapere chi sarà il prossimo inquilino della Casa Bianca, questi proprietari cercano di aumentare la propria autonomia e raggiungere un equilibrio, consapevoli che i prossimi tre anni potrebbero essere cruciali per dimostrare che le loro relazioni non si basano solo su impegni passati, ma anche sulla loro indispensabilità futura.

Il successo a lungo termine degli investimenti statali, così come quello degli investimenti guidati dal settore privato, sarà determinato dai meccanismi di mercato e dal feedback. In Cina, il partito-Stato consente un coordinamento su larga scala e il dominio industriale in alcuni settori, ma la fatale presunzione della pianificazione centralizzata potrebbe rivelarsi nel debole settore immobiliare interno e nel debito in forte aumento. Il sistema statunitense della libera impresa alimenta la sua crescita, mentre i suoi istituti di ricerca e le sue aziende leader a livello mondiale guidano il suo ecosistema di innovazione. Tuttavia, i crescenti vincoli fiscali e le divisioni politiche limitano l’attenzione strategica.

Gli Stati del Golfo stanno scommettendo che le loro strategie trasformeranno le loro economie, ma un eccessivo investimento in settori non redditizi o riforme economiche e sociali fallimentari potrebbero arrestare i loro notevoli progressi. E mentre tutte le principali economie stanno investendo livelli senza precedenti nell’intelligenza artificiale, alcune iniziative avranno successo e offriranno rendimenti su larga scala, mentre altre falliranno. Laddove le aziende di IA non riusciranno a mantenere le promesse di crescita o risparmio, o se emergeranno ostacoli che impediranno o rallenteranno la crescita del settore e la diffusione dell’IA, gli investitori potrebbero assistere a una correzione con rischi di ribasso continui.

Se il passato è un prologo, allora l’ascesa di questa nuova ricchezza delle nazioni e la sua importanza per il futuro del progresso, della crescita e della concorrenza continueranno. Il capitale non sostituirà la diplomazia o il potere militare in nessun sistema politico. Tuttavia, ogni giorno gli investimenti statali influenzano l’economia globale e modificano gli equilibri di potere. In un momento in cui il modo in cui i paesi investono definisce il loro modo di competere, il capitale strumentale potrebbe rivelarsi decisivo.

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Jared Cohen è presidente degli affari globali presso Goldman Sachs e co-direttore del Goldman Sachs Global Institute.

George Lee è co-direttore del Goldman Sachs Global Institute.

Quanto è resiliente il BRICS nella tempesta geopolitica? – Parte 1 e 2_di Peter Hanseler

Quanto è resiliente il BRICS nella tempesta geopolitica? – Parte 1

Il BRICS è una forza potente i cui membri, partner e candidati stanno attualmente affrontando sfide significative. Riflessioni sulla resilienza di questa alleanza basate su fatti e analisi.

Peter Hanseler

Sabato 22 novembre 2025516515

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Introduzione

Il BRICS è un’organizzazione che ha il potenziale per spostare l’intero equilibrio economico e geopolitico del mondo a favore del Sud del mondo; inoltre, è giusto dire che ciò è già avvenuto. Questa organizzazione è un argomento chiave del nostro blog. Il nostro primissimo articolo, “L’ascesa inarrestabile dell’Oriente” del 18 novembre 2022, era dedicato al BRICS. I lettori che basano la loro visione del mondo principalmente sui media occidentali sapranno poco o nulla di questa organizzazione, poiché l’Occidente si concentra sull’ignorare completamente il BRICS o sul riferirsi ad esso in modo condiscendente come un tentativo fallito o imbarazzante da parte di alcuni paesi in via di sviluppo di superare la loro insignificanza. Questo è il modo in cui l’Occidente collettivo comunica l’intera storia ai propri sudditi. La realtà, tuttavia, presenta un quadro completamente diverso.

In questa prima parte, raccoglieremo i dati relativi ai paesi BRICS ed evidenzieremo le principali tendenze.

Nella seconda parte spiegheremo perché riteniamo che si stiano effettivamente addensando nubi tempestose, poiché il BRICS, o meglio i suoi membri, partner e candidati, non possono svilupparsi in pace e tranquillità, come ha fatto la sua controparte nell’Occidente collettivo, il G7, fondato nel 1975, o la Banca mondiale, fondata nel 1944. La loro controparte è stata lanciata solo nel 2014 e si chiama New Development Bank, e deve tenere testa in tempi turbolenti.

Nella terza e ultima parte, cercheremo quindi di mostrare quale direzione potrebbe prendere questa organizzazione e cosa ci si può aspettare dal Collettivo Occidentale in termini di tentativi di impedirlo.

A che punto sono oggi i paesi BRICS?

Difficoltà nella raccolta di informazioni – “Nebbia di guerra”

È sempre stato difficile ottenere dati accurati sui membri, sui partner e sui candidati, il che è probabilmente uno dei motivi per cui siamo l’unico blog che conosciamo ad aver intrapreso questo enorme compito. Il nostro Denis Dobrin setaccia instancabilmente Internet per estrarre informazioni affidabili per noi da un miscuglio di pettegolezzi e voci.

Una “nebbia di guerra” ha avvolto le informazioni chiave su questa organizzazione.

Al momento, tuttavia, sembra che queste informazioni vengano volutamente mantenute ancora più vaghe rispetto al passato, dato che il sito web ufficiale dei BRICS è ancora più reticente nel fornire informazioni rispetto al passato. Questo è un chiaro segnale che molte delle parti che stanno valutando l’adesione stanno adottando una politica informativa molto cauta per paura della repressione e dell’aggressività americana. Si tratta di un fenomeno nuovo per un’alleanza economica dei nostri tempi. Chiamiamo le cose con il loro nome: una “nebbia di guerra” è scesa sulle informazioni chiave relative a questa organizzazione.

Per questo motivo, le seguenti informazioni devono essere intese come “miglior sforzo possibile“, ovvero confermiamo di aver compiuto ogni sforzo per ottenere informazioni corrette, ma non possiamo fornire alcuna garanzia.

Membri

Membri del G7 – rosa; membri dei BRICS – verde – Fonte: ForumGeopolitica

Il BRICS conta attualmente 10 membri a pieno titolo. L’Indonesia è stata ammessa come membro a pieno titolo il 6 gennaio 2025. L’Indonesia è poco conosciuta in Occidente. Questo enorme Paese (1.905.000 km²) è più di cinque volte più grande della Germania (357.022 km²) e la sua popolazione (285 milioni) supera quella della Germania (83 milioni) di un fattore 3,5.

Source: ForumGeopolitica

Partner

Membri del G7 – rosa; membri del BRICS – verde; partner del BRICS – giallo: Fonte: ForumGeopolitica

Lo status di partner è stato creato in occasione del vertice BRICS del 2024 a Kazan. Non si tratta di un’adesione di seconda classe. Il BRICS non copre solo l’economia, ma anche la cultura, l’istruzione, la ricerca, le relazioni tra i popoli e i diritti delle donne. Nel corso del 2024, quando la Russia ha ricoperto la presidenza, in Russia si sono tenute oltre 200 conferenze secondarie sul BRICS. Ciò rappresenta un enorme sforzo per creare un percorso comune a vari livelli tra popoli molto eterogenei. Lo status di partner può quindi essere descritto e inteso come un’anticamera alla piena adesione. I paesi con status di partner scambiano idee con i membri a pieno titolo nell’anticamera e si coordinano per poi raggiungere congiuntamente la piena adesione.

Presumo che i paesi che ottengono lo status di partner mantengano già relazioni economiche più strette e vantaggiose con i membri a pieno titolo durante questo status.

Quelle: ForumGeopolitica

Candidati

Membri del G7 – rosa; membri del BRICS – verde; partner del BRICS – giallo; candidati al BRICS – blu: Fonte: ForumGeopolitica

L’elenco dei candidati dovrebbe essere trattato con cautela a causa dell’argomento della nebbia di guerra. Si vocifera che ci siano numerosi altri paesi, non presenti nell’elenco, che non hanno voluto attirare l’attenzione per paura della repressione da parte dell’Occidente collettivo.

Source: ForumGeopolitica

Classificazione dei numeri

Dati demografici

Il Collettivo Occidentale rappresenta circa il 10% della popolazione mondiale e quindi ha più o meno controllato il resto del mondo per secoli, prima attraverso i portoghesi, poi gli spagnoli, gli olandesi, i francesi, gli inglesi e ora gli Stati Uniti.

La parte del mondo che chiamiamo Sud del mondo rappresenta circa il 90% della popolazione mondiale e non vuole più essere dominata dal 10%: questo è probabilmente uno dei motivi principali per cui il BRICS si sta sviluppando così rapidamente. In passato, il dominio dell’Occidente era possibile, per dirla in parole povere, perché il Sud del mondo non era in grado di difendersi militarmente, poiché mancava la coesione sociale, spesso a causa della mancanza di istruzione, e questa parte del mondo non osava ribellarsi a questi superuomini. Ora la situazione è completamente cambiata. Le università americane sono ancora in cima alle classifiche, ad esempio nelle classifiche universitarie, ma questo è dovuto principalmente al fatto che tali classifiche sono compilate in Occidente: la carta è paziente. Se la qualità dei risultati, ad esempio nel campo scientifico, fosse inclusa come criterio, le università del Sud del mondo (Cina, India, Russia) sarebbero probabilmente molto ben rappresentate nelle classifiche.

Prodotto nazionale lordo

Mostriamo il prodotto nazionale lordo corretto per la parità di potere d’acquisto. Utilizzare il dollaro statunitense come parametro di riferimento per il PIL distorce la forza economica di un paese: se si vuole misurare realisticamente il potere finanziario, è molto importante, ad esempio, se un Big Mac costa il doppio in dollari statunitensi in un luogo rispetto ad un altro. Il cosiddetto Big Mac Index è un motivo sufficiente per utilizzare dati adeguati al potere d’acquisto quando si confrontano i dati relativi al PIL. Il motivo per cui i media occidentali utilizzano dati non adeguati è puramente di natura commerciale, per nascondere la svalutazione del dollaro statunitense e farlo apparire più forte di quanto non sia in realtà.

Produzione petrolifera

Nel valutare i dati relativi alla produzione petrolifera, occorre tenere conto dei seguenti ulteriori fattori:

In primo luogo, sebbene gli Stati Uniti siano ancora il maggiore produttore mondiale di petrolio, con circa il 18% della produzione globale, sono anche il maggiore consumatore, con oltre il 20% del consumo mondiale. Ciò significa che attualmente gli Stati Uniti non sono nemmeno in grado di coprire il proprio consumo. Questa circostanza è di per sé un motivo sufficiente per spingere gli Stati Uniti a esercitare pressioni, ad esempio, sull’Arabia Saudita per impedirle di aderire al BRICS.

In secondo luogo, i principali membri produttori di petrolio dei BRICS esercitano una grande influenza, se non addirittura un controllo, sull’OPEC. Poiché i BRICS dominano anche l’OPEC e controllano quindi il prezzo e la distribuzione di gran parte del petrolio, si può parlare di una posizione di monopolio (indiretto) dei BRICS.

In terzo luogo, i costi di produzione del petrolio statunitense sono parecchie volte più alti rispetto a quelli dei paesi BRICS.

Questi fattori rafforzano ulteriormente la posizione di potere dei paesi BRICS in relazione al petrolio.

Gas naturale

Per quanto riguarda il gas naturale, va notato che con l’adesione dell’Iran al BRICS, i due maggiori produttori mondiali di gas naturale sono entrambi membri del BRICS: la Russia e l’Iran.

Il più grande produttore di gas non appartenente al BRICS è il Qatar, che è (ancora) alleato degli Stati Uniti. Il BRICS è quindi anche un vero e proprio centro di potere in termini di gas naturale.

Oro

In passato, siamo stati più volte oggetto di scherno per aver incluso la produzione di oro nella tabella delle materie prime importanti. Oggi, tuttavia, è chiaro che l’oro, così come l’argento, non solo saranno importanti nel contesto instabile dei mercati finanziari e delle valute legali, ma saranno anche strategicamente indispensabili per la sopravvivenza di tutte le economie.

Ulteriori dati

Un ringraziamento speciale a Simon Hunt

Mentre scrivevo questo articolo, mi sono consultato con il mio caro amico Simon Hunt e gli ho chiesto ulteriori dati, per i quali lo ringrazio sentitamente.

Dinamiche dello sviluppo futuro del PIL

Il PIL dei paesi BRICS dovrebbe crescere in media del 3,8% quest’anno e di un ulteriore 3,7% entro il 2026 (Banca Mondiale).

Per quanto riguarda i problemi fondamentali relativi all’affidabilità del PIL come misura della creazione di valore, rimando all’eccellente articolo di Tony Deden intitolato “The Illusion of Progress” (L’illusione del progresso).

Al contrario, il PIL reale dei paesi del G7 dovrebbe crescere dell’1,0% quest’anno e dell’1,2% entro il 2026 (Banca mondiale).

Se ipotizziamo che il PIL reale dei paesi BRICS crescerà in media del 3,5% fino al 2032 e quello dei paesi del G7 del 2% all’anno, giungiamo alla seguente conclusione.

2025BRICS100,00G7100,00
2026103,50102,00
2027107,12104,04
2028110,87106,12
2029114,75108,24
2030118,77110,41
2031122,93112,62
2032127,23114,87

Ciò comporterebbe un aumento del 27% del PIL dei paesi BRICS e solo del 14% di quello del G7. Tuttavia, questo esercizio numerico ha solo lo scopo di illustrare il maggiore dinamismo dei paesi BRICS, poiché tale estrapolazione della crescita economica presuppone che la composizione dei paesi BRICS rimanga invariata fino al 2032 e che le dinamiche generali dello sviluppo economico non cambino, cosa che ritengo altamente improbabile.

Questa opinione è confermata da Bloomberg:

Altre materie prime e produzione industriale

Secondo la ricerca di Simon Hunt, la quota delle materie prime globali, oltre a quelle elencate nelle nostre tabelle, è davvero notevole. Ad esempio:

  • Il 70% della produzione mondiale di carbone
  • Il 72% delle riserve mondiali di minerali rari (compresa la lavorazione)
  • 42% della produzione mondiale di grano
  • Il 52% della produzione mondiale di riso
  • Il 43% della produzione mondiale di mais

Hunt stima che i paesi BRICS rappresentino attualmente il 38% della produzione industriale totale.

Dati finanziari dei paesi BRICS

Nuova Banca di Sviluppo – “Banca BRICS”

Ha sede a Pudong, in Cina. L’attuale presidente è Dilma Rousseff, ex presidente del Brasile, che è abilmente supportata da quattro vicepresidenti e circa 300 dipendenti.

La banca ha un capitale iniziale autorizzato di 100 miliardi di dollari USA, di cui 10 miliardi sono versati in parti uguali dai cinque membri fondatori. Il capitale richiamabile ammonta a 40 miliardi di dollari USA, che i membri devono fornire quando necessario per far fronte agli obblighi finanziari.

Gli Emirati Arabi Uniti hanno aderito alla banca nel 2021.

È stata istituita una struttura operativa e amministrativa formale. L’amministrazione opera in modo molto conservativo. Ad esempio:

  • Il coefficiente patrimoniale minimo è fissato al 25%, ma alla fine del 2024 era pari al 37%.
  • Il coefficiente minimo di liquidità è pari al 100%, ma alla fine del 2024 era pari al 149%.
  • L’utilizzo massimo del capitale è pari al 90%, ma alla fine dello scorso anno era pari al 16%.

La banca è stata recentemente autorizzata a rimborsare i prestiti in valuta locale. L’obiettivo finale è che la banca BRICS diventi la principale fonte di credito per i paesi membri, sostituendo così la Banca Mondiale e il FMI. Questa nuova politica è coerente con lo sviluppo del commercio e degli investimenti all’interno della comunità BRICS, che sarà condotto in valuta locale e, in ultima analisi, quando sarà finalmente strutturato nella nuova valuta BRICS, sostenuto dall’oro.

Ciò avverrà probabilmente attraverso la Shanghai Gold Exchange (SGE), che sta costruendo caveau per l’oro nei paesi membri. Una nuova struttura per l’oro è stata creata a Hong Kong e la SGE sta completando un caveau per l’oro in Arabia Saudita. L’Arabia Saudita ha un surplus commerciale di circa 20 miliardi di dollari con la Cina. Attualmente, le vendite di petrolio alla Cina vengono pagate in yuan, che l’Arabia Saudita può attualmente scambiare con oro a Shanghai, se lo desidera. In futuro, lo scambio avverrà presso la SGE in Arabia Saudita. Pertanto, l’oro è il valore intermedio, non il dollaro. Questo è il piano per tutti i membri e i partner del BRICS.

L’espansione del sistema cinese di pagamenti internazionali transfrontalieri (CIPS) è legata allo sviluppo del sistema monetario BRICS. Attualmente, 189 paesi partecipano al sistema. Secondo la PBOC, nella prima metà del 2025 sono state elaborate oltre 4 milioni di transazioni per un valore di 12,7 trilioni di dollari USA, molte delle quali sono state effettuate all’interno dei paesi BRICS.

La tendenza ad abbandonare il dollaro statunitense a favore del renminbi

L’uso del dollaro statunitense come arma sta portando sempre più spesso a un declino dell’uso del dollaro statunitense come valuta di riserva.

Gli Stati Uniti hanno utilizzato il dollaro americano come arma per decenni, escludendo paesi, aziende e individui dal commercio in dollari americani se, a loro esclusivo giudizio, non agivano in conformità con gli interessi statunitensi. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata sicuramente il congelamento e il successivo furto delle riserve valutarie della Russia. I membri del BRICS hanno ora capito che gli Stati Uniti possono devastare qualsiasi paese con un semplice tratto di penna, dimostrando che detenere dollari statunitensi è un’impresa rischiosa e pericolosa nell’attuale situazione geopolitica.

La risposta dei paesi del Sud del mondo, non solo dei BRICS, è stata immediata, come mostra il grafico seguente di Bloomberg:

Fonte: Bloomberg

A ciò si aggiunge il continuo deprezzamento del dollaro statunitense. Nel 1971 un’oncia d’oro costava 35 dollari; oggi il prezzo è di 4100 dollari. Il dollaro statunitense ha quindi perso il 99% del suo valore rispetto all’oro.

La Russia è stata inizialmente la precursora, passando dal dollaro statunitense al renminbi a causa delle sanzioni.

Fonte: Istituto tedesco per gli affari internazionali e la sicurezza

Diversi paesi africani hanno quindi iniziato a convertire il proprio debito denominato in dollari statunitensi in yuan cinesi. Il Kenya ha completato la conversione di tre prestiti cinesi per un valore di circa 3,5 miliardi di dollari. L’Etiopia sta attualmente negoziando con Pechino per convertire almeno una parte del proprio debito cinese, pari a 5,38 miliardi di dollari, in prestiti denominati in yuan. Secondo Chinascope, altri paesi seguiranno l’esempio.

Secondo FinanceAsia, la Banca di Sviluppo del Kazakistan ha emesso il suo primo titolo obbligazionario offshore in renminbi. CICC (China International Capital Corporation) ha agito in qualità di coordinatore globale per l’emissione di un titolo obbligazionario dim sum del valore di 2 miliardi di renminbi con un rendimento del 3,35%: da notare il basso tasso di interesse.

Energia

Tra le nostre risorse strategiche dobbiamo includere anche la capacità di fornire grandi quantità di energia elettrica. Ciò non significa solo la capacità di fornire elettricità all’industria e alla popolazione. Ci riferiamo piuttosto alla capacità di un’economia di fornire quantità significative di energia elettrica al di là del quadro industriale “convenzionale”, ad esempio per i centri dati di ogni tipo, in particolare per l’intelligenza artificiale.

Anche in questo caso, l’Occidente nel suo complesso si trova in una posizione molto scomoda rispetto alla Cina.

Chiudendo e smantellando le sue solide centrali nucleari e passando all’energia solare con un fervore quasi religioso, la Germania si è messa in una posizione insostenibile per un paese industrializzato. Il grafico seguente lo illustra sulla base dei volumi di importazione ed esportazione per l’anno 2025 fino ad oggi:

Fonte: Grafici energetici

Con questa struttura energetica, la Germania, attualmente la più grande economia dell’UE, non sarà in grado di partecipare al mercato dei dati, che sarà decisivo per il futuro. Questo perché un centro di intelligenza artificiale con i suoi data center richiede enormi quantità di elettricità che devono essere disponibili in ogni momento. Tuttavia, con il suo gigantesco errore di calcolo nel settore energetico, la Germania sta trascinando con sé l’intera Europa. E questo senza nemmeno considerare il bizzarro attaccamento dell’UE all’Ucraina, che sembra garantire un ulteriore declino piuttosto che prosperità.

Ma anche gli Stati Uniti hanno problemi evidenti, come dimostra una recente analisi di stock3.com. Facendo riferimento a Goldman Sachs, afferma:

“Otto dei 13 mercati regionali dell’energia elettrica degli Stati Uniti stanno già operando a livelli di riserva critici o inferiori. La capacità di riserva effettiva nella produzione di energia elettrica è crollata dal 26% di cinque anni fa al 19% di oggi, avvicinandosi alla soglia di emergenza del settore fissata al 15%.”

Il documento prosegue affermando: “I data center consumano già il 6% del fabbisogno totale di energia elettrica degli Stati Uniti. Entro il 2030, questa percentuale dovrebbe salire all’11%, il che potrebbe portare le reti elettriche sull’orlo del collasso”.

La Cina, invece, sta raccogliendo i frutti di un approccio strategico ben ponderato in questo settore cruciale:

“La Cina, d’altra parte, sta perseguendo un’offensiva energetica di proporzioni storiche. Entro il 2030, il Regno di Mezzo disporrà di riserve elettriche effettive pari a circa 400 GW, più del triplo della domanda globale prevista per i data center, che si aggira intorno ai 120 GW. Pechino sta diversificando in modo aggressivo il proprio mix energetico e ampliando la capacità a un ritmo vertiginoso”.

Va inoltre ricordato che l’offensiva energetica è accompagnata da un’offensiva altrettanto ben congegnata nello sviluppo e nella produzione dei semiconduttori di ultima generazione.

Risultato provvisorio

Le cifre nude e crude sono certamente impressionanti e, in circostanze normali e pacifiche, la corsa tra il Sud del mondo e l’Occidente collettivo sarebbe probabilmente già finita. Ci sono due attori principali: da un lato, i BRICS come organizzazione i cui pesi massimi, Cina, Russia e India, dettano non tanto la direzione del viaggio quanto il ritmo. Dall’altro lato, la Cina sta sfidando gli Stati Uniti in termini di valuta di riserva, una tendenza che non può più essere ignorata. Tuttavia, va chiarito che questo sarà solo il preludio a un’inversione di tendenza completa, poiché il Sud del mondo multipolare non punta al renminbi come valuta di riserva come obiettivo finale, ma in ultima analisi all’uso multipolare di molte valute con un sistema di regolamento che probabilmente sarà basato sull’oro. Si veda il nostro articolo del febbraio 2025: “Come il BRICS potrebbe superare la sua sfida più grande: il regolamento dei pagamenti“.

Nella seconda parte, che seguirà nei prossimi giorni, spiegheremo perché descriviamo l’attuale situazione geopolitica come una tempesta che sta influenzando lo sviluppo ordinato dei paesi BRICS.Tag dell’articolo:

Quanto è resiliente il BRICS nella tempesta geopolitica? – Parte 2

Il BRICS è un enorme fattore di potere i cui membri, partner e candidati sono attualmente messi alla prova. Oggi riflettiamo sul termine “tempesta”.

Peter Hanseler

Domenica, 30 novembre 202514635

Introduzione

Nella prima parte di questa serie abbiamo esaminato i dati relativi ai paesi BRICS e le principali tendenze economiche attualmente in atto.

La seconda parte di oggi si concentra sul contesto in cui il BRICS deve svilupparsi come organizzazione più importante del Sud del mondo. Valutiamo le circostanze generali della guerra, il grave pericolo che rappresenterebbe una guerra nucleare e l’imprevedibilità della situazione geopolitica, che ci porta a descrivere la situazione attuale come una “tempesta”.

Nella terza e ultima parte, cercheremo quindi di mostrare quale potrebbe essere la direzione intrapresa da questa organizzazione e cosa ci si può aspettare dal Collettivo Occidentale in termini di tentativi di impedirlo.

Tempesta

La terza guerra mondiale è già iniziata?

Il modo in cui viene caratterizzata e descritta l’attuale situazione geopolitica dipende dal punto di vista dell’osservatore. È corretto affermare che, da un punto di vista puramente militare, la terza guerra mondiale è già in pieno svolgimento. Lo abbiamo già affermato nel febbraio 2023 nel nostro articolo “Sonambuli al lavoro: la terza guerra mondiale è probabilmente già iniziata“. La situazione relativa al coinvolgimento occidentale è diventata ancora più evidente dopo la pubblicazione dell’articolo. Il coinvolgimento diretto, come la fornitura di informazioni sugli obiettivi all’esercito ucraino con l’aiuto di personale sul campo, non è più oggetto di serie controversie. Pertanto, la questione se la terza guerra mondiale sia già iniziata dal punto di vista militare ha trovato una risposta, anche se i russi non lo dichiarano apertamente per motivi di de-escalation.

Ci sono altri argomenti che potrebbero essere utilizzati per giustificare l’inizio della terza guerra mondiale. Innanzitutto, vi è la diffusione geografica di attacchi di ogni tipo. In secondo luogo, la natura della guerra è cambiata completamente. La guerra può essere condotta non solo cineticamente, ma anche a livello economico o come guerra cibernetica.

Guerra cibernetica: non se ne sente parlare molto

Gli attacchi informatici transfrontalieri sono all’ordine del giorno e colpiscono tutti i principali attori coinvolti in questo conflitto. Inoltre, dal 2014 il mondo occidentale sta conducendo una guerra economica contro la Russia imponendo una serie di sanzioni senza precedenti nella storia, che si sono intensificate dal febbraio 2022. Gli Stati Uniti hanno anche sanzionato molti altri paesi, come il Venezuela dal 2015 e, in precedenza, Cuba e l’Iran. Le sanzioni in Venezuela sono dirette contro aziende, individui, il governo e i suoi membri, con sanzioni secondarie contro controparti in tutto il mondo e contro il pubblico in generale attraverso restrizioni all’ingresso. Le sanzioni economiche hanno già portato a una perdita di peso nella popolazione a causa della fame per anni (2018: 11 kg). Pertanto, la guerra mondiale può essere ben giustificata anche con questi argomenti, sebbene nuovi.

All’inizio del 2025 ho pubblicato la serie “La guerra tra due mondi è già iniziata” (Parte 1Parte 2Parte 3;  Parte 4Parte 5) e ho sostenuto che ci aspettano decenni di conflitti militari tra l’Occidente collettivo e il Sud del mondo, ma non direttamente – secondo la mia valutazione – piuttosto sotto forma di guerre per procura in luoghi di importanza strategica per entrambi i mondi, come i paesi con grandi riserve di materie prime o il controllo su importanti rotte commerciali. Certo, questa tesi si basa anche sulla speranza che non si verifichi un conflitto diretto tra Stati Uniti, Cina e Russia, poiché il rischio di uno scontro nucleare sarebbe allora terribilmente alto. Per questo motivo, presentiamo il punto di vista del mio amico e collega Scott Ritter, che ritiene che il rischio di uno scontro nucleare diretto tra Stati Uniti e Russia sia molto più elevato di quanto pensassi all’inizio di quest’anno.

Il pericolo di un Armageddon nucleare

Due settimane fa sono stato invitato alla presentazione dell’ultimo libro di Scott Ritter, “Highway to Hell”, a Mosca. La versione russa si intitola “Дорога в Ад”.

Scott Ritter a Mosca il 9 novembre 2025, alla presentazione del suo libro.

Conosco bene Scott Ritter personalmente e nutro il massimo rispetto per lui come persona, amico e analista geopolitico. Con la sua rinfrescante modestia, si presenta sempre come un marine semplice e non intellettuale, ma questo si rivela essere solo un modo di fare quando parla liberamente per oltre un’ora davanti a un pubblico critico e poi passa un’altra ora a rispondere a domande a volte scomode; allora si assiste alla sua invidiabile acutezza intellettuale e alla sua conoscenza incredibilmente ampia e profonda. La tesi di Scott Ritter è davvero spaventosa e si basa su diverse linee di ragionamento. Ad esempio, sul fatto che i trattati di disarmo sono stati rescisso dagli Stati Uniti, scadranno presto e, se non rinnovati, moltiplicheranno il rischio di uno scontro nucleare, nonché su alcune dichiarazioni isolate – ad esempio di David Lasseter – secondo cui una guerra nucleare può essere vinta. Pensieri simili sono stati espressi pochi giorni fa dal noto geopolitico russo Sergei Karaganov in un’intervista a Mosca. Va notato che egli non rappresenta l’opinione del Cremlino.

Queste dichiarazioni isolate e pericolose contraddicono chiaramente la dichiarazione congiunta dei capi di Stato e di governo dei cinque Stati dotati di armi nucleari sulla prevenzione della guerra nucleare e sull’evitare una corsa agli armamenti, datata 3 gennaio 2022, in cui Cina, Stati Uniti, Francia, Russia e Regno Unito hanno affermato chiaramente:

«Affermiamo che una guerra nucleare non può essere vinta e non deve mai essere combattuta»
Dichiarazione congiunta dei leader dei cinque Stati dotati di armi nucleari sulla prevenzione della guerra nucleare e sull’evitare la corsa agli armamenti

Le dichiarazioni di Ritter sono credibili, purtroppo realistiche ed estremamente inquietanti: egli invita la Russia e gli Stati Uniti ad avviare negoziati incondizionati e immediati, e noi non possiamo che essere d’accordo con lui. Inoltre, vorrei rimandare i nostri lettori al primo articolo di Scott pubblicato su questo sito, intitolato “Il fattore Oreshnik“, in cui si discute della necessità del controllo degli armamenti.

Le folli dichiarazioni secondo cui sarebbe possibile utilizzare armi nucleari tattiche e comunque evitare l’Armageddon devono essere condannate con la massima fermezza. Sembra quasi che il timore incondizionato della guerra nucleare, che dal 1945 ha protetto l’umanità dal conflitto atomico, stia svanendo. Supponendo che l’80% della popolazione mondiale morirebbe immediatamente o a seguito di una guerra nucleare su vasta scala, nessuno vorrebbe trovarsi tra il restante 20% che languirebbe nell’inevitabile inverno nucleare apocalittico che ne seguirebbe. Consiglio a chiunque ritenga che le conseguenze di una guerra nucleare siano in qualche modo accettabili di guardare il film catastrofico del 1983 “The Day After”.

Nonostante tutti questi pensieri apocalittici che vengono in mente dopo un intenso scambio con Scott Ritter, credo – forse spinto da un ingenuo ottimismo – che saremo in grado di prevenire questa grave catastrofe, anche grazie al lavoro instancabile di Scott Ritter nel rivelare questa questione esistenziale ai decisori politici e nel sensibilizzare l’opinione pubblica al riguardo.

La tempesta come descrizione del presente

Ciononostante, la situazione è estremamente pericolosa e, anche se si riuscisse a evitare una guerra nucleare, c’è motivo di temere che milioni di persone moriranno nella tempesta che già infuria.

In questo contesto uso deliberatamente il termine «tempesta». Quando sento la parola tempesta, non penso solo a venti forti, ma a sistemi di vento che possono causare un cambiamento di direzione del vento di 360 gradi in pochi secondi – sì, 360 gradi è corretto questa volta. Questa visione si basa sui ricordi d’infanzia del Lago Maggiore, un lago circondato da montagne, una piccola parte del quale si trova nella Svizzera italofona e la maggior parte in Italia, e le cui tempeste sono caratterizzate dal fatto che le correnti discendenti causano questo fenomeno di cambiamento immediato dei venti.

Storm on Lake Maggiore – Image: Il Giornale del Ticino

Quindi, quando sento la parola “tempesta”, mi ricordo come la direzione del vento possa cambiare completamente in pochi secondi. Se pensi che in una guerra la situazione possa cambiare da un momento all’altro, allora in una tempesta è ancora più imprevedibile, specialmente in tempeste come quelle che ho vissuto.

Il comportamento del presidente Trump, ad esempio, fa girare ogni banderuola attorno al proprio asse; ancora oggi non so se Trump stia perseguendo una strategia che non capisco o se sia così sopraffatto intellettualmente da aver perso ogni senso dell’orientamento. Più osservo questo spettacolo – o meglio, questa tragicommedia – più tendo a sospettare che sia vera la seconda ipotesi. Non c’è modo di sapere se il nuovo piano in 28 punti avrà successo; ciò che si può dire con certezza è che gli europei faranno tutto il possibile per impedire il raggiungimento della pace. La domanda è quindi se Trump riuscirà a prevalere sugli europei. In tal caso, proteggerebbe – intenzionalmente o meno – anche gli interessi della Russia. L’opinione di Zelensky è del tutto irrilevante al riguardo. Da quale parte si schiererà Trump alla fine è prevedibile quanto il risultato di un lancio di moneta.

In relazione agli alti e bassi dell’imprevedibile politica di Trump, dobbiamo spendere qualche parola sulla diplomazia russa, soprattutto dopo la pubblicazione del piano americano in 28 punti. Al momento, sembra che – per dirla senza mezzi termini – gli Stati Uniti stiano letteralmente “slittando” con Zelensky e la leadership dell’UE. Non illudiamoci: il successo di Trump dipende anche dalla flessibilità della diplomazia russa. Nel periodo precedente ad Anchorage, gli Stati Uniti avevano apparentemente chiesto “flessibilità” alla leadership russa per poter superare in astuzia l’asse Ucraina-Europa. E la Russia ha acconsentito. La dichiarazione di Putin secondo cui il piano americano in 28 punti corrisponde al “quadro discusso ad Anchorage” ha probabilmente suscitato grande scalpore in tutto il mondo.

Tuttavia, non lasciamoci ingannare: questa alleanza di convenienza tra Stati Uniti e Russia è vantaggiosa per entrambe le parti solo se entrambe le parti “mantengono le promesse”.

Nonostante tutte le concessioni diplomatiche, tuttavia, non dovremmo illuderci: anche se le condizioni fondamentali della Russia per la pace non sono incluse nel piano di Trump, Putin lo firmerà solo se tali condizioni saranno soddisfatte. E i paesi BRICS sosterranno pienamente Putin in questo.

Negli ultimi giorni, anche lo scandalo Epstein sembra aver preso uno slancio che lascia senza parole. George Galloway, l’eloquente commentatore britannico, ha pubblicato il suo monologo intitolato “Trump non sopravviverà” domenica 18 novembre 2025.

Le ipotesi avanzate in questo monologo sulla vulnerabilità di Trump e della sua amministrazione al ricatto sono terribili, indicative di una possibile perdita di controllo da parte dell’amministrazione Trump sulla narrazione di questo scandalo, che non potrebbe essere più sgradevole. Ciò, a sua volta, garantisce il perpetuarsi dello scandalo, perché più uno scandalo è sgradevole, più a lungo rimane vivo.

Immaginate – e questo ora sembra uno scenario realistico – che il presidente Trump debba dimettersi in mezzo a questo caos totale, di cui è in parte responsabile. Ciò ribalterebbe ogni previsione geopolitica che era considerata certa o almeno convincente. …e porterebbe J. D. Vance alla Casa Bianca.

Per orientarsi in una tempesta, è necessaria anche una bussola. Il mondo occidentale ha perso la sua bussola morale al più tardi nell’ottobre 2023 e da allora non l’ha più ritrovata. Da studioso diligente dell’Olocausto da tutta la vita, non riesco a trovare nemmeno un accenno di giustificazione o comprensione per il genocidio che sta avvenendo non solo a Gaza ma anche in Cisgiordania. Ho espresso in dettaglio le mie opinioni su questo argomento sgradevole, che non dovrebbe nemmeno esistere, nel mio articolo “Il genocidio come ‘autodifesa’ – I media occidentali complici del genocidio a Gaza – Noi ci ribelliamo!“. Se gli Stati Uniti non si limitassero a sventolare la loro morale come uno stendardo in una processione, ma fossero all’altezza delle loro nobili parole, questo genocidio non sarebbe possibile. Lascio deliberatamente l’Europa fuori da questa discussione. L’Europa ha smesso da tempo di esistere moralmente e, se esiste, è solo come appendice degli Stati Uniti; purtroppo, questo include anche il mio paese natale, la Svizzera. Il “cessate il fuoco” concluso poche settimane fa non è un cessate il fuoco: le uccisioni continuano. Questo accordo diabolico serve solo come foglia di fico. Per chi? Per i media occidentali, che promuovono il genocidio, al fine di nascondere il genocidio deliberatamente e consapevolmente messo in scena dai sionisti e orchestrato materialmente e politicamente dall’Occidente.

Il mondo si trova quindi in una situazione di grande instabilità. L’umanità è sballottata dalle onde come un guscio di noce, con un’intensità mai vista prima. Ciò è dovuto anche al fatto che l’equilibrio di potere è distribuito su molti più poli rispetto al passato, come conseguenza dello sviluppo di un mondo multipolare.

“Probabilmente non c’è mai stata una metafora più vivida di ‘Davide contro Golia’ nella storia militare.”

Durante l’ultima guerra mondiale, il potere, e quindi il potere distruttivo, era concentrato in pochi paesi. Oggi, il numero di paesi che esercitano il potere è molto maggiore. Le ragioni sono numerose: la natura della capacità di conflitto è più diversificata, poiché la capacità di conflitto militare ora include droni economici e missili guidati, che aiutano un avversario piccolo e precedentemente inferiore a infliggere danni asimmetrici a un avversario molto più grande e ricco. Gli Houthi, ad esempio, sono stati combattuti dall’Arabia Saudita, dagli Stati Uniti, dal Regno Unito, da Israele e dalla Francia per oltre 10 anni e hanno ancora il sopravvento. Si stima che 350.000 Houthi, di cui solo circa 20.000 sono truppe da combattimento, siano in grado di tenere a bada cinque delle più grandi potenze militari del Mar Rosso. Probabilmente non c’è mai stata una metafora più vivida di “Davide contro Golia” nella storia militare: un vero e proprio disastro per il prestigio delle forze armate americane ed europee.

Va menzionata anche la guerra cibernetica, i cui risultati dipendono dall’intelligenza e dalla creatività piuttosto che dal prodotto nazionale lordo. Questi due esempi, combinati con il numero più elevato di partecipanti, fanno aumentare in modo esponenziale il numero di possibili esiti di questo conflitto.

Risultato provvisorio

Il mondo sta attraversando un periodo davvero turbolento. Queste non sono certamente condizioni favorevoli per uno sviluppo positivo della comunità BRICS. Si potrebbe sostenere che ciò sia ingiusto nei confronti del Sud del mondo, citando i decenni relativamente pacifici del dopoguerra durante i quali le strutture di potere dell’Occidente collettivo hanno potuto svilupparsi.

Ma coloro che sono “nati dalla tempesta” sono intrinsecamente più forti.

Tuttavia, i concetti di equità non dovrebbero essere utilizzati come argomenti nella geopolitica, perché nonostante foglie di fico come “diritti umani” e “diritto internazionale”, alla fine è la parte più forte che prevale: questo è tutto ciò che conta. La Germania nazista non ha perso la seconda guerra mondiale perché lo richiedeva l’equità, ma perché è stata sconfitta militarmente. Questa volta non sarà diverso.

In questo capitolo intermedio abbiamo stabilito che la situazione geopolitica mondiale non potrebbe essere più confusa e che il termine “tempesta” descrive bene la situazione. Ma coloro che sono “nati dalla tempesta” sono intrinsecamente più forti.

Nella terza parte descriveremo i punti critici che emergono dagli elenchi dei membri, dei partner e dei candidati del BRICS+.

Il colle, il dragone e Sora Giorgia_di Ernesto

Il colle, il dragone e Sora Giorgia.

C’è un colle in Italia con uno scranno su cui si accomoda un tizio che dovrebbe rappresentare l’unità nazionale ed essere interprete della Carta Costituzionale nella sua evoluzione applicativa: non ci si vuole dilungare nella spiegazione della differenza tra costituzione materiale e costituzione formale. Basti in questa sede sottolineare che, le maggioranze parlamentari, la politica, hanno il compito di interpretare ed applicare la carta costituzionale ed a quel signore sul colle, spetta solo il compito di prenderne atto sorvegliando solo che la stessa non venga palesemente violata.

Insomma, in linea teorica, costui dovrebbe prendere atto della volontà popolare che esprime una maggioranza che ha un determinato programma ed è delegata dal popolo ad applicarlo.

Accade invece che questo personaggio, anche un po lugubre nella postura e nell’espressione, non perda occasione per rappresentare non già l’unità nazionale e gli interessi di questa ma, bensì, gli interessi di organismi sovranazionali a cui, a detta sua, dovremmo affidarci come un messia salvifico.

Non solo.

Egli si circonda di funzionari da Lui scelti e da noi pagati, che tramano per far cadere il governo eletto dal popolo e sostituirlo, senza passare per nuove elezioni, con uno diverso più congeniale ai desiderata di quegli organismi sovranazionali che tanto bene vogliono fare per questa povera Italia che, invece, asina quale è, si ostina a fare resistenza.

In particolare, questo disgraziato paese, ha un governicchio, eletto da un numero miserrimo di elettori che ancora credono che votare serva a qualcosa ma non completamente e del tutto supino a questi organismi sovranazionali.

Non che si opponga ma, sottotraccia e con mezze misure, fa un minimo di resistenza: si grida alle armi ed il governicchio non dice no ma fa poi dei distinguo sulle truppe, sui limiti e sull’opportunità.

Insomma, di mandare le truppe in guerra il governicchio dice che non se ne parla.

Ed allora, nel mentre dal Colle pubblicamente si incita alla adesione senza se e senza ma agli obiettivi di questi organismi, in uno di questi un Ammiraglio che colà, anch’egli, dovrebbe rappresentare gli interessi Italiani e la politica del governicchio, senza consultarsi con alcuno ciancia di attacchi preventivi ad un paese straniero con cui, formalmente, non abbiamo alcuna controversia neppure diplomatica.

Insomma questo Dragone si uniforma all’invito alle armi.

Tutti attendono con ansia una presa di posizione e guardano alla Garbatella da cui si spera, giungano segni di vita: ma niente nel Rione tutto tace.

A parte un malcelato imbarazzo e commenti di ministri vari con opposte valutazioni, Sora Giorgia, non prende una posizione.

Certo, “il bel tacer non fu mai scritto” ma che dire dell’idea della Signora in questione di varare una riforma costituzionale che prevedesse il ritorno alle urne in caso di caduta del governo prima della sua naturale scadenza?

Questa si, una misura che scongiurerebbe trame più o meno occulte per nuove maggioranze posticcie ed eterodirette.

Con buona pace di Colli e Dragoni.

Ma pare che, dopo una durissima lotta per una ennesima “non riforma” della giustizia, non ci sia spazio per altro.

Si tira a campare, come in Borgata.

Peccato che l’orizzonte non sia solo quello della Garbatella ma di un paese intero.

Carlo Galli, Tecnica_recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Carlo Galli, Tecnica, Il Mulino, Bologna 2025, pp. 170, € 16,00.

Quali contemporanei ci confrontiamo quotidianamente con la tecnica – e ancor più col progresso tecnico – che ci cambia la vita sotto ogni aspetto. Dalla comunicazione alla salute, dalle abitudini al lavoro e al tempo libero.

Questo saggio ne cura in particolare uno, quello decisivo, il rapporto tra tecnica e potere e come quella condizionasse questo, agevolandone l’opera o sovvertendolo.

Partendo dalla sua ineluttabilità. Scrive l’autore che non vi è cura per la tecnica, perché fa parte del modo di esistenza umano, è un fare produttivo: “la tecnica costituisce l’essere umano e la stessa storia della specie umana, ma è anche capace di minacciare l’umanità”. Ciò perché è “neutra” nel senso che non determina i fini, ma è un mezzo: può servire a fare antibiotici come la bomba atomica: “La tecnica è indispensabile ma non è neutra, non può esserlo – e quindi non è possibile una tecnocrazia: il kratos non è della tecnica ma di chi la produce e la impiega. La tecnica è sempre trascinata all’interno di polarità e conflitti, storici ed intellettuali: fra politica e burocrazia, fra azione e fabbricazione, fra tradizione e progresso”.

Per orientarsi sul tema Galli propone due coordinate essenziali: la prima che la tecnica va pensata come azione orientata all’utilità, cioè al profitto e alla potenza; “La seconda è che il pensiero si forma attraverso il fare, che esige la relazione col pensato, ma al tempo stesso il pensiero trascende il pensato se non altro perché è capace di pensare sé stesso e la propria origine. Il pensiero non è disincarnato ma anzi è «concreto»”.

La connessone con la politica e l’economia fa si che ci sia sempre una politica (e una geopolitica) della tecnica. Perché nella tecnica “non c’è solo l’elemento strumentale: vi sono compresi anche il Saper fare, il Voler fare, il Poter fare. Ovvero, nella tecnica sono presenti fattori epistemologici, economici, politici”. La coessenzialità di tecnica e natura umana è nel costruire ma anche nel criticare, nel co-determinare le azioni umane; implica che la “tecnica è necessaria alla definizione dell’umanità, ma non è sufficiente. La ragione tecnica è un universale parziale, ovvero non è tutta la ragione: c’è un’eccedenza, ed è il pensiero che pensa quella ragione”.

Un pensiero interessato, ma non solo strumentale che ri-orienta l’azione. A questo è dedicato il terzo capitolo in cui Galli mostra “i molti modi con cui la filosofia ha messo in rapporto la tecnica, il sapere e l’agire, la realtà naturale e l’artificio, e con cui ha reagito alla moderna esondazione della tecnica, estesa a ogni ambito della società e delle mentalità”; con soluzioni che vanno “dal massimo di estraneità fra teoria e fabbricazione, quindi, fino al massimo di immanenza”. Il libro conclude con due tesi. La prima è che il dominio che si realizza “non è della sola tecnica come strumentale fabbricazione: è dominio di una forma concreta, storica, di combinazione fra sapere pratico, politica, economia, comunicazione. Quando ci accorgiamo di servire la tecnica e il suo nichilismo, o i suoi simulacri, possiamo quindi capire che stiamo servendo il profitto o la potenza di qualcuno: non è l’impersonale ma persone”.

La seconda, collegata alla prima è che così esiste “lo spazio della critica e la possibilità dell’agire politico, che vada al di là di quel fabbricare che ci sta fabbricando”. E Galli prosegue: “Quelle due tesi, combinate, sono insomma un invito alla «critica della tecnica»… Una critica realistica (un «realismo critico») che esige capacità di vedere le contraddizioni tra universalità e parzialità, fra progresso e dominio… la cui esistenza e consistenza è il vero problema – non tanto dalla tecnica quanto dalle coazioni del sistema sociopolitico di cui questa è l’espressione storica concreta”.

Due notazioni del recensore a margine di un saggio esauriente e attuale.

La prima: a differenza delle concezioni tecnocratiche, non c’è soluzione tecnica valida a prescindere dai fini cui è indirizzata. Cioè buona, auspicabile, voluta (da chi i fini determinava). Il che significa che i presupposti del politico (comando/obbedienza; pubblico/privato; amico/nemico) rimangono immutati e pure se condizionati dalla tecnica, non se sono detronizzati.

La seconda che perciò non c’è una tecnocrazia quale forma politica (come monarchia, aristocrazia, democrazia); c’è una conformazione dell’organizzazione pubblica alla novità delle situazioni, tra cui – numerosissime – quelle risultanti dallo sviluppo tecnico. La contraria convinzione già criticata da Croce con ironia è costantemente smentita dal fatto – peraltro energicamente sostenuto da Galli – che è sempre un “modello”, a servizio di un potere (a cui risponde). E che sotto una apparente oggettività finisce per conculcare la soggettività degli individui e delle loro formazioni sociali, con il tramonto di ogni libera prospettiva di piena comprensione di un mondo di cui questi abbiano “piena comprensione e responsabilità”.

Teodoro Klitsche de la Grange

Risultati del vertice del G20 in Sudafrica_di Oleg Barabanov

Risultati del vertice del G20 in Sudafrica

27.11.2025

Oleg Barabanov

© Reuters

Nonostante le pressioni di Trump, il vertice del G20 di Johannesburg è stato un successo e i suoi documenti, in termini di impegno semantico ed emotivo, sono stati significativamente migliori rispetto alla media dei testi del G20. Questo segna la fine dei quattro anni di presidenza dei paesi in via di sviluppo nel G20. Il mondo non è cambiato e le illusioni delle aspettative non sono state soddisfatte. Tuttavia, è stato esercitato un certo impatto sull’agenda globale, scrive il direttore del programma del Valdai Club Oleg Barabanov.

Il vertice annuale del G20 si è concluso a Johannesburg, in Sudafrica, alla fine di novembre 2025. La presidenza sudafricana ha segnato il culmine di un ciclo quadriennale guidato dalle principali economie in via di sviluppo del Sud del mondo, dopo Indonesia, India e Brasile.

Nel corso di questi quattro anni, sono state avanzate numerose affermazioni secondo cui questo lungo periodo di presidenze detenute dai paesi in via di sviluppo rappresentava un’opportunità unica per promuovere gli interessi del Sud del mondo, un potenziale passo avanti verso lo spostamento dell’agenda sia del G20 che della politica globale in questa direzione. Naturalmente, i lettori sono liberi di giudicare da soli in che misura questo obiettivo sia stato raggiunto. A nostro avviso, la risposta è più probabilmente “no” che “sì”. In ogni caso, il mondo non è certamente diventato qualitativamente diverso a seguito di queste quattro presidenze. Tuttavia, ciò non nega le iniziative genuine intraprese da queste presidenze per portare avanti la loro agenda. A nostro avviso, la presidenza brasiliana del 2024 è stata la più significativa del ciclo, poiché ha istituito l’Alleanza globale per porre fine alla fame e ha delineato un quadro per la raccolta fondi a livello mondiale. Tuttavia, è passato un anno e le attività dell’alleanza hanno finora suscitato scarsa attenzione da parte dell’opinione pubblica. Pertanto, non si può escludere che questa iniziativa, indubbiamente importante, finisca per svanire nell’oscurità, come molte altre prima di essa.

L’anno della presidenza sudafricana ha coinciso con le drastiche misure adottate dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump per imporre nuovi dazi alla maggior parte dei paesi, che hanno causato una tempesta mediatica e politica sia tra gli alleati degli Stati Uniti che tra i paesi in via di sviluppo. Inoltre, lo stesso Sudafrica è diventato bersaglio delle dure critiche di Trump per quella che lui ha definito la violazione dei diritti umani nei confronti della minoranza bianca. Sembra che la repressione di Trump nei confronti del Sudafrica, almeno nelle sue fasi iniziali, non sia stata priva dell’influenza di Elon Musk, originario del Paese. Inoltre, Trump ha dichiarato che il Sudafrica non riceverà un invito al vertice del G20, che si terrà a Miami il prossimo anno. Di conseguenza, né Trump né altri alti dirigenti statunitensi hanno partecipato al vertice del G20 e gli Stati Uniti sono stati rappresentati solo dal Chargé d’Affaires statunitense in Sudafrica.

Ma al di là di Trump, il grado di disaccordo tra paesi sviluppati e in via di sviluppo sull’agenda del G20 sembra essere stato piuttosto acuto quest’anno. Prima del vertice sudafricano, sono trapelate ai media notizie secondo cui c’era il rischio che la dichiarazione congiunta finale del vertice non venisse affatto concordata e che invece venisse rilasciata solo una dichiarazione separata da parte del paese presidente. Alla fine, tuttavia, la dichiarazione è stata concordata. Questo è merito della diplomazia sudafricana. Inoltre, forse in assenza di Trump e con l’evidente spostamento dell’attenzione dei media globali dal G20 stesso a un incontro separato dei leader europei a margine del vertice sul piano di pace di Trump per l’Ucraina, i membri occidentali del G20 potrebbero aver deciso di dimostrare che erano in grado di lavorare in modo costruttivo senza Trump e di non aggravare la situazione non adottando la dichiarazione. Inoltre, gli interessi comuni anti-Trump in materia di dazi doganali potrebbero aver unito gli altri paesi occidentali con la maggior parte dei membri non occidentali del G20 (forse con l’eccezione della Russia). Tutto ciò è servito come motivo per superare le differenze e concordare una dichiarazione.

World Majority

Anticipando la presidenza americana del G20

Oleg Barabanov

Potrebbe risultare che Trump non avrà essenzialmente nessuno su cui contare nel G20 tranne la Russia. In primo luogo, perché molte delle visioni del mondo di Trump sono vicine alla posizione ufficiale russa e, in secondo luogo, per la consolidata “intesa” tra Donald Trump e Vladimir Putin, scrive il direttore del programma del Valdai Club Oleg Barabanov.

Opinioni

Nella storia dei vertici del G20, il rischio di non raggiungere un accordo su una dichiarazione comune è stato reso pubblico prima del vertice del 2018 in Argentina. Quel vertice si è svolto in un clima di forti disaccordi tra Occidente e Sud sul commercio e la migrazione. Ma anche allora, la dichiarazione è stata alla fine concordata, sebbene sul minimo comune denominatore. Vladimir Putin ha affermato all’epoca che il testo della dichiarazione era molto “equilibrato”. La seconda volta che si è corso il rischio di non raggiungere un accordo su una dichiarazione comune è stato nel 2022 in Indonesia, a causa del conflitto ucraino. Ma poi, apparentemente per evitare di interrompere il processo, la Russia ha finito per accettare una formulazione finale che, da un lato, affermava che tutti i paesi aderivano alle loro posizioni sull’Ucraina, ma, dall’altro, includeva frasi che erano, per usare un eufemismo, poco lusinghiere per la Russia, che, come indicato nella dichiarazione, erano condivise da molti membri del G20.

Tornando al vertice in Sudafrica, notiamo che mentre un anno fa in Brasile la lotta alla fame era al centro dell’attenzione, questa volta la presidenza sudafricana ha posto al centro dell’attenzione la questione della disuguaglianza e i modi per superarla.

In quello che è diventato un esempio estremamente raro per le dichiarazioni del G20, ora riflette, anche se in forma molto generica, i principi di valore condivisi. In precedenza avevamo osservato che, a differenza delle dichiarazioni dei BRICS da un lato e delle dichiarazioni del G7 dall’altro, i testi del G20 non contenevano praticamente alcun riferimento ai valori. Chiaramente, le differenze di approccio tra paesi sviluppati e in via di sviluppo rendevano questo praticamente impossibile. Ora, il primo punto della dichiarazione sudafricana afferma che “solidarietà, uguaglianza e sostenibilità” sono “pilastri fondamentali della crescita inclusiva”.

Vale anche la pena notare che nella traduzione russa della dichiarazione, pubblicata sul sito web del Cremlino, il testo di questa frase contiene una differenza semantica rispetto all’originale inglese. Nella traduzione del Cremlino, invece di “sostenibilità”, si parla di “sviluppo sostenibile”, che è ben lungi dall’essere la stessa cosa. Mentre lo sviluppo sostenibile è tradizionalmente inteso come un’attenzione alla lotta ai cambiamenti climatici, la “sostenibilità” nei documenti internazionali è un concetto molto più ampio, che si riferisce principalmente non tanto al clima quanto alla resilienza all’intera gamma di impatti negativi. Inoltre, questi tre principi di valore sono stati riordinati nella traduzione russa. Mentre l’originale inglese elenca al primo posto la solidarietà, seguita dall’uguaglianza – che, ancora una volta, riflette l’enfasi chiave della presidenza sudafricana – e al terzo posto la sostenibilità, la traduzione russa sul sito web del Cremlino, per qualche motivo, pone al primo posto lo sviluppo sostenibile, seguito dalla solidarietà e poi dall’uguaglianza. Vale la pena notare che questa differenza semantica nella formulazione tra i testi inglese e russo delle dichiarazioni del G20 e del BRICS non è isolata. Abbiamo già affrontato questo argomento nel nostro precedente rapporto sui valori del BRICS.

Oltre a questo principio di valore, la dichiarazione sudafricana del G20 stabilisce un collegamento con lo spirito della filosofia africana dell’Ubuntu, secondo cui i singoli paesi non possono prosperare da soli. Chiaramente, questo riferimento potrebbe essere interpretato semplicemente come una cortesia nei confronti del paese ospitante e del fatto che il vertice del G20 si teneva per la prima volta in Africa. Tuttavia, si tratta di un altro principio di valore sancito nei documenti del G20. Anche questo era estremamente raro in passato.

Nel complesso, la dichiarazione sudafricana è leggermente più carica di emotività rispetto alla dichiarazione “media” del G20, che in precedenza era formulata in modo semantico in modo molto neutrale e distaccato, spesso riducendosi a poco più che una raccolta di auguri astratti. Questo coinvolgimento emotivo distingue senza dubbio la dichiarazione sudafricana dalle altre. A questo proposito, vale la pena ricordare che anche le dichiarazioni dei BRICS durante la presidenza sudafricana erano semanticamente cariche e critiche nei confronti del problema della disuguaglianza nel mondo, il che le ha fatte risaltare anche nel contesto generale dei BRICS.

World Majority

Il mio rapporto sul G-20

Karl Sánchez24 novembre
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Il cartello recita “Tassate i super ricchi”

A quanto pare, al Summit si sono verificati alcuni incidenti piuttosto pittoreschi e, visti i partecipanti e l’assente, era scontato che accadessero, come suggerisce questa foto:

Ho pubblicato il seguente rapporto sul MoA, ma il suo software ha deformato il formato previsto per le citazioni multiparagrafo che ho fornito. Questo ritarderà la pubblicazione di quanto intendevo. Tuttavia, poiché pochi sembrano essere a conoscenza del fatto che il Vertice del G20 abbia avuto luogo, ecco alcuni punti importanti:

Noto un fatto piuttosto spiacevole: non si fa alcun accenno al vertice del G20 in Sudafrica, boicottato dall’Impero fuorilegge statunitense. La Dichiarazione dei leader è stata adottata il primo giorno grazie all’assenza dell’Impero. Ecco il punto n. 2:

Per la prima volta, l’incontro dei leader del G20 si tiene in Africa. Nello spirito della filosofia Ubuntu, riconosciamo che i singoli paesi non possono prosperare da soli. La filosofia africana di “Ubuntu”, spesso tradotta come “Io sono perché noi siamo”, sottolinea l’interconnessione degli esseri umani in un contesto pubblico, sociale, economico e ambientale più ampio. Riconosciamo la nostra interconnessione come comunità globale di nazioni e riaffermiamo il nostro impegno a non lasciare indietro nessuno attraverso la cooperazione multilaterale, il coordinamento delle politiche macroeconomiche, i partenariati globali per lo sviluppo sostenibile e la solidarietà.

Ora, non ho mai sentito parlare di Ubuntu, ma ho scritto concettualmente la stessa cosa molte volte. La visione del mondo che esprime è diversa perché è collettiva e non individualistica, essendo la prima la base di un autentico multilateralismo. La completezza della Dichiarazione riflette il duro lavoro di coloro che l’hanno elaborata.

Il Global Times il rapporto contiene una lunga sezione dedicata all’assenza dell’Outlaw US Empire, riprodotta di seguito:

Il Sudafrica ha assunto la presidenza di turno del G20 il 1° dicembre 2024, diventando la prima nazione africana a ricoprire tale incarico. Secondo Xinhua , gli Stati Uniti dovrebbero assumere la presidenza il 1° dicembre 2025 .

Washington ha boicottato l’incontro dei leader mondiali in Sudafrica per diverse questioni, tra cui l’affermazione ampiamente screditata secondo cui la minoranza bianca del Paese ospitante sarebbe vittima di omicidi su larga scala. Il governo sudafricano ha strenuamente negato queste accuse, secondo quanto riportato dal Guardian sabato.

Gli Stati Uniti hanno inoltre respinto il programma del paese ospitante di “promuovere la solidarietà e aiutare i paesi in via di sviluppo ad adattarsi ai disastri meteorologici, a passare all’energia pulita e a ridurre i costi eccessivi del debito”, ha riportato il quotidiano Strait Times con sede a Singapore .
Ramaphosa ha affermato che avrebbe dovuto cedere la presidenza di turno a una “sedia vuota”. Secondo il rapporto, la presidenza sudafricana ha respinto l’offerta della Casa Bianca di inviare l’incaricato d’affari statunitense per il passaggio di consegne al G20.

Perseguendo politiche intrise di una nuova forma di isolazionismo, gli Stati Uniti stanno mostrando indifferenza verso i processi di governance globale. Questo li ha gradualmente collocati dalla parte opposta rispetto alla stragrande maggioranza dei paesi del mondo, in particolare alla maggior parte dei membri del G20, ha dichiarato domenica al Global Times Li Haidong, professore alla China Foreign Affairs University.

“La dichiarazione è stata adottata all’unanimità. Di solito viene adottata alla fine del vertice, ma durante i negoziati bilaterali di venerdì e sabato si è diffusa la sensazione che fosse necessario adottare prima la dichiarazione e poi passare ad altre questioni”, ha dichiarato all’agenzia di stampa russa Sputnik una fonte vicina alla questione .

La BBC ha analizzato come, per molti versi, la presidenza sudafricana del G20 si inserisca in un dibattito più ampio sul multilateralismo e la sua efficacia. Se il Sudafrica riuscisse a convincere gli altri membri del G20 a emanare una dichiarazione congiunta, potrebbe riuscire a dimostrare che è possibile raggiungere un consenso senza la partecipazione del Paese più potente del mondo.

Reuters ha anche sottolineato che, pur temendo che la perdita della partecipazione del suo membro più potente avrebbe potuto compromettere una dichiarazione al G20, alcuni analisti hanno comunque visto un’opportunità per gli ospiti sudafricani, determinati a stabilire un programma per i leader mondiali di fronte all’ostilità degli Stati Uniti verso la diplomazia multilaterale.


“La piattaforma multilaterale non può essere paralizzata a causa dell’assenza di qualcuno che era stato invitato”, ha dichiarato il ministro degli Esteri sudafricano Ronald Lamola all’emittente pubblica SABC, secondo quanto riportato dalla CNN.

Contesto con forza l’affermazione di BBC e Reuters secondo cui l’Impero fuorilegge statunitense sarebbe “il Paese più potente del mondo” o il “membro più potente” del G20. A mio parere, tutti i parametri rilevanti indicano che la Cina occupa ora quella posizione, mentre militarmente l’Impero è ora subordinato a Russia e Cina. Le bugie e le politiche di Trump hanno fatto sì che l’Impero si chiudesse in un guscio. Non c’è modo che Trump, chiunque nel suo team o chiunque nel Deep State possa essere d’accordo con i principi di Ubuntu.

Va inoltre notato che il rappresentante della Russia, il vice capo di gabinetto dell’ufficio esecutivo presidenziale Maxim Oreshkin, ha riferito che diverse “nazioni ostili” lo hanno contattato a margine, citando RT quanto segue:

Diversi paesi che consideriamo ostili ci hanno contattato con proposte concrete di cooperazione, su come migliorare le relazioni economiche con la Russia e realizzare progetti comuni.

Sembra che la solidarietà della Coalizione Anti-Russia si stia incrinando, il che è positivo. L’ultimo punto importante per concludere il mio articolo è tratto dal riassunto del Global Times linkato sopra:

Il ruolo della Cina è stato assolutamente fondamentale e non è esagerato definirla “l’ago stabilizzatore” di questo processo del G20, ha dichiarato domenica al Global Times He Wenping, direttore dell’Istituto di studi sull’Asia occidentale e sull’Africa presso l’Accademia cinese delle scienze sociali.


Da quando il Sudafrica ha assunto la presidenza del G20, la Cina ha partecipato a ogni singolo evento dell’anno, dai forum di apertura all’inizio dell’anno fino al Summit dei leader di oggi. Riunioni dei ministri degli Esteri, delle Finanze e tutti i percorsi tematici: la Cina non è mai stata assente. Ancora più importante, la Cina ha sostenuto fermamente ogni singola iniziativa proposta dall’Africa, non solo a parole, ma con azioni concrete, ha affermato He Wenping.


Secondo quanto riportato da Xinhua , la Cina ha pubblicato un piano d’azione per l’attuazione dell’iniziativa del G20 a sostegno dell’industrializzazione in Africa e nei paesi meno sviluppati, ha osservato Li Qiang, sottolineando l’impegno della Cina nel promuovere uno sviluppo comune tra tutti i paesi.


La Cina sostiene la riduzione del debito nei paesi in via di sviluppo e ha avviato congiuntamente con il Sudafrica un’iniziativa di cooperazione per sostenere la modernizzazione dell’Africa, ha affermato Li Qiang, aggiungendo che la Cina istituirà anche l’Istituto per lo sviluppo globale.

Mentre l’Impero fuorilegge degli Stati Uniti abdica, Cina e Russia stanno colmando il vuoto, ma la Cina, soprattutto, con le sue quattro principali iniziative globali. Una volta terminato l’SMO e completato il Patto di sicurezza eurasiatico, la Russia sarà molto più coinvolta, ed è uno dei motivi per cui l’Occidente collettivo non vuole che il conflitto finisca.

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G20 Sudafrica: la quarta presidenza consecutiva del Sud del mondo

Mikatekiso Kubayi

Due importanti aree di consolidamento derivanti dal G20 brasiliano sono una motivazione fondamentale per rivedere gli accordi e le dichiarazioni passati, nonché la portata delle risoluzioni passate del G20: l’Alleanza globale contro la fame e la povertà e l’integrazione delle voci della società civile e di altri gruppi di impegno per garantire che nessun settore della società venga lasciato indietro, scrive Mikatekiso Kubayi.

Opinioni

A differenza di diversi anni precedenti, le valutazioni sul conflitto ucraino non sono state riportate nel testo della dichiarazione. Tuttavia, essa afferma: “Ribadiamo inoltre che, in linea con la Carta delle Nazioni Unite, tutti gli Stati devono astenersi dal ricorrere alla minaccia o all’uso della forza per ottenere acquisizioni territoriali a scapito dell’integrità territoriale, della sovranità o dell’indipendenza politica di qualsiasi Stato”. Si afferma inoltre che “lavoreremo per una pace giusta, globale e duratura” nelle zone di conflitto, dove l’Ucraina è stata menzionata nell’elenco generale insieme al Sudan, alla Repubblica Democratica del Congo e alla Palestina.

Va inoltre sottolineato che la dichiarazione non conteneva alcuna dichiarazione diretta contro Trump in merito alla sua politica tariffaria. Si limitava ad affermare vagamente che “ci riuniamo in un contesto di crescente competizione geopolitica e geoeconomica” e sostanzialmente nient’altro.

Oltre alla dichiarazione principale, sotto l’egida della presidenza sudafricana sono stati pubblicati numerosi altri documenti su vari temi del G20. Alcuni di questi erano molto più critici nei confronti della disuguaglianza globale rispetto al documento principale. Tra questi figurano la relazione del Comitato straordinario di esperti indipendenti del G20 sulla disuguaglianza globale e la dichiarazione del Vertice sociale del G20, tenutosi un paio di giorni prima del vertice politico principale.

Nel complesso, nonostante le pressioni di Trump, si può riconoscere che il vertice del G20 di Johannesburg è stato un successo e che i suoi documenti, in termini di impegno semantico ed emotivo, sono stati significativamente migliori rispetto al testo medio del G20. Questo segna la fine dei quattro anni di presidenza dei paesi in via di sviluppo nel G20. Il mondo non è cambiato e le illusioni delle aspettative non sono state soddisfatte. Ciononostante, è stato esercitato un certo impatto sull’agenda globale. Il prossimo anno vedremo la presidenza degli Stati Uniti, che potrebbe essere la più imprevedibile nella storia di questo formato. Per lo meno, il vertice del G20 degli Stati Uniti non sarà certamente noioso. Staremo a vedere.

World Insights: il vertice del G20 di Johannesburg per costruire un consenso del Sud del mondo sulla governance globalehttps://g20.org/track-news/world-insights-johannesburg-g20-summit-to-build-global-south-consensus-on-global-governance/

China.org.cn, Xinhua, 21 novembre 2025

21 novembre 2025

JOHANNESBURG, 21 novembre (Xinhua) — Il vertice dei leader del Gruppo dei 20 (G20) si terrà nel fine settimana a Johannesburg, in Sudafrica, il primo in assoluto a svolgersi in terra africana.

Con il tema “Solidarietà, uguaglianza, sostenibilità”, il vertice sottolinea l’importanza del momento che sta vivendo l’Africa, impegnata ad amplificare la propria voce nella governance globale e a promuovere le priorità di sviluppo condivise dal Sud del mondo.

Gli osservatori sostengono che l’evento rifletta la crescente influenza dell’Africa e l’aspettativa della comunità internazionale che la Cina e altri membri del Sud del mondo contribuiscano a costruire un consenso sul multilateralismo e lo sviluppo inclusivo.

QUESTA VOLTA PER L’AFRICA

L’ingresso dell’Unione Africana nel G20 nel 2023 è stato celebrato in tutto il continente come un “momento africano”. Ora, con il vertice del G20 che si terrà per la prima volta in Africa, gli analisti sostengono che ciò segni un cambiamento storico: i paesi africani stanno passando da partecipanti passivi a contributori attivi nella definizione delle agende globali.

Alvin Botes, viceministro delle relazioni internazionali e della cooperazione del Sudafrica, ha dichiarato: “Stiamo lavorando fianco a fianco con l’Unione Africana per amplificare la voce dell’Africa nella governance economica globale, garantendo al contempo che le priorità di sviluppo del continente africano e del Sud del mondo trovino una chiara espressione nell’agenda del G20”.

Da quando ha assunto la presidenza del G20 lo scorso anno, il Sudafrica ha cercato di orientare il vertice verso il progresso dell’agenda di sviluppo del Sud del mondo, in particolare dei paesi africani, e ha individuato quattro priorità: rafforzare la resilienza e la risposta alle catastrofi, adottare misure per garantire la sostenibilità del debito dei paesi a basso reddito, mobilitare finanziamenti per una transizione energetica equa e sfruttare i minerali critici per una crescita inclusiva e uno sviluppo sostenibile.

Momar Diongue, direttore generale dell’Agenzia di stampa senegalese, ha dichiarato: “Il fatto che il G20 si tenga per la prima volta nel continente africano è altamente simbolico ma anche strategico: pone le nostre priorità economiche al centro delle discussioni globali”.

Ha aggiunto che grazie all’integrazione regionale, “l’Africa sta diventando una forza trainante nel formulare proposte”.

Peter Kagwanja, amministratore delegato dell’Africa Policy Institute, un think tank con sede in Kenya, ha affermato: “La crescente partecipazione dell’Africa ai processi decisionali globali segna una trasformazione significativa nel sistema internazionale, in cui i paesi del Sud del mondo, un tempo emarginati ed esclusi dalle discussioni chiave, come quelle incentrate sulle riforme finanziarie, la sostenibilità del debito e il cambiamento climatico, stanno ora affermando con coraggio la loro voce e la loro influenza e partecipano pienamente alla risoluzione di tali sfide”.

SLANCIO SUD-SUD

In un contesto caratterizzato da cambiamenti rapidi senza precedenti nel secolo scorso, da una crescita economica globale stagnante e da un deficit di sviluppo sempre più ampio, i paesi africani sono alle prese con shock climatici, debiti crescenti e altre pressioni. Gli esperti africani hanno affermato che il vertice di Johannesburg contribuirà a promuovere la cooperazione, a sostenere lo sviluppo dell’Africa e a offrire una “prospettiva africana” nell’affrontare le sfide globali.

Il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa ha considerato il vertice di quest’anno come un’opportunità per inserire con maggiore determinazione le esigenze dell’Africa e del resto del Sud del mondo nell’agenda internazionale per lo sviluppo.

“Ci aspettiamo che il vertice assuma un impegno politico per affrontare le vulnerabilità del debito nei paesi a basso e medio reddito”, ha affermato, aggiungendo che si aspetta che il consenso raggiunto durante l’evento includa “un impegno a rafforzare ulteriormente l’attuazione del Quadro comune del G20 per il trattamento del debito in modo prevedibile, tempestivo e coordinato”.

Lemmy Nyongesa Mulaku, docente di studi internazionali all’Università di Nairobi, ha affermato: “Il vertice del G20 nel continente offre l’opportunità di avviare riforme autentiche volte a riequilibrare queste relazioni attraverso la riforma delle istituzioni di governance globale come la Banca mondiale, il FMI e l’OMC”.

“Il vertice del G20 offre l’opportunità di rafforzare la partnership tra Cina e Africa non solo per promuovere soluzioni di adattamento climatico, ma anche per consolidarle nelle istituzioni e nelle strutture di governance globale”, ha affermato.

Gli osservatori sottolineano che l’Africa ha compiuto progressi significativi nella transizione verde e nell’economia digitale. Come ha affermato David Mugisha Begumya, professore presso l’Università Internazionale dell’Africa Orientale in Uganda, l’Africa ha un enorme potenziale nell’affrontare le sfide climatiche globali, diventando così un fornitore sempre più importante di soluzioni verdi.

RIFORMA DELLA GOVERNANCE GLOBALE

In un momento in cui la riforma della governance globale si trova a un bivio, garantire che i paesi in via di sviluppo partecipino in modo equo alle principali decisioni in materia di governance globale è fondamentale per una governance giusta ed efficace.

La Cina è stata “il più grande e fondamentale sostenitore” della promozione di un ordine internazionale più giusto ed equo, ha affermato Yarbane Kharrachi, consigliere del ministro dell’istruzione superiore e della ricerca scientifica della Mauritania, sottolineando il sostegno iniziale di Pechino all’adesione dell’Unione Africana al G20.

Prima del vertice, gli Stati Uniti hanno annunciato la loro decisione di non partecipare all’evento e hanno messo in guardia il Sudafrica dal promuovere una dichiarazione congiunta.

“La politica del boicottaggio non funziona mai”, ha risposto Ramaphosa. “Se boicotti un evento o un processo, perdi perché lo spettacolo continuerà comunque”.

Gli analisti africani osservano che ciò sottolinea ancora una volta l’urgenza di una riforma della governance globale. La posizione ferma del Sudafrica, affermano, riflette la determinazione dei paesi del Sud del mondo a promuovere un sistema di governance globale più equo e a sostituire il dominio unilaterale con la cooperazione multilaterale.

La Cina mette in campo il suo peculiare capitale culturale e intellettuale, offrendo prospettive alternative sulla governance e lo sviluppo globali, ha affermato David Monyae, direttore del Centro studi Africa-Cina dell’Università di Johannesburg.

“Questo approccio incarna il principio secondo cui tutte le civiltà sono uguali, un principio che dovrebbe guidare l’Africa e gli altri paesi del Sud del mondo nel definire in modo collaborativo i programmi di sviluppo e di governance”, ha affermato.


Articolo originale China.org.cn, Xinhua, 21 novembre 2025
http://www.china.org.cn/world/Off_the_Wire/2025-11/21/content_118189241.shtml

La cooperazione globale è essenziale per una politica industriale sostenibile

21 novembre 2025

Il rapporto del G20 sulle politiche industriali sostenibili fornisce una solida base per un’azione collettiva volta alla creazione di strutture economiche diversificate , ha affermato il viceministro del Commercio, dell’Industria e della Concorrenza, Zuko Godlimpi.

“Il rapporto chiarisce che il mondo ha bisogno ora più che mai di una politica industriale sostenibile. Questo perché i nostri attuali sistemi di produzione e consumo, basati sui combustibili fossili, sull’esaurimento delle risorse e sul degrado ecologico, non sono più compatibili con un pianeta sano o un’economia equa. Le crisi che affrontiamo oggi sono fondamentalmente legate al modo in cui viene creato e distribuito il valore economico”, ha affermato Godlimpi.

Il viceministro ha parlato in occasione della presentazione del rapporto intitolato: “G20: Rimuovere gli ostacoli internazionali alla politica industriale sostenibile”, tenutasi giovedì presso la sede del Dipartimento del Commercio, dell’Industria e della Concorrenza (dtic) a Pretoria.

Il lancio del rapporto di alto livello del G20 è stato organizzato in collaborazione con l’Institute for Economic Justice (IEJ) in vista del vertice dei leader del G20 che si terrà nel fine settimana.

Il rapporto riconosce che, nonostante vi sia un urgente bisogno di cooperazione globale per affrontare i cambiamenti climatici, il sottosviluppo economico, la disuguaglianza, la povertà e l’instabilità geopolitica, l’attuale sistema multilaterale è ostacolato da barriere che impediscono piuttosto che favorire politiche nazionali di trasformazione.

Godlimpi ha affermato che il rapporto fornisce un quadro di riferimento prezioso per allineare le strategie industriali agli obiettivi climatici, di sviluppo e di equità.

Ha inoltre aggiunto che una politica industriale sostenibile offre una strada diversa.

“Consente una trasformazione mirata, creando strutture economiche diversificate che rispettano i limiti del pianeta, ampliando al contempo le opportunità, rafforzando la resilienza e migliorando i risultati sociali. Si tratta di un quadro di riferimento volto a garantire che le industrie che costruiamo oggi sostengano il benessere umano e ecologico di domani”.

Godlimpi ha sottolineato che, se si vuole che tutti i paesi passino a sistemi industriali sostenibili, ecologici e inclusivi, allora tutti devono riconoscere che ciò non è possibile con regole inique o risorse limitate.

“La transizione verso un’industria sostenibile deve essere equa. Tra le altre cose, i lavoratori devono essere sostenuti con nuove competenze. Le comunità devono vedere benefici tangibili e i paesi in via di sviluppo devono avere accesso agli strumenti, alla tecnologia e ai finanziamenti necessari per costruire nuovi ecosistemi industriali.

“Come Sudafrica, siamo orgogliosi di sostenere questo programma all’interno del G20. La nostra presidenza ha dato priorità alla crescita inclusiva e all’industrializzazione perché sappiamo cosa c’è in gioco, non solo per la nostra economia, ma per il futuro di tutte le nazioni in via di sviluppo”, ha affermato.

Il rapporto è disponibile all’indirizzo:
https://iej.org.za/removing-international-obstacles-to-sustainable-industrial-policy/

La dichiarazione del vertice dei leader del G20 è “rivoluzionaria” per l’Africa e il Sud del mondo

Sabato 22 novembre 2025

“Il mondo è qui, il continente africano è qui, le istituzioni [globali] sono qui. Il multilateralismo è stato affermato. Il mondo multipolare è in piena azione”.

Queste sono state le parole del ministro delle Relazioni internazionali e della cooperazione, Ronald Lamola, dopo l’annuncio dell’adozione di una dichiarazione da parte del vertice dei leader del G20.

Il ministro ha parlato con i media a margine della prima giornata del vertice dei leader, della durata di due giorni, sabato. 

Il vertice storico, che si tiene per la prima volta nel continente africano, è in corso presso il Nasrec Expo Centre di Johannesburg.

“Consideriamo questa piattaforma come un’affermazione del multilateralismo. Il multilateralismo ha servito molto bene il mondo dal secondo dopoguerra e questa piattaforma lo conferma”, ha affermato Lamola.

Ha sottolineato che la sede scelta per ospitare il vertice è simbolica degli obiettivi del Sudafrica di costruire un mondo di cooperazione reciproca.

“Siamo lieti di discutere una serie di questioni volte a colmare il divario tra il Sud e il Nord del mondo. Non è ironico che abbiamo scelto Soweto, che un tempo era una township nera, come sede del vertice? Alla mia destra si trova Joburg North, che un tempo era un’area riservata ai bianchi. 

” Abbiamo riunito tutti qui per dire che questo è il ponte che il Nord e il Sud del mondo devono costruire affinché tutti noi possiamo lavorare insieme per il bene e il beneficio dell’umanità”, ha osservato.

Riguardo alla dichiarazione stessa, in particolare alla trasformazione digitale e all’intelligenza artificiale, il ministro ha affermato che si tratta di un passo fondamentale per l’Africa.

“Nel continente africano, pochissimi creatori di contenuti ottengono risorse… TikTok, Apple e così via. Ma questo G20 sottolinea come il continente africano non debba essere solo un consumatore di intelligenza artificiale, ma debba essere alla fonte dell’innovazione, della ricerca, dei centri dati e di tutte quelle piattaforme.

“Questo è quindi fondamentale anche per i giovani di questo continente… che è un continente giovane. Questo G20 rivoluzionerà il modo in cui il continente africano partecipa all’economia globale.

“Come governo sudafricano siamo davvero lieti che finalmente… [la presidenza del G20] sia culminata in una dichiarazione progressista… che rivoluzionerà il modo in cui il sud del mondo partecipa e agisce nell’economia globale”, ha osservato Lamola.

Questo mentre il portavoce presidenziale Vincent Magwenya ha confermato in precedenza che i leader del G20 hanno raggiunto un consenso per l’adozione di una dichiarazione del vertice dei leader del G20.

LEGGI | Il vertice dei leader del G20 adotta la dichiarazione

“[La dichiarazione] è stata adottata dai leader presenti al vertice. Ci stavamo avvicinando sempre più a quell’adozione unanime e ora abbiamo una dichiarazione del vertice adottata”, ha affermato Magwenya.

Nel suo discorso di apertura al vertice, il presidente Cyril Ramaphosa ha affermato che il primo vertice dei leader del G20 in terra africana deve riflettere le aspirazioni sia del continente che della più ampia comunità globale.
LEGGI | Il G20 deve riflettere le aspirazioni dell’Africa e del mondo 

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