Italia e il mondo

L’ANNO DEL DRAGHI O L’ANNO DEL DRAGONE? Il manifesto di Mario, di Giuseppe Germinario

Il 15 dicembre scorso Mario Draghi è stato insignito della ennesima laurea “honoris causa” questa volta dal prestigioso Istituto Universitario Superiore Sant’Anna di Pisa. Più che dalla persona la tesi a corredo del riconoscimento sembra stilata piuttosto dal Presidente della Banca Centrale Europea. https://www.youtube.com/watch?v=8G38JxX6e6s

Un accorgimento più che comprensibile vista la delicatezza dell’incarico ormai a scadenza e l’equilibrismo che deve contraddistinguere una funzione legata all’accordo di ben diciannove paesi aderenti all’euro più i nove restanti paesi dell’UE presenti come soci dell’Istituto.

Una posizione che gli ha consentito a costo zero una imprevista, quasi estorta, manifestazione di orgoglio nazionale; professione di fede per altro a buon mercato. Il suo “orgoglio ancora una volta di essere italiano” di fatto si è risolto in una locuzione un po’ funerea di coraggio rivolta allo studente che lamentava l’esodo di laureati dal paese. Più che uno stimolo, un gesto consolatorio non si sa se legato all’aplomb tecnocratico o alla scarsa offerta di prospettive sottesa nel suo discorso. Se a questo si aggiunge la gag del Draghi immortalato in aereo in qualità di viaggiatore arruolato di buon grado tra i ranghi dei navigatori di classe economica di un qualsiasi aereo di linea comincia a sorgere il sospetto che si inizi a costruire cautamente il personaggio politico incaricato, alla bisogna, di scalzare l’attuale governo comunque poco gradito al vecchio establishment non ostante le prestazioni a dir poco contraddittorie.

Se l’operazione Mario Monti è partita ufficialmente dall’alto dell’investitura a Senatore a Vita, quella di Mario Draghi, tra mille cautele, sembra partire dal basso di un viaggio in terza classe e di una locuzione professorale. Segno del cambiamento dei tempi, ma anche del carattere apparentemente meno schizzinoso del nostro rispetto a un Macron, costretto agli stessi gesti plebei ma sempre col fazzoletto detergente e purificatore in mano.

Un orgoglio nazionale del quale è per altro difficile trovare altra traccia nella prolusione; molto più manifesti sono in quel discorso purtroppo i segni del destino riservato al suo paese natale. Segni per l’appunto; parole quindi tutte da interpretare.

Passando quindi al merito del discorso, la gran parte dei detrattori del Presidente si è limitata a deridere la sua professione di orgoglio e a sindacare sulla buona fede del suo invito a valorizzare le specifiche competenze degli stati nazionali nel determinare i livelli di sviluppo dei paesi europei.

Il personaggio in realtà non va sottovalutato; è inverosimile che si presti ad azioni di piccolo cabotaggio o a svolte strategiche sì, ma con la fanfaronaggine e il pressapochismo di un Matteo Renzi qualsiasi.

La sua prolusione, infatti, per quanto capziosa nella trattazione di numerosi argomenti, è ben ponderata e si prefigge tre obbiettivi chiari.

Irridere ai nostalgici dei bei tempi andati della spesa pubblica in deficit e delle svalutazioni monetarie, sostenere la mancanza di alternative all’attuale politica comunitaria e unitaria in Europa anche a difesa, nel modo migliore possibile, delle prerogative degli stati nazionali, evidenziare il carattere irreversibile delle trasformazioni socioeconomiche che rendono inutile e dispendioso l’utilizzo del vecchio armamentario degli strumenti monetario, svalutazione compresa.

GLOBALIZZAZIONE E MERCATO UNICO EUROPEO

La lectio magistralis inizia con una dotta distinzione e contrapposizione tra globalizzazione e mercato unico europeo (MUE); la prima fautrice di diseguaglianze e di arbìtri senza regole, il secondo attento alle implicazioni sociali legate alla sua introduzione e impegnato quindi a regolamentarlo e ingabbiarlo secondo il rispetto di principi di equità. Un parziale rovesciamento dell’impostazione di umanisti come Habermas, muse ispiratrici del pensiero politicamente corretto, i quali vedevano e si ostinano a sostenere che quella delle unioni regionali è una tappa e un tassello del governo unico mondiale di là da venire, fondato sempre più, man mano che il livello di governo si estende all’universo mondo, su principi morali basici quanto generici quanto in qualche maniera cogenti; reso necessario in ultima istanza dalla formazione di un mercato unico globale al quale le dimensioni del soggetto politico per antonomasia, lo stato, devono tendenzialmente corrispondere per essere efficace. In realtà la globalizzazione e il MUE sono un processo in progressiva formazione del tutto simile, con premesse ideologiche identiche, un identico motore unificante iniziale ma con punti di partenza diversi.

Il grande sviluppo tecnologico degli ultimi trenta anni (i container, i mezzi di trasporto, l’informatica, la telematica, ect) è lo strumento che consente l’interconnessione, l’integrazione e l’allargamento esponenziale (globalizzazione) degli spazi entro cui agiscono gli attori economici in particolare e gli agenti politici in generale, allargando a dismisura spazi e competenze anche degli stati nazionali, specie quelli meglio posizionati e con classi dirigenti più capaci e motivate. Le modalità di sviluppo di queste dinamiche sono partite e incrementate seguendo il principio della regolazione multilaterale dei rapporti fondata sulla supervisione e sull’egemonia unipolare statunitense. Una logica sfuggita di mano, che non è quindi riuscita a imbrigliare per troppo tempo le energie scatenate consentendo l’emersione di formazioni sociali e stati nazionali, abili a sfruttare i margini operativi e sempre più in grado di contrastare e competere con la potenza egemone. Un processo politico comunque ancora lungi dall’essere compiuto e che spinge alla formazione di sfere di influenza, comprese quelle economiche, progressivamente delimitate. Un processo che sta erodendo la base di potenza e di ricchezza che ha consentito la costruzione di solide, coese ed estese formazioni sociali basate sullo stato sociale al centro del sistema originario e sta riducendo la capacità di sviluppo e di contrattazione, quindi il peso politico di quei ceti popolari e soprattutto intermedi professionali e di status la cui forza si fonda su una perimetrazione più rigida e circoscritta delle competenze statali delle formazioni dominanti di un tempo. A livello globale non è mai esistita una reale regolamentazione comune o un principio comune di regolazione dei rapporti sociali propri degli stati sociali; la dinamica di destrutturazione e ridimensionamento da una parte e di formazione nei paesi emergenti di ceti intermedi professionali e di controllo assume quindi l’aspetto di un processo naturale ed anonimo. Nella UE e nel suo mercato unico il soggetto politico fondatore e regolatore è identico, sono sempre gli Stati Uniti. La resilienza di questi però è ben più tenace, solida e persistente. Le dinamiche sono identiche, il processo in generale è analogo, di destrutturazione e di ridimensionamento, ma assume maggiormente le modalità politico-giuridiche di attuazione. La ragione risiede nella relativa omogeneità della condizione socioeconomica iniziale dei sei paesi fondatori al momento, negli anni ‘80/’90, dell’allargamento e nella regolazione istituzionale necessaria del processo di detto allargamento dell’Unione. Un processo le cui modalità erano dettate soprattutto dalla fretta delle mire espansionistiche americane veicolate dalla NATO e dalla capacità tedesca di inserirsi in via subordinata nella gestione profittevole dell’espansione ai danni della Russia. Non tutela dei diritti sociali, come sostenuto da Draghi, ma progressiva liberalizzazione e smantellamento di diritti giuridici e posizioni economiche consolidati, compensata solo parzialmente da una redistribuzione pubblica assistenziale di risorse secondo le capacità dei singoli stati nazionali e secondo la forza politica dei gruppi sociali nazionalmente organizzati. La caduta in pratica della maschera dei principi di equilibrio ordoliberisti e l’innesco delle crescenti sperequazioni e dell’appiattimento verso il basso delle condizioni di vita generali proprie di società in fase di ristrutturazione contestuale a un declino relativo.

L’IRRISIONE DEI NOSTALGICI DEI BEI TEMPI

Nel prosieguo della locuzione Mario Draghi individua finalmente i bersagli delle sue stilettate: i fautori della spesa pubblica in deficit e i sostenitori della sovranità monetaria degli stati nazionali europei, soggetti portanti delle attuali forze sovraniste nazionali in Europa. Per delegittimarli gli tocca risalire dagli anni ‘70/’80 e affidarsi ad una interpretazione manichea di quel periodo. Mario Draghi si concede a questo punto un piccolo vezzo. In soldoni fu un periodo, a detta sua, di titolarità di sovranità monetaria dello stato italiano meramente nominale quando lo SME (serpente monetario) era in realtà agganciato ai capricci e al volere del marco tedesco. Una mezza verità che diventa falsità se si nasconde che quella Unione Europea, come per altro quella attuale, anche se adesso in maniera controversa e contestata, è un sistema che favorisce in primo luogo l’egemonia politica e il sistema economico-finanziario americano; un sistema che sancisce negli stessi trattati la propria subordinazione politico-militare. Una condizione, secondo il suo autorevole parere, comunque ben peggiore dell’attuale determinata da una BCE (banca centrale europea) gestita collettivamente dagli stati europei secondo il loro relativo peso economico. Le affermazioni di sovranità nazionale italiana in quel periodo, esteso sino al ’93, consistettero in ben otto svalutazioni, l’ultima particolarmente drammatica, le quali apportarono puntualmente sussulti benefici del tutto temporanei in un quadro però di progressivo deterioramento economico.

L’altra arma sovranista a doppio taglio si è rivelata la spesa in deficit. Non avrebbe interrotto il calo progressivo dei tassi di sviluppo dei paesi europei, soprattutto di quello italiano in rapporto agli altri, se non, lo riconosce a denti stretti, in alcuni anni e a scapito delle solite generazioni future. Ancora una volta il moralismo che sostituisce un approccio analitico; una religione che sostituisce una politica economica e le sue regole finalizzate ad obbiettivi politico-sociali. La svalutazione di per sé avrebbe pregiudicato la riorganizzazione industriale, lo sviluppo dei settori di punta e gli incrementi necessari di produttività. I deficit di loro avrebbero portato all’incremento dei tassi di interesse, al sacrificio del risparmio dirottato a ripianare il debito, alla affermazione dell’assistenzialismo. Entrambi hanno determinato tassi astronomici di inflazione, il carovita come scandito enfaticamente, a scapito delle condizioni di vita e del potere di acquisto degli strati più popolari. Una rappresentazione volutamente drammatica di un fenomeno di per sé grave e dissestante ma che trovava comunque una compensazione nelle forme indicizzate di tutela dei redditi in una situazione occupazionale, compresa quella precaria e informale, comunque migliore di quella attuale in tempi di stagnazione e deflazione. Un determinismo che per altro non riesce a spiegare come mai l’ultima drammatica svalutazione del ‘92/’93 ha coinciso con un calo netto dell’inflazione e con l’ultima consistente ripresa produttiva; che nasconde il fatto che l’incremento esponenziale dei tassi e del montante reale degli interessi ha coinciso soprattutto con la separazione dei poteri di controllo e di liquidità della Banca d’Italia e con la collocazione a terzi dei titoli pubblici. Ignora artatamente l’induzione al debito di natura parassitaria perpetrata dagli stessi agenti convertiti successivamente alla religione dell’austerità. Glissa sulle possibili alternative di utilizzo delle risorse ricavate dagli incrementi produttivi legati alla svalutazione; sulle dinamiche indotte e sulle scelte politiche consapevoli di trasformazione assistenzialistica e ipertrofica delle partecipazioni statali propedeutiche ad una svendita e ad una privatizzazione scellerata; sul sacrificio consapevole delle poche grandi industrie private innovative come la Olivetti; sul tradimento della piccola e media borghesia contadina specie del centro-sud sacrificata all’intermediazione predatrice grazie al sacrificio dell’intero comparto agroalimentare pubblico e della sua struttura calmieratrice della rete commerciale. Draghi glissa perché fu uno degli artefici e dei complici di quelle scelte dovute al connubio tra un ceto politico approssimativo, senza particolari ambizioni di rinascita nazionale in grado di motivare la nazione, un grande ceto imprenditoriale e manageriale rinunciatario perennemente incapace di egemonizzare una qualche ambizione di sviluppo autonomo, un medio ceto imprenditoriale di settori maturi in buona parte lesto a compiere il salto dimensionale inserendosi nelle pieghe parassitarie delle rendite legate alla gestione dei servizi e delle reti e una rete di intermediari, dai quali lui stesso proviene, pronti a rimediare lucrose parcelle.

IL DIO MERCATO

Per Draghi il verbo illuminante e la panacea risolutrice si riducono al ricorso al mercato, nella fattispecie al mercato unico europeo regolato uniformemente. Una via di fuga che lo conduce, in questa parte così cruciale della sua perorazione, alle acrobazie logiche e alle omissioni rispettivamente le più ardite e complici tanto più da parte di un uomo che ha vissuto dall’interno e ai livelli più alti le vicende legate a quella costruzione. Un edificio, per altro, apparentemente unico; in realtà ancora in gran parte da costruire. Mario Draghi si guarda bene dal rappresentare il mercato come un insieme di spazi e di regole frutto e spesso sommatoria di trattative e pressioni di centri politici, governi nazionali e lobby la cui particolare definizione e conformazione serve ad affermare particolari gerarchie, sistemi di potere e ipoteche di sviluppo. Non potendo offrire comuni magnifiche sorti e progressive, nel corso dell’eloquio esso da strumento diventa progressivamente un fine in sé apparentemente astratto al quale adeguare inesorabilmente le scelte di politica economica. Riconosce a denti stretti che è produttore di diseguaglianze, ma constata che dopo tutto sono fisiologiche e non sono molto dissimili da quelle prodotte da altri mercati unici come quello dello stato federale americano. Si affretta a vantare che con il superamento della crisi del 2008 i differenziali dei tassi di crescita dei paesi europei aderenti all’euro si sono ridotti, ma glissa elegantemente sul fatto che questi tassi, compresi quelli tedeschi, sono risicati e nettamente inferiori a quelli delle maggiori economie e di gran parte dei paesi europei esterni al sistema monetario. L’importante è proseguire sempre e comunque, a prescindere dalle regole fattuali, su questa strada ineluttabile.

I MERITI E LE COSTRIZIONI, LE CONDIZIONI IRREVERSIBILI DEL DIO MERCATO

Come ogni religione che si rispetti, quella del dio mercato prevede un destino, percorsi obbligati, costrizioni, punizioni, l’esercizio virtuoso e gratificazioni; le più significative di queste ultime ai più riservate a tempi di là da venire.

I virtuosi sono quelli predestinati a godere dei benefici sulla terra. Sono quelli che, almeno in buona parte in apparenza, seguono diligentemente le regole austere del buon governo. Sono tutti guarda caso collocati, come una cintura, intorno al paese perno dell’Unione, la Germania. Tutti hanno beneficiato di particolari condizioni: di zone franche necessarie ad ospitare reti finanziarie, logistiche e commerciali; di un trasferimento repentino di fondi europei a discapito di altre zone specie dell’area mediterranea; di attenzioni anche economiche e finanziarie legate alla loro posizione strategica di stati confinanti con la Russia. Condizioni che stanno alimentando nazionalismi radicali alcuni dei quali tanto più urlati ed esibiti quanto più straccioni perché legati strettamente alla copertura politica-militare americana e alla dipendenza economico-finanziaria angloamericana e tedesca. Un dilemma che per la classe dirigente tedesca si sta rivelando un cappio sempre meno districabile per liberare le proprie ambizioni geopolitiche.

Mario Draghi a questo punto si permette anche il vezzo della moral suasion, della persuasione morale autorevole e aggiungo beffarda. Nota che, dopotutto, la politica di deficit non interessa gran che ai residui paesi europei detentori della propria moneta sovrana visto hanno stati di gran lunga con minor debito. Lungi dalla mente del Pontefice dell’euro, la considerazione che è proprio la politica restrittiva, connaturata all’attuale gestione della sua moneta e all’assetto di potere connesso, a costringere al debito e al deficit incontrollato dei paesi subordinati.

Arriva a capovolgere la situazione ed appropriarsi dell’afflato sovranista. Afferma che è compito degli stati nazionali aver cura dei livelli di sviluppo riconquistando la capacità di politiche anticicliche e avviando una volta per tutte le politiche di riforme strutturali. Quelle sacrosante di riforma delle amministrazioni pubbliche. L’esperienza del Governo Renzi ha però rivelato una volta per tutte la mistificazione e l’irrealizzabilità di esse se non accompagnate da un reale processo di rinascita nazionale antitetico a questa Unione Europea, non fosse che per il fatto che il blocco retrogrado e affossatore, al pari delle élite esterofile, è parte integrante di questa alleanza politica europea. Quelle che in realtà sono una liquidazione senza contropartita valida dei residui poteri di controllo e di indirizzo statuali.

Di fatto l’afflato sovranista del Presidente non si spinge oltre il proprio naso, per quanto importante esso sia.

Le politiche anticicliche sarebbero possibili solo una volta messi a posto i conti pubblici e rispettati quindi i parametri di avvicinamento al deficit zero e al debito del 60%.

La strada è tracciata senza possibilità di variazione. La soluzione sta più che nel controllo delle leve e degli azzardi nella dispersione del rischio. I soggetti, sia pubblici che privati, devono collocare il proprio debito e le proprie attività in un ventaglio di operatori quanto più ampio possibile. Aperti alle acquisizioni estere. Mercati finanziari ancora più ampi e aperti quindi. Draghi, evidentemente, in nome di una virtù astratta mostra di girare altrove il proprio naso di fronte alle evidenze e ai cartelli esistenti nel mondo finanziario in stretto collegamento e integrati in centri decisionali politici.

Mercati per di più non soggetti a un controllo pubblico europeo efficace.

Mario Draghi infatti riconosce, ineffabile che l’Unione e l’Autonomia Fiscale Europee, il sistema politico-economico di controllo e azione più efficace, è politicamente irrealizzabile. Non resta che l’Unione Bancaria le cui condizioni si guarda bene da tracciare, comprese la pervasività degli strumenti di controllo e sanzione, la taratura del peso che la composizione dei prodotti speculativi, delle esposizioni in titoli pubblici e in crediti privati necessaria a qualificare la solidità delle banche. L’ennesimo riconoscimento di una struttura di mercato nella quale agiscono le economie europee, ma determinata sostanzialmente da altri.

Infine la costrizione, la camicia di forza.

Mario Draghi vanta con insistenza e soddisfazione il maggior successo della creazione del mercato unico: i notevoli incrementi di produttività consentiti dall’integrazione economica e dalla creazione di catene di valore continentali che contribuiscono alla creazione del prodotto finale. Una strada per consentire la sopravvivenza della piccola industria italiana produttrice di componentistica. L’afflato sovranista del nostro si riduce alla fine ad uno spirito e una politica di sopravvivenza. Glissa omertosamente sul fatto che a determinare le scelte e le strategie economiche sono i detentori del prodotto finale e delle reti e delle politiche commerciali e di investimento strategico; soggetti sempre più assenti dal panorama politico-economico italico.

Segnala che paradossalmente le situazioni di stagnazione e crisi non portano più ad un abbassamento, ma ad un rialzo dei tassi di interesse rendendo inefficaci le politiche sovraniste legate ai tassi di interesse pubblici.

Avverte che tale integrazione annulla progressivamente gli effetti benefici di eventuali svalutazioni rese possibili dal recupero di sovranità monetaria, grazie al peso crescente delle importazioni nel corredo dei magazzini aziendali.

Il quadro del nostro prode convertito al sovranismo pare a questo punto completo.

I FONDAMENTI DI VERITA’ DELLA LECTIO

Non si può ridurre la locuzione di Draghi a un mero pamphlet propagandistico o ad un anatema inquisitoria. Esso poggia su fondamenti di verità fondati su assetti di potere e dinamiche autoavveranti consolidate e potenti.

La considerazione attenta del peso e dell’autorevolezza del personaggio deve indurre a superare la faciloneria con la quale si prospettano soluzioni alternative ed antitetiche e con la quale si adottano le tattiche politiche.

Mario Draghi ci ha detto tra le righe che il processo di integrazione europei crea dinamiche e corpi sociali in grado di neutralizzare le velleità politiche alternative se non si adottano strategie e azioni in grado di neutralizzare e convertire almeno parte di quei corpi. Lo vediamo nelle contraddizioni e nelle resistenze che stanno via via emergendo e si stanno coagulando all’interno delle due forze politiche di governo. In mancanza di forze alternative credibili e in attesa di sviluppi futuri tutti da costruire e al momento improbabili al vecchio establishment non resta in realtà che fare affidamento soprattutto nelle tattiche di infiltrazione e di scompaginamento. I tentennamenti e le giravolte dei leader della compagine non sono solo il frutto di una loro leggerezza ma l’esito di pressioni contrastanti. Il malumore crescente degli imprenditori legati alla catena di valore ostentata da Mario Draghi, le pressioni autonomiste incontrollate delle regioni avulse da un progetto di riordino delle competenze dello stato centrale sono solo due dei potenti fattori destabilizzanti e restauratori in azione.

Una forte e solida classe dirigente politica non può assecondare, ma non può solo reprimere ed osteggiare tali istanze; deve ricondurle almeno in parte al proprio progetto. Sempre che tale progetto esista.

Se i settori di componentistica sono così importanti, bisogna pensare probabilmente ad una riconversione di essi alla creazione di prodotti finali oppure contribuire a creare soggetti aggregatori alternativi. In alternativa alle case automobilistiche tedesche, pensare a cercare altri interlocutori, magari in Cina o nel politicamente più praticabile Giappone, disposti a ricreare una industria automobilistica nazionale.

Se il problema degli operatori agricoli è l’esposizione ai capricci e alle vessazioni della rete commerciale, bisogna pensare a riprendere il controllo almeno parziale di questa rete e a indirizzarla anche secondo gli orientamenti geopolitici nuovi che potrebbero emergere.

Non si tratta di dividersi in maniera manichea tra keynesiani e liberisti. Si tratta piuttosto di poter riacquisire le leve di una politica monetaria e del debito oculata tale da garantire potenza e forza economica nonché coesione e dinamismo sociale; dall’altro di adottare dove necessario criteri privatistici di gestione tali da consentire l’ottimizzazione dell’utilizzo di risorse finalizzato a obbiettivi definiti.

Un mix di uso corrente nei paesi emergenti e in quelli intenti a mantenere le proprie prerogative di influenza, compresi quelli che predicano le virtù delle aperture incondizionate altrui.

L’UE non brilla di successi economici. Vive un declino fatto di imprese, comprese quelle tedesche, mature e sottodimensionate. Un aspetto che Mario Draghi si guarda bene di evidenziare e di analizzare nelle sue cause. La Germania stessa ha visto precipitare in pochi anni otto delle dieci aziende presenti nel Gotha mondiale nelle graduatorie sottostanti. Le poche stelle emergenti e realtà innovative di successo, a rischio di regredire e risolversi rapidamente in buchi neri, come il Consorzio AIRBUS, il progetto Galileo, sono nati non ostante la diffidenza e l’avversione degli apparati della UE e l’attuazione di politiche dirigiste. Rischi di regressione frutto di compromessi nefasti tra tedeschi e americani a danno dei francesi.

Un uso sagace di essi scevro però da trionfalismi un po’ cialtroni che nascondono in realtà pesanti compromessi e cedimenti poco confessabili da parte di un ceto politico ostaggio di sondaggi e consensi elettorali volubili.

Nell’attuale Governo esistono queste forze, ma sono ridotte e isolate. Riescono al meglio ad acuire le contraddizioni nello scenario europeo, ad avviare surrettiziamente politiche di consolidamento e ricostruzione di particolari apparati prontamente inficiati però da tendenze e pratiche opposte, non ancora in grado quindi di costruire autorevolezza ed egemonia.

Pochi spunti tra i tanti necessari a ricostruire prerogative dello stato nazionale non fini a se stesse ma utili a riproporre su basi paritarie e di autonomia politica, rispetto agli altri grandi attori geopolitici, il sistema di relazioni tra i principali paesi europei.

L’obbiettivo è tradurre questa intenzione in strategie, tattiche e obbiettivi praticabili, pena il rischio di liberarsi da sudditanze ormai ataviche per cadere in altre sotto diverse spoglie.

Quanto a Mario Draghi lasciamolo libero di coltivare le proprie ambizioni. Costringiamolo, però, a rivelarsi per quello che è, impedendogli di coprirsi dell’aura di salvatore della patria.

Il Quantitative Easing è il biglietto da visita del nostro prode. È stato lo strumento per salvare la Grecia e soprattutto l’Italia, ma per mantenerli con l’acqua alla gola. Si glissa opportunisticamente sui vantaggi maggiori che ha lucrato ad esempio la Germania con l’ingresso di capitali a costo zero.

È il classico personaggio vocato ad esporre alle peggiori intemperie le istituzioni che rappresenta e i paesi che governa piuttosto che a costruire navigli solidi e porti sicuri.

Il suo passato in Goldman & Sachs rappresenta un retaggio da non dimenticare e un marchio da non rimuovere.

 

Macron, il re bambino_di Emmanuel Todd_Traduzione di Giuseppe Germinario

Emmanuel Todd: “Lo stato non può essere incarnato da un bambino … o Emmanuel Macron è ora visto come un bambino dai francesi”

Fonte: Atlantico, Emmanuel Todd , 20-12-2018

Esclusivamente per Atlantico, Emmanuel Todd ci fornisce la sua analisi del fenomeno dei giubbotti gialli. Per lo storico, i Yellow Vests rappresentano una forma di padre collettivo in un paese disorientato da un re bambino.

Atlantico: in un contesto segnato dall’emergere del movimento dei giubbotti gialli, qual è oggi la principale sfida affrontata da Emmanuel Macron?

Emmanuel Todd: Al di là di tutte le politiche economiche, sociali, politiche, europee che sorgeranno nel 2019, che sembra terribile, Emmanuel Macron sarà di fronte ad un problema di legittimità assolutamente nuova. Max Weber aveva usato il concetto di potere carismatico; un individuo, un leader, che affascina in modo subliminale e irrazionale ma che non è necessariamente un dittatore pericoloso. E mi sembra che Emmanuel Macron arricchirà le nostre tipologie del concetto di presidente anti-carismatico. Mi spiego Dobbiamo riprendere la sequenza. C’era un elemento carismatico nell’elezione di Macron, che affascinava le classi medio-alte. Ho visto questo intorno a me. Parlava con un’aria un po’ allucinatoria, in un modo che percepivo assolutamente privo di interesse, ma che, nell’ambiente piuttosto macronista in cui vivo, trasportava le persone. Era percepito come giovane e molto intelligente. Credo che la questione della sua intelligenza superiore sia risolta per tutti, tuttavia ha prodotto una crisi sociale senza precedenti in Francia. Ma rimane giovane. E, infatti, quando sentiamo parlare di lui, dei manifestanti o anche dei giornalisti, è chiaro che ora ha l’immagine di un bambino per tutti noi francesi. “È un bambino” “È un bambino cattivo, viziato.”

La possibilità teorica di un’incarnazione stabile dello stato da parte di un bambino non esiste. Nella funzione di governo c’è la funzione paterna; una banalità che non ha atteso Freud e la psicoanalisi. Il re, il presidente, il capo, devono essere un padre. E oggi siamo in una situazione strutturalmente invertita in cui il leader è un bambino e dove non è impossibile che, simmetricamente, i Gilets Gialli rappresentino una forma di padre collettivo. Perché ciò che colpisce di queste rotonde era l’età delle persone. Erano occupati, tra gli altri, da persone dai capelli bianchi, pensionati, padri nel senso generico del termine. Un paese non può vivere con una sfida che rappresenta un’immagine paterna e un leader che rappresenta l’immagine di un bambino.

Quindi, come si fa a interpretare il fatto di un movimento dagli effettivi contenuti, ma sostenuto da una larga maggioranza della popolazione, in un clima insolitamente violento?

Forse uno dei motivi della loro approvazione generale da parte della popolazione corrisponde al modello di autorità inversa. Se iGiubbotti Gialli sono il padre, allora è normale che essi sono, essi stessi, un potere carismatico collettivo e sono supportati dal 70-75% di opinione. Sono la legittimità. Il modello interpretativo funziona molto bene qui. Spiegherebbe anche la tolleranza per la violenza, la cosa più sorprendente. Sarebbe una forma simbolica di sculacciata politica. Più semplicemente: stiamo vivendo una nuova forma di potere vacante che ha tutti i tipi di applicazioni. Ci soffermiamo sull’autorità implicita dei Giubbotti Gialli, ma si pone anche  la questione di un efficace controllo dell’apparato statale da parte di Emmanuel Macron. Non conosciamo quale sia il suo livello di controllo della forza di polizia i cui leader sindacali vengono ad annunciare il primo atto delle loro rivendicazioni il giorno dopo l’atto quinto dei Gilets. Ricadiamo sull’idea che l’autorità non può essere incarnata da un bambino che a partire dai suoi attacchi verbali contro la gente comune a terra, dal caso Benalla, si è costruito anche l’immagine di un bambino violento.

La sua politica europea è in genere immatura. Emmanuel Macron, con le sue riforme radicali, voleva che i francesi si comportassero come bambini saggi e che i tedeschi gli dessero un buon punto. La politica di Emmanuel Macron è da un capo all’altro completamente infantile. L’attuale dibattito a cui stiamo assistendo sulla resistenza di Bercy rafforza questa immagine di un presidente bambino. Un presidente adulto avrebbe già decimato Bercy.

Vedi questo movimento trovare la via della strutturazione politica?

Al di là di Emmanuel Macron, ciò che abbiamo potuto vedere, specialmente negli spettacoli televisivi, è stato un rovesciamento generalizzato del rapporto dell’autorità intellettuale. Abbiamo visto macronisti, enarchi o meno, deputati LREM, persone con un minimo di istruzione e pulizia su di loro di fronte a Giubbotti Gialli emersi dalla base. Ma era così ovvio che erano più intelligenti e dinamici dei superiori istruiti che erano di fronte a loro! Siamo di nuovo qui davanti a un problema di inversione di autorità. Sono rimasto molto colpito dal livello di coerenza e determinazione di queste persone, tuttavia presentato dal sistema dei media come incoerente e incapace di unirsi. Si potrebbe immaginare l’emergere di un partito politico. Daniel Schneidermann, nei suoi commenti a RT France, tendeva verso questa ipotesi. Ma gli ultimi sondaggi di opinione non evocano questo percorso.

Durante i tuoi primi interventi su questo movimento, hai mostrato dispiacere per il fatto che i giubbotti gialli non attacchino l’Europa. Tuttavia, possiamo vedere che i giubbotti gialli sono sovrarappresentati nei cosiddetti partiti “euroscettici”. Come spiega questo paradosso?

Ho deplorato che i gilet gialli non non mettano sotto accusa direttamente, non solo l’euro come cintura monetaria europea, responsabile di gran parte dei mali dell’economia francese, ma anche l’impossibilità di una protezione commerciale nell’Unione europea. Mi dispiace che non ci sia alcun riferimento all’Europa. D’altra parte, quello che colpiva era l’abbondanza di riferimenti alla nazione rivoluzionaria. C’erano bandiere francesi ovunque, cantavano la marsigliese, c’era una richiesta esplicita della nazione come processo rivoluzionario. Questo è molto importante perché se siamo in un processo di rinascita nazionale, il movimento marcia lui stesso verso lo shock frontale con il concetto europeo.

Qualcosa viene lanciato a un livello ideologico profondo. Penso di essere stato un po’ ingenuo, un po’ techno, nella mia concezione delle cose, dicendo solo che dovevamo uscire dall’euro, che è un discorso tecnico. Quello che sta accadendo è molto più profondo e ci mette in una traiettoria di rottura con l’euro. E, naturalmente, è un processo generale in Europa. Ognuna delle nazioni europee viene rinazionalizzata: i tedeschi hanno iniziato il processo, poi gli inglesi con la Brexit, e oggi gli italiani e i francesi. Lo stile di ciascuno è caratteristico della moltiplicazione delle nazioni. Credo che ciò che dobbiamo integrare in Francia sia questa idea della rinascita della nazione rivoluzionaria.

Non ho una visione astratta delle nazioni, non voglio tornare a un’essenza del popolo come è stato fatto in precedenza in deliri nazionalisti, ma le sottostanti strutture familiari tradizionali, che hanno i loro valori legati al mondo moderno o post-moderno. La Germania rimane condizionata dai valori autoritari e ineguali della famiglia, con la sua primogenitura maschile; il liberalismo inglese si riferisce a una famiglia nucleare individualista che fa ampio uso della volontà; la tradizione rivoluzionaria francese si riferisce alla famiglia nucleare egualitaria del bacino parigino, cioè a una precoce autonomia dei bambini e ad un egualitarismo intransigente delle regole ereditarie. Negli ultimi anni, di fronte ad una inerte Francia, come ferma nella storia, con le sue classi dirigenti germanofile, il suo tasso di disoccupazione del 10%, e la sua popolazione passiva, non ero lontano dall’immaginare che la tradizionale cultura francese fosse morta. Ma il movimento dei Giubbotti Gialli, questa formidabile protesta spontanea contro lo Stato, è il risorgere della potente cultura liberale francese, approvata dalla maggioranza della popolazione. Quello che abbiamo appena riscoperto è che, all’interno dell’Unione europea, la Francia esiste ancora. E ora, i politici, se hanno un minimo di intelligenza, dovranno smettere di sognare di trasformare i francesi in tedeschi, e accettare l’idea che è sempre la Francia che si tratta di governare. Questa formidabile protesta spontanea contro lo stato è la potente rinascita della cultura liberale egualitaria francese, approvata dalla maggioranza della popolazione. Quello che abbiamo appena riscoperto è che, all’interno dell’Unione europea, la Francia esiste ancora. E ora, i politici, se hanno un minimo di intelligenza, dovranno smettere di sognare di trasformare i francesi in tedeschi, e accettare l’idea che è sempre la Francia che si tratta di governare.

Come analizzi le difficoltà della sinistra nell’incarnazione di questo movimento?

Se prendiamo gli ultimi sondaggi per le prossime europee, vediamo il Rassemblement National al 24%, Debout France all’8%, quindi France Insoumise al 9%. Quello che stiamo attraversando, forse per me, è un’altra battaglia persa. Ho combattuto per una rinascita della nazione a sinistra, ma quello che sembra emergere è l’incapacità della France Insoumise di incarnare l’idea nazionale. Si sono appena separati da Djordje Kuzmanovic che ha rappresentato questa corrente sovrana. È davvero triste per me, questa incapacità della sinistra, persino quella contestataria, di incarnare e prendere in mano l’idea di nazione.

Seguendo la logica dell’elezione di Donald Trump o Brexit, è la destra di governo che è riuscita a canalizzare e incarnare quelli che potremmo chiamare i Gilet gialli anglosassoni; questo ruolo dovrebbe quindi spettare a LR?

C’è una generalità occidentale del supporto dell’aspirazione nazionale da parte della destra, con Trump e Brexit per esempio. Ma in Francia, la servitù volontaria delle classi superiori nei confronti della Germania frammenta il modello. I LR mi sembrano sempre più vicini a LREM, probabilmente tentati da una fusione degli europeisti, vale a dire gli anti-nazionali, in un’unica forza. Questo è il significato della consultazione di Sarkozy da parte di Macron prima del suo discorso riparatore ai francesi. Noto di sfuggita che Wauquiez soffre anche della sua immagine di bambino.

Perché oggi solo le forze di destra sono in grado di occuparsi delle aspirazioni popolari? C’è un’apparente contraddizione. Ma tutto diventa sorprendente. La rappresentazione ideologica è vacillante, oscillante. Sentiamo che i giovani sovranisti di destra riprendono un discorso di lotta di classe, parlano come il Marx della “lotta di classe in Francia”. Esiste tuttavia una logica di simmetria nella confusione: la realtà socialista prima di Macron era di persone che si ritenevano di sinistra quando erano di destra. Quindi, perché non ora il contrario? L’assurdo bussa alla porta: la scienza politica avrà bisogno di un’ampia infusione di psicoanalisi, di fantascienza e umorismo.

Quindi ho difficoltà a immaginare una traduzione politica dei giubbotti gialli. Quello che osservo è piuttosto un aumento della sovranità di destra che si incarna nella DLF e nella RN e, incidentalmente, Florian Philippot al suo piccolo livello. Sarebbe pericoloso per gli europeisti rallegrarsi di questo implicito rinnovamento della scissione delle ultime elezioni presidenziali. La situazione diventa così grave che non è più certo che “il bambino” sarà rieletto.

Quali sono le particolarità francesi di questa tendenza “voto Brexit e Trump”?

La più grande di queste è in Francia la violenza dello scontro tra un mondo popolare e di classi medie che aspirano alla rinazionalizzazione e le classi superiori che raggiungono un livello eccezionale di universalismo post-nazionale. Io lo percepisco come una perversione dell’universalismo Francese sostenuto dalle sue classi superiori, un sogno umano universale per i soli potenti. “Educati in alto di tutti i paesi, unitevi!” È, naturalmente, di solito il sogno della globalizzazione, ma è probabile che in Francia, con il nostro concetto di uomo universale, il mito ha preso forme isteriche che si fonde in modo sottile con il nostro bisogno di sottomissione alla Germania. “Uomo universale borghese ben oltre il trauma del 1.940” la strada maestra per una denazionalizzazione della classe dirigente francese. O per meglio dire, il tradimento.

Come anticipi le conseguenze di questo movimento a medio-lungo termine?

Il movimento attuale può portare a qualcosa di diverso da quello che abbiamo vissuto con le elezioni politiche del 2017. L’ortodossia politologica benpensante ci dice: da una parte ci sarebbe una forza fascista xenofoba, il Rassemblement National (RN), e dall’altra una forza democratica, moderata e universalista, l’europeismo. Ma non è la realtà. è ciò che David Adler ha rivelato nel New York Times lo scorso maggio: i centristi sono i più ostili alla democrazia. La realtà del mondo è che le forze europee sono autoritarie e antidemocratiche, i vettori del fascismo 2.0. I referendum sono inutili nell’Unione e il punto di svolta per la Francia in questo campo è stato il 2005. Nel 2018, la personalità di Emmanuel Macron ha svelato una natura autoritaria e violenta dell’europeismo con la pretesa di rappresentare valori democratici e liberali. Il macronismo è un estremismo.

Mi sembra che la polarità che si instaura sia un’opposizione tra la “nazione rivoluzionaria”, con una dimensione xenofoba, evidente nella dottrina del RN “e un” impero autoritario europeo “. Democrazia xenofoba contro sistema imperiale. Nel mio ultimo libro, “Dove siamo? Sono tornato alle origini della democrazia e ho notato che era sempre, in un primo momento, più o meno xenofoba. Un particolare popolo che si organizza liberamente internamente ma contro un altro. Questo era il caso della democrazia ateniese, della democrazia americana, razzista nei confronti dei neri e degli indiani, della proto-democrazia inglese, anticattolica. D’altra parte, l’idea di uomo universale ci viene da Roma, derivata dal principio del dominio imperiale.

La polarità che si sta stabilendo in Europa è quindi un ritorno al punto di partenza. L’impero europeo agita il concetto universale, con la riserva che non tutti gli uomini sono realmente uguali nello spazio europeo. Il voto dei francesi vale meno di uno tedesco, quello di un italiano meno di uno francese, quello greco meno di tutti. Ma l’impero europeo sembra affermare un universalismo senza gradazione nel suo sogno di aprire ai profughi. Ci sentiamo paradossalmente di fronte a un ansia crescente di persone che vogliono un maggiore controllo delle frontiere, contrapposta a un crescente immigrazionismo delle classi istruite. Questa polarizzazione aggiuntiva e totalmente irragionevole è affascinante per lo storico.

Vivremo un incredibile anno 2019. Non sappiamo come cambierà la Brexit, ma è difficile immaginare che gli americani accettino un’Europa dominata dai tedeschi; non sappiamo come andranno le cose anche in Italia. La Francia è paralizzata e la Germania mostra segni di instabilità. La nostra unica certezza è che il tenore di vita continuerà a diminuire per le persone comuni. In tale contesto, si potrebbe davvero imporre l’idea che il vero confronto non sia più tra “fascismo xenofobo” e “democrazia liberale” (l’ortodossia degli ultimi vent’anni), ma tra “democrazia xenofoba” e ” impero autoritario”. E il possibile cambiamento non finisce qui: l’immigrazionismo delle élite, con demografi ufficiali del regime che continuano ad affermare che non vi è alcun problema di immigrazione o integrazione, potrebbe trasformare nelle menti di persone moderate l’originale “xenofobia” del Front National in un legittimo desiderio di un minimo di sicurezza territoriale per la popolazione francese, compresi bambini e nipoti di immigrati nordafricani. Nessuna democrazia rappresentativa è possibile senza un minimo di sicurezza territoriale. Solo l’Impero può far fronte al caos migratorio. E se, inoltre, in un tale contesto, il candidato dell’Impero europeo autoritario ha un’immagine infantile, allora non possiamo escludere la vittoria nel secondo turno delle forze combinate del RN e di Dupont-Aignan.

Quindi escludi l’ipotesi che le élite attuali tengano conto delle aspirazioni delle classi medie e medie?

Considero il peggio, ma ben inteso per evitare il peggio. L’idea che io difendo nel post scriptum al mio ultimo libro è quella di una nuova negoziazione tra la classe superiore e il mondo popolare, conla presa in carico della necessità di nazione da parte delle élite tradizionali. Se cito situazioni di polarizzazione drammatica, è, naturalmente, con la speranza che le persone diventino consapevoli dei rischi e facciano il necessario per evitarli. Sembra, tuttavia, che Emmanuel Macron sia ora un ulteriore ostacolo in questo processo. Ci si chiede se sarà in uno stato intellettuale, psicologico e di legittimità per governare nei prossimi tre anni. Si può sognare un miracolo: lo Spirito Santo che cade su Emmanuel Macron, che capirebbe che dobbiamo uscire dall’euro. Ma non vedo da nessuna parte, né in economia, o nel suo rapporto con Donald Trump, o Vladimir Putin, o il suo approccio alla Brexit, un qualsiasi elemento di flessibilità mentale e originalità. Vedo un elettroencefalogramma piatto. La mia sensazione è che lo shock liberatorio verrà a noi dal di fuori; da un cattiva gestione della Brexit che devasta l’economia europea oppure dalla Germania talmente irrigidita da costringere le classi superiori italiane e francesi alla indipendenza.

Nell’episodio dei Giubbotti Gialli, l’elemento più inquietante è stato l’aumento della violenza da entrambe le parti e la tolleranza della società francese a questa crescente violenza. L’elemento più rassicurante era la simpatia del 70-75% della popolazione per i giubbotti gialli, una simpatia che, a vari livelli, comprendeva ancora l’intera società francese, tutte le categorie sociali, che coinvolgeva persino persone che hanno votato per Emmanuel Macron. Questa solidarietà globale significa che esiste la possibilità di riconciliazione in Francia. La verità della società francese non è l’odio universale. Ma per conseguire una riconciliazione praticabile tra le élite e il popolo, dobbiamo abbandonare gli ormeggi europei, ritrovarci tra francesi, rimboccarci le maniche per riavviare l’economia e la società.

Fonte: Atlantico, Emmanuel Todd , 20-12-2018

Sbagliando s’impara Prima sconfitta, prime riflessioni_di Roberto Buffagni

Sbagliando s’impara

Prima sconfitta, prime riflessioni

 

La trattativa ancora in corso con l’UE segna la prima sconfitta del governo gialloverde. Le sconfitte sono sempre istruttive: usiamola per sbagliare meno e costruire le condizioni della vittoria.

Perché abbiamo perso?

Abbiamo perso perché abbiamo cercato lo scontro sul terreno più favorevole all’avversario, e in condizioni d’inferiorità. Una descrizione dei fatti più che condivisibile è questa di Giorgio La Malfa[1]. Il terreno più favorevole alla UE è il terreno delle regole, dei trattati e della loro “interpretazione autentica”, vulgo la risultante dei rapporti di forza interstatali e interni agli organismi UE, espressa nel linguaggio della razionalità strumentale in un reticolo inestricabile di norme. Il governo è andato a trattare sulla base di due presupposti incompatibili: a) regole, trattati e loro “interpretazione autentica”, sono legittimi benché discutibili e riformabili, come tutto è discutibile e riformabile b)  rivendicando la propria legittimità in quanto espressione della sovranità popolare.

Legittimità A, legittimità B

La legittimità A è la legittimità della UE. Essa si fonda sulla rivendicazione del possesso monopolistico di Tecnica e Scienza, nelle loro varie specificazioni di tecnica e scienza giuridica, economica, politica, etc. In parole povere, l’UE fonda la propria legittimità sulla garanzia scientifica che essa sola sa assicurare “libertà, pace, benessere e progresso per il maggior numero possibile”, in un inedito insediamento al posto di comando politico della razionalità strumentale, weberianamente intesa e ideologicamente declinata in scientismo, utilitarismo, liberalismo (in percentuali variabili). Questa è la legittimità di principio della UE. La sua legittimità di fatto è il fatto nudo e crudo che esiste da un tempo non lungo ma neppur brevissimo, e che la sua esistenza produce effetti più che considerevoli. Che siano buoni o cattivi è materia opinabile: buoni per alcuni, cattivi per altri.

La legittimità B è la legittimità del governo italiano. Essa si fonda sul consenso elettorale della maggioranza degli italiani. Questa è la sua legittimità di principio, ma anche la sua legittimità di fatto, perché è revocabile alle prossime elezioni politiche nazionali.

L’incompatibilità fra legittimità A e legittimità B non è minore dell’incompatibilità fra il principio legittimante l’ancien régime – voto per ordine, conforme la tripartizione indoeuropea tra oratores, bellatores e laboratores –  e il principio democratico e nazionale, voto per testa dei cittadini, che il Terzo Stato rivendicò nella seduta degli Stati Generali di Francia del 6 maggio 1789.

Sul piano ideale, il conflitto tra queste due fonti di legittimità mette in questione le radici stesse della civiltà europea e della modernità occidentale, schierandole in campi avversi sul Kampfplatz filosofico-politico. Sul piano pratico, il conflitto precipita in una domanda molto semplice: “chi ha l’ultima parola?”

A prima vista, la risposta a questa domanda è: “ha l’ultima parola chi dispone della forza maggiore”. Non è una risposta errata, ma è incompleta, perché la forza può presentarsi in molte forme. Nei rapporti tra Unione Europea e governi, il rapporto di forza non viene deciso dalla forza militare. L’Unione Europea non ne dispone, ma i governi che ne fanno parte, che pur ne dispongono, non vogliono né possono farne uso: non possono, perché l’uso della forza militare contro un’entità che ne è affatto priva e alla quale si aderisce formalmente è un atto di barbarie che ha costi politici insostenibili (perdita pressoché totale di consenso e legittimazione morale).

Nei rapporti fra Unione Europea e governi, ha l’ultima parola chi decide la grammatica e la sintassi del linguaggio all’interno del quale non solo l’ultima, ma tutte le parole prendono senso.

“Quando uso una parola, ” disse Humpty Dumpty in tono piuttosto sdegnato, “essa significa esattamente quello che voglio – né di più né di meno.”

 “La domanda è, ” rispose Alice, “se si può fare in modo che le parole abbiano tanti significati diversi.”

  “La domanda è, ” replicò Humpty Dumpty, “chi è che comanda – tutto qui.”[2]

 

Chi ha l’ultima parola

Un governo che tratta con l’Unione Europea entra in una camera per il condizionamento operante, o “Skinner box”.[3].

1 Skinner Box

 

 

Una camera per il condizionamento operante consente agli sperimentatori di studiare il comportamento, addestrando la cavia a compiere certe azioni, (es., spingere una leva) in risposta a stimoli specifici, quali una luce o un segnale sonoro. Quando la cavia esegue correttamente il comportamento prescritto, il meccanismo della camera gli consegna del cibo, o un’altra ricompensa. In certi casi, il meccanismo infligge una punizione in caso di risposte scorrette o omesse. Per esempio, per testare il funzionamento del condizionamento operante sugli invertebrati, gli psicologi usano uno strumento denominato heat box, “scatola bollente”. La forma è analoga a quella della Skinner box, ma la scatola è composta di due lati: uno può mutare temperatura, l’altro no. Appena l’invertebrato passa sul lato che può mutare temperatura, la scatola viene riscaldata. Alla fine, l’invertebrato sarà condizionato a restare sul lato che non si può scaldare.

Tra le applicazioni commerciali di maggior successo della Skinner box, le slot machines, o le macchine per videopoker. Il successo commerciale di slot machines e videopoker dipende dal fatto che più a lungo si gioca, più si è destinati a perdere (= successo commerciale per i fabbricanti, insuccesso per i consumatori).

 

Uomini e topi

Un giorno, qualcuno pose a Skinner la domanda: “Che differenze ci sono tra gli uomini e i topi?”. Da scienziato qual era, per rispondere alla domanda Skinner organizzò un esperimento con i suoi studenti. Si costruirono due labirinti identici, uno per i topi e uno per gli umani. La ricompensa, posta al centro del labirinto, era un pezzo di formaggio per i topi e una ricompensa in denaro (5 $) per gli umani.

Risultato: Skinner scopre che  non ci sono differenze nei tempi di apprendimento tra umani e topi. Nel giro di una giornata, entrambi sono in grado di trovare la ricompensa. Ma Skinner non si accontenta, e perfeziona l’esperimento. Elimina le ricompense dai labirinti, e ripete l’esperimento con gli stessi partecipanti: stessi uomini, stessi topi. Tutti gli umani si prestano a ripetere l’esperimento, contro una percentuale del 70% dei topi. Al terzo giorno senza ricompensa, solo il 30% dei topi ripercorre il labirinto, contro il 100% degli uomini. Dopo una settimana senza ricompense, nessun topo entra più nel labirinto, mentre un numero considerevole di uomini ancora va in cerca dei 5 dollari. Dopo un mese, c’è ancora qualche uomo che vaga nel labirinto in cerca della ricompensa.[4]

Differenza tra uomini e topi: gli uomini immaginano, sperano e si illudono; i topi, no. Come diceva Wittgenstein: “Niente è così difficile come non ingannare se stessi.”

 

“Come mi riesce difficile vedere ciò che è davanti ai miei occhi!”[5]

La trattativa tra governo italiano e UE è andata così, proprio come in una Skinner box. Siamo partiti per spezzare le reni a Bruxelles sventolando dai balconi un 2,4% tricolore, e siamo finiti a trattare affannosamente nel cuore della notte su quanti centimetri di fregatura avremmo dovuto alloggiare nelle più intime cavità del nostro corpo. Risultato (ancora indeterminato mentre scrivo): più meno gli stessi centimetri di fregatura che ci saremmo presi se fossimo stati zitti e buoni, e senza promettere nulla, senza sventolare tricolori e percentuali, senza invocare sovranità popolari e nazionali, avessimo fatto un po’ di modesto tira e molla per telefono e ci fossimo accontentati del risultato senza fare tante storie.

A chi mi contesterà che sono ingeneroso e impietoso, che è facile criticare in poltrona e difficile agire sulla linea del fuoco, rispondo che non a caso ho usato la prima persona plurale “noi”. Noi vuole dire anch’io: anch’io ho sbagliato e sottovalutato l’avversario anzi il nemico, e anch’io subisco questa sconfitta, che non è decisiva o addirittura irrimediabile, ma che lo può diventare se non cerchiamo, tutti, di trarne insegnamento per il futuro.

Il primo insegnamento da trarre da questa sconfitta è: non incoraggiare la tendenza a illudersi, nostra personale e del popolo italiano. E’ il lato in ombra della più bella e unica facoltà dell’uomo, quella che lo distingue dai topi: la capacità di immaginare e di sperare, ed è tanto funesta quanto immaginazione e speranza sono provvidenziali. Modestia e serietà, non rodomontate.

Il secondo insegnamento è: il livello principale dello scontro è metapolitico. Questa è una guerra coperta “che non osa dire il suo nome”, tra nemici che si parlano nel linguaggio dell’amicizia, tra padroni e servi che si parlano come pari. Il compito metapolitico principale è trasformarla in guerra aperta, dove sia possibile chiamare pubblicamente, faccia a faccia, nemico il nemico, padrone il padrone. E’ una battaglia difficile e lunga, prima si comincia meglio è. Quindi, se le forze politiche al governo intendono sopravvivere e raggiungere i loro obiettivi, diano vita a centri studi e think tank, facciano del loro meglio per influenzare e ingrandire la piccola parte di accademia che non è pregiudizialmente avversa, attirino intellettuali di valore e prestigio, e non mettano professori di ginnastica al MIUR e opportunisti in posizioni apicali dell’industria culturale.

Il terzo insegnamento è: sabotare la Skinner box. Sabotare la Skinner box prima di doverci rientrare (accadrà presto). Sabotare la Skinner box vuol dire: dotarsi degli strumenti legislativi e delle competenze necessarie per disattivare alcuni dei meccanismi punizione/ricompensa della UE, ad esempio abolendo il pareggio di bilancio sciaguratamente inserito in Costituzione. Non è il mio campo di competenza, ma per fortuna i competenti non mancano: per esempio, Luciano Barra Caracciolo[6], che non dubito abbia elaborato una lista delle più urgenti modifiche legislative indispensabili per migliorare i rapporti di forza tra governo italiano e UE. Sta al governo, basta telefonargli o andarlo a trovare in ufficio.

Il quarto insegnamento è un corollario del terzo: i voti sono munizioni, senza armi le munizioni non servono. Le armi decisive per lo scontro con l’UE sono i provvedimenti di legge che ci consentono di sabotare la Skinner box.

Il quinto insegnamento è: senza strategia, la tattica si risolve in opportunismo, a volte fortunato ma più spesso no. Strategia vuol dire: individuare l’obiettivo fondamentale da raggiungere, e commisurarvi i mezzi operativi per conseguirlo. Per i gialli, l’obiettivo fondamentale può essere la piena occupazione. Per i verdi, l’obiettivo fondamentale può essere la tutela delle imprese che operano principalmente sul mercato interno italiano. Sono due obiettivi compatibili, benché soggetti alle inevitabili frizioni tra imprenditoria e forza lavoro e alla divisione Nord-Sud. Costituiscono dunque una solida base per la possibile coesione del governo. Se questi sono i loro obiettivi fondamentali, si chiedano i gialli e i verdi se è possibile conseguirli all’interno della UE e dell’euro, e si diano una risposta. Secondo me no, ma quel che importa è decidere e trarne le conseguenze. In assenza di decisione, la Skinner box predispone l’arrivo del “momento Tsipras”, come cortesemente anticipato dal sen. Monti.

Conclusione

Per concludere, prendo in prestito una citazione a un politico rivoluzionario[7] per il quale non nutro simpatia ideologica, ma che qualcosetta ha pur combinato: “la frase rivoluzionaria sulla guerra rivoluzionaria può causare la rovina della rivoluzione”. Che cos’è la frase rivoluzionaria? “parole d’ordine magnifiche, attraenti, inebrianti, che non hanno nessun fondamento sotto di sé”. Come commenta l’amico Alessandro Visalli, al quale sto rubando queste ultime righe[8], le parole d’ordine sono ‘magnifiche’ perché contengono solo “sentimenti, desideri, collera, indignazione”, ma niente altro. Quando si pronunciano ‘frasi rivoluzionarie’… “si ha paura di analizzare la realtà oggettiva…se non sai adattarti, se non sei disposto a strisciare sul ventre, nel fango, non sei un rivoluzionario, ma un chiacchierone”. Ciò non significa che piaccia, ma che “non c’è altra via” che tenere conto della realtà; la “rivoluzione mondiale”, che prevedrebbe di abbandonare la costruzione del socialismo intanto dove concretamente si può tentare, per Lenin arriverà pure, ma, scrivendo nel 1918, “per ora è solo una magnifica favola, una bellissima favola”; dunque crederci nell’immediato significa che “solo nel vostro pensiero, nei vostri desideri superate le difficoltà che la storia ha fatto sorgere”.

Ciò che va fatto è del tutto diverso, dice il vecchio rivoluzionario russo: bisogna “porre alla base della propria tattica, anzitutto e soprattutto, l’analisi precisa della situazione obiettiva”.

[1] https://www.quotidiano.net/commento/deficit-pil-1.4344583

[2] LEWIS CARROLL (Charles L. Dodgson), Through the Looking-Glass (1872) , capitolo VI. Trad. mia.

[3] https://en.wikipedia.org/wiki/Operant_conditioning_chamber#Skinner_box

[4]  Richard Bandler e John Grinder, Frogs into Princes: Neurolinguistic Programming,  Real People Pr, 1981 https://www.amazon.it/Frogs-into-Princes-Linguistic-Programming/dp/0911226184

[5] E’ un’altra citazione di Ludwig Wittgenstein.

[6] Si veda ad esempio questo suo scritto: https://orizzonte48.blogspot.com/2018/01/la-presunta-supremazia-del-diritto.html

[7] Vladimir I. Lenin, Rivoluzione in occidente e infantilismo di sinistra, ed. Riuniti, 1974

[8] https://tempofertile.blogspot.com/2018/12/circa-marco-bascetta-una-formula-di.html

Il Progetto dell’Unione Europea è finito, la Nato è lo strumento degli Usa nel conflitto strategico della fase multicentrica. di Luigi Longo

Il Progetto dell’Unione Europea è finito, la Nato è lo strumento degli Usa nel conflitto strategico della fase multicentrica.

di Luigi Longo

 

 

[…] la Nato non è un’alleanza fra eguali. Essa pone

                                                           necessariamente gli alleati europei in posizione di

                                                           subalternità e li costringe ad allinearsi agli obiettivi

                                                           degli Stati Uniti. […] La storia degli ultimi dieci anni,

                                                           dalla guerra del Golfo a quella del Kosovo, dimostra che

                                                           la Nato non agisce e non agirà mai se non al servizio degli

                                                           obiettivi di Washington e niente altro. La Nato interverrà

                                                           solo se gli Stati Uniti lo decidono e non agirà se essi non lo

                                                           vogliono.

Samir Amin*

 

Lo spazio della resistenza è la matrice di ogni possibile

                                                           futuro cambiamento. Da esso possiamo aspettarci, pur

                                                           se non ancora a breve termine, anche una resistenza al

                                                           bombardamento etico ed all’interventismo umanitario,

                                                           che scommettono sull’idiozia e sull’ignoranza dell’uomo.

                                                           Ma l’uomo è un animale idiota ed ignorante, quando lo è,

                                                           solo a breve termine. A lungo termine l’uomo è un animale

                                                           reattivo e intelligente.

Costanzo Preve**

 

 

L’Europa e il progetto degli Stati Uniti d’America

 

Il declino dell’Europa inizia con la prima guerra mondiale e si consolida con la seconda guerra mondiale. Con le due guerre gli Stati Uniti si sono affermati come potenza mondiale egemone il cui inizio può essere datato con la guerra di secessione (1861-1865) che < […] era stata un fenomeno importantissimo sì, ma non solo americano. La sua portata mondiale nacque dal fatto che essa fu la prima guerra “industriale” dell’età contemporanea, il prodromo mal studiato e incompreso dei due conflitti mondiali in cui naufragò quel mondo di nazioni la cui comparsa aveva segnato l’inizio dell’età moderna.>> (1).

Avanzerò alcune riflessioni sulla fine dell’Unione Europea come espressione del progetto statunitense nella fase monocentrica e la metamorfosi della Nato come nuovo strumento degli Usa nel conflitto strategico della fase multicentrica (2).

Si chiude una fase che è iniziata nel secondo dopoguerra con l’affermazione definitiva della potenza degli Stati Uniti come centro di coordinamento, prima nella << Grande Area >> comprendente l’emisfero occidentale, l’Estremo Oriente e l’ex impero britannico con le sue risorse energetiche mediorientali, e dopo, nel mondo intero, con la implosione del socialismo irrealizzato dell’URSS e del suo blocco (1990-1991, preceduta dalla caduta del muro di Berlino del 1989): << […] All’interno della Grande Area gli Stati Uniti avrebbero conservato un “potere incontrastato” e la “supremazia militare ed economica”, e avrebbero allo stesso tempo “limitato qualsiasi esercizio di sovranità” da parte degli Stati che potevano intralciare i loro piani >> (3).

L’attuale Europa è figlia del progetto ideato e attuato dagli agenti strategici statunitensi nella fase monocentrica << L’Unione Europea […] non sarebbe mai diventata tale se non fosse stata il progetto, pensato, finanziato e guidato segretamente dagli Stati Uniti, di uno Stato Federale europeo politicamente a loro legato, per non dire vassallo degli Usa, come è emerso da documenti alcuni venuti alla luce nel 1997, altri desecretati nel 2000 grazie a un ricercatore della Georgetown University di Washington, Joshua Paul. Un piano volutamente portato avanti sotto traccia e gradualmente dal dopoguerra a oggi […] >> (4).

Il progetto Europa statunitense è stato imposto sia con il consenso attraverso il Piano Marshall (1947-1948): << Il 5 giugno 1947, meno di tre mesi dopo il drammatico discorso con cui era stata enunciata la Dottrina Truman (del mondo libero sotto l’egida statunitense, mia precisazione), il segretario di stato George C. Marshall […] parlò della necessità di elaborare un nuovo piano di aiuti per l’Europa […] comitati americani ed europei occidentali formularono un piano (l’ERP) a carattere quadriennale, sotto la direzione degli Stati Uniti, che prevedeva una serie di sovvenzioni e di prestiti gestiti da un nuovo organismo del governo americano denominato Amministrazione per la Cooperazione Economica (ECA). Con l’inclusione della Germania occidentale, ma senza la partecipazione dell’Unione Sovietica e degli altri paesi dell’Europa orientale, e al di fuori della Commissione Economica delle Nazioni Unite per l’Europa (ECE), l’ERP contribuì non poco a creare la violenta rottura del periodo della guerra fredda. Tale situazione si aggravò poi per la maniera provocatoria con cui gli Stati Uniti, ignorando l’ECE, delinearono e presentarono il Piano Marshall ma anche per l’intransigenza dell’URSS, che interpretò l’ERP come un’aggressiva iniziativa antisovietica. Secondo un commentatore, “con il Piano Marshall la guerra fredda assume il carattere di una guerra di posizione. Entrambe le parti si cristallizzarono su posizioni di ostilità reciproca”. Sia l’Unione Sovietica che gli Stati Uniti cercarono reciprocamente di creare piani di ricostruzione per le loro sfere di influenze; il confronto sembrò istituzionalizzarsi con i Piani Marshall e Molotov >> (5); sia con la forza attraverso la NATO (1949) << Lo strumento principale al servizio della strategia di Washington è la Nato, il che spiega il suo sopravvivere al crollo dell’avversario contro il quale era stata creata. La Nato oggi parla in nome della “comunità internazionale”, esprimendo anche con questo il suo disprezzo per il principio democratico che governa questa comunità per mezzo dell’Onu. […] L’obiettivo ben confessato di questa strategia è di non tollerare l’esistenza di alcuna potenza capace di resistere ai comandi di Washington, e cercare quindi di smantellare tutti i paesi giudicati “troppo grandi” per creare il massimo numero di stati satelliti, prede facili per stabilire basi americane destinate alla loro “protezione”. Uno stato solo ha il diritto di essere “grande”: gli Stati Uniti […] >> (6).

 

 

 

La metamorfosi della Nato e il declino degli USA

 

Ho già accennato alla metamorfosi della Nato in precedenti scritti (7). Un cambiamento di ruolo che non è solo quello militare ma economico, di sviluppo di territori, di sicurezza, di controllo, di penetrazione e di ampliamento dell’area di influenza in funzione del conflitto con le potenze mondiali emergenti (pensiamo, per esempio, alla guerra economica sulle fonti energetiche russe e sulle nuove vie della seta cinesi).

Qui voglio evidenziare soltanto il ruolo della Nato come strumento diretto di controllo per le nuove strategie statunitensi che la fase multicentrica impone, dell’Europa (8).

La Nato diventa una organizzazione che tiene insieme l’Europa, attraverso una centralizzazione della filiera del comando con una sfera decisiva militare e istituzionale-territoriale (9), per l’approntamento di opere infrastrutturali funzionali allargamento delle sfere di influenza e di contrasto alle due potenze mondiali protagoniste dell’attuale fase multicentrica (10). Inoltre gli Usa prediligono in maniera più strutturale i rapporti bilaterali con gli Stati europei (non dimentichiamo che l’Europa non è un soggetto politico) per realizzare a) le strategie del divide et impera, b) l’utilizzo delle basi militari presenti in tutta Europa soprattutto in Germania e in Italia, c) le linee guida dello sviluppo, degli Stati o di macro regioni, finalizzato alle esigenze delle proprie strategie. Una sorta di sistemi di valori territoriali (11) embedded nelle strategie statunitensi che mantengono l’unità europea con il controllo militare (le basi militari che occupano il continente Europa vorranno dire pure qualcosa!!!) ed economico (si pensi, per esempio, all’Italia e ai suoi territori e città Nato; alla spesa militare italiana integrata ed al servizio della politica militare Nato) (12).

Fabio Mini coglie parzialmente, nella misura in cui non dà il peso determinante egemonico agli Stati Uniti, la questione del rapporto Europa-Nato:<< […] Senza una vera e propria autonomia nella politica estera e di sicurezza l’Unione Europea ha dovuto affidarsi alla Nato che così ha potuto affiancare gli Stati Uniti nel loro intento d’impedire la nascita di una entità sovranazionale autonoma e indipendente. […] L’organizzazione politico-militare dell’Unione prevede una serie di duplicati di quella Nato che consentono soltanto equilibrismi, giochi di cappello e di ruolo. La stessa struttura di comando e controllo politico-militare è ridondante nel numero e inefficace nei risultati. La responsabilità di tutti i paesi membri e in particolare dell’Italia è grave non tanto per ciò che hanno combinato ma per ciò che non hanno fatto. Non hanno preteso la costituzione di un vero collante giuridico e politico fra i paesi membri, non hanno promosso la costituzione di un esercito comune, anzi tramite la politica industriale della difesa hanno incrementato la dipendenza dagli americani (corsivo mio). Non hanno resistito alle pressioni esterne e hanno permesso che l’Europa fosse di nuovo divisa in blocchi e che l’Unione Europea fosse divisa in fazioni. […] La Nato al servizio degli Stati Uniti dovrebbe essere un assetto importante. In realtà quello che conta per loro è la capacità della Nato di tenere sotto controllo tutti gli altri paesi, volenti o nolenti. Lo scopo principale della stessa alleanza è quello di mantenere la coesione dei membri. Nel momento in cui tale coesione scricchiola, l’alleanza non è più utile e le pressioni americane si spostano sui singoli Stati membri (corsivo mio). La stessa Nato diventa un tramite e una vittima consapevole e contenta di tali pressioni dirette ad aumentare i bilanci militari. Le pressioni sono esercitate anche con l’apertura di nuove missioni all’esterno o all’interno della stessa alleanza. Spesso crisi e salassi avvengono contemporaneamente e i paesi della Nato devono subirle mentre l’organizzazione della Nato, controllata dai neo-filoamericani dell’Europa orientale e settentrionale, si adopera per eliminare le eventuali e sempre deboli resistenze: un compito complementare e marginale che non conta molto nemmeno per gli stessi americani >> (13).

Sergio Romano, invece, non coglie il problema del rapporto Europa-Nato quando afferma, riprendendo la risposta di Donald Trump a Emmanuel Macron che parlava di sicurezza europea avanzando il disegno della Comunità Europea di Difesa (Sic!), << […] Ma l’organizzazione militare del Patto Atlantico, soprattutto all’epoca di Trump, non sembra essere in grado di dare una risposta convincente al problema della sicurezza europea. E’ stata usata dagli americani per guerre che si sono dimostrate sbagliate e ha avuto l’effetto, dopo la sua estensione al di là della vecchia cortina di ferro, di peggiorare i nostri rapporti con la Russia >> (14).

Il problema che non si vuole vedere per tante ragioni è che gli Usa comandano la Nato e attraverso di essa realizzano le loro strategie di conflitto strategico nell’attuale fase multicentrica. L’Europa è subordinata tramite la Nato agli Usa; pertanto, la questione da porre è: come uscire dalla sudditanza europea statunitense e quale progetto-processo di uscita dalla Nato per ri-costruire una Europa indipendente e autonoma che sappia dialogare con l’Oriente, la cui visione multicentrica delle potenze può bloccare la sciagurata fase policentrica che significa il conflitto militare (15).

Gli Usa non hanno una nuova visione del mondo per fermare il proprio declino, relativo o accentuato che sia, (16) e ri-lanciare la sfida egemonica della fase multicentrica, nè Donald Trump e i centri strategici che rappresenta sono nelle condizioni di costruire una nuova visione. Gli Usa sono una potenza in declino e non hanno la forza economica, scientifica, culturale e politica per rilanciare e costruire un nuovo modello di egemonia capace di sconfiggere le potenze mondiali che si stanno organizzando per mettere in discussione l’ordine monocentrico e affermare l’ordine mondiale multicentrico (17).

Nella fase multicentrica (a maggior ragione nella fase policentrica) la sfera militare assume un particolare peso nella formazione del blocco degli agenti strategici egemonici che delineano le linee del conflitto tra le potenze mondiali (è da approfondire la teoria, la pratica e la pratica teorica della relazione tra gli agenti strategici delle sfere sociali che configurano il blocco egemone strategico).

Nella presidenza Trump sta prevalendo la sfera militare (non è un caso la forte presenza politica di provenienza militare) che basa la sua strategia di contrasto al declino e di rilancio della egemonia solo sulla forza, avendo scelto, per la peculiare storia statunitense, la strada dell’accumulazione distruttiva (18).

 

 

Dal progetto UE della fase monocentrica al progetto Nato della fase multicentrica

 

La Nato diventa lo strumento di coordinamento dell’Europa per le strategie Usa nell’arginare le potenze mondiali della fase multicentrica, al contrario del recente passato dove era l’Unione Europea, con i suoi luoghi istituzionali e i suoi agenti strategici esecutori e gestionali, lo strumento di coordinamento.

Il progetto UE degli Usa, creato nel secondo dopoguerra, cessa la sua funzione e viene sostituito dal progetto Nato: dalla guerra di posizione della fase monocentrica alla guerra di movimento della fase multicentrica.

Con la fine del progetto UE finirà anche l’euro (19) che è un sistema monetario dipendente da quello basato sul dollaro (il denaro è un simbolo delle relazioni sociali e dei rapporti di forza nonché strumento di lotta tra dominanti): saranno i tempi delle strategie statunitensi a eliminare l’euro e le sue gerarchie di valori territoriali nazionali [si pensi al ruolo primario della Germania e a quello secondario della Francia (20)].

Una volta eliminato il sistema basato sull’euro, sostituito con quello basato sulla Nato, il vassallo tedesco e il valvassore francese dovranno trovare altri campi economico-finanziari per difendere il loro sviluppo nazionale in competizione con altre economie nazionali (valvassini); i predominanti statunitensi con il nuovo sistema monetario e le nuove architetture istituzionali (costruzione di nuove gerarchie) imporranno sia relazioni dirette con le nazioni europee, sia il loro coordinamento per la realizzazione delle loro strategie.

I valvassini liberati dal sistema dell’euro possono competere e valorizzare le loro qualità sociali e le loro peculiari risorse storiche e possono scardinare e comporre nuove gerarchie basate su nuovi sistemi territoriali di valore.

Per l’Italia e la Germania la situazione è particolare, come racconta Marco Della Luna << […] l’Italia è collocata, per ragioni storiche di sconfitte militari, in una posizione di sudditanza rispetto a certe potenze straniere e ai loro interessi (lo dimostra il fatto che, a 73 anni dalla II Guerra Mondiale, è ancora occupata da circa 130 basi militari statunitensi), cioè si trova in posizione subordinata entro la gerarchia degli Stati, e deve obbedire entro un foedus iniquum (patto di alleanza asimmetrico, mia precisazione), per dirla nel latino giuridico. Si sa che, per Italia e Germania, esistono in tal senso protocolli aggiunti al trattato di pace con gli Alleati, il cui contenuto non è pubblico, e che vengono fatti sottoscrivere ai capi del governo. I suoi presidenti della Repubblica e i predetti magistrati sono garanti di questa obbedienza agli interessi stranieri e non fanno altro che impedire che i governi vadano contro tale condizione di sottomissione esponendo il Paese a ritorsioni che sarebbero peggiori della sottomissione stessa. […] In ogni caso, bisogna anche fare un’opera di divulgazione-ufficializzazione dei trattati e dei protocolli riservati che vincolano e sottomettono l’Italia a comandi e interessi stranieri, altrimenti ogni ragionamento politico ed economico rimane minato dalla grande incognita costituita da tali obblighi, e di importanti atti politici contrari agli interessi nazionali rimarrà sempre il dubbio se siano stati compiuti per costrizione, per tradimento o per incompetenza. >> (21).

L’attuale Europa è finita. E’ stata ridotta ad una espressione geografica (22) a servizio delle strategie statunitensi e, per la prima volta nella sua storia, non sarà protagonista del conflitto tra le potenze mondiali che si formeranno nella fase multicentrica e in quella policentrica. Sarà, ahinoi, solo un campo di battaglia del conflitto mondiale.

All’interno di questo cambiamento europeo che resta, comunque, subordinato alle strategie dei pre-dominanti (gli agenti strategici principali) statunitensi, mancano dei decisori che vogliono attuare un processo di sviluppo nazionale autodeterminato, a partire dalla creazione di uno spazio della resistenza, capace di incunearsi nei giochi che si aprono nella fase multicentrica per proporre un progetto e una strategia di uscita dalla servitù volontaria verso gli USA e guardare a Oriente per le possibili costruzioni di nuove relazioni, di nuove idee di sviluppo, di nuove idee di società, di una Europa diversa (23). Purtroppo, ahinoi, questi decisori non si vedono in giro per l’Europa né si vedranno nel breve-medio periodo, considerata la situazione di degrado culturale, politico e sociale. I dominanti possono fare ancora sonni tranquilli.

Resta un problema storico da affrontare e riguarda i soggetti che si formano nelle varie fasi oggettive della storia nazionale, europea e mondiale. La domanda che si pone è: come i soggetti (sessuati) di trasformazione arrivano, sono pronti alle aperture delle finestre, delle crepe che le fasi multicentrica e policentrica necessariamente apriranno?

Oggi soffriamo la mancanza di una teoria adeguata che ci orienti nella pratica e nella pratica teorica per pensare un progetto-processo di autonomia e di autodeterminazione nazionale ed europeo. Siamo ridotti a scoprire, con le elezioni statunitensi, europee e nazionali (sic), l’esistenza di stati profondi (i luoghi istituzionali dove gli agenti strategici principali, esecutivi e gestionali realizzano il dominio) e a riscoprire l’illusione ideologica che con la vittoria elettorale, cioè la presa del potere non del dominio, gli obiettivi indicati (a prescindere dalle finalità reali, ripeto reali) nel programma elettorale minimamente squilibranti del sistema sono irrealizzabili.

Concludo riportando un interessante, a mio avviso, passo del Lenin interpretato da Gyorgy Lukacs << L’onnipotenza dominante della prassi è dunque realizzabile soltanto sulla base di una teoria orientata in senso onnicomprensivo. Ma la totalità oggettivamente dispiegata dell’essere è infinita, come Lenin sa bene, e quindi non può mai essere compresa adeguatamente. Così qui l’infinità della conoscenza e l’imperativo sempre attuale del giusto agire immediato sembrano dare origine a un circulus vitiosus. Ma ciò che non ha soluzione teorico-astratta, in pratica può essere tagliato come il nodo gordiano. L’unica spada adatta per farlo è ancora una volta un comportamento umano che anche qui possiamo opportunamente definire solo con parole shakespeariane: «L’essere pronti è tutto». Uno dei tratti più fecondi e caratteristici di Lenin è che egli non cessò mai d’imparare teoricamente dalla realtà e che in pari tempo era sempre pronto ad agire. Da ciò derivava una qualità singolare, in apparenza paradossale, del suo atteggiamento teorico: non ritenne mai di avere finito d’imparare dalla realtà, ma in pari tempo la conoscenza così acquisita era in lui sempre così ordinata e orientata da permettergli di agire in qualsiasi momento.>> (24).

 

 

 

 

 

 

 

 

Le citazioni scelte come epigrafi sono tratte da:

 

*Samir Amin, Fermare la Nato. Guerra nei Balcani e globalizzazione, Edizioni Punto Rosso, Milano, 1999, pag.6.

**Costanzo Preve, Il bombardamento etico, Editrice C.R.T., Pistoia, 2000, pag. 163.

 

 

NOTE

 

  1. Raimondo Luraghi, La guerra civile americana. Le ragioni e i protagonisti del primo conflitto industriale, BUR Rizzoli, 2013, pp.7-8.
  2. Sulla fase multicentrica si veda Gianfranco La Grassa, Crisi, multipolarismo e gruppi sociali in conflittiestrategie.it, 16/11/2018; Francisco La Manna, Intervista esclusiva a Gianfranco La Grassa: crisi economica, mutamenti geopolitici,conflitto strategico in www.scenarieconomici.it, 21/11/2018.
  3. Noam Chomsky, Chi sono i padroni del mondo, Ponte alle Grazie, Milano, 2018, pag.59.
  4. A rilanciare questa narrazione, già oggetto nel 2000 di un breve articolo del Telegraph di un giovane Ambrose Evans-Pritchard, è stato soprattutto un libro inglese, divenuto un best seller, di Christopher Brooker, Richard North, The Great Deception. A Secret History of the European Union, Continuum International Publishing Group Ltd, 2003 in Maria Grazia Ardizzone, L’UE dalle origini al TTIP. Le operazioni segrete Usa per dar vita a uno Stato Federale Europeo in ariannaeditrice.it, 3 giugno 2016 (già riportato nel mio scritto del 2016 su La fase multipolare e l’accentramento dei poteri apparso sui blog Conflittiestrategie e Italiaeilmondo).
  5. Thomas G. Paterson, Il piano Marshall in Elena Aga Rossi, a cura di, Gli Stati Uniti e le origini della guerra fredda, il Mulino, Bologna, 1984, pag. 222; si veda anche Giovanni Arrighi, Il lungo xx secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, Milano, 1996, pp.385-387 e David Harvey, Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo, Feltrinelli, Milano, 2014, pp.150-166. Giovanni Arrighi e David Harvey hanno proposto nelle loro ricerche, con saperi diversi, un paradigma sociale territoriale fondato sul potere territoriale e l’accumulazione del capitale. Il paradigma, a mio modo di vedere, ha un orientamento economico-sociale-territoriale e non afferra la totalità del rapporto sociale perché fondamentalmente tiene separato il potere territoriale (lo Stato) e l’accumulazione del capitale. Credo che la questione possa essere interessante con un confronto con il paradigma del conflitto strategico lagrassiano che può superare questa separazione, caratteristica di tutte le teorie economiche e sociali, con la costruzione di un diverso paradigma multidisciplinare.
  6. Samir Amin, Fermare la Nato. Guerra nei Balcani e globalizzazione, Edizioni Punto Rosso, Milano, 1999, pp. 32-33. Per una ricostruzione storica della nascita della Nato si rimanda, con una lettura critica, a Marco Clementi, La Nato, il Mulino, Bologna, 2002.
  7. Luigi Longo, Tav, Corridoio V, Nato e Usa. Dalla critica dell’economia politica al conflitto strategico; americanizzazione del territorio; gli Stati Uniti e lo spettro della Russia; le infrastrutture militari nella fase multicentrica. I primi due scritti sono stati pubblicati sui siti conflittiestrategie.it e www.italiaeilmondo.com; gli altri due sul sito www.italiaeilmondo.com.
  8. Manlio Dinucci, La Nato espandibile e sempre più costosa si allarga sull’Europa in ilmanifesto.it, 11/7/2018.
  9. Luigi Longo, La fase multipolare e l’accentramento dei poteri in conflittiestrategie.it, 13/6/2016.
  10. La Cina, e non la Russia, potrebbe essere la potenza mondiale che nel lungo periodo sarà in grado di contendere la egemonia mondiale agli Usa perché a) ha la capacità di sviluppare tutti i settori decisivi di una potenza egemonica (politico, economico, scientifico – tecnologico e culturale), b) svolge un ruolo fondamentale nella creazione di nuove istituzioni internazionali di coordinamento [ la Asian Infrastructure Bank (AIIB), la Shangai Cooperation Organition, il Brics, il Silk Road Fund e la Belt and Road Iniziative (BRI) ] c) instaura diverse forme di relazioni internazionali che non sono nè la forma coloniale né la forma neocoloniale, ma sono relazioni di integrazione, di innervamento che danno ampi strumenti e possibilità di sviluppo, per dirla con David Harvey, per una costruzione di valore territoriale. Si veda, Nicola Tanno, intervista a Diego Angelo Bertozzi sulla Belt and Road Iniziative in materialismostorico.blogspot.com, 11/07/2018; Vladimiro Giacchè, La UE e la BRI: un rapporto complicato in www.marx21.it, 2/11/2018.
  11. Sul significato dei valori territoriali si rimanda a David Harvey, Marx e la follia del capitale, Feltrinelli, Milano, 2018, pp.131-172.
  12. Sul senso del potere politico e militare dell’occupazione del territorio europeo da parte degli USA attraverso le proprie basi militari e quelle della Nato, si veda l’intervista ad Alexander Dugin, L’occupazione è occupazione, in millennium.org, 29/01/2014; sull’importanza della Nato si rimanda, con una lettura critica, a Eric R. Terzuolo, Perché alla Nato non rinunceremo mai in Limes n.4/2018, pp.51-58; sul ruolo sempre marginale dell’Europa si consiglia Manlio Dinucci, Usa e Nato soppiantano la UE in crisi in www.retevoltairenet.org, 3/7/2018; sull’integrazione dei sistemi militari industriali degli Stati europei con quello statunitense si suggerisce Manlio Dinucci, Il potere politico delle armi in www.voltairenet.org, 2/10/2018 e Gianandrea Gaiani, Missioni, Finanze, Industria: le ambiguità (a)strategiche della difesa italiana in Limes n.5/2018, pp.89-97.
  13. Fabio Mini, Siamo servi di serie B e non serviamo a niente in Limes5/2018, pp.75-87.
  14. Sergio Romano, Macron e l’esercito europeo, la chance di correggere De Gaulle in corriere.it, 17/11/2018.
  15. Si veda la imbarazzante (per la servitù intellettuale e politica espressa in difesa di questa Europa ancorata agli Stati Uniti) e apologetica lettera aperta di sei pensatori tedeschi Siamo seriamente preoccupati della crisi dell’Europa e della Germania per il riaffacciarsi della brutta testa del nazionalismo (I primi firmatari: Hans Eichel ex ministro delle finanze, Jürgen Habermas filosofo e sociologo, Roland Koch ex premier statale dell’Assia, Friedrich Merz avvocato e politico della CDU, Bert Rürup è l’economista capo di Handelsblatt, Brigitte Zypries è un ex ministro della giustizia e ministro dell’economia) in https://global.handelsblatt.com/opinion/europe-unity-future-habermas-koch-merz-zypries-975335?fbclid=IwAR1EIvJGxWOgdIg9HwKpiNZxZ6UR, 25/10/2018; sulla stessa scia Massimo Cacciari ed altri si veda Marco Damilano, Ora il PD si sciolga per far nascere la nuova Europa. L’appello di Massimo Cacciari in l’Espresso del 9/11/2018; sulla considerazione di una Europa occupata dalle basi Usa-Nato e il recupero della tradizione di territori europei con una pluralità di valori finalizzati alla costruzione di una coscienza e di una costituzione europea si pone in maniera problematica Franco Cardini, Europeisti traditi: perché questa Europa ha deluso in byoblu.com, video del 5/11/2018.
  16. Sul declino Usa rimando a Noam Chomsky, Chi sono i Padroni del mondo, Ponte alle Grazie, Milano, 2018, pp.74-105; Gianfranco La Grassa, Un sommario excursus storico per capire, conflittiestrategie.it, video del 11/11/2018.
  17. Sulla incapacità statunitense di una nuova visione del mondo come conseguenza della fine di una idea di sviluppo della modernità rinvio a Aleksandr Dugin, L’Occidente e la sua sfida (I e II parte) in ariannaeditrice.it, 18/10/2018; sulla mancanza di una ferma determinazione politica, propria della dottrina di Monroe del 1823, dovuta alla divisione tra gli agenti strategici statunitensi si veda Nico Perrone, Progetto di un impero 1823.L’annuncio dell’egemonia americana infiamma le borse, La Città del Sole, 2013, Napoli; sui limiti della politica estera degli USA collegati al vecchio retaggio da guerra fredda, sulle difficoltà di impostare una politica estera adatta alla nuova fase multipolare che si sta delineando e sulle lacune nonché sui conflitti decisionali basati su vecchi schemi cognitivi e su un modello decisionale istituzionale che esalta l’esecutivo, la natura elitaria, la lotta interistituzionale, i “groupthink”, si rimanda all’interessante articolo di Giulia Micheletti, Le origini interne della strategia geopolitica statunitense, 03/03/2014, www.eurasia-rivista.org.
  18. E’ emblematica la risposta degli agenti strategici statunitensi (a prescindere dal loro insanabile conflitto interno) alla << […] proposta cinese di razionalizzare e potenziare Transiberiana e Suez in forma cooperativa [che] è finora la maggiore iniziativa finanziaria e infrastrutturale del XXI secolo e inverte la direzione secolare delle influenze. La leadership americana sembra aver finora replicato alla cieca, con interventi inefficaci e controproducenti di guerra ibrida, cinetica o economica lungo la Loc terrestre (Intermarium, Mena, Asia centrale, Corea) e marittima (il Mar Cinese Meridionale e i due passaggi artici) che minano la coesione occidentale e spingono tutte le potenze eurasiatiche emergenti (che sentono di aver il futuro dalla loro) verso una pericolosa coalizione di necessità contro il vecchio ordine che si ostina ottusamente a respingerli >> in Virgilio Ilari, L’Italia è un’espressione geografica. Capiamola in Limes4/2018, pag.152.
  19. Luigi Longo, L’uscita dall’euro non è un problema prioritario. Prioritaria e la sovranità nazionale ed europea in conflittiestrategie.it, 16/1/2015.
  20. Marco Della Luna, Deficit di bilancio e deficit di efficienza in marcodellaluna.info, 30/9/2018.
  21. Marco Della Luna, L’Italia e il nemico carolingio in marcodellaluna.info, 28/10/2018; Sulla questione di uscita dalla Nato e sul ruolo dei Trattati si veda anche Fabio Mini, Siamo servi di serie B…, op.cit.; Fabio Mini, USA-Italia, comunicazione di servizio in Limes n.4/2017.
  22. Per un significato storico del concetto di espressione geografica si invia all’interessante articolo di Virgilio Ilari, L’Italia…, op. cit., pp. 149-154.
  23. Costanzo Preve, Il marxismo e la tradizione culturale europea, Editrice Petite Plaisance, Pistoia, 2009, pp.101-115; Samir Amin, Fermare la Nato…, op.cit., pp.64-75.
  24. Gyorgy Lukacs, Unità e coerenza del suo pensiero. Postilla all’edizione italiana 1967 in www.gyorgylukacs.wordpress.com, 27/10/2018. Originariamente apparso in italiano in Lenin. Unità e coerenza del suo pensiero, Einaudi, Torino 1970, ora in L’uomo e la rivoluzione, Edizioni Punto Rosso, Milano 2013.

 

 

EUROPA E STATI NAZIONALI complessità e debolezze. Intervista a Piero Visani

Con questa seconda intervista ci intratteniamo con Piero Visani sul tema dell’Unione Europea e degli stati nazionali. In particolare ci soffermiamo sulle apparenze e sulla sostanza delle relazioni e dei conflitti che stanno regolando la condizione del continente_Giuseppe Germinario

https://www.youtube.com/watch?v=n0RWcrdxTGM&feature=youtu.be

carte buone e carte false del Governo Conte, di Giuseppe Germinario

L’avvento del Governo Conte ha provocato una reazione pressoché immediata generalmente diffidente se non negativa, tranne poche eccezioni, negli ambienti intellettuali e nei centri decisionali del paese. Una diffidenza ed una negatività amplificata in modo abnorme dalla partigianeria e dalla faziosità della quasi totalità del sistema mediatico.

Sul conservatorismo, sulla sciatteria, sulla autoreferenzialità di gran parte dei centri intellettuali, tutti ben posizionati nel sistema, tanto sensibili alle sirene d’oltralpe quanto avulse dalla situazione del paese, il blog si è espresso più volte e continuerà ad esprimersi; in particolare sull’inadeguatezza e il carattere reazionario delle chiavi di interpretazione che continuano ad offrire.

L’oggetto dell’articolo non è questo, bensì gli argomenti e il contesto offerti dalle opposizioni esterne e ormai anche interne al Governo nella loro opera costante di denigrazione.

LO SCENARIO INTERNAZIONALE

L’azione avventurista più eclatante è stata il varo del documento programmatico per il 2019. Una sfida aperta alle regole e soprattutto alle ipocrisie della condotta dell’Unione Europea. Una violazione ostentata degli accordi e dell’itinerario di rientro dal deficit e dal debito che scatenerà contro una nazione fragile ed esposta i Moloch più terribili.

Il Moloch dei mercati, in particolare quello finanziario, sempre pronti a sanzionare con gli interessi i trasgressori del rigore fiscale e a negare il credito ai potenziali insolventi. La spada di Damocle del ’92 e del 2011 è lì che incombe angosciante. Il dio mercato però questa volta appare incerto, anzi diviso; la sentenza appare di conseguenza contraddittoria. Lo spread sale, a volte scende; tarda a decollare. C’è chi vende, chi svende ma anche chi compra in quantità massicce. Il manipolo onnipotente della finanza, attribuito del potere di decisione dei destini del mondo appare percorso da strategie diverse; strategie che sembrano sempre più ricalcare le divisioni e le aggregazioni nel contesto internazionale e le fibrillazioni nell’agone politico americano. La certezza di una mitologia e di una rappresentazione del dominio e delle contrapposizioni globaliste che finalmente si incrina.

Il Moloch della BCE, pronta a inondare o a lesinare di valuta e di acquisti il mercato dei titoli secondo i propri voleri e i dettami del duo franco-tedesco; a premiare o punire quindi i più indisciplinati e riottosi, i reprobi; la Grecia prima e l’Italia dopo in particolare. Peccato che, a dispetto delle dichiarazioni e dei rimbrotti unidirezionali di Mario Draghi, a chiedere la protrazione del “quantitative easing” siano di fatto non soltanto il reprobo italico additato al pubblico ludibrio, ma la gran parte delle banche centrali degli stati europei in una fase di debiti e deficit galoppanti e di stagnazione se non proprio di recessione incipienti.

Il Moloch della Commissione Europea. Gli antichi splendori della Commissione sono ormai un ricordo sempre più lontano. La condizione di relativo equilibrio tra le potenze europee fondatrici, l’allargamento repentino ai paesi dell’Europa Orientale, concomitante a quello della NATO, la supervisione attenta della leadership americana ne garantivano una relativa autonomia operativa nel ruolo di mediatrice. L’ascesa della Germania, la creazione di una sua sfera diretta di influenza in Europa Orientale parallela e sovrapposta a quella strategica degli Stati Uniti, l’assunzione del ruolo di intermediario e gabelliere tra la potenza egemone e il pulviscolo degli stati almeno per le competenze proprie dell’Unione ne hanno sminuito progressivamente il ruolo sino alla parodia della gestione Junker. La conseguente ascesa del Consiglio Europeo e della diarchia Franco-Tedesca hanno reso sempre meno credibile la funzione di arbitro secondo regole per altro affatto squilibrate.

È una questione di tempo!

La Commissione dovrà essere intransigente verso il capro espiatorio che ha ostentato la trasgressione degli accordi capestro e transigere ancora verso le violazioni surrettizie dei sodali del patto. Non dovesse riuscire più in questa schizofrenia con qualche gioco di prestigio o con il sacrificio del governo italiano perderà definitivamente l’autorevolezza residua o il residuo sostegno del sodalizio politico. Il muro frapposto al documento italiano non è il bastione insormontabile, ma l’ultimo argine di una probabile deriva. Lo hanno affermato i leader stessi dei paesi minori più esposti nella intransigenza: se si cede, la volontà di costruzione europea cadrà nei singoli paesi, compresi i più autorevoli. Una dichiarazione di forza che è una prova di debolezza. Una intransigenza manifestata per conto terzi da quei piccoli paesi, tra questi Olanda, Austria e Irlanda, i quali hanno più praticato il dumping fiscale.

La reazione e la replica al documento del Ministro Savona, pervenuto a fatica e solo dietro sollecitazione dell’estensore negli uffici della Commissione Europea, sono state al riguardo eloquenti: il silenzio. Quel documento evidenziava il carattere nefasto delle politiche di austerità, stigmatizzava la scelta improvvida di fondazione della moneta unica precedente una politica di riequilibrio delle economie nazionali, auspicava una politica comunitaria espansiva con un accentramento conseguente di competenze, specie negli investimenti e nella gestione del bilancio; ne riconosceva però nell’immediato del contesto politico europeo l’irrealizzabilità. Rivendicava quindi, conseguentemente, una omogeneizzazione dei regimi fiscali nazionali e un ritorno delle “politiche di fiscalità nazionali”; nella fattispecie politiche di investimenti pubblici anche in deficit. Un europeista come Savona aveva mostrato finalmente il Re Europa nudo con tutti i suoi difetti e le sue storpiature, così come Salvini ha rapidamente messo a nudo quel re sul tema dell’immigrazione.

Una partita, quindi, dall’esito molto più aperto di quanto sia prospettato e auspicato dalla grande informazione. Non si tratta di un duello tra due contendenti; piuttosto di una zuffa con molti attori, pronti a cambiare schieramento e celare gli obbiettivi reali e con molti altri ingombranti osservatori interessati, alcuni in prima linea altri nella penombra; tutti impegnati ad influenzare l’esito del confronto.

IL FRONTE INTERNO

Il fronte interno si sta muovendo secondo dinamiche analoghe. Le apparenze ci mostrano un governo arroccato nella propria cittadella e assediato, asfissiato da forze soverchianti ben attrezzate, ben radicate nei vari apparati statali e nei centri decisionali e di formazione dell’opinione pubblica.

Sono tutti lì a denunciare la scarsità di investimenti rispetto all’entità delle spese assistenziali; a stigmatizzare l’errore cosciente sulla stima di sviluppo al 1,5% quasi a sottendere la responsabilità governativa della prossima probabile recessione, in realtà dalle dinamiche internazionali che vanno al di là degli ambiti domestici; a confidare parossisticamente nelle divisioni insanabili della maggioranza e nella incompetenza e inesperienza della classe dirigente in via di formazione.

Tutti, però, evitano accuratamente di rispondere alla domanda fondamentale che li qualificherebbe o meno come forze, politiche ed istituzionali, nazionali credibili: sono disponibili e sino a che punto a sostenere un confronto e uno scontro serrato almeno nell’agone europeo e nel Mediterraneo?

Eludere questa risposta connota queste forze come assedianti temibili ma privi del sostegno morale e logistico in loco; costrette, al pari delle forze imperiali, nel migliore dei casi a sostenersi grazie a lunghe e precarie catene di rifornimento. Una condizione da truppe di occupazione piuttosto che da forze liberatorie. Una condizione propedeutica ad ulteriori frammentazioni e divisioni.

È la condizione perfetta che potrebbe consentire ancora per qualche tempo alle forze politiche al governo di gestire le proprie evidenti divisioni in modo da raccogliere contemporaneamente le istanze di governo e di opposizione.

La schizofrenia, caratteristica comune anche ai governi immediatamente precedenti, è una peculiarità di questo governo.  Argomento già trattato ampiamente in altri articoli.

Il campo di applicazione è vasto: si passa dalla politica delle grandi infrastrutture, al ruolo della magistratura, alle questioni ambientali.

Il reddito di cittadinanza probabilmente ne è l’emblema. Il provvedimento poggia su due assunti fasulli: che la disoccupazione sia soprattutto un problema di formazione; che la disoccupazione abbia le stesse caratteristiche e le stesse ragioni nella variegata geografia del paese. Sino a quando si continuerà a parlare di disoccupazione e non di “disoccupazioni” la retorica vincerà sul pragmatismo, favorendo la fuga verso l’assistenzialismo e l’incomprensione, tra i tanti, del fenomeno di quella parte consistente di personale qualificato, compreso quello immigrato, che preferisce migrare all’estero. Una retorica nella quale si sono rifugiate tutte le forze politiche; tutte! Un tema, altrimenti, che sarebbe dirimente; che implicherebbe tutta una serie di politiche e di volontà, compresa la creazione di nuove imprese e formazione di imprenditori. Un tema che, trattato con coerenza, rischierebbe di mandare in fibrillazione irreversibile le politiche comunitarie di stampo liberista e il reticolo di norme europee che regolano le attività e gli investimenti.

Il termine schizofrenia sottende la convivenza di propositi opposti e difficilmente conciliabili; di propositi, quindi, anche accettabili e significativi. A spulciare documenti e provvedimenti quesi ultimi non mancano; e l’opera certosina e discreta di settori della pubblica amministrazione sta cercando di dare loro corpo.

Si legge il proposito di difesa delle imprese impegnate nel complesso militare e nell’industria strategica residua, anche se i tagli successivi sembrano poi contraddire in parte le intenzioni. Si inizia a ricostruire un sistema di agenzie e di centri nazionali in grado di fungere da supporto tecnico e indirizzo nell’attuazione dei programmi di investimento specie delle amministrazioni periferiche e locali. Un tentativo molto più strategico di quanto possa apparire. Un modo per indebolire quel legame diretto tra amministrazioni locali e strutture e agenzie comunitarie che contribuisce a logorare la funzione di indirizzo e controllo dello Stato Centrale. Si sta operando per riprendere almeno il controllo pubblico delle reti, in particolare le telecomunicazioni, dopo le sciagurate privatizzazioni. Si sta cercando di riprendere il controllo dell’esposizione del debito pubblico con l’emissione di titoli collocati direttamente tra i risparmiatori al dettaglio.

Sono indirizzi ancora estemporanei, portati avanti sottotraccia e ancora privi di un disegno organico. Un disegno che implicherebbe la ripresa di temi strategici come la ridefinizione delle competenze tra stato centrale e amministrazioni locali; la gestione del rilevante risparmio nazionale; la riconduzione nei ranghi dell’azione giudiziaria. Tutti temi che stridono ancora con le suggestioni della democrazia dal basso del M5S e le concezioni originarie del federalismo della Lega ancora ben presenti nelle due formazioni e connaturate nel M5S.

Limiti che rivelano la durezza di un confronto più interno alle forze di governo che tra queste e le opposizioni. Una ruvidezza cui non corrisponde una chiarezza sufficiente di obbiettivi e di strategie; un sordo contrasto che potrà risolversi probabilmente solo con il completamento della trasformazione surrettizia della Lega in partito nazionale e con la spaccatura di un M5S logorato dove sta però prendendo piede una componente più realista. Vedremo cosa comporterà il prossimo ritorno del Messia pentastellato, di Di Battista anche se le frecce in faretra si stanno rivelando sempre più spuntate. Qualcuno si deciderà finalmente a chiedergli conto delle sue frequentazioni americane, specie in California e dei suoi stage di apprendimento.

IL PARADOSSO INTERNAZIONALE

Paradossalmente gli impulsi migliori e più promettenti sembrano provenire dal contesto internazionale. Questo Governo viene continuamente tacciato di un avventurismo che lo sta sospingendo nell’isolamento più totale. In realtà l’isolamento e l’inconsistenza del peso geopolitico del paese si è compiuto silenziosamente a partire dalla guerra civile nella ex-Jugoslavia e dalla riunificazione tedesca. L’Italia ha perso quasi ogni influenza in Europa Orientale, compresi i Balcani e ha incrinato la sua credibilità e il suo prestigio nel Mediterraneo in questi ultimi trenta anni. Una chiusura a Nord-Est che la sta sospingendo volente o nolente verso il Mediterraneo e il Nord-Africa. La chiusura del cerchio avrebbe potuto completarsi con la guerra e la defenestrazione di Gheddafi in Libia. Da lì, invece, è iniziato fortunatamente il declino di Obama e l’emersione della vanagloria francese. Oggi l’America di Trump, per relegare almeno momentaneamente il multilateralismo, destrutturare il sistema di relazioni fondato su organismi sovranazionali e rifondare un sistema di alleanze più agile ed efficace e soprattutto più sostenibile, ha bisogno di ripristinare i rapporti tra stati nazionali e ridimensionare le potenze regionali che hanno lucrato all’interno della propria sfera di influenza. In Libia, per altro, si è creato una terra di nessuno dove le malefatte clintoniane hanno offerto le possibilità di accordo tra Trump e Putin a scapito di Francia e Turchia. Il terreno ideale per offrire all’Italia la possibilità di ritorno e di azione. Un invito colto con una certa sapienza dal Governo Conte con la gestione della recente conferenza. Più discreto, ma altrettanto efficace, almeno per il momento, la copertura nel contenzioso europeo. Come pure le boccate di ossigeno offerte dal complesso angloamericano a Finmeccanica e Fincantieri. In politica, più che in altri ambiti però, ogni sostegno e ogni collaborazione non sono disinteressati e nemmeno garantiti e stabili nel tempo. Il confine tra la capacità di cogliere le opportunità offerte e la condanna a cadere sotto nuove forme di servitù e subordinazione, simili alle precedenti, è sempre labile e poco definito. Un dilemma che le classi dirigenti nazionali hanno dovuto affrontare più volte a partire dal conseguimento dell’unità. Qualche volta con esito soddisfacente, altre incorrendo in un destino drammatico o poco lusinghiero. L’armistizio estivo tra l’Amministrazione di Trump e la Commissione Europea deve fungere da campanello di allarme. Il rinvio dell’innalzamento delle barriere doganali ai danni della Germania è costata qualche concessione ai tedeschi e il sacrificio molto più significativo su importazioni di prodotti agricoli a scapito dell’Italia.

L’ipotesi di puntare rapidamente ad una condizione di neutralità vigile può essere prematura; richiede ben altre condizioni e una classe dirigente in grado di sostenere un confronto così duro. Tentare almeno un patto con il diavolo che consenta di recuperare il controllo almeno del sistema finanziario, con la riacquisizione di Generali e UNICREDIT e magari la gestione della rete commerciale che apra uno sbocco più garantito dei prodotti agricoli nel mercato nazionale, ambiti economici attualmente in mano ai francesi e in parte ai tedeschi, potrebbe essere un obbiettivo già alla portata dell’attuale Governo, così come quello in atto sulla TIM nel settore delle telecomunicazioni. L’importante è riuscire a resistere alle pressioni di una armata probabilmente più sgangherata di quanto possa apparire ma sempre pronta a trovare nuovi corifei e nuovi tromboni. Il Corriere della Sera, ancora una volta, si è offerto diligentemente nella funzione di benpensanti servili. Giornalisti come Federico Fubini, da capostipiti, hanno decisamente scelto la loro missione: quella di ventriloqui del magnate filantropo Soros. (vedere per credere:  https://2018.festivaleconomia.eu/-/di-quale-europa-abbiamo-bisogn-1  ). La loro credibilità, però, sta crollando fortunatamente assieme alle vendite dei loro fogli. Uno spazio in più del quale approfittare

 

 

QUALE IDEA DI EUROPA? PROSIEGUO_BOTTA E RISPOSTA gambescia/buffagni_1a PUNTATA

Una replica all’ interessante articolo di Roberto Buffagni

https://italiaeilmondo.com/2018/11/08/elezioni-europee-2019-quale-idea-deuropa-di-roberto-buffagni/

Da Tiglatpileser a Hitler, di Carlo Gambescia

fonte originaria

Partendo da una serrata  critica alle  riflessioni pseudo-teologiche di  Massimo  Cacciari,  Roberto Buffagni  spiega perché questa Europa, quella dell’UE per intendersi, non gli piace (*) .

Il suo ragionamento  ruota intorno a due  principi:  quello politico dell’amico-nemico e quello religioso di un cattolicesimo controrivoluzionario, più o meno fermo alla condanna del 1789. Buffagni combatte, ideologicamente, l’UE, puntando su due cavalli di razza:  Carl Schmitt e  Joseph de Maistre.  Ovviamente, cito, andando oltre l’articolo,  solo due nomi  presi  “a caso”, ma  idealmente emblematici,   dalle sue  sterminate  letture.

In buona sostanza, sfrondando il pur agguerrito  esercito di argomentazioni  filosofico-teologiche schierato da Buffagni,  l’UE è da lui considerata l’ultima reincarnazione di uno spirito moderno, molle e decadente che  sta portando alla rovina l’Europa  ( e ovviamente l’Occidente).

A dire il vero,  la posizione di Buffagni  è più  intellettualmente onesta  di quella di Cacciari,  che invece usa  il cristianesimo contro il cristianesimo, come Lenin usava la democrazia contro la democrazia. Evidentemente,  comunisti si  muore, ci si chiami Lenin o Cacciari. Ma questa è un’altra storia.

Scorgo però nel  discorso di Buffagni  una contraddizione cognitiva. Egli sostiene,  sulla scia di Carl  Schmitt, che in politica, senza un nemico, non si può fare politica. Il che è vero, solo però se si  intende  quest’ultima, come pura e semplice  continuazione della guerra con altri mezzi. Ciò, ovviamente,   è coerente con la  visione antimoderna di Buffagni  –  e qui spunta Joseph de Maistre –  che respinge il contratto  in quanto  prolungamento della modernità.   Ma non è coerente, dispiace dirlo, con la  visione scientifica della politica ( o meglio metapolitica)  che è sì, fondata sulla relazione amico-nemico, quindi  sullo status, dettato dalla spada,  ma che  include anche il contratto, ossia  le procedure, per evitare la spada puntando sulla civilizzazione del nemico,  attraverso una proceduralizzazione (il contratto),  capace di trasformare il nemico  in  avversario. Ovviamente, il contratto non esclude la spada, e viceversa:  i sociologi, sulla scia di Simmel (e prima ancora di Kant, ma si potrebbe andare ancora più indietro), parlano di  socialità insociale. Senza l’una (la spada) non c’è l’altro( il contratto).

In realtà, e qui storia e scienza si congiungono,  la storia  della Chiesa, o se si preferisce del cristianesimo o cattolicesimo  sociologicamente applicato,   è   la storia del sapiente e secolare  uso di status e contratto,  come del resto prova  la storia degli  imperi più longevi.  Dal momento che gli imperi  che sono durati di meno –  parlo della pratica,  non dell’idea  – sono proprio gli imperi, o comunque le macro-forme politiche,  fondate solo sulla spada: dai feroci Assiri,  agli imperi romano-barbarici (con vari pendant narrativo-evocativi medievali); da Tamerlano a  Napoleone e Hitler, che aspirava addirittura a fondare un Reich millenario.

 

Di più: Roma, la Chiesa cattolica e le moderne, e ancora giovani, democrazie liberal-parlamentari sono un buon esempio, anche prescindendo dalla forma di regime politico, di come fare saggio uso dello status e del contratto. E le prime due lo sono anche di vecchiaia.

Il  gracile  Occidente liberale ha  battuto la Germania di   Hitler sul campo di battaglia e l’Unione sovietica su quello economico.  Come dire?  Ha sconfitto due muscolosi colossi  politici, sul terreno dello  status e su quello del  contratto. Perché sottovalutare tutto ciò, privilegiando una visione univoca  della dicotomia amico-nemico? Asserendo – parliamo del succo del discorso di Buffagni,  esposto anche altrove –  che  sul piano cognitivo esiste solo il nemico, incarnato, su quello filosofico-politico – quando si dice il caso – dalla cattiva modernità?

Probabilmente perché, come appena accennato, nel pensiero di Buffagni,  condanna del mondo moderno e visione univoca del politico   sono la stessa cosa. Sicché l’UE, essendo il portato di un mondo impolitico e corrotto,  non può non incorrere nella  sua  “scomunica”, che, forse proprio perché tale, si regge argomentativamente, come per i suoi due  maestri ideali, sul solo  concetto di status. Altrimenti detto, solo sulla spada.   Di qui, il peccato cognitivo di unilateralità.

Di conseguenza, secondo Buffagni, questa Europa, per salvarsi, dovrebbe rinnegare il contratto e puntare sullo status.  Insomma, sulla spada.  Ma per andare dove?  A  fare compagnia a Tiglatpileser, fondatore del caduco impero Assiro?

Carlo Gambescia

L’Europa e la questione del costruttivismo, di Roberto Buffagni

Caro Carlo,

Rispondo con piacere alla tua  acuta critica [1] al mio recente commento a un discorso di Massimo Cacciari sull’idea di Europa[2]. La tua critica   è brevissima e chiarissima, e dunque non la riassumo, pregandovi di leggerla con attenzione prima della mia replica.

Cerco d’essere altrettanto breve e chiaro. Concordo volentieri con te sulla sua obiezione principale, e cioè che  “la politica…è sì, fondata sulla relazione amico-nemico, quindi  sullo status, dettato dalla spada,  ma…anche [sul] contratto, ossia  le procedure, per evitare la spada puntando sulla civilizzazione del nemico,  attraverso una proceduralizzazione (il contratto),  capace di trasformare il nemico  in  avversario.” Verissimo. Il problema dell’attuale situazione europea e occidentale, però, è che il “contratto” capace di trasformare il nemico in avversario non è un’obbligazione sinallagmatica privata, per la quale bastano legge positiva e amministrazione capace di applicarne il comando. Il contratto capace di trasformare il nemico in avversario è il contratto, o meglio patto politico, il foedus (lo auspica anche M. Cacciari nell’intervento che ho commentato).

Un foedus presenta due aspetti: uno, analogo al contratto privato, e cioè la composizione degli interessi in un compromesso accettabile e vitale; e un altro, che dal contratto privato lo differenzia qualificandolo, e cioè la condivisione un progetto politico-culturale e di un’etica. Ora, a mio avviso questo secondo aspetto, che differenzia il foedus  politico dal contratto privato, nell’Europa e nell’Occidente odierno non si dà e non si può dare.

Non si dà né si può dare condivisione di un progetto politico-culturale e di un’etica, perché l’Unione Europea, la forma che l’odierna Europa tenta di darsi, ha ripreso in toto la pretesa illuministico-liberale di innalzare la ragione umana individuale a legislatrice assoluta, a unica determinante della condotta personale e collettiva. La società stessa, in questa prospettiva, diviene il teatro in cui le singole volontà individuali vengono a incontrarsi, ciascuna col proprio insieme di insindacabili preferenze e atteggiamenti. Risultato: il  mondo diventa “l’arena dove combattere per il raggiungimento dei propri scopi personali”, per dirla con Alasdair MacIntyre[3]. Di conseguenza, all’interrogazione riguardante i fini, personali e sociali, si sostituisce la razionalità burocratica, che weberianamente consiste nell’adeguare i mezzi agli scopi in maniera economica ed efficace.

Il dibattito intorno ai fini, infatti, è sempre anche dibattito intorno ai valori. E non appena si dibatte intorno ai valori, la razionalità weberianamente intesa non può far altro che tacere. Non solo. Quando la razionalità weberianamente intesa  si insedia al posto di comando politico, non appena si apre il dibattito intorno ai valori essa non può far altro che far tacere le voci che dissentono dal suo presupposto: essere i valori frutto di decisioni soggettive; così rovesciandosi in dispotismo, conforme l’eterogenesi dei fini vichiana. Secondo il presupposto della razionalità weberiana, infatti, ogni scelta individuale è buona: sciolte da ogni vincolo oggettivo nella comunità, nella struttura metafisica del reale o nella trascendenza, tutte le fedi e le valutazioni sono ugualmente irrazionali, perché puramente soggettive. Detto per inciso, è per questo che la coscienza moderna è soggettivista, relativista ed emotivista: nella formulazione teologica di Amerio, in breve illustrata nel mio precedente scritto, la coscienza moderna mette l’amore al posto del Logos, la volontà prima dell’intelletto, la libertà in luogo della legge, il sentimento sopra la ragione.

Questa, a mio avviso, l’origine ideale del conflitto di crescente asprezza tra legittimazione popolare e legittimazione razional-burocratica dell’Unione Europea. Conflitto insolubile, perché la crisalide di Stato europeo difetta della forza sufficiente a imporre dispoticamente il principio ordinatore razional-burocratico: ci prova, ma invano, perché non può revocare la democrazia rappresentativa a suffragio universale, che resta la “formula politica” [4] (Mosca) degli Stati che la compongono, anche se non conviene all’entità politica in fieri dell’UE; mentre la legittimazione popolare, rispecchiando i divergenti interessi, culture, persuasioni etiche di popoli, nazioni e ceti europei, affermandosi non può far altro che disarticolare il progetto razionalista di (ri)costruzione della Torre di Babele 2.0 europea, che si profila destinata a far la fine della Torre biblica 1.0.

Sul piano ideale, sarebbe possibile uscire da questo vicolo cieco, riconducendo la costruzione europea alle sue “radici cristiane”. Sottolineo “radici” piuttosto che “cristiane”, perché nelle radici cristiane c’è anche la filosofia classica greca, anzitutto platonica e aristotelica, che afferma con vigore e perspicuità il concetto di “natura umana” e della sua intrinseca socialità; e la rappresenta in una forma altamente differenziata che consentirebbe di conservare insieme sia la legittimazione dell’universalismo spirituale perenne (eguale dignità di tutti gli esseri umani) sia la legittimazione delle comunità particolari transeunti (eguale dignità nella differenza di culture, nazioni, popoli europei). Sempre sul piano ideale, su queste basi sarebbe possibile quella condivisione di un progetto politico-culturale e di un’etica che costituisce la condizione necessaria, benché non sufficiente, per il foedus politico europeo (scrivo “non sufficiente”, perché a questa condivisione di valori dovrebbe congiungersi il difficile compromesso tra gli interessi e il precipitato delle vicende storiche di nazioni, popoli e ceti europei).

Il cristianesimo che potrebbe farsi promotore di questo “ritorno alle radici europee”, dunque, non sarebbe il  cattolicesimo reazionario, “maistriano” e seccamente negatore della modernità e dell’illuminismo, ma un cattolicesimo che in mancanza di altro termine definirò “tradizionista”, piuttosto che “tradizionalista”; perché non pretenderebbe il ritorno all’endiadi Trono/Altare, né l’adesione confessionale degli Stati e dei cittadini: non vivo su Marte né sono coetaneo di S. Tommaso, e mi ci troverei molto a disagio io stesso; ma il ritorno, o meglio il ritrovamento, di quel modo di intendere l’uomo e le sue comunità politiche e sociali con il quale il cristianesimo si confrontò al suo affermarsi, e poi riprese e parzialmente integrò ispirando e costruendo la civiltà europea. E’ questa, la base etica e filosofica che costituisce la “legge naturale” che, se per i cristiani coincide con i “preambula fidei”, per tutti gli europei potrebbe (sottolineo potrebbe) coincidere con la tavola dei valori comune: comune perché fondativa della civiltà europea.

Probabilmente, è  con questa speranza che papa Benedetto XV incentrò la sua riflessione teologica intorno a una ripresa e a un aggiornamento della filosofia aristotelica, come base di dialogo con i non credenti e con le istituzioni politiche occidentali. E’ senz’altro in questa prospettiva che un gruppo di studiosi conservatori di chiara fama, tra i quali d’altronde alcuni amici personali di papa Ratzinger, ha elaborato la “Dichiarazione di Parigi”[5], che per quel che vale la mia adesione (poco) volentieri sottoscrivo nella sostanza.

L’11 febbraio 2013[6] s’è visto quali concrete possibilità di affermazione ha questo progetto (per ora non tante, diciamo).

E’ un serio problema, e non perché io, papa Ratzinger o i firmatari della Dichiarazione di Parigi ne siamo delusi.

E’ un serio problema perché osservando la logica del conflitto in corso, in Europa e in Occidente, è probabile avvenga quanto segue. Radicalizzazione e polarizzazione crescenti tra un campo che ha per minimo comun denominatore universalismo politico, mondialismo, razionalismo, scientismo, soggettività individuale dei valori; e un campo che ha per minimo comun denominatore identitarismo, nazionalismo, nei casi peggiori anche tribalismo e/o razzismo; e che con il campo nemico condivide il peggio, cioè razionalismo, scientismo e soggettività dei valori: perché sostituisce, come fonte della scelta volontaristica e arbitraria dei valori, all’individuo liberale-illuminista la comunità nazionale, o addirittura tribale e/o razziale; motiva la preferenza per il noi identitario rispetto all’ io illuminista-liberale con l’identico scientismo (superiorità genetica di una razza sull’altra, leggi etologiche del comportamento animale, etc.); e come il campo avverso persegue il suo fine – inevitabilmente, di potenza e supremazia – con il criterio della razionalità weberiana. In buona sostanza, due campi così configurati sarebbero l’uno il positivo, l’altro il negativo fotografico dell’impasse culturale e politico non dell’Unione Europea, ma dell’Europa e dell’ intera civiltà occidentale; che confliggendo al calor bianco la sprofonderebbero nel cimitero della storia, lasciandone per giunta un pessimo ricordo che magari ci meriteremmo noi, ma certo non i nostri padri.

Deus avertat. Per fortuna, probabile non vuol dire certo. L’uomo resta libero, e dunque tutto resta possibile. Meglio darsi da fare, però: aiutati che il Ciel t’aiuta.

Un abbraccio,

Roberto Buffagni

 

Caro Roberto,

Io ti ho inviato una cartolina, tu mi hai risposto con una enciclica. Quindi mi perdonerai, se  rispondo, come mio stile,  con un’altra cartolina.

Non entro nel merito della  tua  argomentazione,  che comunque conferma il rigetto della modernità, quanto meno così com’è.  E qui però vengo al punto che  mi interessa: il tuo costruttivismo.

Vedi Roberto, dal punto vista storico – della storia come flusso di eventi – nessuno ha costruito a tavolino i concetti di impero romano,  feudalesimo,  mercato,  liberalismo, modernità, solo per fare alcuni esempi.

Prima, si è avuta la realizzazione dei fenomeni storici ricordati, poi la loro teorizzazione: realizzazione che è frutto –   mai dimenticarlo –  di meccanismi sociali selettivi che sono il  portato di una  mano invisibile, che condensa le scelte  di milioni e milioni di uomini, che, perseguendo individualmente i propri interessi, non sanno, nel preciso momento in cui agiscono, che cosa stiano realizzando collettivamente.

Per contro, un  classico esempio di costruttivismo, cioè di teoria che precede la realtà, e pretende di piegarla,  è rappresentato proprio dal comunismo.   E i tristi  risultati  sono ancora  sotto gli occhi di tutti. Come vedi non sei in buona compagnia…  Lo stesso concetto si può estendere al nazionalsocialismo e al  fascismo,  frutto di un comune humus teorico, se vuoi culturale, che si proponeva, sempre   a tavolino,  la costruzione di  forme alternative di postmodernità o antimodernità, ottenendo, in quest’ultimo caso,  il beneplacito, come per il  fascismo italiano, delle gerarchie cattoliche  più retrive ed estranee o nemiche della modernità.

Sicché  quando tu dici, appellandoti all’autorità di questo o quel dotto pensatore, potremmo fare questo, potremmo fare quello, ti comporti da perfetto costruttivista.  Vuoi cambiare una realtà  che non ti piace, costruendone un’altra a tavolino.  E mettendo dentro di essa,  quel che più ti aggrada o conforta la tua tesi.   Anch’io potrei fare la stessa cosa,  ma, a differenza di te, so, da sociologo,  che la mano invisibile,  che regola i fenomeni sociali, finisce sempre per vendicarsi degli ingegneri delle anime. Pertanto, in qualche misura, se mi perdoni l’inciso,  tra noi due,  l’individualista accanito sei tu, pur professando l’esatto contrario.
Certo   –  sarebbe inutile  negarlo –    anche l’unificazione europea è un fenomeno costruttivista, con una differenza  – direi, fondamentale –   rispetto al comunismo e alle altre  forme di costruttivismo totalitario.  Quale?  Non prevede l’uso della violenza, ma si appella al contratto.  Qui la sua forza e al tempo stesso la sua debolezza.  In questo senso, però,  siamo davanti, e per la prima volta nella storia, a una “formula politica”,  o per meglio dire a un esperimento politico e sociale, che si propone di unificare l’Europa in modo pacifico, dove altri invece  hanno fallito, usando la pura forza, se non la violenza  più atroce.

Cosa c’è di male in  tutto questo?

Ricambio l’abbraccio,

Carlo Gambescia

https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2018/11/una-replica-all-interessante-articolo.html?spref=fb&fbclid=IwAR2pXredeFLtvbnTzIO-Qx94OxMztLk_JqNA4DU8HRZXp-8PiBTwEHtK-E0

[1] https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2018/11/una-replica-all-interessante-articolo.html?spref=fb&fbclid=IwAR2pXredeFLtvbnTzIO-Qx94OxMztLk_JqNA4DU8HRZXp-8PiBTwEHtK-E0

[2] https://italiaeilmondo.com/2018/11/08/elezioni-europee-2019-quale-idea-deuropa-di-roberto-buffagni/#disqus_thread

[3] In: After virtue: a Study in Moral Theory (1981).

[4] http://www.treccani.it/enciclopedia/gaetano-mosca_%28Dizionario-Biografico%29/

[5] https://thetrueeurope.eu/uneuropa-in-cui-possiamo-credere/

 

[6] https://youtu.be/tuuUcIrd2AU

 

13 novembre 2018

Telegramma a Carlo Gambescia

Caro Carlo,

tu mi hai mandato due cartoline, io un’enciclica. Per pareggiare ti invio un telegramma:

SE LA UE E’ UN CONTRATTO E’ UN PESSIMO CONTRATTO, RIVEDERE STOP

ANTICA PERO’ QUESTA MODERNITA’ CHE VA RATIFICATA IN BLOCCO MI RICORDA IL SALTO DELLA FEDE STOP

INDIVIDUALISTA LO SONO ECCOME INFATTI SOPPORTO LE IMPOSIZIONI “PER IL MIO BENE” [SIC] SOLO SE AUTORIZZATE DA UN DIO IN CUI CREDO ANCHE IO STOP

Riabbraccio affettuoso, Tuo Roberto

Al quale rispondo con  un mio telegramma :

Telegramma a Roberto Buffagni 

CONCORDO SUL RIVEDERE CONTRATTO STOP
SENZA PISTOLE ALLA MANO STOP
TRATTASI DI ESPERIMENTO STOP
ASTENERSI FIDEISTI  STOP
Un abbraccio di cuore, Tuo Carlo

Elezioni europee 2019: quale idea d’Europa?, di Roberto Buffagni

Prolegomeni alla teologia elettorale

Elezioni europee 2019: quale idea d’Europa?

 

Le elezioni europee del 2019 hanno certo grande importanza politica, anche se il Parlamento UE dispone di limitati poteri. Ma sul piano simbolico, che con la dimensione del politico ha una relazione necessaria, le elezioni europee 2019 saranno, a mio avviso, decisive. Lo saranno, perché per la prima volta sarà messo apertamente in questione il difetto genetico della UE, cioè la fonte della sua legittimità, e per la prima volta comincerà ad entrare nel dibattito politico di massa la domanda “che senso ha l’Europa”?

Lo rileva con intelligenza Massimo Cacciari in questo recentissimo, appassionato e commosso intervento al Forum PD: https://youtu.be/RR9vCQqfIUY , che invito il lettore ad ascoltare per intero.

Questi i punti essenziali dell’intervento di Cacciari:

  1. E’ in corso, in Europa, un conflitto decisivo tra visioni del mondo e concezioni antropologiche incompatibili
  2. L’Europa atlantica delle origini è finita per la scelta sciagurata di dominio mondiale degli USA dopo la fine dell’URSS
  3. L’Europa odierna ha mancato alla sua promessa fondativa: s’è svuotata la democrazia rappresentativa, che senza una concreta eguaglianza di opportunità e una realistica prospettiva di benessere personale e sociale perde di senso, e viene sostituita da forme di “democrazia autoritaria”.
  4. Sarà ancora democratico, il nostro futuro?”
  5. Lo scontro sovranismi, populismi, nazionalismi/europeismo è analogo allo scontro tra potenze cosmopolite e potenze nazionali che condusse alla IGM. Oggi, al posto dell’impossibile guerra guerreggiata ci sarebbe la guerra economica “tra gli Staterelli” europei. Nel mondo di oggi possono competere solo Grandi Spazi.
  6. Dopo la I e la II guerra mondiale, alle prossime elezioni europee si profila la possibilità del “terzo suicidio d’Europa.”
  7. Per sventarlo, anzitutto non bisogna difendere la UE così com’è: oggi, l’Europa è indifendibile.
  8. Va proposta una nuova idea d’Europa e una riforma profonda delle sue istituzioni, abbandonato il rigorismo economico, trovata una politica estera comune anzitutto mediterranea (ne fa parte il problema migratorio).
  9. E’ necessaria l’idea dell’Europa avvenire. Qual è la missione d’Europa?
  10. La crisi d’Europa non è solo la crisi delle socialdemocrazie, ma ancor più la crisi dei partiti di ispirazione cristiana. Christenheit oder Europa[1], si diceva un tempo. Ma oggi, chi rappresenta l’ispirazione cristiana del progetto europeo?
  11. I sovranisti un’idea ce l’hanno: la nazione, il popolo. “Sono balle”, ma sono anche idee. Qual è la nostra idea?
  12. Alle due prime parole d’ordine della rivoluzione francese, libertà ed eguaglianza, i rivoluzionari aggiunsero la terza, “fraternità”, che è un principio eminentemente cristiano. Libertà ed eguaglianza non bastano, perché libertà “è una parola vuota”, e “libertà” ed “eguaglianza” sono in contraddizione reciproca.
  13. Non si può combinare l’Europa se non combini le grandi tradizioni laiche alle tradizioni della cristianità.” E’ su queste basi che si può immaginare una missione d’Europa.
  14. L’Europa non è solo razionalizzazione, tecnica, scienza, non solo democrazia come procedura democratica, ma anche cultura e umanesimo europei.
  15. Le democrazie autoritarie hanno bisogno di un nemico. Una vera democrazia rappresentativa europea, invece, deve essere una “democrazia accogliente”, che tenta di rappresentare anche l’Altro con il quale entra in rapporto: la democrazia davvero rappresentativa è forte perché riesce a dia-logare, perché il suo Logos inclusivo è infinitamente più forte della parola solipsista dei nazionalismi.

Prendo in esame il discorso di Cacciari, premettendo che non sono né  teologo né filosofo, e che dunque le mie sono soltanto osservazioni di un dilettante di buone, benché un po’ antiquate, letture.

Concordo in sostanza con la diagnosi sull’attuale situazione europea delineata da Cacciari nei primi 4 punti. Dissento sull’analogia al punto 5, tra cause della IGM e attuale conflitto tra nazionalismi ed europeismo, che mi sembra affrettata. Verisimile, invece, che a una disgregazione della UE succederebbe un “periodo di torbidi” e di guerra economica, o meglio ibrida, tra nazioni europee. Concordo sul punto 7, sulla indifendibilità della UE così com’è.

E vengo ora ai punti che mi interessano di più, vale a dire al tema della “idea” e della “missione” d’Europa. E’ senz’altro vero che ogni realtà politica (anzi, ogni realtà umana) abbisogna di una “idea” e di una “missione”, vale a dire di un senso. A maggior ragione ne abbisogna una realtà politica in fieri (e in crisi) come l’Europa, che in tutta la sua storia splendida e terribile non è mai riuscita a trasformarsi in entità politica unitaria. Ed è perfettamente vero che “Non si può combinare l’Europa se non combini le grandi tradizioni laiche alle tradizioni della cristianità” (punto 13).

Ora, la domanda logicamente conseguente alla corretta affermazione di Cacciari è: “è possibile dare forma all’Europa combinando le grandi tradizioni laiche alle tradizioni della cristianità?” Non è certo facile rispondere; ma credo che il conflitto culturale e politico epocale che si delinea e si prepara, in Europa e nel mondo, e del quale le prossime elezioni europee saranno un episodio significativo, verta proprio su questo punto chiave.

Cerco di spiegarmi meglio, nei limiti delle mie capacità e delle dimensioni di questo breve scritto.

La spia del punto problematico credo lampeggi al punto 15 del discorso di Cacciari, dove egli distingue tra democrazie autoritarie che hanno bisogno di un nemico, e una vera democrazia rappresentativa europea, che invece deve essere una “democrazia accogliente”, che vuole rappresentare anche l’Altro con il quale entra in rapporto ed eventualmente in conflitto. Il nodo che il discorso di Cacciari tenta qui di sciogliere, è la contraddizione intrinseca all’universalismo politico. L’universalismo è una cosa sul piano delle idee, dei valori, della spiritualità. Se tradotto sul piano politico, però, l’universalismo non può che incarnarsi in forze inevitabilmente particolaristiche: perché esistono solo quelle, nella realtà effettuale. Volendo, chi se ne sente all’altezza può parlare in nome dell’umanità; ma non può agire politicamente in nome dell’umanità senza incorrere in una contraddizione insolubile, perché l’azione politica implica sempre il conflitto con un nemico; ed egli è dunque costretto a postulare l’accordo universale, almeno futuro, intorno alle sue premesse. E’ per questo che Cacciari sottolinea la necessità, già avvertita dai rivoluzionari francesi, di integrare la parola d’ordine cristiana di “fraternità” (cioè di concordia, almeno sperata e promessa) alle prime due, soprattutto reattive rispetto ai principi dell’ancien régime, di libertà ed eguaglianza.

Infatti, il minimo comun denominatore delle grandi forze politiche europee e statunitensi – liberals, cattolici democratici, socialdemocratici –  che hanno dato vita all’Unione Europea, è proprio l’universalismo politico[2]; e l’Unione Europea è un progetto universalista al 100%, tant’è vero che è stato sinora impossibile definirne i confini territoriali, che ai tempi del fiducioso entusiasmo europeista qualcuno pretendeva di estendere alla Turchia, e persino a Israele: perché ha diritto di far parte dell’UE chiunque ne condivida i valori universali, cioè virtualmente tutti, dal Samoiedo al Gurkha al Masai, e non soltanto chi ne condivida le radici storiche e i confini geografici.

La “vera democrazia rappresentativa europea” di Cacciari, che al contrario delle democrazie autoritarie non ha un nemico e deve essere una “democrazia accogliente”, che vuole “rappresentare anche l’Altro con il quale entra in rapporto”, è dunque la vera democrazia universalista, che per sua logica interna tende a diventare democrazia universale, cioè mondiale; e che non persegue questo obiettivo con la forza, con la conquista imperiale del mondo, ma in virtù del proprio Logos inclusivo, “infinitamente più forte della parola solipsistica” dei nazionalismi, legati all’identità dei popoli e delle nazioni (che sono “balle”).

Ora, una grande istituzione politica e culturale che ha il suo centro in Europa, “che tenta di rappresentare anche l’Altro con il quale entra in rapporto”, e che non pensa né agisce solo in conformità alle categorie amico/nemico che definiscono il Politico – per quanto la contingenza storica la costringa a tenerne conto e a piegarvisi tatticamente – esiste già: è la Chiesa cattolica cioè universale, il primo dei due “soli” del De monarchia dantesco (l’altro è l’Impero). Alla Chiesa cattolica universale, infatti, appartiene virtualmente tutta l’umanità, perché tutti gli uomini sono creati a immagine e somiglianza di Dio, e in Cristo virtualmente figli di Dio e fratelli (teologicamente, la figliolanza divina e la fraternità effettuali conseguono alla effettuale appartenenza sacramentale alla Chiesa, cioè al battesimo).

Implicitamente, dunque, Cacciari assegna all’Europa la missione di diventare la Nuova Chiesa Universale: una potenza, certo, anche temporale e politica, ma anzitutto ideale e spirituale; che certo deve fare, anche spregiudicatamente, i conti con il potere e con il conflitto politico, e dunque con la dialettica amico/nemico; ma che si legittima in ordine alla sua virtualmente universale inclusività. Senza forzar troppo l’analogia, si può dire che Cacciari assegna all’Europa da lui auspicata la missione di diventare un Impero Spirituale Universale, così replicando, nella dialettica con gli USA, l’altro polo geopolitico imperiale occidentale, la funzione che la Chiesa cattolica svolse nella dialettica con il Sacro Romano Impero. Europa-Chiesa, USA-Impero, con relativa lotta per le investiture.

Se la mia analisi della proposta di Cacciari è corretta, la risposta alla domanda “è possibile dare forma all’Europa combinando le grandi tradizioni laiche alle tradizioni della cristianità?” è obbligata, ed è “Assolutamente no, almeno non in questa forma.”

Mi spiego. Non c’è il minimo dubbio che il cristianesimo sia universalista: chiara come il sole l’affermazione di S. Paolo, che “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù.”[3] Vera, o almeno storicamente plausibile benché parziale, la tesi secondo la quale l’universalismo cristiano è la principale forza ideale sradicante che ha dissolto i legami della stirpe, del suolo, dell’ethos della polis antica. E’ per questa ragione che un pensatore di grande statura come Alain de Benoist si dichiara “pagano”: non perché sacrifichi a Zeus, ma perché, in nome della comunità e della tradizione, rifiuta l’universalismo cristiano, che considera omologo al mondialismo, al liberalismo e al capitalismo, nichilisti e dissolventi. Ed è per questa ragione di fondo che mondialismo ed europeismo trovano oggi l’appoggio politico e culturale del papa e della Chiesa cattolica: un appoggio che, come dimostra anche il discorso di Cacciari, vale, per dirla con Stalin, “molte divisioni”, anche se il cattolicesimo odierno non ha più il peso culturale e politico di quando principali promotori della UE erano esponenti cattolici come De Gasperi, Schumann, Adenauer.

Però, c’è un però. La trasposizione dell’universalismo cristiano in universalismo politico è un caso di scuola di “immanentizzazione dell’eschaton”, cioè di trasposizione sul piano immanente, storico, di un fine sovrastorico e anzi trascendente: appunto, escatologico. Per farla breve, del tentativo di realizzare in Terra il Regno dei Cieli,  dove l’uomo comprenderà e controllerà il mondo come Dio la realtà, e dove la tentazione del Serpente nel giardino dell’Eden si rivelerà come promessa veritiera: “Eritis sicut dii, scientes bonum et malum”. E siccome saremo, naturalmente, dèi buoni e misericordiosi oltre che onnipotenti, ogni conflitto cesserà, la concordia regnerà, e il leone giacerà con l’agnello.  Il maggiore studioso dello gnosticismo politico – perché di questo si tratta: della traduzione politica di una corrente di pensiero gnostica – è Eric Voegelin[4], e alle sue opere rinvio il lettore.

Sul piano teologico, l’appoggio che papa e Chiesa cattolica danno a progetti politici gnostici come il mondialismo e l’europeismo dipende da quella che Romano Amerio[5] definisce “dislocazione della divina Monotriade” (la Monotriade è la SS. Trinità). Che cosa intende con questa formula il grande teologo cattolico svizzero-italiano? Nella sua opera maggiore, Iota unum[6], Amerio scrive che “alla base del presente smarrimento [della Chiesa cattolica] vi è un attacco alla potenza conoscitiva dell’uomo, e questo attacco rimanda ultimamente alla costituzione metafisica dell’ente e ultimissimamente alla costituzione metafisica dell’Ente primo, cioè alla divina Monotriade. […] Come nella divina Monotriade l’amore procede dal Verbo, così nell’anima umana il vissuto dal pensato. Se si nega la precessione del pensato dal vissuto, della verità dalla volontà, si tenta una dislocazione della Monotriade”.

Tento una breve illustrazione del denso concetto di Amerio. Il Credo Niceno-Costantinopolitano recita: “Credo in unum Deum, Patrem omnipotentem, Factorem cæli et terræ, visibilium omnium et invisibilium, Et in unum Dominum Iesum Christum, Filium Dei unigenitum et ex Patre natum ante omnia saecula: Deum de Deo, Lumen de Lumine, Deum verum de Deo vero, genitum, non factum, consubstantialem Patri: per quem omnia facta sunt; qui propter nos homines et propter nostram salutem, descendit de cælis, et incarnatus est de Spíritu Sancto ex Maria Vírgine et homo factus est […]Credo in Spiritum Sanctum, Dominum et vivificantem, qui ex Patre Filióque procedit, qui cum Patre et Filio simul adoratur et conglorificatur, qui locutus est per prophetas.”

Sul piano filosofico, Dio Padre corrisponde all’Essere, alla Realtà (“Io sono Colui che Sono/E’” risponde il roveto ardente alla domanda di Mosè). Il Figlio “generato e non creato, della stessa sostanza del Padre” è il Logos, la Verità e la Ragione, e lo Spirito Santo “che procede dal Padre e dal Figlio” insieme (Filioque) è l’Amore, la Carità “vivificante”. I rapporti interni all’ “Ente primo”, alla “divina Monotriade”, sono dunque i seguenti: Essere/Realtà e Logos/Ragione/Verità sono consustanziali: il Logos/Ragione/Verità è generato, non creato dall’Essere/Realtà. Dio Padre non decide arbitrariamente, con un puro atto di volontà, che cosa sia bene o male, o se il fuoco debba esser caldo o freddo (così ritiene invece, ad esempio, la teologia islamica). La Ragione e la Verità, e dunque anche la ragione e la verità accessibili all’uomo, sono consustanziali all’Essere e alla Realtà. Dal loro rapporto intrinseco e consustanziale nella SS. Trinità “procede” lo Spirito Santo, l’Amore/Carità; come, per analogia, dal rapporto vero e necessario tra realtà e ragione procedono, per l’uomo, il vero amore e la vera carità. Questa definizione dogmatica della SS. Trinità fonda la possibilità e la necessità dei preambula fidei, la “religione naturale” che i padri della Chiesa riconobbero nella filosofia platonica e aristotelica, parzialmente integrandole nella dottrina cattolica.

Nella formulazione di S. Tommaso: “Veritas est adæquatio rei et intellectus”. In un linguaggio più moderno, si può dire che la verità è inscritta nella realtà oggettiva del creato come Logos, come ordine e ragione, che l’intelletto umano può riconoscerla e “adeguarvisi” perché la natura umana è “consustanziale” alla realtà/verità come la Seconda Persona della SS. Trinità è consustanziale alla Prima, e che la libertà dell’uomo consiste nella facoltà di riconoscere e adeguarsi alla verità/realtà oppure no (libero arbitrio). Si noti bene, però, che quando sceglie di non “adeguarsi al vero”, l’uomo sceglie il falso e il male, che essendo “privatio boni” (S. Agostino) non fanno parte della realtà, dell’essere e dell’ordine. L’adesione, la  adæquatio alla realtà/verità, è dunque adesione, adæquatio alla Legge divina, che è anche il Logos, l’ordine del creato. E’ dal rapporto tra Essere/Realtà e Logos/Ordine che “procede” l’Amore, la “caritas” che può sussistere soltanto “in veritate”, come recita il titolo dell’enciclica di Papa Benedetto XVI.

Per riassumere: non c’è amore senza ordine, non c’è carità senza verità, non c’è misericordia senza legge. E di conseguenza: l’amore disordinato è falso amore, la carità senza verità è falsa carità, la misericordia senza legge è falsa misericordia. La libertà non è una “parola vuota”, come dice Cacciari; è ciò che consente all’uomo di scegliere tra ordine e disordine, verità e falsità, legge e colpa/peccato. Analogicamente: come la Legge divina, con i suoi necessari correlati di divino imperio ed eterna condanna, consente il dispiegarsi della divina Carità, così la legge umana, con i suoi necessari correlati di comando e sanzione, consente il dispiegarsi dell’umana fraternità e solidarietà, anche politica.

Ecco perché Romano Amerio ha intitolato la sua opera teologica maggiore Iota unum, citando sin dal titolo il passo evangelico in cui Gesù afferma: “Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto.” [7]

La “dislocazione della divina Monotriade” di cui parla Amerio, insomma, consiste nel mettere l’amore al posto del Logos, la volontà prima dell’intelletto, la libertà in luogo della legge, il sentimento sopra la ragione.

La stessa identica “dislocazione” avviene, sul piano culturale, politico e sociale, nella presente civiltà capitalistica liberale occidentale. Dove non è difficile vedere come a) la legge è puramente positiva: procedurale, convenzionale e funzionale, senza rapporto “consustanziale” con la verità e la realtà, dal che consegue che, non esistendo nulla di simile alla “legge naturale”, la si può modificare indefinitamente, per consenso o con atto d’imperio b) la libertà liberale è affatto arbitraria, e dipende da una scelta insindacabile della volontà soggettiva, limitata soltanto da considerazioni di utilità, opportunità e funzionalità: il vaghissimo “non ledere la libertà altrui” (per inciso: è in questo senso che Cacciari ha ragione definendo la libertà “parola vuota”) c) il sentimento, le emozioni e i desideri –  nel linguaggio antico “le passioni” che influenzano la volontà soggettiva – tendono ad assumere valore di diritto: divorzio perché il coniuge non mi fa più battere il cuore, commissiono un bambino perché desidero un figlio, apro le frontiere a tutti perché mi commuovono i bambini migranti, etc.

Ma nel Logos, Ragione e Legge divina, si può identificare il katéchon (κατέχων), “ciò che trattiene” l’Anomos: che escatologicamente è l’Anticristo.

Il testo escatologico, densissimo, di San Paolo è il seguente: “Nessuno vi inganni in alcun modo! Prima infatti verrà l’apostasia e si rivelerà l’uomo dell’iniquità, il figlio della perdizione, l’avversario, colui che s’innalza sopra ogni essere chiamato e adorato come Dio, fino a insediarsi nel tempio di Dio, pretendendo di essere Dio. Non ricordate che, quando ancora ero tra voi, io vi dicevo queste cose? E ora voi sapete che cosa lo trattiene perché non si manifesti se non nel suo tempo. Il mistero dell’iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo colui che finora lo trattiene.[8]

La densità e l’ambiguità di questo brano, rivolto alla comunità cristiana di Tessalonica turbata da voci che davano per imminente la Parusia (il ritorno del Cristo in gloria, “per giudicare i vivi e i morti”) hanno generato un’infinita messe di interpretazioni del katéchon non solo teologiche, ma di filosofia della storia e di filosofia politica. Non sono in grado, per ragioni di competenza e di spazio, di riassumerle tutte. Molto nota e rilevante l’interpretazione di Carl Schmitt ne Il Nomos della Terra (1950)[9]. Per Schmitt, non esiste bene – bene comune politico – senza ordine. Per lui, il katéchon è la forza, non solo spirituale ma anche temporale, che impedisce al disordine di insinuarsi nell’ordine e disgregarlo. La facoltà del sovrano di intervenire in difesa dell’ordine decidendo lo stato di eccezione corrisponde alla facoltà divina di compiere miracoli, sospendendo la legge naturale. La Chiesa cattolica, vettore e garante del dogma, che è legge divina, è certo la componente spirituale del katéchon, mentre una incarnazione storica del suo aspetto temporale è senz’altro il Sacro Romano Impero. In Terra e Mare (1943)[10] Schmitt sembra individuare come katéchon ogni potenza statale che arresti la marcia del mondo verso l’anomia globale. Qui[11] una brevissima  sintesi dell’analisi schmittiana.

Cacciari, studioso di Schmitt,  ha dedicato al katéchon approfondite riflessioni sparse in diverse sue opere, ed espressamente un recente libro intitolato Il potere che frena[12].

Tento di riassumere l’interpretazione di Cacciari, ribadendo la premessa che non sono né teologo né filosofo. Una discussione seria di questi temi è over my paygrade, e mi cimento nel tentativo solo perché, in modo invero sbalorditivo, l’attualità politica più immediata e cronachistica esige almeno un tentativo di comprensione.

Nella sua opera maggiore Dell’Inizio[13] Cacciari scrive “Essere-creato è simultaneamente peccare […] ed è perciò che nell’uomo appena creato Dio punisce il peccare, ab initio” […] “La caduta degli Angeli è simultanea alla creazione, la catastrofe celeste è tutt’uno con la katabolé-ktisis per cui qualcosa ek-siste”, che è un buona formulazione della prima e fondamentale tesi del pensiero gnostico: che il mondo, e l’uomo nel mondo, sono frutto di una caduta, di una frattura; l’intera realtà in cui ci troviamo è una realtà d’esilio. “La ‘regio umbrae mortis’ che abitiamo è immagine soltanto [..] di quella tenebra in cui è Dio nei confronti di sé, della conoscenza di sé […] Dio riflette la propria incatturabilità: non può vedersi. Ma nell’istante in cui così si ‘riflette’, egli crea l’immagine stessa della creatura, la sua immagine. Il sapersi come tenebra da parte di Dio (cioè: l’attingere il fondo della propria ignoranza) è l’uomo”.  Poiché la creazione intera è l’errore di un Dio oscuro a se stesso, analogo al cattivo Demiurgo gnostico, il “futuro Regno” promesso da Cristo “equivale al suo [dell’uomo] nientificarsi: la nuova creazione è in realtà de-creazione”.

In altre parole, la dissoluzione è la salvezza. Secondo il paradigma gnostico, diritto, legge, istituzioni in genere devono essere abbattute, perché, appunto, la salvezza è la dissoluzione: “[Gesù] sembrava citare Ezechiele, ma in realtà diceva: io sono la porta attraverso cui dovrete uscire dal recinto – voi mi seguirete fuori dall’ovile [l’ovile della Legge] e questo sarà il vostro esodo vero.” […] “Come dobbiamo pensare l’Età del Figlio, se in essa durano Nicodemo e Pilato?” Cioè se dopo Cristo vigono ancora la Legge ebraica e lo jus romanum, la Legge sacra e quella civile, la Chiesa e i codici penali? Gesù non ha riscattato l’uomo dalla “ontologica miseria della Legge per cui essa è sì contro il peccato, ma ne è sempre anche una sua conseguenza, per cui essa è costretta a riconoscere la prepotenza del peccato.”

Quando Gesù dice: “Amatevi come Lui vi ha amato […] afferma, al presente, l’impossibile. La pienezza del comandamento è oltre ogni misura di quanto è realizzabile in questa Età.” Quando dice: «Amate i vostri nemici […] il nudo fatto, che si dà [ancora] nemico, è pre-potente rispetto all’amore […] puoi anche amare il tuo nemico, mai annullarlo.” Ma soprattutto, il Figlio ha detto che “nessuno, nel Presente, può dirsi buono, che non possono esservi, in esso, ‘teleioi’ [ossia gnosticamente ‘perfetti’] cosi radicalmente che neppure il Figlio si chiama ‘buono’”. Insomma: ciò che Cristo ci ha lasciato è una “fede radicalmente infirma […] che non può eliminare la struttura di peccato, la fede di chi non è ‘giusto’”.

La stessa Parola di Gesù, dunque, rimanderebbe a una rivelazione ulteriore, definitiva e perfetta, che Cacciari chiama “il tempo dell’Ultimo”.

Gesù Cristo non ha salvato l’uomo. Dobbiamo aspettare un altro liberatore. Fin qui, Cacciari ripercorre, seppur deviando spesso, il sentiero di Gioacchino da Fiore[14], con le sue tre età della storia terrena: l’età del Padre (ebraismo, Antico Testamento), l’età del Figlio (cristianesimo, Nuovo Testamento) e l’età dello Spirito Santo (età della rivelazione/apocalissi dell’Amore).

Ma chi è, per Cacciari, l’altro liberatore, il liberatore definitivo, “l’Ultimo” che verrà nel Tempo escatologico, di apocalisse, di cui Gesù è il mero annunciatore? “…perché il vero scandalo […] è […] che l’apocalisse del Figlio non abbia assunto in sé, nel suo stesso kairòs, l’apocalisse dei figli”, che Cristo non ci abbia “rivelati a noi stessi» (tale è il senso di ‘apocalypsis’). “Rivelati nella nostra natura di figli” significa “rivelati nella nostra natura di liberi, assolti da ogni Legge”.

Affrontando il tema escatologico per antonomasia, Cacciari deve interpretare anche il passo paolino sul katéchon. “Si tratta di ben altro che del semplice bisogno di fronteggiare le impazienze apocalittiche delle prime comunità […] si tratta di salvare l’incalcolabilità dell’éschaton, e dunque […] della Vita intradivina, dalla sua riduzione a forme secolarizzate di messianismo… viene l’antikeimenos, lo spirito della separazione: separazione dalla Legge […] Ma il suo contrapporsi e separare, il suo dia-bàllein (egli viene infatti secundum operationem Satanae, potenza che separa) […] non si configura affatto come un semplice ‘distruggere’ Dio. Egli non proclama affatto che ‘Dio è morto’, ma mostra se stesso come Dio.” Egli seduce con un “discorso che appare non soltanto estremamente prossimo al vero Annuncio, ma, addirittura, sua piena esplicazione. Egli predica, infatti, la libertà dalla Legge come libertà assoluta.[15]

Per concludere: il Filium Perditionis, l’Anticristo, L’Anomos è l’Ultimo Liberatore. Egli e non Cristo compirà la Liberazione, rivelerà l’essenza divina come “pleroma dell’abbandono”. Opposto a Cristo anche se “quel polo opposto alla Croce, la sua pura possibilità […], è indicato dalla Croce stessa” perché “se il Figlio ‘libera’, libera anche questa possibilità: la radicale negazione di sé è a priori possibile per il pieno erede.”

La Chiesa è incapace di capire la verità esoterica nascosta nella Buona Novella, e combatte l’Anticristo, non accettandolo come il vero Paraclito annunciato da Cristo. Ecco perché Cacciari, in un’intervista[16] a Maurizio Blondet allora inviato di “Avvenire”, poi raccolta in volume[17], esclamò a proposito di papa Giovanni Paolo II: “Il papa deve smettere di fare il katéchon!”

Conclusione provvisoria

Dopo questa analisi sommaria, che spero non avrà troppo stancato il lettore, credo si capiscano meglio alcuni punti chiave del discorso di Cacciari.

Nazioni e popoli “sono balle” perché sono realtà storiche particolari e transeunti, piccoli katéchon destinati ad esser travolti dal moto metastorico inarrestabile che sospinge il mondo verso l’apocalissi, la rivelazione ad opera dell’Anomos della nostra natura di figli, liberi dalla Legge e degli ordini civili, dalle istituzioni ecclesiali, politiche e giuridiche che fanno da katéchon, cioè “trattengono” la manifestazione dell’amore e della fraternità universali.

Libertà “è una parola vuota” perché si riempie di senso soltanto se siamo liberi di riconoscere e aderire alla verità, e la verità non è il logos, non è la legge, ma è il niente e l’amore, aspetti complementari della stessa realtà “anomica”.

Il “Logos inclusivo” della “democrazia davvero rappresentativa” non è il Logos/ragione/ordine, non è la Seconda Persona della SS. Trinità. Il Logos inclusivo della democrazia davvero rappresentativa “è infinitamente più forte della parola solipsista dei nazionalismi” perché è il logos dell’Anomos, il logos della liberazione dalla Legge, dalle istituzioni, dall’ordine civile: il logos dell’Ultimo Liberatore, al quale soltanto il katéchon, sinora, resiste. Ma il katéchon sempre più allenta la sua presa, e le catene che imprigionano il Liberatore cominciano a spezzarsi: come suggeriscono le dimissioni di papa Ratzinger.

“La Chiesa si è sempre caratterizzata anche per la sua capacità di “tenere a freno”, di arrestare – come si legge in San Paolo – l’avanzata delle forze anticristiche. Bisogna quindi chiedersi se la decisione di Ratzinger non sia una lucida dichiarazione di impotenza a reggere una funzione di ‘potere che frena’. Ratzinger dice: continuerò a essere sulla croce, facendo salva la dimensione religiosa, che rimane. Ma la dimensione del potere che frena dove va a finire? Simbolo della Chiesa è, assieme, Croce e katéchon ( la figura ben presente nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi di San Paolo: potere che frena l’avanzata dell’Anticristo, ndr). Il segno di queste dimissioni, a saperlo vedere in tutta la sua prospettiva è dunque davvero grandioso… Potremmo ipotizzare che Ratzinger si dimette perché non riesce più a contenere le potenze anticristiche, all’interno della stessa Chiesa. Come diceva Agostino, gli anticristi sono in noi. Questa è una chiave per la decisione di Ratzinger, se vogliamo leggerla in tutta la sua serietà. La sua decisione fa tutt’uno con la crisi del politico, del potere che frena.”[18]

Mi fermo qui. E’ un discorso che dovremo riprendere, perché come mi pare si possa già scorgere con chiarezza, il momento storico presente è davvero un momento di crisi e trapasso epocale, in cui alzano la voce nel campo di battaglia politico e mediatico domande che sinora si ponevano nel Kampfplatz filosofico, per dirla con Kant; o nell’arena teologica. L’Europa – l’Europa oder Christenheit, ma anche l’Europa ovvero Illuminismo, l’Europa ovvero nichilismo, eccetera – si interroga su se stessa, e lo fa, con l’umiltà dei grandi, coram populo, in mezzo alla strada, sugli schermi delle televisioni e dei pc, sulle pagine dei giornali e nelle discussioni tra amici e avversari. Prestiamo attenzione.

 

 

 

 

 

 

[1] E’ il titolo di un celebre scritto di Novalis (Georg Friedrich Philipp Freiherr von Hardenberg), elaborato nel 1799 e letto dall’Autore al Circolo Romantico di Jena, a un pubblico del quale facevano parte Schelling e Goethe. Fu pubblicato nel 1826 per iniziativa di Schlegel. E’ uno dei testi seminali del romanticismo europeo. V. https://it.wikipedia.org/wiki/La_Cristianit%C3%A0,_ovvero_l%27Europa

[2] Ne parlo più diffusamente qui: http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2016/12/la-politicaitaliana-secondo-shakespeare.html

[3] Galati 3,28

[4] https://en.wikipedia.org/wiki/Eric_Voegelin

[5] https://it.wikipedia.org/wiki/Romano_Amerio

[6] Iota unum. Studio delle variazioni Della chiesa cattolica nel secolo XX, Lindau, Torino 2009, a cura di Enrico M. Radaelli.

[7] Matteo 5,17

[8] Seconda lettera ai Tessalonicesi, 3-7

[9] Carl Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «jus publicum europaeum», traduzione di Emanuele Castrucci, Milano, Adelphi 1991 (sesta ed.)

[10] Carl Schmitt Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo, traduzione di Giovanni Gurisatti, Milano, Adelphi 2002 (settima ed.)

[11] https://philitt.fr/2017/10/23/le-katechon-selon-carl-schmitt-de-rome-a-la-fin-du-monde/

[12] Massimo Cacciari, Il potere che frena. Saggio di teologia politica, Milano, Adelphi 2013 (settima ed.)

[13] Massimo Cacciari, Dell’inizio, Milano, Adelphi 1990 (terza ed.)

[14] https://it.wikipedia.org/wiki/Gioacchino_da_Fiore

[15] Sottolineatura mia.

[16] https://www.esonet.org/massimo-cacciari-ii-papa-deve-smettere-di-fare-il-katechon/

[17] Maurizio Blondet, Gli Adelphi della dissoluzione, Effedieffe ed. 2013

[18] Intervista a Massimo Cacciari, http://www.vita.it/it/article/2013/03/11/cacciari-il-nuovo-papa-dovra-sfidare-lanticristo/122928/

IL GOVERNO, L’ITALIA E L’UNIONE EUROPEA_intervista ad Augusto Sinagra

Una nuova intervista ad Augusto Sinagra. Il nesso che lega il documento inviato alla Commissione Europea dal Ministro Savona, “politeia”, alle note della finanziaria. Punti di forza e debolezze dell’attuale Governo_Buon ascolto_Giuseppe Germinario

DIAMO (UN PO’) I NUMERI, di Antonio de Martini

NUMERATORE E DENOMINATORE. NON È DIFFICILE. È CULTURA ELEMENTARE

Non mi pare una strategia difficile da capire.
Se 9/3 fa tre e si vuole incrementare il risultato(3) si può operare in due maniere:
1) abbassando il denominatore es. 9/2 fa 4,5
2) alzando il numeratore es. 12/3 fa 4

L’obbiettivo del governo è centrare l’opzione 2, ma tutti sono polarizzati dall’abitudine a osservare il calare del denominatore, anche se abbiamo sotto gli occhi la sorte della Grecia costretta a subire i calcoli – poi ammessi come errati
– della trimurti ( BCE/FMI/UE) che trova più facile abbassare il denominatore.

Il governo dovrebbe però rivelarci, per avere la nostra fiducia, come farà a far aumentare la cifra del numeratore.
Che investimenti intende fare?

Il meccanismo di calcolo dei parametri contabili di stato è tanto perverso che il PIL cresce anche se si aumenta lo stipendio a tutti gli statali, si, perché gli stipendi degli statali vanno a incrementare il PIL.

Vi pare una cosa seria?

Intanto accanto agli euroscettici, è nato il gruppo degli italoscettici. Sabotatori che invocano un disastro fingendo di paventarlo.

La verità concreta e illuminante dei fatti è stata calcolata da Giorgio Vitangeli, un giornalista economico serio e di provate capacità: dal 1980 al 2017 l’Italia ha pagato 3.400 miliardi di interessi ai
“mercati. “

Ovvio che non vogliano farsi sfuggire una preda tanto ricca e finanziano gli oppositori.

In pratica, noi italiani abbiamo pagato un anno intero di PIL ogni dieci anni. Un peso insopportabile generato dai DC e dalla sinistra socialista e comunista per rincorrere l’elettorato.

È imperativo per l’Italia rompere questo assedio di usurai anche a costo di un conflitto armato.

Costerebbe di meno.

SIAMO VIVI GRAZIE ALLA BREXIT

Il ministro Tria pochi mesi fa ( tre) fece una dichiarazione incoraggiante.
Disse che avrebbe si aumentato le spese, ma quelle in conto capitale, ossia gli investimenti destinati a rendere.

Mi aspettavo la creazione di un fondo sovrano come quello che in Norvegia hanno stanziato usando la rendita petrolifera.
Finora ha reso il 30/40% annuo e fornisce i mezzi per il reddito di cittadinanza ai cittadini.

Le spese deliberate nel nuovo progetto di bilancio non sono in conto capitale, sono – per carità doverose – ma spese e basta.

L’Italia potrebbe permettersi questa ed altre follie spendereccie se avesse una migliore immagine internazionale e se smettesse di incentivare la gente alla rendita.

Vivere di rendita é una giusta aspirazione individuale e un pessimo esempio sociale ed educativo. Senza intraprendere non si crea ricchezza. Senza deregulation burocratica nessuno intraprende qui in Italia.

Il rimedio per chi deve intraprendere è utilizzare sistematicamente la corruzione per evitare i paletti di controllo che arricchiscono solo i controllori.

Adesso, con le spese aumentate e in assenza di investimenti produttivi ad alto reddito, continueremo ad erodere la nostra credibilità politica aprendo la strada che ci è stata tracciata da altri.

Si illude chi crede che ” usciremo dall’Euro e dalla UE”: ci stanno apparecchiando un destino alla Greca che abbiamo evitato recentemente di poco, grazie all’imprevisto della BREXIT.
I padroni del vapore non vogliono affrontare più di una grana alla volta.

Appena sistemati gli inglesi, toccherà a noi. E siamo in attesa sereni e imprevidenti.

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