le virtù di Soros e la solerzia dei Torquemada, di Giuseppe Germinario

Di Soros si raccontano le peggiori nefandezze. Non gli si possono negare, però, due qualità fondamentali: la capacità di operare su grande scala, per lo più quella planetaria; il rispetto della parola data nonché la determinazione nel perseguirla. Mesi fa il paladino, a Davos, http://italiaeilmondo.com/2018/01/26/george-soros-la-parabola-di-un-filantropo_-di-gianfranco-campa-e-giuseppe-germinario/aveva sentenziato sulla necessità di regolamentare l’attività dei social network e ripristinare la verità con un tono però, a dire il vero, inquietante, tra il profetico e il minatorio. 

Detto, fatto!

Da allora la campagna sulle fake news ha conosciuto toni sempre più virulenti e azioni sempre più insidiose. Zuckerberg ha aperto il corteo dei penitenti della comunicazione, osannati sino al giorno prima; ha conosciuto la gogna della inquisizione del Congresso americano. Ha dovuto con fare contrito sottostare ad un pubblico processo conclusosi con un solenne impegno a ripulire Facebook degli spiriti bollenti e delle anime impenitenti troppo esposte nella critica ai benpensanti e al politicamente corretto. Da allora si sono intensificate, specie negli Stati Uniti, censure e chiusure di siti, anche con accessi milionari, ma sempre più caratterizzabili per la loro collocazione politica piuttosto che per la loro eccessiva irruenza. Il prodromo alla istituzione di veri e propri tribunali della verità i giudici dei quali avranno poco da invidiare a Torquemada. http://italiaeilmondo.com/2018/03/01/1517/

La Commissione Europea, come al solito solerte, approfittando, a dispetto del suo liberalismo conclamato, del legame tuttora tenue ed evanescente con una cittadinanza europea di là da materializzarsi e di quello più che solido e perverso, connaturato con le varie lobby presenti in pianta stabile a Bruxelles, sta precorrendo i tempi. Sta affidando ad associazioni di “provata fede democratica” il compito di identificare, segnalare e proscrivere i “mestatori” della notizia. Tra queste non potevano mancare associazioni di diretta emanazione ed affiliazione alla Open Society del noto filantropo naturalizzato americano. Ce lo rivela Breibart http://www.breitbart.com/london/2018/04/28/european-union-advocates-independent-fact-checkers-combat-fake-news/  (in basso la traduzione effettuata con un traduttore) Per quanto prodigo, ed i recenti 18.000.000.000,00 (diciottomiliardi) di $ (dollari) messi a disposizione dell’umanità sono tutti lì ad attestarlo, George Soros non può rimuovere del tutto la sua propensione all’affare e l’indole da realizzo propria di un finanziere predatore.http://italiaeilmondo.com/2017/10/22/un-torrido-inverno-di-giuseppe-germinario/ Ci pensa quindi il buon Junker, il Presidente della C.E., tra una bottiglia e l’altra, a rimpinguarlo con i contributi europei, quindi a spese nostre, di una opera tanto meritoria e ricompensarlo di tanto afflato. Dall’Europa, al Nord-Africa, all’Ucraina al Medio Oriente, per parlare delle ultime prodezze, ad ogni angolo sperduto del mondo il benefattore si è speso e prodigato per la libera umanità a spese degli uomini. Le fregature e le nefandezze in corso d’opera sono solo eventi collaterali, probabilmente il giusto obolo da offrire al BENE. Merita quindi laute ricompense.

Soros, si badi bene, non è un eroe, un cavaliere solitario. E’ parte integrante, forse l’anima più appariscente, ma non più importante di centri decisori e di potere ai quali ultimamente deve essere sfuggito il pieno controllo delle redini, o presunto tale.

La fretta e la sicumera nel ripristinare le condizioni precedenti può essere fatale; c’è un solco di profonda diffidenza che divide ormai i facitori di opinioni e i loro consumatori.

Il tentativo di ripristino, sempre che sia coronato da un pieno successo, comporterà comunque un fìo da pagare particolarmente pesante ai restauratori. Le reti dei social network, a causa di queste pressioni e inbragature, sono destinate sempre più a perdere il loro carattere universalistico, luogo comune di confronto e palestre dei punti di vista più disparati. Rischieranno di diventare dei recinti riservati a gruppi chiusi e conformisti sempre meno comunicanti tra di loro. Una vera e propria ghettizzazione dei luoghi di comunicazione. I paesi che ambiscono a mantenere e accrescere la propria condizione di sovranità ed autonomia politica e decisionale, in particolare la Cina e la Russia stato già provvedendo alla costruzione di proprie reti sociali. I paesi europei sono desolatamente estranei a queste tentazioni; con essi la Commissione Europea. Eppure le reti arrivano ormai a gestire non solo le comunicazioni degli individui, ma sempre più anche i flussi decisionali e le stesse attività produttive. Non basta. E’ probabile che si inneschi anche la segmentazione delle reti secondo le affinità ideologiche e culturali dei gruppi promotori all’interno dei singoli paesi. Una tendenza e una reazione alla censura strisciante già emersa negli Stati Uniti. Una possibilità di mantenere sotto altre forme alcuni spazi di libertà. Il prodromo però a quella ulteriore incomunicabilità e frammentazione tra gruppi sociali che sta caratterizzando la formazione sociale statunitense già da diverso tempo.

Certamente un altro prossimo eclatante successo dei paladini dell’europeismo e dell’armonia tra i popoli ospiti della ormai appendice occidentale dell’Asia.

Di certo una soluzione non risolutiva. A quel punto i tentativi di controllo si sposteranno ulteriormente verso i detentori dei server materni attraverso i quali passano i flussi informatici. Una ulteriore sfida che i paesi e i centri competitori dovranno affrontare per mantenere la propria autonomia di giudizio e decisionale e un ulteriore divario da quelle ambizioni delle attuali classi dirigenti europee.

VIVA LA LIBERTà, quindi, purché ben utilizzata e soprattutto conforme alle direttive e al sentimento dei predicatori del bene comune.

Ci aspettano, quindi, nuove forme surrettizie ed esplicite di censura tanto più efficaci quanto più si potranno ricomporre o mettere sotto traccia i contrasti tra gruppi decisori.

Contrariamente alla rappresentazione corrente, però, i poteri forti detentori di tale capacità non sono a Bruxelles. Lì trovano posto semplici funzionari dotati di potere riflesso e con scarse prerogative sovrane. Dovremo cercarli piuttosto oltreatlantico e di risulta nelle due/tre principali capitali europee. Da quelle parti sarà possibile individuare i veri artefici. Si potranno controllare le chiavi di casa propria e negare gli ingressi e l’agibilità ai filantropi mestatori di turno. L’Ungheria e l’Austria ci hanno indicato la strada. Si dovrebbe cogliere il loro esempio. Giuseppe Germinario

L’Unione europea appoggia i “controllori di fatti indipendenti” finanziati da Soros per combattere “false notizie”

La Commissione europea ha proposto nuove misure per contrastare la disinformazione e le cosiddette “false notizie” online, compreso un codice di condotta a livello UE sulla disinformazione e il sostegno a una “rete indipendente per il controllo dei fatti”.

La Commissione europea ha annunciato la nuova proposta all’inizio di questa settimana, sostenendo che le nuove misure “stimoleranno il giornalismo di qualità e promuoveranno l’alfabetizzazione mediatica”, secondo un comunicato stampa pubblicato sul sito web della Commissione.

“L’armamento di notizie false online e disinformazione rappresenta una seria minaccia alla sicurezza per le nostre società. La sovversione dei canali fidati per diffondere contenuti perniciosi e divisivi richiede una risposta chiara basata su maggiore trasparenza, tracciabilità e responsabilità “, ha  dichiarato il commissario per l’Unione di sicurezza Sir Julian King .

“Le piattaforme Internet hanno un ruolo vitale da svolgere nel contrastare l’abuso delle loro infrastrutture da parte di attori ostili e nel mantenere i loro utenti e la società al sicuro”, ha aggiunto.

Le nuove pratiche intendono rendere più trasparenti le pubblicità politiche sui social media e creare una rete indipendente di controllo dei fatti a cui prenderanno parte alcuni membri della Rete internazionale di controllo dei fatti (IFCN).

Breitbart London@BreitbartLondon

Sweden’s government will be giving funds to the mainstream media to fight “fake news” http://www.breitbart.com/london/2017/10/30/sweden-media-million-fight-fake-news-election/ 

Sweden to Give Mainstream Media £1.2 Million to Fight Fake News in Run-up to National Election

The Swedish government will be granting four mainstream media outlets £1.2 million to combat “fake news” ahead of next year’s election.

breitbart.com

L’IFCN è stato fondato dal Poynter Institute, con sede negli Stati Uniti, che,  secondo il suo sito web, è in gran parte finanziato da varie fondazioni – tra cui l’Open Society Foundations del miliardario di sinistra George Soros.

Diversi altri servizi di “fact-checking”, incluso il Correctiv tedesco, sono stati anche collegati a Soros e alle Open Society Foundations.

L’UE, così come i vari singoli paesi all’interno del blocco come la Germania e la Svezia, ha esercitato un’enorme pressione sui giganti dei social media come Google e Facebook per affrontare “false notizie” e “incitamento all’odio” sulle loro piattaforme.

Il governo svedese è stato uno dei più rumorosi sostenitori della lotta alle “false notizie” in vista delle elezioni nazionali del paese entro la fine dell’anno. Il governo ha tenuto incontri di alto profilo  con aziende tecnologiche nelle ultime settimane, e Facebook ha persino concesso al governo un permesso speciale per eliminare “account falsi”.

LA SINISTRA ALLE PRESE CON LA NAZIONE, L’EUROPA ED IL MONDO, di Pierluigi Fagan

Qui sotto un interessante saggio di Pierluigi Fagan (PF), con relativo link al sito originario di pubblicazione. L’argomento (la sinistra, la nazione e la geopolitica) prosegue sulla falsariga di saggi già pubblicati su questo sito e ovviamente sul blog dell’autore. Per accedervi è sufficiente digitare sulla voce dossier del menu in alto e sul nome dell’autore. Il tema è ricco di spunti; la finalità dell’autore è di contribuire a far uscire il dibattito e l’azione politica dei critici della Unione Europea dallo stallo abbarbicato com’è alle mere enunciazioni di principio e ad un approccio meramente negativo della proposta politica, specie della componente sinistrorsa. La chiosa non intende essere una critica al testo, quanto piuttosto un tentativo di focalizzare schematicamente alcuni punti sui quali sviluppare un dibattito proficuo.

Fagan in particolare, nella fase di multipolarismo complesso in via di affermazione:

  • ritiene imprescindibile il problema della dimensione degli stati nazionali. Una posizione nient’affatto scontata; sono numerosi i fautori della tesi che attribuisce anche agli stati più piccoli, purché attrezzati con una adeguata classe dirigente, significative condizioni di agibilità
  • le dinamiche geopolitiche sono altrettanto importanti delle dinamiche tra le classi sociali; anzi, una condizione ottimale nelle prime consente una migliore gestione delle formazioni sociali. In questo ambito il dibattito generale spazia tra la priorità attribuita alle dinamiche sociali e i rapporti tra stati, tema tipico della sinistra e della estrema destra e l’esclusività attribuita ai rapporti geopolitici tra stati e istituzioni, tipica degli analisti geopolitici. Nel mezzo, a dar man forte all’approccio “complesso” offerto da Fagan, trova posto a pieno titolo, come promettente chiave di interpretazione delle dinamiche politiche, la teoria lagrassiana del conflitto strategico tra centri decisori
  • affronta la questione fondamentale riguardante l’approccio al rapporto con l’Unione Europea con una importante delimitazione. Il suo discrimine riguarda non solo i sostenitori duri e puri della UE, ma anche i cosiddetti riformatori. Le possibili posizioni dipendono in pratica dalle combinazioni possibili delle relazioni tra gli stati europei eventualmente aggregati in aree omogenee
  • vede nella Francia il baricentro della costruzione europea. Una posizione originale rispetto alle tesi prevalenti che attribuiscono alla Germania il primato politico oppure agli Stati Uniti l’assoluta predeterminazione della costruzione e degli indirizzi politici comunitari.Una ricostruzione storica delle vicende comunitarie può sembrare un puro esercizio accademico; serve in realtà a determinare le dinamiche e il peso dei vari decisori. La letteratura, al netto dell’agiografia, offre diversi punti di vista. Uno di questi, ben presente nella ricerca francese e statunitense, attribuisce alla classe dirigente “sovranista” francese la volontà di sostegno al progetto comunitario nella misura in cui fosse stata la Francia, con inizialmente la Gran Bretagna, a determinare gli indirizzi. In soldoni, nella misura e nei momenti in cui sarebbe apparsa sempre più chiara l’assoluta influenza americana e la sua volontà di sostenere la Germania in funzione antifrancese e antibritannica e come importante risorsa antisovietica, l’afflato comunitario della Francia sarebbe a sua volta venuto meno. Con due eccezioni importanti tra le quali l’azione dell’oestpolitik tedesca negli anni ’70 che indusse i francesi a sostenere l’ingresso della Gran Bretagna
  • consiglia di prendere atto della progressiva formazione di più aree europee politicamente autonome per individuare in quella latino-mediterranea, il possibile coagulo di forze capace di sostenere il confronto.    

Si attendono sviluppi e contributi_Buona lettura_Giuseppe Germinario 

 

LA SINISTRA ALLE PRESE CON LA NAZIONE, L’EUROPA ED IL MONDO.

Tra un anno si va a votare per l’Europa. Su Micromega, G. Russo Spena (qui), sintetizza le posizioni in cui si divide la sinistra europea.

La prima posizione è sostenuta da Linke (Germania) e Syriza (Grecia), dove però la posizione greca rispetto ai diktat della Troika, non ha mostrato apprezzabili pratiche politiche  alternative. Cambiare l’UE dal di dentro con intenti progressisti, la difficile linea.

C’è poi Varoufakis ed il suo Diem25 sostenuto dai sindaci Luigi de Magistris e Ada Colau, oltre a Benoit Hamon,  fuoriuscito dal partito socialista francese ha creato il movimento Génération-s – e da altre piccole forze provenienti da Germania (Budnis25), Polonia (Razem), Danimarca (Alternativet), Grecia (MeRA25) e Portogallo (LIVRE). Sinistra transnazionale che vuole democratizzare l’Europa.

Infine, ci sono Bloco de Esquerda portoghese, Podemos spagnolo e France Insoumise francese che hanno firmato assieme la Dichiarazione di Lisbona a cui ha successivamente aderito anche l’italiano Potere al Popolo. Anche qui si vuole costruire un contropotere democratico all’Europa neo-ordo-liberale.

Tutti e tre gli schieramenti mostrano un nuovo interessante fenomeno che è quello del dialogo e del coordinamento tra forze politiche di più paesi. Da tempo lo facevano le forze conservatrici, liberali e socialdemocratiche ovvero le forze di governo, quelle che governano nei rispettivi paesi e quel poco che si decide al parlamento europeo. Interessante che ora anche la sinistra quasi sempre di opposizione (Bloco de Esquerda è l’unica forza al governo oltre a Syriza) faccia i conti con il formato inter-nazionale.

Tutti e tre gli schieramenti, si ripromettono sia la democratizzazione delle istituzioni europee, sia l’inversione delle politiche neoliberali che le hanno contraddistinte. Il secondo schieramento, quello di Varoufakis, più che inter-nazionale, è trans-nazionale nel senso che a quanto par di intuire, si ripromette di costruire una unica forza politica contemporaneamente presente in più paesi, posizione molto in auge negli ambienti federalisti.

Il terzo schieramento invece, si è trovato subito diviso, una divisione però sopita e rimandata, tra il famoso “Piano B” di France Insoumise e Podemos. I francesi si sono presentati alle ultime presidenziali con un programma corposo “L’avvenire in comune”, nel quale hanno declinato 83 tesi in 7 sezioni. Nella tesi 52, presentavano l’ipotesi subordinata “Piano B”. Si trattativa dell’alternativa all’eventuale (certo) fallimento dei tentativi di correzione della politica europea, l’ultima ratio era la rescissione unilaterale francese dei trattati. Come molti avevano notato ai tempi del referendum greco, le trattative politiche si basano su i rapporti di forza e chi aspira a contrastare il potere dominante deve poter -ad un certo punto- mettere sul piatto l’opzione alternativa, quella che rovescia il tavolo. Senza questa minaccia o concreata alternativa, inutile sedersi a far qualsivoglia trattativa, trattasi di verità negoziale a priori.

Il Piano B francese era “o cambiamo l’UE-euro o usciamo”, rimaneva aperta una successiva  possibilità in cui la Francia sovrana avrebbe poi  stretto patti cooperativi e di collaborazione in ambito educativo, scientifico, culturale. Questa era la tesi 52, la 53 invece, iniziava con un “Proporre un’alleanza dei paesi dell’Europa meridionale per superare l’austerità e lanciare politiche concertate per il recupero ecologico e sociale delle attività” che è appunto ciò che hanno fatto a Lisbona. Con ciò terminava la quarta sezione e si passava alla quinta. La quinta sezione si apriva col titolo “Per l’indipendenza della Francia” e quindi dava outline di ciò che la Francia avrebbe potuto e dovuto fare sia nel mentre rimaneva nelle istituzioni europee, sia a maggior ragione e con più convinzione dopo l’eventuale applicazione dell’opzione nucleare che portava al Piano B, l’uscita unilaterale. La tesi 63, metteva in campo idee concrete di cose ed iniziative  da promuovere  nel bacino Mediterraneo, un Mediterraneo braudeliano quindi considerato sia per la sponda europea (Portogallo, Spagna, Francia, Italia, Grecia), che per quella nord-africana (Marocco, Tunisia, Algeria, Libia). Il senso dell’intera questione manteneva una certa ambiguità tra questi tre livelli: Francia sovrana, Francia cooperante con i paesi latino-mediterranei nella lotta contro ma dentro l’UE, Francia perno di un nuovo sistema mediterraneo come già Sarkozy ma anche molti altri francesi avevano pensato in passato, ancora dentro l’UE ma a maggior ragione se fuori.  L’ editoriale del numero in edicola di Limes, rimarca pari ambiguità in Macron quando questo sembra superare di slancio il principio di non contraddizione nel sostenere al contempo la Francia sovrana ed uno stadio superiore di Europa federale.

Podemos, pur avendo firmato la Dichiarazione di Lisbona, pare stia ancor tentennando suDiem25 ma più che altro è interessante sottolineare come Iglesias abbia del tutto escluso la condivisione del Piano B di France Insoumise. Al di là delle opinioni specifiche di Podemos sull’euro, Iglesias ha specificato che in Spagna c’è un forte per quanto vago ultramaggioritario sentimento europeista, lo stesso che posso testimoniare personalmente vivendo lì una parte dell’anno, hanno i greci.  Sentimento europeista non vuole affatto dire adesione a questa UE o a questo euro, si tratta di una intuizione più culturale che politica.

Molta parte dell’opinione pubblica europea, è come se avvertisse che i tempi impongono il fare una qualche forma di fronte comune. Il sentimento è forte nel suo radicamento ed al contempo debole nella sua razionalizzazione, unisce i convinti supporter dell’attuale stato di cose, quanto i suoi più convinti critici oltre che ovviamente gli indecisi ed i confusi che sono la maggioranza. Vedi Trump, vedi Putin, vedi Xi Jinping, i britannici che si mettono in proprio, senti di bombe atomiche coreane, terroristi arabi, migranti africani o asiatici, la incombente matassa intricata della “globalizzazione”, l’incubo delle nuove tecnologie, il temuto collasso ambientale e ti viene facile pensare che davanti a tanta minacciosa complessità, l’unione fa la forza e da soli non si va da nessuna parte. Il passaggio da “unione” come spirito vago ad “Unione” come istituzione precisa è garantito dal meccanismo di analogia che abbiamo nel cervello, “sembra” proprio che l’uno risponda all’altro. Vale per le élite, per i medio informati ma anche per coloro che usano più neuroni della pancia che quelli della scatola cranica. Chi si muove politicamente in forma critica sulla questione europea dovrebbe tener conto di questo diffuso sentimento se non altro perché chi fa politica deve aver per interlocutore pezzi di popolazione prima che l’avversario ideologico. Si fanno discussioni con gli amici ed i nemici ideologici davanti a pezzi di popolazione perché il fine politico è conquistare cuori e menti di questi secondi. Dai temi che tratta al linguaggio che usa, questa avvertenza di parlare sempre alla generica popolazione, è del tutto ignorata dalla sinistra che oggi si interroga su dove mai sia finito il suo “popolo”.

Sembra quindi che France Insoumise abbia costruito una posizione a cerchi concentrici di definizione. Il cuore a fuoco è la battaglia contro questa UE ed euro, la corona interna meno a fuoco è la ricerca di alleanze organiche con forze politiche latino-mediterranee da cui la Dichiarazione di Lisbona, la corona esterna ancora meno a fuoco un po’ sciovinista e molto “francese”, è l’idea in fondo guida di una Francia sovrana al centro di cerchi concentrici di cooperazione asimmetrica che arriva fino a pezzi della Françafrique. Questa ultima posizione occhieggia a più vasti settori dell’opinione pubblica francese, inclusi pezzi di classe dirigente ed è forse merito di questa ampia vaghezza se France Insomise ha preso quasi il 20% al primo turno delle presidenziali. Se Mélenchon declina questo target a fasce concentriche che sembrano volersi distaccare dall’UE, Macron declina la stessa geometria egemonica  rivolta verso più UE[1].  Come mai, pur da sponde opposte, i due francesi si agitano tanto occupando più posizioni al contempo e lasciando intendere tutto ed il suo contrario?

Svegliatici, occorre dircelo, tutti un po’ tardi rispetto a ciò che si era stabilito a suo tempo nel trattato di Maastricht (che ricordiamolo è del 1992), l’analisi critica si è soffermata su gli aspetti economici e monetari, tra neo-ordo-liberismo e posizione dominante tedesca. Ma se andiamo a ritroso del registro storico, si vedrà come tutto ciò che precede Maastricht e l’euro  (ed inclusi questi) a partire dall’immediato dopoguerra, ha il suo baricentro non in Germania ma in Francia. E’ la Francia a promuovere la CECA, è la Francia a non approvare la riforma decisiva che avrebbe potuto dare un futuro politico all’Europa ovvero la CED (approvata già dai Benelux e dalla stessa Germania), è la Francia e non far entrare la Gran Bretagna in UE per poi ripensarci ed è lei stessa a sospendersi dalla NATO per diventare potenza atomica per poi ritornarci, è De Gaulle ad invitare Adenauer a Parigi per sancire il trattato dell’Eliseo (1963) quindi fissare formalmente la diarchia regnante l’europeismo, e così via fino allo stesso Maastricht e l’euro che nascono come  contropartita richiesta alla Germania per il via libera dato alla sua preoccupante riunificazione. I tedeschi, si sono limitati ad imporre la struttura economico-monetaria ai trattati, struttura che per altro avevano già nella loro Costituzione dal 1949 e dalla quale non avevano la minima intenzione di derogare perché fonda la loro nazionale narrativa post-bellica, soprattutto come spiegazione dell’irrazionalità da cui sorse il nazismo. Secondo questa narrativa, il nazismo venne dall’eccesso di inflazione.

Questo ci ha portato altrove a definire il progetto europeista, primariamente un trattato di pace tra Francia e Germania, stante che nei due secoli precedenti, questi campioni della potenza europea, si erano già combattuti e reciprocamente invasi più volte. Il  problema del confine tra Francia e Germania con tutto il portato di carbone, acciaio, metallurgia e siderurgia (quindi armi), è una costante geopolitica ovvero basata sulla politica (gli Stati, la volontà di potenza) e la geografia (confine in comune, passato indistinto, assenza di chiari segni geografici di separazione). Se Mélenchon si agita verso più autonomia e Macron verso più integrazione, l’uno pensa che la relazione con la Germania sarà sempre subalterna, l’altro pensa di poterla dominare o quantomeno contrattare secondo la tradizione del dopoguerra, il punto in comune è la Francia, la sua posizione nei prossimi decenni. Si noti come in tutta la questione europeista si incrocino sempre due assi, quello degli interessi delle classi sociali e quello degli interessi delle nazioni. Ogni governante sa che maggiore è il vantaggio portato alla propria nazione, più relativamente agevole sarà gestire i rapporti tra le classi sociali.

Tutta la faccenda europeista, se da una parte discende dal problema dei confini e dalla turbolenta convivenza dei due potenti vicini, non meno certo che da considerazioni ed interessi dell’ economia di mercato e della élite che ne beneficiano, discende anche da alcune non sbagliate considerazioni che si trovano nel Manifesto di Ventotene non meno che in Carl Schmitt, in Alexander Kojève non meno che nel primo scritto europeista del poi diventato leggenda nera principe Coudenhove Kalergi, la PanEuropa. Questi e molti altri, che data l’estrema eterogeneità non possono dirsi discendenti di una unica ideologia (ci sono accenni di Stati Uniti d’Europa addirittura in Lenin), evincono sin dai primi del Novecento che oggettivamente Europa non è più un campo di gioco unico in cui si riflettono le sorti del mondo. Gli Stati Uniti, il Giappone, la Cina, la Russia, il mondo arabo su fino all’India, segnano il prepotente allargamento del rettangolo di ogni gioco, politico, geopolitico, culturale, militare ed ovviamente economico. Lo spettro largo di queste riflessioni dura un secolo ed è la versione più colta del sentimento “unionista” di senso comune di cui abbiamo parlato prima.  Improbabile che Europa, dove a fronte di un 7% delle terre emerse si concentrano ben il 25% degli Stati mondiali, possa continuare a pensarsi come una macedonia conflittuale di stati e staterelli di più o meno antico pedigrèe. La doppia tenaglia anglosassone e sovietica per più di quattro decenni, ha reso presente a tutti come la divisione fa imperare altri soggetti, la sovranità prima ancora che monetaria, fiscale e giuridica, la si è perduta militarmente, quella politica ne è solo la conseguenza. Questo ci dice che se prima abbiamo individuato due assi ora ne dobbiamo mettere un terzo, oltre alla lotta tra le classi di una nazione e quella tra le nazioni europee tra loro, c’è anche da considerare che il quadrante di gioco non è più solo quello sub continentale ma quello mondiale.

Torniamo così al nostro discorso principale. Chi si propone di democratizzare l’UE temo stia perdendo altro tempo. Mi domando se “più democrazia” sia una invocazione infantile che serve ad acchiappare voti agitando il nobile drappo dell’autogoverno dei popoli o un preciso piano. In questo secondo -improbabile- caso, mi domando come pensano questi neo-democratici di risolvere il problema dell’oggettiva differenza che corre tra popoli latini e mediterranei e popoli germani e scandinavi, tra gli euro-occidentali e gli euro-orientali. Se domattina Mago Merlino con la bacchetta magica ci donasse il parlamento dell’euro a cui sottomettere la politica della banca centrale, i mediterranei  avrebbero la maggioranza dei 2/3, se ben convinti (e ci sono oggettivi interessi materiali nazionali a largo spettro a supporto) potrebbero far passare la riforma dell’euro facile-facile. Un millisecondo dopo la Germania, l’Olanda, la Finlandia, Lussemburgo ed i tre baltici uscirebbero.  Lo stesso varrebbe per la maggioranza italo-francese nell’eventuale parlamento della piccola federazione dei sei paesi fondatori la CEE-UE.  Così per lo statuto dell’euro ma anche per le altre necessarie riforme economiche e sempre evitando la politica estera che con la sua radice geografica, pone i mediterranei e quelli del Mare del Nord su sponde opposte, interessi diversi, prospezioni ed alleanze altrettanto diverse. Per avere democrazia ci vuole -al minimo- una Costituzione un parlamento, un governo, l’unione dei tre poteri di Montesquieu ed in definitiva niente di meno di uno Stato. Questo Stato che è l’unico sistema conosciuto in cui applicare la democrazia, a 6 se a base storica (?), 19 se su base euro o a 27 se su base UE, non è materialmente possibile per motivi auto-evidenti che i “democratici” non capisco perché si ostinino a non voler vedere. Se per fare un mercato si può essere 19 o 27 e pure eterogenei, per fare uno Stato sono richieste omogeneità giuridiche, culturali, religiose, linguistiche, storiche, politiche. Ogni volta che il sistema di mercato (UE) tenta di fare lo Stato si spacca, ma non lungo le linee ideologiche, lungo le linee geo-storiche. Ancora di recente, Macron si è speso per l’intensione (più governante quasi-federale) e Juncker ha invece ribadito l’estensione (ci sono molti paesi nel sistema, sarebbe più utile allargare il sistema ad altri paesi ad esempio i balcanici), perché le logiche per fare Stati o quelle per fare mercati sono intrinsecamente diverse.

Nessuno vuole in Europa uno Stato federale (anche perché materialmente irrealizzabile), quindi nessuno è in grado di sottomettersi a volontà generali che diventerebbero potere di popoli su altri popoli. Tra il disprezzo nei confronti dei mediterranei ed il ricambiato odio per i tedeschi o l’ironia svagata su quanto si sentono furbi i francesi senza esserlo davvero, mai come oggi stanno tornando in auge sentimenti nazionalistici che categorizzano molto sommariamente l’Altro. Far finta che non esistono i popoli o gli Stati o la storia o la geografia non aiuta, non appena si spinge troppo sull’inflazione retorica unionista, ecco spuntare subito il rimbalzo sovranista. Ma il peggio è che unionisti e sovranisti si disputano il gran premio della chiacchiera perché tanto né sembra si possa andare a più unione, né tornare alla nazione e ciò che impera, alla fine della fiera, è sempre e solo la Commissione, la BCE, i “Nien!” tedeschi. Tra il grande ed il piccolo Stato, alla fine vince sempre il Mercato.

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Siamo nel doppio vincolo, da una parte vorremmo esser più forti ed unirci ma la nostra estrema eterogeneità lo rende impossibile, dall’altra vorremmo ripristinare una accettabile democrazia e tornare a decidere noi sul “che fare?” il che però ci riporta in teoria ai nostri singoli stati che già oggi ma viepiù fra trenta anni, varranno quanto il due di coppe a briscola quando regna bastoni. Strappare più sovranità oggi, significa perderla senza speranza nell’immediato domani del commercio internazionale, della circolazione dei capitali, della dittatura dei mercati, delle nostre fragilità economiche, dei diktat anglosassoni sulla NATO, delle crescente minorità politica di nazioni piccole, sempre più anziane, sempre meno competitive e significative nello scenario mondo.

In questo dilemma che a volte si presenta come trilemma (dentro la nazione, tra le nazioni europee, nazioni europee vs resto del mondo) la sinistra ha forse una opportunità per quanto la confusione mentale ed ideologica oggi occulti proprio ciò che ha davanti a gli occhi.

Se gli otto paesi firmatari del distinguo rispetto ai sogni devolutivi macroniani sono tutti del nord Europa (inclusa la Germania dietro le quinte), se il gruppo di Visegrad unisce stati orientali confinanti ed eterogenei uniti però nel distinguersi rispetto ai dettami occidentali franco-tedeschi, se la Dichiarazione di Lisbona è firmata dai meridionali portoghesi, spagnoli, francesi ed una particella di italiani è perché l’Europa è fatta di popoli ed i popoli di culture, di storie sovrapposte su un piano geografico costante che unisce alcuni e separa altri. Sono le culture l’ordinatore che consente e non consente le eventuali fusioni tra Stati-nazione in Europa. Nessun paese latino mediterraneo avrebbe grossi problemi ad avere una banca centrale che fa quello che ogni banca centrale al mondo fa (espansione economica, controllo del cambio, aiuto nella gestione del debito pubblico oltre al fatidico controllo dell’inflazione), non così i tedeschi e la loro area egemonica nord europea. E lo stesso gruppo dei latini certo che ha interessi geopolitici comuni verso il Mediterraneo, il Nord Africa ed anche il resto del continente che s’affaccia sul nostro stesso mare (per non parlare delle opportunità di sistema con il Centro-Sud America), quindi interesse ad unire le forze in qualche modo. Interessi diversi da quelli germano-scandinavi o dei confinanti con la Russia.

Tra paesi latino mediterranei si possono fare alleanze senza speranze che si battano per una diversa UE, si possono promuovere  maggior livelli di integrazione e cooperazione fattiva mentre si rimane nell’UE, ci si può dar man forte per coordinare una simultanea uscita dall’euro tornando a chi ci crede alle rispettive valute o per uscire tutti dall’euro tedesco e confluire  in un altro euro mediterraneo espansivo, svalutabile, di aiuto alle gestione dei debiti pubblici (soprattutto quelli collocati all’estero, estero che a quel punto avendo nel nuovo sistema sei diversi paesi, diminuirebbe come impegno nel caso lo si volesse ricomprare per immunizzarsi dagli spread, come è in Giappone), sottomesso non ad un trattato ma ad un parlamento democraticamente rappresentativo.

Nel rompicapo europeo non ci sono soluzioni facili e questa invocazione di un insieme latino-mediterraneo non è esente da problemi. Si tratta però di scegliere la via meno problematica e sopratutto quella che apre a maggiori condizioni di possibilità. La comune cultura latino-mediterranea è l’unica solida base per cominciare a sviluppare progetti politici inter-nazionali per tempi che stanno velocemente scalando indici di complessità sempre meno rassicuranti. Ci conviene oltremodo svegliare tutti dal sonno dogmatico che vuole unioni a 27 o a 19 senza che sussistano gli indispensabili pre-requisiti per farlo, così come ci conviene essere realisti e responsabili e cominciare a pensare  che nel mondo nuovo paesi solitari da 60, 40, 10 milioni di abitanti avranno sovranità men che formali. Coordinarsi tra simili per criticare, provare a cambiare o abbandonare l’euro non meno che la NATO, è condizione necessaria, il fine preciso lo valuteremo assieme, intanto fissiamo il mezzo.

Non esiste una sinistra senza una Idea ed in tempi così complicati, far base su un substrato comune di origine geo-storico, quindi culturale, quindi popolare e reale, a noi sembra il modo migliore per far si che la sinistra torni a pensare e ad agire politicamente. Se le opinioni specifiche su UE, euro e vari tipi di progetti avanzati da più parti fanno perno su quel sentimento istintivo che pensa necessario unire le forze tra alcuni di noi, dare a quel sentimento la prospettiva più limitata e perciò più concreta dell’alleanza progressiva tra noi mediterranei europei (per i paesi-popoli musulmani mediterranei il discorso verrà fatto dopo, non si possono fare progetti di unione federale con paesi del nord Africa, ora), può aiutare a darci identità, egemonia nel dibattito pubblico, spinta creativa a disegnare il mondo che verrà, voglia di tornare a fare politica. Se la sinistra nasce nel conflitto sociale interno, oggi deve anche misurarsi con il formato Stato-nazionale, coi rapporti interni all’Europa che sono tra nazioni prima che tra classi e col problema di ciò che è fuori dal nostro antico mondo. L’Idea deve orizzontarsi su tutte e tre le variabili altrimenti rimane idealismo, inutile sequenza di petizioni di principio e non progetto.

La sinistra uscirà dalla sua crisi quando dimostrerà di avere un progetto positivo sulla realtà, alla funzione critica si può aderire scrivendo e comprando libri (una delle principali attività della sinistra), ma non si costruisce realtà con la “potenza del negativo”. La sinistra nata dal conflitto di classe deve sapersi riattualizzare davanti ai tre scenari sistemici mai davvero trattati in profondo dalla sua pur voluminosa produzione teorica: nazione, Europa, mondo. Niente progetto, niente sinistra.

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[1] Il Piano Macron è stato presentato a settembre 2017 alla Sorbona. Le “corone” del piano Macron erano sicurezza, difesa e politica estera, tre argomenti che si fondono come interesse francese ad agire negli “esteri” identificando l’interesse francese con quello europeo. La partecipazione francese, almeno “ideale”, al bombardamento in Siria e l’orgogliosa rivendicazione valoriale che ne ha fatto Macron il 17 aprile a Bruxelles, confermano di questa vocazione del francese ad intestarsi la funzione esteri. (Sullo sviluppo del business della difesa, si veda questo contributo di B. Montesano su Sbilanciamoci: http://sbilanciamoci.info/difesa-europea-business-della-sicurezza/ a rimarcare la costante ambiguità per la quale non si parla di esercito comune ma di business comune). Oltre ai tre argomenti “estero”, il piano Macron ha ambiente e ricerca tecnologica dove quest’ultima segna una delle croniche debolezze europee. Nessuno stato europeo è effettivamente in grado di mobilitare investimenti significativi in grado di competere con quelli americani e cinesi, mancanza che poi si riflette nelle minori condizioni di possibilità economiche e mancanza di indipendenza in un settore strategico. Infine, l’euro che Macron vorrebbe riformare con un comune bilancio e conseguente allineamento fiscale e con unico ministro delle Finanze.  Difficile che anche volendo (e sull’esistenza di questa volontà è lecito nutrire parecchi dubbi), la Germania in cui le due forze politiche in ascesa e che controllano già oggi un quarto dell’elettorato sono i Liberali euroscettici ed AfD apertamente xenofoba, aderisca al progetto se non rendendolo ancora più ambiguo tra la sua forma narrativa e la sostanza ben meno palpitante. Chissà quindi se ci sono proprio i tedeschi dietro la presa di posizione del 6 marzo, in cui otto paesi euro (Finlandia, Irlanda, Olanda, i tre baltici, Svezia e Danimarca ultimi due non in Eurozona e si tenga conto che fuori Eurozona c’è poi su posizioni simili anche il Gruppo di Visegrad) hanno pensato necessario dichiarare assieme l’assoluta contrarietà ad ulteriori devoluzioni dei poteri nazionali, bocciando in sostanza il piano Macron. A sentire le dichiarazioni di Merkel in preparazione del vertice con Macron sembrerebbe proprio di sì, i settentrionali  non vogliono alcun sistema politico comune coi meridionali, non si capisce perché i meridionali non ne prendano atto e ne traggano conclusioni.

SIRIA, DOSSIER E FAKE NEWS, di Giuseppe Germinario

Tranne rare eccezioni in un confronto militare la particolare posizione dell’aggressore richiede solitamente un’azione specifica che possa innescare o giustificare l’iniziativa. La gamma di iniziative è particolarmente nutrita. Si va dalla provocazione all’induzione alla reazione, alla istigazione, alla vera e propria montatura del casus belli. Un evento così traumatico deve essere giustificato, richiede la necessaria motivazione specie in un agone ancora delimitato dalla presenza degli stati nazionali e dal riconoscimento reciproco della propria esistenza.

Il conflitto in Siria non sfugge a queste dinamiche.

Partito da un movimento di contestazione, grazie ad alcune provocazioni mirate soprattutto verso le forze di polizia si è trasformato in guerra civile; da guerra civile in pochi mesi si è evoluto in un confronto prevalente con orde di uomini, da soli o con la propria famiglia, provenienti dall’Europa e dai luoghi più disparati del Nord-Africa e del Medio Oriente in cerca di fortuna; messe a mal partito queste ultime, la Siria sta ormai diventando sempre più terreno di confronto diretto di potenze regionali e globali. Una condizione che difficilmente le consentirà di salvaguardare totalmente l’integrità territoriale.

L’attitudine alla resistenza del regime di Assad è stata mirabile come pure la sua capacità di guadagnare consenso tra la popolazione. Nel suo cammino ha incontrato fortunatamente la volontà dei russi di porre finalmente un limite all’incalzare sino all’interno dei propri confini delle strategie americane; volontà senza la quale Assad probabilmente avrebbe già raggiunto Gheddafi nel suo tragico destino e la Siria avrebbe subito una sorte analoga alla Libia, ma con consistenti parti di territorio predate dai vicini.

Le forze esterne presenti sul campo sono ancora, almeno ufficialmente e con la parziale eccezione dell’esercito turco, in numero limitato e sono attente ad evitare scontri diretti tali da innescare un crescendo imprevedibile del conflitto.

Non mancano di certo casi di attacchi diretti, in parte legati alla casualità, in parte al tentativo di testare le reazioni, in parte ancora dovuti alla conduzione schizofrenica delle campagne militari dettata dal conflitto di strategie e dal drammatico scontro politico interno soprattutto ai centri americani e sauditi. In quest’ultimo caso sono il probabile esito di pesanti provocazioni dei fautori di un conflitto più aperto presenti anche nelle potenze regionali, in particolare Israele e Arabia Saudita, intenzionate a trascinare i grandi nel conflitto a loro sostegno e in loro vece. Ne hanno fatto le spese, circa un mese fa, alcune decine di contractors russi (ex militari) vittime di bombardamenti aerei americani e israeliani.

Sta di fatto, però che le forze irregolari disposte a prestarsi a strumento di questi giochi sono in via di significativo prosciugamento, mentre gli eserciti regolari sono restii ad entrare in campo sia per un’opinione pubblica ancora ostile agli interventi, sia per l’insostenibilità di un eventuale numero elevato di perdite specie del campo occidentale, sia per la condizione caotica del fronte che ancora per la concreta possibilità di estensione incontrollata del conflitto.

Da qui la ricerca di una giustificazione e la costruzione di pretesti verosimili che legittimino gli interventi e motivino le forze disponibili.

Gli attacchi chimici sono tornati di gran voga ad essere il motivo scatenante delle intromissioni, salvo essere smentiti se non addirittura attribuiti alle presunte vittime nel breve volgere di pochi giorni e a seguito di rapidi accertamenti.

Dal punto di vista emotivo sono ancora un buon detonatore; quanto alla verosimiglianza delle versioni offerte lasciano però ormai a desiderare, visti i precedenti ingannevoli e la relativa permeabilità del sistema di informazione.

Il rapporto dato in pasto dai servizi segreti francesi e utilizzato per giustificare l’intervento anglo-franco-americano del quattordici aprile in Siria rappresenta al momento lo stato dell’arte della pretestuosità e dell’arroganza.  https://www.les-crises.fr/frappes-syrie-les-preuves-presentees-par-le-drian-le-vide-comme-nouveau-fondement-juridique-a-l-agression/

https://www.les-crises.fr/en-quete-de-verite-dans-les-decombres-de-douma-et-les-doutes-dun-medecin-sur-lattaque-chimique-par-robert-fisk/

Alcuni siti francesi si sono premurati di smontarlo punto per punto nei vari aspetti praticamente in tempo reale

  • Hanno stigmatizzato la scarsa serietà dei redattori affidatisi esclusivamente a immagini raccogliticce, definite spontanee, senza data e indicazioni precise
  • Hanno sottolineato l’ipocrisia dell’affermazione riguardante l’assenza di informatori sul campo, quando gli stessi servizi sono stati in grado di fornire l’esatta composizione delle fazioni impegnate a resistere agli attacchi delle truppe lealiste
  • Hanno denunciato la palese capziosità dell’indicazione in Assad dell’unico beneficiario possibile di tale utilizzo, a dispetto dei precedenti rapporti di organizzazioni internazionali

Sta di fatto che ciò che è apparso poco attendibile per una parte dello stesso staff presidenziale americano è rimasta una incontrovertibile verità per l’altra parte e soprattutto per il giovane Macron.

In altri tempi, quando le cortine di ferro delimitavano più chiaramente le sfere di influenza e ingessavano il confronto mediatico, tanta sfrontatezza sarebbe passata inosservata se non spacciata con buone probabilità di successo addirittura per autorevolezza.

Oggi lo scontro politico attraversa platealmente e apertamente i centri decisionali specie americani, senza esclusione di colpi. L’allentamento della presa sta facendo emergere potenziali competitori globali e una miriade di potenze regionali ambiziose in un turbinio di posizioni e di giravolte repentine tali da rendere sempre meno credibile la parola e la costruzione mediatica. Una complessità della quale rischiano di rimanere vittime, oltre che artefici anche gli attori più importanti e navigati.

Sta di fatto che la Siria è ormai diventato prevalentemente un campo di battaglia tra forze esterne dove le stesse forze lealiste di Assad, le più gelose paladine delle prerogative sovrane del paese, anche in caso di vittoria definitiva, per altro ancora lungi dall’essere conseguita, difficilmente potranno recuperare in tempi rapidi l’autonomia politica di un tempo. La posta in palio, ormai, nel breve periodo non è più l’allontanamento di Assad e nemmeno la sconfitta dei russi; è piuttosto il drastico contenimento dell’Iran. Un obbiettivo in grado di conciliare in qualche modo, in casa americana, le posizioni del nucleo originario sostenitore di Trump favorevole ad un accordo e la componente del vecchio establishment sostenitrice di uno scontro più tattico verso la Russia di Putin. Il sacrificio di Flynn e di Bannon e lo snaturamento dei propositi iniziali sono stati l’obolo necessario alla sanzione del compromesso e della stessa sopravvivenza di Trump.

Sul piano degli schieramenti internazionali hanno sancito il sodalizio americano con l’Arabia del giovane Saud e l’Israele del vecchio Netanyau; una alleanza che si sta trasformando rapidamente in un vero e proprio processo di integrazione degli stessi comandi militari nel teatro siriano i frutti del quale non tarderanno purtroppo a manifestarsi.

Si sente parlare sempre più spesso di una prossima vittoria in campo aperto rispettivamente della Russia, dell’Iran e di Assad. La sproporzione evidente delle forze militari in campo e delle risorse economiche, umane e tecnologiche disponibili dovrebbe indurre a maggior prudenza.

La maggiore coesione, la motivazione più convinta, una maggiore sagacia tattica, il parziale recupero del gap tecnologico sono i fattori che hanno consentito la tenuta dello scacchiere siriano e del regime di Assad nel breve periodo; nel lungo il logoramento potrebbe incidere più pesantemente sullo schieramento lealista.

Di tenuta tuttavia si tratta. Di una strategia tutto sommato ancora difensiva anche se dall’esito diverso rispetto a quanto accaduto in Libia e nell’Europa Orientale negli ultimi trenta anni.

Sono altri i fattori in grado di determinare un ribaltamento dei rapporti e un eventuale collasso, per lo più inerenti la situazione interna dei paesi coinvolti.

Anche la Siria ha conosciuto la propria nemesi.

Da oggetto delle brame del vicinato e da punto focale di una crisi definitiva della capacità di resistenza russa e iraniana si è trasformata in punto di irradiamento di crisi e destabilizzazione verso i predatori.

Lo si è visto in Turchia con la recrudescenza dell’irredentismo curdo e con il tentativo di colpo di stato di Gulen, duramente sopito da Erdogan. Eventi che hanno spinto il governo turco ad una inedita aspirazione di autonomia e ad un controllo ferreo delle leve anche a scapito dell’immediata efficienza degli apparati.

 Lo si intravede in Israele con la sorda guerra di Netanyau con parti della magistratura e dei servizi di intelligence che rischia di trascinare il leader verso un destino simile al suo ex-omologo Sarkozy

Lo si sospetta in Arabia Saudita dove il processo ambizioso e inderogabile di ammodernamento istituzionale, quello di riconversione di una economia troppo legata alla monocoltura di giacimenti petroliferi in via di esaurimento e di (apparente?) distanziamento dai settori più integralisti e oscurantisti del sunnismo viene sostenuto dai classici strumenti di una struttura tribale costituiti da rapimenti, sequestri e uccisioni di notabili rivali, espropriazione di patrimoni e colpi di mano su rituali di successione codificati nel tempo. Il colpo di mano nella notte di sabato scorso, documentato da immagini nelle quali riecheggiavano nutrite sparatorie nel palazzo reale a base di fucili di assalto e granate, apparse solo per pochi minuti e miracolosamente scomparse assieme all’assoluto silenzio stampa in prima mondiale, rivela quanto siano ancora precari e instabili gli equilibri in quel paese con un delfino impegnato a stringere relazioni sempre più strette, quasi simbiotiche con il nemico conclamato del mondo arabo, Israele e con il “profanatore della terra sacra” dai tempi della prima guerra a Saddam, gli Stati Uniti e coinvolto ormai direttamente in due conflitti apparentemente minori, quanto inaspettatamente logoranti. Una irruenza e un cumulo di contraddizioni e contrapposizioni giunte sino ai regimi sunniti della penisola che potrebbero costare cari alle ambizioni se non addirittura alla vita del delfino Salman.

Quanto all’Iran si è visto offrire su un piatto d’argento, grazie all’intervento americano in Iraq, l’allargamento della sfera di influenza ad occidente dopo aver approfittato della situazione precaria in Afghanistan. Si è guadagnato sul campo il potere di influenza in Siria, Libano e Striscia di Gaza incuneandosi tra le rivalità di Turchia e Arabia Saudita. E’ riuscita a mantenere un equilibrio in Libano e continua a strumentalizzare, come il resto degli attori, la questione palestinese. Allarmato dalle primavere arabe ha intensificato lo sviluppo del programma nucleare diventando un avversario temibile di Israele e dell’Arabia Saudita e cercando di entrare nel club della dissuasione nucleare. Alcune iniziative propagandistiche apparentemente gratuite ai danni degli Stati Uniti hanno forse mitigato le irruenze dei più oltranzisti, ma hanno certamente contribuito a lacerare il tenue filo che li univa agli USA. Con l’arrivo di Trump gran parte delle mediazioni raggiunte sono destinate a saltare; a meno che nel frattempo non salti il Presidente. Si tratta, comunque, di un regime e di una società molto più permeabili rispetto alle apparenze. Lo scempio operato dai servizi israeliani e americani tra i tecnici e i responsabili del programma nucleare sono un evidente indizio dello stato presente.

Lo si arguisce in Francia con un giovane e intraprendente presidente smanioso di acquisire il supporto indispensabile del paese ancora più potente, gli Stati Uniti, necessario a preservare le proprie residue sfere di influenza, di riserva economica in Africa, in Siria e nel Pacifico. Quanto sia però precaria e debole questa posizione lo rivela l’aleatorietà degli impegni economici che il regime saudita ha stretto con esso a differenza della consistenza con quelli americani. Una aleatorietà, concretizzatasi in un semplice accordo di valorizzazione del settore turistico in Arabia in netto contrasto con la pesante influenza e con le compromissioni pesanti di essa nel sistema economico-finanziario e sociale della Francia. Legami che hanno già fatto saltare le ambizioni di Sarkozy, con l’affaire libico e che promettono ulteriori sviluppi.

La fretta tradita e la grossolana costruzione di quel documento rivelano la fragilità della sicumera tutta francese di Macron, piuttosto che la sua fattiva determinazione. Il comunicato finale seguito all’incontro tra Trump e il Presidente di Francia, non ostante le effusioni, è tutta lì a rivelare le divergenze con la dirigenza americana e i legami troppo stretti, sia pur discreti, di Macron con il vecchio establishment.

Tutto dipenderà dalla prosecuzione della deriva che sta seguendo Trump. A determinarla però non sarà certamente ed eventualmente il nuovo Napoleone, se non in misura irrilevante.

Il passo dalle fake alle bolle può consumarsi rapidamente e imprevedibilmente.

Questo secolo ha rivelato la rapida evaporazione di tanti leader di successo dalle promettenti carriere. E siamo appena all’inizio.

 

IL BUCO NERO_ IL RE (UE) E IL MATTO (M5S), di Roberto Buffagni

Sulla situazione politica italiana e sulle novità funamboliche del Movimento Cinque Stelle il blog ha già dedicato numerose pagine.

Riproponiamo un articolo ancora attuale di Roberto Buffagni, già apparso nel 2016 su http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.it/2016/12/la-politicaitaliana-secondo-shakespeare.html

Un testo attuale, propedeutico a quanto scriveremo una volta che si delineerà più chiaramente la dinamica che ci porterà al varo di un nuovo governo e della conseguente maggioranza_Giuseppe Germinario

La crisi  europea e  italiana… secondo  William Shakespeare 

Il Re e il suo Matto

di Roberto Buffagni

Why, ‘some are born great, some achieve greatness,
and some have greatness thrown upon them
.
(il Matto Feste, Twelfth Night, Atto V, Scena 1)

Winning will put any man into courage.
(il Matto Cloten, Cymbeline, Atto II, Scena 3)

In questo inverno del nostro scontento (59,11% di NO nel referendum appena votato), nella situazione politica italiana non si capisce niente, tranne una cosa: che dopo questo terremoto, tra le rovine dei partiti di maggioranza e opposizione, resta in piedi ed anzi si consolida un solo partito, o meglio un solo Coso: il Movimento 5 Stelle. Il problema è che non si sa che cosa sia il M5S, questo Buco Nero. Populista, si dice. Sì, è populista: ma il populismo è uno stile, non un’identità politica, e neanche un contenuto programmatico. Insomma: che cos’è questo Coso?

Come faccio sempre quando non ci capisco niente, ho consultato il Bardo, che di politica e d’altro se ne intende assai; e come sempre il Bardo mi ha cortesemente risposto la verità, raccomandandomi però di dirla in fretta, perché “La verità è simile ad un cane/che deve restar chiuso in un canile;/va ricacciato lì dentro a frustate.” (il Matto, Re Lear, Atto I Scena 4).

Obbedisco, e ve la dico subito: il M5S è il Matto che rivela la verità sul Re.

Il Bardo, però, ama la sintesi estrema, perché è un grande poeta amico dei simboli e degli enigmi, e un grande uomo di teatro nemico delle lungaggini e della noia. A me, tocca spiegare. Spiego, scusandomi sin d’ora se dovrò esser lungo.

Chi è il Re? Il Re è l’Unione Europea. E qual è la verità che rivela il Matto sul Re? Che il Re è un usurpatore, un falso Re.

Facciamo un passo indietro, come nei romanzi d’appendice, e vediamo un po’ che cos’è quest’altro Coso o Buco Nero: l’Unione Europea, il Mostro Buono, come lo chiamava H.M. Enzensberger.

Nella grammatica politica, esistono soltanto gli Stati nazionali, che possono in varia forma e misura confederarsi, cioè unirsi in modo revocabile: v. il progetto gaulliano di “Europa delle nazioni”; e gli Imperi, in cui l’unità è federale, cioè irrevocabile: v. per antifrasi la guerra di secessione USA tra Nord federale e Sud confederale. L’Europa non può essere o diventare uno Stato nazionale, perché se esiste una civiltà europea, non esiste una nazione europea. L’UE non è una confederazione: se lo fosse, il quadro giuridico dei rispettivi poteri e competenze di Stati nazionali e istituzioni confederali sarebbe chiaro e politicamente legittimato, e l’unione revocabile.

Dunque, l’UE è un progetto federale imperiale (in corso d’opera). Per federare un insieme di Stati in un organismo istituzionale maggiore, Stato-nazione o Impero che sia, ci vuole un federatore (v. il ruolo di Piemonte e Prussia nelle unificazioni italiana, nazionale, e tedesca, imperiale, del XIX sec.). I requisiti essenziali del federatore sono l’indipendenza politica e la forza egemonica (senz’altro militare, nel caso migliore anche economica e culturale). Nel progetto di federazione imperiale UE, invece, non c’è un federatore: lo Stato più forte, la Germania, difetta di entrambi i requisiti (ospita sul proprio territorio basi militari non europee, è economicamente ma non culturalmente egemone).

In realtà, il progetto federale imperiale UE ha due federatori a metà: un federatore politico (gli USA, che hanno l’indipendenza politica, della forza militare, e in certa misura dell’egemonia culturale in Europa) e un federatore economico (la Germania). Nessuno dei due “federatori a metà”, né il politico né l’economico, può/vuole portare a compimento la sua opera. Gli Stati europei non possono federarsi politicamente con gli USA, diventando il cinquantunesimo, cinquantaduesimo, settantottesimo, etc., Stato della federazione nordamericana. Né gli Stati europei possono federarsi intorno all’egemonia economica tedesca, perché il vantaggio economico del “federatore a metà” tedesco implica lo svantaggio economico senza contropartita politica della maggior parte dei federandi, che com’è logico alla fine si ribellano: ma né gli USA per evidente assenza di legittimazione, né la Germania per evidente difetto di mezzi atti allo scopo, possono far uso della forza per ricondurli all’unità.

Ora, nessun federatore agisce gratis et amore Dei nell’unica preoccupazione dell’interesse dei federati; ma perché l’operazione sia politicamente vitale, tra federatore e federati deve sempre avvenire uno scambio, più o meno equo e immediato, di reciproci vantaggi: anche quando la federazione avvenga per conquista sul campo di battaglia. Ad esempio, nell’unificazione italiana, allo svantaggio economico patito dal Meridione – sconfitto con le armi in due campagne militari, la seconda delle quali, la “guerra al brigantaggio”, particolarmente crudele – corrispondono i vantaggi politici dell’accrescimento di potenza dello Stato, così liberato dalle ingerenze straniere, dell’integrazione tra territori culturalmente e linguisticamente affini, e, seppur tardivamente e imperfettamente, un riequilibrio/compensazione delle disparità economiche e sociali tra Nord e Sud, aggravate o almeno non appianate dall’unificazione.

Nel caso dell’UE, invece, la federazione non può essere portata a compimento né dal “federatore a metà” politico, gli USA, né dal “federatore a metà” economico, la Germania. Ne risulta non solo un impaludamento del processo di federazione, ma:

  1. a) un grave danno politico per tutte le nazioni europee: l’UE risulta in un dispositivo di neutralizzazione politica dell’Europa nel suo complesso, del quale si avvantaggia il “federatore a metà” statunitense
  2. b) un grave danno economico per tutte le nazioni europee tranne la Germania e i suoi satelliti, che invece si avvantaggiano del danno altrui.

La contropartita di questi due danni, politico ed economico, è zero. Ripeto e sottolineo due volte: zero.

Per l’Italia – Stato, nazione, popolo italiani – la contropartita di questi due danni, politico ed economico, è meglio esprimibile con un valore algebrico negativo. Esempio politico. Regnante la UE, per due volte l’Italia ha fatto uso della forza contro uno Stato straniero, su indicazione del “federatore a metà” USA e contro il proprio manifesto interesse nazionale: contro la Jugoslavia e contro la Libia (nel caso jugoslavo, l’Italia già che c’era ha fatto anche l’interesse economico della Germania). Esempio economico. Dall’ingresso nell’euro, che è una macchina per svalutare il marco e favorire il mercantilismo tedesco ai danni anzitutto dell’Italia, che della Germania è tuttora il principale concorrente economico europeo, l’Italia ha perso il 25% della sua base industriale, con la disoccupazione di massa che ne consegue.

Quanto all’Unione Europea in generale, poi, lo squilibrio tra intenzioni (almeno esplicitamente dichiarate) e risultati effettuali dell’UE è talmente grande che minaccia di provocare, più prima che poi, una implosione/disgregazione totale del progetto federale, in modi e con effetti imprevedibili e potenzialmente catastrofici.

Come sentenziato dal Bardo, insomma, l’Unione Europea è un usurpatore, un falso Re.

Ma come è giunto a conquistare il trono questo usurpatore, questo falso Re? Quali grandi Casate nobiliari l’hanno sostenuto nella sua impresa, e perché?

Le grandi Casate nobiliari che hanno posto la corona sul capo del falso Re (“uneasy lies the head that wears a crown”, dice Bolingbroke nell’Enrico IV) sono le classi dirigenti europee e statunitensi: liberals, cattolici, socialdemocratici; gli eredi legittimi delle classi dirigenti antifasciste che hanno vinto, sul campo di battaglia o nelle urne elettorali, la Seconda Guerra Mondiale e il dopoguerra. Dalla grande alleanza antifascista mancano solo i comunisti sovietici, ma sono rappresentati dai loro eredi: eredi legittimi anche loro, anche se dopo l’estinzione del ramo principale è un ramo cadetto (i maligni dicono, un ramo bastardo) a portare il titolo.

Dopo la grande vittoria comune di settant’anni fa, queste grandi Case si sono aspramente combattute per decenni. Oggi governano insieme il Consiglio della Corona del (falso) Re e la Camera dei Lord dell’Unione Europea. Come hanno fatto ad accordarsi? Per il potere, si dirà. Certo, per il potere: ma questa risposta, che è sempre vera, non spiega tutto, e anzi forse non spiega niente. Qual è il minimo comun denominatore che ha consentito alle grandi Case, un tempo in lotta per il potere, di trovare un durevole accordo, e così porre la corona sul capo del falso Re?

Il minimo comun denominatore delle grandi Casate americane ed europee che sostengono il falso Re (l’Unione Europea) è l’universalismo politico.

L’universalismo è una cosa sul piano delle idee, dei valori, della spiritualità (nella cristianità europea, l’istituzione delegata a incarnarlo era la Chiesa, il primo “sole” del De Monarchia dantesco). Se tradotto sul piano politico, però, l’universalismo non può che incarnarsi in forze inevitabilmente particolaristiche: perché esistono solo quelle, nella realtà effettuale.

Volendo, chiunque se ne senta all’altezza può parlare in nome dell’universale umanità; ma non può agire politicamente in nome dell’universale umanità senza incorrere in una contraddizione insolubile, perché l’azione politica implica sempre il conflitto con un nemico/avversario.

Senza conflitto, senza nemico/avversario non c’è alcun bisogno di politica, basta l’amministrazione: “la casalinga” può dirigere lo Stato, come Lenin diceva sarebbe accaduto nell’utopia comunista. A questa contraddizione insolubile si può (credere di) sfuggire solo postulando come certo e autoevidente l’accordo universale, se non presente almeno futuro, di tutta l’umanità: “Su, lottiamo! l’ideale/ nostro alfine sarà/l’Internazionale/ futura umanità!” (il “governo mondiale” è un surrogato o avatar della “futura umanità” dell’inno comunista).

Lenin, e in generale il movimento comunista (o anarchico) rivoluzionario, vuole risolvere la contraddizione con la forza. Nella classificazione machiavelliana, Lenin è un “leone”.

L’universalismo politico delle grandi Casate nobiliari nordamericane ed europee che sostengono l’UE non è meno radicato di quello leniniano, perché discende dalla stessa radice illuminista. Esse però vogliono/devono risolvere la contraddizione con l’astuzia; Machiavelli le definirebbe “volpi”. Scrivo “devono”, perché a prescindere dalle intenzioni soggettive, le grandi Case non potrebbero essere altro che “volpi”: entrambi i “federatori a metà”, USA e Germania, non possono portare a compimento con la forza la loro opera.

Come l’URSS comunista, anche l’UE postula l’accordo universale, se non presente almeno futuro: accordo anzitutto in merito a se medesima, e in secondo luogo in merito al governo mondiale legittimato dall’umanità universale, che ne costituisce lo sviluppo logico, e giustifica eticamente sin d’ora l’obbligo di accogliere un numero indeterminato di stranieri, da dovunque provenienti, sul suolo europeo. Per questa ragione è impossibile definire definitivamente i confini territoriali dell’Unione Europea, che qualcuno pretende di estendere alla Turchia, e persino a Israele: perché ha diritto di far parte dell’UE chi ne condivide i valori universali (cioè virtualmente tutti, dal Samoiedo al Gurkha al Masai), non chi ne condivide i confini storici e geografici.

Il passaggio tra il momento t1 in cui l’accordo universale è soltanto virtuale, e il momento t2 in cui l’accordo universale sarà effettuale, non avviene con il ferro e il fuoco della “volontà rivoluzionaria”. Le volpi oligarchiche UE introducono invece nel corpo degli Stati europei, il più possibile surrettiziamente, dispositivi economici e amministrativi – anzitutto la moneta unica – che funzionano, secondo la celebre definizione di Mario Draghi, come “piloti automatici”. Questi piloti automatici provocano crisi politiche e sociali, previste e premeditate, all’interno degli Stati e delle nazioni, ai quali impongono o di insorgere in aperto conflitto contro la Corona, o di addivenire a un accordo universale in merito al “sogno europeo”: per il bene degli europei e dell’umanità, naturalmente, come per il bene dei russi e dell’umanità Lenin ricorreva al terrore di Stato, alle condanne degli oppositori per via amministrativa, etc.

A quest’opera va associata, inevitabilmente, una manipolazione pedagogica minuziosa e su vasta scala, in altri termini una lunghissima campagna di guerra psicologica. La dirigenza UE conduce questa campagna di guerra psicologica da una posizione di ipocrisia strutturale formalmente identica a quella della dirigenza sovietica, perché non è bene e vero quel che è bene e vero, è bene e vero quel che serve alla UE o alla rivoluzione comunista: in quanto Bene e Verità = accordo dell’intera umanità, fine dei conflitti, pace e concordia universali. Le élites, necessariamente ristrette, di “pneumatici” e di “psichici” che conoscono questo arcano della Storia, hanno il diritto e anzi il dovere morale di ingannare e manipolare, per il loro bene, le masse di “ilici” che invece lo ignorano.

Il leone Lenin accetta solo provvisoriamente il conflitto politico, e anzi lo spinge a terrificanti estremi di violenza, in vista dell’accordo universale futuro: dopo la “fine della preistoria”, quando diventerà reale il “sogno di una cosa” comunista e ogni conflitto cesserà nella concordia, prima in URSS poi nel mondo intero. Le volpi UE celano l’esistenza effettuale del conflitto (in linguaggio lacaniano lo forcludono), e da parte loro lo conducono, solo provvisoriamente, con mezzi il più possibile clandestini, in vista dell’accordo universale futuro, quando diventerà reale il “sogno europeo” e ogni conflitto cesserà nella concordia, prima in Europa poi nel mondo intero.

In questo grande affresco romantico proposto alla nostra ammirazione con la colonna sonora dell’Inno alla Gioia (forse non è un caso che il Beethoven delle grandi sinfonie fosse anche il compositore preferito di Lenin) c’è solo una scrostatura: che nella realtà, l’accordo universale di tutta l’umanità non si dà effettualmente mai. Ripeto e sottolineo due volte: mai, never, jamais, niemals, jamàs, etc.

E’ questa cosa, l’usurpatore, il falso Re: il Re del Mondo di Domani che non ha né la forza, né l’autorità, né la legittimità per governare il suo regno di oggi.

E il Matto? Il Matto Movimento 5 Stelle? In che modo ci rivela la verità sul suo e nostro falso Re?

Il M5S è un caso esemplare di universalismo politico spinto fino alle estreme conseguenze dell’assurdità, del ridicolo, insomma del grottesco. La sua scelta di non allearsi con alcuna forza politica se non su singoli provvedimenti definiti “tecnici” o “concreti” consegue, infatti, direttamente dal rifiuto pregiudiziale e preliminare del conflitto politico: dire che tutti sono avversari o nemici è identico a dire che nessuno lo è; dall’individuazione del nemico/avversario, infatti, consegue quali siano gli amici politici, che non si scelgono in base alla comunanza dei valori o all’affinità intellettuale e sentimentale, ma ci vengono imposti dalla comune inimicizia.

E chi è il nemico o l’avversario del Movimento 5 Stelle? La destra? La sinistra? Il centro? Il PD? La Lega? L’Unione europea? I nemici dell’Unione Europea? L’ISIS? L’America?  Il sistema solare? Il riscaldamento climatico? I corrotti? I bugiardi? I ricchi? I poveri? Il Resto del Mondo finché non si converte e non s’iscrive alla piattaforma Rousseau?

Il M5S rinvia tutto al momento magico in cui, da solo, prenderà il 51% dei voti, metterà in opera un progetto di democrazia diretta elettronica totale, e gradualmente persuaderà tutti della bontà e verità della propria azione, che non si caratterizza per la rispondenza a interessi ben definiti di ceti, classi, istituzioni, etc., ma per qualità d’ordine prepolitico come l’onestà, la trasparenza, la freschezza, etc.: qualità in merito alle quali tutti saranno costretti ad accordarsi, se non vogliono autodefinirsi corrotti, bugiardi, marci, etc.: “… honesty coupled to beauty is to have honey a sauce to sugar.” (il Matto Touchstone, As You Like It, Atto III, Scena III)

Una posizione simile condurrebbe, per sua logica interna, al Terrore giacobino; se non fosse che a) il M5S è sprovvisto dei mezzi per metterlo in opera b) il M5S agisce in un quadro di sovranità nazionale limitata (dalla UE) c) il M5S è un Matto, e il Matto può impugnare lo scettro e la spada, ma lo scettro è di cartone e la spada di gomma: più piccoli, ma per il resto identici al (finto) scettro e alla (finta) spada del suo (falso) Re.

Il M5S è, insomma, è un microcosmo che rispecchia il macrocosmo UE: un Matto buffo, piccolo, gobbo, sguaiato, vestito come il Re, e che parla, gesticola, si atteggia, promette e minaccia (a vuoto) come il Re. Come l’Unione Europea, è un organismo politico affatto disfunzionale, ispirato a un universalismo politico che non ha la forza di imporre, e il contenuto delle sue proposte politiche si autodefinisce come “la miglior soluzione tecnica, oggettiva, per il bene di tutti, di problemi concreti”. Poi, certo: il Re ha  un vasto stuolo di tecnici professionisti ben pagati che sfornano impeccabili soluzioni tecniche a tonnellate, 24/7, mentre il Matto ha una squadretta parrocchiale di geometri, ragionieri, laureati per corrispondenza che lavorano nei ritagli di tempo e fanno quel che possono. Ma la somiglianza – anzi, diciamolo col Bardo: la parodia c’è tutta.

Come l’UE in grande, cioè in Europa, così il M5S in piccolo, cioè in Italia, sortisce principalmente due effetti: neutralizza politicamente l’Italia, che a causa dell’ “elefante nel salotto” M5S si impaluda nella paralisi politica; e non pronunciandosi mai chiaramente in merito alla UE – perché per esistere, il Matto ha bisogno del Re, anche se può punzecchiarlo – gioca e fa giocare agli italiani un incessante ping-pong mentale tra la UE realmente esistente (falsa e cattiva) e la UE possibile (vera e buona); tra il Re com’è oggi, e il Re come sarà in futuro, in quel mondo migliore che i Matti chiamano Paese di Cuccagna, Schlaraffenland, Terra di Jaunja, Land of Plenty, Pays de Cocagne, etc.

Concludo. Rispondendo alla mia domanda sul Movimento 5 Stelle, il Bardo mi ha bonariamente rimproverato, invitandomi a disturbarlo solo quando devo fargli domande veramente difficili. “Aiutati che io t’aiuto”, m’ha detto scherzosamente. Ci ho riflettuto un attimo, e arrossendo gli ho presentato le mie scuse. In effetti, ci potevo arrivare anche da solo. Non c’è forse un Matto di professione, alla guida del Movimento Cinque Stelle? Non reca forse cinque stelle, la bandiera del Matto, come ne reca dodici la bandiera del Re (proposta dall’Araldo capo d’Irlanda)? Il dodici, che nella Cabala simboleggia “Il bene sopra tutto. La virtù non è solo pensiero ma anche azione. L’agire senza lucro e senza calcolo.” E il cinque, che simboleggia: “Fugate le nere ombre della notte, l’alba porta con sé i colori vivi della primavera e prepara l’arrivo del sole.”

Che sciocco sono stato, a non accorgermene subito. E’ proprio vero che  “The fool doth think he is wise, but the wise man knows himself to be a fool.” (il Matto Touchstone, As You Like It, Atto I, Scena 5).

 

Roberto Buffagni

ELEZIONI POLITICHE! UNO SGUARDO AI PROGRAMMI, di Giuseppe Germinario

articolo precedente sull’argomento 

http://italiaeilmondo.com/2018/01/31/a-carte-coperte_-renzi-berlusconi-di-maio-salvini-al-5-marzo-di-giuseppe-germinario/

Nella prima repubblica, quindi sino agli anni ’80, la distinzione tra i partiti avveniva analizzando soprattutto i loro programmi, in particolare quelli elettorali. Essi corrispondevano a peculiari rappresentazioni ideologiche e modelli di società. Erano le sintesi e i manifesti elaborati da gruppi dirigenti inquadrati, discussi nelle sezioni di militanti e proposti a segmenti relativamente stabili dell’elettorato. Le strategie, le tattiche, le trame e gli orditi avevano anche allora la preminenza ma erano tracciate entro perimetri più delimitati e con altra circospezione. I programmi, infatti, facevano riferimento a progetti, modelli di sviluppo e di governo del paese. Modelli per lo più fumosi e generici, privi di concretezza ma che rappresentavano, per lo meno, il tentativo di inserire le rivendicazioni secondo priorità e ambizioni di costruzione di un paese se non di una nazione. Le “riforme di struttura”, la programmazione, il “modello di sviluppo”, il ruolo delle partecipazioni statali erano la cornice positiva, per quanto generica e inconcludente, di costruzione di un paese e di una identità entro la quale inserire le politiche redistributive secondo le varie accezioni politiche. Attorno ad esse si coagulavano le iniziative e i conflitti assumendo una dimensione unitaria.

Le campagne elettorali del nuovo millennio hanno assunto progressivamente come guida, al contrario, alcuni principi fondatori dalla veste apparentemente più nobile quanto astratta: l’eguaglianza, il merito, l’ordine, la libertà, l’onestà. Ci si sarebbe aspettati un confronto politico da peripatetici; si è assistito, invece, ad un imbarbarimento, tipico delle battaglie politiche legate a principi assoluti, ma del tutto ipocrita e sempre più legato ad interessi particolaristici.

Le cause sono molteplici: la discriminante della lotta di classe, in verità sempre più sfumata e indeterminata, scissa da un’idea di emancipazione o costruzione nazionale; l’europeismo teso alla costruzione di una entità politica sulle ceneri degli stati nazionali ma priva, per manifesta volontà, incapacità e impossibilità, di un amalgama identitario sufficiente a tenere insieme in condizione autonoma un continente; l’identificazione dominante dell’idea di nazione e di sovranità con l’avventura nefasta del fascismo sono quelle che più hanno segnato le vicende politiche dell’Italia repubblicana. Sono per altro servite a nascondere il pesante retaggio della sua fondazione sino ad ora accuratamente rimosso: essere nata da una catastrofica sconfitta militare che ha liberato il paese dalla oppressione militare più odiosa, mantenendola però in una condizione analoga sotto gli attuali “liberatori”.

La campagna elettorale in corso rappresenta infine la definitiva trasformazione in mercato del bacino elettorale. Ne consegue la netta prevalenza degli aspetti redistributivi nei programmi elettorali e della campagna di denigrazione della credibilità e della coerenza ai principi delle forze politiche e dei leaders avversari.

Per esprimere un giudizio più ponderato si dovrebbe piuttosto concentrare l’attenzione su altri temi rimasti in ombra ma rivelatori dei limiti strategici dell’azione delle formazioni politiche: la riorganizzazione istituzionale, l’Unione Europea, la politica industriale e la coesione sociale.

LA RIORGANIZZAZIONE ISTITUZIONALE

È il grande buco nero creato dalla scellerata gestione delle riforme istituzionali ad opera del Partito Democratico di Renzi e culminata con la sonora sconfitta ai referendum del 2016.

È un tema dirimente perché una riforma efficace, quale non era quella proposta da Renzi, avrebbe consentito la formazione e l’operatività efficace ed incisiva di una classe dirigente attraverso una parziale ricentralizzazione e una ridefinizione della gerarchia di competenze, una responsabilizzazione dei quadri direttivi e una ridefinizione degli equilibri e della divisione dei poteri fondamentali.

Sarebbe stato un obbiettivo perseguibile solo se assecondato da un programma di rinascita nazionale e di ricostruzione identitaria sulla base dei quali compattare la formazione sociale e ricostruire i rapporti con i paesi europei più importanti. Una ambizione che sia il Partito Democratico sia Forza Italia, i due partiti nazionali superstiti, si sono costitutivamente rivelati incapaci di perseguire.

L’imbarazzo con il quale il tema viene riproposto e liquidato nel programma del PD è del resto del tutto evidente.

Non è nemmeno la mancanza più grave.

La sconfitta ha provocato naturalmente un moto opposto di reazione che ha reinnescato in particolare un confuso processo di decentramento di competenze alle regioni.

Un processo opaco e pericoloso perché poggia su una confusione ed una sovrapposizione di competenze; perché consente alle regioni la possibilità di scegliere ordinamenti organizzativi diversi su medesime attribuzioni; perché alcune pertinenze sono chiaramente al di fuori della portata e della opportunità di questi enti; perché non accompagnato da una indicazione di riduzione del numero delle regioni; perché è inserito in una consuetudine ormai consolidata di rapporti sempre più diretti e spesso concorrenziali rispetto alla Stato Centrale con gli organismi comunitari.

Per altri versi quell’esito può avere una influenza diretta sul processo di evoluzione dei due principali partiti attualmente di opposizione.

Riguardo alla Lega rischia di rallentare ed annacquare il processo di trasformazione in partito nazionale legittimando e offrendo ulteriori argomenti alla sua visione di Italia dei popoli; riguardo al M5S rafforzerebbe la sua concezione illusoria e fuorviante di istituzioni “tanto più democratiche ed efficaci quanto più prossime fisicamente e territorialmente ai cittadini”.

Un processo di evoluzione di per sé già fragile e precario per questi due partiti e in evidente regressione per gli altri vista, tra i vari aspetti, la debolezza assertiva dei programmi nella definizione dei livelli e delle procedure di competenza, nell’affermazione del ruolo di interposizione dello Stato Centrale nei rapporti tra UE e amministrazioni periferiche, nella individuazione e capacità di creazione di agenzie abilitate al coordinamento e all’assistenza tecnica in ambiti interregionali specifici come quello delle infrastrutture strategiche.

Ci sarebbero altri ambiti meritevoli di approfondimento, tra questi quello del rapporto e delle funzioni sempre più debordanti degli ordinamenti giudiziari; ma questi sembrano i più rilevanti soprattutto perché meno scontati rispetto alla coerenza ideologica delle varie formazioni politiche.

UNIONE EUROPEA

La politica europea rappresenta il contesto imprescindibile principale e prossimo entro il quale devono agire i governi nazionali.

In questo articolo si trascura coscientemente il ruolo di subordinazione della nostra collocazione atlantica entro il quale continua a delinearsi lo stesso processo unitario europeo. Questo perché è un tema del tutto ignorato o ricondotto opportunisticamente all’ordine, ancor più in questa fase cruciale, dalle forze politiche.

Sulla UE il divario tra l’enfasi retorica e le proposte politiche è netto soprattutto nel programma del PD.

Quest’ultimo, sulla scia dell’onda macroniana in Francia, ha riproposto l’obbiettivo ambizioso degli Stati Uniti d’Europa. I concreti passi principali sostenuti nel programma sono al contrario diretti al sostegno e alla partecipazione ai “rapporti di cooperazione rafforzata” tra i soli paesi effettivamente intenzionati ad accelerare i processi di integrazione; un modo di eludere così l’ostruzionismo e l’opposizione della gran parte degli altri, specie centrorientali.

Proclama di affidare agli organismi rappresentativi diretti dei cittadini europei la responsabilità e il controllo delle nuove competenze, soprattutto economiche e di finanza pubblica, quando in realtà sono i capi di governo degli stati nazionali a dover varare e gestire per lungo tempo queste competenze in un lungo processo di transizione e a doversi assumere l’onere delle garanzie e delle coperture di eventuali dissesti, ammesso che questo riesca ad andare avanti significativamente.

La parola magica attualmente in auge in casa democratica è “sublimazione” dell’interesse nazionale in quello europeo. Continua a significare in realtà che si prosegue nell’ottica di un interesse nazionale sacrificabile al superiore cospetto di un presunto interesse europeo; i restanti paesi, meschini, continuano ovviamente a vedere l’Unione Europea come un particolare campo di azione nella difesa degli interessi nazionali. Le delocalizzazioni, la vicenda Embraco, quella della sede dell’Agenzia Europea del Farmaco sono solo gli ultimi esempi di questa impostazione fallimentare che ha portato all’isolamento politico dell’Italia, alla distruttiva sottovalutazione per decenni della necessità di preservare presenze qualificate nei posti chiave delle strutture comunitarie e all’accecamento pervicace nella retorica europeista di ogni sussulto nazionale.

Le oscillazioni opportunistiche del M5S non consentono una valutazione attendibile e credibile del programma sull’argomento. I passi di avvicinamento ad un eventuale incarico di governo lo stanno effettivamente spingendo verso la progressiva accettazione dello statu quo e verso una fiducia sempre più riposta nelle capacità autoriformatorie del sistema e purificatrici dei rituali referendari e di democrazia rappresentativa senza popolo corrispondenti.

La Lega sembra avere un programma più lineare legato al recupero del principio di superiorità della giurisdizione nazionale rispetto alle deliberazioni della UE, del principio di autonomia di bilanzio rispetto ai limiti imposti dai vincoli europei. In nome dell’alleanza di centrodestra ha scelto la strada del perseguimento di trattative interne alla UE le quali consentano le modifiche di regolamenti, politiche e vincoli. Non è chiaro come questo sia possibile nell’ottica di una unione di tutti i paesi europei così discordi sulle prospettive del processo unitario e se questa trattativa sarà condotta più credibilmente sotto la spada di Damocle di una fuoriuscita dell’Italia dalla Unione. Quello che lascia perplessi è la sottovalutazione della tentacolarità del sistema comunitario e della ricchezza del campionario di politiche e strumenti in grado di garantirne l’operatività le quali vanno ben oltre il sistema monetario e i vincoli di finanza pubblica.

LA POLITICA INDUSTRIALE 

Le attività economiche, in particolare quelle industriali, sono la base creatrice della ricchezza e delle risorse necessarie alla forza e alla potenza di uno stato; uno dei fondamenti sui quali si articolano le differenziazioni di status e sociali e sui quali si base la coesione delle formazioni sociali. L’Italia negli ultimi quarant’anni ha visto logorarsi inesorabilmente l’equilibrio tra attività strategiche ed attività complementari, tra il peso e il ruolo guida della grande industria e quello delle medio-piccole, tra il controllo nazionale diretto e indiretto delle attività strategiche e lo sviluppo necessario delle capacità imprenditoriali a discapito dei primi rispetto ai secondi. Al lento e inesorabile declino dell’industria pubblica ha risposto rinunciando con leggerezza e indifferenza, in realtà con connivenza, al controllo dei settori strategici e alla quasi totalità della grande e media industria. Con questo ha esposto alla precarietà e alla subordinazione interi settori vitali per il paese, dall’agricoltura, alla distribuzione, ora al settore finanziario e a quelli trainanti nella chimica, elettronica e meccanica. Con questo ha rinunciato di fatto all’ambito più remunerativo dello sviluppo tecnologico e della ricerca scientifica; quello dell’applicazione collaudata in grande piattaforme industriali. È sempre più assente, per mancanza di soggetti e attori idonei, nei processi europei contrattati politicamente di fusione ed integrazione delle grandi imprese. Tutti i programmi di fatto ignorano o sottovalutano questi aspetti cruciali in grado di pregiudicare pesantemente il futuro del paese.

Si va dall’aperto disconoscimento del problema come deducibile dal programma del PD, salvo poi indignarsi a disastri in corso del carattere predatorio e “incivile” del comportamento delle multinazionali, come nel caso della Embraco e dell’insufficienza degli investimenti in ricerca e in prodotti innovativi. Calenda, nel caso, pur sapendo che l’accordo di tre anni fa con Whirpool prevedeva solo una deroga alla decisione di trasferimento, ha dimostrato di sape svolgere la funzione di prefica. Sta di fatto che il PD intende perseverare nella politica indifferenziata di incentivazione degli investimenti in tecnologia, utile tutt’al più a garantire al meglio la sopravvivenza e perpetuazione degli attuali settori nell’attuale suddivisione della divisione del lavoro, nonchè nell’atteggiamento di perfetta indifferenza, smentito a malincuore solo da alcune eccezioni, riguardo al controllo e vincolo nazionale di determinate imprese e settori. L’unico spazio concesso all’iniziativa politica riguarda le politiche fiscali e di infrastrutturazione. Un tema già ampiamente trattato in altri articoli.

Il programma del M5S non si distanzia di molto da questo approccio se non nell’enfasi riposta alle politiche ecologiche e di investimento nell’economia circolare e verde con riguardo al mero sostegno degli investimenti pubblici e con una considerazione pressoché inesistente della funzione della grande industria. Da stendere un velo pietoso riguardo all’attenzione sull’industria militare e sulla commistione tra ricerca scientifica militare e implicazioni nelle applicazioni civili. Decisamente approssimativo l’intento della istitituzione di di una banca per l’impresa senza una parola sul futuro di Cassa Depositi e Prestiti e senza un accenno sulla necessità di convogliarvi il risparmio nazionale. Che banca sarebbe, altrimenti? In sostanza un programmino diligentemente attinto e copiato qua e là dai vari centri studi.

La Lega di fatto si differenzia soprattutto per una enunciazione di principio sulla difesa della grande industria strategica senza ulteriori concrete considerazioni.

Colpisce, soprattutto, in tutti l’assoluta ignoranza dei pesanti influssi inibitori delle direttive comunitarie in materia di concorrenza, di investimenti in infrastrutture alla formazione di nuova grande imprenditoria nazionale. Una politica che di fatto favorisce lo statu quo degli assetti imprenditoriali e una politica di dumping fiscale dei paesi emergenti tesi ad attirare le attività senza possibilità di condizionare le scelte e la composizione imprenditoriale. Il discorso sarebbe molto lungo.

Una ignoranza del tutto comprensibile e consapevole per quanto riguarda il PD, scontata riguardo al M5S, colpevole riguardo alla Lega.

Tutto verte, quindi, su una politica di detassazione, di riduzione dei cunei fiscali, di alimentazione velleitaria della domanda interna grazie ad un trasferimento di risorse da pubblico ai cittadini, quasi che la spesa pubblica non alimenti anch’essa, almeno teoricamente, la domanda e quasi che la maggiore disponibilità dei privati alimenti di per sé gli investimenti.

LE POLITICHE DI COESIONE SOCIALE

Tralascio per mancanza di tempo l’esame su questi aspetti dei programmi di Forza Italia e di LeU. La prima perché molto simile a quella del PD, i secondi perché si riducono ad una sorta di bollettino di rivendicazione sindacale che ha come presupposto che i veri detentori del potere sono “quelli della grande finanza”.

Il discorso della coesione sociale meriterà di conseguenza un approfondimento apposito da riservare in un prossimo futuro.

Riguarda senza dubbio l’ambito culturale sedimentato e la rappresentazione ideologica di una comunità grazie al ruolo più o meno efficace svolto dalle élites nel plasmare un’identità e nel far accettare la “missione” e i modi di vivere comprese le differenziazioni, le selezioni e le particolari modalità di governo dei contrasti. Un aspetto sempre meno presente nelle enunciazioni man mano che lo sguardo politico si volge alla sinistra, ma comunque praticato vista la attenzione e il successo con i quali, nei decenni, le varie sue componenti hanno saputo egemonizzare gli spazi. Riguarda anche, ovviamente, l’ambito socio-economico, certamente più congeniale alla tradizione progressista.

Nell’intero ambito dell’arco costituzionale, con la parziale eccezione della Lega, si va facendo strada progressivamente una politica redistributiva che prescinde dal successo delle politiche industriali e dalla connessa autorevolezza politica di uno stato e di un paese che ne consentano lo sviluppo. Sulle pensioni, sul reddito di cittadinanza, sul salario garantito si sta assistendo all’affermazione di una concezione assistenzialistica e plebea, di appiattimento al ribasso della distribuzione di risorse sempre più sganciata dalla differenza di funzioni e di competenze e legata sempre più, nella articolazione, alle differenze di status e neocorporative. Sono politiche che vanno di pari passo con i processi di precarizzazione e di degrado legati alla riorganizzazione industriale specie nelle aree in declino.

Esiste certamente un livello di degrado talmente basso da pregiudicare le possibilità di rinascita di un paese; in questo caso una politica di prevalente redistribuzione egualitaria potrebbe contribuire a porre le basi minime di sviluppo e di emancipazione in una società. In una situazione di degrado seria ma non ancora generalizzata, quale quella dell’Italia, una piatta politica redistributiva contribuisce facilmente all’ulteriore declino delle motivazioni e allo sviluppo abnorme di una economia informale e precaria nemica di un paese e di una nazione forte, coesa e motivata. Sono politiche che abbiamo già visto all’opera spesso, ad esempio, nei paesi dell’America Latina con esiti alla lunga altrettanto disastrosi di quelle recessive. La grottesca fiera di promesse alla quale abbiamo assistito in questa campagna elettorale sono il segno appunto di questo declino e del carattere miserabile e ottuso della quasi totalità di questa classe dirigente. In questa condizione rischia di sopravvivere il gruppo dirigente più coeso, coerente e determinato, magari sotto mutate spoglie. C’è già pronto Macron ad offrire in Europa la necessaria nuova copertura politica.  Nella fattispecie, paradossalmente, rischia di essere appunto il gruppo dirigente maggiormente responsabile della attuale situazione del nostro paese.

Manca appena una settimana alla apertura delle danze. Non resta che aspettare trepidanti.

 

 

IL DESTINO DEGLI EUROPEI. (2/2), di Pierluigi Fagan

IL DESTINO DEGLI EUROPEI. (2/2)

[Prima puntata, qui] Vediamo allora meglio quali possibili eccezioni si possono avanzare alla correlazione massima sovranità = grande Stato. Innanzitutto si possono comparare solo entità che abbiamo qualche forma di analogia, ad esempio, uno stesso livello di sviluppo. Se il Vietnam (che ha comunque 90 milioni di abitanti) cresce impetuosamente è anche perché proviene da una recente conversione all’economia produttivo-scambista nata in occidente. Questa dinamica di “lancio” che si ottiene all’inizio dei processi di sviluppo, non è ripetibile nei paesi molto maturi come quelli europei soprattutto dell’ovest. La seconda discriminazione taglia gli Stati che fungono da snodo banco-finanziario, i depositi o mercati della ricchezza con opacità fiscale e benevolenza giuridica. Lussemburgo, Lichtenstein, Cipro, Malta, Singapore, Svizzera et simili, sono come piccoli vascelli pirata che fanno categoria ma solo a certe condizioni che non sono raggiungibili da chi ha milioni di individui in popolazione. I casi misti come Irlanda od Olanda non cambiano il giudizio finale. La terza è il contesto, trovarsi come la Corea del sud tra Giappone e Cina e stante che anche la Corea ha iniziato il suo sviluppo solo da qualche decennio, non è come trovarsi al centro dell’Africa, tra Tanzania, Angola e Sudan. Così per i Paesi in target dello sviluppo delle Vie della seta cinesi o per la centralità che la Turchia ha sia verso l’Oriente che verso il Mediterraneo. Vale per le opportunità ma vale anche per i problemi, l’Italia ad esempio, ha volente o nolente, il problema del rapporto con Francia e Germania. Se come tutti ritengono, l’Asia sarà il fuoco del futuro sviluppo planetario (già oggi 60% della popolazione mondiale) essere stato in Asia avrà problemi ed opportunità diverse dall’essere stato in Europa, in un caso le condizioni di possibilità vanno ad aprirsi, nell’altro -tendenzialmente- a chiudersi. La quarta sono gli stati con materia-prima che poi sembrano portarsi appresso anche la relativa “maledizione”, è chiaro che fanno categoria a sé e che nessuno stato europeo si trova in questa condizione, anzi siamo tutti dipendenti da materie prime ed energie ampiamente esterne. La quinta è il momento e l’arco storico. Stiamo cioè parlando di un problema che si presenta nel recente e che si imporrà ancor più decisivamente nel futuro, riferirsi al passato per reperire casi di successo economico nello spazio piccolo, fosse anche il neo-keynesismo post bellico e ricostruttivo degli stati europei anni ’60, non ha alcuna utilità.  Questa discussione fatta qualche anno fa con un amico, vedeva come contro-caso la Finlandia ed il suo gioiello Nokia. Oggi, la finlandese Nokia è stata venduta all’americana Microsoft ed è stata venduta perché forte di esser stata un primum movens, non poteva poi reggere la concorrenza asiatica, a prescindere da quanto fosse appoggiata dal suo stato di riferimento. Competere su certe produzioni avanzate con chi, come la Cina, sfornerà assieme all’India il 63% dei laureati in materie scientifiche entro il 2030 (OECD-OCSE), sarà dunque molto difficile. Altresì, è certo che i grandi stati saranno in grado di mobilitare grandi capitali per R&S, si veda il caso americano DARPA o per sviluppo infrastrutturale come fa la Cina e si apprestano a fare gli USA. Il caso Finlandia dice anche che i casi da porre in dibattito vanno valutati in un corso storico decennale altrimenti si finisce come Ricardo a credere che anche il Portogallo con le sue bottiglie di vino porto, aveva “solide” opportunità di vantaggio comparato con cui partecipare alla danza del libero mercato mondiale. Era proprio List a contraddire questo assunto molto generico, una economia-Stato dovrebbe avere una buona parte delle sue produzioni fondamentali interne, se non vuole essere maltrattata dalla potenza produttiva di qualche “fabbrica del mondo” esterna, magari coadiuvata dalla cannoniere come la patria di Ricardo ci ha insegnato. I piani di re-industrializzazione in Francia ed USA, dicono che la favola bella della mano invisibile che mette ordine nel mondo del mercato, è stata illusione che ieri c’illuse e dalla quale oggi dovremmo risvegliarci in fretta. Vale anche per le valute, dipendere dalla valuta di un altro Stato sottrae ovviamente sovranità. Ma naturalmente la valuta deve essere poi di un peso che venga riconosciuto dal mercato, non basta avere carta e tipografia di proprietà.  La sesta discriminazione deve poi escludere quei paesi che di madre o seconda lingua inglese, hanno davanti a loro nel mercato globalizzato una più ampia prospettiva per l’economia dei servizi che oggi rappresenta dal 70% in su del totale contributo al Pil degli stati ad economia matura. La settima è la verifica oltre economica. Definire sovrana la Corea del sud, vista la dipendenza che ha dalla protezione militare americana, pecca di manica molto larga. Purtroppo è proprio il fatto militare, tanto il suo piano produttivo che di  effettiva potenza, a condizionare grandemente l’autonomia dei paesi e s’illude chi legge solo come geopolitica la dipendenza militare poiché gli stati sono sistemi integrati. E’ difficile ospitare una base NATO e mettersi ad amoreggiare con l’economia cinese accettando yuan contro valuta nazionale, perché prima parte una telefonatina, poi qualche tentativo di destabilizzazione per rischio di disallineamento. Di contro, pensare di avere autonomia militare partendo da un singolo stato europeo è ovviamente fuori di senso. Infine, è chiaro che i rapporti tra Paesi dotati di maggior massa e potenza, militare ed economica, quindi politica, determineranno i regolamenti dei giochi planetari, influiranno su gli standard, sulle policy delle istituzioni globali, su i lineamenti giuridici del sistema mondo a cui tutti, volenti o nolenti, dovranno partecipare in vario modo ed intensità. A gli altri, rimarrà l’opzione tra il come ed il quanto integrarsi in un gioco in cui si troveranno gettati senza alcuna voce in capitolo, sapendo che il protettore che si sceglieranno sarà inevitabilmente anche il proprietario del sistema che darà loro i limiti di possibilità. Il soggetto UE che compare nelle classifiche per Pil è un mero ente statistico, non è un soggetto intenzionato, non fa investimenti di alcun tipo, non sviluppa ricerca propria, non è autonomo militarmente (e si fa imporre ad esempio l’ostracismo commerciale alla Russia che gli sarebbe partner naturale), non partecipa al consesso internazionale con voce in capitolo.

Tornando alle premesse  iniziali è chiaro che nulla di tutto ciò impone leggi ferree di dimensioni, si potranno avere casi particolari di buona tenuta in qualche nicchia economica sebbene precaria nel tempo ed assai assediata muovendosi nei limiti dati dall’allineamento geopolitico a qualche superpotenza, la dinamica però della distribuzione dei pesi e delle egemonie, ci sembra tendenzialmente orientata. Hobsbawm scriveva che ai tempi ottocenteschi del dibattito sulla taglia dei nuovi stati, se non proprio legge, faceva chiara tendenza la sequenza dal locale al regionale e dal regionale al nazionale, su fino al mondiale perché sebbene a molti intelletti metafisici sfugga, nel frattempo la popolazione aumenta ed è ovvio che un macrosistema sempre più denso si ripartisce in sottosistemi per avere un ordine per quanto dinamico. La destinazione finale di questa sequenza non è l’impero-mondo, di nuovo incurabile metafisica politica, ma una tavola rotonda di quasi pari che cooperano ed in parte competono tenendosi in reciproco equilibrio e non accettando la prevaricazione di alcuno.  Sembra meno stabile di un impero-mondo ma in realtà è così che si organizza la complessità in natura, ovunque la si osservi distribuisce peso in molteplici, complessi ed interrelati.

Come detto queste considerazioni sono variamente presenti già nel dibattito ottocentesco, addirittura Alexis de Tocqueville prevedeva un futuro bipolare in cui l’Europa sarebbe stata espropriata di significato e potenza da i due giganti americano e russo. Kalergi nel 1923, prevede non solo America e Russia (la suo tempo già URSS) ma anche Giappone e Cina. Schmitt vede britannici come al solito impegnati a spezzettare l’Europa per evitare si venga a formare un soggetto per loro minaccioso, americani, russi e di nuovo l’Asia mentre il destino della noce schiacciata nella morsa Stati Uniti – Russia/Asia angustia anche Spinelli e Rossi. Nel frattempo, i meno di venti Stati europei nella cartina politica europea del 1914, sono diventati cinquanta[1]. La scomparsa dell’impero austro-ungarico, la riduzione di quello germanico, l’implosione sovietica che ha liberato quindici nuovi Stati (non solo europei) e quella jugoslava altri sei, i riconoscimenti di sovranità dopo la seconda guerra mondiale che seguivano anche la logica di interposizione tra fronte occidental-americano ed Unione sovietica, la compiacenza con gli stati-banche in cui dare asilo politico ai capitali in cerca di libertà dal giogo fiscale, furono processi tutti interni alla logica sub-continentale che è andata dalla parte opposta al discorso che qui sviluppiamo. Logica sì interna ma anche molto manipolata dai due giganti URSS ed USA, la sovranità in Europa è un concetto al tramonto dalla fine delle seconda guerra mondiale. Le questioni scozzese, basca, catalana, corsa, fiamminga e vallone e via di questo passo in un  elenco sempre più lungo, promettono altre eventuali invaginazioni. Di contro. Il processo unionista dalla CECA del ’51 a Maastricht – Lisbona – euro, ha dato l’impressione di compensare questa coriandolizzazione delle sovranità europee, operando sintesi a più alti livelli. Ma le ha operate davvero?

Troppo vasto e complesso il sistema europeo allo stato attuale dell’opera per addentrarci al suo interno, rimaniamo all’esterno considerandolo “un” sistema (UE+euro). Allo stato attuale sia dell’opera che delle intenzioni (sia dei fatti che dei discorsi), il sistema unionista europeo è una confederazione, una alleanza su base di trattati, alcuni pensano, vorrebbero, sognano possa poi diventare una federazione, cioè uno Stato ma che una confederazione diventi una federazione non è affatto detto e tra gli assai pochi esempi storici, èsignificativa solo la Svizzera, confederazione per circa sei secoli e poi federazione dal 1848. Proprio la Germania e la sua formazione unificata in Impero nel 1871, ci dice non fu certo lo Zollverein fatto inizialmente con l’Austria a portare all’unificazione. Ci fu una guerra contro l’Austria (tra “tedeschi”) e poi la creazione di  un problema tale da farsi dichiarare guerra dalla Francia di Napoleone III, per spingere i riottosi principi tedeschi a farsi inglobare dai prussiani sulla spinta unificatrice del comune nemico.  Si ricordi poi sempre che la nostra tendenza alla modellistica astratta (confederazioni, federazioni, Stati, unioni, leghe etc.) occulta le particolarità decisiva di dimensione e contesto. Se ad esempio, gli Stati Uniti d’America nascono fondendo colonie oltremare di una unica sovranità, che si sono ribellate con una guerra d’indipendenza, in un continente praticamente vuoto, abitato da 2,6 milioni di anglosassoni con la stessa lingua, cultura e religione e nel disinteresse geopolitico dell’epoca, questo “esempio” non è di nessuna utilità per il caso europeo. E se le confederazioni si sono create storicamente soprattutto come alleanze militari, cosa comporta una confederazione economica che ha poi chiamato una moneta unica per evitare i potenziali conflitti sulle parità di cambio, che sta ora chiamando leggi commerciali, standard, leggi fiscali e di bilancio che arrivano fino al cuore della sovranità economico-politica degli Stati nazionali? Soprattutto, è quella del sistema economico una logica che può supplire alla mancanza di un più nitido processo di unificazione dichiaratamente politico? Decisamente, no. Una confederazione economico-monetaria con qualche forme giuridica di omogeneizzazione rimane un sistema vago, non è un soggetto multipolare intenzionato, è una gerarchia di sovranità comandata dal o dai più forti. Una confederazione economico-monetaria ordinata dai principi imposti dal soggetto più massivo (la Germania), contrattati e scambiati con contro-concessioni esclusive al junior partner francese,  non ha alcuna possibilità di diventare una federazione in cui gli stati entrino col desiderio sincero di sciogliersi in un totale maggiore della somma delle parti poiché non siamo in regime cooperativo ma competitivo, non è una fusione, è un’annessione.

Il sistema economico nel suo pensiero, nasce già in uno stato e non tratta minimamente di stati, anzi, nella sua versione ideologica neo-liberale che ne è ideologia ortodossa tanto de definire le altre ideologie economiche “eterodosse” (!), spinge verso il “meno Stato e più mercato” come se le comunità umane territoriali fossero riducibili al loro mercato, una credenza la cui assurdità lascia esterrefatti soprattutto volgendoci a coloro che sembrano pure prenderla sul serio.  Il sistema economico europeo assomiglia strutturalmente al sistema della credenza cristiana del medioevo. Ogni società piccola o grande, medioevale o moderna, è attraversata da fatti economici quanto religiosi ma  quello che Schmitt chiamava il “nomos” della terra, chiama la partizione politica e giuridica, non quella economica, né quella religiosa. L’islam ha provato alle sue origini a comprendere in un unico Stato (califfato-sultanato) tutte le terre dei credenti ma si è ogni volta frantumato perché per quanto comune sia la credenza spirituale e financo parte della legge (sharia), questo è solo un di cui delle società territorializzate. Gli ebrei hanno in effetti fatto nazione senza vincolarsi ad uno stato territoriale (almeno fino alla nascita di Israele), ma sono l’unico esempio storico in merito ed hanno anche pagato alti prezzi per questa atipicità sgradita -in genere- alla gran parte delle popolazioni territorializzate. Quando le popolazioni crebbero in Europa e le nuove partizioni politico-territoriali statali andarono in urto con l’ecumene cristiano, prima si ruppe l’unità cattolica con Lutero, poi ci fu uno sciame di conflitti che con Augusta – Westfalia sancì definitivamente il “cuis regius, eius religio”, la sottomissione del religioso al politico. Anche Enrico VIII inventò la chiesa anglicana per non aver intromissioni di sovranità da parte del continente (papato romano) così come i britannici hanno poi ribadito con la Brexit nei confronti del’UE. Per quanto si voglia complicare la faccenda, arriva sempre un punto di decisione (la fatidica domanda “chi decide?”) in cui o si segue una logica eteronoma (sistema della credenza, sistema economico e soprattutto finanziario che tendono a superare i confini, sistemi che tendono all’universale) o una logica autonoma e l’unica logica autonoma che esiste è quella politica, la sovranità che la comunità esercita su un territorio. Io non posso vivere accanto ad un vicino che risponde alla sovranità di un micro-stato fondato su una ex-piattaforma petrolifera che rilascia passaporti on line e dire che effettivamente facciamo “società”. Io faccio società coi miei simili, lui è straniero, ognuno risponde a sistemi con logica diverse, non c’è “in comune”, abbiamo firmato due diversi contratti sociali.

In effetti il sistema europeo attuale, è una sistema di Stati-nazionali dominato da i due più forti, la Germania e la Francia, ed è un sistema economico, in parte monetario e poi parzialmente giuridico che non ha nulla a che fare con un processo di unificazione politica. Lamentarne la scarsa democraticità ha poco senso perché è una libera alleanza economica contratta da soggetti sovrani, non direttamente dai popoli sottostanti. I popoli sottostanti semmai dovrebbero lamentarsi della scarsa democrazia dei loro Stati ma una volta che i parlamenti-governi hanno deliberato questo o quello ed avranno regolato i loro pesi nei rapporti di forza tra stati nel loro Consiglio dell’Unione (cioè della confederazione), nel sistema confederale si farà questo o quello com’è ovvio che sia. Questo sistema non ci pensa nemmeno un po’ a diventare un sistema federale, cioè un futuro stato anche perché il fine dovrebbe ordinarne il processo, cosa che non avviene osservando il processo “unionista” in atto. Se si volesse fare uno Stato comune è tutt’altro il processo di pur lenta sintesi progressiva che occorrerebbe fare. Se economicamente ci piace fare sistema con l’Ungheria e perché no con la Turchia piuttosto che con Israele come ad un certo punto qualcuno proponeva,  solo un pazzo scriteriato può pensare di fare uno stato federale europeo con i britannici e i turchi, i polacchi ed i tedeschi, gli scandinavi ed i greci. Per quanto sia difficile liberarsi dall’impianto mentale che ci hanno mineralizzato in testa, un impianto che parla di economia come nel medioevo si parlava di Dio, della mano invisibile come si parlava della Provvidenza,  del debito pubblico come si parlava del peccato,  invito i lettori e lettrici a recuperare un minimo di autonomia mentale e fare l’elenco dei punti che connotano una sovranità e domandarsi quale principi culturali, educativi, stili di vita, interessi geopolitici, forme economiche, lingue che aiutano a pensare oltreché comunicare, tradizioni storiche e politiche, odi reciproci, avrebbero in comune i candidati europei a fare uno Stato assieme?  Forse -appunto-, solo gli odi reciproci.

Si dirà “be’ certo non è facile ma dobbiamo provarci proprio per quanto hai sin qui sostenuto con il principio di taglia minima”. Ma il punto è che, a parte il fatto che non ci stiamo affatto provando perché se ci stessimo provando davvero dovremmo fare tutt’altre cose per fare uno Stato comune, se il “principio di taglia minima” ci dà il pavimento della casa comune da costruire, c’è un altro principio da osservare e che ci dà il tetto: il principio di omogeneità relativa.  Non stare da soli ed unirsi a qualcuno non porta ad unirsi a tutti, se non altro perché agisce il principio naturale di progressività che dal semplice si arrampica lungo la scala della complessità, scala che ha pioli, che non è un collasso spazio-temporale per il quale si va da 0 a 100. Sebbene con la meccanica quantistica abbiamo scoperto che contrariamente a quanto ritenuto nel medioevo la natura fa salti, li fa per passare da un sistema ad un altro sistema, non per passare direttamente dall’elettrone all’Universo, gli elettroni guidano solo il salto che dall’atomo porta alla molecola.  Quali sarebbero le molecole da creare per salire lungo processo di sintesi dell’estrema eterogeneità europea? Quali sarebbero cioè le fusioni politiche, costituzionali ed a quel punto certo “democratiche” e sovrane di maggior taglia, possibili? Quali sarebbero le forme della prima semplificazione della complessità europea che s’illude (o fa finta di illudersi dandoci vaghi sogni come gli inconcepibili “Stati Uniti d’Europa”) di passare dai molti all’uno perché abbiamo la stessa moneta? Quelle che ci indica il principio di omogeneità relativa.

Se riuscissimo a liberare la mente dagli impianti mentali che utilizziamo per pensare le cose, impianti che tra liberali globalisti, neo-liberisti con tendenze anarco-capitaliste, marxisti praticamente senza una teoria dello Stato, sovranisti semplificati, post-moderni confusi e confondenti,  non sembrano centrati sulla natura intrinseca del problema che abbiamo, se riuscissimo a sostituire gli ordini del pensiero economico che di loro natura sono del tutto inidonei per pensare a Stati e sovranità, con ad esempio quelli del pensiero geo-storico che oltretutto parla di cose realmente esistite e successe e non di interessi materiali travestiti da metafisica, penso sarebbe intuitivamente compreso cosa s’intende con “principio di omogeneità relativa”. In breve, come italiani o francesi o spagnoli o inglesi o germani (che sono un sistema storico ben meno preciso dei primi quattro), si formarono in nazione partendo da gruppi diversi non proprio uguali ma con “qualcosa” in comune, così stati di maggior taglia semmai si volessero seguire le conseguenze principali del principio di taglia minima, saranno possibili solo tra coloro che hanno avuto e quindi hanno “qualcosa in comune”, per seguire quello di omogeneità relativa.

Con ciò concludiamo tornando all’apertura di questo scritto, lì dove si indicavano le quattro-cinque famiglie storico culturali europee che si pongono a metà tra la partizione stato-nazionale attuale e l’idea astratta di popolo europeo magari ammassato nei quanto mai improbabili Stati Uniti d’Europa. Come i britannici hanno un loro istinto formatosi nella geo-storia di lungo periodo in quella che è di per sé un’isola, come gli iberici, gli italici ed i greci (ma anche i danesi e gli scandinavi) sono popoli di penisole, così i germano scandinavi o i latino-mediterranei e gli slavi almeno quelli del nord, hanno una loro geo-storia comune o quantomeno fortemente intrecciata. Questo “in comune” culturale, linguistico, geopolitico, storico, istituzionale, sociale, di stile di vita, di valori, di religioni è l’unico presupposto per tentare la scalata alla complessità per fare nuovi macro-Stati. Il punto è tutto nell’impianto mentale che usiamo per fare analisi e sintesi, per fare descrizioni e darci norme. Usando un impianto economicista appaiono possibili edopportune alcune cose, usando un impianto geo-storico, altre, il primo ragiona per mercati il secondo per Stati, il primo è astrattamente cosmopolita il secondo s’impegna al più concreto livello di far convivere diverse nazioni tra loro perché ne riconosce la storica esistenza sistemica, il primo si basa sul diritto del più forte e non potrà mai esser democratico, il secondo è politico, quindi costituzionale, sovrano ed idoneo alla pretesa di democrazia. Il primo si basa su una “fede”, il secondo sulla ragione.

Se pensate sia opportuno far fronte ai tanti e svariati problemi che abbiamo velocemente elencato  in termini di adattamento tra le nostre popolazioni al mondo complesso e multipolare, denso e competitivo, con un impianto economicista e non geo-storico,  continuate a costruire il vostro mercato comune dominato dalla potenza condominiale franco-tedesca, uniti dalla ritrovata pace reciproca fatta pagare a tutti quelli che gli stanno attorno. Potrete anche andare in giro a raccontarvi che la fine della storia saranno gli Stati Uniti d’Europa, tanto quanto il papa ed i suoi grassi e laidi cardinali e preti andavano in giro nel medioevo a raccontare che con loro si realizzava l’ecumene del regno di Dio in terra mentre rubavano terre e ricchezze al popolo ignaro, sottomesso e pregante. Oppure se seguite un impianto sovranista elementare potrete concentrarvi con soddisfazione a dire l’esatto contrario di quello che dicono i neo-liberali. Non costruirete nulla che sia possibile nel mondo nuovo ma vi toglierete la soddisfazione di non esservi omologati a parole. Nei fatti lo sarete comunque dato che o soverchiati dai dominanti “europeisti” o semmai beneficiati di qualche rimbalzo d’opinione messi davvero nelle condizioni di tornare allo Stato-nazione di taglia europea, sarete comunque soggetti a più poteri eteronomi, quelli dei sempre più potenti sistemi vaghi e quelli dei sistemi non vaghi come gli Stati Uniti e la Cina.

Se invece siete davvero convinti che Stato e sovranità se non proprio degli universali siano almeno quanto di più logico la storia ci mostra in termini di auto-organizzazione ed auto-nomia delle umane forme di vita associata, se non riuscite a trovare il perché non applicare i due principi connessi della taglia minima e dell’omogeneità relativa, allora dovrete staccare lo Stato e la nazione  e concluderne che solo una grande Stato federale, costituzionale e democratico tra popolazioni relativamente omogenee, nel nostro caso i  popoli latino-mediterranei, ci può dare le migliori condizioni di possibilità di avere un futuro degno del nostro passato[2]. Incrociando i principi di taglia minima e di omogeneità relativa, restando nel limite di ciò che è geo-storicamente suggerito, occorre cominciare a pensare a Stati in grado di essere un polo nel gioco multipolare[3], altrimenti la sovranità sarà da parziale a nulla.

Il destino degli europei, quindi,  è tutto nel sistema col quale lo pensiamo.

[Fine. 2/2, qui la prima puntata]

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[I libri usati per accompagnare il testo sono altrettanti contributi utilizzati dall’Autore per sviluppare il ragionamento]

[1] Poco meno di cinquanta stati su circa 200 in cui si compone il mondo fa il circa 25%, ma rispetto alle terre emerse, Europa è solo il 3,5%. Così, se lo stato medio statistico mondiale è su i 37,5 milioni di abitanti, solo 7 stati europei pareggiano o superano questa media. E’ evidente che il frazionismo europeo ha uno standard tutto suo, figlio della peculiare geo-storia di tempi che non sono più.

[2] Ne abbiamo parlato ed argomentato più volte nei nostri scritti. Il riferimento teorico è ad A. Kojéve, L’impero latino, (in Il silenzio della tirannide), Adelphi, 2004. Più di recente, era una linea indagata anche dall’economista, oggi scomparso, Bruno Amoroso. Ricordiamo ancora una volta che una Unione federale tra Portogallo, Spagna, Francia, Italia, Grecia e Cipro (da vedere Malta), sarebbe composta da duecento milioni di individui che manterrebbero ampie autonomia nei precedenti confini nazionali, ma con devoluzione anche a livelli macro-regionali e provinciali, stante che “democrazia” è una forma politica inversamente proporzionale alla quantità di persone che debbono giungere alla decisione politica. Questo soggetto varrebbe la terza economia del mondo e sarebbe senz’altro un soggetto di peso per i giochi multipolari, a partire da tutti quelli che americani, russi, israeliani e monarchie del Golfo stanno già giocando nel mare davanti casa: il Mediterraneo. Per non parlare dell’Africa o dei possibili rapporti di amicizia col Centro – Sud America ispano-portoghese.

[3] Il nostro ragionamento prende quindi a contesto principale il mondo, non le vicissitudini europeiste o il sistema dell’euro che tanto -giustamente- condizionano l’attuale analisi politica. Va però segnalato che non pochi economisti di buonsenso, tra cui l’ultimo J. Stiglitz, L’euro, Einaudi, 2017, da tempo hanno conseguito che ragionando per aree monetarie ottimali (Mundell 1961), l’area latino mediterranea ha una sua omogeneità parziale interna così ce l’ha quella dei paesi nord europei, ma le due non ce l’hanno tra  loro. Stante che l’idea di avviarci ad una discussione su un possibile nuovo macro-Stato latino-mediterraneo non ha obiettivi politici concreti immediati, già coordinarsi tra questi stati all’interno del sistema UE e promuovere una secessione dell’euro-sud, andrebbe nella direzione auspicata. Se non altro per trattare con qualche minaccia di poter “rovesciare il tavolo”, evenienza la cui necessità hanno scoperto i greci quando si sono trovati a dover dar seguito alle loro promesse elettorali con Syriza. Soprattutto le malconce sinistre di questi paesi stritolati dalla morsa infernale del sistema bruxellese, ne gioverebbero visto che sono immobilizzate dal doppio legame tra “superamento delle nazioni e dei nazionalismi” da una parte e “rifiuto degli impianto neo-ordo-liberisti” che connotano l’attuale costruzione dall’altra. La sinistra occidentale, alimentata ad overdosi di idealismo, dovrebbe recuperare presto una qualche attitudine pragmatico-realista se non vuole scomparire definitivamente. Fare un progetto latino-mediterraneo ci sembra una possibile alternativa ai vaneggiamenti su un’Europa democratica (idea promossa da un economista, non a caso),  e della democrazia impotente del ritorno all’impossibile autonomia nazionale.

 

Sergey Lavrov e i punti fermi della politica estera russa_a cura di Germinario Giuseppe

Qui sotto una intervista, tradotta in italiano, al Ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov. Offre una interpretazione delle dinamiche geopolitiche da un punto di vista quasi del tutto ignorato e travisato dai facitori di opinione di area occidentale. Molto interessanti le motivazioni dell’approccio “paziente” nei confronti dell’Amministrazione Americana

Intervista del ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov concessa al quotidiano Kommersant

Visione russa degli eventi attuali. Da prendere, come sempre, con criticità e senno di poi.

Fonte: Ministero degli Affari esteri della Federazione Russa, Kommersant , 21-01-2018

Domanda: Oggi tutti attendono con impazienza la pubblicazione di due rapporti dell’Amministrazione americana: il “Rapporto del Cremlino” sui leader e gli oligarchi vicini ai leader russi, e quello sulla necessità di introdurre nuove dure sanzioni economiche contro Mosca. Se tutti questi testi portassero al rafforzamento della politica di sanzioni di Washington, quale sarebbe la reazione di Mosca?

Sergey Lavrov: Questa domanda è ipotetica. Abbiamo già indicato in diverse occasioni che non aspiriamo in alcun modo allo scontro. A nostro avviso, l’introduzione di sanzioni non ha basi ragionevoli. Per quanto riguarda gli obiettivi annunciati di queste misure, non hanno alcun senso in quanto, poiché queste sanzioni sono in vigore da molti anni, i loro autori avrebbero certamente potuto rendersi conto che queste iniziative non modificano in alcun modo la politica onesta e aperta della Russia. La nostra posizione indipendente e autonoma negli affari internazionali si basa sui nostri interessi nazionali e non può essere modificata sotto la pressione esterna. È definita dal presidente russo sulla base di interessi che soddisfano i bisogni del popolo russo. La popolarità considerevole della nostra politica estera in seno alla sociatà è, a mio parere, la prova migliore dell’inutilità di ogni tentativo di modificarla facendo pressione sulle élites e su alcune imprese.

Anche se non abbiamo alcun interesse a rafforzare la spirale dello scontro, naturalmente non possiamo ignorare i tentativi di punire la Russia – questo riguarda la nostra proprietà, le sanzioni che hai citato o i tentativi di usare lo sport per questi scopi. Ci sono molte prove che riguardo ai casi molto reali di doping dei nostri atleti, così come di molti altri paesi – questi sono ben noti ma nessuno fa rumore, li analizziamo secondo le procedure stabilite – fanno parte di una campagna controllata basata sul principio già utilizzato in altri settori della vita internazionale per quanto riguarda la comunicazione con la Russia e i suoi partner intrapresa contro di noi. Se non mi sbaglio, Richard McLaren ha indicato nel suo rapporto che non c’erano prove e che non sapeva come era stato fatto tutto, ma che gli autori sapevano come si poteva fare. Nessun tribunale normale in nessun paese accetterebbe mai accuse di questo tipo. Queste affermazioni piuttosto esotiche servono come base per le decisioni di privare il nostro paese dei Giochi Olimpici.

Questo contesto ricorda la situazione intorno al Boeing malese: tre giorni dopo questa tragedia gli Stati Uniti hanno chiesto di avviare un’indagine affermando che conoscevano i colpevoli e che erano certi che gli esperti avrebbero confermato il loro punto di vista.

Possiamo anche notare il caso più antico di Alexander Litvinenko. All’epoca, le autorità britanniche sostenevano che l’inchiesta avrebbe confermato ciò che già sapevano. Questa mancanza di obiettività che si tinge di russofobia è davvero senza precedenti. Non avevamo visto nulla di simile durante la Guerra Fredda. All’epoca esistevano regole e standard di condotta reciproci. Oggi tutti questi standard sono stati rigettati.

Domanda: la situazione è peggiore rispetto al periodo della Guerra Fredda?

Sergey Lavrov: Riguardo agli standard di condotta, è possibile. Ma se confrontiamo le reali manifestazioni dello scontro, le opinioni divergono. Da un lato, c’era allora una stabilità negativa tra due blocchi rigidi, tra due sistemi globali – socialista e imperialista. Oggi non c’è divergenza ideologica. Tutti hanno adottato l’economia di mercato e la democrazia. Nonostante i diversi atteggiamenti che si possono adottare nei confronti di questi ultimi, in tutti i casi si hanno le elezioni, le libertà ed i diritti fissati nella Costituzione.

Inoltre, la competizione rimane presente anche in assenza di differenze ideologiche, il che è perfettamente normale. Ma la competizione deve essere onesta. Tutti i paesi hanno ovviamente i propri mezzi per promuovere i loro interessi, i loro servizi segreti, i loro lobbisti impiegati, le loro ONG che promuovono questo o quel programma. È normale. Ma se ci viene detto che la Russia è obbligata ad evitare qualsiasi pressione sulle ONG finanziate dall’estero, ma non ha il diritto di rispondere ad azioni simili contro le proprie ONG all’estero, questo suona come un “Doppio standard”.

Vorrei anche sottolineare un altro elemento. Anche senza differenze ideologiche promuoviamo la crescita materiale del potenziale militare. Che non era il caso al tempo della Guerra Fredda.

Domanda: ma abbiamo avuto la corsa agli armamenti …

Sergey Lavrov: La corsa agli armamenti è rimasta confinata al quadro geopolitico adottato da entrambe le parti. C’era una certa linea di demarcazione tra la NATO e il Patto di Varsavia, che sviluppò le loro braccia su entrambi i lati di quest’ultima. Di conseguenza, l’URSS ha esaurito le sue forze in questa corsa. Le “Star Wars” e altre invenzioni simili hanno avuto un ruolo, anche se quest’ultimo non è stato decisivo. L’URSS si è dissolta perché il paese stesso, le sue élite, inizialmente non sentivano il bisogno di riforme. Poi, quando hanno iniziato le trasformazioni, queste ultime non hanno preso la strada giusta. Ma nell’attuale contesto dell’ampliamento della NATO verso l’Oriente, non c’è davvero alcuna regola. Non abbiamo più un limite da porre come una “linea rossa”.

Domanda: E il confine della Federazione Russa?

Sergey Lavrov: Se dicessimo di non avere alcun interesse nella regione, nell’area euro-atlantica, allora sì: il confine della Federazione Russa sarebbe questa “linea rossa”. Ma abbiamo interessi legittimi perché  popolazioni russe si sono ritrovate all’estero a causa della dissoluzione dell’URSS, perché abbiamo stretti legami culturali, storici, personali e familiari con i nostri vicini. La Russia ha il diritto di difendere gli interessi dei suoi compatrioti, specialmente se sono perseguitati come avviene in molti paesi, o se violano i loro diritti come in Ucraina, laddove annunciavano immediatamente dopo il colpo di stato che la lingua russa doveva essere limitata.

Domanda: Ma hanno indietreggiato …

Sergey Lavrov: Sì, ma è stato ancora detto. Dopo il colpo di stato, la prima iniziativa del Parlamento è stata quella di mostrare “il suo posto” alla lingua russa. Doveva posizionarsi in secondo piano, secondo i parlamentari. Due giorni dopo fu dichiarato che i russi sarebbero stati espulsi dalla Crimea perché non avrebbero mai onorato Stepan Bandera e Roman Shukhevich.

Dopo la mia conferenza stampa, un quotidiano tedesco ha scritto che “Sergei Lavrov aveva cambiato i fatti” e ha presentato una “manifestazione pacifica dei tatari di Crimea davanti al Consiglio supremo della Crimea come un tentativo di espellere i russi dalla penisola”. È sufficiente, tuttavia, guardare i video dell’epoca in cui il Consiglio Supremo era circondato da giovani furiosi, per non parlare dei “treni di amicizia” che Dmitrij Iaroch aveva inviato in Crimea.

Questa storia ucraina è quella del colpo di stato, il tradimento del diritto internazionale da parte dell’Occidente: l’accordo firmato dai ministri degli Esteri dei principali paesi dell’Unione europea è stato semplicemente calpestato. Poi l’UE si è prodigata a persuaderci che questo evento era perfettamente logico e che nulla poteva essere fatto. Francamente, è un peccato per l’Europa. Prendiamo atto di questa realtà storica, ma scegliamo l’implementazione degli accordi di Minsk anziché l’isolamento.

Ma torniamo alle “linee rosse”. Era una “linea rossa”, proprio come nel caso di Mikhail Saakashvili che aveva attraversato un’altra “linea rossa” lanciando un attacco contro l’Ossezia del Sud, dove erano schierate le forze di mantenimento della pace. Russo, osseto e georgiano. Le truppe georgiane furono ritirate, tuttavia, poche ore prima dell’inizio di questa offensiva assolutamente illegittima e provocatoria.

La Russia ha i suoi interessi e gli altri devono tenerne conto. Lei ha le proprie “linee rosse”. A mio parere, i politici seri in Europa comprendono la necessità di rispettare queste “linee rosse” proprio come durante l’era della Guerra Fredda.

Domanda: Ma torniamo agli americani. Secondo i media statunitensi, nel marzo 2017 la Russia ha inviato proposte agli Stati Uniti nel formato “non cartaceo” per quanto riguarda la standardizzazione delle relazioni su più punti. Queste proposte rimangono in vigore data la crescente pressione delle sanzioni da parte americana e tutto ciò che è successo nelle relazioni russo-americane nell’anno passato?

Sergey Lavrov: le proposte sono ancora in vigore. Non assumiamo mai un atteggiamento indignato, ma cerchiamo di capire il contesto delle azioni intraprese dagli americani o da altri colleghi. In questo caso, comprendiamo pienamente che un cocktail di fattori ha provocato questa aggressione senza precedenti dell’establishment americano, come si suol dire.

Il fattore principale è che i democratici non possono accettare la loro sconfitta dopo aver fatto così tanti sforzi, soprattutto per estromettere Bernie Sanders – che al momento si preferisce dimenticare. È una manipolazione diretta delle elezioni e una grave violazione della Costituzione degli Stati Uniti.

Il secondo fattore è che la maggior parte dei repubblicani ha ereditato un presidente fuori dal sistema che non aveva legami con nessun livello dell’establishment repubblicano, ma aveva ottenuto i suoi voti nel campo repubblicano alle primarie. Qualunque sia il tuo atteggiamento nei confronti delle azioni del presidente degli Stati Uniti Donald Trump o la tua visione delle sue azioni non molto usuale per diplomatici e politologi tradizionali …

Domanda: rompe tutti gli accordi internazionali come un elefante in un negozio di porcellana.

Sergey Lavrov: Qualunque sia il vostro atteggiamento nei confronti delle sue azioni, stiamo attualmente parlando delle ragioni per l’indignazione senza precedenti dei politici americani. I repubblicani non apprezzavano davvero l’avvento al potere di un uomo che aveva dimostrato che il sistema esistente da decenni – oltre 100 anni – in cui due parti avevano definito le regole del gioco – io prendo oggi il potere per 4 anni e poi ancora 4, e tu aspetti nel settore degli affari per poi scalare la cima, mentre mi rioriento verso il business – era crollato a causa della vittoria di Donald Trump. Il suo arrivo non è spiegato dal suo carattere messianico, ma dal fatto che la società è stanca e non vuole tollerare questo cambiamento tradizionale di leader, senza alcun significato nella realtà.

Se guardiamo alla struttura della società americana, comprendiamo che quest’ultima affronta processi demografici molto interessanti. Non è un caso che gli elementi etnici stiano attualmente provocando lunghi e profondi dibattiti sul risveglio o il rafforzamento del razzismo, che è sempre stato latente o aperto nella politica americana. Questi sono processi molto complicati che richiedono molto tempo. Ancora una volta, la prima ragione è la disfatta dei democratici, che non possono sempre accettare. La seconda ragione è il crollo del sistema bipartisan. Questa procedura “amichevole” era presente durante molte campagne elettorali. Il terzo elemento – tra molti altri – che vorrei sottolineare è il senso della perdita della capacità di influenzare tutti i processi globali nell’interesse degli Stati Uniti. Potrebbe sembrare paradossale, ma è la realtà. Sentiremo ancora gli effetti per molto tempo.

Anche al tempo della Guerra Fredda gli Stati Uniti erano molto più potenti, grazie in parte alla sua partecipazione all’economia mondiale e al suo ruolo assolutamente dominante nel sistema monetario mondiale, perché l’euro non esisteva ancora e nessuno sapeva nulla dello yuan, per non parlare del rublo. Oggi gli Stati Uniti forniscono dal 18% al 20% del PIL mondiale. Non è più la metà come in passato, soprattutto considerando i numeri dopo la seconda guerra mondiale.

Questa sensazione che tutto non è più deciso da un singolo centro è evidente anche nella campagna russofoba. Ci sono ancora la Cina e altri paesi importanti, molti dei quali preferiscono ignorare le derive americane. Per noi è difficile da fare perché i primi due motivi – la sconfitta dei democratici e il collasso del sistema – ci fanno puntare le dita. Ci sono stati contatti tra alcune persone e rappresentanti delle élite politiche statunitensi, o tra l’ambasciatore russo negli Stati Uniti Sergei Kisliak e il consigliere del presidente Donald Trump sulla sicurezza nazionale Michael Flynn. Questo è assolutamente normale e non avrebbe dovuto causare reazioni di questo tipo soprattutto per la scarsa rilevanza rispetto a ciò che i diplomatici americani fanno in Russia e a quello di cui si tenta di incriminare l’ambasciatore e l’ambasciata russa negli Stati Uniti,

Ma poiché non abbiamo reagito alle misure ostili e coercitive prese contro l’ambasciatore russo che ha rifiutato di cambiare il suo atteggiamento, rinunciare alla sua indipendenza e scusarsi per eventi che non sono mai accaduti, la loro agitazione peggiorò. Naturalmente, siamo stati accusati di tutti gli errori e i fallimenti americani. Siamo usati come una specie di parafulmine di fronte a quello che è successo in Messico, in Francia …

Domanda: anche a Malta …

Sergey Lavrov: Ovunque: Russia, Russia e Russia. È molto semplice e facile per una propaganda “stupida”. Gli elettori ascoltano gli slogan molto semplici della CNN: “La Russia si è ingerita ancora una volta …” Se la ripetiamo mille volte, essa si radica nello spirito.

Domanda: Sembra che tu personalmente giustifichi le scelte del presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Ma nessuno lo ha costretto a firmare la legge sulle consegne di armi in Ucraina o la legge sulle sanzioni lo scorso agosto.

Sergey Lavrov: Non provo a romanticizzare nessuno. Ovviamente, quando si adottano provvedimenti di legge con una maggioranza di voti – il 95% in questo caso – il Presidente non riflette sulla realtà, la legalità, la legittimità o la correttezza della legge, ma riflette sul fatto che il suo veto sarà superato in tutti i casi.

Domanda: Ma che dire della legge sulle forniture di armi in Ucraina? Barack Obama non l’ha firmato …

Sergey Lavrov: La mia risposta è la stessa. Sa perfettamente che il Congresso lo costringerà a farlo. Se il presidente degli Stati Uniti Donald Trump si fosse rifiutato di seguire la volontà della stragrande maggioranza del Congresso – che attualmente esiste – il suo veto sarebbe superato. Questa è la mentalità della politica interna americana. Se il veto presidenziale viene superato – anche se è perfettamente giusto e incontra gli interessi a lungo termine degli Stati Uniti – questa è una sconfitta del Presidente. Questo è tutto.

Quando il presidente degli Stati Uniti Donald Trump mi ha accolto alla Casa Bianca, ha parlato con il presidente russo Vladimir Putin ad Amburgo e in seguito telefonicamente, non ho visto alcuna intenzione di lanciare azioni per silurare i suoi slogan elettorali nella sua aspirazione a mantenere buoni rapporti con la Russia. Ma le circostanze non sono favorevoli. La combinazione dei tre fattori – la sconfitta di Hillary Clinton, la natura fuori dal sistema di Donald Trump e la necessità di spiegare i fallimenti americani nell’arena internazionale (e non solo) – spiega la situazione attuale. Mentre gli Stati Uniti sono coinvolti in questo processo molto riprovevole e trovano una posizione pacifica della Russia che non ammette reazioni isteriche – a volte abbiamo risposto, ma entro il minimo indispensabile. Stiamo perseguendo la nostra politica di risoluzione dei conflitti e di lavoro sui mercati dai quali gli americani vorrebbero rifiutarci. Tutto ciò inizia a irritare coloro che hanno promosso un programma russofobico. È un peccato. Tuttavia, siamo incoraggiati dal fatto che alcuni membri del Congresso, politologi e diplomatici statunitensi sono stati ascoltati di recente – silenziosamente in conversazioni riservate – confermando la natura assolutamente anormale di questa situazione e la necessità di rimediare. In ogni caso, tutti riconoscono l’errore di coloro che hanno cercato di metterci ai piedi del muro, perché ovviamente non arrivano ad isolarci. Basta consultare il programma degli incontri e dei viaggi del presidente russo e dei membri del governo per rendersi conto del fallimento dei tentativi di isolamento. Secondo loro, capiscono di essersi spinti troppo oltre su questo tema, ma ci chiedono di fare il primo passo in modo che possano dire che la Russia si è “mossa”. Questa psicologia crea ovviamente la sensazione che la mentalità della superpotenza stia facendo del male agli Stati Uniti. Propongono di fare qualcosa sul dossier ucraino.

Domanda: “muoversi” significa rafforzare il controllo delle azioni separatiste nel Donbass, costringerli a smettere di sparare, assicurare il ritiro delle armi e rispettare assolutamente tutti i punti fondamentali degli accordi di Minsk?

Sergey Lavrov: Non siamo in alcun modo contrari al ritiro delle armi e al cessate il fuoco, che non dovrebbe essere assicurato da Donetsk e Lugansk ma dall’esercito ucraino. Molte testimonianze dei vostri colleghi, inclusi i giornalisti della BBC e altri media che hanno visitato la linea di demarcazione nel 2018, indicano che battaglioni come Azov non sono controllati da nessuno tranne che dai loro comandanti. L’esercito ucraino, le forze armate ucraine non hanno alcuna influenza su di loro. Non ascoltano nessuno. Ciò si riflette nel blocco che hanno lanciato nonostante le denunce del presidente ucraino Petro Poroshenko il quale aveva promesso pubblicamente di eliminare il blocco che contraddice in modo assoluto gli accordi di Minsk e ha persino inviato le forze per sollevarlo, ma non ci è riuscito. Poi decise che la soluzione migliore sarebbe stata di restituire le vesti e adottare un decreto che legalizzava il blocco. È quindi assolutamente necessario smettere di sparare e ritirare le truppe e le armi pesanti, ma da entrambe le parti.

Come ho detto in una conferenza stampa, il desiderio di ridurre l’intera gamma di questioni geopolitiche in Ucraina – ci viene chiesto di ritirare un battaglione da Donetsk o Lugansk per creare le condizioni necessarie per indebolimento delle sanzioni – è indegno di persone che occupano posizioni molto importanti, ma mantengono tali osservazioni.

Domanda: Ci saranno forze di mantenimento della pace in Donbass nel 2018?

Sergey Lavrov: Non dipende da noi. Se fosse stato così, sarebbero stati schierati lì molto tempo fa.

Domanda: quali ostacoli esistono ancora oggi? La Russia è pronta per le concessioni per eliminarli?

Sergey Lavrov: C’è un solo ostacolo: nessuno vuole guardare le nostre proposte in modo concreto.

Domanda: ma gli americani hanno proposto emendamenti. Sono studiati?

Sergey Lavrov: Nessuno ci ha offerto emendamenti, anche se avessimo voluto. Ho parlato con il ministro degli esteri ucraino Pavel Klimkin, i nostri colleghi francesi e tedeschi. Dicono che è una buona e giusta iniziativa, ma abbiamo bisogno di qualcos’altro. Quindi parliamone. Spiegaci le tue proposte e stabiliremo se sono in linea con l’attuazione degli accordi di Minsk. In ogni caso, il progetto di risoluzione sancisce il nostro assoluto impegno a favore del principio del pacchetto di misure per la concertazione di tutte le azioni di Kiev, Donetsk e Lugansk. Ci viene detto che dobbiamo pensare perché possiamo fare qualcos’altro. Ma tutto è limitato alle parole, nessuno discute con noi questi problemi. Le idee presentate al di fuori del lavoro sulla nostra bozza di risoluzione hanno un orientamento completamente diverso. Il nostro progetto sottolinea l’immutabilità degli accordi di Minsk e la necessità di proteggere la missione dell’osservatore dell’OSCE, le cui condizioni di lavoro sono talvolta pericolose. Le guardie armate delle Nazioni Unite devono seguire gli osservatori in tutti i loro movimenti. Questa è la logica legale degli accordi di Minsk. Ci viene detto che se accettiamo il concetto di forze per il mantenimento della pace, devono assumersi la responsabilità di tutti gli eventi a destra della linea di demarcazione. Lascia che assicurino la sicurezza su questo territorio al confine russo, dicono. In queste condizioni, potevano organizzare le elezioni e tutto sarebbe andato bene. Il nostro progetto sottolinea l’immutabilità degli accordi di Minsk e la necessità di proteggere la missione dell’osservatore dell’OSCE, le cui condizioni di lavoro sono talvolta pericolose.

Domanda: non è ragionevole?

Sergey Lavrov: ragionevole? Lo pensi davvero?

Domanda: le forze di pace delle Nazioni Unite sono una forza da affidare alla sicurezza della regione.

Sergey Lavrov:Gli accordi di Minsk stabiliscono che l’amnistia deve essere intrapresa per prima, l’attuazione della legge sullo status speciale della regione – che è stata adottata ma non ancora entrata in vigore – e incorporare questo ultimo alla Costituzione prima di organizzare le elezioni. I cittadini che sono attualmente soffocati da un blocco illegale e i cui cavi e servizi di telefonia mobile vengono tagliati per isolarli dal mondo esterno, almeno dallo stato ucraino, devono sapere che non sono criminali di guerra né terroristi, poiché Kiev ritiene di aver lanciato un’operazione antiterroristica sebbene nessun abitante di queste regioni abbia attaccato nessuno. Vorrei attirare la vostra attenzione sul fatto che sono stati attaccati. Queste persone hanno bisogno di sapere, in primo luogo, che non sono in pericolo e che l’amnistia copre tutti gli eventi da entrambe le parti. In secondo luogo, devono essere certi di ricevere la garanzia – che gli accordi di Minsk letteralmente prevedono – in grado di mantenere la loro connessione con la lingua russa e la cultura, il loro rapporto speciale con la Russia a prescindere dalla politica delle autorità di Kiev, la loro la polizia e la loro stessa voce per la nomina di giudici e pubblici ministeri. Questi sono i principi essenziali. Non è molto complicato. Inoltre, se non erro, circa 20 regioni ucraine hanno inviato a Kiev una proposta ufficiale 18 mesi fa per avviare negoziati sul loro decentramento, per delegare poteri e firmare accordi speciali con il centro. È quindi una normale federalizzazione. Possiamo chiamarlo “decentramento” se abbiamo tanta paura della parola “federalizzazione”. Ma quando ci viene detto che faremo tutto – varare l’amnistia, mettere in atto lo status speciale e organizzare le elezioni – ma solo dopo aver affidato la regione alle forze internazionali per dare loro il “the” non possiamo accettarlo. È una linea rossa. Tutti lo capiscono e avanzano queste proposte con l’obiettivo molto riprovevole di sfruttare l’argomento delle forze di mantenimento della pace. mettere in atto lo status speciale e organizzare le elezioni – ma solo dopo che la regione è stata consegnata alle forze internazionali per dargli “il”, non possiamo accettarla. È una linea rossa. Tutti lo capiscono e avanzano queste proposte con l’obiettivo molto riprovevole di sfruttare l’argomento delle forze di mantenimento della pace. mettere in atto lo status speciale e organizzare le elezioni – ma solo dopo che la regione è stata consegnata alle forze internazionali per poter dare il la, non possiamo accettarla. È una linea rossa. Tutti lo capiscono e avanzano queste proposte con l’obiettivo molto riprovevole di sfruttare l’argomento delle forze di mantenimento della pace.

Gli accordi di Minsk sono stati adottati dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Essi stabiliscono chiaramente che tutte le azioni necessarie devono essere concertate da Kiev e da alcuni distretti delle regioni di Donetsk e Lugansk. Confidiamo nell’ONU e nell’OSCE, che sta facendo un buon lavoro in un contesto molto serio. Ma non si può semplicemente grattare la parte politica degli accordi di Minsk. La promessa di attuarlo dopo l’acquisizione di questo territorio da parte di un’amministrazione delle Nazioni Unite sembra dubbia. Se gli autori di questa idea riescono a persuadere Donetsk e Lugansk: vai avanti, non ci opporremo. Tutto ciò è previsto dagli accordi di Minsk e approvato dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Ma penso che coloro che avanzano questo concetto vogliono semplicemente strangolare questi due territori.

Vi ricorderò una cosa interessante: gli accordi di Minsk si riferiscono all’amnistia, allo stato speciale e alle elezioni. In questo ordine. Nel contesto del gruppo di contatto e del formato Normandia, tuttavia, la parte ucraina propone di capovolgerla, vale a dire garantire in primo luogo la sicurezza totale, compreso l’accesso all’estero, quindi risolvi le altre domande. Abbiamo spiegato loro per anni che il completo ripristino del controllo ucraino di questa parte del confine con la Federazione Russa è l’ultimo punto degli accordi di Minsk. In primo luogo, dobbiamo garantire ciò che abbiamo appena menzionato. Poi dicono che non possono dare uno status speciale a queste persone perché non sanno chi sarà eletto alle elezioni locali. Pertanto chiediamo loro se concederanno questo status solo a coloro che li soddisfano. Rispondono che è questo effettivamente il caso. Questa posizione non è tuttavia molto diplomatica dato che il loro presidente ha firmato un testo che prevede una serie di eventi abbastanza diversi. In ogni caso, abbiamo accettato il compromesso soprannominato “la formula di Frank-Walter Steinmeier”. Stabilisce che la legge sullo status speciale debba entrare provvisoriamente in vigore il giorno delle elezioni per diventare definitiva dopo la pubblicazione della relazione finale dell’OSCE, che dovrebbe garantire l’osservazione durante queste elezioni. Questo lavoro richiede solitamente due mesi. Gli ucraini hanno accettato questo modo di agire. I capi di Stato hanno concordato su questo punto nell’ottobre 2015 a Parigi. Abbiamo provato per un anno a mettere questa formula su carta ma gli ucraini si sono opposti. Quindi, le parti si sono incontrate nel 2016 a Berlino. Abbiamo chiesto spiegazioni sulla mancanza di progressi nell’attuazione della formula di Steinmeier e gli ucraini hanno risposto che era impossibile conoscere in anticipo il contenuto della relazione. Accetto: scriviamo che la legge sullo status speciale dovrebbe entrare provvisoriamente in vigore il giorno delle elezioni per diventare definitiva dopo la pubblicazione della relazione finale dell’OSCE, a condizione che quest’ultima confermi la legittimità e l’accuratezza delle elezioni. Tutti lo hanno accettato. Da allora è passato più di un anno, ma gli ucraini si rifiutano ancora di correggere questa formula nero su bianco. Questo è solo un esempio. Un altro è altrettanto eloquente. Il primo riguardava la politica, e quello sulla sicurezza. Le parti hanno concordato a ottobre 2016 a Berlino di procedere seriamente al ritiro delle armi pesanti e impedire il loro ritorno alla linea di contatto. Hanno scelto tre città pilota: Zoloteus, Pokrovskoye e Stanitsa Luganskaya. In Zoloteus e Pokrovskoye tutto è stato rapidamente portato a termine, ma non è ancora stato possibile farlo a Stanitsa Luganskaya. Gli ucraini dicono che hanno bisogno di sette giorni di tregua prima di lanciare il ritiro delle loro armi pesanti. Da allora l’OSCE ha visto – anche pubblicamente – più di una dozzina di periodi di tregua della durata di sette giorni o più. Gli ucraini dicono di avere altre statistiche e hanno registrato diversi colpi. I tedeschi, il francese e l’OSCE stesso capiscono perfettamente che sono insinuazioni. L’impegno politico dei nostri partner occidentali sfortunatamente impedisce loro di esercitare pressione sulle autorità di Kiev per costringerli ad attuare ciò che hanno promesso, in particolare alla Francia e alla Germania. È triste Se scommetti su un politico, il potere che si è stabilito a Kiev dopo il colpo di stato, è ovviamente molto difficile abbandonare questa posizione senza “perdere la faccia”. Lo comprendiamo e manteniamo la calma. Non siamo scandalizzati a causa della completa disapplicazione degli accordi di Minsk da parte di Kiev, ma cercheremo con calma l’adempimento degli accordi raggiunti. Troppi accordi raggiunti con così tante difficoltà sono attualmente in discussione: l’accordo di Minsk, l’accordo con l’Iran e così via.

Domanda: Rada ha adottato la legge sulla reintegrazione del Donbass giovedì. La reazione delle capitali europee è stata neutrale, mentre Mosca ha fortemente criticato questo testo. Perché? Quali potrebbero essere, secondo te, le conseguenze pratiche dell’adozione di questa legge?

Sergey Lavrov: Da un punto di vista giuridico, la legge sulla reintegrazione traccia una linea sugli accordi di Minsk approvata all’unanimità dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nella sua risoluzione adottata pochi giorni dopo l’incontro dei quattro leader del Normandy Format a Minsk. Per noi è assolutamente ovvio.

Per quanto riguarda la reazione, come ho già detto, non abbiamo dubbi – inoltre, abbiamo prove tangibili – che l’Europa e Washington comprendono appieno il gioco delle attuali autorità di Kiev che cercano di sfuggire alle proprie responsabilità dettate dagli accordi di Minsk. Spero che i rappresentanti di Berlino, Parigi, Washington e altre capitali lo dicano a Kiev in privato, faccia a faccia. Dopo aver preso le parti di questo potere che non ha la capacità di rispettare l’accordo, l’Occidente non può criticare pubblicamente le azioni dei suoi protetti. È un peccato. Capiamo perfettamente che tutto ciò è legato a un falso senso di prestigio e reputazione, ma è la vita. Cercheremo di raggiungere il pieno raggiungimento di tutti i punti degli accordi di Minsk. Tentativi di “deviare il mirino” e ingannare i dibattiti, così come di trovare nuovi ordini del giorno, metodi e forme sono inaccettabili. Difenderemo con calma, ma con fermezza, l’onesto pacchetto di misure firmato dal presidente Petro Poroshenko, nonché dai leader di Donetsk e Lugansk.

Domanda: la mia ultima domanda riguarda l’Iran che lei ha già menzionato. Il possibile fallimento dell’accordo iraniano a causa delle azioni statunitensi potrebbe rivelarsi, in un modo o nell’altro, vantaggioso per la Russia? Gli americani sembrerebbero odiosi e isolati, mentre l’Iran potrebbe diventare più conciliante su alcune questioni.

Sergey Lavrov: questa scuola di pensiero non è quella dei leader russi. Molti politologi si interrogano sulla nostra preoccupazione e difendono la peggiore strategia: secondo loro, gli Stati Uniti dovrebbero essere autorizzati a dimostrare la loro mancanza di capacità di raggiungere un accordo e la loro forza distruttiva negli affari internazionali, in Iran o in Siria, dove attualmente ci sono azioni unilaterali che hanno già scandalizzato la Turchia.

Domanda: Inoltre, l’Iran sarà più accomodante …

Sergey Lavrov: Questo non è essenziale. La distruzione del tessuto degli accordi legali concordati dai principali paesi del mondo in tale e tal altro conflitto potrebbe provocare uno scontro caotico in cui ognuno difenderà solo se stesso. Sarebbe alquanto riprovevole. Lo considero inaccettabile, che si tratti dell’Iran, della Siria, della Libia, dello Yemen o della penisola coreana, anch’esso concordato nel 2005 e che stabiliva chiaramente gli obblighi di Corea del Nord e altre parti. Poche settimane dopo la firma, gli americani “rivangarono” una vecchia storia sui conti di una banca di Macao e iniziarono a bloccare i conti nordcoreani. Possiamo discutere a lungo su questo argomento, l’accuratezza della Corea del Nord o l’errore degli Stati Uniti. I fatti rimangono gli stessi. Abbiamo raggiunto un accordo che comportava la totale cessazione dello scontro e della provocazione. Ha fallito. Pertanto, la capacità di concordare è attualmente il problema sistemico più importante.

Fonte: Ministero degli Affari esteri della Federazione Russa, Kommersant , 21-01-2018

 

IL DESTINO DEGLI EUROPEI (1/2), di Pierluigi Fagan

Continuiamo ad alimentare i “” di Pierluigi Fagan, confidando in un proficuo dibattito. Tratto da https://pierluigifagan.wordpress.com/2018/02/01/il-destino-degli-europei-1-2/

IL DESTINO DEGLI EUROPEI. (1/2)

La definizione di “europei” è geo-storicamente, notoriamente, precaria. Ma, per quanto precaria come ogni definizioni di “popolo-nazione”, concetto che ha spesso bordi sfuggenti[1], ha senso in posizioni comparative. Si constata l’esistenza dell’europeo quando lo si mette accanto al non europeo. Al suo interno, il sistema europeo, risulta dotato di molti sottosistemi ognuno con all’interno un sottosistema che a sua volta ha un sottosistema e così via. Al secondo livello, dopo gli “europei” e prima di arrivare alle “nazioni”, si trovano le grandi famiglie storico-culturali che sono per lo meno quattro: gli europei del nord che includono anglosassoni, germani e scandinavi; gli europei del sud-ovest che includono francesi, iberici, italici e greci (i franchi erano popoli appartenenti sia a questo sistema ed in parte al precedente) detti “greco-latino-mediterranei”; gli europei del nord-est (polacchi, cechi, slovacchi, ungheresi e baltici) e quelli del sud-est i balcanici, bulgari e rumeni. Due di queste aree sono storicamente attratte dal fuori del sistema europeo: gli anglosassoni che hanno avuto storica propensione atlantica e comunque in generale “oceanica”; l’area del sud-est bulgara-rumena-moldava che è contigua all’Ucraina e quindi all’area ponto-russa e quella balcanica dove si mischiano popolazioni ortodosse (Montenegro, Macedonia, Serbia)  cattoliche (Slovenia e Croazia) e musulmane (Bosnia Erzegovina,  Albania), dove la dominazione ottomana ha lasciato impronte durevoli data una presenza in loco per più di cinque secoli.

Dopo lo shock di metà del Trecento (la Peste Nera), la storia degli europei si è sviluppata lungo cinque direttrici. La prima è stata un costante crescita demografica che è giunta a moltiplicatori significativi già da metà XIX secolo per poi assestarsi ed ultimamente ristagnare, se non ad  invertirsi. Nel frattempo, il resto del mondo è cresciuto molto di più per cui se ai primi del XX secolo, gli europei dominavano il mondo anche attingendo al loro peso (20% del mondo, circa), oggi questo peso si è di molto contratto (8%) e viepiù si contrarrà nell’immediato futuro. La seconda direttrice è stata quella che a partire dalla fine del XV secolo in Francia, Inghilterra, Spagna e Portogallo, si sono formati stati che manterranno fino ad oggi più o meno la loro dimensione nativa, arrivando ad omogeneizzare le loro popolazioni interne in “nazioni”. Da qui il significato originario, prettamente europeo,  di “Stato-nazione”, stati che tendono a coincidere con una popolazione che ha una sua relativa omogeneità storico-culturale. Ciò che appare abbastanza nitido nell’origine dello Stato-nazione europeo  nell’Europa occidentale del XV-XVI secolo, lo diventa molto meno mano a mano che ci spostiamo ad est. La terza direttrice è quella di una inversione tra ordinatori per la quale proprio a partire dalla pace di Augusta (1555) e poi Westfalia  (1648), si afferma sempre più l’ordinatore politico aristocratico-militare a scapito dell’ordine medioevale che includeva quello religioso che spesso sovra-ordinava tutti gli altri o comunque interferiva pesantemente. Ma a partire dalla successiva Gloriosa rivoluzione britannica (1688-89), si assiste anche da una modificazione interna all’ordinatore politico (e militare) che diventa sempre più un sistema binario con quello economico affiancando all’aristocrazia una nuova borghesiaprima commerciale, poi industriale e finanziaria. Ciò in ragione di un potente sviluppo della stessa attività economica, espansione il cui inizio si nota già da dopo la Peste Nera. La quarta direttrice accompagna le prime tre. Popolazione, Stati e loro ordinatori, soprattutto quelli economici e militari, si allacciano tra loro in una dinamica che se in parte porta ad una lunga sequenza di guerre europee interne, almeno sino al 1815, dall’altra porta ad una progressiva appropriazione del resto del mondo tramite colonie e poi imperi. L’ultima direttrice, la quinta, parte dalla conflittualità endemica in quel territorio europeo che sembra fatto apposta per produrre popolazioni diverse senza che nessuna di esse abbia mai potuto pensare di sottomettere tutte le altre realizzando una unità imperiale. Crollati i Romani, dopo Carlo Magno e forse Carlo V e dopo il penultimo grande tentativo di Napoleone (l’ultimo fu quello di Hitler), i britannici allora dominanti, sovraintendono una sorta di pace armata che dura quasi un secolo nel quale gli europei si dedicano per lo più alla conquista e consolidamento delle proprie colonie/imperi in accompagno ad una fase di crescita economico-materiale e di equilibrio di potenza nelle relazioni reciproche. L’esternalizzazione della concorrenza interna dona una pausa ma poi si torna a fare i conti in casa una volta affermatesi le sovranità dei tedeschi e degli italiani. Alla vigilia della prima guerra mondiale, l’Europa sembra assestata  in grandi partizioni che semplificano il governo della sua parte centro-orientale dove troviamo l’Impero tedesco, quello austro-ungarico e quello russo e null’altro. Ma tra la seconda metà del XIX secolo e il 1915, si creano anche i presupposti del disastro europeo. Gli europei torneranno imperterriti a scannarsi tra loro mentre il resto del mondo si emancipa dal loro dominio. Il sistema europeo non è più isolato o dominante il mondo come è stato nelle prime due lunghe fasi (antico-medioevo e moderno), il mondo circonda l’Europa e le pone la domanda su ciò che vorrà e potrà essere nel nuovo contesto[2]. Questa domanda esterna rivolta a tutte le nazioni e stati europei, si riflette sulla loro stessa consistenza e sulle loro dinamiche di relazione. Se lo Stato-nazione è stato l’attore della storia europea moderna, la successiva storia complessa nella quale siamo entrati, sembra porre seri limiti a questo sistema nato per adattarsi ad un diverso contesto.

Leggendo alcuni ragionamenti politici e strategici di questo ultimo secolo e mezzo, si nota che già verso la fine del XIX secolo, prima quindi dell’inizio della grande conflitto in due puntate che coinvolgerà l’intero mondo e produrrà tra gli 80-90 milioni di morti distruggendo tutti i presupposti di potenza degli europei (e gli stessi diritti di eccezionalità dei suoi fondamenti culturali) , si presentava una forte preoccupazione per una situazione-mondo che disegnava scenari nei quali l’Europa nel suo complesso, andava a perdere la sua centralità/dominio. Era una consapevolezza ancora appena intuita del fatto che tra Stati Uniti d’America, Russia, Giappone (e qualcuno, sopratutto dopo la prima guerra mondiale vedrà con preveggenza anche un nuovo massiccio attore: la Cina), il “mondo” non era più quello di una volta. Soprattutto non era più una massa informe che “chiamava” l’opera di partizione, dominio e sfruttamento da parte degli europei. Questa consapevolezza si rinforza all’indomani della prima guerra mondiale poiché già lì si può toccare con mano il sorpasso di potenza degli Stati Uniti d’America  rispetto alla Gran Bretagna in quel 1919 da cui inizia il “secolo americano”. Dalla Pan Europa del conte Coudenhove-Kalergi (1922)[3], al tramonto dell’Occidente di Spengler (1923)[4], alle più tarde riflessioni di Schmitt (1938-39)[5], nel mentre alcuni intelletti ragionano problematicamente sul rapporto tra stato interno al sub-continente ed il resto del mondo, le dinamiche competitive e il disequilibrio di potenza europeo portano alla seconda definitiva disgrazia, quel secondo conflitto che accelererà la verticale perdita di potenza del sistema europeo nel suo complesso. Anche il manifesto europeista di Ventotene (1941-1944)[6], parte sia dalla necessità di sedare la secolare coazione bellica degli europei, sia dalla necessità di prender atto che ormai le questioni non sono più solo quelle interne al sub-continente ma anche quelle del rapporto tra questo come sistema integrato ed il più vasto e problematico mondo, quel mondo “grande e terribile” di cui si accorge anche Gramsci. Da Kelergi a Spinelli, nessuno di questi progetti europeisti partiva dalle sole considerazioni economiche, partivano tutti da considerazioni storiche, culturali, politiche e geo-strategiche, parlare di Europa solo con le lenti economiche e monetarie è nevrosi tipicamente contemporanea.

Come si riflette nel pensiero questa tramontante condizione europea? Nel suo “Nazioni e nazionalismi dal 1780”, E. Hobsbawm [7]ci dà conto di un dibattito a più voci che sorse già nel XIX secolo che, rispetto alla consistenza degli stati, prendeva la forma di un vero e proprio principio indicatore: il “principio di taglia minima”. L’economista tedesco -per altro in linea di massima liberale (ma di buonsenso)- F. List (1841), aveva introdotto più generali considerazioni sulla dimensione e forma dei sistemi economici nazionali, anticipato in parte dall’economista canadese John Rae (1834) e prima ancora dal federalista americano Alexander Hamilton sulle relazioni tra nazione, stato ed economia. Di List, Hobsbawm, riferisce la convinzione che “… la nazione doveva possedere sufficiente estensione territoriale da formare una unità in grado di svilupparsi. Nel caso quindi non raggiungesse questa estensione non avrebbe giustificazione storica[8]. A questo dibattito prendevano parte dal Dictionnaire politique di Garnier-Pagès del 1834 che definiva “ridicola” la pretesa di sovranità di entità come il Portogallo ed il Belgio, a John Stuart Mill, Giuseppe Mazzini, Frederich Engels, il nazionalista economico irlandeseArthur Griffin. Senza un adeguato livello di popolazione e risorse, non era possibile dare al principio astratto di sovranità politica la concretezza di un adeguato sistema economico. Altresì, secondo List, i sistemi economici nazionali dovevano essere per molti versi “protetti” durante l’infanzia, prudentemente “semi-aperti” nell’adolescenza e definitivamente partecipanti a network libero-scambisti solo quando in grado di competere alla pari o giù di lì e sempre che avessero il peso per farlo. Lo seguiva il prussiano Gustav Cohn che confermava i vantaggi dei Gross-staaten riferendosi ai casi britannici e francesi, traendone addirittura una normativa di una futuro processo di costruzione progressiva di stati sempre più grandi, qualcosa di simile ai ragionamenti futuri di C. Schmitt sul Gross-raum. I termini Kleinstateerei (sistemi di mini-stati) o balcanizzazione perpetueranno in sintesi, questo auto-evidente giudizio di insufficienza per sovranità non in grado di partecipare ai sistemi mondiali che s’andavano formando, sia dal punto di vista della consistenza economica, finanziaria e valutaria, sia come poi si rivelerà plasticamente nei due conflitti, dal punto di vista militare. Ai primi del XX secolo , c’era anche una sottile polemica di molti europei (anche liberali) contro quel “diritto all’autodeterminazione dei popoli” (anche i più microscopici) concepito dal presidente americano Wilson, un idealista-astratto nel migliore dei casi, un furbo manipolatore del divide te impera secondo i più maligni.   Visto che i pensatori tedeschi sembrano i più convinti assertori di questa scalata alla potenza data da soglie minime di dimensioni, val bene ricordare che l’attuale Germania unita, è di circa un terzo più grande di Gran Bretagna, Francia ed Italia e nella speciale classifica di Stati per Pil, è superata dal Giappone che è quasi mezza volta più grande, dagli Stati Uniti che sono quattro volte più grandi, dalla Cina che è diciassette volte più grande mentre viene insidiata nel suo quarto posto, dall’India che ha proporzioni di poco inferiori alla Cina. Del resto, nello studio PWC[9] su i leader economici per Pil al 2050, la Germania, che è l’unico paese europeo previsto nella top ten è solo nona, sopravanzata da tutti paesi più grandi (tra cui le new entry Indonesia, Brasile, Russia e Messico). Quest’ultima considerazione porta  a sottolineare come il “principio di taglia minima”, essendo un principio relativo, se nel XIX secolo era relativo a gli stati europei tra loro, oggi e sempre più domani, lo sarà rispetto a ben diversi standard mondiali. La conformazione geo-storica dell’Europa non è affatto sintonica con lo standard che si andrà sempre più affermando sul pianeta e le sue parti avranno non poche difficoltà storico-culturali a passare dal riferimento sub continentale a quello mondiale. Nelle nostre culture sociali e politiche l’economia è dominante e l’argomento è dominato da una ideologia che non prende affatto in considerazione la dimensione degli stati, solo modelli astratti.

Su questo punto dimensionale c’è da segnalare che, lungo il Novecento, il resto del mondo è cresciuto prepotentemente di dimensione, contribuendo a quella iper-inflazione demografica per la quale da i 1.500 milioni di inizio secolo, siamo oggi arrivati ai 7.500 milioni e tra trenta anni ai 10.000 milioni di cui gli europei saranno un minima frazione (poco più o forse meno del 5%). Ma a questa discontinuità potente se ne aggiunge un’altra, quella per la quale soprattutto dal discorso di Deng Xiaoping sul “socialismo con caratteristiche cinesi” del 1982, già da poco prima o da poco dopo, l’intera Asia si è volta al sistema economico moderno formatosi in Europa già nel XVII-XVIII secolo, seguita più di recente da Sud America ed Africa. Naturalmente la globalizzazione ha ulteriormente potenziato questa crescita di volume e peso economico e finanziario del resto del mondo, ma questo si sarebbe comunque sviluppata magari accompagnato ad una più tipica internazionalizzazione[10]. I progetti sulle vie della seta cinesi, nonché le nuove istituzioni internazionali come l’AIIB o la SCO o i BRICS, in prospettiva l’imprescindibile sviluppo soprattutto dell’Africa , dicono che l’ambiente competitivo del’economia-mondo, si farà sempre più affollato. Proprio il declino del ruolo degli USA come supervisore e promotore del mercato mondiale che ormai va per conto suo, il loro trincerarsi verso una più realistica posizione di giocatore superpotente ma non più in grado di imporre standard di gioco mondiali a tutti, l’apertura quindi di un fase multipolare del tutto inedita a livello mondiale[11], fanno pensare ad un futuro ordine mondiale molto dinamico, in cui il peso e la potenza daranno le carte migliori in ogni tavolo di gioco, sia che si agisca, sia che si contrattino le regole sul come agire. Vale per l’economia, la finanza, le valute, la disciplina dei flussi migratori, le energie e materie prime, le questioni ambientali, lo sviluppo delle aree influenza, il mercato delle armi, gli ombrelli atomici, la crescita o la decrescita controllata, la politica economica, lo sviluppo delle nuove tecnologie, lo sviluppo tecno-scientifico in generale,  i rapporti tra civiltà e grandi credenze, il modello economico e quello sociale, nonché quello politico, nel cui campo si registra il declino delle forme post-belliche della democrazia rappresentativa occidentale. La “potenza” è classicamente definita dal rapporto tra volume economico e forza militare e la potenza è quella che serve per farsi largo nella oscura selva dei temi più sopra appena accennati. Questo è il mondo complesso che pone le domande a gli europei sulla loro organizzazione interna, la consistenza, la strategia di adattamento alle nuove condizioni che rendono obsoleto ogni riferimento al periodo moderno ormai terminato.

Il “principio di taglia minima” dice a gli Stati che oggi e viepiù domani dovranno fare i conti con la resilienza del proprio sistema economico nazionale, che significa anche in quali produzioni potranno essere autonomi se non esportatori e di quali esser dipendenti, cioè importatori più o meno obbligati, che significa anche di quale meta sistema che dalla R&S va in relazione con la capacità produttiva interna ci si dota, che significa anche con quale valuta si partecipa alla rete di scambi internazionali, che significa anche quale sovranità fiscale si ha in regime di libera circolazione dei capitali o scegliendo una minore libertà come ci si approvvigiona di capitali d’investimento, che vale per politiche di gestione degli scambi internazionali che non significa autarchia ma regolazione fine e selettiva delle aperture-chiusure in base all’ovvio principio di reciprocità, non trascurando i problemi di forza militare (anche solo difensiva), di peso nelle relazioni internazionali che sceglieranno gli standard dei modi di vita planetari (diritti sociali e del lavoro, ambiente, condizioni di lavoro, stile di vita). Tale principio di taglia minima è relativo, nel senso che va comparato alle taglie di coloro che s’individuano come competitor principali, dei differenti contesti in cui si è collocati ed è relativo anche nel senso che non per forzadobbiamo diventare tutti inquadrati in sistemi di 1,5 miliardi di persone come Cina ed India sembrano indicare.

Prima però di analizzare velocemente le eccezioni a questa freccia che sembra puntare a produrre una megafauna di soggetti più potenti, occorre ricordarci che i soggetti di cui stiamo parlando, i soli soggetti previsti da questo descrizione del mondo odierno e futuro, non sono soggetti vaghi. Vaghi sono tutti i sistemi che non hanno una intenzionalità politica direttiva del loro comportamento. Sistemi nebbiosi come quelle dell’Impero negriano, la “globalizzazione”, le “élite mondialiste”, le civiltà, il “mercato regolato dalla mano invisibile”, il “capitalismo apolide”, l’Occidente o l’Oriente o l’islam, Internet e le sue vaste diramazioni virtuali, tutte le organizzazioni formali ed informali sovranazionali, sono senz’altro sistemi, ma sistemi vaghi. Russia, Cina, Stati Uniti, India, Germania, Giappone ed i nuovi affluenti, non sono sistemi vaghi. La loro sovranità serve proprio a districarsi in questa rete piena di problemi e di opportunità che taglia orizzontalmente o diagonalmente la verticalità sovrana che dal problema o dall’opportunità porta all’intenzionalità, al fare scelte, a fare leggi, a mobilitare risorse, a fare piani e strategie, a metterle in pratiche ed a correggerle all’occorrenza. Lo Stato come un’entità politica sovrana, costituita da un territorio e da una popolazione che lo occupa, declinato in istituzioni, diritto, forza militare ed una specifica cultura, soggetto a problemi di vicinato, di relazione e scambi, Stato non aggettivato con nazione o moderno o democratico o capitalistico o quant’altro di carattere eurocentrico e recentista, esiste dalla nascita delle società complesse, or sono seimila anni fa. Imperi, città-Stato, regni, principati, comuni, federazioni (non confederazioni che sono semplici alleanze su base di trattato), califfati, sultanati, khanati, non importa quindi con qual spazio o forma giuridica a variabilità culturale li si intenda, sono Stati[12]. La storia e la logica non ci hanno sino ad oggi dato altro modo di intendere  le forme organizzate al completo livello di sovranità. Se non ci interessa la sovranità, possiamo ben perderci in post moderni sogni o incubi da fluttuazioni quantistiche tipo schiuma del falso vuoto, comunità che s’inseriscono in reti di reti acentriche magicamente autoregolate, finte sovranità formali comandate e strattonate dal diritto del più forte in qualcuno dei giochi orizzontali o diagonali (mercato, partecipazione ad alleanze miliari come complementi, varie forme di servitù o schiavitù volontaria), soggettività desideranti cosmopolite, metafore che vorrebbero assimilare il virtuale di Internet al reale del Mondo, ma a noi qui non interessa questo mondo del possibile per quanto improbabile. Vorremmo rimanere stretti ad un realismo concreto e quindi fare i conti con l’unica forma di individuazione conosciuta in questo contesto, lo Stato. Per quanto intersecato da altri sistemi, lo Stato è l’unità metodologica del discorso sull’ambiente in cui vivono ed agiscono i gruppi umani, famiglie, classi, popoli, civiltà, alternative non se ne vedono. Le potenti interferenze alla sovranità, che non vorremmo dar l’impressione qui si vogliano sottovalutare, esistono e sono proprio quelle che chiamano una sovranità dotata di autonomia e potenza, solo gli Stati forti potranno governare queste interferenze. Né gli USA, né la Cina, né la Russia, né l’India, né il Giappone sembrano soffrire di quella “crisi dello Stato” che potrebbe essere una sindrome europea peggiorata dalle forme che si stanno sviluppando nell’Unione, nel sistema-euro e dal nanismo degli Stati del sub-continente, in rapporto al ben diverso standard che si va affermando nel mondo grande.

Dicevamo che quello della taglia minima è un principio che sembra puntare a stati più grandi come standard di un mondo multipolare, demograficamente denso, saturo di soggetti in competizione, almeno per coloro che ambiscono ad alti livelli di autonomia. Sulla natura di questo mondo siamo ancora incerti in quanto non si è mai verificato nella storia del pianeta e si sta formando e definendo proprio ora. Altresì è del tutto impensato come si potrebbero formare questi stati più massivi visto che l’unico esempio storico che abbiamo sono le annessioni di tipo imperiale, quindi in forma coattiva, di cui è ben difficile immaginare un futuro storico in un mondo denso, affollato e competitivo[13]. Mondo denso, affollato e competitivo, è una descrizione che dice multipolare e multipolare porta con se il principio di equilibrio di potenza. L’equilibrio di potenza fa sì che tutti osservino tutti, non appena uno si sbilancia diventando più forte e minaccioso, molti altri si compattano per bilanciarne il peso. L’equilibrio di potenza in un sistema anarchico come quello mondiale, funge da principio auto-regolatore. Erroneamente l’accademia anglosassone che spadroneggia nella disciplina della Relazioni Internazionali ha ritenuto quello unipolare un ordine massimo, quello bipolare un ordine dinamico e quasi-stabile e l’ordine multipolare un disordine anarchico, al pari di coloro che ritenevano il governo dell’Uno quasi-divino, quello dei Pochi accettabile ma instabile e quello dei Molti l’inferno in terra. Come è evidente, questa è teologia politica, metafisica e pure scadente. Più è grande la massa da ordinare più questa si suddivide in sistemi (pianeti, sistemi solari, galassie, ammassi di galassie), sistemi plurali tra loro in interrelazione, tendono a formare reti e nodi/hub ed un hub è propriamente ciò che chiamiamo “polo”, tanti hub, tanti poli. Più grande e denso il sistema più hub ed articolazioni ci sono, questo indica la multidisciplinare cultura della complessità che taglia in orizzontale gli steccati disciplinari tra scienze dure, umane e sapere umanistico. Multipolare in un sistema denso e massivo, non sarà un sistema con poche superpotenze e qualche potenza regionale, ci saranno anche medie potenze, alleanze regionali, reti di cointeressenze, partecipazioni a tema nei network che uniranno stati più piccoli a quelli più grandi che fanno “hub” di un certo polo. Naturalmente, più potente sarà il nodo/hub, maggiore la sua sovranità, maggiore il suo grado di autonomia[14]. Tanta pluralità complessa, tendenzialmente autoregolata dal principio di equilibrio di potenza, potrà permettere la sovranità a Stati medio – piccoli, se sì a quali condizioni?

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[1] Il concetto di popolo o nazione è soggetto ad una doppia traenza, esaltante e critica. Di recente è stato ripubblicato il classico  di Benedict Anderson, Comunità immaginate, Laterza 2018, che noi abbiamo integrato col forse più ampio saggio di Hobsbawm sunazioni e nazionalismo che citeremo dopo e dal più vecchio ma sempre interessante, F. Chabod, L’idea di nazione, Laterza, 1961-2011”. Si tenga ben distinto il concetto di nazione da quello di nazionalismo, la nazione è un sistema, il nazionalismo ne è esaltazione ideologica, l’una non porta per forza all’altro. In breve, nell’ambito della storia europea, lo Stato del XVI secolo, si affermerebbe ancora su un concetto debole ed eterogeneo di nazione e sarebbe proprio la sua affermazione a mettere ordine e precisione nella definizione della nazione. Questo porta alcuni a dire che furono gli Stati a creare le nazioni, probabilmente per ragioni di opposizione dialettica a coloro i quali sostengono il contrario. In verità, sembrerebbero estreme tutte e due le posizioni. Se come pare, il Giuramento di Strasburgo che è del 842 d.C., contiene doppie formulazioni in proto-francese ed alto-tedesco antico, si deve conseguire che i due ceppi linguistici si formarono molto presto e si svilupparono all’interno di due areali che avevano buone ragioni geografiche per ritenersi relativamente omogenei e distinti. Ciò non porta a dire che alla nascita della moderna Francia, esistesse una compatta e del tutto omogenea comunità nazionale di “francesi” e certo l’istituzione dello Stato favorì la successiva omogeneizzazione, ma tutto ciò non vuol neanche dire che non esistessero caratteristiche storico-culturali di omogeneità relativa precedenti. Altresì, le ragioni che sostengono la definizione propria di nazione, sono molte e non sempre tutte presenti nell’analisi di questa o quella identità nazionale. Hobsbawm, sulla scorta anche di Anderson, ne conclude che nella misura in cui un gruppo umano si crede nazione, è una nazione, estremizzando forse un po’ troppo il lato soggettivo della questione. Personalmente, ritengo che quello di nazione sia un concetto dai bordi sfumati e dalla giustificazione variabile, ma che compare a fuoco e significante in comparazione: esistono francesi, italiani e spagnoli ed un francese non è un italiano che non è uno spagnolo che non è un francese. Ovviamente, le nazioni statalizzate possono avere nel loro territorio altre sub-nazioni, così come appartenere a sistemi di livello superiore (uno spagnolo è anche un ispanico, un latino, un europeo, un occidentale). “Bordi sfumati” significa anche che questi sistemi, ai loro confini difficili da tracciare con precisione, si mischiano con altri sistemi. Quale sia il popolo dei germani propriamente detti, ad esempio, è problema diverso dal domandarsi chi sono esattamente gli inglesi, la geografia e la storia che in essa si è ambientata, fa la differenza tra maggiore o minore precisione.

[2] Una visione generale dei processi europei si può rinvenire in vari libri di “grandi narrazioni storiche”, da Arrighi a Landes, da Bairoch a Braudel. Una, attenta proprio alle dinamiche di potenza nell’arco storico che va dal 1500 al 1987, è: P. Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, Garzanti, 1989-1999

[3] R. Caudenhove-Kalergi, Pan-Europa, il Cerchio, 2017

[4] O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente (varie edizioni, l’ultima è Longanesi 2008)

[5] C. Schmitt, Stato, Grande Spazio, Nomos, Adelphi, 2015

[6] A. Spinelli, E. Rossi, Il manifesto di Ventotene (varie edizioni, l’ultima è Mondadori 2017)

[7] Einaudi, 1991-2002

[8] p. 35

[9] https://www.pwc.com/gx/en/issues/economy/the-world-in-2050.html

[10] La differenza tra globalizzazione ed internazionalizzazione è poco notata. Essa è nella semantica, se la seconda è una rete tra nazioni, la prima non aspetta il formarsi di un sistema per tessitura tra le sue parti, impone un sistema unico a cui tutte le parti si iscrivono trovando istituzioni e norme valide per tutti. Scambiare la globalizzazione per il motore unico della crescita degli scambi commerciali tra stati è un errore, la globalizzazione ha inciso sulle forme, non ha creato il fenomeno. La confusione terminologica è propedeutica a quella mentale. Non è vero che siccome Trump rifiuta i trattati di libero scambio pluri-nazionali allora diventa nazionalista e porta gli USA a ritirarsi dal mondo, questa è voluta confusione mentale indotta. Trump ha solo detto che invece di trattati pluri-nazionali, lui ne vuole fare altrettanti one-to-one. Solo un facente finta di essere stupido può confondere le due cose. L’una modalità di commercio internazionale si affida alla mistica della mano invisibile, la seconda si affida al conto di bottega di entrate (export) ed uscite (import) valutando caso per caso, sia la reciprocità, sia il saldo finale.  “Magicamente”, dopo un anno di articoli scriteriati sull’argomento, recentemente a Davos, molti si sono accorti della differenza tra commercio sregolato e contrattato sulle singole partite. Poiché non possiamo pensare che all’Economist o Foreign Affaris siano davvero così stupidi, ne dobbiamo concludere che si tratta di guerre ideologiche che si disputano l’egemonia presso il vasto pubblico che non sa proprio di cosa si stia parlando e scodinzola come i cani di Pavlov al pronunciarsi dei propri vaghi concetti di riferimento “globalista”, “libertà”, “nazione”, “egoista”, “isolazionista”, “sovranista”, etc.

[11] Sistemi multipolari locali come nel Rinascimento italiano o in Europa nel secolo della pax britannica (il “Concerto” delle nazioni tra circa 1815-1914) possono costituire solo riferimenti vaghi. Entrambi furono sistemi in tutt’altra condizione demografica e di sviluppo e le loro dinamiche erano parte di un meno ampio contesto.

[12] Su una possibile archeologia della sovranità, sembra molto promettente l’ultima fatica congiunta di D. Graeber e Marshall Sahlins: https://haubooks.org/on-kings/

[13] Sul concetti di -impero- si veda l’indagine dello storico: H. Munkler, Imperi, il Mulino, 2008

[14] Autonomia non significa starsene per conto proprio, significa darsi la legge da sé, sottomettersi solo alla propria intenzione.

A CARTE COPERTE_ Renzi, Berlusconi, Di Maio, Salvini al 5 marzo, di Giuseppe Germinario

Nel grande luna park elettorale, tra funamboli, illusionisti e fattucchiere cominciano a delinearsi nell’ombra, sotto traccia, alcuni punti fermi.

I PROTAGONISTI

Matteo Renzi all’avvio della campagna elettorale sceglie di incontrare in Europa Emmanuel Macron, Presidente della Repubblica Francese nonché fondatore di “En Marche” e in Spagna Albert Rivera, Presidente di Ciudadanos ed emulo spagnolo di Macron. Due leader affermatisi sulle ceneri dei partiti repubblicano e popolare e soprattutto di quelli socialisti dei rispettivi paesi. Non è un caso. Renzi dimentica di incontrare i leader superstiti del Partito Socialista Europeo. Tra i transfughi della diaspora socialista europea avrebbe potuto scegliere in una vasta gamma di esponenti di successo. L’ultimo è il rieletto Presidente Ceko Milos Zeman, dalle propensioni filorusse e particolarmente tiepido verso NATO e UE. Con ogni evidenza non è certamente questo il cerchio di amicizie ambito.

L’attenta selezione delle candidature non è la sanzione definitiva del PdR, del partito personale di Renzi. È una interpretazione troppo riduttiva. Il Rottamatore ha semplicemente e definitivamente liquidato la componente di derivazione pciista e con essa le corrispondenti modalità di militanza e di decisione, le prassi di formazione della classe dirigente ad essa legate. Un processo avviato consapevolmente con l’avvento di Veltroni e conclusosi irrimediabilmente con la recente scissione in seno al PD.  È soprattutto la scelta obbligata necessaria a rendere possibile una svolta ben più radicale e per questo Renzi è disposto a sacrificare il residuo voto di sinistra.

Il modello da imitare è quello di Macron, ma le condizioni di applicazione sono ormai largamente compromesse. A differenza dello “Jupiteriano”, il Monarca di Rignano dovrebbe assumere la duplice improbabile veste di rifondatore del Partito Democratico e nell’eventualità di suo liquidatore in un contesto di grave logoramento della sua credibilità. Macron ha potuto assecondare rapidamente l’operazione di destabilizzazione dei partiti tradizionali e di rinnovamento radicale della rappresentanza perché aveva ed ha il sostegno e la copertura di solidi centri di potere ed amministrativi, a cominciare dall’ENA, i quali gli garantiscono la piena copertura e funzionalità nell’esercizio delle prerogative. In Italia i centri di potere sono molto più frammentati e meno efficaci; buona parte di essi sono per di più apertamente eterodiretti.

La visione europeista di Macron può offrire ai francesi il miraggio di una guida condominiale francotedesca della UE con pari dignità; una guida che per perpetuarsi prevede l’ulteriore sacrificio della terza potenza economica del continente, l’Italia. L’europeismo di Renzi di conseguenza rischia di ricadere nella solita cortina retorica necessaria a nascondere l’accettazione supina delle politiche più deleterie. Il recente incontro di Macron a Roma non ha fatto che confermare questa propensione anche nei passaggi in cui si sono spacciati come decisioni comunitarie alcuni atti unilaterali del Governo Italiano in materia di immigrazione.

In buona sostanza Renzi tre anni fa poteva ambire al ruolo di capitano e di timoniere; oggi fatica a mantenere il ruolo di capitano, avendo perso prestigio ed autorevolezza tra l’equipaggio e sicuramente ha perso il ruolo di timoniere ormai nelle mani del navigatore più esperto e smaliziato, Berlusconi, sempre che disponga delle forze necessarie. http://italiaeilmondo.com/2017/11/12/revival-berlusconi-si-berlusconi-no-_-di-giuseppe-germinario/   

http://italiaeilmondo.com/2016/10/19/i-paradossi-del-referendum-di-giuseppe-germinario/

Il profilo di Berlusconi può in effetti rappresentare la luce necessaria ad alimentare le speranze di sopravvivenza del Rottamatore a sua volta ormai a rischio di rottamazione.

Anche l’ex-Cavaliere ha iniziato praticamente la campagna elettorale andando in Europa, più precisamente presso i vertici della UE e del PPE (Partito Popolare Europeo). È andato a garantire il pieno rispetto dei vincoli e degli accordi sottoscritti. Un impegno perfettamente in linea con il Berlusconi conosciuto negli ultimi dieci anni, quello dell’intervento in Libia, del Governo Monti, del sostegno surrettizio ai successivi governi di centrosinistra. In effetti è riuscito a “cadere in piedi”, con qualche pesante umiliazione personale, ma senza necessità di rialzarsi. Un impegno che stride fortemente con i proclami del principale alleato di coalizione.

I più affezionati alle classiche logiche di schieramento lo ritengono più che altro un sotterfugio teso soprattutto a guadagnare tempo nei confronti del vecchio establishment europeista. Potrebbe anche essere; ma sarebbe un’attesa confidata esclusivamente all’eventuale successo di una politica estera americana tesa a dissestare completamente l’attuale Unione Europea. Un successo ancora del tutto ipotetico ma che di per sé rappresenterebbe assolutamente non una garanzia, ma una semplice opportunità per l’Italia di acquisire un ruolo più autonomo e spregiudicato. Ad una condizione imprescindibile: disporre di una classe dirigente idonea ed attrezzata.

Il curriculum di Berlusconi, con i suoi voltafaccia, anche terribilmente meschini negli ultimi otto anni, ha dimostrato di essere piuttosto di tutt’altra pasta.

Il programma sottoscritto dai tre leader del centrodestra si presta, come naturale tra forze ormai così eterogenee, a varie interpretazioni; oltre al contenuto, però, offre la possibilità di giocare anche e soprattutto sui tempi. L’esito delle elezioni determinerà sicuramente le modalità dello scontro interno al centrodestra ma quello che appare certo è che si assisterà ad una guerra di logoramento piuttosto che a un rapido conflitto risolutivo interno allo schieramento.

La compagine è destinata quindi a diventare l’epicentro di un movimento tellurico che riprodurrà schieramenti più corrispondenti al nocciolo dei problemi politici. Una faglia destinata ad attraversare i tre partiti ma che potrebbe estendersi anche ai nuovi arrivati del M5S. Al momento il protrarsi delle ambiguità non fa che rallentare il processo di decomposizione del Partito Democratico e offrirgli qualche ulteriore chance per presentarsi come il paladino esclusivo dell’attuale Unione Europea.

La candidatura di Alberto Bagnai nella Lega è il segno evidente di questa divaricazione e delle intenzioni bellicose, come pure le continue stizzite puntualizzazioni di Salvini tese a correggere le forzature di Berlusconi. Intenzioni, per la verità,  rese meno praticabili dal pesante intervento giudiziario sui conti del partito. Altre volte le vicende italiche ci hanno trascinato in ingloriose conversioni badogliane; ma più il dibattito si accende e si focalizza su questioni che vanno al di là di mere politiche redistributive, più gli eventuali voltafaccia costerebbero caro ai funamboli. Su questo Berlusconi ha ben poco da perdere e la sua funzione di traghettatore verso una opzione macronista sarà sempre più evidente. Per Salvini e Meloni il prezzo sarebbe decisamente salato ed un eventuale scambio tra una politica redistributiva di facciata ed antiimmigrazionista e un cedimento sulla Unione Europea e sulla NATO sarebbe insufficiente a salvaguardarli.

Rimane il problema di una evidente sottovalutazione delle implicazioni complesse e rischiose di una scelta coerentemente antiUE ed antiestablishment dominante; una questione che si è infranta più volte sugli scogli dell’effettivo controllo delle leve di potere, ma che si potrà porre con più determinazione e precisione una volta semplificati gli schieramenti.

GLI APPARENTI OUTSIDER

Dalla mappa è rimasto sino ad ora fuori il M5S, il movimento sul quale si stanno concentrando i consensi e le attenzioni di buona parte degli indignati, dei moralisti e degli scontenti.

In questi ultimi trenta anni la denuncia e l’azione ossessiva contro la corruzione non hanno portato niente di buono al paese. Ha distrutto una classe dirigente decadente, in piccola parte legata ad una migliore difesa degli interessi nazionali, surrogata da un’altra senza alcun serio radicamento in interessi forti e strategici del paese. Si è trattato di un’onda partita puntualmente da iniziative di precisi centri di potere statunitensi, compreso un centro anticorruzione fondato da una quarantina di giornalisti quasi tutti legati al Partito Democratico americano utile a destabilizzare gli scenari politici di mezzo mondo e che ha saputo raccogliere un discreto consenso in gran parte dei casi. Il M5S è stato il catalizzatore ultimo di questo stato d’animo. Da qui una collaborazione strisciante con gli ambienti istituzionali che hanno gestito e assecondato questi processi. A questo aggiunge una politica ambientalista che dà per scontato l’applicazione su larga scala industriale di tecnologie dubbie o che richiederanno programmi di investimento ultradecennali ed una politica redistributiva fondata su un reddito minimo garantito utile a coltivare una plebe precaria e l’assistenzialismo piuttosto che una comunità di produttori. I programmi di accompagnamento all’occupazione sono dei meri slogan che poggiano su dei falsi reiterati da anni come quello che segnala che la disoccupazione sia un problema di sfasamento tra qualificazione dell’offerta e qualificazione della domanda di lavoro. Un problema che riguarda solo poche centinaia di migliaia di opportunità rispetto alla marea di milioni di persone, anche qualificate, disoccupate e sottopagate. Sono solo tre aspetti, oltre alla improvvisa conversione sulla politica europeista, di un programma dai contenuti prevalentemente demagogici ed enunciativi. Beppe Grillo del resto lo aveva detto chiaramente, un paio di anni fa. Il suo movimento era nato per contenere nell’alveo democratico, tradotto nell’attuale sistema partitico e consociativo, un movimento che poteva assumere connotati radicali e sovranisti. Un cambiamento serio non può quindi che partire da una crisi anche di questo movimento in modo che anche gli “onesti” comincino a guardare ad altre parti.

UNA QUESTIONE STRATEGICA

Il Sole24Ore del 21 gennaio titolava, a proposito della campagna elettorale: ”Economia reale e industria a bassa priorità per i partiti”. Solo Carlo Calenda, Ministro dello Sviluppo Economico e Marco Bentivogli, sindacalista della CISL in un articolo http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2018-01-11/un-piano-industriale-l-italia-competenze-222533.shtml?uuid=AEcQ5JgD si sono soffermati lungamente sull’argomento. Lo hanno fatto però con tutti i limiti di una politica industriale del tutto indifferente al vero e proprio esodo all’estero del controllo e della proprietà delle maggiori e medie realtà industriali del paese e di incentivazione nella sua totalità senza alcuna selezione dei settori strategici. Aspetti già segnalati in questo articolo http://italiaeilmondo.com/2017/01/22/203/ . E infatti, ad oltre un anno di distanza, il Ministro vanta il grande successo degli investimenti nei vari settori industriali e lamenta un insufficiente sviluppo della ricerca, della ricerca applicata e della nascita e sviluppo di start-up qualificate. Calenda presenta il dato come un semplice accidente risolvibile con ulteriori finanziamenti ed una migliore organizzazione dei “competence center” e dei centri di ricerca universitari. Vedasi il suo intervento al per altro interessante convegno a Napoli del 11 gennaio scorso. In realtà si tratta di un limite strutturale legato alla ormai quasi totale assenza di adeguate piattaforme industriali nazionali necessarie a favorire la nascita, lo sviluppo e il consolidamento delle attività sperimentali. La conseguenza è che nel migliore dei casi la ricerca e il rischio delle scarse applicazioni industriali sono a carico degli investimenti pubblici e privati nazionali, il più sicuro e remunerativo consolidamento finisce in mano alle grandi piattaforme industriali straniere. Uno degli ultimi esempi riguarda l’ECM, azienda operante nell’alta tecnologia ferroviaria, un settore nel quale era presente, sino a pochi mesi fa e da diversi decenni Finmeccanica http://iltirreno.gelocal.it/pistoia/cronaca/2018/01/05/news/ecm-diventa-americana-arriva-caterpillar-1.16315568 . Per il resto il dibattito è tuttora assente a parte qualche vaga enunciazione sul mantenimento del controllo delle aziende strategiche fatta da Salvini e Meloni.

È vero che i bacini elettorali sono considerati ormai un mercato segmentato secondo semplici e sofisticate tecniche di comunicazione e costituiti da cittadini consumatori piuttosto che da cittadini partecipi e produttori del bene comune. La politica industriale, nei suoi particolari, deve avere necessari caratteri di riservatezza. Essa, comunque, rappresenta uno dei pilastri imprescindibili sui quali costruire non solo il benessere di una comunità, ma anche la forza e la autorevolezza di una nazione organizzata in uno stato.

L’assenza di dibattito sul tema rivela le reali intenzioni di uno degli schieramenti che si andranno a formare dopo le elezioni, ma anche le debolezze intrinseche che l’altro dovrà superare pena l’estinzione o il trasformismo più deleterio.

Questi paiono i tre aspetti sinora emersi nel dibattito. Si spera che la convulsione dei prossimi giorni aiuti a farne emergere altri ancora più dirimenti. Si vedrà. Rimangono nell’ombra, nell’articolo altre forze politiche. Tra esse “Liberi e Uguali”. Il simbolo più evidente della decadenza e dell’estinzione di una classe dirigente, ma non per questo meno importanti. Non mancherà l’occasione di parlarne. Nel frattempo andate a leggervi il programma. Non sembrano crederci nemmeno loro.

 

GEORGE SOROS, LA PARABOLA DI UN FILANTROPO_ di Gianfranco Campa e Giuseppe Germinario

Anche quest’anno George Soros ha avuto a disposizione, probabilmente si è concesso, a Davos oltre un’ora di vaticinio. Un privilegio di minuti concesso solo a numero selezionatissimo di astanti. Ad ascoltarlo e vederlo viene in mente questa frase di Melville:  «Dal cuore dell’Inferno, io ti trafiggo! In nome dell’odio, sputo il mio ultimo respiro su di te, maledetta bestia!» Ha avuto modo di prendersela con il carattere monopolistico di Google e Facebook, con la loro capacità di manipolazione, controllo e selezione dei flussi di dati e di formazione degli orientamenti personali e delle società. Un pericolo estremo soprattutto se tale propensione dovesse trovare sostegno e accondiscendenza in regimi autoritari come Russia e Cina. Giudica i Bitcoin, buon per lui, un prodotto troppo speculativo. Soros è però fiducioso: « E’ solo questione di tempo prima che il loro monopolio sia interrotto. La loro fine verrà con le regole e le tasse. E la loro nemesi sarà la commissaria Ue alla concorrenza, Margrethe Vestager» L’Unione Europea, con essa i vecchi e nuovi leader dell’Europa Occidentale, ha quindi per il momento sostituito gli Stati Uniti nel ruolo di paladina della libertà . Cosa intendano per tutela della libertà i novelli templari lo lasciano intuire la composizione e le intenzioni dei vari Comitati di Salute Pubblica in procinto di essere costituiti. Strano, perché la campagna contro la disinformazione è comunque partita dagli “ambienti più politicamente corretti” statunitensi i quali più si sono distinti nella partigianeria ossessiva. In mancanza di una sponda istituzionale solida e sicura a casa propria non resta che affidarsi, al momento, agli epigoni di qua dell’Atlantico. Non che il problema sia irrilevante. Sia Facebook che soprattutto Google, ma anche sempre più i gestori della rete stanno assumendo uno straordinario e crescente potere di manipolazione non solo dei comportamenti individuali, civili e politici, ma anche, attraverso il controllo dei flussi di dati e dei comandi, dello stesso sistema produttivo e di comunicazione. Un controllo che potrebbe limitare la libertà di movimento e di azione di altri manipolatori, come Soros, adusi ad altre e ben più diversificate pratiche, anche le più prosaiche. Le varie “primavere” sparse nel mondo sono lì a ricordarcelo. Per questo “Padre del Globalismo”, tra i tanti, si tratta però di una contingenza, di un accidente destinati ad esaurirsi rapidamente nell’onda lunga della storia “Reputo chiaramente l’amministrazione Trump un pericolo per il mondo, ma lo considero puramente un evento transitorio che scomparira` nel 2020, se non prima. Do al presidente Trump credito per il modo brillante di motivare la sua base, ma per ogni numero di sostenitori c’è un numero egualmente motivato di oppositori. Per questo mi aspetto una valanga democratica nelle elezioni di medio termine 2018″ Con i diciotto miliardi di dollari ( http://italiaeilmondo.com/2017/10/22/un-torrido-inverno-di-giuseppe-germinario/ ) attualmente messi a disposizione dalla sua Open Society, George Soros saprà dare sicuramente il suo personale contributo, con le buone o le cattive, alla “motivazione” e all’afflato ideale dei novelli fustigatori. Dovesse richiedere il sacrificio di qualche martire, tanto meglio; ogni libertà, specie la propria, richiede un tributo e un sacrificio, meglio se di altri. Da parte sua il portafogli, da altri in mancanza di questo o di altro può essere sufficiente la vita. Anche in Italia, negli ambienti più insospettabili, gli adepti non mancano e dopo le elezioni numerosi usciranno allo scoperto. Qualcuno, addirittura, trepida per le sue condizioni di salute; vedi la “Stampa” di oggi.

Qui sotto i link relativi all’intervento di George Soros_ Gianfranco Campa-Giuseppe Germinario

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