Mario Draghi, la sua potenza di fuoco_ con Antonio de Martini

Mario Draghi è ripiombato sulla scena politica. Salutato come un salvatore; etichettato come un esponente della grande finanza, delle lobby finanziarie, dei poteri finanziari. Un abito troppo stretto per un vero decisore politico o, nel minore dei casi, a stretto contatto con i decisori, con gli strateghi. Draghi è tornato in Italia per sistemare le cose, non per galleggiare. E’ diverse spanne sopra gli altri attori. Che poi ci riesca, sarà tutto da vedere.

L’Italia è un paese troppo importante per essere lasciato completamente alla deriva; è un tassello fondamentale per bilanciare la posizione di Francia e Germania; è una piattaforma imprescindibile per influire nell’area mediterranea. I pochi a non rendersene conto sono gli italiani e la quasi totalità del suo ceto politico. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vdmdkf-mario-draghi-la-sua-potenza-di-fuoco-con-antonio-de-martini.html

Investitura e legittimazione di Mario Draghi, di Roberto Buffagni

Roberto Buffagni:
<Investitura e legittimazione di Mario Draghi, brevissima nota.
In superficie, l’investitura e la legittimazione di Mario Draghi provengono dalla sua competenza tecnico-operativa, che viene messa in risalto dalla simmetrica e conclamata incompetenza del ceto politico italiano, che per l’ennesima volta si è fatto sfilare la patente da un banchiere. Sotto la superficie, però, l’investitura e la legittimazione di Mario Draghi sono sacrali, regali e sacerdotali insieme. Perché Mario Draghi è stato il banchiere centrale UE, ossia colui che conferiva legalità al denaro (funzione regale) e insieme colui che lo creava (funzione sacerdotale, analoga alla Transustanziazione delle specie eucaristiche). Mi spiego meglio. Nelle società tradizionali, il denaro ha valore intrinseco (oro, argento, beni preziosi in genere) e la funzione regale si esprime nel conio della moneta, che le conferisce legalità. Ma nella nostra società, il denaro non ha alcun valore intrinseco: consiste in biglietti di banca (forma residuale) e soprattutto in accrediti e addebiti elettronici, pure scritture contabili. Nelle nostra società, insomma, il denaro è moneta fiduciaria, ossia puro segno che acquisisce valore per il solo fatto che i prenditori glielo attribuiscono “sulla fiducia”, ossia “per pura fede” (“sola fides”, il presupposto della Riforma luterana). La fiducia e la fede però sono cose serie, e vanno garantite da qualcuno. Il qualcuno che le garantisce, in questo caso il banchiere centrale che transustanzia una pura scrittura elettronica nella moneta a corso legale che consente a tutti di vivere la vita quotidiana, assume by stealth la funzione sacerdotale. E sia detto per inciso, è questa funzione sacerdotale che lo qualifica a richiedere e celebrare “i sacrifici” che vengono regolarmente richiesti alle popolazioni dalle istituzioni economiche e politiche, che oggi risulta difficile distinguere.
Funzione regale e funzione sacerdotale implicano ovviamente una legittimazione incompatibile con la legittimazione oggi ufficialmente rivendicata da tutti i regimi politici occidentali, ossia “la volontà del popolo” (la democrazia a suffragio universale).>

 

la battaglia prosegue, con Gianfranco Campa

La procedura di impeachement prosegue, ma il bersaglio non è più soltanto Trump. Si prepara il terreno ad una colossale epurazione e alla criminalizzazione di un movimento. Non sarà facile perseguirlo. Nel frattempo proseguono le fibrillazioni nel partito repubblicano. Si cerca di riproporre in politica estera le stesse dinamiche e gli stessi sistemi con gli stessi personaggi di cinque anni fa. La disposizione delle forze in campo è però profondamente mutata; la consistenza anche. Si comincia dal Myanmar, si proseguirà in Siria e in Europa. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vdij7n-la-battaglia-prosegue-con-gianfranco-campa.html

 

Alexander Soros in Myanmar una settimana prima della visita di Xi, a cura di Giuseppe Germinario

Di padre in figlio! Qui sotto la traduzione, sia pure non proprio perfetta, di un articolo del giornale digitale https://elevenmyanmar.com/ che illustra le attività del figlio di George Soros e alcuni antefatti  del di suo degno genitore propedeutiche al successo elettorale della sempre più screditata premio Nobel Aung San Suu Kyi. A conforto delle accuse dei militari a carico dell’esponente arriva la notizia che a gestire i dati delle elezioni in Myanmar-Birmania sia stata la famigerata Dominion, uno degli strumenti più efficaci nella manipolazione e nella contraffazione dei dati elettorali. Protagonista, come più volte segnalato, dei brogli negli Stati Uniti, bandita ormai in numerosi stati. Il Myanmar è un’area cruciale nel confronto tra Cina e Stati Uniti. Confina con la Cina; rappresenta uno degli sbocchi diretti strategici della Cina nell’Oceano Indiano, necessari ai collegamenti con l’Africa e l’Europa e fondamentale per aggirare le strozzature nel mar Cinese Meridionale che frenano la proiezione geopolitica cinese ed alimentano la sua conflittualità immediata con il Giappone, le Filippine, il Vietnam e l’Indonesia e strategica con gli Stati Uniti. In questo contesto la Birmania è tra gli ultimi paesi, tra le Tigri del Sud-Est asiatiche a cercare di sfruttare le pieghe del confronto geopolitico e le dinamiche della globalizzazione per innescare un processo di sviluppo economico ed industriale e di relativo peso politico regionale. Il colpo di stato in Myanmar va inquadrato in questo contesto, in un confronto tra Cina e Stati Uniti che ormai si trascina da anni in quella regione. Non è detto che alla patina democratica che avvolge il premio Nobel per la pace corrispondano le esigenze di autonomia e di sviluppo di quel paese. Una smentita in tempo reale piuttosto alle aspettative di pace con le quali il conformismo universale progressista e conservatore ha salutato l’avvento di Biden alla Casa Bianca. Il rinnovato attivismo della famiglia Soros, attraverso le loro organizzazioni tentacolari, è l’ulteriore conferma che la restaurazione neocon-democratica porterà alla moltiplicazione dei focolai di conflitto e alla ulteriore trasformazione del confronto planetario in uno scontro di religione e fondamentalista, in una lotta tra il bene e il male. Lascerà sempre meno spazio a negoziati fondati sul principio del realismo politico e del riconoscimento degli stati; non farà che alimentare situazioni sempre più diffuse di guerra civile endemica, già sperimentate ampiamente nelle primavere arabe e in Ucraina, messe in atto nei territori metropolitani, addirittura al centro dell’impero ai danni del presidente uscente degli USA e ormai prossime ad essere innescate su larga scala. In questo l’attività e la missione di George Soros & Figli si è rivelata una pedina fondamentale. Novità che sanno di vecchio. Una condizione di precarietà diffusa che potrà sempre più facilmente sfuggire di mano ai protagonisti sino a creare le condizioni di uno scontro diretto tra giganti._Giuseppe Germinario

Alexander Soros in Myanmar una settimana prima della visita di Xi

POLITICA , OPINIONE

La pagina dei social media di Alexander Soros mostra il suo incontro con il ministro dell’Istruzione, il dott. Myo Thein Gyi.

PUBBLICATO IL 12 GENNAIO 2020

 

PHYO WAI

 

Alexander Soros, figlio del miliardario americano George Soros, aveva fatto visita alla capitale del Myanmar Nay Pyi Taw, una settimana prima che il presidente cinese Xi Jinping facesse la sua visita ufficiale per volere del presidente Win Myint il 17 e 18 gennaio.

Alexander, come affermato sul suo account sui social media, è “tornato a lavorare” a Nay Pyi Taw prima che Xi compia il suo primo viaggio in Myanmar in 19 anni.

George Soros, un influente miliardario che è stato criticato per aver messo le mani nella politica di molti paesi, aveva criticato Xi come un nemico della “ Società aperta ” al Forum economico mondiale tenutosi a Davos, in Svizzera, nel gennaio 2019.

Una “coincidenza” simile a quella del ministro degli Esteri cinese Wang Yi in Myanmar prima del viaggio del consigliere di stato Aung San Suu Kyi per difendersi dalla causa della Corte Internazionale di Giustizia, Alexander Soros è qui in Myanmar prima che arrivi il capo cinese.

George Soros, che ora ha 89 anni, è stato criticato per aver manipolato la politica del Myanmar con il suo sostegno a oltre 100 organizzazioni attraverso la Open Society Foundation (OSF), come dichiarato sul sito web della fondazione. L’OSF ha speso miliardi di dollari USA in oltre 100 paesi in tutto il mondo nell’ambito di progetti etichettati in modo diverso, che si tratti di diritti umani, istruzione, diritti delle donne, diritti dei bambini, democrazia e pace. Ha anche speso 57,6 milioni di dollari in fondi in quattro paesi, incluso il Myanmar, nell’Asia-Pacifico nel 2019.

George Soros è stato anche accusato di oscillazioni pesanti nei mercati finanziari dei paesi; la fattispecie nel 1997, quando è stato il protagonista che ha avviato la crisi finanziaria in Thailandia che ha portato alla rovina di molte attività commerciali thailandesi – in alcuni casi portando a suicidio. Gli era stato anche fatto notare il suo potenziale per essere una delle parti che produrranno guai nello Stato di Rakhine al fine di rallentare la Belt and Road Initiative cinese.

“Temo che sarebbe diventato troppo personale quando parlo. Questo ha anche a che fare con gli affari. Penso che, nel periodo 1993-1994, abbia giocato con le finanze in Thailandia, cosa che ha causato molti problemi agli imprenditori. Molte delle imprese di costruzioni si sono piegate, alcuni imprenditori si sono suicidati. Quindi penso che uno dei suoi obiettivi sia che l’economia cinese stia crescendo troppo rapidamente. Il PIL sta andando alle stelle. Lui gioca con le finanze. È nel suo interesse fomentare i problemi in Rakhine in modo che One Belt One Road rallenti e i suoi investimenti siano protetti. Tutti noi – governo, cittadini, etnie – dobbiamo procedere con cautela quando si tratta di questo. La storia mostrerà chi ha ragione e chi ha torto “, ha detto Zaw Aye Maung, Ministro di Rakhine Ethnic Affairs, nella sua intervista di Akonthi Media il 7 novembre 2018.

L’ex ministro dell’Unione e attualmente parlamentare Soe Thane aveva anche detto che George Soros ha versato ingenti fondi per gli affari bengalesi. Come affermato sul sito web di OSF, nel 2015 aveva raccolto 10 milioni di dollari in fondi di emergenza per i bengalesi.

Dopo i 10 milioni di dollari per bengalesi / rohingya, la fondazione aveva anche finanziato la fondazione di Kofi Annan, un membro chiave della commissione formata per indagare sugli attacchi dell’ARSA nel 2017, come dichiarato sui siti web della Fondazione Kofi Annan e dell’OSF.

DVB, Yangon Journalism School, Thabyay Education Foundation, Mal Daw Clinic, Equality Myanmar, Myanmar Observer Group Media Group, Institute for Strategy and Policy: Myanmar, Myanmar Institute for Peace and Security, Pen Myanmar, Myanmar China Pipeline Watch Committee, Myanmar Center to Empower Regional Parliaments, Network for Human Rights Documentation Burma (ND-Burma), Bangladesh Legal Aid and Services Trust, Irrawaddy Publishing Group sono tra i tanti che sono stati dichiarati partner dall’OSF. L’OSF aveva anche affermato che il gruppo Fortify Right, un gruppo che combatte per i diritti bengalesi sotto la bandiera dei diritti umani, è stato anche finanziato da esso una volta.

Le osservazioni e le speculazioni abbondano sul fatto che su oltre 100 organizzazioni collegate a George Soros in Myanmar, molte di loro sono collegate all’Organizzazione per la cooperazione islamica (OIC), l’organizzazione dietro la causa avviata dal Gambia presso l’ICJ. A causa di fughe di dati a seguito di un attacco informatico nel 2016, è stato anche scoperto che l’OSF aveva pagato tra 50mila e 300mila dollari per organizzazione a circa 50 gruppi, media e gruppi di attivisti politici.

Il libro scritto da Soe Thane, ‘Myanmar’s Transformation and U Thein Sein: An insider’s account by U Soe Thane’, afferma anche che George Soros, secondo il suo modus operandi di dipingere l’immagine che vuole attraverso sontuosi finanziamenti in tutto il mondo, aveva anche cercato di fare lo stesso con il governo del Myanmar.

L’autore del libro, l’ex ministro dell’Unione Soe Thane, racconta di come George Soros e l’allora presidente Thein Sein iniziarono i contatti fino ai progetti sociali che furono portati avanti in collaborazione.

E che George Soros aveva cercato di estrarre le informazioni che desiderava dal governo, andando poi a investire una grande quantità di fondi negli affari dei Rohingya (come originariamente affermato nel libro).

Si dice che Thein Sein e George Soros si siano incontrati nel 2012, con quest’ultimo che ha sostenuto progetti educativi e sanitari. Nel 2013, George Soros ha incontrato il presidente, Aung San Suu Kyi e altri ministri. Il libro afferma anche che ha incontrato solo Aung San Suu Kyi e altri ministri al Myat Taw Win Hotel di Nay Pyi Taw, dove ha soggiornato. Sempre nel 2014 e nel 2015, ha incontrato di nuovo il presidente, poi incontrando lo stesso autore Soe Thane, spingendolo a richiedere al presidente di nominare Thaung Tun come ministro per fare il giro del mondo per attrarre investimenti nel paese. Quella richiesta è stata respinta dal presidente in seguito, secondo il libro.

Il libro prosegue anche affermando che il 13 gennaio 2017, George Soros è tornato a Nay Pyi Taw per incontrare Aung San Suu Kyi e il giorno successivo Thaung Tun è stato nominato Consigliere per la sicurezza nazionale.

Quando Thaung Tun doveva ricevere la carica di ministro dell’Unione, Soe Thane si era opposto. “Lavoro dalla precedente amministrazione. So molto bene come sono collegati Thaung Tun, il governo precedente e George Soros. Io sono il testimone. Ma il tempo era poco, e avevo solo me stesso come prova. L’altra cosa è che quando Thaung Tun ha inviato le sue informazioni dettagliate, tutto ciò che riguarda il lavoro con Soros è stato cancellato. L’altra cosa è che ho inviato un’e-mail in America. Se arriva la risposta, può essere utilizzata come prova ma così come stanno andando le cose non si farà in tempo. Si conosce meglio. Deve dimostrare di aver lavorato con George Soros prima se è onesto e presumo che sia disonesto perché aveva nascosto quell’informazione. George Soros è influente negli Stati Uniti e anche se è solo per la posizione di consigliere per la sicurezza nazionale, un giorno arriverà a danneggiare le relazioni Cina-Myanmar. Sono in buoni rapporti con Thaung Tun e andrà bene se non avessi detto niente. Ma devo dirlo per la nazione perché so di più di queste cose. Per ora, le prove sono difficili da trovare. Non è che non volessi che ottenesse quella posizione. Ho detto il mio messaggio ai parlamentari e al popolo “, ha detto Soe Thane in risposta ai media riguardo alla sua obiezione. Non è come se non volessi che atterrasse in quella posizione.

OSF è legalmente autorizzato ad aprire uffici in Myanmar nonostante la necessità di tagliare alcuni dei tentacoli dell’OSF in oltre 100 organizzazioni in Myanmar a causa delle diffuse accuse di George Soros che lui, attraverso l’OSF, sta manipolando nella politica delle nazioni. Mentre lo scopo esatto della visita di Alexander Soros in Myanmar deve ancora essere chiarito, la sua pagina sui social media aveva mostrato di aver incontrato il ministro dell’Unione per l’istruzione, Myo Thein Gyi.

https://elevenmyanmar.com/news/alexander-soros-in-myanmar-a-week-before-xis-visit

 

 

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Epigenetica e fantasmagorie transumaniste_4a parte, di Massimo Morigi

Massimo Morigi

Epigenetica, Teoria endosimbiotica, Sintesi evoluzionista moderna, Sintesi evoluzionistica estesa e fantasmagorie transumaniste. Breve commento introduttivo, glosse al Dialectical Biologist di Richard Levins e Richard Lewontin, su Lynn Margulis,  su Donna Haraway e materiali di studio strategici per la teoria della filosofia della  prassi olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale    del    Repubblicanesimo    Geopolitico

                                                    (IV parte di 5)

 

Al Dialectical Biologist, che è in errore numerose volte ma che è  nel giusto sui punti essenziali

A Lustig von Dom e alla sua madre in dialettica Frau Stockmann, Friederun von Miran-Stockmann

Questo documento, che ora viene presentato in anteprima sul blog di geopolitica “L’Italia e il Mondo”, inteso a raccogliere e a dare un primo approccio alle valenze teoriche che per il Repubblicanesimo Geopolitico possono rivestire le ultime acquisizioni della biologia molecolare e dell’epigenetica e costituito dal presente commento su questo argomento più una  rassegna di URL attraverso i quali i lettori possono prendere visione di importanti documenti afferenti a queste branche della biologia, che erano già presenti sul Web ma che noi, vista la loro importanza sia scientifica  che per la teoria del Repubblicanesimo Geopolitico, abbiamo provveduto a caricare su Internet Archive (e nella rassegna bibliografica finale verranno debitamente indicati gli URL da cui originariamente sono stati scaricati i documenti  – URL e documenti relativi che, quando tecnicamente possibile,  sono stati da noi anche “congelati” tramite  la Wayback Machine – accanto agli URL creati ex novo attraverso i nostri caricamenti su Internet Archive), sviluppa la sua critica a queste nuove acquisizioni delle scienze biologiche nell’ambito dello studio e dell’elaborazione   del  paradigma olistisco-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico – teoria-paradigma dell’azione olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico   ultima sintesi e sistemazione della filosofia della prassi i cui maggiori esponenti sono stati nel Novecento Antonio Gramsci, Giovanni Gentile e Karl Korsch – e azione olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale che, in primo luogo, dalla profonda   dialetticità del Dialectical Biologist di Richard Levins e Richard Lewontin (per quanto ancora  il Dialectical Biologist non sia riuscito del tutto a liberarsi dello pseudodialettico  engelsismo1 della Dialettica della natura e dell’ Anti-Dühring),  dall’epigenetica (principale esponente Eva Jablonka), dalla teoria endosimbiotica di Lynn Margulis e quindi da un aggiornato lamarckismo riceve potenti stimoli dialettici ed euristici. (Oltre che ottenere una riabilitazione, se non in sede di histoire événementielle, cioè in sede di una impossibile riabilitazione dello stalinismo, ma sì dal punto di vista di una nuova teoresi olistico-dialettica-gnoseologica-epistemologica-politica – cioè dal punto di vista di una rinnovata filosofia della prassi di cui si è appena detto – cui il Repubblicanesimo Geopolitico cerca di dar vita, del tanto ideologicamente diffamato Trofim Denisovič Lysenko, la cui genetica non può essere sbrigativamente liquidata come una infelice pseudoscienza frutto della pseudodialettica dell’autoritario e veteroengelsiano Diamat staliniano, quanto fu piuttosto una forma di lamarckismo ancora all’oscuro dei meccanismi    che    indirizzano   l’evoluzione  degli  organismi2, meccanismi  che cominciano solo ora ad essere compresi dall’epigenetica e, più in generale, da tutti quegli approcci di ricerca biologica e genetica che intendono costruire una Extended  Evolutionary Synthesis  –  Sintesi evoluzionistica estesa, per la  quale anche il dato culturale acquisito,  costruito ed introiettato  dall’organismo stesso in una sorta di autopoiesi genotipico-fentotipica per poi riverberarsi, questa autopoiesi culturale-genetipica-fenotipica, al livello dello stesso ambiente che ne rimane influenzato perché, evolutosi in seguito a questa modificazione dell’organismo, modifica a sua volta dialetticamente l’organismo stesso, è una decisiva componente dell’evoluzione3 – non contrapposta alla Modern Evolutionary Synthesis (Sintesi evoluzionistica moderna, detta anche neodarwinismo – responsabile di aver esasperato in senso meccanicistico le felici intuizioni darwiniane, e costituendo quindi la Sintesi Evoluzionistica Estesa non tanto una fuoruscita dal canone evoluzionista darwiniano ma bensì, attraverso la consapevole introduzione nel campo  teorico esplicativo dell’evoluzione di una Gestalt storicistico-dialettica, non una contrapposizione all’idea darwiniana di evoluzione, modello darwiniano di evoluzione  nel quale erano tenuti in precario equilibro valenze meccanicistiche e valenze storicistiche, ma semmai una sua pur profonda e radicale integrazione alla luce di un rinnovato lamarckismo che solo ora con le nuove tecniche di investigazione scientifica comincia a sviluppare tutte le sue potenzialità) ma al più o meno rozzo meccanicismo che precedentemente aveva afflitto la Modern Evolutionary Syntesis che ha portato alle più estreme ed infauste conseguenze i nodi irrisolti  presenti nel modello  darwiniano4. Si noti bene:  Darwin  era  ben  consapevole dei notevoli problemi che il suo schema di evoluzione delle specie animali e vegetali che vedeva questi organismi come soggetti passivi rispetto all’ambiente si portava con sé e, piuttosto che per il meccanicismo del suo schema evolutivo, l’immortale importanza del suo lascito scientifico consiste nel fatto che egli, a differenza di Lamarck, collegò la variabilità degli organismi all’interno di una specie con la comparsa di nuove specie che non sarebbero mai comparse se questa variabilità individuale non si fosse manifestata, mentre Lamarck, pur avendo correttamente individuato un meccanismo evolutivo dove l’organismo non giocava solo un ruolo passivo – classico l’esempio della giraffa che si allunga il collo per mangiare le foglie degli alberi e riesce poi a trasmettere direttamente alla prole questa sua caratteristica somatica – confinò questo meccanismo evolutivo all’interno di ogni singola specie, cosicché, per farla semplice, le giraffe potevano sì allungare il loro collo a seconda delle necessità ambientali ma dalle giraffe potevano evolversi solo delle giraffe e mai, mettiamo, una nuova specie di erbivori distinta dalle giraffe. Era un’idea di evoluzione un po’ modello arca di Noè, dove le specie del Creato sono sempre state le stesse ab initio temporum – nell’arca gli animali entrano a coppie  e, a parte la facile ironia che viene dalla domanda su come faranno i milioni di specie di viventi, anche se presenti solo a livello di una coppia composta da un maschio e una femmina, a stare dentro un così ridotto vascello, c’è una visione del mondo che sta dietro a questo singolare mito biblico, e cioè l’eterna fissità delle specie viventi che, dai tempi antidiluviani, quindi sin dall’inizio del mondo, sono sempre le stesse.  L’immortale lascito di Darwin non è, quindi, quello di avere recisamente rifiutato e sovvertito in direzione meccanicista il modello lamarckiano di un processo di attiva autopoiesi genotipico-fentotipica dell’organismo e di trasmissione di queste nuove caratteristiche così attivamente acquisite anche alle successive generazioni ma il fatto di aver compreso che la variabilità degli individui all’interno di una popolazione può generare nuove specie. Per rimanere all’esempio della giraffa. Secondo lo schema darwiniano, se particolari condizioni ambientali non costringono più le giraffe ad allungare il collo – o per attenerci ad una formulazione di ancor più stretta osservanza darwiniana, se particolari condizioni ambientali non favoriscono la selezione di giraffe dal collo sempre più lungo –, questo mutamento ambientale può selezionare   –  perché un collo troppo lungo che non risponda più a necessità alimentari è uno svantaggio in quanto una eccessiva massa dell’animale consuma troppe calorie – non solo giraffe dal collo più corto ma una nuova specie animale che non riesce più a riprodursi con le giraffe a collo lungo. Una eccezionale intuizione che, per la prima volta, riusciva a spiegare la presenza delle varie specie presenti sulla Terra partendo da una stessa famiglia di organismi. Insomma prima di Darwin sarebbe stato assolutamente impossibile concepire  LUCA (Last Universal Common Ancestor), e in mancanza di questo ‘ultimo antenato comune universale’ – o almeno in mancanza nella teoria evoluzionistica di un originario antenato iniziatore della vita, sia stato questo antenato un singolo organismo o un gruppo di (proto)organismi e/o molecole organiche (oppure vari e distinti gruppi di molecole organiche e/o (proto)organismi)  che siano divenuti una comunità di organismi  (o più comunità di organismi come nel secondo caso dei gruppi distinti) tramite il trasferimento di geni orizzontale ed evolutesi e differenziatesi in seguito in molteplici e diversificate altre comunità di organismi, cioè nelle varie specie biologiche presenti sul nostro pianeta – gli attuali  paradigmi evoluzionistici sulla varietà e differenziazione delle  specie dei viventi presenti sulla Terra, Sintesi evoluzionista moderna e Sintesi evoluzionistica estesa indifferentemente,  sarebbero gravemente mùtili  della loro  forza  euristica ed analogica nell’opposizione a qualsiasi Weltanshauung imperniata su una divinità personalistica e creazionistica ex nihilo ed ex suo5 – opposizione che è consustanziale alla filosofia della prassi olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico –, una ingenua rappresentazione della religiosità popolare sull’origine del mondo  che iconicamente  trova oggigiorno la sua più limpida manifestazione nelle immagini devozionali di proselitismo religioso dei Testimoni di Geova rappresentanti il Paradiso Terrestre, dove leoni, giraffe e gazzelle ed altre specie selvagge vivono felici e rispettandosi a vicenda – povero leone costretto ad una dieta vegetariana, da costituirsi immediatamente un’associazione animalista contro i maltrattamenti alimentari che il leone subisce in questo paradiso terrestre, e alle fiamme il dipinto Paradiso di Jan Brueghel il Giovane, forse la più diretta fonte iconografica di queste immagini devozionali!6 –, e, a parte la bizzarria del leone vegetariano, recanti queste immagini un’altra informazione al devoto, e cioè che queste specie ora pacificate nel Paradiso sono state create tali e quali  ab initio temporum. Insomma, siamo sempre dalle parti dell’arca di Noè e delle mitologie veteroneotestamentarie e derivati7. Darwin  ha iniziato  a  liberarci  da  questa   mitica arca8. La Sintesi evoluzionistica estesa riesce, a sua volta, a liberarsi – e a liberarci –  nel campo della biologia e degli studi sull’evoluzione degli organismi dell’ideologia meccanicistica di stampo cartesiano-galileano – che nell’ Ottocento e  nel Novevento trovò la sua più tetra e ridicola interpretazione nel positivismo e nel neopositivismo – in cui finora era stata costretta questa liberazione e in cui era rimasto impastoiato, pur fra profondi dubbi, anche Darwin. E ovviamente il Repubblicanesimo Geopolitico non può che cogliere con profonda soddisfazione questo ulteriore avanzamento dialettico delle scienze biologiche e genetiche.).  Un’ultima notazione. Pur prendendo spunti ed analogie dalle nuove frontiere aperte dall’epigenetica, dalla sintesi evoluzionistica estesa  e dalla teoria endosimbiotica, ideata quest’ultima  da Lynn Margulis, il Repubblicanesimo Geopolitico si pone decisamente agli antipodi da tutte le ridicole e cupe impostazioni transumaniste, siano queste anche in forma più o meno attenuata come, per esempio, in Donna Haraway. Questo perché – sempre rimanendo al transumanismo harawayno, che attualmente  ne è la forma più attenuata, ed anzi la Haraway espressamente nega di condividerne i fini, anche se, in pratica, deve a buon diritto essere inserita in questa disumanizzante impostazione antropologica – pur riconoscendo volentieri e come segno indubbiamente positivo le potenzialità dialettiche e/o contro la vecchia suddivisione natura/cultura che promanano da tutto il lavoro della Haraway (dal Cyborg Manifesto per finire col Staying with the Trouble. Making kin in the Chthulucene9),  si   deve   sottolineare  il fatto che 1) questa dialettica è espressa per lo più attraverso immagini simboliche (il cyborg del Cyborg Manifesto, l’endosimbionte del Stayng with the Trouble – quest’ultimo, comunque effettivamente esistente nella realtà mentre il primo, almeno per ora, è solo il frutto di una fantasmagoria fantascientifica), che per quanto immagini inconsce ed oniriche della dialettica si fermano sempre ad un passo da una piena consapevolezza della stessa e che 2) il progetto transumanista che traspare da tutto il lavoro della Haraway (per quanto il transumanismo venga formalmente respinto dalla Haraway) altro non si risolve alla fine, anche se abbandonando l’iniziale fantasmagoria fantascientifica del Cyborg perché evidentemente percepita dalla Haraway troppo disumanizzante, che in una fuoruscita dall’umano  non più in via bioingegneristica  come nel Cyborg Manifesto ma in via ingegneristico-genetica (cfr. in Staying with the Trouble il racconto fantascientifico The Camille Stories: Children of Compost10), ma fuoruscita storica dalle attuali contraddizioni storiche dell’umano –  e non dall’umano stesso inteso come dispositivo olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale come invece propone il transumanismo che lo vorrebbe sostituire con un più perfezionato prodotto da laboratorio ma dal quale, ahinoi, scompare la dimensione storico-dialettica della sua evoluzione – che solo può compiere una soddisfacente Aufhebung attraverso una rinnovata e potenziata filosofia della prassi, insomma quella filosofia della prassi, erede dell’idealismo storicista italiano e tedesco e delle migliori espressioni del marxismo occidentale direttamente influenzate da questo idealismo,  che nel XXI secolo solo il Repubblicanesimo Geopolitico ha assunto su di sé il compito del suo sviluppo e potenziamento teorico-pratico. E, infatti, l’incapacità della Haraway a formulare coerentemente un suo autonomo ed originale pensiero dialettico e addirittura il tentativo di fare dell’endosimbionte il simbolo di un nuovo rapporto dell’uomo con la natura  e con la società – suggerendo quindi che l’endosimbionte è, in un certo senso, il  culmine della scala biologica e l’obiettivo cui deve tendere una rinnovata ingegneria sociale poggiata su un’ideologia ecologista e realizzata attraverso le sempre più penetranti tecnologie genetiche utilizzate per modificare il genoma umano: cfr. oltre al summenzionato apologo fantascientifico ancora, passim, Staying with the Trouble. Making kin in the Chthulucene e, in particolare, alle pp. 61-62, 64 la trattazione sul simbionte   Mixotricha paradoxa11– sfocia  alla  fine,  sempre   in  Staying   with  the Trouble, certamente risultato non voluto dalla Haraway, nel progetto di una sorta di uomo nuovo, conseguito non attraverso una selezione e/o eliminazione di pool genetici e culturali umani come nel nazismo12 ma attraverso l’assorbimento nel stesso patrimonio genetico dell’homo sapiens, ad opera dell’ingegneria genetica,  del patrimonio genetico di altre specie animali e vegetali (questo processo di trasferimento di DNA e RNA non finalizzato a finalità riproduttiva all’interno di una specie ma fra membri appartenenti a specie diverse e quindi svincolato da qualsiasi teleologia riproduttiva – che, alla luce delle attuali acquisizioni nell’ambito del paradigma della sintesi evoluzionistica estesa, tutto si può dire di questo fenomeno tranne che si tratti di un ‘epifenomeno’ di trascurabile importanza, mentre è assai più verosimile pensare che si tratti di un passaggio decisivo dell’evoluzione degli organismi e dal punto di vista della dialettica del Repubblicanesimo Geopolitica ne è evidente la grande valenza euristica in quanto si pone agli antipodi di qualsiasi visione “fissista”  del mondo biologico e,  con profonda analogia,  della realtà tutta,  fisica, biologica, culturale e storica, proiettandoci quindi in uno schema olistico della realtà informato alla creazione autopoietica della stessa attraverso il  paradigma   dell’azione dialettico-espressiva-strategica-conflittuale – non è una fantasmagoria fantascientifica ma avviene in natura, e avviene anche per quanto riguarda l’uomo nel cui materiale genetico sono state rinvenute tracce più o meno consistenti di materiale genetico di altre specie animali, un trasporto probabilmente avvenuto attraverso virus vettori). Questo ‘trasferimento genico orizzontale’ svincolato dalla riproduzione  (acronimo TGO,  o ‘trasferimento di geni laterale’, acronimo TGL, in inglese ‘Horizontal gene transfer’, acronimo HGT) che avviene, ovviamente, anche dall’uomo verso gli animali, mentre potrebbe costituire una potentissima metafora dell’intima dialetticità non solo del mondo biologico ma, nell’ambito di una visione olistica della realtà tutta, non solo del mondo della φύσις globalmene intesa ma anche della realtà culturale e storica dell’uomo, viene  quindi suggerito dalla Haraway in Staying with the Trouble  – con grande sfacciataggine ed ingenuità materialistica, ma mai come nel caso della Haraway questo materialismo non è altro che il volto deturpato e degradato di un non ben superato spiritualismo, e infatti la Haraway non ha mai fatto mistero della suo background cattolico e della centralità nello sviluppo del suo   Bildungsroman del mistero della transustanziazione13– come  una  sorta  di processo da intensificare ulteriormente attraverso una sempre più scaltrita ingegneria genetica, venendo così a delineare, sempre involontariamente per carità, una sorta di eugenetica non di marca nazista ma di tipo ecologista, ignorando, come del resto avviene sempre nel nazismo e nelle altre forme di totalitarismo, che se mai si può parlare di uomo nuovo, questo uomo nuovo – se vogliamo mantenere per comodità espositiva questa espressione, sideralmente lontana dalla Weltanschauung olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale (e storicista) del Repubblicanesimo Geopolitico – non può che avere la sua reale epifania attraverso il potenziamento del Logos (Logos che non è una peculiarità dell’uomo ma che nell’uomo, a differenza degli altri animali ed anche vegetali, è la principale forza di indirizzo e di sviluppo della sua evoluzione), potenziamento del Logos che trova la sua massima espressione – attraverso il manifesto e pubblico compimento nella società, di una cultura informata al modello dell’azione olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale – nell’ Epifania strategica del Repubblicanesimo Geopolitico;  ed Epifania strategica che, per concludere,  può trarre, come effettivamente già trae attraverso la filosofia della prassi del Repubblicanesimo Geopolitico, potenti spunti euristici e dialettici dall’epigenetica e, più in generale, dall’ Extended evolutionary synthesis che finalmente si è lasciata definitivamente alle spalle il mito di un’evoluzione biologica guidata meccanicamente da forze esterne all’organismo e verso le quali l’organismo non possa dialetticamente interagire (quindi si può dire che l’ Extended Evolutionary Synthesis è una sorta di filosofia della prassi  per quanto riguarda gli studi biologici e di storia naturale); ma Epifania strategica che è l’esatto contrario della fuga in utopie comunistiche, comunitaristiche o eugenetiche di destra o sinistra che esse siano ma è,  una sorta di obiettivo limite;  o, se vogliamo una sorta di mito, ma un mito che affonda le sue radici nella reale natura dell’uomo14, natura dell’uomo, che similmente al resto del mondo animato ed inanimato ma con maggior evidenza di questi due ambiti  – che, allo stesso titolo  dell’uomo, appartengono alla stessa totalità dialettico-espressiva-strategica-conflittuale, e qui torniamo all’artificiosità della separazione fra mondo naturale biologico o fisico che esso sia e il mondo culturale, sociale e storico fino a poco tempo fa ritenuto di esclusiva costruzione umana, artificiosità nella separazione di questi due mondi che, alla luce di un vigoroso anche se non impeccabile sforzo dialettico perché impacciato da  un sentimento di reverentia ac metus verso la figura di Friedrich Engels, nessuno meglio del Dialectical Biologist è riuscito ad esprimere, cfr. del Dialectical Biologist pp. 277-288, sulle quali ritorneremo anche in future altre discussioni15 –,  è il Logos concreto ed immanente dell’azione olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale; un Logos (o Epifania strategica) che anche dalle scienze biologiche di cui si è appena detto (nonché,  –  vedi Teoria della Distruzione del Valore   e Dialecticvs Nvncivs – dalla meccanica quantistica e dall’elaborazione  di modelli matematici non lineari, cioè dallo studio della  Teoria del caos  e dei Complex Adaptive Systems – antesignano di questo approccio non lineare nello studio della guerra e della società Carl von Clausewitz col suo Vom Kriege –,  approcci anche questi, analogamente a quelli introdotti dalla nuove scienze biologiche e genetiche appena illustrate, di grande valore dialettico  per lo  studio della società e dell’uomo perché ci liberano dai vecchi meccanicismi e determinismi cartesiani e galileiani che hanno afflitto gli ultimi cinque secoli di studi  “umanistici” e che fra Ottocento e Novecento hanno visto il loro triste trionfo nel positivismo, nel neopositivismo per finire col Diamat staliniano), trae potentissimi spunti dialettici ed operativi16  

Note 

 [Nota 1 omessa perchè già riportata nella prima parte del presente saggio]

[Nota 2 omessa perchè già riportata nella prima parte del presente saggio] 

3  [Nota 3 omessa perchè già riportata nella prima parte del presente saggio]

4   [Nota 4 omessa perchè già riportata nella prima parte del presente saggio] 

5 [Nota 5 omessa perchè già riportata nella seconda parte del presente saggio] 

6 [Nota 6 omessa perchè già riportata nella seconda parte del presente saggio] 

[Nota 7 omessa perchè già riportata nella seconda parte del presente saggio] 

[Nota 8 omessa perchè già riportata nella seconda parte del presente saggio] 

[Nota 9 omessa perchè già riportata nella seconda parte del presente saggio]

10  [Nota 10 omessa perchè già riportata nella terza parte del presente saggio] 

11  [Nota 11 omessa perchè già riportata nella terza parte del presente saggio]

 

12 Usiamo queste due locuzioni per introdurre meglio il concetto di ‘genocidio’ essendo tecnicamente inesatto – e, ancor peggio, storicamente una vera e propria scemenza – parlare di razze umane ed anche di gruppi umani, le etnie, determinati genotipico-fenotipicamente e culturalmente una volta per sempre. Questo non solo per non assumere le categorie politico-biologiche degli sterminatori nazisti (trappola in cui sono caduti e cadono sempre tutti coloro che in nome del “politicamente corretto” impiegano, alla fine, le stesse categorie di coloro che vorrebbero combattere e così farneticano misticamente delle meraviglie di società multietniche e multiculturali prossime venture e che partendo da un errore concettuale anche se di semantica invertita rispetto al nazismo, le razze umane appunto, si entusiasmano per un disastro socio-culturale da evitare ad ogni costo e tentato e programmato  al solo scopo di rimpolpare una sinistra politica in crisi politico-identataria-culturale e di consensi elettorali) ma soprattutto, in conformità costruttivo-costruttivista al paradigma prassistico del Repubblicanesimo Geopolitico, che pur politicamente basandosi su un fortissimo senso identitario ma rappresentato attraverso  la sua interpretazione cultural-dialettica del concetto di Lebensraum espressivo sia della vita della polis come di quella del singolo individuo, è paradigma storico-storicista olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale in totale antitesi rispetto a qualsiasi visione fissista e ab aeterno. E se ciò vale per le scienze fisiche, per quelle naturali e/o biologiche (cioè per queste scienze e per le realtà che sono oggetto del loro studio) e per le c.d. scienze umane della società e della cultura, vale, a maggior ragione, per le c.d. razze umane e/o etnie, che sia per quanto riguarda la loro realtà empirica di riferimento che per le “scienze” che hanno il compito di studiarle sono concetti che denotano realtà che – pur, lo ripetiamo, assai malamente per la loro deformazione metafisica fissista – stanno proprio a cavallo fra le c.d. scienze della natura e le c.d. scienze umane. Parafrasando Clausewitz dal Libro primo del Vom Kriege, tutto in dialettica è molto semplice ma la cosa più semplice è di difficile applicazione e quanto il concetto  di ‘Lebensraum’ sia per il Repubblicanesimo Geopolitco semplice ma, al tempo stesso, fonte di complessi, per non dire difficili percorsi, citiamo da Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico, di sempre rinviata pubblicazione, dove si vede che il concetto di ‘spazio vitale’ è a centro degli intricati percorsi bibliografici ma anche, al tempo stesso, pur nella loro dialetticità,  concettualmente lineari passaggi teorici  che hanno visto  la nascita del Repubblicanesimo Geopolitico che partendo dalla contestazione del concetto di libertà inteso dall’attuale neorepubblicanesimo come assenza di dominio ne elaborano  uno alternativo  come  ‘Republican Diffusive Domination’, ‘Aumentato dominio comune repubblicano’ o  RDD, basato non sulla contrapposizione fra potere e libertà come nell’attuale neorepubblicanesimo ma sulla complementarietà fra questi due momenti della vita psichico-individuale e sociale dell’uomo, inestricabilmente e dialetticamente uniti a tal punto da poter affermare che potere e libertà non solo altro che la concreta realizzazione del paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale in due diverse ma complementari e dialetticamente connesse fasi, quella dell’affioramento del momento espressivo la libertà e quello della sua realizzazione strategico-conflittuale il potere, dove un potere dinamicamente distribuito in tutti gli strati della società in un processo di continuo accrescimento dello stesso, l’ ‘Aumentato dominio comune repubblicano’ appunto, altro non significa che la realizzazione concreta –  sul piano sociale come su quello individuale – della libertà, altrimenti detta Epifania strategica: «La videoregistrazione di questo intervento, originariamente Il Repubblicanesimo Geopolitico, presentato in questa modalità indiretta per l’impossibilità dell’autore ad essere presente fisicamente al convegno “Il mondo verso  un futuro multipolare – Milano-Bergamo 26-27-28 Novembre 2015”,  è visionabile e scaricabile all’URL https://archive.org/details/IlMondoVersoUnFuturoMultipolare-RepubblicanesimoGeopolitico

(direttamente sempre su Internet Archive all’ URL https://ia601304.us.archive.org/5/items/IlMondoVersoUnFuturoMultipolare-RepubblicanesimoGeopolitico/IlMondoVersoUnFuturoMultipolare-Milano26-27-28Novembre2015-InteventoDiMassimoMorigiSulRepubblicanesimoGeopolitico.ogv; URL su ResearchGate: https://www.researchgate.net/publication/313602857_IlMondoVersoUnFuturoMultipolare-Milano26-27-28Novembre2015-InteventoDiMassimoMorigiSulRepubblicanesimoGeopolitico: https://doi.org/10.13140/RG.2.2.36176.92165). Inoltre, sul Repubblicanesimo Geopolitico è possibile prendere visione di un altro contributo videoregistrato: per conto del blog “Conflitti e Strategie”, in data 5 maggio 2015, sono stato intervistato su questo argomento da Giuseppe Germinario. Gli URL presso i quali è visionabile questo documento sono     http://www.conflittiestrategie.it/repubblicanesimo-geopolitico-intervista-al-professor-massimo-morigi, https://www.youtube.com/watch?t=519&v=VeOUHYC8zq8    e                                                                                   https://archive.org/details/RepubblicanesimoGeopoliticoIntervistaAlProfessorMassimoMorigi; oppure andando direttamente agli URL di Internet Archive https://ia800508.us.archive.org/8/items/RepubblicanesimoGeopoliticoIntervistaAlProfessorMassimoMorigi/RepubblicanesimoGeopoliticoIntervistaAlProfessorMassimoMorigi.mp4 o https://archive.org/details/UnContributoAgliAmiciAllaRiflessioneDaMassimoMorigiAPropositoDi (gli URL di ResearchGate presso i quali è pure possibile scaricare l’intervista: https://www.researchgate.net/publication/313581660_Intervista_a_Massimo_Morigi_di_Giuseppe_Germinario_di_Conflitti_e_Strategie_sul_Repubblicanesimo_Geopolitico: https://doi.org/10.13140/RG.2.2.13632.53760 o https://www.researchgate.net/publication/313598484_Intervista_a_Massimo_Morigi_sul_Repubblicanesimo_Geopolitico_di_Giuseppe_Germinario_per_il_blog_di_Geopolitica_e_di_conflittualismo_strategico_Conflitti_e_Strategie: https://doi.org/10.13140/RG.2.2.22440.57606). Tralasciando i momenti aurorali e generativi di questa teoria politica, che per ogni autore potrebbero risalire al momento della sua nascita e al suo carattere e, volendo concedere un minimo di maggior spazio alle convenzioni filologiche, i primi passi verso la costruzione del Repubblicanesimo Geopolitico risalgono agli studi del sottoscritto sull’estetizzazione della politica nei regimi totalitari e i primi documenti sul Repubblicanesimo Geopolitico, incentrati sul concetto della ‘Republican Diffusive Domination”, apparvero a fine 2013 sul blog di geopolitica “Il Corriere della Collera”. Queste fonti primarie sono quindi consultabili agli URL  https://corrieredellacollera.com/2013/11/23/alla-ricerca-dellidentita-italiana-di-massimo-morigi/https://corrieredellacollera.com/2013/11/28/alla-ricerca-della-identita-italiana-dialogo-tra-morigi-e-stefanini/ (in alternativa, vista la volatilità delle fonti internet, si è provveduto a depositarle anche presso le piattaforme WebCite e Wayback Machine di Internet Archive, il cui compito è appunto dotare i documenti sul Web di un URL di riserva qualora la piattaforma originale dovesse cessare, agli URL http://www.webcitation.org/6aNTUJQ82, http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fcorrieredellacollera.com%2F2013%2F11%2F23%2Falla-ricerca-dellidentita-italiana-di-massimo-morigi%2F&date=2015-07-29, http://www.webcitation.org/6aNSrbd66    e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fcorrieredellacollera.com%2F2013%2F11%2F28%2Falla-ricerca-della-identita-italiana-dialogo-tra-morigi-e-stefanini%2F&date=2015-07-29  per quanto riguarda WebCite e http://web.archive.org/web/20200315074249/https://corrieredellacollera.com/2013/11/23/alla-ricerca-dellidentita-italiana-di-massimo-morigi/http://web.archive.org/web/20200315074554/https://corrieredellacollera.com/2013/11/28/alla-ricerca-della-identita-italiana-dialogo-tra-morigi-e-stefanini/ per quanto riguarda Wayback Machine). Sempre riguardo al “Corriere della Collera”, in seguito vi sono stati altri contributi del sottoscritto sempre ispirati al Repubblicanesimo Geopolitico. Questi sono stati poi successivamente raccolti in unico file e – sebbene il contenuto di questo file abbia più l’aspetto di una bozza   che di un lavoro definitivo – esso è ora liberamente consultabile e scaricabile agli  URL di Internet Archive  https://archive.org/details/RepubblicanesimoGeopoliticoProvaMassimoMorigi.pdf/mode/2up e https://ia800903.us.archive.org/1/items/RepubblicanesimoGeopoliticoProvaMassimoMorigi.pdf/RepubblicanesimoGeopoliticoProvaMassimoMorigi.pdf (WebCite: http://www.webcitation.org/6dWqmW5BV e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia801405.us.archive.org%2F2%2Fitems%2FRepubblicanesimoGeopoliticoProvaMassimoMorigi.pdf%2FRepubblicanesimoGeopoliticoProvaMassimoMorigi.pdf&date=2015-12-04;  ResearchGate: https://www.researchgate.net/publication/313526603_REPUBBLICANESIMO_GEO-POLITICO_IL_CORRIERE_DELLA_COLLERA_Per_la_Repubblica_di_domani_IL_CORRIERE_DELLA_COLLERA_ALLA_RICERCA_DELL%27IDENTITA_ITALIANA: https://doi.org/10.13140/RG.2.2.14903.93601). Nel 2017 questi contributi sul Repubblicanesimo Geopolitico apparsi sul “Corriere della Collera” e poi pubblicati autonomamente sul Web sono stati poi ripubblicati dal blog di geopolitica marxista “L’Italia e il Mondo” e si rinvia al blog in questione, URL http://italiaeilmondo.com/, per la consultazione di queste ripubblicazioni. A loro volta anche questi contributi “ripubblicati” sono stati immessi direttamente nel Web e a differenza della “ripubblicazione” originaria, questa volta il testo è stato ripulito dagli altri interventi apparsi a commento sul blog, dimodoché   Repubblicanesimo Geopolitico copiaincolla dal “Corriere della Collera” e dall’ “Italia e il Mondo”, questo il titolo del documento in questione, ha perso il carattere di bozza della prima immissione di questi articoli nel Web. Gli URL attraverso i quali risalire a Repubblicanesimo Geopolitico copiaincolla dal “Corriere della Collera” e dall’ Italia e il Mondo”: Internet Archive: https://archive.org/details/RepubblicanesimoGeopoliticoCopiaincollaDalCorriereDellaColleraE/mode/2up, https://ia801609.us.archive.org/19/items/RepubblicanesimoGeopoliticoCopiaincollaDalCorriereDellaColleraE/RepubblicanesimoGeopoliticoCopiaincollaDalCorriereDellaColleraEDallitaliaEIlMondo.pdf; WebCite: http://www.webcitation.org/6pApJZZD4, http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601500.us.archive.org%2F25%2Fitems%2FRepubblicanesimoGeopoliticoCopiaincollaDalCorriereDellaColleraE%2FRepubblicanesimoGeopoliticoCopiaincollaDalCorriereDellaColleraEDallitaliaEIlMondo.pdf&date=2017-03-23; ResearchGate: https://www.researchgate.net/publication/315516889_REPUBBLICANESIMO_GEOPOLITICO_COPIAINCOLLA_DAL_CORRIERE_DELLA_COLLERA_E_DALL%27ITALIA_E_IL_MONDO: https://doi.org/10.13140/RG.2.2.26753.66407. Per chi volesse poi avventurarsi nei momenti aurorali e generativi del Repubblicanesimo Geopolitico profondamente influenzati dai miei studi sull’estetizzazione della politica nei regimi totalitari del Novecento, rinvio a Repvblicanismvs Geopoliticvs Fontes Origines et Via, che è visionabile e scaricabile all’URL https://archive.org/details/RepvblicanismvsGeopoliticvsFontesOriginesEtViaReloaded. Di questo URL non si fornisce il corrispettivo “congelamento” su  WebCite visto che questa piattaforma non consente  il caricamento di file audiovisivi (in questo documento sono visionabili anche dei  video musicali scaricati da YouTube), ma file audiovisivi il cui upload è consentito su  ResarchGate, per cui  Repvblicanismvs Geopoliticvs Fontes Origines et Via è consultabile  anche all’ URL https://www.researchgate.net/publication/313560201_Repvblicanismvs_Geopoliticvs_Fontes_Origines_et_Via_-_Karl_Marx: https://doi.org/10.13140/RG.2.2.15152.97286). Nella formazione del mio pensiero politico e specialmente nella genesi del Repubblicanesimo Geopolitico questi studi sull’estetizzazione della politica rivestono una importanza fondamentale perché l’estetizzazione della politica nei regimi totalitari, per quanto sia stata certamente l’arma di   “distrazione di massa” per eccellenza impiegata da questi regimi è, al tempo stesso, il “segnalatore d’incendio” che le cosiddette democrazie rappresentative non sono assolutamente in grado di rispondere a quelle fondamentali necessità per una “vita buona” che il pensiero politico classico ha indicato  come l’ autentico obiettivo del vivere associato. Mentre nella retorica delle democrazie rappresentative questa “vita buona” sarebbe assicurata, oltre  che dalla prospettiva di un sempre maggiore benessere materiale che questi regimi hanno finora apparentemente garantito (apparentemente garantito perché questa crescente prosperità sotto i regimi democratici è avvenuta nei paesi industrializzati mentre per il “non Occidente” se non è avvenuto l’esatto contrario poco ci manca ma ancor più apparentemente garantito perché ora anche questi paesi del perimetro occidentale registrano un regresso in termini di redistribuzione delle risorse per quanto riguarda le classi non dirigenti), anche dall’innalzamento del livello  culturale ottenuto dalle masse attraverso la  partecipazione democratica (in realtà, questa partecipazione democratica è una “gentile” concessione delle classi dirigenti per tenere tranquille le classi sottoposte e tutto si può dire del rapporto cultura e democrazia tranne il fatto che le moderne democrazie industriali siano un ambiente favorevole all’elaborazione e diffusione culturale, si può affermare anzi il contrario), nella realtà tutto si può dire delle attuali forme politiche più o meno democratiche tranne il fatto che promuovano una “vita buona”. I regimi totalitari avevano compreso il bisogno di questa “vita buona” negata dalle forme politiche democratiche ma la loro risposta fu fornire una “negazione bella e buona” della vita associata e privata che soggiacendo  agli input espressamente totalitari dell’ideologia di partito estetizzava la politica,  nel senso che rendeva esteticamente accettabili  e quindi truffaldinamente eticamente positivi e con tutte le energie palesemente perseguibili  tutti quei rapporti di forza che cristallizzando il dominio di classe erano, di fatto, proprio la negazione della “vita buona” (nelle democrazie questi input totalitari sono egualmente presenti ma sono celati dalle retoriche politiche, prima fra tutte quelle dei diritti umani, che consentono sul piano interno di ritenere formalmente uguali individui appartenenti a classi con enormi disparità di reddito e di potere politico e all’esterno di esportare queste “democrazie”). La risposta invece del Repubblicanesimo Geopolitico al bisogno di “vita buona” è, lungo la direttrice del miglior pensiero politico realista che si dipana lungo la linea Aristotele-Machiavelli-Hegel-Marx, mandare letteralmente al macero ogni retorica politica sia di stampo democratico-criptototalitario che di forma estetizzante sfacciatamente totalitaria,  sottolineando che mentre la libertà nelle c.d. democrazie rappresentative o il mito della nazione o del popolo eletto sono delle retoriche ingannatrici e comunque intrinsecamente totalitarie, l’operare concretamente per il miglioramento della propria condizione implica l’abbandono dell’ottica totalitaria attraverso un’azione che, nella teoria come nella prassi,  si pronuncia  espressamente per una visione antitotalitaria e, perciò,  totale e dialettica  della realtà, visione totale e dialettica  della realtà che, al contrario di ogni visione totalitaria, implica sia la decisiva importanza del soggetto agente (azione del soggetto agente e non di  vaghe, fumose e mitologiche entità metastoriche come la razza o i diritti umani) sia la modificabilità dello stesso agente in ragione della sua azione modificatrice sulla realtà (il totalitarismo dei regimi totalitari persegue, invece, uno stadio finale di perfezione omega, la razza o la patria oltre il quale non è possibile il mutamento; per i regimi totalitari democratici lo stadio finale omega viene sostituito dal mito di una generica umanità perfettibile all’infinito, il mito cioè del progresso, mito del progresso che è però, in realtà, nient’altro che  regresso perché fa appello ad una generica umanità e non ad una concreta umanità che trova il suo progresso, se proprio vogliamo impiegare questo termine mitologico, in una concretissima azione modificatrice della realtà e quindi di creazione non generica proiettata in un tempo infinito e perciò inverificata ed inverificabile ma individuata, hic et nunc, anche di sé stessa). Con il Repubblicanesimo Geopolitico ha raggiunto quindi piena maturità – al di ogni miraggio “democratico”, totalitario comunque declinato e pure di ogni mitologia della classe operaia come classe intermodale e rigettando questo ultimo  universalismo marxista anche  attraverso, ma non solo, il farmaco “antiuniversalista” di una teoria e di una prassi che trae abbondante ispirazione dalla migliore tradizione della geopolitica, di quella geopolitica, cioè, non offuscata da miti “fissisti” di stampo positivistico  o neo-positivisitico – tutta quella filosofia della prassi che ha sempre compreso che la libertà non è né una retorica né una mitologia ma la piena comprensione e realizzazione dell’inestricabile legame dialettico fra soggetto e oggetto, legame dialettico che continuamente modifica sia il primo che il secondo e che consente, se correttamente inteso, sia un’efficace azione liberatoria perché basata su una concreta e non metafisica cognizione della realtà  e quindi delle concrete possibilità di miglioramento individuale e sociale sia l’evitare di  ricadere in Weltanschauung totalitarie che nella loro rigida e fissista visione sono la negazione della “vita buona” perché sono, di fatto, la negazione della vita. Vedremo nel corso del presente scritto, se questo radicale ed impegnativo riorientamento culturale e politico del Repubblicanesimo Geopolitico rispetto a tutta la tradizione liberale ma anche a quella marxista è stato mantenuto. La prima (garbata) polemica sul Repubblicanesimo Geopolitico risale al luglio del 2014 ed apparve sulle pagine del blog repubblicano “Democrazia Pura” ed era imperniata sull’osservazione da parte di “Democrazia Pura” che  «Sul criterio di lettura della storia e sulla prospettiva politica del [Repubblicanesimo Geopolitico] non mancano interpretazioni tendenzialmente finalistiche che non possono non suscitare forti perplessità per il loro carattere intrinsecamente assolutista». La risposta all’osservazione di “Democrazia Pura”, pur non accogliendo il mal interpretato carattere assolutista di questa dottrina politico-filosofica, fu che il Repubblicanesimo Geopolitico era integralmente e convintamente finalistico e compiendo questa affermazione, sempre in questa risposta al contempo il sottoscritto cominciò a mettere apertamente in discussione quelli che da “Democrazia Pura” (non solo da questa, ovviamente, ma  anche da parte della mentalità prevalente di coloro che oggi si proclamano repubblicani o neo-repubblicani) vengono considerati i capisaldi filosofico-politici del repubblicanesimo, vale a dire Kant e Popper. In questa risposta, è vero, non si menziona ancora alcun autore “dialettico” ma quello che si è affermato in seguito in merito al conflittualismo dialettico del Repubblicanesimo Geopolitico e per ultimo all’‘epifania strategica’ che, se vogliamo, costituisce la sua finalità (ed anche il suo mito: ma un mito che si basa non su vuote elucubrazioni totalitarie ma sulla natura stessa della realtà, che come cercheremo di mostrare, non è altro che la manifestazione espressiva del conflitto olistico-dialettico-espressivo-strategico), trova nella risposta alle garbate osservazioni di “Democrazia Pura” il punto di partenza e sviluppo. Si rimanda quindi in prima battuta all’URL di “Democrazia Pura” attraverso alla quale si accede alla pagina che ha pubblicato la polemica, http://www.democraziapura.altervista.org/?page_id=1119#comment-129, e poi ai successivi “congelamenti” di questa pagina per far sì che una volta cessata “Democrazia Pura” (si spera il più tardi possibile) di questa polemica rimanga adeguata documentazione: Internet Archive: https://archive.org/details/RepubblicanesimoGeopoliticoDemocraziaPuraRepubblicanesimoMarxMassimo/mode/2up e https://ia800905.us.archive.org/10/items/RepubblicanesimoGeopoliticoDemocraziaPuraRepubblicanesimoMarxMassimo/RepubblicanesimoGeopoliticoDemocraziaPuraRepubblicanesimoMarxMassimoMorigi.pdf; WebCite: http://www.webcitation.org/6oGSlmKEX e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fwww.democraziapura.altervista.org%2F%3Fpage_id%3D1119%23comment-129&date=2017-02-14; Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20200316070941/http://www.democraziapura.altervista.org/suggerimenti; ResearchGate: https://www.researchgate.net/publication/313675931_Polemica_su_Democrazia_Pura_sul_Repubblicanesimo_Geopolitico_di_Massimo_Morigi: https://doi.org/10.13140/RG.2.2.31504.20489. Sempre all’estate del 2014 risale la mia prima intervista sul Repubblicanesimo Geopolitico fattami da Sauro Mattarelli per conto della rivista politica repubblicana “Il Senso della Repubblica” (Sauro Mattarelli, a cura di, Dialogo con Massimo Morigi. Il Repubblicanesimo Geopolitico, in Il “Senso della Repubblica”, anno VII, n. 8, agosto 2014), nel corso della quale viene ribadito quello che già nelle prime esposizioni del 2013 del Repubblicanesimo Geopolitico apparse sul “Corriere della Collera” era il punto di partenza di tutti i ragionamenti su questa nuova dottrina filosofico-politica, vale a dire  il rifiuto da parte del Repubblicanesimo Geopolitico di una visione della libertà intesa come “non dominio”. Questo concetto di libertà come “non dominio” rivela tutta la natura ideologica ed utopica (sarebbe ancor meglio dire mitologico-utopica ma di una mitologia-utopia regressiva: anche il Repubblicanesimo Geopolitico ha la sua componente utopica, l’ Epifania strategica, ma si tratta di un mito, o meglio  di un obiettivo limite, basato – come già sottolineato – sull’autentica natura olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale della realtà e non su una libertà intesa come sottrazione di potere, mentre il potere, come viene spiegato bene nell’intervista, non è il male della società ma ciò che costituisce il suo momento generativo) dell’attuale scuola filosofico-politica neo-repubblicana (per intenderci nominando i suoi due principali esponenti: Quentin Skinner e Philip Pettit), che pur ha avuto grandi meriti nell’aver iniziato a mettere in discussione all’interno del perimetro ideologico liberal-democratico una libertà che, e su ciò siamo d’accordo con questi autori neo-repubblicani, il pensiero liberale intravede solo come ‘non interferenza’del potere sui cittadini piuttosto che, come vorrebbero i neo-repubblicani, di “non dominio” od autonomia dal potere degli stessi. Purtroppo, e nell’intervista viene ribadito a chiare lettere, se si vuole innescare un processo di autentica, progressiva e dialettica libertà umana non si tratta di meglio precisare il ‘non’, non si tratta di istituire –  seppur inconsapevolmente da parte di questa scuola neo-repubblicana – una sorta di  adorniana ‘dialettica negativa’ sottrattiva di potere ma si tratta di risalire e guardare negli occhi il momento generativo ed evolutivo di ogni società, il potere, appunto, e come questo potere, effettualmente e non in un ipotetico mondo delle fate dove costituirebbe solo un momento negativo che molto ha a che vedere col mito cristiano del diavolo, crei il lagrassiano conflitto strategico e quindi si costituisca come l’autentica genesi ed unico motore  delle classi sociali e del dialetticamente necessitato e socialmente poietico confronto-scontro fra le stesse. Gli URL dove è possibile accedere al formato PDF delle pagine del numero in questione del “Senso della Repubblica”. Per Internet Archive: https://archive.org/details/DialogoConMassimoMorigi.IlRepubblicanesimoGeopolitico.IlSensoDella/mode/2up e https://ia600501.us.archive.org/9/items/DialogoConMassimoMorigi.IlRepubblicanesimoGeopolitico.IlSensoDella/DialogoConMassimoMorigi.IlRepubblicanesimoGeopolitico.IlSensoDellaRepubblicaAnnoViiN.8Agosto2014.pdf; per WebCite: http://www.webcitation.org/6oEzHotbi                                                                                                               e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia600501.us.archive.org%2F9%2Fitems%2FDialogoConMassimoMorigi.IlRepubblicanesimoGeopolitico.IlSensoDella%2FDialogoConMassimoMorigi.IlRepubblicanesimoGeopolitico.IlSensoDellaRepubblicaAnnoViiN.8Agosto2014.pdf&date=2017-02-13; per ResearchGate: https://www.researchgate.net/publication/313648067_Tesi_di_Massimo_Morigi_sul_Repubblicanesimo_Geopolitico: https://doi.org/10.13140/RG.2.2.34420.55689. La Democrazia che Sognò le Fate (Stato di Eccezione, Teoria dell’Alieno e del Terrorista e Repubblicanesimo Geopolitico) del gennaio 2015 potrebbe in apparenza essere considerato, come da titolo, un bizzarro divertissement trattando nelle sue poche paginette argomenti come la tesi n. 8 di Tesi di Filosofia della Storia di Walter Benjamin  e il suo conseguente ‘iperdecisionismo’ (iperdecisionismo che verrà affrontato poco dopo in maniera più approfondita  in Walter Benjamin, Iperdecisionismo e Repubblicanesimo Geopolitico. Lo Stato di Eccezione come Regola), il costruttutivismo del teorico politico neorealista Alexander Wendt affrontando, seppur da un punto di vista schmittiano e con precisa individuazione della natura parareligiosa del fenomeno degli avvistamenti degli UFO, la domanda che si pone Wendt sui cambiamenti politici e culturali cui andrebbe incontro l’umanità nel momento in cui avesse contezza di una civiltà aliena (l’alieno, secondo La Democrazia che Sognò le Fate, come postmoderna incarnazione del nemico assoluto schmittiano e come novella incarnazione del diavolo) e le radici culturali del Repubblicanesimo Geopolitico, per le quali, sempre  nella Democrazia che Sognò le Fate, non si ha alcuna remora di  recuperare anche il ratzeliano tanto demonizzato concetto di Lebensraum (una sprezzatura del Repubblicanesimo Geopolitico verso le mitologie negative e positive del passato – o, meglio, verso la mitologizzazione negativa o positiva del passato che è, sempre e comunque,  il velo di Maya intessuto dal potere dominante per nascondere, appunto, il suo potere –, tanto che, per rimanere a questo caso specifico,  una alternativa definizione di Repubblicanesimo Geopolitico potrebbe essere ‘Lebensraum repubblicanesimo’ o ‘Repubblicanesimo dello spazio vitale’). Gli autori citati nella Democrazia che Sognò le Fate,  Ratzel,  Benjamin, Schmitt, potrebbero sembrare in apparenza autori che nulla hanno a che spartire fra loro. In realtà hanno molto e questo molto è, assieme ad una visione conflittuale della società, un rifiuto della narrazione politica e storica che si dipana attraverso l’affabulazione mitologica dei principi universali dei diritti dell’uomo e della loro conseguente sacralizzazione ideologica da parte liberale e democratica. Questa loro idiosincrasia è fatta interamente propria anche dal Repubblicanesimo Geopolitico e per quanto riguarda la loro dialetticità, alcuni di loro sono più dialettici, per altri, vedi Ratzel, totalmente informato ad una visione geo-spaziale del potere, apparentemente non si potrebbe pensare ad  una elaborazione teorica più lontana da un approccio dialettico ma quello che  per noi conta dal punto di vista della rinnovata filosofia della prassi del Repubblicanesimo Geopolitico è che tutti questi autori portarono efficacemente a consunzione il canone liberaldemocratico e che, quindi, anche quando la dialettica non viene espressamente riconosciuta, essi operano all’interno di una Weltanschuung che vede il fenomeno storico e sociale come una totalità, una totalità dove non è ammesso alcun sacro recinto, men che meno gli immortali diritti dell’uomo e la totalitaria sacralizzazione ideologica della democrazia rappresentativa. Discorso a parte, infine, si deve fare per Alexander Wendt. A rigore esso non può essere considerato un autore scettico della democrazia, anzi per il suo rifiuto di un realismo politico elementare e violento potrebbe essere considerato, sotto molti aspetti, come un modello del “politicamente corretto” ma il suo Anarchy is What States Make of It (per citazione bibliografica completa ed indicazione di reperibilità internettiana, vedi infra nota n°16), articolo il cui titolo e contenuto è divenuto il simbolo del suo pensiero  si ribella sì ad una teoria della relazioni internazionali ispirata ad un realismo meccanicista in cui le nazioni sono costrette alla conflittualità per via della intima struttura anarchica del sistema internazionale ma questa fuoruscita dal classico duro realismo delle relazioni internazionali non avviene in base ad una affabulazione ideologica sui sacri principi politici universalistici ma viene messa in atto attraverso una magistrale mossa: l’anarchia del sistema internazionale è, come tutte le creazioni sociali e storiche, frutto delle rappresentazioni degli attori sulla storia e sulla società e sono queste rappresentazioni, e non viceversa, che conferiscono una natura determinata alla storia e alla società stesse. Da qui la sfavillante conclusione che abbiamo anarchia (o, il suo contrario, armonia) nel sistema internazionale nella misura in cui i decisori (ed anche le masse) all’interno di questo sistema se lo rappresentano mettiamo alla Hobbes o alla Ghandi. Siamo qui veramente ad un passo da una pienamente dispiegata filosofia della prassi che vuole essere il nucleo costitutivo del Repubblicanesimo Geopolitico. Manca a Wendt, però, un tassello fondamentale per l’inveramento di una compiuta filosofia della prassi, e cioè che queste rappresentazioni mentali e/o culturali che muovono gli Stati e le loro subunità politiche (fino a giungere, come vedremo nel prosieguo di queste Glosse,  secondo l’integrale e compiuta filosofia della prassi del Repubblicanesimo Geopolitico, alle subunità  dialettico-espressive-strategiche-conflittuali della biologia, delle quali l’uomo è la più alta espressione nella sua pienamente sviluppata anche se quasi mai completamente consapevole – e anche non esclusiva rispetto alle altre  forme non solo biologiche ma anche culturali e fisiche meno evolute –  dialettica strategicità) hanno una genesi dialettico-espressiva-strategica-conflittuale. Questa consapevolezza dialettico-espressiva-strategica-conflittuale è la grande conquista della filosofia della prassi che troviamo in  György Lukács, Karl Korsch e Antonio Gramsci, e il Repubblicanesimo Geopolitico intende riprendere la loro bandiera prassistica depurandola, però, dalle mitologie politiche che albergavano in questi pensatori, vale a dire la classe operaia vista come la classe in grado di far scoppiare le contraddizioni all’interno del sistema capitalistico perché, a differenza di tutte le altre classi di oppressi apparse sullo scenario della storia, essa sarebbe, come pensavano Marx ed Engels nell’Ideologia Tedesca, una classe “intermodale”, in grado cioè di rappresentare tutte le potenzialità umane e non solo le istanze della propria classe. È qui di tutta evidenza che si è ricaduti nella mitologia, seppur riveduta e corretta a “sinistra”, degli universali diritti dell’uomo e la filosofia della prassi del Repubblicanesimo Geopolitico intende spazzare via, una volta per tutte, questa mitologia per sostituirla sì con un mito, quello dell’ Epifania strategica, ma un mito che si basa sul  riconoscimento realistico (e quindi al tempo stesso inestricabilmente dialettico e perciò mai  meccanicistico, fatalistico o psicologicamente disperato, ma dialetticamente creativo e quindi rivoluzionario) della  natura dialettico-espressiva-strategica-conflittuale della realtà. Si forniscono gli URL del nostro caricamento diretto di  questo divertissement sul Web. Per Internet Archive: https://archive.org/details/LaDemocraziaCheSognLeFatestatoDiEccezioneTeoriaDellalienoEDel/mode/2up e https://ia801603.us.archive.org/16/items/LaDemocraziaCheSognLeFatestatoDiEccezioneTeoriaDellalienoEDel/LaDemocraziaCheSognLeFatestatoDiEccezioneTeoriaDellalienoEDelTerroristaERepubblicanesimoGeopolitico.pdf.                                                                                                                                                   Per WebCite: http://www.webcitation.org/6oSfQfMIr e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia801501.us.archive.org%2F25%2Fitems%2FLaDemocraziaCheSognLeFatestatoDiEccezioneTeoriaDellalienoEDel%2FLaDemocraziaCheSognLeFatestatoDiEccezioneTeoriaDellalienoEDelTerroristaERepubblicanesimoGeopolitico.pdf&date=2017-02-22. Per ResearchGate: https://www.researchgate.net/publication/313860507_La_democrazia_che_sogno_le_fate_Redux: https://doi.org/10.13140/RG.2.2.31736.85760. Oltre questa immissione in proprio nel Web, nel 2017 La Democrazia che Sognò le Fate è stata pubblicata anche dal blog di geopolitica marxista “L’Italia e il Mondo” . Qui di seguito i due URL del blog attraverso i quali si prende visione di questa pubblicazione ed i relativi “congelamenti” su WebCite e Wayback Machine: http://italiaeilmondo.com/2017/02/19/la-democrazia-che-sogno-le-fate-stato-di-eccezione-teoria-dellalieno-e-del-terrorista-e-repubblicanesimo-geopolitico-di-massimo-morigi/ (WebCite: http://www.webcitation.org/6oO5aLz4z e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2017%2F02%2F19%2Fla-democrazia-che-sogno-le-fate-stato-di-eccezione-teoria-dellalieno-e-del-terrorista-e-repubblicanesimo-geopolitico-di-massimo-morigi%2F&date=2017-02-19; Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20200316084413/http://italiaeilmondo.com/2017/02/19/la-democrazia-che-sogno-le-fate-stato-di-eccezione-teoria-dellalieno-e-del-terrorista-e-repubblicanesimo-geopolitico-di-massimo-morigi/) e http://italiaeilmondo.com/category/zibaldone/ (WebCite: http://www.webcitation.org/6oO68C9Zj e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2Fcategory%2Fzibaldone%2F&date=2017-02-19; Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20200316084705/https://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2Fcategory%2Fzibaldone%2F&date=2017-02-19). Nel febbraio del 2015 il “Senso della Repubblica” ha pubblicato un altro mio contributo sul Repubblicanesimo Geopolitico, Walter Benjamin, Iperdecisionismo e Repubblicanesimo Geopolitico. Lo Stato di Eccezione come Regola (Massimo Morigi, Walter Benjamin, Iperdecisionismo e Repubblicanesimo Geopolitico. Lo Stato di Eccezione come Regola, in “Il Senso della Repubblica”, anno VIII, n. 2, febbraio 2015), attraverso il quale si continua, approfondendola, nell’operazione iniziata con la Democrazia che Sognò le Fate di inserimento nel canone del Repubblicanesimo Geopolitico di tutte quelle “elaborazioni di senso” che dall’Ottocento fino ai giorni nostri abbiano da un lato costituito una sorta di antemurale a tutte le Weltanschauung positivistiche e meccanicistiche (compreso quindi tutte le versioni più o meno diamattine del marxismo orientale con le loro interpretazioni  deviate e positivizzate del materialismo dialettico) e dall’altro si siano duramente contrapposte ad ogni forma di irrazionalismo e spiritualismo (e il culmine della suddetta “operazione di senso” dovrebbero essere, appunto, le presenti Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico). Ora Walter Benjamin può a buon diritto essere iscritto nel novero di coloro che rifiutarono sempre una meccanicizzazione della vita quotidiana e politica e la sua “illuminazione profana”, prima ancora di essere giustamente inquadrata nell’ambito degli influssi surrealisti, non sarebbe stata possibile senza un profondo immanentismo unito ad una indiscutibile visione dialettica della stessa. Ma andando nello specifico dell’articolo in questione, in Walter Benjamin, Iperdecisionismo e Repubblicanesimo Geopolitico. Lo Stato di Eccezione come Regola, si è voluto porre in rilievo che questa visone “antimeccanicistica” di Walter Benjamin si sostanziò in una sorta di “filosofia della prassi” che poneva la decisione al centro di tutto il suo universo umano e politico. Scrive infatti Benjamin nella VIII tesi di Tesi di filosofia della storia: «La tradizione degli oppressi ci insegna che lo ‘stato di eccezione’ in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato di eccezione; e ciò migliorerà la nostra posizione nella lotta contro il fascismo. La sua fortuna consiste, non da ultimo, in ciò che i suoi avversari lo combattono in nome del progresso come di una legge storica. Lo stupore perché le cose che viviamo sono ‘ancora’ possibili nel ventesimo secolo è tutt’altro che filosofico. Non è all’inizio di nessuna conoscenza, se non di quella che l’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi.». A differenza di Carl Schmitt per il quale la decisione suprema e superiore come ordine gerarchico alla legge stessa si manifesta (e si deve manifestare) solo nel momento dello stato di eccezione, per Walter Benjamin lo stato di eccezione non esiste o, meglio, dialetticamente parlando, lo ‘stato di eccezione’ è una ‘non eccezione’, cioè lo ‘stato di eccezione’ si manifesta come regola costante, pervasiva  e senza soluzione di continuità nel tempo e nello spazio e la consapevolezza di questo stato di eccezione/regola costituisce il nucleo primigenio e generativo di ogni autentico rivoluzionario   che, avendo compreso la funzione pantocratrice dello stato di eccezione/regola nella nascita e sviluppo dei rapporti sociali ed umani, deve  informare il proprio  operato teorico e pratico a questa ontologia iperdecisionista  e iperconflittualista della realtà (ben oltre il timido decisionismo di Schmitt per il quale, da vero conservatore cattolico – e fascista –, la decisione extra legem, seppure formalmente superiore alla legge stessa, in pratica non era altro che un episodio per opporsi alla rivoluzione e  finalizzato al ristabilimento dei vecchi ordini e gerarchie tradizionali della società). «Per essere ancora più chiari: per Carl Schmitt uno stato di eccezione che entra in scena solo nei momenti di massima crisi; per Walter Benjamin uno stato di eccezione continuamente ed incessantemente  operante e in cui il suo mascheramento in forme giuridiche è funzionale al mantenimento dei rapporti di dominio ma che, se pienamente riconosciuto e vissuto dalle classi dominate, diventa un Anti-Katéchon e quindi non il  frenatore [il Katéchon come aveva mitologicamente pensato Carl Schmitt, riprendendo questo termine dalla Seconda Lettera ai Tessalonicesi  nella quale  Paolo di Tarso evocava il frenatore dell’Anticristo e per traslato per il grande giuspubblicista fascista di Plettenberg Katéchon come ultima mitica risorsa per arrestare o frenare la rivoluzione, ndr]  ma un acceleratore della rivoluzione. Se giustamente, ma con intento nemmeno tanto nascostamente denigratorio, il pensiero di Carl Schmitt è stato definito ‘decisionismo’, Walter Benjamin apre al pensiero politico la dimensione dell’iperdecisionismo.»: Massimo Morigi, Walter Benjamin, Iperdecisionismo e Repubblicanesimo Geopolitico: Lo Stato di Eccezione in cui Viviamo è la Regola, (Versione REDVX – Reloaded il 25 febbraio 2017), pp. 5-6, versione Redux di Walter Benjamin, Iperdecisionismo e Repubblicanesimo Geopolitico. Lo Stato di Eccezione in cui viviamo è la Regola, caricata autonomamente e visionabile  agli URL https://archive.org/details/WalterBenjaminIperdecisionismoERepubblicanesimoGeopolitico.LoStatoDi_949/mode/2up e https://ia801900.us.archive.org/0/items/WalterBenjaminIperdecisionismoERepubblicanesimoGeopolitico.LoStatoDi_949/WalterBenjaminIperdecisionismoERepubblicanesimoGeopolitico.LoStatoDiEccezioneInCuiViviamoLaRegola-VersioneRedvx.pdf. Benjamin, quindi, come un vero campione di una filosofia della prassi integralmente immanentistica ed integralmente olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale che abbia rotto tutti i punti con tutte le filosofie meccanicistiche di destra e di sinistra (semplificando positivismo, neopositivismo e marxismo orientale, cioè Diamat) e per questo di fondamentale ed ineludibile importanza per il canone del Repubblicanesimo Geopolitico che intende informarsi ad una radicale, dialettica ed antimeccanicistica filosofia della prassi, che, come vedremo nelle note seguenti, porti al culmine della sua consapevolezza quanto già elaborato da Lukács, Korsch e Gramsci. Fondamentale (e fondante) quindi è, per il Repubblicanesimo Geopolitico, l’inserimento all’interno di questo canone anche di Walter Benjamin, visto così ora non più come una sorta di autore in cui il momento politico avrebbe costituito una sorta di forzatura della sua vera natura influenzata dal surrealismo (influsso reale ma che è stato travisato nel suo autentico senso) e da una visione mistico-poetica della realtà che lo avrebbe reso uno spirito essenzialmente impolitico (in realtà la sua fu una matura visione dialettico-espressiva-strategica-conflittuale e se Benjamin fu un impolitico lo fu alla stessa stregua di un Aristotele, di un Machiavelli, di un Hegel o di un Marx e su questo penso non sia necessario aggiungere altro). Gli URL attraverso i quali si accede al formato PDF delle pagine del suddetto numero del “Senso della Repubblica”. Per Internet Archive: https://archive.org/details/WalterBenjaminIperdecisionismoERepubblicanesimoGeopolitico.LoStatoDi/mode/2up e https://ia800501.us.archive.org/34/items/WalterBenjaminIperdecisionismoERepubblicanesimoGeopolitico.LoStatoDi/WalterBenjaminIperdecisionismoERepubblicanesimoGeopolitico.LoStatoDiEccezioneComeRegola.IlSensoDellaRepubblicaAnnoViiiN.2Febbraio2015.pdf. Per WebCite: http://www.webcitation.org/6oF2D6q32 e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia800501.us.archive.org%2F34%2Fitems%2FWalterBenjaminIperdecisionismoERepubblicanesimoGeopolitico.LoStatoDi%2FWalterBenjaminIperdecisionismoERepubblicanesimoGeopolitico.LoStatoDiEccezioneComeRegola.IlSensoDellaRepubblicaAnnoViiiN.2Febbraio2015.pdf&date=2017-02-13. Per ResearchGate: https://www.researchgate.net/publication/274641401_WALTER_BENJAMIN_IPERDECISIONISMO_E_REPUBBLICANESIMO_GEOPOLITICO_LO_STATO_DI_ECCEZIONE_COME_REGOLA_testo_preparatorio_di_Massimo_Morigi_sul_%27Repubblicanesimo_Geopolitico%27: https://doi.org/10.13140/RG.2.1.5099.7287. Non essendo il “Senso della Repubblica” un blog, cioè una piattaforma sul Web dove quello che viene caricato viene immesso direttamente e quindi corrisponde integralmente senza possibilità di discostamenti  alla volontà e agli errori del suo autore (al netto, ovviamente della sua eventuale non pubblicazione  o correzione sotto responsabilità del gestore del blog, interventi comunque non di natura tecnica ma dovuti ad una precisa volontà politica editoriale), ma un rivista che viene solo in seguito digitalizzata, sono possibili i classici errori tecnici redazionali  di natura editoriale nella pubblicazione dei documenti che le vengono sottoposti. Per questo motivo, e senza andare a segnalare eventuali piccoli discostamenti rispetto alla bozza originale sottoposta alla rivista stessa, si è provveduto da parte del suo autore all’autonoma immissione in rete del testo originale a suo tempo sottoposto alla rivista (ciò non è stato fatto per l’intervista sul Repubblicanesimo Geopolitico per la quale l’autore non è in possesso di bozze definitive perché la scrittura finale dell’intervista è stata interamente a cura del “Senso della Repubblica”; ciò, per lo stesso motivo, non è stato  fatto per la polemica sul  blog “Democrazia Pura” ma, nonostante la sua natura di blog dell’ “Italia e il Mondo”, si è provveduto pure, come vedremo in questa nota, di caricare autonomamente  sul Web il Dialecticvs Nvncivs, l’ultima saggio che precede e prepara le presenti Glosse che, nonostante  la sua pubblicazione  senza errori  e  revisioni  sull’ “Italia e il Mondo” – si ringrazia il blog per la fiducia ed anche per la condivisione teorica –, si è ritenuto, vista la sua importanza precorritrice rispetto alle Glosse, di fornirgli anche una ridondanza  autonoma rispetto alla pubblicazione su “L’Italia e il Mondo”). Tornando quindi agli URL della pubblicazione autonoma sul Web di Walter Benjamin, Iperdecisionismo e Repubblicanesimo Geopolitico. Lo Stato di Eccezione come Regola, per Internet Archive l’articolo è consultabile presso i già citati URLhttps://archive.org/details/WalterBenjaminIperdecisionismoERepubblicanesimoGeopolitico.LoStatoDi_949/mode/2up e https://ia601900.us.archive.org/0/items/WalterBenjaminIperdecisionismoERepubblicanesimoGeopolitico.LoStatoDi_949/WalterBenjaminIperdecisionismoERepubblicanesimoGeopolitico.LoStatoDiEccezioneInCuiViviamoLaRegola-VersioneRedvx.pdf; presso il “congelamento” attraverso la piattaforma WebCite agli URL http://www.webcitation.org/6or3YW9yH  e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia801509.us.archive.org%2F17%2Fitems%2FWalterBenjaminIperdecisionismoERepubblicanesimoGeopolitico.LoStatoDi_949%2FWalterBenjaminIperdecisionismoERepubblicanesimoGeopolitico.LoStatoDiEccezioneInCuiViviamoLaRegola-VersioneRedvx.pdf&date=2017-03-10;  e infine presso ResearchGate all’ URL https://www.researchgate.net/publication/314065896_Walter_Benjamin_Iperdecisionismo_e_Repubblicanesimo_Geopolitico_Lo_Stato_di_eccezione_in_cui_Viviamo_e_la_Regola: https://doi.org/10.13140/RG.2.2.27706.39363. Inoltre Walter Benjamin, Iperdecisionismo e Repubblicanesimo Geopolitico. Lo Stato di Eccezione come Regola è stato recentemente ripubblicato sempre dal blog di geopolitica marxista “L’Italia e il Mondo” agli URL http://italiaeilmondo.com/2017/02/22/walter-benjamin-iperdecisionismo-e-repubblicanesimo-geopolitico-lo-stato-di-eccezione-in-cui-viviamo-e-la-regola-di-massimo-morigi/ (WebCite: http://www.webcitation.org/6oUAR6xbI e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2017%2F02%2F22%2Fwalter-benjamin-iperdecisionismo-e-repubblicanesimo-geopolitico-lo-stato-di-eccezione-in-cui-viviamo-e-la-regola-di-massimo-morigi%2F+&date=2017-02-23; Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20200316100853/http://italiaeilmondo.com/2017/02/22/walter-benjamin-iperdecisionismo-e-repubblicanesimo-geopolitico-lo-stato-di-eccezione-in-cui-viviamo-e-la-regola-di-massimo-morigi/) e http://italiaeilmondo.com/category/zibaldone/ (WebCite: http://www.webcitation.org/6oUAhrwer e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2Fcategory%2Fzibaldone%2F&date=2017-02-23; Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20200316101436/https://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2Fcategory%2Fzibaldone%2F&date=2017-02-23). Una tappa fondamentale dell’elaborazione teorica sul Repubblicanesimo Geopolitico risale al 2015, la Teoria della Distruzione del Valore (Teoria Fondativa del Repubblicanesimo Geopolitico e per il  Superamento/conservazione del Marxismo), che è una riconsiderazione, dal punto di vista dell’integrale filosofia della prassi  del Repubblicanesimo Geopolitico, della teoria marxiana del plusvalore. È visionabile all’URL https://archive.org/details/MarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore/mode/1up e direttamente, sempre su Internet Archive,  all’URL https://ia800501.us.archive.org/20/items/MarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore/MarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore.pdf (su WebCite, “congelando” l’upload su Internet Archive, agli URL  http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia800501.us.archive.org%2F20%2Fitems%2FMarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore%2FMarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore.pdf&date=2015-12-04                            e    http://www.webcitation.org/6dWOlPr8n – su ResearchGate: https://www.researchgate.net/publication/313529225_Teoria_della_Distruzione_del_Valore: https://doi.org/10.13140/RG.2.2.10604.77443 –, anche con se Internet Archive, per il suo ruolo istituzionale di conservazione della memoria digitale, non dovrebbe essere necessario ricorrere alla ridondanza di WebCite); inoltre segnaliamo che la Teoria della Distruzione del Valore è stata anche pubblicata sul sito di geopolitica marxista “Italia e il Mondo” agli ’URL http://italiaeilmondo.com/2017/02/04/teoria-della-distruzione-del-valore-teoria-fondativa-del-repubblicanesimo-geopolitico-e-per-il-superamentoconservazione-del-marxismo-di-massimo-morigi/ e https://italiaeilmondo.com/category/agora/, che queste due pagine del blog “Italia e il Mondo” sono state anche rispettivamente caricate su WebCite agli URL http://www.webcitation.org/6oAWYYDIZ e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2017%2F02%2F04%2Fteoria-della-distruzione-del-valore-teoria-fondativa-del-repubblicanesimo-geopolitico-e-per-il-superamentoconservazione-del-marxismo-di-massimo-morigi%2F&date=2017-02-10 e  http://www.webcitation.org/6oBx5xZNt e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2Fcategory%2Fagora%2F&date=2017-02-11 (cui ha fatto seguito anche un “congelamento” su Wayback Machine all’URL http://web.archive.org/web/20200318073423/http://italiaeilmondo.com/2017/02/04/teoria-della-distruzione-del-valore-teoria-fondativa-del-repubblicanesimo-geopolitico-e-per-il-superamentoconservazione-del-marxismo-di-massimo-morigi/), che  la pubblicazione su “Italia e il Mondo” della Teoria della Distruzione del Valore è stata copiaincollata e poi così di nuovo caricata   su  Internet Archive generando gli URL https://archive.org/details/TeoriaSullaDistruzioneDelValorePubblicataSuItaliaEIlMondo/mode/2up                                                               e https://ia801602.us.archive.org/19/items/TeoriaSullaDistruzioneDelValorePubblicataSuItaliaEIlMondo/Teoria%20sulla%20Distruzione%20del%20Valore%20-%20Pubblicata%20su%20Italia%20e%20il%20Mondo.pdf e, per ultimo, che la Teoria della Distruzione del Valore era stata pubblicata anche nel 2015 sulla già citata rivista “Il Senso della Repubblica”. Quella pubblicata sul “Senso della Repubblica” è una versione della Teoria con un testo leggermente diverso da quello originariamente direttamente immesso nel Web (testo originale ora pubblicato anche dal blog “L’Italia e il Mondo”) ma, al di là delle differenze stilistiche fra la versione semplificata del “Senso della Repubblica” resa necessaria, a giudizio della rivista, per un più facile lettura e la versione originale, entrambe contengono un elemento che avrà una decisiva importanza per l’elaborazione teorica del Repubblicanesimo Geopolitico e che è già stato affrontato direttamente nel Dialecticvs Nvncivs e viene ancora di più approfondito nelle presenti Glosse: e, cioè, l’artificiosa e totalmente antidialettica divisione fra natura e cultura, o fra storia e natura, o fra scienze fisico-biologiche e scienze storico-sociali. Gli URL attraverso i quali si può prendere visione di questa versione semplificata della Teoria della Distruzione del Valore pubblicata sul “Senso della Repubblica”: Internet Archive: https://archive.org/details/TeoriaDellaDistruzioneDelValoreSRGiugno15/mode/2up, https://ia801600.us.archive.org/8/items/TeoriaDellaDistruzioneDelValoreSRGiugno15/Teoria%20della%20Distruzione%20del%20Valore%20-%20SR_Giugno_15.pdf; WebCite: http://www.webcitation.org/6oFMlBGla, http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601506.us.archive.org%2F28%2Fitems%2FTeoriaDellaDistruzioneDelValoreSRGiugno15%2FTeoria%2520della%2520Distruzione%2520del%2520Valore%2520-%2520SR_Giugno_15.pdf&date=2017-02-13; ResearchGate: https://www.researchgate.net/publication/313656814_Teoria_della_Distruzione_del_Valore_-_SR_Giugno_15: https://doi.org/10.13140/RG.2.2.25717.37608. Come per gli altri documenti pubblicati non solo direttamente dall’autore  ma anche a cura di altri  soggetti, si è provveduto   da parte nostra, senza verificare troppo attentamente eventuali errori nella pubblicazione da parte del “Senso della Repubblica” e al solo scopo di provvedere il cortese lettore di una indiscutibile fonte primaria per la discussione sul Repubblicanesimo Geopolitico,  ad immettere nel Web anche il testo  poi affidato alla redazione del “Senso della Repubblica”. Ancora qui di seguito gli URL attraverso i quali si può avere contezza del testo originale semplificato inviato al “Senso della Repubblica” senza i possibili (e quasi inevitabili) errori redazionali del “Senso della Repubblica”: Internet Archive:https://archive.org/details/TEORIADELLADISTRUZIONEDELVALOREREDUX/mode/2up , https://ia801600.us.archive.org/20/items/TEORIADELLADISTRUZIONEDELVALOREREDUX/TEORIA%20DELLA%20DISTRUZIONE%20DEL%20VALORE%20-%20REDUX.pdf; WebCite: http://www.webcitation.org/6oFLMkhYx, http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601508.us.archive.org%2F30%2Fitems%2FTEORIADELLADISTRUZIONEDELVALOREREDUX%2FTEORIA%2520DELLA%2520DISTRUZIONE%2520DEL%2520VALORE%2520-%2520REDUX.pdf&date=2017-02-13; ResearchGate: https://www.researchgate.net/publication/313656735_TEORIA_DELLA_DISTRUZIONE_DEL_VALORE_-_REDUX: https://doi.org/10.13140/RG.2.2.10617.88168. Infine, le presenti Glosse devono essere considerate come la parte conclusiva di un trittico sul Repubblicanesimo Geopolitico le cui prime due parti sono state composte e pubblicate nel secondo semestre del 2016 e sono Repubblicanesimo Geopolitico Anticipating Future Threats. Dialogo sulla moralità del Repubblicanesimo Geopolitico più breve nota all’intervista del CSEPI a La Grassa (di Massimo Morigi) (agli URL https://archive.org/details/MARXISMO_345/mode/2up            e https://ia601909.us.archive.org/4/items/MARXISMO_345/MARXISMO.pdf; WebCite:    http://www.webcitation.org/6o8vF7WLt  e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601909.us.archive.org%2F4%2Fitems%2FMARXISMO_345%2FMARXISMO.pdf&date=2017-02-09; ResearchGate: https://www.researchgate.net/publication/309427489_Repubblicanesimo_Geopolitico_Anticipating_Future_Threats_Dialogo_sulla_Moralita_del_Repubblicanesimo_Geopolitico_piu_Breve_Nota_all%27Intervista_del_CSEPI_a_La_Grassa_di_Massimo_Morigipdf: https://doi.org/10.13140/RG.2.2.11532.72320) e Dialecticvs Nvncivs. Il punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico attraverso i Quaderni del Carcere e Storia e Coscienza di Classe per il rovesciamento della gerarchia della spiegazione meccanicistico-causale e dialettico-conflittuale, per il rinnovamento degli studi marxiani e marxisti e per l’Aufhebung della gramsciana   e   lukacsiana   Filosofia   della  Praxis (agli URL https://archive.org/details/DialecticvsNvncivs_201701/mode/2up                                              e                            https://ia801904.us.archive.org/6/items/DialecticvsNvncivs_201701/Dialecticvs%20Nvncivs.pdf; WebCite:  http://www.webcitation.org/6o8wW4znJ e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia801509.us.archive.org%2F26%2Fitems%2FDialecticvsNvncivs_201701%2FDialecticvs%2520Nvncivs.pdf&date=2017-02-09; ResearchGate: https://www.researchgate.net/publication/313278043_Dialecticvs_Nvncivs_Il_punto_di_vista_del_Repubblicanesimo_Geopolitico_attraverso_i_Quaderni_del_Carcere_e_Storia_e_Coscienza_di_Classe_per_il_rovesciamento_della_gerarchia_della_spiegazione_meccanici: https://doi.org/10.13140/RG.2.2.29749.47842. Similmente  alla Teoria della Distruzione del Valore, anche Dialecticvs Nvncivs è stato pubblicato sul blog  “L’Italia e il Mondo”, agli URL   http://italiaeilmondo.com/2016/12/13/dialecticus-nuncius-di-massimo-morigi/ e http://italiaeilmondo.com/category/agora/; WebCite: rispettivamente http://www.webcitation.org/6oBwn5kXP e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2016%2F12%2F13%2Fdialecticus-nuncius-di-massimo-morigi%2F&date=2017-02-11 e http://www.webcitation.org/6oBx5xZNt e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2Fcategory%2Fagora%2F&date=2017-02-11, cui ha fatto seguito anche un “congelamento” su Wayback Machine all’URL   http://web.archive.org/web/20200318082736/http://italiaeilmondo.com/2016/12/13/dialecticus-nuncius-di-massimo-morigi/). Se Repubblicanesimo Geopolitico Anticipating Future Threats poteva essere considerato una breve esposizione della moralità (dialettica) del Repubblicanesimo Geopolitico e  Dialecticvs Nvncivs, sempre attraverso un’impostazione dialettica imperniata sulla filosofia della praxis di György Lukác, Karl Korsch e Antonio Gramsci, è il tentativo, come da titolo, per rovesciare l’inveterata primazia della spiegazione meccanicistico-causale su quella teleologica del paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale mettendo questa seconda non solo come primo ed imprescindibile punto di partenza  nella spiegazione  dei cosiddetti fenomeni storico-sociali   ma anche in quella dei cosiddetti fenomeni naturali  e fisici, Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico è, in ultima analisi, il tentativo sia alla luce di una rinnovata morale dialettica sia proseguendo nell’ulteriore approfondimento del rovesciamento gerarchico fra i due tipi di spiegazione appena citati, di comprendere e riassumere nel canone del Repubblicanesimo Geopolitico stesso tutta quella tradizione filosofica, politica e filosofico-politica che nel corso dell’Ottocento e del Novecento, anche se spesso su versanti politici contrapposti, si è sempre caratterizzata per il rifiuto in campo politico del canone liberale e, in campo filosofico, per il rigetto del positivismo e del neopositivismo. Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico, insomma, vuole essere espressione di una  inedita moralità dialettica volta al rinnovamento della tradizione rivoluzionaria occidentale, una tradizione rivoluzionaria il cui rinnovato e rinvigorito nucleo dialettico si ponga il fondamentale ed ineludibile obiettivo dell’unificazione soprattutto  di quelle  esperienze filosofiche e politiche che nel recente passato si erano mortalmente combattute. Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico costituisce, quindi, sia uno sforzo puramente teorico ma, al tempo stesso, anche un atto di concreta moralità dialettica per unire in senso rivoluzionario sia sul versante gnoseologico ed epistemologico che su quello dell’azione sociale indirizzi di pensiero e di concreta azione politica che sempre contestarono il canone liberale ma nei quali, oltre che  la storia politica otto-novecentesca, anche una non ancora pienamente sviluppata visione dialettica (o, anche, il totale rifiuto della stessa) non consentiva di vedersi e di riconoscersi con profondissime affinità. E questo vicendevole riconoscimento, cui con le presenti Glosse si ritiene di apportare un fondamentale contributo, altro non essendo che il primo ed imprescindibile passo per una rinascita della filosofia della prassi è, di conseguenza, l’atto fondante di quella rivoluzionaria moralità dialettica alla quale con questo lavoro si vuole sì dare, come nei due precedenti lavori, annuncio e sostanza scientifica ma anche fare in modo che questo annuncio si concretizzi in quella Epifania strategica che seguendo il filo rosso di Eraclito, Aristotele, Machiavelli, Vico, Hegel, Carl von Clausewitz, Marx, Mazzini, Gentile, Lenin, György Lukács, Karl Korsch, fino a giungere ad Antonio Gramsci, rivoluzioni ab imis sia la nostra visione ed interpretazione  del mondo che il nostro agire nella società.».

 

13 «I am conscious of the odd perspective provided by my historical position – a Ph.D. in biology for an Irish Catholic girl was made possible by Sputnik’s impact on U.S. national science-education policy. I have a body and mind as much constructed by the post-World War II arms race and Cold War as by the women’s movements. There are more grounds for hope by focusing on the contradictory effects of politics designed to produce loyal American technocrats, which as well produced large numbers of dissidents, rather than by focusing on the present defeats. The permanent partiality of feminist points of view has consequences for our expectations of forms of political organization and participation. We do not need a totality in order to work well. The feminist dream of a common language, like all dreams for a perfectly true language, of perfectly faithful naming of experience, is a totalizing and imperialist one. In that sense, dialectics too is a dream language, longing to resolve contradiction. Perhaps, ironically, we can learn from our fusions with animals and machines how not to be Man, the embodiment of Western logos. From the point of view of pleasure in these potent and taboo fusions, made inevitable by the social relations of science and technology, there might indeed be a feminist science.» (Donna Jeanne Haraway, A Manifesto for Cyborgs: Science, Technology, and Socialist Feminism in the 1980s, cit., in Id., The Haraway Reader, cit., London, Routledge, 2004, p. 31); «“Companion species” is a much bigger and more heterogeneous category than companion animal, and not just because one must start including such organic beings as rice, bees, tulips, and intestinal flora, all of whom make life for humans what it is – and vice versa. I want to rewrite the keyword entry for “companion species” to insist on four tones simultaneously resonating in the linguistic, historical voice box that makes uttering this term possible. First, as a dutiful daughter of Darwin, I insist on the tones of the history of evolutionary biology, with its key categories of populations, rates of gene flow, variation, selection, and biological species. All of the debates in the last 150 years about whether the category denotes a real biological entity or merely figures a convenient taxonomic box provide the over-and undertones. Species is about biological kind, and scientific expertise is necessary to that kind of reality. Post-cyborg, what counts as biological kind troubles any previous category of organism. The machinic is internal to the organic and vice versa in irreversible ways. Second, schooled by Thomas Aquinas and other Aristotelians, I remain alert to species as generic philosophical kind and category. Species is about defining difference, rooted in polyvocal fugues of doctrines of cause. Third, with an indelible mark on my soul from a Catholic formation, I hear in species the doctrine of the Real Presence under both species, bread and wine, the transubstantiated signs of the flesh. Species is about the corporeal join of the material and the semiotic in ways unacceptable to the secular Protestant sensibilities of the American academy and to most versions of the human sciences of semiotics. Fourth, converted by Marx and Freud, I hear in species filthy lucre, specie, gold, shit, filth, wealth. In Love’s Body, Norman O. Brown taught me about the join of Marx and Freud in shit and gold, in specie. I met this join again in modern U.S. dog culture, with its exuberant commodity culture, its vibrant practices of love and desire, its mongrel technologies of purebred subject and object making. Pooper scoopers for me is quite a joke. In sum, “companion species” is about a four-part composition, in which co-constitution, finitude, impurity, and complexity are what is.» (Id., Cyborgs to Companion Species: Reconfiguring Kinship in Technoscience, in Id., The Haraway Reader, cit., pp. 301-302). Mentre sul background cattolico di Donna Haraway pensiamo non ci sia altro da aggiungere, molto da aggiungere ci sarebbe sul fatto che la Haraway non operi mai un completo distacco da queste sue radici culturali ma cerchi di dialettizzarle intrecciandole con la cultura materialista-positivista e darwinista della comunità della maggior parte degli studiosi di genetica e biologia. Non vogliamo qui riprendere i discorsi appena fatti in merito allo stile fantasmagorico e profondamente feticistico della Haraway che denuncia una libido dialectica che non riesce mai (anche i ragione dei nefasti influssi heideggeriani e poststrutturalisti mostrati anche in queste nostre citazioni e che non sono solo una delle note dominanti di tutta la sua produzione ma sono anche il morbo antistrategico – il filosofo di  Meßkirch il pensatore più antistrategico ed antidialettico di tutta la tradizione filosofica occidentale! – che ha colpito il pensiero di “sinistra” a partire dagli anni ’80, dopo cioè che erano cadute, travolte dall’evidente fallimento storico ed  epistemologico del rozzo e monocorde conflittualismo classe operaia vs classe capitalista industriale che era stato il motore ideologico delle rivoluzioni anticapitalistiche del Novecento, tutte le illusioni millenariste e crolliste sul capitalismo del pensiero marxiano e marxista) a prendere piena consapevolezza di sé, preferiamo piuttosto concentrare la nostra riflessione su un passaggio del secondo brano da noi citato, dove l’Haraway in merito alla sua formazione cattolica e all’importanza che ha per lei il dogma della transustanziazione (che, per una sorta di pudore antiteologico essa non definisce dogma, come invece dovrebbe nominarlo attenendoci ad una corretta dottrina cattolica) essa chiaramente riconosce l’importanza di San Tommaso nella sua formazione. Riproponiamo il passaggio in questione: «Second, schooled by Thomas Aquinas and other Aristotelians, I remain alert to species as generic philosophical kind and category. Species is about defining difference, rooted in polyvocal fugues of doctrines of cause. Third, with an indelible mark on my soul from a Catholic formation, I hear in species the doctrine of the Real Presence under both species, bread and wine, the transubstantiated signs of the flesh.», nel quale, visto che si parla di San Tommaso d’Aquino e della transustanziazione, la prima cosa che notiamo è una assordante assenza, vale a dire non si menziona minimante il fatto che l’Aquinate è l’autore della preghiera Lauda Sion Salvatorem, il cui messaggio è riassumibile nelle parole «Dogma datur christianis, quod in carnem transit panis, et vinum in sanguinem» («Un dogma è dato ai cristiani: il pane si trasforma in carne e il vino in sangue») e il cui testo, oltre che per la sua evidente bellezza, per il suo ruolo di benjaminiano teologico nano gobbo nascosto dentro il tavolo della scacchiera filosofica della Haraway, citiamo per intero: «Lauda Sion Salvatórem/ Lauda ducem et pastórem/ In hymnis et cánticis.// Quantum potes, tantum aude:/ Quia major omni laude,/ Nec laudáre súfficis.// Laudis thema speciális,/ Panis vivus et vitális,/ Hódie propónitur.// Quem in sacræ mensa cœnæ,/ Turbæ fratrum duodénæ/ Datum non ambígitur.// Sit laus plena, sit sonóra,/ Sit jucúnda, sit decóra/ Mentis jubilátio.// Dies enim solémnis ágitur,/ In qua mensæ prima recólitur/ Hujus institútio.// In hac mensa novi Regis,/ Novum Pascha novæ legis,/ Phase vetus términat.// Vetustátem nóvitas,/ Umbram fugat véritas,/ Noctem lux elíminat.// Quod in cœna Christus gessit,/ Faciéndum hoc expréssit/ In sui memóriam.// Docti sacris institútis,/ Panem, vinum, in salútis/ Consecrámus hóstiam.// Dogma datur Christiánis,/ Quod in carnem transit panis,/ Et vinum in sánguinem.// Quod non capis, quod non vides,/ Animósa firmat fides,/ Præter rerum ordinem.// Sub divérsis speciébus,/ Signis tantum, et non rebus,/ Latent res exímiæ.// Caro cibus, sanguis potus:/ Manet tamen Christus totus,/ Sub utráque spécie.// A suménte non concísus,/ Non confráctus, non divísus:/ Integer accípitur.// Sumit unus, sumunt mille:/ Quantum isti, tantum ille:/ Nec sumptus consúmitur.// Sumunt boni, sumunt mali:/ Sorte tamen inæquáli,/ Vitæ vel intéritus.// Mors est malis, vita bonis:/ Vide paris sumptiónis/ Quam sit dispar èxitus.// Fracto demum Sacraménto,/ Ne vacílles, sed memento,/ Tantum esse sub fragménto,/ Quantum toto tégitur.// Nulla rei fit scissúra:/ Signi tantum fit fractúra:/ Qua nec status nec statúra/ Signáti minúitur.// Ecce panis Angelórum,/ Factus cibus viatórum:/ Vere panis fíliórum,/ Non mittendus cánibus.// In figúris præsignátur,/ Cum Isaac immolátur:/ Agnus paschæ deputátur/ Datur manna pátribus.// Bone pastor, panis vere,/ Jesu, nostri miserére:/ Tu nos pasce, nos tuére:/ Tu nos bona fac vidére/ In terra vivéntium.// Tu, qui cuncta scis et vales:/ Qui nos pascis hic mortales:/ Tuos ibi commensáles,/ Cohærédes et sodales,/ Fac sanctórum cívium./ Amen./ Allelúja.» (scaricato da https://it.cathopedia.org/wiki/Lauda_Sion_Salvatorem; Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20160730225817/http://it.cathopedia.org/wiki/Lauda_Sion_Salvatorem; inoltre sull’importanza per la Chiesa cattolica della preghiera Lauda Sion Salvatorem, citiamo da Maria Francesca Carnea, Il “Lauda Sion Salvatorem” di Tommaso d’Aquino, 5 giugno 2012, all’URL http://comunicativaviva.blogspot.com/2012/06/il-lauda-sion-salvatorem-di-tommaso.html, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20200929060931/http://comunicativaviva.blogspot.com/2012/06/il-lauda-sion-salvatorem-di-tommaso.html: «Contemplata ai vertici della poesia religiosa di ogni tempo, il Lauda Sion Salvatorem è mirabile preghiera della tradizione cristiana cattolica. In essa viene enunciato il dogma della transustanziazione e spiegata la presenza completa e reale di Cristo in ogni specie. L’autore è Tommaso d’Aquino, che la compose nel 1264, su richiesta di Papa Urbano IV quando questi stabilì la festa del Corpus Domini per tutta la Chiesa, festa che fu istituita l’8 settembre 1264 con la Bolla Transiturus de hoc mundo, in seguito al miracolo eucaristico di Bolsena. Papa Urbano IV fece convocare un’assemblea che riuniva i più famosi maestri di Teologia di quel tempo. Tra questi San Tommaso d’Aquino e San Bonaventura, noti per la brillante intelligenza e purezza della dottrina. Urbano IV desiderava che fosse composto in onore del Santissimo Corpus Domini un Ufficio, da utilizzare unicamente nella Messa cantata in occasione di quella solennità e, per questo, sollecitò ad ognuna di quelle dotte personalità una composizione. Il primo a esporre fu l’Aquinate che declamò la Sequenza da lui composta. Fra Bonaventura, ascoltandolo, con un autentico gesto di umiltà, rese tributo alla devozione dell’Aquinate e, senza indugio, cancellò la propria composizione.»). Questa preghiera, ottimamente illustrata dal punto di vista storico-dottrinale dall’autorevolezza della voce della filosofa e teologa cattolica Maria Francesca Carnea, riassume tutto il cattolicesimo perché 1) esprime una fondante e fondativa Weltanschaung dove regna una inestricabile commistione fra spirito e materia (ma dove né l’una né l’altra riescono ad essere superate in una convincente prospettiva dialettica); perchè 2) nonostante questa debolezza dialettica, meravigliosamente rappresenta il  fortissimo anelare del cattolicesimo verso una dimensione olistica della realtà, dimensione olistica che trova la sua rappresentazione mitico-materica nell’ostia consacrata che non funge da simbolo del passaggio di Cristo su questa Terra ma ne è il vero e proprio corpo vivente che, attraverso il rituale della sua ingestione, conferisce ai semplici credenti  laici nel Salvatore e ai sacerdoti della comunità cristiana  la stessa qualità di immortalità del corpo del Dio-uomo; e perché 3) vi si rappresenta come meglio non si potrebbe le difficoltà dialettica del cattolicesimo che ogniqualvolta non riesce ad elaborare una più o meno convincente sintesi dialettica fra i suoi vari contrastanti momenti ricorre al dogma e al mito. Ma se l’Haraway cela il suo teologico nano gobbo, noi espressamente gli riconosciamo il suo grande valore per la dialettica proprio in ragione del fatto che è uno dei testi della tradizione religiosa occidentale dove più chiara risulta la tensione fra una pulsione dialettica che non riesce a tramutarsi in un corpo filosofico e un ricorso al mito proprio in ragione di questo fallimento. Insomma, il Lauda Sion Salvatorem, oltre ad essere una delle più belle preghiere mai scritte sulla sacra transustanziazione è anche l’esito di una filosofica transustanziazione che ci svela il suo fallimento ma che proprio in questo suo chiaro fallimento apre le strade, per chi le voglia percorrere, ad una migliore comprensione dialettica. E la Haraway nascondendo questo  nano gobbo ancora una volta ci dimostra che l’unico percorso che le è consentito intraprendere dalla sua personale teologia è quello di sostituire i vecchi miti religiosi con altri nuovi, che nel suo caso sono i cyborg e gli endosimbionti, fantasmagoriche e feticistiche transustanziazioni del suo particolare e personale fallimento dialettico.  

 

14 Sulla natura olistico-dialettica-espressiva-strategica-conflittuale dell’uomo, natura che è completamente sovrapponibile a quella di tutto il resto della totalità espressiva  ma la cui realtà dialettica prassisticamente si realizza nelle modalità politiche dello ζῷον πολιτικόν e  dello  ζῷον  λόγον  ἔχων  e su come queste due Gestalt  aristoteliche  possano dare origine ad un mito che, a differenza dei miti dell’antichità, non ci parla attraverso poetiche mefafore ed allegorie ma si poggia  sulla  realistica e “scientifica” Weltanschauung dell’uomo animale politico e dell’uomo animale dotato di linguaggio, invitiamo ad una attenta e rivelatrice rilettura delle   Réflexions sur la violence di Georges Sorel (all’URL https://cras31.info/IMG/pdf/sorel_reflexions_violence.pdf, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20200803152218/https://cras31.info/IMG/pdf/sorel_reflexions_violence.pdf, è consultabile e scaricabile l’edizione elettronica del testo di Georges Sorel, Réflexions sur la violence, Paris, Pages libres, 1908, del testo cioè della prima edizione delle Riflessioni sulla violenza.  Per ulteriori considerazioni bibliografico-internettiane sulle Riflessioni sulla violenza, vedi infra sezione bibliografica internettiana del presente lavoro).

 

 

15 Comunque, nessuno meglio del Dialectical Biologist ha saputo esprimere l’inanità della separazione  fra mondo culturale e mondo della natura basandosi sulla consapevolezza che la dimensione storico-dialettica è sempre prevalente sulla supposta meccanicità  delle c.d. leggi di natura e determinanti, quindi, in ragione di questa illusoria meccanicità, una sorta di separazione ontologico-epistemologica fra mondo naturale dove sarebbero vigenti queste leggi  e mondo umano storico-sociale-culturale dove queste non sarebbero valide (storicismo tedesco non hegeliano ma neokantiano, impostazione sostanzialmente corretta per quanto riguarda l’inapplicabilità di una legalità meccanica nello studio della cultura, storia e della società ma mancanza in questo storicismo di una consapevole visione dialettica, per cui ontologica separazione fra mondo naturale e mondo culturale e spiegazone di quest’ultimo tramite categorie psicologistiche e/o critpto-spiritualistiche che denotano una dialettica in nuce ma soffocata: Wilhelm Dilthey, separazione fra scienze della natura e scienze dello spirito, dove queste seconde riguarderebbero lo studio dell’Erlebnis, cioè dell’esperienza vissuta, dove ai nostri occhi è di tutta evidenza che l’Erlebnis è una sorta di inconscio grafema del paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico; Wilhelm Windelband distingue fra scienze nomotetiche, le scienze della natura,  e scienze idiografiche, cioè le scienze storiche e quelle che riguardano lo studio della cultura: un tentativo epistemologico per il Repubblicanesimo Geopolitico di grande interesse non perché ribadisce la distinzione fra scienze della cultura e quella della natura ma perché, dando una definizione della scienza storica come scienza idiografica, cioè una scienza che studia una vicenda storica nella sua unicità, delinea anche il caratteristico movimento del paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale, che è appunto movimento che di volta in volta deve trovare la sua unica espressività non riconducibile ad alcuna legge meccanica; molto interessante, e potenzialmente eversivo rispetto al pensiero di Dilthey e Windelband, il discorso di Heinrich Rickert, dove egli pur riprende l’impostazione di Windelband in merito alla distinzione delle scienze ma a differenza di Windelband sostiene che questa distinzione non dipende dall’oggetto studiato ma dal metodo adottato dallo studioso, per cui anche la natura può essere studiata con metodo idiografico e le scienze naturali, al contrario, con metodo nomotetico: in Rickert, dal nostro punto di vista, vediamo attuata in nuce una sorta di atteggiamento strategico riguardo alla conoscenza, un atteggiamento strategico molto affine al paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico, il quale, per esempio, per quanto riguarda le spiegazioni nomotetiche e meccanicistiche delle scienze fisiche non le rigetta in ragione di questa loro natura antidialettica ma, al momento, si limita a far notare che queste leggi sono l’umana estrapolazione hic et nunc di una vicenda dialettico-storica-fisica-naturale mal conosciuta dall’uomo e che quando verrà conosciuta – se mai ovviamente verrà conosciuta –  valuterà la veridicità della meccanicità di queste leggi alla stessa stregua di come noi moderni giudichiamo  la veridicità dei miti dell’antichità) o se valide, a differenza che nelle leggi di natura, di più complessa e complicata applicazione (positivismo e/o neopositivismo: nel giusto nel volere delineare un campo unificato fra mondo della natura e quello della cultura, in totale errore in quanto la sola legalità valida in questo mondo così unificato è quella meccanico-deterministica e non quella dialettica); primato del Dialectical Biologist che, però, gli riconosciamo solo  limitatamente al campo delle elaborazioni filosofiche direttamente ispirate dalla moderna biologia e/o dai più recenti sviluppi della genetica, cioè l’epigenetica, la teoria endosimbiotica e la sintesi evoluzionistica estesa, perché se allarghiamo il nostro esame al pensiero che direttamente scaturisce dall’elaborazione della tradizione filosofica, cioè il pensiero nato da filosofi professionali che non partono  per le loro elaborazioni da ragionamenti scaturenti dalla problematizzazione di nozioni tecnico-professionali originariamente estranee al dibattito filosofico, l’idealismo italiano aveva già saputo magistralmente e ancor più cristallinamente delineare il problema. Ecco cosa scrive in proposito Giuseppe Galasso (Napoli, 19 novembre 1929 – Pozzuoli, 12 febbraio 2018), che può essere considerato lo storico che meglio seppe far fruttare la lezione dell’idealismo italiano e, in particolare, di Benedetto Croce: «1.2 Il carattere della storicità. Per questo primo aspetto, dunque, il problema del rapporto con la filosofia non si pone per la storiografia in maniera difforme che per ogni altra scienza o disciplina. Per un secondo aspetto – secondo, ovviamente solo nell’ordine espositivo qui seguito – è, invece, da vedere se tale rapporto si ponga per la storiografia anche in maniera diversa, e cioè con una sua particolarità concettuale e metodologica, con una specificità sostanziale e, insomma, in modo da delineare tra storiografia e filosofia una special partnership, con un suo privilegium fori, i suoi contenuti e le sue procedure, irriducibili a ogni altra societas della filosofia con le varie branche del sapere. La risposta positiva a un tale quesito è dettata da una considerazione fondamentale: quella, cioè, relativa al carattere storico della realtà in tutte le sue determinazioni e qualificazioni. Se la filosofia è, innanzitutto, coscienza critica delle scienze e se le scienze sono lo studio della realtà, se la realtà è tutta storica e se c’è una scienza che specificamente si occupa di storia, la relazione alla quale accenniamo non solo non può sorprendere, ma appare come oggetto di una constatazione obbligata. Il carattere storico della realtà, di tutta la realtà è nozione fondamentale, ma di cui si è meno consapevoli di quanto non si dica e non appaia. Orgoglio umanistico e, all’apposto, senso religioso o filosofico o artistico della finitezza e della pochezza umane portano a ritenere che la storicità sia un privilegio o, a seconda dei punti di vista, un doloroso destino dell’uomo. Niente di ciò che sappiamo della realtà può, tuttavia, fare accettare una tale visione delle cose. Storico: cioè, non dato una volta per tutte, non immobile nella sua struttura e nelle sue condizioni, e quindi sottoposto a un mutamento perenne, a una modificazione continua, a un movimento inarrestabile; storico appare ed è tutto quello che l’uomo conosce del mondo, dell’universo in cui si ritrova. Cambiano e sono enormemente diversi tra loro i tempi del mutamento. I tempi biologici, i tempi geologici, i tempi galattici sono tempi di lunghezza incommensurabile rispetto ai tempi storici e a quelli dell’esperienza umana collettiva e individuale. Qualsiasi lunga o lunghissima durata di fenomeni storici si voglia postulare, quei tempi della «natura» sono incomparabili nella loro estensione. Le stesse più ampie misure storiche (il secolo, il millennio) sono, al confronto, semplicemente inani. La «natura» appare immobile e costante solo in grazia di queste enorme sfasatura temporale. Ma, se la ragione varca i limiti del tempo umano e non se ne fa tenere prigioniera, la storicità del mondo emerge come un dato fin troppo immediato ed evidente. Le nebulose, i sistemi solari, i soli, i pianeti quali l’esplorazione e lo studio astronomico ce li configurano sono assetti mutevoli, che hanno avuto un inizio e avranno, altrettanto certamente, una fine. La vita stessa in quanto fenomeno biologico, l’ordine delle specie vissute e viventi, oltre che l’assetto dei mari e delle terre e ogni altro elemento geografico, geologico ecc,  sono mutati nel tempo in maniera radicale, e sono innumerevoli gli aspetti della realtà terrestre che hanno cessato di essere dopo aver durato, in molti casi, per diecine di milioni di anni. Che si qualifichino queste grandiose e lunghissime vicende come evoluzione o in qualsiasi altro modo, il dato di fondo non cambia. La «natura» è tanto poco immobile e immutabile e duratura quanto, sulla propria e, al confronto, minima scala, lo è qualsiasi realtà umana. L’espressione «storia naturale» ha, da questo punto di vista, una pregnanza e una dimensione storica e filosofica che non deve sfuggire. È singolare che a mostrarsene avvertiti siano, in qualche caso, più i filosofi che i naturalisti: basti ricordare qualche pagina di Windelband o di Croce (filosofi, per giunta, di varia fisionomia idealistica). È solo da ricordare e da aggiungere che anche nella filosofia, ma soprattutto nella scienza moderna la nozione di «natura» ha progressivamente ceduto il campo ad una sua diversa, per non dire opposta, considerazione. Dalla natura come res, sostanza o materia più o meno inerte e passiva, si giunge alla materia come complesso di forze, di energie, nei cui equilibri e nelle relative modificazioni consistono propriamente quelli che noi chiamiamo corpi e cose e le loro vicende. Questa visione dinamica della natura non ha fatto che accentuarne – per quanto inconsapevolmente ciò possa essere accaduto –  il carattere storico, fino al punto che in termodinamica si è giunti all’ipotesi  della morte termica dell’universo e in meccanica statistica, ma anche fuori del campo strettamente fisico, si è parlato di entropia come una misura del disordine e dello stato indifferenziato di un sistema e, quindi, della probabilità che il sistema tenda agli strati macroscopici per esso più prevedibili. La nozione di entropia è, peraltro, ancor più raccordata con la riflessione qui avanzata. Il suo proprium scientificamente e filosoficamente più rilevante sta nell’aver fissato la irreversibilità non solo di un campo fondamentale di fenomeni qual è quello dei fenomeni entropici, bensì, e ancor più, del tempo, ossia della dimensione temporale, di tali fenomeni. La realtà si conferma così come un fiume che non può rifare all’inverso il suo percorso e che nel suo cammino consuma un tempo che va sempre nella direzione dell’anteriore al posteriore, sempre ex ante, mai ex post, un tempo cioè non rovesciabile. L’unità di destino spazio-temporale è, così, profondamente affermata e confermata. Direzione del moto e direzione del tempo non sono variabili indipendenti o elementi indifferenti del processo, che in quelle due congiunte direzioni sviluppa la sua irrecuperabilità, la impossibilità di restaurare le situazioni anteriori: impossibilità che non è, peraltro,  pura e semplice impotenza, bensì, insieme, spinta creativa a nuovi equilibri, a nuovi assetti, a nuovi movimenti. È, questa spinta, da un punto di vista non fisico, ma storico-filosofico, a consentire di parlare di entropia non come principio di morte, bensì come una condizione o un dato nello svolgimento del processo vitale. La menomazione proveniente dall’entropia è irrecuperabile, perché deriva da situazioni e rapporti chiusi, isolati; è, invece, compensabile in regime di sistemi aperti, connessi, in cui altre energie e altri slanci introducono nella direzione del moto e del tempo nuovi elementi, e cioè se la creatività non è solo consumo di una dotazione originaria, ma è anche funzione specifica di produzione in corso d’opera. Si capisce, perciò, la ritrosia degli scienziati ad ammettere un’estensione universale dell’entropia e la loro tendenza a limitarne senso e valore ai sistemi chiusi o parziali. Il che non significa la possibilità di invertire ciò che è irreversibile; vuol dire, invece, possibilità di proseguire o proiettare altrimenti, la vita, il moto, il tempo. Il carattere della storicità determina, dunque, tra filosofia e storiografia un nesso profondo e particolare. Esso determina, peraltro, un tale nesso anche tra la storia e qualsiasi altra scienza. Qualsiasi ramo dello scibile, in quanto attiene a un elemento della realtà, ha a che vedere, infatti, con problemi storici. Accade, nel caso di assetti fisici o biologici, geologici o di altro ordine, che la durata del regime sub specie del quale li conosciamo sia talmente estesa da togliere ogni rilievo pratico alla loro natura storica dal punto di vista dello studio che ne facciamo. L’aspetto istituzionale, strutturale appare allora nettamente prevalente e le relative scienze assumono, a tutto buon diritto, quel carattere «nomotetico», che è stato spesso opposto, come elemento fra loro discriminante, al carattere «idiografico» della conoscenza storica: le scienze fisiche, naturali ecc. guardano ai casi generali e ricorrenti e alle forme strutturali dei loro oggetti di studio e tendono a enunciare, al riguardo, leggi e principi rigorosi; le discipline storiche si interessano a casi singoli, irripetibili e tendono a descriverli nella loro individuante specificità. Checchè si voglia pensare di questa distinzione, sta di fatto che essa può valere solo se e in quanto si astrae dal carattere storico della «natura» quale sopra è stato illustrato. In realtà, poi, a questo carattere storico non si può, in ultima analisi, sfuggire. Perciò, qualsiasi sistemazione nomotetica (per dire tutto con una sola parola) in qualsiasi ramo dello scibile è convertibile in ordine idiografico: sull’orizzonte delle scienze dei corpi e delle cose, vicinissimo o lontanissimo, si staglia sempre il profilo  delle scienze della storia dei corpi e delle cose, e sono queste seconde il sovrano legittimo del campo che le prime, giustificatamente, per intanto possono occupare. Ciò è vero, contro ogni avversa apparenza, anche per le scienze matematiche. Le si consideri dedotte dalla considerazione astratta di aspetti o forme della realtà o le si consideri un’autonoma e soggettiva elaborazione dello spirito umano, esse non hanno fatto altro nella loro lunga storia che ampliare, modificandole anche in modo sostanziale, le nozioni elementari e primitive dell’aritmetica e della geometria: il numero e il calcolo, le linee e i volumi della fine del secolo XX non sono soltanto più complessi, sono anche in certo qual modo «altri» da quelli di trenta secoli prima.»: Giuseppe Galasso, Nient’altro che storia. Saggi di teoria e metodologia della storia, Bologna, Il Mulino, 2000, pp. 168-172. E ribadisce sempre in Nient’altro che storia: «Da questo punto di vista il rapporto tra storia e filosofia è destinato a riemergere sempre come un problema centrale di ogni metodologia storica, al di là di quelle che sono le occasionali congiunture di distacco fra le due attività e al di là delle periodiche, salutari e reciproche rivolte. Nella società contemporanea, in un periodo di profonda trasformazione, la storiografia ha fatto appello alle scienze sociali per riempire un vuoto, che costituisce esso stesso, come si è detto, un importante fatto storico. La risposta è stata oltremodo generosa e ha consentito un arricchimento delle procedure storiche proprio negli anni delle vacche magre, quando allo storico è venuto a mancare il suo tradizionale quadro di riferimento. Il dovere dello storico è quello di rivelarsi largamente ingrato verso le generose donatrici, conservandone i doni e utilizzandoli in un diverso e più sicuro e scaltrito rapporto con il proprio orizzonte umanistico53. [Nota 53 di p. 237 di Giuseppe Galasso, Nient’altro che storia, cit.: «L’espressione «orizzonte umanistico della storiografia» non dovrebbe essere fonte di equivoco, se si tiene fermo che gli oggetti della «scienza» storica non hanno limitazioni di campo e che la storicità non è definita da un tipo di contenuti, ma dall’impiego di categorie, come quelle di mutamento e successo, di cui si parla nel testo. Anche di recente è stato opportunamente sottolineato che, dal punto di vista storico,  «il nostro atteggiamento è esattamente lo stesso, così dinanzi agli avvenimenti umani come dinanzi agli avvenimenti naturali: ciò che solo ci interessa è la loro specificità» (Veyne, Come si scrive la storia, cit., p. 109). E il Croce, in pagine che si ha il torto di non tenere mai abbastanza presenti, negò energicamente che vi potesse essere «una “storia della natura”, la quale, pur essendo storia, ubbidirebbe stranamente a leggi diverse da quelle dell’unica storia» (Teoria e storia della storiografia, cit., p. 109); o che si potesse «restringere la storia al campo umano, che sarebbe conoscibile, e dichiarare tutto il resto metastoria e limite della conoscenza umana» (p. 122). L’affermazione della storicità dei processi naturali (che è il succo della tesi crociana circa la «risoluzione del concetto realistico di “natura” in quello idealistico di “costruzione” che lo spirito fa della realtà», p. 122) risponde, del resto, pienamente alla tendenza di fondo di tutta la scienza contemporanea. Si veda il semplice, ma lucidissimo cenno introduttivo di B. Russell, Storia della filosofia occidentale, trad. it. Milano, 1958, pp. 1207-1208,  alla cui risoluzione della «materia» in una «serie di avvenimenti» sembra in un certo qual modo, e magari inconsapevolmente, arieggiare la risoluzione dei «fatti» storici in «intrecci» da parte del Veyne, Come si scrive la storia, cit., p. 59.»]. Detto in altri termini, la disideologizzazione contratta dalla storiografia nel rapporto con le scienze sociali dev’essere trascesa, senza che nulla vada perduto delle acquisizioni nel frattempo conseguite, in una nuova capacità di storicizzazione, insieme più ampia e più profonda, che esalti ulteriormente la dimensione prospettica propria della storiografia. Solo così quest’ultima potrà evitare di rimanere chiusa nel dilemma che Adorno evidenziava per la stessa sociologia, quando notava che la «la sociologia, non filosofica si rassegna a una pura descrizione prescientifica di ciò che è il dato di fatto e che, privo di riferimenti col concetto dal quale viene mediato, rimane facciata, apparenza, insomma non vero» mentre, d’altra parte,  «la sociologia, per rendere giustizia a quell’idea di scienza cui si è subordinata fin dalle sue origini e che è indissolubilmente legata alla parola positivismo, deve di necessità emanciparsi dalla filosofia»54. [Nota 54 di p. 238 di Giuseppe Galasso, Nient’altro che storia, cit.: «Adorno, in La sociologia nel suo contenuto sociale, cit., p. 255.»]. Solo che questo dilemma, benché stringente, si è rivelato per la sociologia piuttosto fecondo che letale, mentre per la storia non è detto che possa accadere altrettanto, se è vero che storicizzare significa giudicare (sia pure senza emettere sentenze di condanna o di assoluzione) e che giudicare non si può senza la mediazione del concetto55. [Nota 55 di p. 238 di Giuseppe Galasso, Nient’altro che storia, cit.: «Ciò è sostanzialmente valido sia che si adotti il piano di una  «logica del ragionamento», sia che si adotti il piano  di una «logica dell’argomentazione», sia che ci si riferisca alla realtà, sia che ci si riferisca al significato; sia che ci si muova nell’ambito di una metodologia positivo-materialistica, sia che ci si muova nell’ambito dialettico-materialistico.»]. Forse questa affermazione apparirà più chiara, se si fa presente che il giudizio storico è fondato su categorie estremamente determinate come quelle del mutamento e del successo. La storicizzazione piena consiste appunto nellaindividuazione di un mutamento e nella qualificazione dell’orientamento di esso. È questo il problema fondamentale che sta alla base di ogni ricerca storica. Le società immobili e pietrificate esistono solo nelle ipotesi di alcuni antropologi. A dissolvere ogni fondatezza di simili ipotesi basterà ricordare che per lo storico non può avere importanza la lunghezza dei tempi entro i quali il mutamento si produce, minima o massima che essa sia. Le diversità del ritmo del tempo storico sono un presupposto ovvio della considerazione storiografica. Gli europei dell’Ottocento consideravano immobile attraverso i millenni la società cinese e la contrapponevano, come modello di immobilità storica appunto, al dinamismo della loro storia. Cattaneo protestava con energia contro questa veramente indebita ipostasi, e la liquidava in poche righe degne di quel grande storico che egli era56. [Nota 56 di p. 239 di Giuseppe Galasso, Nient’altro che storia, cit.: «Lo scritto di C. Cattaneo, La China antica e moderna, è ora nei suoi Scritti storici e geografici, a cura di G. Salvemini e E. Sestan, Firenze, 1967, pp. 130 ss.; e certamente si tratta del documento di una mente storica di eccezionale sensibilità e profondità. Per il suo valore pedagogico dovrebbe far testo. Che poi l’esame del caso cinese (come di quello indiano) serva al Cattaneo come esempio di una sorta di sociologia storica del fenomeno della decadenza (cfr. ibidem, p. 131) è un altro discorso. Per quanto è detto qui cfr. in particolare pp. 162-163.»]. Lo stesso si potrebbe fare, mutata la scala dei tempi, per qualsiasi civiltà57. [Nota 57 di p. 239 di Giuseppe Galasso, Nient’altro che storia, cit.: «Forse, almeno da un punto di vista sintomatico, nulla potrebbe meglio confermare ciò quanto le pagine dedicate da C. Lévi-Strauss (Antropologia Strutturale, trad. it. Milano, 1966, pp. 119 ss.) al concetto di arcaismo in etnologia. La conclusione, rigorosamente e positivamente ragionata, è che anche le società «che potrebbero sembrare le più autenticamente arcaiche sono contorte per discordanze in cui, inequivocabile, si scopre il segno dell’avvenimento» (corsivo dell’A., p. 137).»]. L’etnologia, o studio delle cosiddette società primitive, se non si esaurisce in una etnografia, per quanto complessa e articolatamente strutturata questa possa essere, è una disciplina storica né più né meno di quanto lo è l’archeologia58. [Nota 58 di p. 239 di Giuseppe Galasso, Nient’altro che storia, cit.: «Proprio per la dimostrazione di ciò è particolarmente significativa, nell’ambito della cultura italiana, la vicenda intellettuale di Ernesto De Martino, per cui si veda G. Galasso, Croce, Gramsci e altri storici, Milano, 1969.»].»: Ivi, pp. 235-239. Ora che abbiamo mostrato come Galasso (con Croce) sottolinea, sulla scorta di una impostazione storicistica di solido impianto hegeliano, «la  storicità dei processi naturali (che è il succo della tesi crociana circa la «risoluzione del concetto realistico di “natura” in quello idealistico di “costruzione” che lo spirito fa della realtà», p. 122) [e che] risponde, del resto, pienamente alla tendenza di fondo di tutta la scienza contemporanea.» (e noi, integrando il riferimento alla «storicità dei processi naturali» in cui Galasso implicitamente si riferisce alla teoria evoluzionistica ed esplicitamente alla termodinamica, aggiungiamo  anche la meccanica quantistica, nella quale non solo la presenza o meno dell’osservazione-osservatore nella storia dell’evento sperimentale incide – ed altera – il fenomeno stesso posto sotto osservazione ma che, rispetto alla termodinamica, presenta anche il vantaggio molto dialettico di non legare questa storicità ad un flusso unidirezionale del tempo, vedi l’esperimento della doppia fenditura, cfr., infra, nota seguente, ma al di là di questo appunto Galasso è veramente impareggiabile nel delineare il suo schema di storicità della conoscenza in cui le scienze nomotetiche indirizzate allo studio dei fenomeni fisico-naturali sono, appunto, nomotetiche solo perché questi fenomeni non vengono studiati nella loro genesi e genealogia originarie obbligatoriamente legate alla dimensione evolutivo-temporale; e analogamente noi  affermiamo che il paradigma esplicativo olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale per certe scienze, quelle fisico-naturali – e nemmeno in tutti i loro aspetti, perché, come abbiamo già detto, la meccanica quantistica è fisica intrinsecamente storico-storicistica – richiede una proiezione probativa estesa per eoni, in mancanza della quale strategicamente e provvisoriamente ci si accontenta di spiegazioni di natura nomotetica) vediamo come analogamente sul medesimo punto argomenta il Dialectical Biologist: «There are, of course, physical constants like the mass of the electron, the speed of light, and Planck’s constant, which we regard as fixed and insensitive to the systems of which they are a part. Yet their constancy is not a law derived from yet other, more primitive principles, but an assumption. We do not, in fact, know that “the” mass of “the” electron has been the same since the beginning of matter nor, even if it has been so constant, that its value is not an accident of the history of matter. Whether such values are indeed changing and, if they are, at what rate, is a contingent question, not to be answered from principle. The difference between the reductionist and the dialectician is that the former regards constancy as the normal condition, to be proven otherwise, while the latter expects change but accepts apparent constancy. Not only do parameters change in response to changes in the system of which they are a part, but the laws of transformation themselves change. In the alienated world view, entities may change as a consequence of developmental forces, but the forces themselves remain constant or change autonomously as a result of intrinsic developmental properties. In fact, however, the entities that are the objects of laws of transformation become subjects that change these laws. Systems destroy the conditions that brought them about in the first place and create the possibilities of new transformations that did not previously exist. The law that all life arises from life was enacted only about a billion years ago. Life originally arose from inanimate matter, but that origination made its continued occurrence impossible, because living organisms consume the complex organic molecules needed to recreate life de novo. Moreover, the reducing atmosphere that existed before the beginning of life has been converted, by living organisms themselves, to one that is rich in reactive oxygen. The change that is characteristic of systems arises from both internal and external relations. The internal heterogeneity of a system may produce a dynamic instability that results in internal development. At the same time the system as a whole is developing in relation to the external world, which influences and is influenced by that development. Thus internal and external forces affect each other and the object, which is the nexus of those forces. Classical biology, which is to say alienated biology, has always separated the internal and external forces operating in organisms, holding one constant while considering the other. Thus embryology has always emphasized the development of an organism as a consequence of internal forces, irrespective of the environment. At most the environment is regarded as a signal that sets the interior developmental forces going. Developmental biology is consumed with the problem of how the genes determine the organism. On the other hand, evolutionary biology, at least as practiced in Anglo-Saxon countries, is obsessed with the problem of the organism’s adaptation to the external world and assumes without question that any favorable alteration in the organism is available by mutation. There is abundant evidence, however, that the ontogeny of an individual is a function of both its genes and the environment in which it develops. Moreover, it is certainly the case that no tetrapc.1 [sic!, prob. tetrapod] has ever, no

matter what selective forces are involved, succeeded in acquiring wings without giving up a pair of limbs. The separation of the external and internal forces of development is a characteristic of alienated biology that must be overcome if the problems of either embryology or evolution are to be solved. The assertion that all objects are internally heterogeneous leads us in two directions. The first is the claim that there is no basement. This is not an a priori imposition on nature but a generalization from experience: all previously proposed undecomposable “basic units” have so far turned out to be decomposable, and the decomposition has opened up new domains for investigation and practice. Therefore the proposition that there is no basement has proven to be a better guide to understanding the world than its opposite. Furthermore, the assertion that there is no basement argues for the legitimacy of investigating each level of organization without having to search for fundamental units. A second consequence of the heterogeneity of all objects is that it directs us toward the explanation of change in terms of the opposing processes united within that object. Heterogeneity is not merely diversity: the parts or processes confront each other as opposites, conditional on the whole of which they are parts. For example, in the predator-prey system of lemmings and owls, the two species are opposite poles of the process, predation simultaneously determining the death rate of lemmings and the birth rate of owls. It is not that lemmings are the opposite of owls in some ontological sense, or that lemmings imply owls or couldn’t exist without owls. But within the context of this particular ecosystem, their interaction helps to drive the population dynamics, which shows a spectacular fluctuation of numbers. What characterizes the dialectical world, in all its aspects, as we have described it is that it is constantly in motion. Constants become variables, causes become effects, and systems develop, destroying the conditions that gave rise to them. Even elements that appear to be stable are in a dynamic equilibrium of forces that can suddenly become unbalanced, as when a dull gray lump of metal of a critical size becomes a fireball brighter than a thousand suns. Yet the motion is not unconstrained and uniform. Organisms develop and differentiate, then die and disintegrate. Species arise but inevitably become extinct. Even in the simple physical world we know of no uniform motion. Even the earth rotating on its axis has slowed down in geologic time. The development of systems through time, then, seems to be the consequence of opposing forces and opposing motions. This appearance of opposing forces has given rise to the most debated and difficult, yet the most central, concept in dialectical thought, the principle of contradiction. For some, contradiction is an epistemic principle only. It describes how we come to understand the world by a history of antithetical theories that, in contradiction to each other and in contradiction to observed phenomena, lead to a new view of nature. Kuhn’s (1962) theory of scientific revolution has some of this flavor of continual contradiction and resolution, giving way to new contradiction. For others, contradiction is not only epistemic but political as well, the contradiction between classes being the motive power of history. Thus contradiction becomes an ontological property at least of human social existence. For us, contradiction is not only epistemic and political, but ontological in the broadest sense. Contradictions between forces are everywhere in nature, not only in human social institutions. This tradition of dialectics goes back to Engels (1880) who wrote, in Dialectics of Nature, that “to me there could be no question of building the laws of dialectics of nature, but of discovering them in it and evolving them from it.” Engels’s understanding of the physical world was, of course, a nineteenth-century understanding, and much of what he wrote about it seems quaint. Moreover, dialecticians have repeatedly attempted to make the identification of contradictions in nature a central feature of science, as if all scientific problems are solved when the contradictions have been revealed. Yet neither Engels’ factual errors nor the rigidity of idealist dialectics changes the fact that opposing forces lie at the base of the evolving physical and biological world. Things change because of the actions of opposing forces on them, and things are the way they are because of the temporary balance of opposing forces. In the early days of biology an inertial view prevailed: nerve cells were at rest until stimulated by other nerve cells and ultimately by sensory excitation. Genes acted if the raw materials for their activity were present; otherwise they were quiescent. Gene frequencies in a population remained static in the absence of selection, mutation, random drift, or immigration. Nature was at equilibrium unless perturbed. Later it was recognized that nerve impulses act both to excite and to inhibit the firing of other nerves, so the state of a system depends on the network of opposing stimuli, and that network can generate spontaneous activity. Gene action is regulated by repressors, repressors of the repressors, and all sorts of active feedbacks in the cell. There are no genetic loci immune to mutation and random drift, and no populations are free of selection. The dialectical view insists that persistence and equilibrium are not the natural state of things but require explanation, which must be sought in the actions of the opposing forces. The conditions under which the opposing forces balance and the system as a whole is in stable equilibrium are quite special. They require the simultaneous satisfaction of as many mathematical relations as there are variables in the system, usually expressed as inequalities among the parameters of that system. If these parameters remain within the prescribed limits, then external events producing small shifts among the variables will be erased by the self-regulating processes of stable systems. Thus in humans the level of blood sugar is regulated by the rate at which sugar is released into the blood by the digestion of carbohydrates, the rate at which stored glycogen, fat, or protein is converted into sugar, and the rate at which sugar is removed and utilized. Normally, if the blood sugar level rises, then the rate of utilization is increased by release of more insulin from the pancreas. If the level of blood sugar falls, more sugar is released into the blood, or the person gets hungry and eats some source of sugar. The result is that the blood sugar level is kept not constant but within tolerable limits. So far we are dealing with the familiar patterns of homeostasis, the negative feedback that characterizes all self regulation. However, the pancreas might respond weakly to a high sugar level, which could result in diabetic coma. Or the blood sugar level may fall so low that the person is incapable of eating. The opposing forces are seen as contradictory in the sense that each taken separately would have opposite effects, and their joint action may be different from the result of either acting alone. So far, the object may seem to be the passive victim of these opposing forces. However, the principle that all things are internally heterogeneous directs our attention to the opposing processes at work within the object. These opposing processes can now be seen as part of the self-regulation and development of the object. The relations among the stabilizing and destabilizing processes become themselves the objects of interest, and the original object is seen as a system, a network of positive and negative feedbacks. The negative feedbacks are the more familiar ones. If blood pressure rises, sensors in the kidney detect the rise and set in motion the processes which reduce blood pressure. If more of a commodity is produced than can be sold, prices fall, and the surplus is sold cheaply while production is cut back; if there is a shortage, prices rise, and that stimulates production. Or if a baby cries, this tells the responsible adult that something is wrong, and he or she initiates action to remove the cause of discomfort and stop the crying. In each case a particular state of the system – high blood pressure, overproduction, crying – is self-negating in that within the context of the system an increase in something initiates processes that leads to its decrease. But systems also contain positive feedback: high blood pressure may damage the pressure-measuring structures, so that blood pressure is underestimated and the homeostatic mechanisms themselves increase the pressure; overproduction may lead to cutbacks in employment, which reduce purchasing power and therefore increase the relative surplus; the crying of the baby may evoke anger, and the abuse of the child can then result in more crying. Real systems include pathways for both positive and negative feedback. Negative feedbacks are a prerequisite for stability: the persistence of a system requires self-negating pathways. But negative feedback is no guarantee of stability and under some circumstances can throw the system into oscillation. If there is a preponderance of positive feedback or if the indirect negative feedbacks by way of intervening variables are strong enough, the system will be unstable. That is, its own condition is sufficient cause of its negation. Thus systems are either self-negating (state A leads to some state not-A) or depend for their persistence on self-negating processes. We see contradiction first of all as self-negation. From this perspective it is not too different from logical contradiction. In formal logic process is usually replaced by static set-structural relations, and the dynamic of “A leads to B” is replaced by “A implies B.” But all real reasoning takes place in time, and the classical logical paradoxes can be seen as A leads to not-A leads to A, and so on. For instance, consider Russell’s paradoxical barber who shaves any and all men who do not shave themselves. If we assume that the barber shaves himself, then he belongs to the set of those he does not shave. Therefore, he is eligible to be a shaver by himself, and so we go round and round, as each affirmation is in turn negated. (Logicians would exclude the feminist solution that the barber is a woman and does not shave herself.) Material and logical contradiction share the property of being self-negating processes.  The stability or persistence of a system depends on a particular balance of positive and negative feedbacks, on parameters governing the rates of processes falling within certain limits. But these parameters, although treated in mathematical models as constants, are real-world objects that are themselves subject to change. Eventually some of these parameters will cross the threshold beyond which the original system can no longer persist as it was. The equilibrium is broken. The system may go into wider and wider fluctuations and break down, or the parts themselves, which have meaning only within a particular whole, may lose their identity as parts and give rise to a qualitatively new system. Further, the changes in the parameters may be a consequence of the stable behavior of the system that they condition in the first place. As a result of the cycle of over-and underproduction, businesses fail, firms merge and expand, a permanent body of unemployed people is created, and political struggles culminate in the replacement of the capitalist system with its whole dynamic. If predator and prey are in demographic balance, this may hide the prey’s evolution toward better predator avoidance, thus eventually resulting in the extinction of the predator; or the predator’s efficiency at hunting may evolve beyond the threshold compatible with the survival of the prey, and both become extinct. The dialectical model suggests that no system is really completely static, although some aspects of a system may be in equilibrium. The quantitative changes that take place within the apparent stability cross thresholds beyond which the qualitative behavior ;s [sic!, prob. is] transformed. All systems are in the long run self-negating, while their short-term persistence depends on internal self-negating states. The dialectical viewpoint sees dynamical stability as a rather special situation that must be accounted for. Systems of any complexity – the central nervous system, the national and world capitalist economies, ecosystems, the physiological networks of organisms – are more likely to be dynamically unstable. Even systems designed explicitly to be stable, such as nuclear power plants, have shown a remarkable propensity to behave in unplanned ways. The important point here is that complex systems show spontaneous activity. Each of these systems responds to events from outside, but it is not necessary to look to external sources for the causes of movement. The capitalist business cycle does not depend on sunspots. Political “unrest” is not explained by outside agitators. Changing abundance of species is not evidence of human impact on the environment. And it is becoming increasingly apparent that the prevention of change in wildlife management, environmental protection, or society is, in the long run, an impossible goal. Self-negation is not simply an abstract possibility derived from arguments about the universality of change. We observe it regularly in nature and society. Monopoly arises not as a result of the thwarting of “free enterprise” but as a consequence of its success: hence the futility of antitrust legislation. The freeing of serfs from feudal ties to the land also meant the possibility of their eviction from the land; freedom of the press has increasingly meant the freedom of the owners of the press to control information. The self-negating processes of capitalism are often expressed as ironic commentaries, as the realization of ideal goals turns out to thwart their original intent. Sometimes this self-negation is the consequence of quantitative changes that cross a threshold. For instance, at one time the Polish government established a policy of subsidizing the price of bread at a fixed level in order to guarantee the basic food supply. As inflation developed, the gap between the subsidized price of bread and the prices of other goods widened until one morning Warsaw was without bread: farmers had discovered that it was cheaper to buy bread to feed their livestock than to grow feed: the very mechanisms designed to guarantee the urban bread supply were turned into their opposite. A second aspect of contradiction is the interpenetration of seemingly mutually exclusive categories. A necessary step in theoretical work is to make distinctions. But whenever we divide something into mutually exclusive and jointly all-encompassing categories, it turns out on further examination that these opposites interpenetrate. In Chapter 3 we examined the interpenetration of organism and environment. Here we note briefly several more examples. At first glance, “deterministic” and “random” processes seem to exemplify mutually exclusive categories. Many trees have been sacrificed to the cause of printing debates about whether the world, or species aggregates, or evolution, is deterministic or random. (The deterministic side implying order and regularity, the stochastic side implying absence of system or explanation). In the first place, however, completely deterministic processes can generate apparently random processes. In fact, the random numbers used for computer stimulation of random process are generated by deterministic processes (algebraic operations). Recently, mathematicians have become interested in so-called chaotic motion, which leads neither to equilibrium nor to regular period motion but rather to patterns that look random. In systems of high complexity the likelihood of stable equilibrium may be quite small unless the system was explicitly designed for stability. The more common outcome is chaotic motion (turbulence) or periodic motion with periods so long as never to repeat during even long intervals of observations, thus also appearing as random. Second, random processes may have deterministic results. This is the basis for predictions about the number of traffic accidents or for actuarial tables. A random process results in some frequency distribution of outcomes. The frequency distribution itself is determined by some parameters, and changes in these parameters have completely determined effects on the distribution. Thus the distribution as an object of study is deterministic even though it is the product of random events. Third, near thresholds separating domains of very different qualitative behaviors, a small displacement can have a big effect. If these small displacements arise from lower levels of organization, they will be unpredictable from the perspective of the higher level. And in general the intrusion of events from one level to another appears as randomness. Finally, the interaction of random and deterministic processes gives results in evolution that are different from the consequence of either type of process acting alone. In Sewall Wright’s model, selection alone would lead all local populations to the same gene frequencies, so no selection among populations would be possible. The random drift that arises from small numbers within each population would result in the nonadaptive fixation of genes. The joint effect, however, is to allow variation among local populations, which provides the variability for new cycles of selection in different directions. People have long known that random search can be an important part of adaptive processes, the trial and error procedure leading to desired results by unexpected paths. Similarly, the dichotomy between equilibrium and nonequilibrium systems is not absolute. When ecologists realized that nature changes, there was a rush to abandon equilibrium analysis as unrealistic. However, it is not at all obvious that a changing system is not also in equilibrium. The proportions of various ionic forms of phosphorus in a lake reach equilibrium in seconds, even though the total amount of phosphorus may change. Algae populations may equilibrate with the mineral level, which itself changes, changing the algae. Phenomena that are very much slower than those of interest can be treated provisionally as constant, while those that are very much faster can be treated as if already at equilibrium. In the long run it is important to see equilibrium as a form of motion rather than as its polar opposite. Our conclusion, borne out by the history of our science, is that such dichotomies are both necessary and misleading and that there is no nontrivial and complet [sic!, prob. complete] decomposition of phenomena into mutually exclusive categories. Contradiction also means the coexistence of opposing principles (rather than processes) which, taken together, have very different implications or consequences then they would have if taken separately. Commodities embody the contradiction between use value and exchange value (reflected indirectly in price). If objects were produced simply because they met human needs, we would expect the more useful things to be produced before less useful things, and we would expect objects and methods of production to be designed to minimize any harm or danger and maximize durability or reparability. The amounts produced would correspond to the levels of need; any decline in need would allow either more leisure or the production of other objects. If objects had no use value at all, of course, they couldn’t be sold; use value makes exchange value possible. But the prospect of exchange value leads to results that often contradict the human needs that called forth the commodities in the first place. Commodities will be produced, for example, only for those who can afford them, and priority will be given to the production of those commodities with the highest profit margins. Productive innovations which make commodities easier and cheaper to make may create unemployment or ill health for workers and consumers. Thus the process of supplying human needs by the creation of commodities whose exchange value is paramount actually creates new hardship. A single proposition may have opposing implications. Consider, for example, the statement that more than half the population of Puerto Rico receives food stamps. This serves as a basis both for the party in power to justify the continuation of American rule and for the opposition to criticize that rule. On the one hand, eighty-six years after the United States occupied Puerto Rico, the island’s economy is more dependent and less able to support its population than before. Some $5 billion are extracted annually by United States businesses in the form of profits and interest, preventing Puerto Rico from accumulating what it needs for autonomous development. On the other hand, food stamps are not available in Honduras and the Dominican Republic. For the recipient of food stamps, the direct experience is of American benevolence. It requires an intellectual detour to perceive also that the necessity for food stamps is a result of being absorbed into the American economy, that the United States is the cause of the problem that it partly ameliorates. Much of the political conflict around the status of Puerto Rico derives from the contradictory implications of the same fact. The principles of materialist dialectics that we attempt to apply to scientific activity have implications for research strategy and educational policy as well as methodological prescriptions: Historicity. Each problem has its history in two senses: the history of the object of study (the vegetation of North America, the colonial economy, the range of Drosophila pseudoobscura) and the history of scientific thinking about the problem, a history dictated not by nature but by the ways in which our societies act on and think about nature. Once we recognize that state of the art as a social product, we are freer to look critically at the agenda of our science, its conceptual framework, and accepted methodologies, and to make conscious research choices. The history of our science must include also its philosophical orientation, which is usually only implicit in the practice of scientists and wears the disguise of common sense or scientific method. It is sure to be pointed out that the dialectical approach is ro [sic!, prob. no] less contingent historically and socially than the viewpoints we criticize, and that the dialectic must itself be analyzed dialectically. This is no embarrassment; rather, it is a necessary awareness for self-criticism. The preoccupation with process and change comes in part from our commitment to change society. An alertness to the fallacies of gradualism derives from a challenge to liberalism. An insistence on seeing things as integrated wholes reflects a belief that much of the suffering, waste, and destruction in the world today comes from the operation of patriarchal capitalism as a world system penetrating all corners of our lives rather than from a list of separable and isolatable defects. And the emphasis on the social interpretation of science comes from a political commitment to struggle for an alternative way of relating to nature and knowledge that is congruent with an alternative way of organizing society. One practical consequence of this viewpoint is that the study of the history, sociology, and philosophy of science is a necessary part of science education. Universal interconnection. As against the alienated world view that objects are isolated until proven otherwise, for us the simplest assumption is that things are connected. The ignoring of interconnections, especially across disciplinary boundaries, has been the main source of error and even disaster in complex fields of applied biology such as public health, agriculture, environmental protection, and resource management and the cause of the stagnation of theory in these areas. Therefore we urge that an early stage of any investigation should be to trace out the indirect, speculative, and even far-fetched connections among phenomena of interest and to justify any ignored connections. Heterogeneity. The internal heterogeneity of all things and all populations of things is the complementary perspective to universal connections: different things combine into greater, heterogeneous wholes. This perspective leads us to focus on quantitative and qualitative variability as objects of interest and sources of explanation. Then certain problems become especially appealing, such as the organization of phenotypic variability in plants and animals, the differentiation of classes in society, the recognition that plants which bear the same species name can be quite different to the herbivores that eat them, or that the same species may have different ecological significance in different places. When faced with an ensemble of things of any sort, we are suspicious of any apparent homogeneity. Interpenetration of opposites. The more we see distinctions in nature, and the more we subdivide and set up disjunct classes, the greater the danger of reifying these differences. Therefore, complementary to any process of subdividing is the hypothesis that there is no nontrivial and complete subdivision, that opposites interpenetrate and that this interpenetration is often critical to the behavior of the system.  Integrative levels. As against the reductionist view, which sees wholes as reducible to collections of fundamental parts, we see the various levels of organization as partly autonomous and reciprocally interacting. We must reject the molecular euphoria that has led many universities to shift biology to the study of the smallest units, dismissing population, organismic, evolutionary, and ecological studies as forms of “stamp collecting” and allowing museum collections to be neglected. But once the legitimacy of these studies is recognized, we also urge the study of the vertical relations among levels, which operate in both directions. We do not know whether or not these elements of a research and educational program will in fact result in solutions to long-standing problems of biology. Dialectical philosophers have thus far only explained science. The problem, however, is to change it.»: Richard Levins, Richard Lewontin, The Dialectical Biologist, Cambridge (MA), Harvard University Press, 1985 (Delhi, Aakar Books for South Asia, 2009), pp. 277-288 (per indicazioni di bibliografia internettiana indispensabili per consultare e scaricare il documento, si rimanda, supra, alla nota n°1 e, infra, alla nota successiva n° 16 e alla sezione finale di bibliografia internettiana di documenti reperibili sul Web sugli argomenti trattati nella presente comunicazione). Prima di arrivare a decretare la profonda assonanza di fondo fra il brano citato di Nient’altro che storia e quello del Dialectical Biologist, riteniamo però anche di una certa utilità rilevare i problemi dialettici di quest’ultimo e che sono: 1) Estrema difficoltà di individuare la natura del metodo dialettico, con conseguente riduzione della realtà esperita dall’uomo in una serie di momenti distinti e il cui unico tratto comune è l’essere continuamente  ed incessantemente in moto, anziché questa realtà essere autocreata  ex nihilo ed ex suo e messa in azione attraverso il paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale esprimente prassisticamente il rapporto generativo biderazionale fra soggetto ed oggetto («What characterizes the dialectical world, in all its aspects, as we have described it is that it is constantly in motion.»; «The dialectical viewpoint sees dynamical stability as a rather special situation that must be accounted for. Systems of any complexity – the central nervous system, the national and world capitalist economies, ecosystems, the physiological networks of organisms – are more likely to be dynamically unstable. Even systems designed explicitly to be stable, such as nuclear power plants, have shown a remarkable propensity to behave in unplanned ways.»; «Phenomena that are very much slower than those of interest can be treated provisionally as constant, while those that are very much faster can be treated as if already at equilibrium. In the long run it is important to see equilibrium as a form of motion rather than as its polar opposite. Our conclusion, borne out by the history of our science, is that such dichotomies are both necessary and misleading and that there is no nontrivial and complet [sic!, prob. complete] decomposition of phenomena into mutually exclusive categories.») ; 2) Estremo tentativo di recupero –  conseguente alla assolutamente non voluta ma de facto avvenuta nel testo del Dialectical Biologist  riduzione della realtà in momenti distaccati – di una dimensione olistica della realtà, ma tentativo che non approda a risultati soddisfacenti («Universal interconnection. As against the alienated world view that objects are isolated until proven otherwise, for us the simplest assumption is that things are connected. The ignoring of interconnections, especially across disciplinary boundaries, has been the main source of error and even disaster in complex fields of applied biology such as public health, agriculture, environmental protection, and resource management and the cause of the stagnation of theory in these areas. Therefore we urge that an early stage of any investigation should be to trace out the indirect, speculative, and even far-fetched connections among phenomena of interest and to justify any ignored connections. ») e non approda a risultati soddisfacenti perché se il Dialectical Biologist riesce a comprendere che le cose sono interconnesse non riesce a comprendere che le cose sono, cioè esistono, proprio in quanto interconnesse e, risultato di questa mancata consapevolezza sull’essenza della natura olistica della realtà –  essenza che è, lo ribadiamo, la sua continua ed incessante autocreazione ex nihilo ed ex suo  attraverso la sua dialetttica espressivo-strategica-conflittuale – abbassa la consapevolezza della interconnessione di tutte le cose a pura constatazione empirica, certamente frutto di buonsenso ma mortificante di qualsiasi altro progresso in senso dialettico, tantomeno un progresso in senso espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico; e 3) Conseguente a questa libido dialectica ma che non riesce mai a concretizzarsi in una innovativa e autonoma proposta dialettica, poco convincente – volutamente ci esprimiamo con termini non urticanti – riallacciarsi alla c.d. dialettica engelsiana con i suoi discutibili – ancora una volta decidiamo di esprimerci cortesemente visti, comunque, i grandi meriti del Dialectical Biologist – tre principi di logica dialettica (il principio della negazione della negazione, quello della conversione della quantità in qualità e quello della compenetrazione degli opposti): «Interpenetration of opposites. The more we see distinctions in nature, and the more we subdivide and set up disjunct classes, the greater the danger of reifying these differences. Therefore, complementary to any process of subdividing is the hypothesis that there is no nontrivial and complete subdivision, that opposites interpenetrate and that this interpenetration is often critical to the behavior of the system.», dove addirittura, come nel passaggio appena di nuovo evidenziato, la compenetrazione degli opposti viene visto come lo strumento conoscitivo per superare la fallace riduzione della realtà in momenti separati e distinti. Usando un termine marxiano questa scomposizione della realtà in momenti separati,  distinti e quindi ontologicamente ed epistemologicamente estranei viene definito dal Dialectical Biologist reificante, solo che, e qui apriamo velocemente a due considerazioni a latere, A) ovviamente la reificazione della realtà può essere affrontata solo all’interno del paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale, ma se facessimo solo questa considerazione potremmo essere accusati di accusare il Dialectical Biologist di non pensare come noi pensiamo e B) dal punto di vista olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico la reificazione non è affatto – o solo – uno stato negativo e disumanizzante ma, piuttosto, strettamente legato al momento strategico-conflittuale del succitato paradigma dialettico. E sulle differenze fra il conflittualismo marxiano-marxista ed il nostro di stampo machiavelliano-hegeliano abbiamo in molti altri luoghi ed anche qui più volte detto. Ma fatte tutte queste debite osservazioni critiche (attraverso le quali, qualche nostro benevolo ma attento lettore potrebbe accusarci non solo di aver voluto  imputare al Dialectical Biologist il reato di lesa maestà al paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale ma anche, in un nostro soprassalto di narcisismo, di non aver avuto nemmeno il più fioco barlume, invece di adottare la logica dialettica engelsiana, dell’unico principio logico-dialettico che agisce attraverso il suddetto paradigma e da noi individuato, e cioè il principio di non identità, già da noi rappresentato attraverso questa simbolizzazione: A A≠A A≠A ≠ A≠A A≠A ≠ A≠A≠ A≠A ≠ A≠A…↔∞↔∞), veniamo ora alla profonda assonanza del Dialectical Biologist con la visione galassiana dell’intrinseca storicità della realtà tutta e del bisogno quindi di adottare sempre un approccio storico per lo studio della stessa, anche di quella naturale-fisica, e riprendendo dalle prime parole della citazione in questa nota del Dialectical Biologist, concordiamo con Galasso e con Levins e Lewontin che «There are, of course, physical constants like the mass of the electron, the speed of light, and Planck’s constant, which we regard as fixed and insensitive to the systems of which they are a part. Yet their constancy is not a law derived from yet other, more primitive principles, but an assumption. We do not, in fact, know that “the” mass of “the” electron has been the same since the beginning of matter nor, even if it has been so constant, that its value is not an accident of the history of matter. Whether such values are indeed changing and, if they are, at what rate, is a contingent question, not to be answered from principle.» e anche se in The Dialectical Biologist il non aver messo a fuoco un convincente schema dialettico mette continuamente in crisi la dinamica del suo storicismo: «Historicity. Each problem has its history in two senses: the history of the object of study (the vegetation of North America, the colonial economy, the range of Drosophila pseudoobscura) and the history of scientific thinking about the problem, a history dictated not by nature but by the ways in which our societies act on and think about nature. Once we recognize that state of the art as a social product, we are freer to look critically at the agenda of our science, its conceptual framework, and accepted methodologies, and to make conscious research choices. The history of our science must include also its philosophical orientation, which is usually only implicit in the practice of scientists and wears the disguise of common sense or scientific method. It is sure to be pointed out that the dialectical approach is ro [sic!, prob. no] less contingent historically and socially than the viewpoints we criticize, and that the dialectic must itself be analyzed dialectically. This is no embarrassment; rather, it is a necessary awareness for self-criticism. The preoccupation with process and change comes in part from our commitment to change society. An alertness to the fallacies of gradualism derives from a challenge to liberalism. An insistence on seeing things as integrated wholes reflects a belief that much of the suffering, waste, and destruction in the world today comes from the operation of patriarchal capitalism as a world system penetrating all corners of our lives rather than from a list of separable and isolatable defects. And the emphasis on the social interpretation of science comes from a political commitment to struggle for an alternative way of relating to nature and knowledge that is congruent with an alternative way of organizing society. One practical consequence of this viewpoint is that the study of the history, sociology, and philosophy of science is a necessary part of science education.», il punto non è mai un nostro dissenso sulla storicità intrinseca della realtà ma su come questa storicità riesca concretamente ad esprimersi e quindi attraverso quale paradigma a rendersi creativamente autosufficiente ed autogenerante (ulteriore segno di questa difficoltà espressiva dialettica è il ricorso ad una sorta di visione modello ‘realtà come squilibrio incessante’ paradigma elaborato con questa formulazione da Gianfranco La Grassa – modello che il pensatore marxista di Conegliano ha cercato di coerentizzare in Gianfranco La Grassa, La realtà è “assenza”: (in squilibrio incessante), s.l., Conflitti&Strategie, 2015, anche questo saggio e pur fondamentale opera complessiva di La Grassa sintomo della medesima difficoltà espressiva della dialettica – poiché, coerentemente con una visione dinamica della realtà ma che stenta a trovare il suo ubi consistam, abbiamo già visto che il   Dialectical Biologist ha affermato che «The dialectical model suggests that no system is really completely static, although some aspects of a system may be in equilibrium. The quantitative changes that take place within the apparent stability cross thresholds beyond which the qualitative behavior ;s [sic!, prob. is] transformed. All systems are in the long run self-negating, while their short-term persistence depends on internal self-negating states. The dialectical viewpoint sees dynamical stability as a rather special situation that must be accounted for. Systems of any complexity – the central nervous system, the national and world capitalist economies, ecosystems, the physiological networks of organisms – are more likely to be dynamically unstable. Even systems designed explicitly to be stable, such as nuclear power plants, have shown a remarkable propensity to behave in unplanned ways. The important point here is that complex systems show spontaneous activity.», in questo caso impiegando i principi engelsiani della conversione della quantità in qualità e della negazione della negazione e sotto un’ottica, appunto, di un lagrassiano squilibrio incessante). Ma una volta fatta l’opzione fondamentale sulla storicità della realtà tutta, tutto il resto, in fondo, non è che un dettaglio, o, meglio, non è altro che un passaggio verso l’Epifania strategica. E il Dialectical Biologist ne costituisce un importante e dialetticamente cosciente passaggio (da mettere in antitesi con tutta la produzione della Haraway, anch’essa dialettica ma, per lo più, a sua insaputa, o, ancor meglio, con modalità espressiva mitico-fantasmagorica e totalmente incapace di esprimere, quindi, qualsiasi potenzialità autogenerativa ex nihilo ed ex suo), e che in questo caso nasce da studi biologici ma la cui genealogia trova i suoi punti fondanti negli aristotelici ζῷον πολιτικόν e ζῷον  λόγον  ἔχων, in Machiavelli, in Hegel, in Marx e nella filosofia della prassi di György Lukács, di Karl Korsch e del più grande pensatore del marxismo occidentale che risponde al nome di Antonio Gramsci (e sottolineando, fra l’altro che, specialmente in Antonio Gramsci,  la filosofia della prassi sarebbe impensabile senza gli sviluppi idealistici hegelo-fichtiani dello storicismo assoluto di Benedetto Croce e dell’ attualismo di Giovanni Gentile)  e, come oggigiorno momento di chiusura, nella dialettica prassistica espressivo-strategica-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico.

 

 

[L’ ultima nota n° 16 con la succussiva   sezione bibliografica  che concludono questa comunicazione verrano pubblicate dall’ “Italia e il Mondo”  nella quinta e conclusiva  trance del presente saggio.]

 

 

 

 

 

 

Emiliano Brancaccio, Non sarà un pranzo di gala. Crisi, catastrofe, rivoluzione, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Emiliano Brancaccio, Non sarà un pranzo di gala. Crisi, catastrofe, rivoluzione, Meltemi, Milano 2020, pp. 224, € 18,00

La globalizzazione dell’ultimo trentennio ha generato non soltanto la propria opposizione politica, ma anche, specie negli ultimi anni, una vasta letteratura critica, che insiste su uno o più caratteri negativi del processo (sociologici, religiosi, politici, economici); l’autore, economista e marxista, ne vede (prevalentemente ma non solo) la causa economica. E lo fa riandando alla legge di riproduzione e tendenza del capitale, la quale genera non sono un’ingiustizia crescente (il divario tra ricchi e poveri), ma una serie di contraddizioni che minano la sostenibilità del sistema.

La principale delle quali è “quella tra l’originaria struttura decentrata del mercato capitalistico e il progressivo accentramento dei poteri finanziari che operano in esso”; onde “la centralizzazione contribuisce ad accrescere le contraddizioni tra forze produttive e rapporti di produzione, a restringere le condizioni di riproducibilità del capitale e a moltiplicare gli inneschi della crisi. Dove poi questa tendenza possa condurci, magari verso una moderna e civile logica di piano o piuttosto verso la barbarie, è una questione che resta drammaticamente aperta”.

La centralizzazione da un lato causa polarizzazione sociale, come già scrivevano Marx ed Engels nel Manifesto del partito comunista: “Quelle che furono fino ad ora le piccole classi medie dei piccoli industriali, negozianti e rentiers, degli artigiani e dei contadini proprietarii, finiscono per discendere al livello del proletariato”. Secondo Brancaccio questa è un’opposizione all’interno del capitalismo, di guisa che “Una lotta di emancipazione dai vincoli internazionali, che venisse egemonizzata dalle sole rappresentanze di un piccolo capitalismo frammentato e in affanno, assumerebbe pressoché inesorabilmente caratteri reazionari, potenzialmente neofascisti”; peraltro il capitalismo odierno, al contrario di quello descritto da Marx ed Engels, è stato soverchiato dai suoi stessi sviluppi. Se quello accresceva lo sviluppo sociale e la sua ripartizione, quello odierno li ha persi “Il regime contemporaneo di centralizzazione, per certi versi, somiglia sempre più al vecchio feudalismo che allo scintillante capitalismo rivoluzionario delle origini”.

Il compromesso socialdemocratico (o fordista) del secolo breve era stato determinato dal freno delle guerre e del bolscevismo. Crollato il quale la legge di riproduzione e tendenza è tornata a spiegare i suoi effetti. Il tutto influisce anche sulla sovrastruttura politica, in senso negativo sui valori e istituti del liberalismo. “La tendenza alla crescita del capitale rispetto al reddito e alla centralizzazione del suo controllo in sempre meno mani non sembra compatibile con il mantenimento futuro della democrazia, della libertà, al limite della pace”; “Il moto profondo del sistema costituisce in sé una minaccia per la sopravvivenza delle istituzioni su cui si reggono le democrazie liberali contemporanee”.

Quale rimedio alla crisi l’autore propone la pianificazione collettiva “Tutta la creatività del collettivo, tutta la forza fisica e intellettuale della militanza devono riunirsi intorno a questo concetto straordinariamente fecondo”. Tuttavia, ammette Brancaccio “la logica profonda del rapporto tra piano e libertà è ancora tutta da esplorare”.

In sintesi il volume presenta analisi difficilmente contestabili, ma soluzioni assai discutibili. A partire dall’ultima: come conciliare libertà e pianificazione se la costante del (fu) socialismo reale è stata di limitare al massimo libertà e democrazia? in questo senso è facile prevedere che il relativo percorso sia una strada tutta in salita.

Quanto alle conseguenze politiche della legge di riproduzione, già un pensatore controrivoluzionario come de Bonald, in un saggio/recensione pubblicato l’anno in cui Marx nasceva (1818) valutava realisticamente le conseguenze del costituzionalismo liberale e del potere ascendente della borghesia.

Secondo il controrivoluzionario l’effetto del nuovo ordine, in particolare col voto censitario e ristretto è “la promozione di una classe essenzialmente dedita ad attività economiche, a patriziato politico”; e sotto un altro profilo, così si crea una classe con un enorme potere, perché non basata, come la vecchia noblesse sulla proprietà fondiaria, per sua natura limitata, ma sulla ricchezza mobiliare, altrettanto naturalmente senza limiti “una contraddizione di cui è toccato a noi dare l’esempio, veder gli stessi uomini che chiedono a gran voce lo spezzettamento illimitato della proprietà immobiliare, favorire con tutti i mezzi la concentrazione senza freni della proprietà mobiliare o dei capitali. L’appropriazione di terre ha per forza termine. Quella del capitale immobiliare non ce l’ha, e lo stesso affarista può far commercio di tutto il mondo” (i corsivi sono miei)”. Mentre “ grandi patrimoni immobiliari fanno inclinare lo Stato verso l’aristocrazia, le grandi ricchezze mobiliari lo portano alla democrazia; e gli arricchiti, divenuti padroni dello stato, comprano il potere a buon mercato da coloro cui vendono assai cari zucchero e caffè”. De Bonald aveva visto giusto: “far commercio di tutto il mondo” è ancora quanto con più sintesi ed efficacia descrive l’ethos del capitalismo attuale, finanziarizzato, informatizzato e uniformatore. Si noti che la critica del controrivoluzionario è rivolta più agli aspetti “istituzionali” cioè dell’organizzazione dello Stato che a quelli relativi ai diritti individuali di libertà.

Peraltro, individuava la classe (il soggetto) rivoluzionaria, “generata” dalle contraddizioni del capitalismo, ossia il proletariato. Solo che i proletari, nel senso di Marx (cioè operai dell’industria allora in espansione) se ne contano, nei paesi sviluppati, sempre meno.

A questo punto, e tenuto conto che come scriveva il filosofo di Treviri, e conferma l’autore, a essere proletarizzati, uniformizzati e, in definitiva sfruttai sono proprio quelle classi a vocazione “reazionaria”, non sarà che proprio tra queste e nella loro unione emergerà il soggetto rivoluzionario? Anche perché la sinistra “classica” pensa ad altro che a tutelare gli interessi dei lavoratori?

Il saggio, curato da Russo Spena – che ne ha scritto anche l’introduzione – è interessante; ma lo sarebbe stato ancora di più se l’autore avesse trattato l’incidenza sulla situazione odierna degli apparati amministrativi, della finanza pubblica e dell’imposizione fiscale. Tutt’altro che “neutre” (o di scarsa rilevanza) rispetto alle contraddizioni ed ai conflitti già in atto e che ci aspettano, anzi coadiuvanti la concentrazione di ricchezza e la “riduzione” dello Stato sociale.

In attesa e nella speranza di un altro saggio che ne tratti, consigliamo la lettura di questo.

Teodoro Klitsche de la Grange

POPOLO VS. DEMOCRAZIA, di Teodoro Klitsche de la Grange

POPOLO VS. DEMOCRAZIA

L’“insorgenza” del 6 gennaio a Washington ripropone una questione sui poteri del popolo in una democrazia.

Problema antico. Già Tucidide nel riportare il celebre discorso di Pericle per i caduti della guerra del Peloponneso, narra che il demagogo fa un elenco di diritti, doveri, funzioni e sul modo in cui il “popolo” ateniese le esercita, per connotare il concetto di democrazia dell’Atene di (circa) duemilacinquecento anni fa: la democrazia ha tale nome – diceva Pericle “perché la città è affidata non a una oligarchia, ma a una più vasta cerchia di cittadini; le leggi sono uguali per tutti (isonomia); tutti hanno diritto di esercitare le cariche pubbliche (accesso); la povertà non è un limite a ciò”. La difesa di tutti (la guerra) è dovere di ogni cittadino; morire in guerra rivela il valore dell’uomo1.

Così Polibio, evidenziando l’elemento democratico della Costituzione romana (repubblicana) ne elencava i poteri esercitati dal popolo2.

Cosa succede quando è introdotto il concetto di sovrano? Bodin riferendosi al sovrano (per un francese del ‘500, il re), ne delinea due connotati decisivi: che il sovrano è tale perché la sua volontà non dipende da altri e perché è sopra il diritto, almeno nel caso d’eccezione. Nella situazione eccezionale il sovrano decide se e come infrangere il diritto, vigente in quella normale. Poi elenca i poteri che competono al sovrano per essere tale anche nei frangenti normali. Il giurista francese li denomina “les vraies marques de la souvreraineté” (nominare le alte cariche, decidere la pace e la guerra, dare la grazia e così via)3; e ritiene essere i connotati che servono ad identificare, tra gli organi pubblici, quello sovrano4.

Gli elementi decisivi (indipendenza da altri e potere non limitato dal diritto) indicati da Bodin successivamente erano spesso ripetuti. Anche Thomas Hobbes, dopo aver argomentato sulla istituzione del corpo politico – e così del Sovrano – enumerava i poteri che allo stesso competono per esercitare la funzione (di protezione), in modo simile a quanto scriveva Bodin5.

Carré de Malberg scriveva che la nozione della sovranità non ha che un significato negativo: e questa negatività è soprattutto data dalla possibilità per il sovrano di non essere obbligato a dover riconoscere volontà allo stesso superiori né limiti inderogabili6.

Max von Seydel sottolinea in particolar modo che per il concetto di Stato uno dei requisiti essenziali è d’esser “dominato da un supremo volere… lo Stato non è affatto il volere sovrano, né possiede il volere sovrano, anzi, è diverso da esso. Il volere sovrano è sopra lo Stato, e la soggezione ad esso dà al territorio e al popolo la qualità di Stato7. Onde è un errore logico confondere dominatore e dominato, concepirlo come da von Stein quale “tutto unico, come risultante dell’oggetto del dominio (Stato) e dell’investito del dominio. Quest’ultimo concetto si trova del resto già in Grozio: Imperium, quod in rege ut in capite, in populo manet ut in toto, cuius pars est caput. E questo è erroneo per ciò, che il sovrano essendo quello che effettua l’unità, non può esso stesso insieme con lo Stato formare l’unità”. Ne consegue che “Il volere sovrano è quindi sempre un volere sopra lo Stato, non un volere dello Stato, e nel disconoscimento di questo rapporto sta l’errore di rappresentare lo Stato come personalità”. D’altra parte nella rivoluzione francese Sieyès aveva già collegato il sovrano alla volontà assoluta, creatrice di forme politiche: il pouvoir constituant, dove il rapporto tra volontà nazionale e diritto costituito corrisponde a quello che avrebbe, circa un secolo dopo (della sovranità), scritto von Seydel «“La nazione – scrive infatti Sieyès – è preesistente a tutto, è l’origine di tutto. La sua volontà è sempre conforme alla legge, è la legge stessa. Prima e sopra di essa non c’è che il diritto naturale”. Poco più avanti prosegue: “Sarebbe ridicolo supporre la nazione vincolata anch’essa dalle modalità e dalla Costituzione cui ha assoggettato i propri mandatari. Se per diventare una nazione le fosse stata necessaria una forma positiva essa non sarebbe diritto naturale […]. La nazione è tutto ciò che è in grado di essere per il solo fatto di esistere. Non dipende dalla sua volontà attribuirsi più diritti di quanti ne abbia […]. Alla volontà nazionale basta (invece) soltanto la propria realtà per essere sempre legittima. Essa è la fonte di ogni legalità8.

Con questo, l’abate confermava e sviluppava quanto scriveva Rousseau che “Il Sovrano, per il solo fatto di essere, è sempre tutto ciò che deve essere9

Tuttavia, quale conseguenza del dominio sullo Stato, il Sovrano esercita un’attività nello Stato: legislazione, amministrazione, giurisdizione sono le branche (i poteri costituiti) in cui si articola (e si esercita) la sovranità attraverso decisioni e nomine.

Anche Carl Schmitt distingue il popolo “davanti” e “al di sopra” della Costituzione e il popolo “entro” la Costituzione nell’esercizio dei poteri regolati con leggi costituzionali10.

Senza voler ripetere quel che è affermato da tanti, è necessario ricordare che, se pure il concetto di sovrano è stato per così dire spersonalizzato, in particolare nella formula della sovranità dello Stato, è sempre esistita l’opinione che il popolo abbia, quanto meno laddove eserciti il pouvoir constituant, il potere di fare tutto, perché è “ciò che deve essere per il solo fatto di esistere”: e ciò anche per creare, modificare, trasformare la forma politica (Sieyès). Accanto al popolo che elegge, vota ai referendum, esercita l’iniziativa legislativa popolare, esiste un popolo sovrano perché sovrasta l’ordinamento. Ossia che è potere costituente, e non solo partecipazione/esercizio a e di poteri costituiti.

Il problema è come il popolo possa agire se non è potere costituito “in forma”. Scrive Matteucci a tale proposito che “il potere costituente del popolo conosce ormai consolidate procedure (assemblee ad hoc, ratifiche attraverso un referendum), capaci di garantire che il nuovo ordine corrisponda alla volontà popolare…il potere costituente del popolo è una sintesi di potere e diritto, di essere e dover essere, di azione e consenso, perché basa la creazione della nuova società sul iuris consensu11. Al contrario di tanti, lo studioso scomparso non vede nel potere costituente del popolo una negazione della democrazia ma, a determinate condizioni, la sua espressione culminante. Va da se che la contraria opinione non spiega la trasformazione (di fatto) dell’ordinamento e, al limite, finisce anche per contestarne il carattere democratico, pur se rispettoso delle procedure sì straordinarie (extra legem) ma rispettose della volontà popolare.

Accanto a queste c’è anche il carattere pubblico, sempre connesso al popolo12, e che ne fa, se riunito, una “grandezza politica”13; ma la cui disamina eccede i limiti di questo breve scritto14.

4. Limitandoci quindi al popolo dentro” la Costituzione, occorre concludere valutando quale sia la pratica “democratica” di coloro che sostengono il popolo solo come agente “in forma”, titolare della sovranità ma che la deve esercitare “nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

Quanto all’essere il popolo “al di sopra” della costituzione nelle dichiarazioni di esponenti politici e culturali dell’establishment non se ne parla se non per lanciare anatemi; sulla base (prevalente) che tale concezione è contraria alla democrazia liberale. I media mainstream, disciplinati e allineati (come l’intendenza) seguono.

Resterebbe al popolo, per essere considerato (rispettosamente) costituzionale, legalitario e disciplinato, almeno di agire “dentro” la Costituzione ad esercitare quei poteri, e determinare così coerenti comportamenti degli organi pubblici, che la Costituzione gli attribuisce.

Ma anche questo pare, ai “democratici” (anti-populisti) eccessivo e inopportuno.

Alcuni (tra i tanti esempi che si potrebbero fare) lo provano.

Quando il popolo inglese stava per votare nel referendum consultivo sulla Brexit, i commenti dei demo-globalisti erano prossimi al razzismo bio-etico: il popolo è inferiore, culturalmente, intellettualmente e moralmente e quindi non deve votare su argomenti che solo i “tecnici” (leggi le èlite) possono capire e valutare.

Il sen. Monti si distinse (pochi giorni prima che gli inglesi dessero la (decisa) delusione ai globalisti), sia per aver rimproverato duramente Cameron per aver indetto il referendum, sia per essersi rallegrato che la costituzione italiana sottraesse alla decisione popolare la materia dei trattati internazionali. Bisogna dar atto al sen. Monti di essere coerente nella vita e nelle idee: in effetti non risulta sia stato mai eletto dal popolo (quindi dal basso) né in Parlamento né altrove; ogni incarico l’ha ottenuto per nomina (dall’alto). Per cui si capisce il motivo della considerazione che nutre dei cittadini elettori.

Del pari non fu chiesto affatto agli elettori italiani nel 2011 se gradivano che il governo Berlusconi, il quale aveva ottenuto nel 2008 la maggioranza degli eletti in Parlamento, dovesse essere sostituito, come fu, dal Governo Monti, così nuovo Premier, sponsorizzato (anche) da leaders stranieri, e mai eletto, forse neppure in un condominio. Si disse (e poi si ripeté) che la fiducia “la davano i mercati”. Ma in una democrazia consenso e fiducia (non tanto in senso tecnico-parlamentare, quanto d’integrazione, consonanza, corrispondenza tra governanti e governati) devono esistere tra popolo e governo indipendentemente dai mercati. E non solo formalmente: perché formalmente il Governo Monti ebbe la fiducia del Parlamento: ma il seguito con i “flop” elettorali di qualsiasi cosa (coalizione, partito, lista) richiamasse Monti e il suo governo, ne ha sempre confermato i livelli modestissimi di gradimento.

Anche i governi successivi a quello di Monti (tranne – in parte – il Conte 1) non hanno rispettato il nesso, anche indiretto, tra decisione dei cittadini e formazione del governo. All’alba della seconda repubblica si sosteneva che la legge elettorale maggioritaria a quello (soprattutto) serviva. Il seguito della storia dimostra che non era(è) sufficiente. Comunque nessun Presidente del consiglio, da Monti in poi, è quello plebiscitato (e quindi gradito) dagli elettori. Quello che non doveva essere, o al massimo essere eccezione, è diventata la regola, una “convenzione costituzionale”. Neppure la conformità all’orientamento dell’opinione pubblica, che è, in qualche misura (anche se modesta) il surrogato dell’Agorà è stata osservata. Ad esempio il Governo Conte-bis, nato dal patto tra due partiti aventi la maggioranza parlamentare, e teoricamente la maggiormente dei suffragi dei votanti alle elezioni politiche del 2018 (circa il 20% il PD e oltre il 30% il M5S), l’aveva persa, già prima di nascere (v. elezioni europee 2019). Più che i numeri dei sondaggi (comunque registranti un consenso ai partiti di governo intorno al 40%, mentre l’opposizione di centrodestra è di circa 8-10 punti superiore) contano gli esiti delle elezioni regionali, per lo più perse dai partiti di governo, Ma la nuova situazione non ha cambiato alcunché: con la votazione di fiducia al Senato del 19 gennaio 2021 l’ultima delle preoccupazioni dell’establishment è stata lo iato tra volontà popolare da un lato e maggioranza parlamentare e governo, dall’altro. Quanto al rispetto della volontà popolare nei referendum, c’è una letteratura sulla di essa “elusione” con la legislazione sostitutiva di quella abrogata.

L’idem sentire de re publica, il consenso, la legittimità, l’integrazione sono necessari per produrre e mantenere l’unità e la capacità di agire e durare di qualsiasi regime politico. Come scriveva Smend, a proposito della costituzione “La costituzione non è semplicemente uno statuto organizzativo… Essa è nello stesso tempo un ordine vitale che comprende anche il processo di vita politico fondamentale dello Stato, in cui esso diviene reale attraverso l’inclusione continua e dinamica del singolo”; che si realizza anche attraverso diversi “processi della vita costituzionale” il cui senso è anche “stimolare il processo di vita politico, la formazione di opinioni, partiti e maggioranze, la coscienza politica complessiva, l’opinione pubblica, la realtà politica attiva della comunità in generale”15.

Smend vede una “crisi di realtà” dove venga meno l’adesione dei governati e la loro partecipazione al “gioco politico costituzionale”; questo in qualsiasi regime politico. A ratione majus in una democrazia, dove la sovranità del popolo è già nel nome (potere del popolo). Se poi nei fatti questo non c’è, non significa che perciò il popolo è governato da sofarchi, santi, angeli, oggi da tecnici, ma solo che non lo è – o non lo è abbastanza – dalla volontà popolare. Non vuol dire che c’è qualità, cultura, intelligenza al governo, ma solo che c’è maggiore ipocrisia. A decretare che un governo è capace sono i risultati non i titoli (o presunti tali). Purtroppo i risultati, ancorché mediaticamente manipolati anch’essi, hanno comunque l’handicap di poter essere giudicati solo a posteriori.

Come il suddetto governo tecnico italiano, che nato manifestando l’intenzione di ridurre il debito, è stato quello che più l’ha aumentato. Con la logica conclusione che il popolo italiano ne ha tratto in termini di consenso (a posteriori). Non avendo interpellato il popolo prima di fare il governo, questo ne ha almeno tenuto conto dopo.

In conclusione – e in termini di realismo politico, il popolo può sbagliare, come possono sbagliare i governi: l’infallibilità è un attributo del Papa (e solo se parla ex cathedra). Così come scritto nel Federalista, nei governati sono angeli, né lo sono i governanti. Quel che tuttavia è sicuro è che per aversi un governo in grado di governare, e al minor costo possibile16 è necessario che abbia (quanto più possibile) consenso e fiducia dei governati.

Cosa quanto mai difficile se i comportamenti dei governanti non sono conformi alle opinioni dei governati.

Se invece, questo non c’è, l’èlite di governo diventa un’ “isola” socio-politica17, con un solco orizzontale che la divide dal resto della comunità, rendendo difficile, un rapporto che non sia quello di mero comando/obbedienza.

Quello di cui scriveva il citato R. Smend e tanti altri. Ma un governo che si regge solo sul comando e sulla legalità delle procedure è un governo che cammina su una gamba sola: è un governo debole. Alla prima seria crisi rischia di andare all’aria. Ancor più e come gli italiani hanno potuto constatare soprattutto negli ultimi decenni, ma poche possibilità di far valere la propria volontà, ma tante di dover subire quella degli altri, poteri forti o Stati che siano. Ai quali perciò i governi deboli sono i più graditi.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 Oltre a molte altre consuetudini, di carattere sociale più che politico v. La guerra nel Peloponneso, II 35-46.

2 V. Le storie, Lib. VI, cap. 14, anche se l’elenco dello storico non è esauriente.

3 v. Six livres de la Rèpublique, I, cap. X.

4 Op. cit., trad. it, di M. Isnardi Parenti, Torino rist. 1988, p. 480.

5 v. Elements of law natural and politics, trad. it. di A. Pacchi, Firenze 1968, pp. 169 ss.; De cive trad. it. di T. Magri, Roma 1981, pp 132 ss.

6 v. R. Carré de Malberg Contribution à la théorie général de l’État, Paris 1920, Tome 1, p. 70 ss.

7 E prosegue: “Essi si chiamano Stato soltanto se sono dominati, analogamente come si chiama proprietà la cosa solo quando ha un padrone. È quindi un modo di esprimersi affatto riprovevole scientificamente quello che pone alla pari lo Stato e il volere sovrano, e attribuisce allo Stato un volere. Stato e sovrano sono diversi, così come proprietà e proprietario…”

8 I corsivi sono miei.

9 v. Du contrat social, Lib. I, cap. 7 (il corsivo è mio).

10 v. «Il popolo è, nella democrazia, soggetto del potere costituente. Secondo la concezione democratica ogni costituzione, anche nel suo elemento proprio dello Stato di diritto, si basa sulla concreta decisione politica del popolo capace di agire politicamente. Ogni costituzione democratica presuppone un simile popolo capace di agire» e subito dopo «Il popolo “entro” la costituzione nell’esercizio dei poteri regolati con legge costituzionale. Nel quadro e sulla base di una costituzione il popolo come elettorato o cittadinanza con diritto di voto può esercitare determinate competenze disciplinate con legge costituzionale» Verfassungslehre, trad. it. di A. Caracciolo, Milano 1984, p. 313.

11 Dizionario di politica voce Sovranità.

12 “Questa grandezza determinata negativamente, il popolo è nonostante la negatività della sua determinazione, non meno significativa per la vita pubblica. Popolo è un concetto che diventa esistente solo nella sfera della pubblicità. Il popolo appare solo nella pubblicità, esso produce anzi la pubblicità. Popolo e pubblicità coesistono; nessun popolo senza pubblicità e nessuna pubblicità senza popolo”, v. C. Schmitt, op. cit., p. 319.

13 “Appena il popolo è effettivamente riunito, non importa a quale scopo, purché non appaia come gruppo di interessi organizzati, press’a poco come nelle dimostrazioni di strada, nelle feste pubbliche, nei teatri, all’ippodromo o allo stadio, questo popolo acclamante è presente ed è almeno potenzialmente una grandezza politica”, C. Schmitt, op. cit., p. 320.

14 Una delle espressioni più chiare e decise della concezione “immanente” del popolo (e anche la prima, che mi risulti) è quella espressa da Thomas Müntzer nella “Confutazione ben fondata” (delle tesi di Martin Lutero). Scrive Müntzer, parlando dell’amministrazione della giustizia (sempre “in cima” alle preoccupazioni dei teorici politici, almeno fino a metà del XVI secolo): “l’intero popolo deve avere il potere della spada, il potere di legare e di sciogliere, come dice il testo di…; i principi non sono i signori ma i servitori della spada; essi non devono fare ciò che gli aggrada… ma ciò che è giusto. Perciò bisogna, secondo l’antica e buona consuetudine, che il popolo sia presente quando si giudica secondo la legge di Dio… E perché? Qualora le autorità intendessero pervertire il giudizio, allora i cristiani che le stanno intorno devono impedirlo e non tollerarlo, poiché si dovrà rendere conto a Dio del sangue innocente” v. Scritti politici pp. 192-193, Torino 1978 (il corsivo è mio) il popolo quindi controlla ed esegue. Poche righe dopo il capo della rivolta dei contadini prosegue adducendo anche un’altra ragione “i signori e i principi sono l’origine di ogni usura, d’ogni ladrocinio e rapina; essi si appropriano di tutte le creature: dei pesci dell’acqua, degli uccelli dell’aria, degli alberi della terra… E poi fanno divulgare tra i poveri il comandamento di Dio: «Non rubare». Ma questo non vale per loro. Riducono in miseria tutti gli uomini, pelano e scorticano contadini e artigiani e ogni essere vivente”. Così Müntzer esprime in modo estremista la diffidenza verso chi esercita il potere politico, tipica del pensiero politico borghese. Questo troverà una formulazione altrettanto estremista nel progetto di Costituzione giacobina (poi non approvato). Tuttavia anche il testo approvato dalla Convenzione con l’atto costituzionale del 24/06/1793 (notoriamente la Costituzione “dell’anno I” non è mai andato in vigore a causa dello stato di guerra) è pieno di affermazioni riconducibili, in diversa misura, a una concezione “estremista” delle funzioni del popolo in una democrazia. Ad esempio l’art. 26 (volontà del popolo riunito); l’art. 27 (pena di morte per gli individui usurpatori); art. 31 (delitti dei “governanti”); artt. 33-34 (diritto di resistenza); art. 35 (diritto d’insurrezione del popolo).

15 v. voce Integrazione in Costituzione e diritto Costituzionale, Milano 1988, p. 285; in effetti continua ricordando, ciò che è concezione ricorrente nella distinzione tra tipi di istituzioni: mentre molte “dispongono tuttavia di garanzie di stabilità del tutto differenti da quelle statali. Quelle comunità e associazioni vengono garantite dalla dissoluzione interna per lo più mediante poteri esterni” lo Stato, sovrano, per definizione non vi può ricorrere (altrimenti non è sovrano, ma tutt’al più un protettorato) “esso riposa in ultima istanza non sul suo diritto o sul suo potere di fatto, ma sulla sempre nuova e volontaria adesione dei suoi appartenenti; e cade nella più profonda crisi di realtà se questi cessano di sorreggerlo” (il corsivo è mio) op. cit., p. 286.

16 Intendendo costo come comprendente tutti i vari costi: politico, sociale, economico, presente, futuro.

17 Ci si riferisce alla terminologia di Christopher Lasch nel suo ben noto saggio “La ribellione delle masse”; trad. it. II ed. Milano 2009.

GLI USA ACCENTUANO LA FASE MULTICENTRICA, a cura di Luigi Longo

GLI USA ACCENTUANO LA FASE MULTICENTRICA

 

a cura di Luigi Longo

 

Suggerisco la lettura dell’interessante intervista di Michel Raimbaud, diplomatico francese, professore di relazioni internazionali al Centre d’Études Diplomatiques et Stratégiques (CEDS), rilasciata alla redazione de l’Antidiplomatico in data 22/1/2021 e pubblicata sul sito www.lantidiplomatico.it.

E’ una lucida intervista nella quale vengono messe a fuoco con chiarezza questioni importanti: le cosiddette primavere arabe, l’aggressione alla Libia e alla Siria, il ruolo degli Stati del Golfo Persico, il gioco degli agenti strategici statunitensi nei luoghi istituzionali per affermare il proprio potere, l’uso dei mass media occidentali, la funzione della Cina e della Russia.

Gli Usa, passata la farsa delle elezioni politiche, riprendono, cambiando tattica ma non strategia, l’uso della forza per contrastare il loro declino: le azioni sono ricominciate con il rafforzamento delle truppe in Siria; le provocazioni, con il primo cacciatorpediniere FDNF (Forward Deploved Naval Forces) entrato nel Mar Nero, che insieme agli interventi della Nato, non facilitano la stabilità della regione, anzi, come sostiene il ministero degli Esteri russo << […] con la loro attitudine aggressiva mostrano di volere piuttosto destabilizzare la regione.>> (1); gli attacchi mettono<< […] nel mirino la Russia e la Cina mandando i primi duri segnali alle due superpotenze rivali. Il primo è contro la repressione di Mosca delle manifestazioni a favore dell’oppositore Alexiei Navalny. Il secondo contro le “intimidazioni” cinesi a Taiwan, nel giorno in cui i bombardieri di Pechino hanno sorvolato lo spazio aereo dell’isola che il Dragone vorrebbe riportare sotto le proprie ali, dopo la stretta su Hong Kong. […] >>; le ritorsioni riprendono con le << […] nuove sanzioni sulle interferenze russe nelle elezioni, sui cyber attacchi, sull’avvelenamento di Navalny e sulla violazione dei diritti umani. >> (2).

La guerra contro la Siria, << […] “Cuore pulsante dell’Arabismo”, sede dei primi califfi, centro d’influenza dell’Islam illuminato e culla del cristianesimo, la Siria […] ha goduto grande prestigio tra arabi e musulmani.  . […] è un paese radioso per natura. Un paese prospero, indipendente, stabile, autosufficiente, che produce la maggior parte di ciò che consuma e consuma ciò che produce, un paese senza debito estero o dipendenza dal FMI e dalla Banca mondiale >>, assume una valenza strategica per il Grande Medio Oriente (3) dove si delineano sempre più i poli contrapposti tra gli Stati Uniti d’America da una parte e la Cina e la Russia dall’altra. La Siria può diventare il punto di svolta della fase multicentrica (4).

E’ l’area del Grande Medio Oriente che va egemonizzata dagli USA per rompere il formarsi del polo Cina-Russia (sempre più coordinato). Sono le due potenze mondiali che mettono in discussione l’indispensabilità unilaterale degli Sati Uniti e lottano per un mondo multicentrico.

L’Unione Europea? Non conta perché non è una nazione (espressione di una federazione delle nazioni europee), non è un soggetto politico autonomo e indipendente con una visione strategica tra Oriente e Occidente. Essa è stato un progetto pensato, realizzato e utilizzato, nella fase monocentrica, dagli Stati Uniti per le proprie strategie di dominio mondiale.

L’Italia? Una espressione geografica, al servizio degli USA e dei loro principali servitori (Germania e Francia), governata da:

 

<< Facce che lasciano intendere di sapere tutto e non dicono niente
Facce che non sanno niente e dicono di tutto
Facce suadenti e cordiali con il sorriso di plastica
Facce esperte e competenti che crollano al primo congiuntivo
Facce compiaciute e vanitose che si auto incensano come vecchie baldracche
Facce da galera che non sopportano la galera e si danno malati
Facce che dietro le belle frasi hanno un passato vergognoso da nascondere
Facce da bar che ti aggrediscono con un delirio di sputi e di idiozie
Facce megalomani da ducetti dilettanti
Facce ciniche da scuola di partito allenate ai sotterfugi e ai colpi bassi
Facce che hanno sempre la risposta pronta e non trovi mai il tempo di mandarle a fare in culo
Facce che straboccano solidarietà
Facce da mafiosi che combattono la mafia
Facce da servi intellettuali, da servi gallonati, facce da servi e basta
Facce scolpite nella pietra che con grande autorevolezza sparano cazzate
Non c’è neanche una faccia, neanche una he abbia dentro con il segno di qualsiasi ideale una faccia che ricordi il coraggio, il rigore, l’esilio, la galera.

No, c’è solo l’egoismo incontrollato, la smania di affermarsi, il potere, il denaro, l’avidità più diffusa, dentro a queste facce impotenti e assetate di potere […] >> (5).

 

 

 

NOTE

 

1.Redazione de l’Antidiplomatico, Nave da guerra USA entra nel Mar Nero vicino alla Russia, www.lantidiplomatico.it, 23/1/20121.

2.Redazione Ansa, Biden mette subito nel mirino la Russia e la Cina, www.ansa.it, 25/1/2021.

3.Roberto Aliboni, a cura di, La Nato e il Grande Medio Oriente, www.iai.it, 2005.

4.Luigi Longo, La Siria punto di svolta della fase multicentrica, www.italiaeilmondo.com, 15/4/2018.

5.Giorgio Gaber, Mi fa male il mondo in Album “E pensare che c’era il pensiero”, www.giorgiogaber.it, 1995.

 

 

 

 

LA PREMESSA REDAZIONALE

 

AMB. RAIMBAUD A L’AD: “IN LIBIA E SIRIA, I MEDIA OCCIDENTALI HANNO FAVORITO GLI AGGRESSORI E I CRIMINALI”

 “Bashar al Assad non ha torto quando dice che non cambierà nulla tra un repubblicano e un democratico in generale, tra Trump e Biden in particolare. Nulla cambierà per il mondo arabo e in particolare per la Siria.” A dichiararlo all’AntiDiplomatico è Michel Raimbaud, decano della diplomazia francese, professore di relazioni internazionali e autore di diversi libri di successo sul Medio Oriente. Dopo una lunga carriera come Ambasciatore nella regione ha visto da vicino l’inizio delle cosiddette “primavere arabe” che per Raimbaud sono stati eventi “manipolati da attivisti formati da ONG occidentali in Occidente”. E ancora: “Questi eventi, che per dieci anni hanno seminato caos, distruzione” hanno creato “un clima di guerra aperta nella maggior parte dei paesi arabi”. Con un’eccezione molto sospetta ricorda l’Ambasciatore francese:“Le monarchie petrolifere (Arabia Saudita e Stati del Golfo) sono state curiosamente risparmiate”.

I danni prodotti sono stati enormi. Paesi distrutti e popoli alla disperazione. Ma la resistenza siriana, come sottolinea ampiamente Raimbaud nel corso della sua intervista, ha segnato un punto di svolta storico, con la Nato e i suoi progetti in stile Libia che sono stati sconfitti: “La Siria è devastata, ma non è stata sconfitta e smantellata dopo dieci anni di guerra spietata con un’aggressione collettiva. Va notato che la Russia, ma anche la Cina, stanno sviluppando congiuntamente una potente cooperazione strategica e che sono entrambi sostenitori della Siria di fronte all’aggressione islamista occidentale.” E la debacle occidentale mostrata sulla vicenda Covid per l’Ambasciatore francese è un segnale fondamentale. “La disastrosa gestione della pandemia negli USA e in Europa occidentale, rispetto al controllo cinese e alla gestione efficace della crisi da parte della Russia. Russia e Cina sono uscite vittoriose sull’Occidente nella lotta anti-Covid agli occhi del mondo.”

L’INTERVISTA

Signor Raimbaud, il 2021 segna il decimo anniversario della cosiddetta Primavera araba. Quale valutazione possiamo fare?

Precisiamo innanzitutto che i movimenti di protesta scoppiati dal dicembre 2010 (in Tunisia) alla primavera 2011 non sono ovviamente né “primavere” politiche, né “rivoluzioni pacifiche e spontanee” per la democrazia e per i diritti umani. Sebbene inizialmente attirassero persone di buona fede che combattevano contro la corruzione e i regimi autoritari, divenne presto evidente che i movimenti erano supervisionati, addestrati e manipolati da attivisti formati da ONG occidentali in Occidente, con tecniche standardizzate di mobilitazione, propaganda e organizzazione, apprese sul campo grazie alle rivoluzioni colorate che hanno portato allo smantellamento dell’ex Jugoslavia negli anni ’90 (movimento OTPOR = resistenza).

Dalle corporazioni mediatiche dominanti sono state descritte come “lotte per la democrazia e per i diritti umani”. Che cosa sono state in realtà?

Le richieste riguardavano la partenza dei Capo di Stato, il cambio di governo e riforme volte ad indebolire o distruggere lo Stato, le istituzioni, gli eserciti (obiettivi prioritari per i “rivoluzionari” sempre ispirati dall’estero, per gli occidentali e per Israele). Le invocazioni alla democrazia e ai diritti umani sono esche intese ad attirare le simpatie dei protettori e degli “amici” occidentali. Queste rivolte organizzate, orchestrate, manipolate e presto pesantemente finanziate e armate dall’estero (i paesi anglosassoni tramite le ONG) degenereranno in conflitti e situazioni caotiche, estendendosi di paese in paese dal Maghreb al Mashrek. Questa cascata di tragedie non è un susseguirsi di guerre civili isolate e spontanee, come suggerisce la falsa versione trasmessa in Occidente per nascondere la grossolana ingerenza dell’Impero Atlantico. Nel loro insieme, costituiscono le componenti di un piano di destabilizzazione e distruzione (non possiamo ripeterlo abbastanza) concertato, immaginato, teorizzato dall’America, dai suoi genitori anglosassoni e dal suo ramo israeliano. Questa impresa si affida ovviamente a staffette, complici, alleati in tutti i Paesi interessati: in primo piano le forze estremiste islamiche: spesso i Fratelli Musulmani, patrocinati da Turchia e Qatar oppure i movimenti influenzati dai wahhabiti del ‘Arabia Saudita o dagli Emirati Arabi Uniti o altri paesi del Golfo. Senza questa alleanza aperta e finalmente riconosciuta dagli stakeholder tra Occidente e Israele da un lato, Stati e forze islamiste dall’altro, non ci sarebbero state “rivoluzioni”, che prenderanno varie svolte e sperimenteranno vari sviluppi.

Dalla Tunisia alla Libia è stata una rapida escalation. Il piano iniziale per eliminare Gheddafi è saltato e si è dovuti intervenire con una guerra criminale i cui effetti pesano ancora oggi. E’ stata la resistenza del popolo siriano a fermare il piano di completa destabilizzazione dell’aera pensato a Washington?

I primi risultati si notano subito in Tunisia, poi in Egitto (con la cacciata di Ben Ali e Mubarak dopo poche settimane), i processi elettorali metteranno al potere piuttosto rigidamente i Fratelli Musulmani, poi verrà l’instabilità politica, insicurezza, destabilizzazione. In Algeria e Mauritania, una prima “primavera” è stata segnalata nel gennaio 2011 e soffocata. Allo stesso modo in Marocco, dove il re ripristinò rapidamente la situazione, e in Bahrain, dove l’Arabia intervenne per salvare la dinastia sunnita contro una popolazione sciita. Il trambusto non si è mai fermato. La “rivoluzione” prende piede in Yemen e si trasforma in guerra civile: dura fino ad ora. La Libia e poi la Siria vengono colpite. La Jamahiriya di Gheddafi dovrà affrontare l’intervento illegale della NATO, la secessione e il caos. Gheddafi sarà assassinato dai “rivoluzionari” aiutati dai “servizi” occidentali. Lo stato è distrutto e non si è mai ripreso. La Siria sperimenterà la guerra contro il jihadismo, gli occidentali, gli islamisti e il terrorismo, gli “Amici del popolo siriano” (114 stati alla fine del 2012, numero che poi si scioglierà). La poliedrica guerra (“Le guerre della Siria”, titolo del mio ultimo lavoro, pubblicato nel giugno 2019)) assumerà rapidamente le sembianze di una guerra di aggressione, anche nei suoi aspetti jihadisti e terroristici più violenti e spettacolari. Questi eventi, che per dieci anni hanno seminato caos, distruzione e creato un clima di guerra aperta nella maggior parte dei paesi arabi ma anche nel Medio Oriente “allargato” (il Grande Medio Oriente di George W. Bush), hanno evidenziato prova del confronto globale tra l’America e il suo impero israelo-anglosassone da un lato e i due Grandi “emergenti” o “rinati” dell’Eurasia e dei loro alleati dall’altra. In questo confronto politico ed economico globale , finanziari, militari, strategici, ideologici e geopolitici, i paesi del Grande Medio Oriente sono una posta in gioco, un campo di battaglia e attori decisivi (cfr. Il mio libro “Storm on the Greater Middle East” 2015 – 2017). Tornerò su questo più tardi.

È interessante notare che quasi tutti i paesi repubblicani arabi sono stati colpiti da questa “epidemia”, dal Nord Africa al Medio Oriente, così come due monarchie, Marocco e il Bahrein. Le monarchie petrolifere (Arabia Saudita e Stati del Golfo) sono state curiosamente risparmiate, mentre i loro regimi sono i più arretrati, ma sono sostenuti dagli Stati Uniti e dall’Occidente. Per quanto riguarda il ruolo dei media, merita un libro a parte. Lo menziono in una risposta seguente.

Facciamo un passo indietro. I leader di Libia e Siria, Gheddafi e Assad, nel 2010 visitano paesi europei come l’Italia e la Francia, con rapporti che sembrano cordiali. Un anno dopo, la Libia vive le rivolte che hanno portato all’assassinio di Gheddafi e inizia una guerra in Siria con Assad che resiste. La stessa Turchia di Erdogan aveva ottimi rapporti con la Siria. Cosa ha causato questo cambiamento di rotta?

I rapporti erano indubbiamente ingannevolmente cordiali nei due casi da lei segnalati; Questi due casi devono essere separati. Si tratta più o meno per gli europei di ottenere dai capi di Stato, noti per la loro fermezza nei principi e la loro fedeltà nelle alleanze, nelle concessioni politiche, strategiche o economiche (in materia di petrolio o gas), senza che ci fosse una controparte dalla parte di Parigi o di Roma. Per quanto riguarda la Libia, penso che l’idea era quella di riuscire a convincere Gheddafi a rinunciare a qualsiasi progetto nucleare (lo farà) e ai suoi piani per l’indipendenza e l’unità economica, finanziaria e monetaria dell’Africa (non lo farà e quindi andava “punito”). Il caso siriano è un po’ diverso. La Francia fu apparentemente responsabile di aver trasmesso la pressione americana di W. Bush e Colin Powell su Bashar al Assad, al fine di convincere quest’ultimo a rinunciare alla sua alleanza con l’Iran e alle sue relazioni con Hezbollah, per compiacere Israele. Il presidente siriano non si arrese, e gli chiesero un risarcimento per i progetti dell’oleodotto. Bashar al Assad ancora non si arrese, la doveva pagare. Capito che questi punti sono probabilmente solo la parte emergente del caso. Nel 2010/2011 a Washington è scritto in modo chiaro che la Siria deve essere distrutta. In assenza di un pretesto, lo creeremo. Concessione o assenza di concessione, è scritto che ci sarà guerra grazie all’epidemia di “rivoluzioni”, questa che permette lo scoppio di un conflitto a priori dall’interno, senza che ci siano interferenze troppo appariscenti.

Gheddafi aveva allacciato fruttuosi rapporti politici ed economici con l’Italia, accordi sul petrolio e sulle infrastrutture durante il governo Berlusconi. La guerra contro la Libia che ha visto la Francia di Sarkozi tra i suoi principali promotori, secondo lei, è azzardato dire che è stata una guerra contro l’Italia per mettere le mani sul petrolio libico?

Sì, penso che sia azzardato. Per la Libia, non è soprattutto il petrolio a essere stato preso di mira. Sono soprattutto “i miliardi di Gheddafi”, cioè i fondi libici (probabilmente diverse centinaia di miliardi di dollari) e saranno congelati prima di “sparire”… Ma l’obiettivo principale dell’intervento armato della NATO è liquidare Gheddafi per impedirgli di finanziare un sistema monetario africano indipendente dal dollaro, dall’euro e dall’Occidente. Dovevano quindi distruggere lo Stato libico, cosa che sarà fatta.

Come giudica il ruolo dell’informazione occidentale, del Golfo nei conflitti in Siria e Libia? Quanto è stata importante la propaganda? 

Il ruolo di questi media a cui si riferisce è stato altamente dannoso e la propaganda si è combinata con un vero lavaggio del cervello. Hanno tutti partecipato alla massiccia disinformazione delle opinioni: dalle menzogne degli intellettuali alla disonestà dei politici. I giornalisti e “reporter” sul campo hanno largamente contribuito a una gigantesca truffa intellettuale e ad una cieca unanimità a favore degli aggressori e dei criminali, in Siria come in Libia. I media occidentali hanno fatto molto per distruggere il magistero morale che l’Occidente ed i suoi clienti hanno erroneamente rivendicato.

Che Paese era la Siria prima della guerra?

“Cuore pulsante dell’Arabismo”, sede dei primi califfi, centro d’influenza dell’Islam illuminato e culla del cristianesimo, la Siria, addirittura privata dalla colonizzazione e dai mandati del 40% del suo territorio storico, ha goduto ‘grande prestigio tra arabi e musulmani. In questo paese con un ricco patrimonio archeologico e storico, dove la tolleranza è sancita nei costumi e nella convivialità delle religioni e delle denominazioni nel marmo, abbiamo coltivato e ci sforziamo ancora di coltivare un’arte di vivere che ancora piace ai visitatori. La qualità della sua diplomazia e la coerenza dei suoi impegni e alleanze le hanno sempre attratto rispetto, direi anche nella sfortuna del momento. La Siria è un paese radioso per natura. Un paese prospero, indipendente, stabile, autosufficiente, che produce la maggior parte di ciò che consuma e consuma ciò che produce, un paese senza debito estero o dipendenza dal FMI e dalla Banca mondiale. Un sistema scolastico e educativo libero, efficiente e formativo di un gran numero di laureati e dirigenti di valore, spesso purtroppo tentati dalla diaspora e molti dei quali emigrati durante la guerra. Un sistema sanitario e assistenziale notevole, moderno e gratuito, presente su tutto il territorio siriano, che attraeva gli abitanti dei paesi vicini. Un paese autosufficiente che produceva tutte le gamme di farmaci, anche per l’esportazione. Più in generale, una rete di servizi sociali efficienti. Un’economia moderna in fase di riforma. Potremmo aggiungere “che fine ha fatto la Siria” ricordando alcune cifre e realtà. 400.000 morti, uno o due milioni di feriti e mutilati, sei o sette milioni di siriani “sfollati”, cioè costretti a trasferirsi altrove sul territorio siriano a causa della guerra e terrorismo, Almeno cinque milioni di siriani che si sono rifugiati in Libano, Giordania, Turchia, a volte in Europa, il più delle volte per fuggire dai terroristi, dall’opposizione armata, dagli occupanti, dagli abusi, dalla fame, ecc. . Il 60% del Paese devastato, un altro 20% occupato da turchi, forze americane, europei, appoggiati dai separatisti curdi …

Cosa rappresenta la Resistenza siriana, dopo 10 anni di guerra e sanzioni, anche grazie all’aiuto di Russia, Iran ed Hezbollah? Questo conflitto non si è concluso secondo le agende occidentali, principalmente quella di Stati Uniti e Israele. Questa guerra ha rimodellato l’equilibrio geopolitico con nuovi attori globali come Cina e Russia che ostacolano i piani occidentali?

In parte sì. Certo, la Siria è devastata, ma non è stata sconfitta e smantellata dopo dieci anni di guerra spietata con un’aggressione collettiva a cui hanno preso parte in un modo o nell’altro più di cento membri della “comunità internazionale”, vale a dire più della metà delle Nazioni Unite, nonché a un flusso infinitamente rinnovato di decine o centinaia di migliaia di terroristi che affermano di essere parte della guerra santa. Ha certamente beneficiato del sostegno di alleati fedeli (Iran, Hezbollah libanese, Russia, Cina, persino i movimenti sciiti iracheni, che stanno gradualmente emergendo dall’abbraccio americano), ma resta il fatto che l’esercito siriano ha resistito quasi solo a tutti i nemici sopra citati per quattro anni e mezzo, da marzo 2011 a settembre 2015, la data dell’intervento aereo dell’Esercito russo che si schiera al suo fianco. L’equilibrio geopolitico si è gradualmente spostato ed i piani occidentali e israeliani sono stati ostacolati. Ma l’Occidente non si considera vinto, vietando il ritorno dei profughi, la ricostruzione, la vita normale, attraverso una guerra invisibile (dall’esterno) e silenziosa (o completamente zittita dai media occidentali.

Diversi paesi africani e in particolare alcune monarchie del Golfo hanno ristabilito le relazioni diplomatiche con Israele. Questa mossa, sotto la guida di Trump, è l’ennesimo colpo all’Iran o un colpo decisivo alle rivendicazioni e alla lotta del popolo palestinese?

Non sono nei segreti di Israele, ma credo che ci sia da un lato il desiderio di minacciare l’Iran (l’appoggio di Trump è stato garantito a tal proposito), di sferrare un colpo “decisivo” all’Iran. Gli israeliani pretendono, ma forse soprattutto di demolire simbolicamente l’idea di Palestina, sacra causa degli arabi ”. La normalizzazione con Emirati, Bahrein, e forse soprattutto Sudan, non è più un fatto marginale, soprattutto quando il Marocco si unisce al processo, soprattutto come il sostegno più profondo e intimo, che della Siria (e forse quella dell’Iran) è resa problematica dalla situazione della Siria devastata da dieci anni di guerra, sanzionata e attaccata da una nuova guerra, silenziosa e invisibile, che la soffoca e la strangola.

Quando al presidente Assad viene chiesto se la leadership politica può cambiare negli Stati Uniti tra un democratico e un repubblicano, risponde che non cambierà nulla. Perché sono le lobby, le multinazionali, che decidono il corso della politica americana. Pensa che cambierà qualcosa cambia con Biden?

Il presidente Bashar al Assad non ha torto quando dice che non cambierà nulla tra un repubblicano e un democratico in generale, tra Trump e Biden in particolare. Nulla cambierà per il mondo arabo e in particolare per la Siria. Almeno in linea di principio, perché un cambiamento a Teheran, promesso da Biden, potrebbe avere qualche impatto indiretto sulla situazione in Siria. In effetti, il presidente americano è forse l’uomo più potente del mondo, ma non è, tutt’altro, l’uomo più potente degli Stati Uniti. Così come il Congresso è ben lungi dall’essere onnipotente come talvolta dà l’impressione. È lo “stato profondo” neoconservatore che guida, sostenuto dalla comunità ebraica sionista e dalla potente lobby dei cristiani sionisti protestanti (la Chiesa evangelica in particolare, che rivendica più di 60 milioni di membri in America e 600 milioni nel mondo. ). Le lobby, le 17 agenzie di intelligence statunitensi, che riuniscono senza dubbio più di un milione di agenti, la gerarchia militare, le banche, il GAFAM, fanno parte di questo “stato profondo”: Trump ve lo direbbe probabilmente.

In conclusione, dopo i fallimenti dell’Occidente in America Latina, sulla gestione della pandemia da Covid-19, la presenza di una forte resistenza in Medio Oriente, nuove potenze emergenti come Russia e Cina, possiamo prevedere in tempi non lontani un declino dell’imperialismo occidentale e americano in particolare?

Questo declino è in atto, altrimenti l’America avrebbe già lanciato un assalto a Russia e Cina. La Cina è diventata la prima potenza economica e commerciale del mondo. È la fabbrica del mondo. Sta rapidamente diventando una delle principali potenze militari. La Russia ha riconquistato la parità militare con l’America, senza avere un enorme budget per la difesa, è una grande potenza energetica e sta diventando una grande potenza agricola. Infine, è tornato ad essere un potere di riferimento politico e diplomatico, che vuole garantire il ritorno al diritto internazionale, deriso e distrutto dall’Occidente. Va notato che la Russia, ma anche la Cina, stanno sviluppando congiuntamente una potente cooperazione strategica e che sono entrambi sostenitori della Siria di fronte all’aggressione islamista occidentale. Militarmente e diplomaticamente per la Russia, diplomaticamente specialmente (finora) per la Cina. Infine, visto che si parla del Covid, notiamo la disastrosa gestione della pandemia negli USA e in Europa occidentale, rispetto al controllo cinese e alla gestione efficace della crisi da parte della Russia. Russia e Cina sono uscite vittoriose sull’Occidente nella lotta anti-Covid agli occhi del mondo.

 

 

Come si è radicalizzata una frangia della comunità turca in Francia di Giuseppe Gagliano

Le strutture della comunità turca in Francia, controllate direttamente o direttamente da Ankara, si sono schierate a favore del loro paese di origine e manifestano una ideologia incompatibile con i valori della Repubblica. L’analisi di Giuseppe Gagliano

 

Recentemente il Centro di intelligence di Parigi diretto da Eric Denece ha pubblicato in formato pdf un ampio e dettagliato report sul nazionalismo turco e sulla capillare penetrazione in Europa sia attraverso organizzazioni estremistiche come i Lupi Grigi sia soprattutto attraverso la diaspora turca. Il report è stato redatto da Tigrane Yegavian, ricercatore del Centro di Parigi, diplomato all’Institut des langues et civilisations orientales e presso l’Institut d’études politiques di Parigi.

Partiamo, allo scopo di illustrare la pericolosità e la pervasività del nazionalismo turco in Francia, da alcuni recenti fatti di cronaca.

I FATTI

Il 25 luglio 2020, a Décines, una città nell’area metropolitana di Lione — 28.000 abitanti, di cui mille francesi di origine armena — gli attivisti ultranazionalisti turchi hanno diffuso il panico in una manifestazione filo-armena. Il leader si chiama Ahmet Cetin, 23 anni, nato a Oyonnax. È un presunto membro di un gruppo di fatto composto da ultranazionalisti turchi noti come “Lupi grigi” (in turco Bozkurtlar). A novembre sarà condannato a quattro mesi di carcere con sospensione della pena per “incitamento alla violenza o all’odio razziale”. Il giovane aveva detto in un video su Instagram che il governo turco gli dava 2.000 euro e una pistola. Ahmet Cetin si è anche candidato alle elezioni legislative francesi nel 2017 nella lista dell’Equal Justice Party (PEJ) dopo essere stato un delegato della sezione giovanile del Consiglio per la giustizia, l’uguaglianza e la pace (COJEP), due organizzazioni considerate un pag argento dell’Akp — il partito islamo-conservatore di Erdoğan al potere ad Ankara — che infatti condividono lo stesso indirizzo, rue du Chemin-de-fer, a Strasburgo.

Il 27 settembre 2020, l’esercito azero, sostenuto da forze speciali turche e mercenari jihadisti, ha lanciato una guerra a tutto campo per riprendere il controllo del Nagorno-Karabakh, popolato per il 94% da armeni. Immediatamente, centinaia di uomini hanno marciato, per le strade delle città francesi. Queste folle gridano Allah Akbar durante il loro passaggio. Nelle processioni, alcuni brandiscono la bandiera turca, gridano “Stiamo per uccidere gli armeni!”.

Il 28 ottobre a Vienne, nell’Isère, e tra il 29 e il 30 ottobre a Digione, sono state commesse nuove azioni violente nei confronti dei membri della comunità di origine armena. Durante questi eventi, le forze di sicurezza sono state particolarmente prese di mira da colpi di mortaio che hanno causato diversi feriti.

Questi atti di violenza sono espressamente rivendicati dai membri dei Lupi Grigi sui social network. A seguito dei fatti di Vienne, la procura di Lione ha aperto un’indagine per “partecipazione a un raggruppamento finalizzato a commettere violenza o degrado”.

Il 1 ° novembre, a Décines, l’Armenian Genocide Memorial e il National Armenian Memorial Center sono state sporcare da scritte con le lettere “RTE” — le iniziali del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan — e da messaggi come “Nique l’Arménie” o “Loup Grigio”. Nuove etichette pro-turche sono state notate il giorno successivo nella vicina città di Meyzieu, sui muri del centro commerciale Plantées. Pochi giorni dopo, nello stesso quartiere, la polizia ha arrestato due dei presunti autori di questi atti, membri della comunità turca rispettivamente di 24 e 25 anni.

Il 4 novembre 2020, il ministro dell’Interno Gérald Darmanin ha reso pubblica, tramite il suo account Twitter, la decisione presa dal Consiglio dei Ministri di bandire i Lupi Grigi, per “incitamento alla discriminazione e all’odio” e per il loro “coinvolgimento in azioni violente”. Lo stesso giorno, un decreto di immediata applicazione ha disposto lo scioglimento del piccolo gruppo in territorio francese. Tuttavia, sono seguiti atti di vandalismo contro associazioni locali o luoghi di memoria della comunità armena a Décines, Meyzieu o Vaulx in Veline.

Questi attacchi senza precedenti hanno causato una legittima preoccupazione all’interno della pacifica comunità armena, discendente dai sopravvissuti al genocidio del 1915 e stabilitasi in questa regione per quasi un secolo. Soprattutto, consentono di prendere coscienza della crescente radicalizzazione di una frangia della comunità turca in Francia, caratterizzata dal nazionalismo e che, sebbene eterogenea, è sempre più vicina al regime di Erdoğan.

IL PAN-TURKISMO

Ankara agisce infatti attraverso numerose strutture che beneficiano di risorse considerevoli che utilizzano la religione e l’istruzione come mezzi per rafforzare la sua influenza sulle comunità turche stabilite all’estero al fine di mobilitarle al servizio degli interessi della sua politica interna e internazionale. Lo si può vedere alla luce delle recenti tensioni tra Parigi e Ankara in Libia, nel Mediterraneo orientale e in occasione della legge sul separatismo.

Fungendo da leva di potere per il progetto politico dell’Akp, le strutture della comunità turca in Francia, controllate direttamente o direttamente da Ankara, si sono schierate a favore del loro paese di origine e manifestano una ideologia incompatibile con i valori della Repubblica.

Questa ideologia è il pan-turkismo che promuove l’unità delle varie nazioni di lingua turca nel mondo. Le due principali figure a cui si riferiscono i nazionalisti turchi sono: la sociologa e scrittrice Zia Gökalp (1876-1924), di origine curda; e Nihal Atsiz, scrittore, poeta e storico (1905-1975). Spinto dal desiderio di riunire sotto la stessa bandiera tutti i turchi di Anatolia, Asia centrale e Siberia, questo ideologo elaborò la sua riflessione negli anni 1930-19401. Atsiz ha scritto in particolare un famoso romanzo storico in Turchia, “La morte dei lupi grigi”, in cui espone la sua teoria basata sull’ossessione per l’unicità di una razza turca che si estende dai Balcani fino ai confini della Siberia. Per Atsiz, la nazione turca e la razza turca sono una cosa sola. Stabilitisi in Anatolia, le tribù nomadi di turca basavano la loro cultura sulla trinità sacra sangue/razza/guerra. Da qui l’esacerbazione del militarismo e il culto di una razza immaginaria le cui radici possono essere fatte risalire alle grandi steppe dell’Asia settentrionale. Quindi, un vero turco ha come suo ideale la sua fede nella razza turca e nel militarismo.

Il pan-Turkismo fu messo in pratica dai leader del regime genocida Jeune-Turc uniti sotto la bandiera dell’Unione e del Comitato per il progresso (Cup), al potere dal 1909 al 1918. In particolare da Enver Pasha (1881-1922), ex ministro della guerra, che dopo la sconfitta ottomana del 1918, ha intrapreso una “crociata pan-turca” nell’attuale Azerbaigian e Armenia, con la formazione dell’esercito caucasico islamico. L’obiettivo: cacciare da Baku i bolscevichi russi e armeni, impadronirsi dei giacimenti petroliferi del Mar Caspio e realizzare l’incrocio tra l’Anatolia e l’Asia centrale di lingua turca. Il progetto pan-turco mirava quindi a ristabilire un nuovo impero al di fuori della zona di espansione ottomana.

Poi, quando la nuova repubblica turca, sorta sotto la guida di Mustafa Kemal Atatürk stabilì uno stretto controllo statale sull’Islam, voltando le spalle ai sogni imperiali, Nihal Atsız — simpatizzante della dottrina razzista nazista — afferma che gli ebrei non si integrano nella cultura turca e che monopolizzano determinati servizi. Tuttavia, il suo discorso antisemita e razzista non ha impedito agli ebrei ottomani di abbracciare la causa del pan-Turkismo e del nazionalismo turco, come Moise Kohen — noto come Tekin Alp — (1883-1961). Questo ebreo ottomano di Salonicco, formato nell’alleanza israelita e destinato al rabbinato, divenne un appassionato ideologo del pan-Turkismo e poi del kemalismo. Era particolarmente favorevole alla turchificazione forzata delle minoranze non musulmane nella nuova repubblica turca, come attestano i suoi scritti nel suo opuscolo Türkleştirme (1928). Nel 1934, con Hanri Soriano e Marsel Franko — della comunità ebraica in Turchia — fondò l’Associazione di Cultura Turca (Türk Kültür Cemiyeti) per la promozione della lingua turca. Lo stesso Tekin Alp presenterà i principi del kemalismo in un libro pubblicato a Istanbul nel 1936, poi li aggiornerà e pubblicherà una traduzione francese a Parigi, un anno dopo, con una prefazione di Édouard Herriot (Le Kémalisme, Félix Alcan , 1937).

IL PAN-TURKISMO E LA GUERRA NEL NAGORNO-KARABAKH

Co-presidente del gruppo di Minsk, la Francia è stato il primo paese a farsi avanti a favore dell’Armenia in questo conflitto attraverso la voce del presidente Macron. Ha denunciato l’invio di jihadisti siriani in Azerbaigian, cosa che i suoi partner della Nato non hanno fatto. Ha cercato di ottenere un cessate il fuoco allineando le sue opinioni con quelle della Federazione Russa, quindi ha offerto aiuti umanitari ai belligeranti.

Il conflitto del Nagorno-Karabakh, in cui la Turchia è apertamente impegnata, ha una mobilitazione relativamente scarsa nella società turca, a parte i partiti nazionalisti. Più preoccupati per il deterioramento del loro tenore di vita, i turchi hanno difficoltà a localizzare questa regione sulla mappa e inoltre tendono a confondere il Nagorno-Karabakh con il Montenegro. Questa relativa indifferenza, tuttavia, non ha impedito a una frangia radicalizzata dei turchi in Francia di mobilitarsi a fianco dell’Azerbaigian, anche di attaccare direttamente obiettivi armeni.

Le azioni “a pugni” degli ultimi mesi si inseriscono quindi in un clima di tensioni diplomatiche tra Francia e Turchia. Testimoniano la crescente influenza che Ankara ha su una parte dei suoi 700.000 cittadini e sui loro figli che vivono in Francia. I 65 partecipanti multati — per mancato rispetto del coprifuoco — durante le scaramucce del 28 ottobre 2020 a Décines hanno tutti passaporto francese.

Secondo il quotidiano online Médiacité, questa serie di atti intimidatori segna una rottura con la discrezione che fino ad allora prevaleva tra i franco-turchi nell’area metropolitana. La precedente dimostrazione di forza di questi nazionalisti risale a quindici anni, quando nel 2006 una manifestazione contro la costruzione di un memoriale del genocidio armeno, Place Antonin-Poncet a Lione, ha riunito 3.000 partecipanti.

https://www.startmag.it/mondo/come-e-radicalizzata-una-frangia-della-comunita-turca-in-francia/

Conte 2 e 1/2…quasi 3, di Giuseppe Germinario

Ad un Matteo che langue e che rischia di fermarsi sulla soglia del traguardo o tuttalpiù di giungere alla meta vincitore, ma spossato, da alcuni anni nello scenario politico italiano si avvicenda un altro Matteo pronto a risorgere improvvisamente dalle ceneri. Entrambi amano l’azzardo e il colpo di scena, in particolare l’abbandono ostentato del palcoscenico.

Matteo I soprattutto perché è un istintivo. Diciotto mesi fa ha abbandonato la scialuppa di Giuseppi, sicuro di poter raccogliere a giorni il frutto elettorale della sua azione politica e fiducioso delle rassicurazioni del suo alter ego, Matteo II. Mal gliene incolse. Aveva sottovalutato la spregiudicatezza del suo clone e il trasformismo ecumenico e senza patemi e remore di Giuseppe Conte. Tutto sommato, però, gli è andata bene. Ha potuto conservare ancora per tempo in un unico consesso le due anime poco armoniche che ormai costituiscono il suo partito eludendo quelle scelte obbligate e dirimenti che di lì a poco la contingenza politica lo avrebbe costretto a prendere; le due anime essendo quella storica, localistica, fornita di radici territoriali e sociali ben delimitate e di una classe dirigente con una qualche esperienza amministrativa; quella nazionale tanto appariscente e conclamata, quanto priva di contenuti solidi e di portatori all’altezza della situazione sino a rischiare di scivolare ripetutamente nell’effimero.

Matteo II soprattutto perché è un beffardo. Il suo azzardo è molto più calcolato e cinico, ma non sufficientemente mimetizzato; ostentato, al contrario, attraverso la sua insopprimibile e compiaciuta fisiognomica. Una caratteristica che lo ha costretto dalle stelle alle stalle in una parabola strettissima e fulminante di appena quattro anni. Il suo è sembrato un epilogo dal sapore definitivo, corroborato dallo scarso proselitismo ottenuto dalla scelta di abbandonare il PD. La scelta di abbandonare la compagine governativa di Giuseppe II senza determinarne la rumorosa caduta è parso ai più come il classico salto della chimera, tanto effimero da far ripiombare nel giro di poche ore il nostro nell’anonimato. E i più hanno avvallato la tesi di una clamorosa sconfitta di Matteo Renzi, confortati tanto più dai sondaggi impietosi ai danni di Italia Viva.

A ben vedere la similitudine potrebbe però indurre ad un giudizio troppo frettoloso.

La scelta di abbandonare i tre ministeri si è compiuta dopo almeno sette mesi di confronto interno al Governo la cui virulenza è stata percepita solo grazie ai continui rinvii ai quali ci ha adusi il buon Giuseppe. L’argomentazione della scelta è stata per altro particolarmente articolata e scandita da frequenti preavvisi, senza la sicumera e l’arroganza manifestata dal protagonista durante le altrettanto rapide ascesa e caduta di quattro anni fa. Una volta registrata la chiusura di Giuseppe Conte ad una riapertura del confronto, la scelta dell’astensione è stata interpretata come una manifestazione di debolezza dovuta alla scarsa compattezza del gruppo parlamentare; una ragione dal peso piuttosto relativo rispetto al vantaggio offerto da una tattica di logoramento degli schieramenti e dei partiti la quale richiede tempi più appropriati.

Matteo Renzi ha messo in conto la possibile perdita di una parte del suo gruppo parlamentare esterno allo zoccolo duro dei fedeli. Matteo Renzi sa benissimo che per almeno ancora qualche anno ha scarsissime possibilità di conseguire un qualche incarico da Presidente, da ministro o da capo di partito grazie alla sua rovinosa caduta ancora troppo recente e all’impopolarità della quale è vittima. Ha al suo attivo la possibilità e l’obbligo di ricambiare il favore e il riconoscimento esclusivo di una cena offerta in suo onore alla Casa Bianca da quello stesso establishment che ha appena ripreso il sopravvento negli Stati Uniti. Può puntare quindi ad incarichi di apparato di alto livello e di prestigio e puntare o prestarsi a condurre o essere compartecipe nel frattempo di strategie di medio periodo senza l’ossessione della difesa quotidiana delle posizioni di potere.

L’obbiettivo di fondo di Renzi è quello di promuovere e pervenire al dissolvimento finale del M5S e ad una scomposizione e ricomposizione delle restanti forze politiche, ad eccezione probabilmente di Fratelli d’Italia, tale da creare da una parte una forza politica dichiaratamente, apertamente e coerentemente europeista nella sua attuale configurazione e nel suo attuale indirizzo politico, ossequiosa alla NATO con un blocco sociale composto dalle forze più integrate ed efficentiste in esse e corroborate dalla forza d’urto e di consenso di gran parte del terzo settore contrapposta eventualmente a forze sterilmente protestatarie; componente quest’ultima, della cui formazione non può ovviamente farsi carico.

Da questo punto di vista la forza degli argomenti da lui esibiti nel criticare l’azione di governo è tutta dalla sua parte. I sessantadue punti correttivi del Recovery Fund https://www.italiaviva.it/le_62_considerazioni_di_italia_viva_sulla_proposta_italiana_per_il_recovery_fund da lui presentati sono senz’altro un notevole passo avanti dal punto di vista dell’efficacia intrinseca dell’intervento rispetto all’ipotesi originaria ufficiosa fatta circolare da Conte; è però una efficacia tutta interna alla logica delle politiche comunitarie così come illustrate in almeno un paio di articoli su questo blog. http://italiaeilmondo.com/2020/12/31/tre-piani-a-confronto-e-il-bluff-di-giuseppe-germinario/Una logica che non garantisce assolutamente una politica economica ed industriale tale da garantire autonomia e peso strategico al paese; http://italiaeilmondo.com/2020/12/23/piani-a-confronto-da-recovery-di-giuseppe-germinario/ che è propedeutica ad un ulteriore pedissequo allineamento alle future scelte interventiste della nuova amministrazione americana condotte con la copertura del multilateralismo, della difesa dei diritti umani, del catastrofismo ambientalista e della cooperazione internazionale attraverso il sistema di alleanze rinvigorito dopo quattro anni di condotte alterne.

Su questo Renzi ha buon gioco nell’asfaltare Giuseppe Conte; come ha buon gioco nell’accusarlo apertamente di essere del tutto inadeguato a svolgere il proprio compito di Capo di Governo.

Giuseppe Conte, dal canto suo, ha fatto di tutto per confortare l’azione di Matteo II.

La qualità penosa dei suoi quattro interventi alla Camera e al Senato di lunedì e martedì, conditi con il suo patetico appello finale culminato con il pietoso grido di angoscia “aiutateci”, non ha fatto che rinforzare questo suo giudizio. Un giudizio già suffragato dalla evidente carenza di capacità programmatica e dalla incapacità di controllo e indirizzo della macchina amministrativa; un limite quest’ultimo, per la verità caratteristico di gran parte delle compagini governative succedutesi. Interventi, quindi che hanno evidenziato la sua totale incapacità di indirizzo ed autorevolezza che potesse giustificare e coprire in qualche maniere le nefandezze in corso per raggiungere entro poche settimane una incerta maggioranza assoluta; la sua ingenuità e il suo provincialismo nel prestarsi ostentatamente ad operazioni di sottogoverno; l’inesistenza e l’insulsaggine della principale forza politica, il M5S, ormai principale responsabile della condizione di paralisi ed inadeguatezza politica. Un atteggiamento tipico, ben coltivato negli ambienti più gretti della curia romana della quale è espressione il nostro avvocato del popolo.

L’obbiettivo di fondo della residua compagine di governo, impersonata da Conte, in realtà non è sostanzialmente diverso da quello dichiarato da Renzi.

Cambia nella qualità di presentazione, più abborracciata, e nella credibilità del protagonista ormai avvitato nella terza operazione trasformistica della sua breve ma intensa carriera di Capo di Governo dallo scarso pedigree e dalla “inesistente gavetta”; cambia nei tempi più lunghi richiesti dal processo di trasformazione e di assorbimento, eventualmente sotto altre spoglie, del M5S nell’alveo conformista; cambia nell’entità dei costi richiesti in termini di assistenzialismo e di dispendio insensato di risorse da tale politica trasformista; cambia nell’entità dei rischi di contaminazione che il PD corre, nel suo impegno di traghettamento del M5S, grazie all’immagine scialba di figure della levatura di Gualtieri, Orlando e Zingaretti e al bagaglio culturale del loro mentore Bettini.

L’uno, Matteo II, foriero quindi di una esibizione aperta di obbiettivi capace magari inizialmente di mobilitare ed accelerare le scelte, salvo poi esibire rapidamente la vacuità dei vantaggi che queste scelte così allineate possono offrire ad un blocco sociale sufficientemente coeso ed esteso che possa garantire la sopravvivenza sia pure ulteriormente subordinata del paese.

L’altro, Giuseppi 2 e ½..quasi 3, più attendista e mimetizzato, probabilmente anche più annebbiato nel perseguimento delle stesse scelte di fondo ma più spalleggiato nei corridoi.

L’uno alfiere, paladino e combattente in tutto simile ai patrioti, o presunti tali, della disfida di Barletta, i quali per difendere l’onore degli italiani contro gli spagnoli non trovano di meglio che assumere armi e difesa al soldo dei francesi.

L’altro impegnato, con la complicità di élites sempre più compiacenti ed un relativo favore popolare masochistico, nel predisporre e trasformare ulteriormente in un acquitrino, in una palude un territorio ormai sempre più ben disposto alle incursioni e ai saccheggi.

A noi la scelta in una battaglia talmente feroce da nascondere probabilmente una posta in palio ben più rilevante sotto la pressione di fazioni che vanno al di là dei confini europei e attraversano l’Atlantico. Quando l’oggetto del contendere arriva ad investire apertamente i servizi di intelligence vuol dire che ci si sta avvicinando ad un livello di scontro simile a quello statunitense, con qualche vena parodistica in più ma con un desiderio di regolare i conti per interposta persona analogo. Su questo ha ragione a chiedere lumi il senatore Adolfo d’Urso, voce nel deserto.

Chissà se alla fine la tenzone tra i due si potrà concludere su chi dovrà offrire all’osteria. Possibile, ma poco probabile.

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