Ucraina, una realtà rimossa_con Max Bonelli

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La realtà della situazione in Ucraina fatica pesantemente ad emergere non ostante alcune crepe che qua e là cominciano ad emergere nel sistema mediatico nazionale. Una cappa opprimente comune a tutti i paesi europei, ma che in Italia sta raggiungendo i vertici della disinformazione più dozzinale. Negli Stati Uniti, come testimoniato anche dal filmato iniziale di questa conversazione, la situazione è in buona misura diversa e più favorevole. Merito soprattutto dello scontro politico aperto fra le compagini politiche e all’interno degli stessi centri decisori; grazie anche al fatto che quanto avviene in Europa e nell’Ucraina stessa non è solo la conseguenza, ma l’esito diretto di decisioni statunitensi prese sul campo con una catena di comando sempre più diretta. E le decisioni, per essere prese e per renderle efficaci, hanno bisogno di una relativa trasparenza nella fase di elaborazione. I paesi europei sono sempre più, con rare eccezioni, soggetti passivi di queste scelte. La mediocrità tragicamente banale del ceto politico e della classe dirigente italiani, a cominciare dai nostri due presidenti, ne sono l’emblema più disarmante e sconfortante. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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Potenza come griglia di lettura n. 12 di RAFPHAEL CHAUVANCY

Preferendo l’amministrazione delle cose al governo degli uomini, i nostri contemporanei hanno accarezzato il sogno di un villaggio globale pacifico. Gli interessi incrociati dovevano sostituire le relazioni di dominio. Il clamoroso ritorno della storia ha spazzato via questo sogno. Le interdipendenze non impediscono gli scontri. Il Cremlino sviluppa le sue armi avanzate con componenti europei; gli americani fabbricano i loro aerei con minerali cinesi rari mentre gli ucraini si riscaldano con il gas dei russi che uccidono i loro figli.

Il puro interesse materiale e le ideologie non sono quindi riusciti a pacificare il mondo né a spiegarne le convulsioni. Quindi dobbiamo cercare altrove il motore del sistema strategico globale. Criticata da autori come Bertrand Badie, la cui fragilità concettuale nasce dalla sfida insostenibile di voler spiegare le relazioni internazionali senza parlare di strategia, la nozione di potere e i suoi meccanismi offrono proprio una griglia di lettura globale e coerente. Dobbiamo ancora essere d’accordo sulla sua definizione.

Il potere è una relazione strategica

L’uomo è un essere sociale proiettato nel tempo. Vale a dire, un animale politico e storico la cui azione collettiva sposa le forme della strategia. Organismi collettivi organizzati, le società perseguono i propri obiettivi, il primo dei quali è garantire la sostenibilità e la prosperità di una comunità definita in un determinato territorio. La loro moltiplicazione ha portato gradualmente i loro interessi a incrociarsi, a scontrarsi.

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L’area mondiale si è così convertita in un sistema strategico animato da rivalità di potere, questo rapporto sfaccettato e sinergico che è, tenuto conto della necessità, l’effetto della proiezione nello spazio e nel tempo di una volontà strategica ragionata sull’ambiente materiale e immateriale .

La potenza è una relazione comparativa a somma zero. In un mondo che cambia, una potenza che non progredisce corre il rischio di una regressione meccanica. Per questo non può essere pensata al di fuori delle condizioni della sua crescita in un quadro di competizione, contestazione o confronto tra gli unici attori che ne raccolgono tutte le caratteristiche, gli Stati.

I meccanismi del potere si basano su tre principi uguali e senza tempo comuni a tutte le sfere culturali: necessità, volontà e legittimità. Si suddividono in fattori ed elementi.

La necessità è il peso dei dati di partenza, degli elementi quantificabili. Obiettivo, riunisce dati fisici e cognitivi. Copre la geografia, la demografia o le risorse economiche di un paese e determina i concreti equilibri di potere. Lei è il braccio.

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Principio guida, la volontà è la capacità di concepire un piano strategico, determina l’obiettivo da raggiungere, detta la procedura da seguire e avvia l’azione. Sfrutta le opportunità, supera i vincoli, aggira gli ostacoli o forza la resistenza. Lei è la testa, con tutto ciò che la mente umana ha di razionalità, ma anche di errori o imprevisti.

Infine, la legittimità assicura la coesione di una società attorno a valori o convinzioni condivisi e le dà la sensazione di compiere un’azione giusta, bella, buona o quantomeno necessaria. Riguarda le forze morali. Lei è il cuore.

Mappatura e dinamica della potenza

È possibile mappare cinque tipi principali di rilievi di potenza.

Al vertice c’è la ristretta cerchia delle superpotenze, come l’URSS ieri, gli Stati Uniti oggi, la Cina domani. Hanno tutte le carte in mano per imporre la loro direzione nel mondo.

Poi arrivano le potenze medie a vocazione globale come la Francia o l’Inghilterra, a cui un giorno potrebbero unirsi l’India o la Germania. Se la storia ha talvolta offerto loro l’illusione di una possibile egemonia, hanno imparato a misurare il peso della necessità e a conoscerne i limiti.

Il terzo piano riunisce potenze regionali, come il Brasile o l’Australia, difficili da aggirare in una sfera delimitata.

Questi livelli raggruppano i poteri attivi. Le pianure e le valli successive sono il dominio dei poteri passivi.

Vi troviamo le nazioni deboli, ma prospere, attaccate solo ai loro interessi immediati, come molti paesi europei. Per mancanza di volontà, costituiscono una semplice posta in gioco tra i grossi che contestano i clienti.

Il livello più basso è quello degli Stati deboli e poveri, che hanno solo interessi locali. Le loro carenze in tutte le aree sono tali da formare solo una landa desolata dove le grandi potenze si oppongono più o meno liberamente; ci sono un certo numero di paesi dell’Africa nera, dell’America Latina e dell’Asia.

Naturalmente entrano in gioco altri fattori. Potrebbero riguardare il clima di potere. I poteri freddi sono conservatori. Hanno interesse a congelare in misura maggiore o minore la scena mondiale e sono per definizione stabilizzanti, come la Francia o il Marocco, che perseguono politiche di sovranità, influenza ed equilibrio.

Al contrario, i poteri caldi sono revisionisti. Hanno aspirazioni imperiali, globali nel caso delle superpotenze, o regionali per stati come la Turchia .

Questa mappatura può essere dettagliata o orientata in base alle esigenze analitiche. Facilita la comprensione delle forze coinvolte e delle dinamiche di potere naturali o accidentali.

Il movimento di correnti calde o fredde porta meccanicamente a perturbazioni, come l’incontro dell’espansionismo turco e del conservatorismo francese nel Mar Egeo. I fenomeni naturali di erosione del potere, di cui la Russia ha notato l’importanza dopo la caduta dell’URSS, richiedono accordi o azioni più o meno riuscite per mantenere un ambiente favorevole; quando blocchi importanti si sono staccati dal corpo centrale come fa l’Ucraina, il volontarismo si oppone alla forza di gravità con le conseguenze che abbiamo visto.

Alcuni movimenti tettonici sotterranei preannunciano quindi tsunami, che possono verificarsi durante i grandi cambiamenti demografici: ci si può quindi interrogare sulla sostenibilità sociale degli Emirati Arabi Uniti dove il 10% dei cittadini annega in una massa del 90% di estranei.

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Le dinamiche di ascesa o declassamento obbediscono a determinate regole e provocano naturalmente depressioni o tempeste. Se i geografi sono stati in grado di parlare di riscaldamento globale, il riscaldamento geopolitico è una realtà molto preoccupante che richiede l’adozione di misure per mitigarlo, se possibile, per prepararci sicuramente.

Lo stratega è quindi simile al geografo. La conoscenza dei meccanismi del potere gli permette di comprendere i fenomeni indotti e di anticiparli, individuando tendenze o probabilità in assenza di certezze fuori portata.

Equilibri e squilibri

La tettonica dei poteri potrebbe essere approssimativamente riassunta come un equilibrio che viene continuamente perso e perennemente ritrovato.

I periodi di anarchia sono quelli in cui la rottura è tale che il riequilibrio è impossibile, come dopo la caduta dell’Impero Romano. Le crisi maggiori sono l’espressione di una violenta oscillazione del pendolo per contrastare un cambiamento troppo brutale per essere digerito gradualmente. Nel 1914, la guerra non derivava tanto dal desiderio di combattere del Reich quanto dalla dinamica creata dal fantastico aumento della sua potenza demografica, economica e militare a partire dal 1870. La forza di gravità costruita attorno al potere germanico non poteva che dislocare il edificio internazionale.

I movimenti strutturali sono più durevoli del frutto degli scontri cinetici. Non fu Waterloo che spinse la Francia al secondo rango di potenza nel 19° secolo . È il processo di unificazione tedesca che ha progressivamente ridotto il suo peso relativo nel concerto europeo. Inoltre, lo schiacciamento militare totale della Germania nel 1945 non le ha impedito di riprendere gradualmente e naturalmente la leadership europea.

La legge del ritorno all’equilibrio significa che i poteri che contano sono generalmente rimasti gli stessi nel corso dei secoli. È eccezionale che una nazione esca dal cerchio che gli è proprio, ma quando ciò accade è ancora più raro che riesca a ritrovarla.

Le evoluzioni che possono causare squilibri hanno ritmi molto vari. Nel regno della necessità, sono generalmente lenti, salvo incidenti come la scoperta di materie prime vitali o di alto valore: gli idrocarburi hanno trasformato una piccola nazione remota in uno degli stati più prosperi del globo all’inizio degli anni ’70.

È in termini di volontà che le rotture sono più rapide e l’influenza del libero arbitrio individuale o collettivo è decisiva. Personalità forti come i Presidenti Putin o Erdogan hanno segnato le Relazioni Internazionali contemporanee; la resilienza collettiva del popolo ebraico ha permesso loro di superare due millenni di dispersione e persecuzione per ricreare finalmente uno stato in pochi anni.

I criteri di legittimità generalmente conoscono solo evoluzioni progressive e sotterranee. Ma quando l’architettura delle credenze è cambiata, è difficile tornare indietro. La Corte di Versailles lo scoprì a suo danno nel 1789 prima che il mondo intero ne rimanesse sconvolto.

Sebbene i cambiamenti creino opportunità, non tutti vale la pena coglierli. Uno squilibrio troppo grande a favore di un attore provoca in cambio una reazione virulenta e coordinata dei suoi avversari, dei suoi partner, persino dei suoi alleati. Uno Stato deve porsi anche la questione della sua capacità di assorbire un forte aumento di potere. La rana non vince volendo essere più grande del bue…

Modellazione piuttosto che shock

Altri meccanismi derivano dalle contraddizioni interne di qualsiasi stato, sistema, situazione. Mao ha anche teorizzato il suo sfruttamento strategico. Gli Stati Uniti, ad esempio, hanno difficoltà a conciliare la propria identità democratica e la propria natura imperiale. All’interno della stessa alleanza formata dalle democrazie, una forte antilogia distingue la visione francese del multilateralismo, considerato come un’opportunità per creare spazio di manovra, e l’approccio americano, che lo vede come una minaccia al suo status di iperpotenza.

Un paradosso è che la potenza trattenuta è maggiore della potenza impiegata. Quest’ultima, infatti, è una spesa in conto capitale il cui beneficio resta da dimostrare. L’Inghilterra ha costruito il suo dominio assistendo alle grandi conflagrazioni europee molto più che partecipando ad esse. Mentre i suoi avversari si esaurivano in futili litigi, accumulò capitali, costruì navi mercantili, estese le sue reti finanziarie e liberò le terre vergini dell’America e dell’Oceania che offriva al suo vigore demografico e pionieristico.

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Se la manovra di Vladimir Putin in Crimea nel 2014 è un caso da manuale dell’uso strategico dei movimenti naturali al lavoro, l’aggressione in Ucraina nel 2022 illustra i misfatti di uno sterile degrado. Il potere militare, politico e diplomatico russo è stato ridotto e le sue risorse economiche sono state gravemente colpite. Allo stesso modo, l’abuso del diritto di veto da parte dei russi all’ONU è il modo migliore per mettere in discussione il principio stesso. Come contrappunto, la Francia è attenta a non usare la propria per evitare che la sua legittimità venga contestata, il che contribuisce al suo status di potenza globale responsabile.

Sorprendentemente contraddittoria, una saggia politica di potere può consistere nel… favorire l’aumento di quelli di altri attori. È improbabile che un paese come la Francia possa aumentare notevolmente le proprie risorse oltre certi limiti. D’altra parte, potrebbe mirare a rafforzare gli stati subordinati a scapito dei suoi concorrenti.

Se vuoi la pace, prepara la guerra. La debolezza uccide, lo dimostrano i telegiornali. Una griglia di lettura interessata solo agli scontri tra rivali, invece, mancherebbe il punto. L’esperienza delle due guerre mondiali, la deterrenza nucleare e la sempre più marcata riluttanza dell’opinione pubblica a versare il proprio sangue hanno provocato un cambiamento nelle rivalità di potere.

Il confronto, cioè la guerra aperta tra nemici, ha perso la sua centralità a vantaggio della contesa indiretta tra avversari e, ancor più, della competizione globale tra tutti i giocatori, anche tra gli alleati.

Mentre, anche a livello militare, conta sempre meno brillare sul campo di battaglia che durare, i percorsi contemporanei del potere emarginano le nozioni di vittoria e sconfitta. Alfa e omega del pensiero delle relazioni internazionali fino al secolo scorso, sono diventate obsolete. La vittoria riflette solo una momentanea pressione volontaristica contro la natura delle cose o l’equilibrio del potere. Inoltre i suoi risultati svaniscono rapidamente. Sarebbe esagerato paragonarlo a un’illusione?

Il potere di uno Stato non risulta da una determinata situazione, ma da un approccio integrato e da un equilibrio sostenibile tra risorse, volontà e legittimità. È perché è globalmente equilibrato internamente che la Francia è una potenza di bilanciamento esternamente. Al contrario, una Russia volontarista, povera e troppo armata può solo svolgere un ruolo destabilizzante.

Nonostante l’apparente contraddizione tra i due termini, il potere può essere equiparato al consenso, anche se è ovviamente fabbricato. Questo consenso è dovuto all’influenza di un modello sociale, prestigio politico, credibilità militare, prosperità economica, attrattiva culturale, ecc. termine di uno stato percepito come utile nel peggiore dei casi, generalmente necessario, ammirevole nel migliore dei casi.

Se l’arte della tattica dominava quando i principi misuravano il proprio potere con il metro di una provincia conquistata, è oggi emarginata da quella della strategia e della pianificazione ambientale. Quest’ultimo consiste nell’occupare spazi lacunari, rinchiudere i rivali in una fitta rete di dipendenze strutturali sotterranee e assicurarsi un margine di manovra sovrano. Possiamo così completare la cartografia dei poteri con quella delle loro dipendenze materiali e immateriali.

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Un gigante economico, la Germania, per esempio, sta pagando il prezzo dell’ingenuità, divisa tra la sua sottomissione energetica a Mosca e la sua dipendenza dalla sicurezza da Washington. Nazione prospera amministrata liberamente, scopre con stupore di non essere sovrana per mancanza di libertà di manovra. Un paese può essere uno stato di diritto, anche senza sovranità. D’altra parte, non ha più la capacità di decidere sul suo futuro e di attuare le sue scelte, che è la definizione stessa di libertà politica e la ragion d’essere della democrazia.

Conclusione

La storia è una linea spezzata. Non ha un significato particolare, ma ripercorre le avventure di competizione tra gruppi umani. Ogni confronto è, soprattutto, un movimento e un’interazione creativa le cui conseguenze non sono tutte negative.

Il mondo contemporaneo ha comunque rotto con la nozione di pace. Militari o meno, la guerra infuria tra le nazioni. Non si oppone più solo agli apparati statali come in passato, ma alle società stesse nel loro insieme.

Nulla ora sfugge al gioco dei poteri. Mark Galeotti ha pubblicato a gennaio 2022 un libro dal titolo evocativo: L’armamento di tutto . Tutto diventa strumento di combattimento. Tutto diventa un’arma.

Questo nuovo sistema globale, come abbiamo visto, non è così anarchico come si potrebbe pensare a prima vista. Se riserva naturalmente sorprese, obbedisce a regole e meccanismi accessibili alla comprensione umana.

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Gli europei in generale ei francesi in particolare non sono stati in grado di anticipare crisi sanitarie, economiche o militari che sono comunque ampiamente prevedibili. L’obsolescenza di griglie di lettura terribilmente restrittive, siano esse quella economica liberale o quella consistente nel confinare le Relazioni Internazionali a una forma di sociologia, è costata loro cara.

In un’epoca di effetti combinati e scontri interni, questi echi del passato interessano solo alla ricerca storica. Il futuro è irto di minacce e richiede strumenti concettuali in grado di conciliare l’analisi dei rapporti di potere grezzi, tenendo conto dell’imprevedibilità delle decisioni collettive o individuali e del ruolo delle forze morali. Vale a dire la necessità, la volontà e la legittimità.

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Il sogno liberale, di Andrea Zhok

Il sogno liberale

Come mi è capitato di sottolineare altrove, la nozione di “liberale” è strutturalmente ambigua per ragioni storiche. Purtroppo tale ambiguità continua a creare confusione e a smussare le armi dell’analisi, dove di volta in volta, di fronte agli stessi eventi, si finisce per invocare l’aggettivo “liberale”  a volte come causa di oppressione, a volte come fattore di emancipazione (così ha fatto recentemente, ad esempio, il prof. Orsini). Di fronte all’irreggimentazione, al controllo sociale, alla crescita di impulsi persecutori che ha tratteggiato questi ultimi due anni c’è ancora chi lo caratterizza utilizzando l’aggettivo “illiberale”, come se tutto ciò fosse estraneo e contrario all’essenza del liberalismo.

È perciò opportuno tentare un breve chiarimento concettuale e terminologico. Non provo qui a fornire un’analisi dello sviluppo storico e delle sue ragioni – svolta in altra sede – ma mi limito ad esplicitare l’ambiguità del termine liberalismo e a ribadire perché l’uso emancipativo del termine è latore di confusione.

I. Il liberalismo perfezionista

Esiste davvero una forma emancipativa del liberalismo?

Sì, esiste, si tratta di un’idea che concepisce il liberalismo come staccato dalla sua componente economica e che lo pone come una visione teorica che promuove il libero sviluppo umano. Questa concezione può essere chiamata “liberalismo perfezionista”, laddove il termine “perfezionista” è utilizzato nella filosofia morale contemporanea per definire una teoria che pone il senso dell’azione umana nell’esercizio e nel libero sviluppo delle proprie facoltà. Questa visione può essere rappresentata da pensatori come Benedetto Croce, in una cornice idealista, da Joseph Raz, Michael Polanyi e in parte John Rawls, in una cornice immanentista. Non è accidentale che la distinzione tra “liberalismo” e “liberismo” venne introdotta proprio da Croce per isolare il proprio liberalismo dalle istanze economiche (liberiste).

Qui l’idea portante è che l’uomo conferisce senso alla propria esistenza esplorandone le potenzialità e sviluppando le proprie capacità. Tale visione è minoritaria ed eccentrica rispetto allo sviluppo storico del liberalismo, ma è esistita ed esiste. Quanto sia essa lontana dalla prospettiva storica principale del liberalismo lo si può capire osservando come questo “liberalismo perfezionista” sia perfettamente compatibile con l’impianto teorico del critico per antonomasia del liberalismo, cioè di Karl Marx, la cui concezione del libero sviluppo umano (si vedano i Manoscritti economico-filosofici del 1844) è ampiamente sovrapponibile a questa visione. Non pochi soggetti, soprattutto intellettuali, si reputano liberali in quanto nutrono, in forma talvolta chiara, spesso confusa, un’immagine del genere.

 

II. Il liberalismo reale

Sul piano storico, tuttavia, questa versione del liberalismo disaccoppiata dal liberismo economico è ampiamente minoritaria, e influente quasi solo a livello di elaborazione intellettuale. Il liberalismo si è sviluppato incardinandosi nella teoria economica marginalista alla fine del XIX secolo, in questa forma ha acquisito centralità politica e ha imposto in modo egemonico la propria visione a partire dagli anni ’70 del XX secolo. Chiamiamo questo liberalismo egemone “liberalismo reale”, nel senso in cui si parlava una volta di “socialismo reale”.

Per capire l’essenza del liberalismo reale bisogna comprendere come si configura la sua visione ideale, quella visione che ogni agente liberale coltiva dentro di sé come ispirazione, come motore della propria azione.

Si dice spesso che il liberalismo sarebbe “neutrale” sul piano etico, nel senso di non volersi impegnare nel prendere posizione sui temi eticamente più controversi e scottanti. L’idea della neutralità liberale storicamente nasce in contrapposizione alla sostanzialità delle posizioni religiose: che si parli di aborto, eutanasia, famiglia, educazione, ecc. ogni religione ha una posizione definita – non necessariamente immobile nel tempo, ma di volta in volta ben definita – mentre il liberalismo, sin dalle origini, si vanta di rigettare questa dimensione di valutazione sostanziale, che andrebbe risolta lasciando a ciascun individuo la scelta ultima.

Questa idea di “neutralità” etico-politica è tuttavia perfettamente illusoria. L’etica e la politica si muovono in un’atmosfera densa in cui non esiste neutralità, in cui scelte sovraindividuali si fanno sempre necessariamente, e in cui quando condotte specifiche vengono favorite, altre vengono sfavorite e ostacolate. La “neutralità” liberale è in effetti un camuffamento, magari in buona fede, ma un camuffamento. In effetti anche il liberalismo ha un’immagine ideale del mondo, proprio come ce l’ha il comunismo o il cristianesimo, solo che è un’immagine che si interpreta come poco esigente e perciò universale.

 

III. Libertà negativa e presunta “neutralità” etica

La concezione che caratterizza il liberalismo è innanzitutto una concezione che promuove una forma di libertà negativa: laica, asociale e apolitica. Il liberalismo tipicamente nega che queste specifiche proprietà siano alcunché di sostanziale perché sostiene che anche per questi tratti, come per ogni altro tratto, la scelta viene lasciata al singolo individuo (se essere laico o credente, sociale o asociale, politicamente attivo o passivo, ecc.). Solo che le cose non stanno così. Questo perché ciascuna di quelle dimensioni travalica il singolo e non è alla portata di alcuna scelta individuale, unilaterale.

Non posso decidere individualmente di condurre un’esistenza politica, se l’ambiente circostante non lo consente; non posso associarmi, se non ci sono le altrui condizioni per formare un’associazione; posso condurre una vita da mistico stilita, ma nessuna vita religiosa in assenza di una comunità religiosa operante; non posso vivere un’esistenza comunitaria, se le forme di vita comunitarie sono disgregate, ecc.

Il cuore della libertà negativa nel liberalismo reale  è che, non essendovi un divieto a indirizzare la vita in queste forme, ciascuno è in grado di decidere autonomamente se percorrerle o meno. Ma questo è semplicemente falso. Ogni scelta politica, legislativa, economica che venga fatta potrà essere funzionale a costruire forme di vita religiosa, politica, comunitaria, ecc. oppure può essere disfunzionale a questi fini. Quando uno di questi indirizzi non viene supportato, proprio per la loro natura sovraindividuale, esso deperisce e si estingue.

 

IV. La visione propositiva del modello liberale

Quest’apparente “neutralità” è solo metà della storia del “sogno liberale”. La seconda fondamentale parte è determinata sul terreno economico, dove gli indirizzi più chiaramente positivi, “sostanziali” del liberalismo si vedono all’opera. L’impianto economico liberale infatti coltiva la competizione su base individuale, venera il rischio, l’innovazione e la mobilità. Ciascuno di questi elementi opera costantemente come fattore che accresce l’insicurezza individuale e alimenta lo sradicamento sociale. In una cornice di concorrenza auspicabilmente perfetta ogni singolo individuo occupa una posizione sociale differenziale, dove ogni successo altrui è potenzialmente una minaccia al successo proprio. Quanto più ci si approssima alla base della piramide sociale, tanto minore diviene il proprio potere contrattuale nella società, e tanto maggiori diventano per ciascuno le possibilità di essere proprio escluso dal sistema, di venire espulso ed emarginato.

Sul piano tecnologico, finanziario e ambientale lo stimolo costante al rischio, all’accelerazione e all’innovazione crea condizioni strutturalmente instabili. Esse vengono compensate – da chi è economicamente nelle condizioni di farlo – con la creazione di cuscinetti difensivi (riserve monetarie, assicurazioni private, ecc.). Questo significa che all’insicurezza generata dal sistema si cerca di rimediare con la “sicurezza economica”, cioè con lo sforzo di accumulare denaro: quanto maggiore l’insicurezza tanto maggiore la spinta alla competizione più spregiudicata, che aumenta a sua volta l’insicurezza, le possibilità di fallimento e la frustrazione.

La spinta alla mobilità, nella ricerca di opportunità d’impiego, spezza la possibilità di una perdurante cooperazione territoriale, e con ciò corrode ogni senso di partecipazione comunitaria: il soggetto liberale non è più “parte di una comunità”, ma è “utente di un servizio urbano”. (Incidentalmente, è per sopperire a questo vuoto che la società liberale contemporanea si riempie ossessivamente la bocca di “comunità” / “community”: secondo un tipico canone liberale, meno una cosa esiste, più ossessivamente la si evoca per fingerne l’esistenza.)

In questa cornice in cui tutto converge verso l’isolamento individuale e la competizione interpersonale, l’Altro appare primariamente nella forma di un’insidia, una fonte di potenziale pericolo – o almeno di ingombro. In un mondo liberale, se qualcuno ti si avvicina la prima domanda che tende a sorgere è: “Cosa vuole questo da me?” Dunque non solo le condizioni economiche ed ambientali tendono a far crescere il senso di insicurezza, ma anche i singoli individui sono innanzitutto percepiti come potenziali minacce.

Questo sfondo genera una tendenza profonda, che rappresenta l’ispirazione e il motore del sogno liberale. Siccome sia l’ambiente che l’altro soggetto (se non altrimenti esplicitato), si profilano prima facie come potenziali minacce, la disposizione che anima la società liberale si orienta in due direzioni: la neutralizzazione difensiva dei rapporti con il prossimo e l’acquisizione di potere mediato sull’ambiente.

 

V. Figure del sogno liberale

Siccome ciascun soggetto individuale è vissuto innanzitutto come una potenziale minaccia, la concezione liberale lavora sistematicamente a creare o mantenere le distanze tra individuo e individuo, a isolarli preliminarmente e a consentirne l’associazione solo in forme contrattuali sorvegliate. La società liberale tende a divenire sempre più isterica intorno al pericolo che altri esseri umani, o altri gruppi umani, o altre forme di vita umane, rappresentano per “noi liberali”.

Rispetto ad ogni individuo cresce costantemente una sorta di permalosità strutturale, di ipersensibilità per cui l’altro potrebbe essere in procinto di ferirci, di offenderci in maniera insopportabile. Individui sradicati e psicologicamente provati dal distanziamento forzoso cui il mondo liberale conduce, temono il contatto diretto con il prossimo e a maggior ragione temono ogni forma di dipendenza dal prossimo. Figure emblematiche di questa dinamica sono, ad esempio, i giovani “hikikomori” che si rifiutano di uscire di casa e che si relazionano con gli altri solo in forma virtuale; o, in altro modo, sono figure emblematiche i pasdaran del “politicamente corretto”, alla continua ricerca di un possibile lato da cui potrebbero ritenersi offesi; o ancora, lo sono gli studenti dei college americani che firmano consensi scritti per avere rapporti sessuali, a garanzia che vi sia piena volontarietà dell’atto. Stendiamo poi un pietoso velo sulla recente isteria da contagio, che ha portato a galla strati profondi di questo autentico terrore nei confronti del prossimo.

Siccome il nostro prossimo è, proprio per la sua prossimità, il più pericoloso, il liberalismo reale dimostra la propria umanità come filantropismo verso i più remoti, verso coloro i quali hanno solo l’esistenza virtuale dei reportage giornalistici e delle raccolte di petizioni. Verso i lontani, gli sconosciuti, con cui mai entreremo in contatto e di cui nulla sappiamo, il liberalismo reale riversa la propria umanità residua, che, incapace di vicinanza, si trova a proprio agio invece nella sfera in cui può dipingere l’umanità a piacimento, con i tratti addomesticati del proprio immaginario. Se verso i più remoti il liberale può esercitare generosità, nei confronti del prossimo i rapporti sono governati dalla sfiducia e dal timore, e dunque le forme relazionali preferite sono l’isolamento o il rapporto mercenario, in cui il potere del denaro media la relazione tra esseri umani.

Dipendere da qualcun altro è, nel mondo liberale, la ricetta sicura per lo scacco, visto che per come il sistema funziona è razionale attendersi che tale dipendenza prenda la forma di uno sfruttamento. Questo varrà tanto sul piano lavorativo che su quello affettivo: se dipendo sono sottomesso; sono libero solo se sono io a sottomettere. Questo modello di indipendenza è quella che promuove ad esempio l’idea, sempre più diffusa nel Nord Europa, per cui avere un figlio dovrebbe essere disaccoppiato dall’avere un compagno o una compagna. Siccome un rapporto affettivo è percepito come un rischio e un vincolo, una subordinazione ad esigenze limitanti che intaccano la propria indipendenza, allora attingere ad una banca del seme o noleggiare un utero altrui, sono soluzioni decisamente preferibili.

La visione di principio della società nel liberalismo reale è quella di un sistema di percorsi di vita paralleli che non si intersecano se non con la mediazione di un controllo terzo (contratto, supervisione, giudice). I contatti ammessi e preventivati sono l’acquisizione di un servizio, l’erogazione retribuita di un servizio, o, dove entrambi falliscono, lo scontro. Un sistema che produce strutturalmente insicurezza ad ogni livello lavora per risparmiare ai propri adepti l’incertezza dei rapporti umani, l’insicurezza dei giudizi personali, il rischio dei contatti, la vulnerabilità dell’affettività.

Il sogno liberale consta di un mondo in cui non devi niente a nessuno, non hai bisogno di contare su nessuno, non dipendi da nessuno, ma in cui puoi portare avanti i tuoi progetti acquistando i servigi altrui. Questo tratto spiega il carattere insieme patetico e pericoloso dei grandi “sognatori” partoriti dal liberalismo, gente che conta di realizzare i propri infantili sogni di potenza comprandoli.

Il sistema del liberalismo reale perciò partorisce due forme umane: “servi” e “padroni”, che nello specifico si profilano come “frustrati senza remissione” e “imperatori per censo”.

Il primo gruppo, di gran lunga maggioritario, è rappresentato da tutti quelli che ambivano ad essere piccoli autocrati di un proprio regno a pagamento, ma che non ce l’hanno fatta. Questi cercano comunque di esercitare tutto il potere che viene loro concesso sul prossimo, sfogando almeno in parte la propria frustrazione, che tuttavia cova sempre sotto la cenere e nutre una rabbia costante, pronta ad esplodere. È gente che avrebbe voluto essere Bill Gates o Ellon Musk, e che rimarrà certa fino alla fine che, se avesse raggiunto quella posizione economicamente apicale, allora sì che il mondo avrebbe manifestato tutto il proprio senso. Essendo invece rimasti lontani dalla vetta non gli resta che rivalersi come possono sugli altri: piccoli delatori, burocrati inflessibili, bulli da parcheggio, ecc. Recentemente abbiamo avuto il piacere di ammirare simpatici esempi di questa tipologia umana in quelli che si sbracciavano orgogliosi per poter esibire il proprio Green Pass (come piccolo segno di esclusività), o in tutti quelli che vomitano odio bellicista fomentando guerre per procura.

Le guerre per procura sono in effetti un caso di scuola della visione liberale, perché combinano due elementi strutturali del liberalismo reale: il filantropismo per cause distanti in luoghi remoti e la frustrazione rabbiosa pronta ad esplodere, che può essere rilasciata verso l’apposito “malvagio” o lo “stato canaglia” di turno. Le guerre per procura in luoghi remoti, cui ci si può collegare televisivamente ore pasti, per poi tornare alla serietà della vita nel resto della giornata, sono una soluzione pulsionale perfetta per il cittadino liberale, che può al tempo stesso sentirsi un benefattore dell’umanità e sfogare il proprio desiderio rabbioso di distruzione (evitando così di sparare al vicino o di farsi sparare da esso).

Accanto all’esercito degli sconfitti dalla vita, che covano sotto un volto disciplinato una rabbia disperata, c’è poi la rarefatta truppa dei vincitori, di coloro i quali vedono la società dall’alto della propria capacità di comprare ogni cosa e persona che gli possa servire. Questi sono finalmente nella posizione che il sistema gli ha promesso come premio sommo: la capacità di “realizzare i propri sogni” in grande stile. Sciaguratamente chi ha fatto tutto ciò che il sistema gli richiedeva per raggiungere quei vertici, di norma non ha avuto né il tempo nè la cura per approfondire nulla, e i suoi sogni vivono dell’immaginario plastificato, astratto, convenzionale che il sistema secerne come sottoprodotto culturale. Nel migliore dei casi queste anime piatte “si realizzano” in qualche modo infantile, comprandosi qualcosa di molto molto grande e molto molto costoso (una nave, un razzo spaziale, un’isola). Il caso peggiore però è quello in cui questi stessi ritengano di essere nella posizione di “migliorare l’umanità” – un’umanità di cui hanno solo una conoscenza da rivista patinata postprandiale – e che cercheranno di “migliorare” realizzando qualche fantasia letteraria: l’emancipazione di quelle che nel proprio tinello gli appaiono come “minoranze oppresse”; il miglioramento della volgare umanità con qualche tecnologia transumanista, ecc. Questi imperatori per censo che si vogliono despoti illuminati sono obiettivamente personaggi pericolosi per l’unione di potere e astrattezza.

*          *          *

Ciò che bisogna tenere fermo di questo quadro, in conclusione, è soprattutto un punto, un singolo punto essenziale.

L’idea che la forma di vita liberale sia una forma di vita pacifica, rispettosa degli altri e umanitariamente ispirata è una delle più straordinarie fandonie e delle maggiori illusioni autointerpretative che una cultura abbia mai partorito.

Il liberalismo reale nella sua evoluzione storica ha fatto serenamente commercio di schiavi finché gli è convenuto (si vedano gli ottimi studi di Losurdo); ha fatto ogni resistenza possibile all’avvento di governi democratici che non fossero vincolati al censo; ha guidato gli eserciti imperialisti nello sfruttamento senza remore del resto del mondo nel XIX secolo (e anche dopo); ha fomentato lo sciovinismo e la guerra con i suoi giornali alle soglie del 1914; dopo la parentesi delle guerre mondiali ha ripreso la propria battaglia ideologica (nella versione “difesa del mondo libero”) facendo una raffica di guerre per procura mentre si vantava del proprio pacifismo; e infine dagli anni ’70, nella forma neoliberale, ha ripreso l’opera di progressivo spegnimento delle democrazie e di sistematico sfruttamento di chiunque abbia basso potere contrattuale.

Questo quadro può sorprendere il cittadino ingenuo, che magari è caduto vittima della pubblicità-progresso che il marketing ideologico liberale coltiva con grande cura. Essendo una cultura che nasce da una generalizzazione dello scambio commerciale, il liberalismo ha avuto sempre straordinaria cura del marketing, proiettando ovunque immagini idealizzate e ampiamente finzionali di sé. Ma al netto di questi raffinati tentativi di dissimulazione, il nocciolo duro del mondo liberale è rappresentato da una linea di sviluppo individualmente rivolta ad ideali di conquista, strumentalizzazione e asservimento, perché questa è la forma in cui “i sogni si realizzano”. Ciascun soggetto è spinto ad immaginarsi come un soggetto sovrano, indipendente, che non ha bisogno di nessuno, che può disporre strumentalmente degli altri e che è a sua volta disposto ad essere utilizzato, se questo lo conduce avanti nella realizzazione del suo sogno solitario. Ciascuno è dunque  un re, un sovrano, un piccolo imperatore in potenza, e di diritto, che ha solo bisogno di un po’ di fortuna per esserlo anche di fatto. E se il destino non gli concede tale fortuna, sente di avere pieno titolo per sfogare la propria rabbia. Un sistema predatorio che genera con eguale intensità, sfruttamento, violenza, indifferenza e la più spettacolare ipocrisia.

https://sfero.me/article/il-sogno-liberale?fbclid=IwAR0N9Icsr5FYK7KPoecji66oHM5fsaHtqr1773H2ncMRLTDdmTrgAjFh33E

– SONDERWEG – Alle radici del cosmo russo : cicli della storia. FINE [cap.4]_di Daniele Lanza

COSA è la Russia ? Cosa NON è ?
Quello che chiamiamo “Russia” e che identifichiamo con i confini politico amministrativi tratteggiati sulle carte non è quanto pensiamo o meglio, lo è solo in parte. La Russia – l’entità unitaria panrussa emersa nella prima età moderna, sopravvissuta sino ad oggi traverso innumerevoli mutazioni – sebbene ovviamente detenga lo status legale di stato, non lo è nella stessa accezione in cui lo sono i suoi analoghi europei ad occidente e questo per ragioni di fondo che a loro volta sollevano quesiti ultimi, come la natura e il significato dello stato stesso – in generale – e il suo rapporto con la società.
Per rimarcare la distanza tra il modello russo e gli stati europei si cita normalmente la dimensione geografica non comparabile naturalmente (che la Russia non sia uno stato nazionale in senso europeo è lapalissiano), ma nel fare questo si sorvola un elemento che ha più a che fare con la metafisica che con il materiale : l’analisi filosofica ha suggerito che altro non si tratti che di Costantinopoli, metafisicamente eiettata dal Bosforo e riemersa oltre 1000 km a nord nel cuore della pianura slavo orientale, entro i piccoli confini di un principato russo : a quest’ultimo, inizialmente minuscolo depositario simbolico della tradizione greca, le circostanze storiche permettono però di ingigantirsi all’inverosimile riproponendo l’impero bizantino (o quello ellenistico di Alessandro addirittura, per essere visionari all’iperbole) idealmente traslato su differenti coordinate geografiche.
Benchè le circostanze e quindi le strutture materiali mutino con l’andare del tempo, il substrato concettuale “universale” (che è il proprio SONDERWEG e al tempo stesso eccezionalità) tende a persistere, ridipingendosi di era in era a seconda del caso (con le tendenze o ideologie del momento) : l’andamento imponderabile degli eventi porta lo stato russo ad allontanarsi e scollarsi talvolta dalla propria “unicità” o “eccezionalità” per poi tornarvi inevitabilmente come per una legge della fisica, allorchè questa distanza dal sonderweg diventi intollerabile. Abbiamo dunque a che fare con un fenomeno analizzabile col metro della storia di lunghissimo corso : l’andamento ciclico di una civilizzazione. L’andamento ciclico della storia russa si percepisce alla luce dei passaggi che si sono visti nei capitoli precedenti : la Terza Roma si affievolisce si secolarizza (non riesce a far fronte alla secolarizzazione che investe tutto l’emisfero europeo) lasciando sul terreno un già grande aggregato territoriale che però è troppo fragile per affrontare le sfide dell’era nuova. Serve pertanto un nuovo “credo secolare” che Pietro il grande fornisce al paese trasformando il vecchio zarato in IMPERO RUSSO : Pietro Romanov che probabilmente realizzava la vulnerabilità del vecchio stato, bene memore del quasi annullamento agli inizi del secolo stesso per opera dei polacchi, decide dunque per un ritorno al concetto di “eccezionale” che si stava perdendo, tramite la sua idea di stato. Recuperare l’eccezionalità è una zona di passaggio TRAUMATICA, dal momento che per alterare l’andamento storico in corso occorrono misure radicali : così come quasi due secoli avanti Ivan il terribile carica con ideali messianici il proprio giovane zarato lanciandolo in imprese per l’epoca titaniche, Pietro il grande a sua volta sfigura il volto della società russa del suo tempo, ne attua una metamorfosi di prima grandezza consegnandola temporaneamente all’occidente.
Quando l’impero è oramai decadente e non può più servire allo scopo di difendere la sacralità dello spazio russo da interferenze esterne (ma anzi si va verso il collasso e lo smembramento territoriale) allora tutto si rimette in moto : in questo frangente una forza si interpone per impedirne la fine e questa è rappresentata dai bolscevichi stessi che invertono dalle fondamenta il moto di decomposizione dello stato russo (bramato dai suoi rivali). Nel riportare la capitale da San Pietroburgo a MOSCA, simbolicamente pongono fine non solo alla parentesi imperiale, ma anche alla parentesi OCCIDENTALE del paese, recuperando in un solo colpo non soltanto un’ideale universale (nell’ideologia socialista) , ma anche recuperando il destino distaccato dall’occidente della civilizzazione russa : il sonderweg, il cammino separato (in questo caso nei confronti dell’occidente) è recuperato nella cortina di ferro che cala attorno al primo stato socialista al mondo (perlomeno in prospettiva nazionalista e “autoctonista” si può interpretare così la dinamica).
Il processo rivoluzionario con quanto consegue, è il cataclisma che si abbatte sulla società russa della prima metà del 900, eppure anche questo in un’ottica patriottica è un male necessario : polverizzare i muri del presente, tramite una purificazione militare – per quanto traumatico – onde evitare che la sua decadenza trascini nel baratro finale (pathos dell’avvicendarsi di crepuscolo e rinascita).
Questo cammino ci porta i nostri giorni : l’era sovietica che per buona parte del secolo puntella il paese, si dissolve aprendo la strada allo spettro della disintegrazione territoriale impedita 70 anni prima. Non solo è in gioco la Russia “estesa” ovvero il suo hinterland di repubbliche post-sovietiche, ma ora lo stesso HEARTLAND è a rischio : a rischio di smarrire sé stesso, come ebbro di idee estranee alla propria tradizione ancestrale nell’era della comunicazione di massa, della globalizzazione, che agiscono come veicoli formidabili della dominanza occidentale sulla cultura planetaria con tempistiche di rapidità sconosciuta al passato.
Ancora una volta la storia si ripete dunque ! Come al tempo di Ivan IV, come al tempo di Pietro il Grande, come al tempo della rivoluzione d’ottobre, assistiamo ad un momento di grave crisi non solo dello stato russo, ma della stessa IDEA RUSSA ovvero in quanto civilizzazione a sé stante. La tragedia del decennio Ieltsiniano seguita da un “salvatore” nel ventennio a seguire non è dunque strana, ma al contrario segue perfettamente la logica di riassestamento del “destino” : varcata la soglia critica……si mette in moto qualcosa che si muove in direzione opposta per salvaguardare il “nucleo” della civiltà.
Vladimir Putin risulta quindi essere una di quelle enigmatiche (o tragiche) figure, quali statisti o sovrani che loro malgrado si trovano in fasi di passaggio : di coloro che trovano dietro sé macerie e dinnanzi a sé l’ignoto, dovendo farvi fronte con i mezzi che hanno. Se una spiegazione (non giustificazione) si può trovare per l’attuale presidente di Russia si potrebbe dire che è una persona ordinaria in circostanze (per il proprio paese) NON ordinarie : e disgraziatamente non si può far fronte a circostanze straordinarie con mezzi ordinari. In ottica russa nazionalista e considerato il contesto altro non sarebbe che uno strumento della storia, cui è affidato l’arduo compito di restaurare il giusto sentiero per la propria civiltà rimettendone in sesto la struttura materiale che si chiama stato.
La “creatura” in questione – al di là della formalità giuridica – NON è uno stato nazionale e nemmeno uno stato multietnico (come si vantano d’essere i più moderni stati d’occidente) : è uno stato sovranazionale ovvero sé stesso ed al tempo medesimo più di questo, definendosi proprio in quella che per noi è una contraddizione in termini (ma la stessa tradizione cristiana non vede forse tre entità in una sola ??). Si può evitare di sprofondare nella trappola semantica semplicemente superandola ed arrivando alla comprensione che quella russa è una forma di civilizzazione indipendente, a sé stante. Quella cui abbiamo assistito in questo ultimo mese tra Russia e Ucraina NON è una guerra tra due stati, ma una guerra CIVILE (interna alla “sovranazionalità” russa) e l’attrito trasformatosi in seconda guerra fredda tra paesi dell’occidente e Mosca NON è un conflitto tra stati (come la storia della diplomazia ci direbbe) bensì un confronto di civiltà : quella occidentale di stampo latino e germanico – immensa e frammentata in una moltitudine di stati e lingue diverse , mentre dall’altro quella russa di stampo bizantino, entità più limitata demograficamente ed economicamente, ma altrettanto grande geograficamente, unificata politicamente e linguisticamente e non priva di risorse naturali ed alleati (soprattutto). Questo il corretto modo – benchè troppo astratto per molti – di leggere le cose.
Il presidente legale (Vladimir Putin) dello spazio territoriale coincidente con tale civilizzazione ha come deciso – consapevolmente o meno – di assumersi un complesso ruolo storico che lo inserisce nel solco dei predecessori in quell’andamento ciclico che abbiamo tentato di descrivere. Una sfida molto ambiziosa considerato il grado di permeabilità del mondo odierno rispetto a secoli ed anche solo generazioni passate : COME ritornare al proprio sonderweg nel 21° secolo ? L’unica cosa certa, osservando l’andamento ciclico è che produrre il riavvicinamento comporta fiumi di sangue o in ogni caso un sacrificio collettivo di entità non calcolabile.
Il Sonderweg è in buona parte idea : reggerà la società russa al prezzo richiesto per tornare all’”idea” rinunciando al bene materiale che la generazione di apertura al mondo esterno ha portato? Non occorre perdersi in una diatriba “idea-materia” degna di Platone e Aristotele per carità (!), basti riflettere più concretamente sulla determinazione che caratterizza ogni suo passo a partire dall’inizio del conflitto : l’indifferenza riguardo lo scollegamento della Russia da molti benefit offerti dalla civiltà del consumo e della rete internet (dai fast food ai social network) è prova lampante di un atteggiamento particolare….non si odia l’occidente, ma se ne può fare a meno. Forse si invita a farne a meno : non si negano le comodità occidentali al proprio popolo, ma si ottiene che sia l’occidente a toglierle ottenendo così un doppio vantaggio : l’influenza materiale occidentale si attenua e non si potrà incolpare (direttamente) lo stato russo per questo (dall’esterno si dirà che è la Russia ad aver iniziato il conflitto, meritandosi la risposta, ma da una prospettiva interna non è così : la popolazione , che in generale supporta il proprio stato, se non il governo, attribuirà la colpa alla negatività occidentale contro i russi. Si incolperà il mondo esterno e non la Russia in sé). In sintesi efficace e dura come la pietra : nemmeno la minaccia di uno scollegamento totale dall’internet globale pare aver sortito un effetto significativo, nei giorni peggiori.
Concludiamo.
Riguardo il presidente concluderemmo che oramai – prossimo alla pensione – si è addossato un ruolo che va ben oltre la vita mortale di alcuno, fuori misura. Ha rinunciato ad un comune successore preferendo invece prendere una decisione storica che avrà obbligatoriamente riflessi su qualsiasi successore avrà mai : ha rimesso in moto la catena degli eventi, ha prodotto un’alterazione nello scorrimento temporale (per parlare come in fantascienza) della storia per il secolo in questione………questa la sua eredità a prescindere da come vada.
Vladimir Putin è un uomo profondamente solo, non compreso né dai nemici e nemmeno dagli amici, da coloro che ne sostengono le cause per pura fedeltà, dalla folla urlante che pure lo applaude per fisiologico trasporto patriottico, ma senza capire l’essenza intima delle sue ragioni. Un uomo che lascia ai suoi successori un enigmatico vuoto : COME farà la Russia a difendere il proprio nucleo vitale e il binario prestabilito (sonderweg) nel contesto globalizzato del 21° secolo ? Quale energia si utilizzerà per rendere coesa la società ? Ideologia ? Fede dinastica ? Fede religiosa ? Tutte sono esaurite storicamente e nulla di nuovo è stato proposto : il VUOTO è il peggiore nemico della Russia (non gli USA o la Nato), la più macroscopica lacuna che nemmeno l’uomo “del destino” ha potuto per ora modificare : l’assenza di un verbo materiale traverso il quale l’idea russa possa reincarnarsi come nei secoli passati, di volta in volta. Nessun nuovo anello dell’andamento ciclico è stato forgiato per questa fase di passaggio : possiamo quindi concludere che Putin nel scegliere uno “stato di cose” (o ritorno al sonderweg) anziché un successore in carne ed ossa ha optato per una variante grandiosa nell’uscire di scena…solo che al momento è monca. Come un regista che ha una grande sceneggiatura, ma di fatto scarso budget per realizzarlo sullo schermo (per metterla così).
I cicli passati sono analizzabili, ma quelli futuri sono imponderabili. Il 21° secolo vedrà.

 

Ucraina! Il vizio d’origine di un regime_di Max Bonelli

La narrazione di casa nostra ci presenta ossessivamente Zelensky, un attore nel pieno esercizio delle sue funzioni e il regime ucraino come i paladini delle libertà del mondo occidentale in antitesi al totalitarismo dell’invasore russo. Max Bonelli ci offre un primo spaccato inquietante della natura del regime ucraino, impegnato a combattere con la stessa intensità sia l’esercito russo che una parte molto significativa della propria popolazione. Un regime che ovviamente ha il diritto di opporsi militarmente, ma che altrettanto ovviamente in questi anni ha perseguito politicamente una linea di aperta ostilità ed aggressione verso la Russia e di feroce repressione verso una componente fondamentale della propria popolazione e ai danni della consistente opposizione politica presente nel paese. Il regime ha avuto quasi dieci anni per cercare un accordo dignitoso con le parti. Istigato e lautamente foraggiato dalle componenti più avventuriste delle élites statunitensi ed europee ha scelto la strada di un nazionalismo territoriale ed etnico che prescinde dalla complessità ed eterogeneità del paese. Un aspetto particolarmente inquietante anche e soprattutto per i paesi della Unione Europea. Il lirismo che ammanta le azioni della dirigenza europeista, visto l’esito dell’esperimento ucraino ed il veleno introiettato dall’accettazione senza remore nel proprio seno del particolare nazionalismo proprio di buona parte dei paesi dell’Europa Orientale, è una maschera che con disinvoltura nasconde ormai a stenti intenti particolarmente inquietanti, già intravisti nella gestione della crisi pandemica ed una supina ed autodistruttiva subordinazione politica all’avventurismo statunitense, disposto ad alimentare e strumentalizzare chiunque, per quanto impresentabile, pur di perseguire i propri obbiettivi. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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Stati Uniti, Russia! Nebbia della guerra, nebbie nelle menti_con Gianfranco Campa

Un presidente ormai isolato, ignorato, oltre il limite del patetico. Un ceto politico sempre più privo di senso istituzionale, tutto preso dallo scontro politico e dalle beghe interne. E’ la situazione paradossale della più grande potenza mondiale, laddove solo il Pentagono e quindi gran parte delle più alte cariche militari sembrano aver conservato prudenza e lucidità in un contesto geopolitico sempre più mutevole e conflittuale. L’Ucraina è attualmente il centro focale delle attenzioni, ma è sicuramente uno soltanto degli episodi che costelleranno la scacchiera internazionale in uno stillicidio di provocazioni e risposte. L’Ucraina è attualmente un porto delle nebbie dove la verità pretende di essere dettata dai detentori della propaganda e del sistema mediatico. Vedremo se il castello di menzogne riuscirà a reggere sino al logoramento dell’iniziativa russa oppure andrà incontro al crollo di una realtà politica e socioeconomica che, specie in Europa, si avvia sempre più velocemente verso un drammatico dissesto. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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Russia, Ucraina! Guerra civile e guerra tra stati_con Antonio de Martini

Tutta la saggezza e la maestria di Antonio de Martini. Siamo tutti impegnati a seguire e decifrare i movimenti militari nella guerra in Ucraina. Con essi i risvolti tragici legati ad esecuzioni e rappresaglie con il corollario delle morti dei civili; inevitabili queste ultime come in una qualsiasi guerra moderna, ma in una dimensione molto ridotta almeno sino ad ora, se comparato con quanto successo in Iraq, in Siria, in Afghanistan. Una condotta militare dettata da una scelta politica precisa da parte di Putin. La dovizia di fatti e di immagini induce e serve a nascondere il filo conduttore delle strategie politiche in corso. De Martini lo sottolinea continuamente. Strategie il cui filo conduttore si può ricondurre agli antefatti della guerra civile in Russia di un secolo fa con la diretta partecipazione di anglosassoni e a quelli della seconda guerra mondiale, riconducibili alla rete di contatti costruita dai tedeschi e riportata nella loro integrità agli statunitensi nel secondo dopoguerra. Una trappola ordita dal mondo anglosassone, dalla quale il governo russo mostra di poterne uscire con grande difficoltà. Più il conflitto rischia di assumere i connotati di una guerra civile, più lo scontro rischia di impantanarsi seguendo direzioni imprevedibili. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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Federico II, un modello di potere? Intervista a Sylvain Gouguenheim #1 di SYLVAIN GOUGUENHEIM

Continuiamo a pubblicare bradi del dossier di “Conflits” dedicato al tema della potenza

L’imperatore Federico II ha segnato il suo tempo con il suo potere politico e culturale. Rappresenta uno degli archetipi del potere in epoca medievale, il suo regno illustra il modo in cui viene inteso. Intervista al medievalista Sylvain Gouguenheim.

Sylvain Gouguenheim è professore all’ENS Lyon, autore di numerosi libri e monografie dedicate in particolare ai Cavalieri Teutonici e una biografia di Federico II. Intervista condotta da Jean-Baptiste Noé.

Come era concepito il potere nel medioevo? È solo politico o include anche l’economia e il mondo intellettuale? Su quali fonti intellettuali si basa questa concezione del potere?

“La legge ha un naso di cera e il re un pugno di ferro che gli permette di torcere la legge a suo piacimento…” (Enrico III, imperatore tedesco)
La nostra parola “potere” deriva dal latino “potestas” che dava l’antico Francese il termine “pôté”. La potestas è prima di tutto la capacità di dominare uno spazio e delle persone. Questa capacità può essere acquisita da zero da un “avventuriero”, ma spesso si basa sul potere della famiglia, forgiato e tramandato attraverso gli antenati. La forza dei legami familiari è uno dei parametri più importanti del potere medievale.

Dominare uno spazio è organizzarne l’economia, definirne e proteggerne i limiti, esercitare la sua autorità sugli uomini che vi risiedono, e quindi sottoporli alla sua giustizia, alla sua tassazione, agli obblighi di servizio (lavoretti, servizio militare, eccetera.). Il “poté” designava così sia il potere del signore che il territorio dove si esercitava la sua giurisdizione. Il potere nel Medioevo si basava quindi principalmente sulla forza armata, sul possesso della terra e sui diritti umani. È quella del signore che vive di rendita fondiaria nelle sue residenze fortificate.

Senza potere, cioè senza la capacità di poter fare ciò che si vuole, di agire sugli uomini e sugli elementi, non c’è autorità. Ma al contrario, senza autorità il potere è indebolito. L’autorità è uno strumento per legittimare il potere, il suo fondamento morale. In un certo senso, l’auctoritas attenua la violenza della potestas. Con il cristianesimo, questa “auctoritas” crebbe diventando sacra: il papato pretendeva di esercitare un’autorità morale su tutta la cristianità e quindi di esercitare sanzioni sui poteri politici che non rispettavano i principi cristiani o la volontà del popolo. papi in questioni tanto delicate quanto la nomina e l’indipendenza dei vescovi e il controllo delle “chiese nazionali”.

Anche da leggere

Cos’è il potere? Riflessioni incrociate. Serie speciale Conflitti

Detto questo, il Papato oscillava tra due tendenze: una, spesso definita teocratica, che osserviamo all’epoca della Riforma gregoriana e nel XIII secolo, da Innocenzo III a Bonifacio VIII; l’altro, di ispirazione gelasiana. Il primo ha voluto impedire ogni intrusione del potere secolare nella vita della Chiesa, per affermare il primato del papa, la “pienezza” del suo potere all’interno della Chiesa, la sua dimensione universale, senza però creare un “impero pontificio”. avrebbe regolato la vita economica e sociale. In questo contesto era necessario emanciparsi dal potere degli imperatori, desacralizzato. La Chiesa della Riforma Gregoriana si è così trasformata in un corpo politico, strutturato da una Legge in piena revisione. Bonifacio VIII si spinse oltre proclamando in “Unam Sanctam” che i re erano soggetti a un semplice sacerdote… La dottrina gelasiana (496) era più equilibrata: distingueva tra poteri temporali e spirituali (le “due spade”), che dovevano cooperare. Certo, il potere temporale doveva coadiuvare il potere spirituale, ma non gli era soggetto nell’ambito civile: doveva piegarsi all’autorità ecclesiastica solo per ciò che rientrava nella religione, la “res divinae”. C’era dunque a capo della società cristiana una dualità di poteri, voluta, secondo Gelasio I, da Dio stesso. La Chiesa (il Sacerdozio) e il Regno (il Regnum) erano due “res publicae”, due entità separate che dovevano cooperare per la salvezza dell’Umanità. distingueva tra poteri temporali e spirituali (le “due spade”), che dovevano cooperare. Certo, il potere temporale doveva coadiuvare il potere spirituale, ma non gli era soggetto nell’ambito civile: doveva piegarsi all’autorità ecclesiastica solo per ciò che rientrava nella religione, la “res divinae”. C’era dunque a capo della società cristiana una dualità di poteri, voluta, secondo Gelasio I, da Dio stesso. La Chiesa (il Sacerdozio) e il Regno (il Regnum) erano due “res publicae”, due entità separate che dovevano cooperare per la salvezza dell’Umanità. distingueva tra poteri temporali e spirituali (le “due spade”), che dovevano cooperare. Certo, il potere temporale doveva coadiuvare il potere spirituale, ma non gli era soggetto nell’ambito civile: doveva piegarsi all’autorità ecclesiastica solo per ciò che rientrava nella religione, la “res divinae”. C’era dunque a capo della società cristiana una dualità di poteri, voluta, secondo Gelasio I, da Dio stesso. La Chiesa (il Sacerdozio) e il Regno (il Regnum) erano due “res publicae”, due entità separate che dovevano cooperare per la salvezza dell’Umanità. doveva sottostare all’autorità ecclesiastica solo per le questioni attinenti alla religione, la “res divinae”. C’era dunque a capo della società cristiana una dualità di poteri, voluta, secondo Gelasio I, da Dio stesso. La Chiesa (il Sacerdozio) e il Regno (il Regnum) erano due “res publicae”, due entità separate che dovevano cooperare per la salvezza dell’Umanità. doveva sottostare all’autorità ecclesiastica solo per le questioni attinenti alla religione, la “res divinae”. C’era dunque a capo della società cristiana una dualità di poteri, voluta, secondo Gelasio I, da Dio stesso. La Chiesa (il Sacerdozio) e il Regno (il Regnum) erano due “res publicae”, due entità separate che dovevano cooperare per la salvezza dell’Umanità.

Il potere reale, che J. Le Goff ha detto essere una delle invenzioni medievali, è caratterizzato dalla sovranità, un termine feudale: il re non è vassallo di nessuno; i principi ei nobili sono suoi vassalli diretti o indiretti. A ciò si aggiunge la sovranità: il re non è politicamente soggetto a nessuno; come scrissero i giuristi nel XIII secolo, è “imperatore nel suo regno”. Infine, il re non solo fu coronato, ma consacrato, il che lo erige al di sopra e in disparte dagli altri uomini; la sacralità avvolge e rafforza la dimensione feudale e politica del suo potere; ne fa un mediatore tra Dio e gli uomini. Il modello è Cristo Re. Questo atto che appartiene al mondo soprannaturale è un elemento di un ordine istituzionale; la legittimità del potere sul mondo non viene da questo mondo… Noi siamo re “per grazia di Dio”. L’incoronazione contribuì a creare l’idea di maestà, e quindi del reato di “lesa maestà”. Questa sacralità spiega l’importanza dei rituali che circondano la pratica del potere. Il re beneficia così dei poteri taumaturgici. Certo, è vincolato dalle promesse fatte durante l’incoronazione (far regnare la pace e la giustizia, garantire la prosperità), e se deve rispettare e garantire il costume, è anche l’artefice della Legge. Non bisogna minimizzare il ruolo crescente della scrittura nel governo degli uomini: la produzione di documenti che esprimono la volontà del sovrano, la loro progressiva archiviazione, sono strumenti di potere. Questa sacralità spiega l’importanza dei rituali che circondano la pratica del potere. Il re beneficia così dei poteri taumaturgici. Certo, è vincolato dalle promesse fatte durante l’incoronazione (far regnare la pace e la giustizia, garantire la prosperità), e se deve rispettare e garantire il costume, è anche l’artefice della Legge. Non bisogna minimizzare il ruolo crescente della scrittura nel governo degli uomini: la produzione di documenti che esprimono la volontà del sovrano, la loro progressiva archiviazione, sono strumenti di potere. Questa sacralità spiega l’importanza dei rituali che circondano la pratica del potere. Il re beneficia così dei poteri taumaturgici. Certo, è vincolato dalle promesse fatte durante l’incoronazione (far regnare la pace e la giustizia, garantire la prosperità), e se deve rispettare e garantire il costume, è anche l’artefice della Legge. Non bisogna minimizzare il ruolo crescente della scrittura nel governo degli uomini: la produzione di documenti che esprimono la volontà del sovrano, la loro progressiva archiviazione, sono strumenti di potere.

Così il re crea qualcosa di nuovo: trasformare la condizione degli uomini, il loro ambiente di vita. Egli è dunque insieme “monarca” – solo al potere – e ministro (vincolato dal suo ufficio, dai suoi doveri): etimologicamente è colui che “dirige con rettitudine” nello svolgimento del servizio connesso alla sua funzione. Troviamo le tre funzioni indoeuropee: quelle della guerra, del sacro e della prosperità.

Federico II è uno di quei sovrani del medioevo di cui si è conservato il nome e il mito nella storia. Su quali elementi si basa la forza del suo potere? L’ereditarietà, la forza dell’Impero, la sua concezione della politica?

Il suo potere, Federico II (1212-1250) lo deve alla congiunzione dei propri sforzi per impadronirsene ea una costellazione politica molto speciale. Staufen dal padre, Hauteville (la dinastia dei re normanni di Sicilia) dalla madre, ereditò alla sua nascita il regno di Germania e quello di Sicilia. Quanto al titolo imperiale, doveva riceverlo dalle mani del papa poiché solo il re di Germania era un candidato legittimo per questa funzione. Ereditò quindi un doppio potere. Era anche un ostacolo perché era necessario governare questi due regni lontani l’uno dall’altro, senza confine comune, molto diversi per natura, per popolo, per istituzioni. L’ottenimento nel 1220 della corona imperiale gli permise, in teoria, di dominare il Nord e il Centro Italia oltre che il regno di Arles (con Marsiglia). Gli dava un prestigio ineguagliabile. Ma lo portò a fare i conti con la riluttanza e anche con le rivolte delle ricche città italiane, e di fronte all’ostilità di un Papato che non poteva accettare di vedere le sue terre intrappolate tra l’impero del Nord e il regno di Sicilia, che comprendeva il a sud della penisola (Calabria, Puglia, Campania). Ciò che fece della grandezza del territorio detenuto da Federico II fu anche causa della sua esposizione a contese e attacchi. Non risparmiò quindi sforzi, andando a conquistare con le armi una corona di Germania offerta dai principi germanici, ma contesa da Ottone IV allora imperatore. Fu ancora con le armi che dovette combattere contro le città longobarde e un Papato che lo perseguitò con inespiabile odio negli ultimi 15 anni del suo regno. Questo contesto, come il suo temperamento, spiegano la sua concezione del potere, che si manifesta nella sua politica, così come nelle sue osservazioni o nelle sue costruzioni: i principi, scriveva, furono stabiliti non solo da Dio, ma «dalla necessità impellente delle cose stesse» in per impedire agli uomini di distruggersi in guerre incessanti. Intende esercitare la sua autorità nella misura più ampia, non cedere nulla delle prerogative imperiali, non abbandonare nessuno dei suoi diritti o delle sue terre. In breve: nessun potere senza sovranità. Intende esercitare la sua autorità nella misura più ampia, non cedere nulla delle prerogative imperiali, non abbandonare nessuno dei suoi diritti o delle sue terre. In breve: nessun potere senza sovranità. Intende esercitare la sua autorità nella misura più ampia, non cedere nulla delle prerogative imperiali, non abbandonare nessuno dei suoi diritti o delle sue terre. In breve: nessun potere senza sovranità.

Uno dei suoi strumenti essenziali sono le insegne imperiali (corona, spada, scettro, mela d’oro) che sono più che simboli: oggetti carichi di potere effettivo, di sacralità.

Realizza i suoi progetti con tenacia, con un evidente senso dello Stato che si manifesta soprattutto nel suo regno di Sicilia, straordinariamente organizzato e dotato, ad esempio, di un codice giuridico, il “Liber Augustalis” (detto anche “Costituzioni di Melfi”). ) che rimase in uso fino all’inizio dell’Ottocento e che è la prima delle grandi codificazioni giuridiche medievali. Non era stato «mandato da Dio ad essere legge vivente» come proclama il Liber augustalis? La frase è di Giustiniano…

La totale santificazione del suo potere ha cementato la sua autorità. Alla fine, soprattutto, mancava dei mezzi finanziari e del più importante, più costante appoggio di un regno di Germania i cui Principi, laici ed ecclesiastici, tirano le fila.

Perché ha partecipato alle crociate? È per difendere il suo impero o per estenderlo a nuovi territori?

Inizialmente si impegna a fare una crociata il giorno della sua incoronazione reale ad Aix nel 1215. Vi abbiamo visto una scelta al passo con i tempi e forse anche il desiderio di vendetta per la sorte che aveva colpito suo nonno Barbarossa morto in piena gloria in Turchia quando si era incrociato. Ma subordinò la sua decisione all’ottenimento della corona imperiale e all’accettazione da parte del papa dell’eredità del trono di Germania a beneficio del figlio Enrico. Quando ricevette la corona a Roma nel 1220, rinnovò il suo giuramento di andare in Terra Santa. È difficile valutare la quota di convinzioni religiose in un uomo che certamente ha combattuto gli eretici, ma ha creato solo due chiese. Si avverte in lui più determinazione politica che devozione. Dopo diverse false partenze (ostacolate da problemi in Germania, dalla malaria che colpisce le sue truppe nel 1227) che gli valgono la scomunica… parte definitivamente nel 1228. Intanto era divenuto, per matrimonio con Isabelle de Brienne, re di Gerusalemme (1223) ed è lì che la sua visione giochi politici: come in Sicilia o in Germania, intende esercitare i suoi diritti di monarca. Si imbarcò quindi senza dubbio meno come crociato che come sovrano che si prefiggeva di prendere in carico il suo regno.

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Non commettere errori, però: ha con sé un esercito di circa 12.000 uomini, ed è impegnato in una vera impresa militare, il cui scopo è quello di riprendersi la tomba di Cristo, ricaduta nelle mani di i musulmani da Saladino. La sua fortuna fu incontrare un sultano, al-Kamil, in preda a guerre interne, e con il quale aveva negoziato dal 1227. Piuttosto che combattere, il sultano scelse di restituire la città santa ai cristiani, per 10 anni (limite stabilito da Maometto all’epoca del primo trattato concluso con i cristiani a Najran nel 631), che gli permise di evitare una guerra su due fronti. Federico II soggiornò solo due notti a Gerusalemme, tempo di essere incoronato, e tornò a pieno ritmo in Sicilia, invasa dalle truppe pontificie. Non fece mai più una crociata, ma tentò, invano, per placare il Papato alla fine del suo regno facendo penzolare la sua partenza – senza biglietto di ritorno – per l’Oriente, in cambio della pace… Nel suo testamento concesse altre 100.000 once d’oro “per il sollievo della Terra Santa” . La sua avventura oltremare, insomma, non nasceva dal desiderio di ampliare le dimensioni dell’impero, né probabilmente da una profonda religiosità, ma semplicemente dal desiderio di conformarsi all’idea che aveva della sua funzione.

Come pensa dell’Impero Romano e degli antichi imperatori? Si vede come loro erede?

Autore di un codice giuridico intitolato “Liber augustalis”, emettitore di una moneta d’oro chiamata “augustale” e sulla quale appare di profilo, il capo coronato, come gli imperatori romani, scegliendo nei suoi titoli epiteti romani (“sempre augusto”, “trionfante”, “conquistatore”….) Federico II aveva ovviamente in mente il modello imperiale romano. Sulle bolle d’oro che sigillavano i suoi documenti più importanti c’era l’immagine di Roma, sormontata dalla scritta “Roma, capo del mondo, tiene le redini del globo terrestre”. In questo non differisce da Carlo Magno né dagli altri imperatori che lo hanno preceduto. Roma era il punto di riferimento per l’impero; era il suo potere che si cercava di restaurare. Questo spiega la sua preoccupazione di controllare tutta l’Italia (ma non la “Gallia”!) inclusa Roma, quando il conflitto contro il Papa rese necessario il dominio della Città Eterna. Nel 1236 utilizzò la gloria di Roma per attirare la nobiltà romana nel suo accampamento: “il nostro cuore ha sempre ardeto per riportare la fondatrice dell’Impero Romano allo stato della sua antica nobiltà” scrisse nel 1239. Nel 1238 si offrì al Senato di Roma, nel corso di un vero e proprio trionfo antico, il carro cerimoniale dei milanesi prelevato dal campo di battaglia, trainato da un elefante, che ricorda quelli scolpiti sull’arco di Pompeo… Federico II però non volle fare di Roma la sua capitale: utilizzò la sua antica gloria al servizio della sua politica.

La caccia ha un ruolo essenziale nella sua concezione della politica. Egli stesso scrisse un trattato sulla falconeria. Com’è organizzato e cosa ci dice sulla concezione del potere e del potere?

Federico II è l’unico sovrano medievale che scrisse un trattato sulla caccia, la caccia al falco, che fu allo stesso tempo un notevole manuale di ornitologia, basato non solo su letture ma su un’esperienza trentennale. Questa monumentale “Arte della caccia con gli uccelli” è considerata uno dei capolavori del suo genere. Affronta tutti gli aspetti attraverso migliaia di osservazioni: addomesticamento e addestramento dei falchi, tecniche di caccia adattate a ciascuna categoria di falchi. È la caccia al nobile per eccellenza; quello riservato da teste coronate. È il più difficile di tutti perché l’uomo non uccide lì direttamente; lo fa per mezzo di un rapace che sapeva, dopo un complesso addestramento, come addestrare a questo scopo. A volte è stato paragonato al governo degli uomini (falchi, ben addestrati,

La sua concezione della caccia non è la sua. Sappiamo che l’aristocrazia vedeva in essa un’attività nobile e indispensabile. Si riserva la “caccia alta”, che si pratica a cavallo, senza ricorrere a trappole o attrezzi; i due più nobili sono la caccia al falco e la venerazione, in particolare la caccia al cervo: il cervo, selvaggina regale, simboleggia le virtù e le sue corna i Dieci Comandamenti; i testi indicano che bisogna dargli la caccia con un arco di tasso, frecce con punte d’oro, ecc.

La caccia è uno stile di vita, che prepara il corpo e la mente a cavalcate bellicose – senza però essere una vera e propria preparazione alla guerra, come troppo spesso si crede; lungi dall’essere solo divertimento, è un’arte di vivere, anzi una via di Salvezza perché, con il tempo che le dedichiamo, protegge dall’ozio, dalle tentazioni del mondo o della carne. “Siate sempre cacciatori e fate ciò che è saggio” dice il conte di Foix Gaston Phoebus, autore di un famoso trattato. Non bisogna dimenticare il suo aspetto utile: cibo, limitazione della selvaggina, distruzione di animali pericolosi (lupi, cinghiali, lontre). È presente anche la dimensione politica: i trofei di caccia sono doni diplomatici. L’Ordine Teutonico fornisce alle corti d’Europa falchi di qualità.
La caccia per il suo corso è anche un modo per appropriarsi dello spazio, per dimostrare il controllo del proprio territorio, sotto gli occhi di tutti (l’inseguimento di un cervo può portare il signore a coprire vaste distese). Lo spazio è addomesticato dall’uso che ne facciamo. La caccia è praticata anche in orari ben precisi; è la cornice di un tempo particolare, che non è il “tempo della Chiesa” e che si misura prendendo in prestito dalla vita del mondo animale: si fa riferimento ai periodi di “grasso”, di “carreggiata”, di ” velluto”…

https://www.revueconflits.com/frederic-ii-un-modele-de-puissance-entretien-avec-sylvain-gouguenheim/

Il conflitto in Ucraina resoconto 1a parte _con Max Bonelli

Con questa prima puntata avviamo una collaborazione con il sito proitalia.org  https://proitalia.org/con un resoconto sui movimenti militari in Ucraina attingendo alle più varie fonti disponibili sul web. Buon ascolto

https://rumble.com/v10b2k1-la-guerra-in-ucraina-1a-parte-con-max-bonelli.html

https://proitalia.org/media/podcast/un-continuo-logoramento

LA VERITA’ DI UN’EPOCA DALLA BOCCA DELLA SIGNORA PINA, di Roberto Buffagni

LA VERITA’ DI UN’EPOCA DALLA BOCCA DELLA SIGNORA PINA

 

Ieri è successa una cosa che mi ha colpito molto.

L’europarlamentare Francesca Donato interviene in aula e chiede un’inchiesta indipendente sulla strage di Bucha.

La vicepresidente dell’europarlamento Pina Picierno, una piddina che mai sinora richiamò la mia attenzione, la interrompe e la rimprovera battendo il pugno sul tavolo perché “quest’aula in nessun modo può divenire il megafono di posizioni che sono assolutamente non accettabili. […] Il massacro di Bucha è sotto gli occhi di tutti e non possiamo accettare che in quest’aula venga messo in discussione addirittura questo. […] quest’aula non è equidistante […] se ne faccia una ragione”.[1]

La signora Pina – una piddina di provincia dalla quale nessuno mai attese decisioni epocali – in un minuto e mezzo colpisce sotto la chiglia e affonda secoli di pluralismo politico, la democrazia parlamentare, il liberalismo, la Magna Charta, Westminster, forse anche le bianche scogliere di Dover.  Perché ovviamente – ma a quanto pare non così ovviamente – “quest’aula” parlamentare DEVE poter “divenire il megafono di posizioni” anche se sono “assolutamente non accettabili” e DEVE essere “equidistante”, altrimenti la possiamo anche chiudere e farci un parcheggio multipiano.

Quest’aula parlamentare infatti (come tutte le altre aule parlamentari), questo luogo in cui i deputati vanno per parlare, e per parlare liberamente, dicendo quel che ritengono opportuno dire, serve proprio a questo, da sempre: fino alla signora Pina.

Un altro parlamentare può certo contestare, anche con con asprezza, l’intervento del suo collega, e ribattergli, picchiando il pugno sul banco, che “quest’aula parlamentare non deve divenire il megafono di posizioni assolutamente non accettabili”: ma NON può farlo la vicepresidente del parlamento, che rappresenta l’istituzione parlamentare e sta alla presidenza proprio per garantire a TUTTI i parlamentari il pieno diritto di esprimere TUTTE le loro posizioni, anche quando lei personalmente le ritenga “assolutamente non accettabili”.

Il presupposto indispensabile del pluralismo politico, della democrazia parlamentare, del liberalismo, è questo: che l’istituzione parlamentare, e chi è delegato a rappresentarla, siano SEMPRE “equidistanti”, e garantiscano la piena libertà di espressione a tutti gli eletti: TUTTI, e SEMPRE, quali che siano le posizioni che assumono in aula.

Se in un suo intervento il parlamentare commettesse apologia di reato (non è il caso della Donato) la presidenza del parlamento potrà deferirlo alla magistratura, che richiesto e ottenuto dal parlamento il permesso di sospenderne le immunità e di inquisirlo, lo sottoporrà a procedimento penale.

Punto. Senza questi presupposti, in parlamento non si va per parlare ma per giocare col telefonino e combinare affarucci economici o di cuore.

Ma la signora Pina, come risulta inequivocabilmente dal video, non solo è pienamente convinta del suo diritto a dire quel che ha detto, ma è persuasa, intimamente, razionalmente persuasa di avere ragione, di essere nel giusto, di difendere valori non negoziabili, di assolvere pienamente il suo compito e il suo ruolo. È sicura di “fare la cosa giusta”, come dicono gli americani.

E qual è la cosa giusta? La cosa giusta è difendere la democrazia. E se vogliamo difendere la democrazia, nessuna democrazia per i nemici della democrazia.

Pas de liberté pour les ennemis de la liberté”. Saint-Just pronuncia queste parole alla Convenzione il 10 ottobre 1793, per giustificare la necessità di instaurare un governo rivoluzionario dittatoriale fino al ristabilimento della pace. Il Terrore è iniziato il 10 agosto precedente. Mentre Saint-Just tiene il suo discorso, in galleria ci sono i sanculotti armati, e fuori la ghigliottina. Chi dissentisse rischierebbe di essere fatto a pezzi all’uscita dall’aula, o di finire sul patibolo.

Ma che cos’è “la democrazia” in nome della quale la signora Pina affonda la democrazia parlamentare, il liberalismo, il pluralismo politico? Possiamo escludere che sia la democrazia parlamentare, il liberalismo, il pluralismo politico.

La “democrazia” della signora Pina siamo noi. Noi Occidente, noi che rappresentiamo e difendiamo i diritti umani, i principi universali, la libertà, l’umanità.

Per rappresentare e difendere i diritti umani, i principi universali, la libertà e l’umanità, noi:

  1. neghiamo il diritto di un parlamentare – che è un uomo anche lui – di esprimere in parlamento il suo pensiero
  2. violiamo il principio universale del diritto alla rappresentanza politica
  3. neghiamo la libertà di espressione del pensiero
  4. espelliamo dall’umanità chi non è come noi; per esempio i russi, che massacrano i civili e torturano i bambini. Che i russi massacrino e torturino lo diamo per scontato, tant’è vero che riteniamo superfluo e addirittura offensivo e inaccettabile anche solo menzionare l’opportunità di un’inchiesta indipendente sui loro massacri. Sono russi, dunque massacrano per natura: come gli orchi. Gli orchi sono orchi, cosa vuoi che facciano gli orchi? Massacrano e torturano, sono fatti così: non sono umani.

Curiosa, no, questa contraddizione? Per ottenere una cosa, fai il suo esatto contrario. Per essere umano, dichiari non-umana una porzione non trascurabile dell’umanità. Per essere democratico, distruggi la democrazia. Per difendere la libertà, applichi la coercizione in un luogo che è il tempio della libertà politica moderna, il parlamento. Per essere universale, sei particolaristico e identitario. Per difendere il mondo civile, distruggi la tua civiltà.

La logica aristotelica avrebbe qualcosa da ridire, ma che importa alla signora Pina? Aristotele non era democratico, era persino favorevole alla schiavitù; e poi la sua logica si chiama anche logica del terzo escluso, quindi non è inclusiva.

Forse è meglio rispolverare altri filosofi, per esempio la coppia Adorno-Horkheimer, molto cara alla generazione di piddini precedente quella della signora Pina; con il loro celebre libro “Dialettica dell’illuminismo”. In quel libro si dicono tante cose, condivisibili e non condivisibili, controverse o meno. Una però è di immediata attualità: che l’illuminismo parte con l’intenzione di realizzare tante belle cose, tipo il governo universale della ragione e della libertà, e non si sa bene come (Adorno-Horkheimer un’idea ce l’hanno, leggete il libro) finisce per realizzare l’esatto contrario, ossia un mondo dove abitano volentieri solo gli orchi, per esempio i personaggi delle opere di Sade, che torturano e massacrano gli inermi e, sì, anche i bambini.

Dalla bocca della signora Pina ascoltiamo, siderati, la verità di un’epoca: la nostra.

È un orco la signora Pina? No. La signora Pina è una brava persona, con i suoi pregi e i suoi difetti, che s’indigna di fronte alle cose cattive e desidera le cose buone. Non è un genio, ma chi è un genio? Molto pochi, quasi nessuno. Io certo no. È una piddina. Può risultare antipatico, ma c’è di peggio che essere piddini. Però la signora Pina, che pur vuole, vuole sinceramente tante cose belle e buone, finisce per fare tante cose brutte e cattive. Come mai?

Non avrei mai creduto che la signora Pina mi facesse pensare, e invece mi fa pensare molto. Mi interroga, mi lascia perplesso, turbato. La sento parlare in questo video, la guardo fare il viso dell’armi di una giusta collera, e mi chiedo: come siamo arrivati fin qui? Come siamo arrivati a questo capolinea? Nei suoi accenti sento risuonare la campanella di fine corsa, “si scende!” Ma dove si scende? Che cosa c’è in questo posto dove dobbiamo scendere? Che cos’è questo posto? È un posto? È un posto dove si può vivere? Un posto simile a quello dove stavamo quando salimmo alla nostra fermata? O è un posto assolutamente diverso, incomparabile, alieno? Lo sa la signora Pina? Ci abita già, lei, in questo capolinea? Forse sì, visto che pare trovarcisi così a suo agio.

Io no, io non mi ci trovo a mio agio. Non vedo niente di simile al posto dove sono salito, niente di familiare. Nebbia, vedo tanta nebbia; forse la nebbia della guerra? No, neanche, la guerra lo so cos’è. Non è questo.

Mi viene in mente un’analogia, ma è solo un’analogia. Avete visto le foto delle ombre sui muri di Hiroshima o Nagasaki? Quelle ombre che non sono ombre ma le impronte dei corpi umani nebulizzati dall’esplosione nucleare? Ecco. Questo capolinea dove ci fa scendere la signora Pina mi sembra l’impronta della civiltà europea impressa sul muro da un’esplosione atomica. I contorni sono identici, ma la sostanza, il corpo, l’essere un tempo vivo e senziente, non c’è più. Pùf!

 

 

 

[1] https://twitter.com/ladyonorato/status/1511659070914285571?s=20&t=cDE1_Dg2H1xe8uEimt1o4g&fbclid=IwAR2D0qMEQsklSIO-7A_0DXNAhASy-EBk1Ef4qQ4tu1vburqIEDI6dQyGp2k

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