Concorrenza globale: la supremazia americana con un altro nome, di Alastair Crooke

Casa

11 dicembre 2021 // Le crisi

Concorrenza globale: la supremazia americana con un altro nome

L’equilibrio globale è cambiato qualitativamente, e non solo quantitativamente, scrive Alastair Crooke

Fonte: Strategic Culture Foundation, Alastair Crooke
Tradotto dai lettori del sito Les-Crises

© Foto: REUTERS / Kevin Lamarque

Parlando all’Aspen Security Forum due settimane fa, il generale Milley ha ammesso che il secolo americano è finito, una consapevolezza che avrebbe dovuto essere presa molto tempo fa, si potrebbe dire. Eppure, che sia tardi o meno, questa dichiarazione sembra segnalare un importante cambiamento strategico: “Stiamo entrando in un mondo tripolare, con Stati Uniti, Russia e Cina come grandi potenze. [e] Solo mettendo tre su due aumenta la complessità “, ha detto Milley.

Più recentemente, in un’intervista alla CNN, Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza di Biden, ha affermato che è stato un errore cercare di cambiare la Cina: “L’America non sta cercando di contenere la Cina: non è una nuova guerra fredda. Le osservazioni di Sullivan arrivano una settimana dopo che il presidente Biden ha affermato che gli Stati Uniti non stavano cercando un “conflitto fisico” con la Cina, nonostante le crescenti tensioni. “Questa è una competizione”, ha detto Biden.

Questo in effetti sembrava segnalare qualcosa di importante. Ma è davvero così? L’uso della parola “competizione” è una terminologia un po’ strana e richiede un po’ di decrittazione.

L’intervistatore della CNN Fareed Zakaria ha chiesto a Sullivan: cosa è stato ottenuto dalla Cina dopo tutto il tuo duro discorso, cosa è stato negoziato? Si potrebbe immaginare una risposta che descriva come Biden pensa di gestire al meglio questi interessi in competizione in un complesso mondo tripolare. Beh, quella non era la linea di Sullivan. “Brutta domanda”, ha detto senza mezzi termini: non chiedere informazioni sugli accordi bilaterali, chiedi cos’altro abbiamo.

Il modo corretto di guardare a questo, ha detto Sullivan, è: “Abbiamo stabilito i termini per una concorrenza effettiva in cui gli Stati Uniti siano in grado di difendere i propri valori e promuovere i propri interessi, non solo nella regione indo-pacifica, ma anche Intorno al mondo. Quando si tratta dei nostri alleati in tutto il mondo, gli Stati Uniti e l’Europa sono allineati su questioni commerciali e tecnologiche per garantire che la Cina non possa “abusare dei nostri mercati”; e poi sul fronte indo-pacifico, siamo andati avanti in modo da poter ritenere la Cina responsabile delle sue azioni. “

“Vogliamo creare la situazione in cui due grandi potenze opereranno all’interno di un sistema internazionale per il prossimo futuro – e vogliamo che i termini di quel sistema siano favorevoli agli interessi e ai valori americani: è più di una disposizione favorevole in cui il Gli Stati Uniti e i suoi alleati possono modellare le regole di condotta internazionali sui tipi di questioni che saranno fondamentalmente importanti per il popolo del nostro paese [America] e per i popoli del mondo “, ha affermato. -aggiunge.

L’obiettivo dell’amministrazione Biden non era cercare una trasformazione politica in Cina, ha detto Sullivan, ma modellare l’ordine internazionale in un modo che servisse i suoi interessi e quelli di altre democrazie che la pensano allo stesso modo: “Vogliamo le condizioni per questa coesistenza in il sistema internazionale favorevole agli interessi e ai valori americani. Vogliamo che le regole del gioco riflettano una regione indo-pacifica aperta, equa e libera, un sistema economico internazionale aperto e il rispetto dei valori e degli standard fondamentali sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani nelle istituzioni internazionali, ha dichiarato. . Sarà una competizione mentre andiamo avanti. “

Sullivan propone molto chiaramente un ordine mondiale basato su “regole di condotta internazionali” che si svilupperebbe attorno ad un interesse strategico centrale (quello dell’America), senza preoccuparsi delle conseguenze che potrebbero derivarne per gli altri. Questo “sistema internazionale aperto, equo e libero” è solo uno strumento per la globalizzazione del sistema neoliberista occidentale finanziarizzato. Josh Rogin ha scritto questa settimana: “L’internazionalismo a guida americana, nonostante i suoi difetti e i suoi passi falsi, rimane l’ultima, la migliore speranza per l’umanità. “

E per intenderci, quando sentiamo parlare di un sistema economico aperto e libero favorevole agli interessi americani, non sono gli “interessi del 99%” a essere sanciti nel sistema, ma quelli della classe finanziaria dell’1%. , che pretendono il diritto di spostare denaro e beni ovunque, in qualsiasi momento, senza restrizioni.

Il riferimento di Sullivan ai diritti umani riflette lo “spirito” dell’UE, dove la dottrina dello stato di diritto europeo è servita come dispositivo pratico per estendere l’autorità centrale dell’Unione senza riscrivere i trattati. O, in questo caso simile, che gli Stati Uniti espandano la propria autorità e procedano senza dover concludere accordi bilaterali con la Cina (o la Russia) o chiunque altro. Sullivan è stato molto chiaro su questo punto: gli accordi negoziati con la Cina non erano il “parametro di riferimento” giusto per giudicare il successo della politica statunitense.

Inizialmente, nessuno in Europa si è preoccupato molto quando la Corte europea ha “scoperto” che nei trattati dell’UE era nascosta una supremazia generale dei valori e del diritto dell’UE (sebbene a prima vista non fosse così evidente). Questa tranquilla reazione, tuttavia, è in gran parte dovuta al fatto che la competenza dell’UE era ancora piuttosto limitata all’epoca.

Successivamente, il trasferimento graduale della sovranità nazionale a un interesse strategico centralizzato (Bruxelles) divenne il principale motore di quella che è stata definita “integrazione attraverso il diritto”. Nel tempo, una lettura approfondita dei trattati (per i trattati europei, leggi la “consacrazione” di Sullivan della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo) ha offerto nuove ragioni per sottoporre le politiche nazionali democratiche a una lettura sovranazionale. “

Allo stesso modo, la Dichiarazione universale dei diritti umani offrirà probabilmente a Sullivan nuove ragioni e possibilità per armare il testo e piegare alleati e “avversari” alla disciplina di interesse strategico centrale (altrimenti nota come Washington).

Quindi, quello che sembrava segnalare un cambiamento significativo nel pensiero americano, dopo un po’ di decrittazione, si è rivelato nulla del genere. La competizione tra le grandi potenze non è altro che l’ordine globale globalista, incentrato sugli Stati Uniti e basato su regole. Gli Stati Uniti si astengono dal “trasformare” (cioè fomentare una rivoluzione colorata) il Partito Comunista Cinese, perché non possono; questo strumento si applica ancora ai piccoli pesci (es. Nicaragua).

Da un lato, abbiamo visto le conseguenze di questo approccio centralizzato alle “regole” – praticato a Bruxelles oa Washington: ne deriva una sorta di torpore soporifero. Tutte le energie sono dedicate a mantenere a galla il fragile sistema (che si tratti delle regole del gioco dell’UE o degli Stati Uniti), piuttosto che trovare soluzioni reali. Si aprono divisioni che politicamente è impossibile contenere; il risentimento aumenta; le crisi sono gestite e non risolte; giochiamo con il tempo; le riforme sono graduali e poi improvvisamente unilaterali; e, alla fine, regna l’immobilità. In Europa si chiama Merkelismo (dal nome del Cancelliere tedesco).

Dopo il tranquillo vertice del G20 a Roma e la COP26 a Glasgow, sembra che stiamo iniziando a vedere la Merkelizzazione del mondo. La sensazione che rimane è quella di un meccanismo (due in realtà se includiamo l’UE), che produce suoni convincenti di macchine ruggenti e che fa sperare in qualche risultato, ma che non porta alla fine a poco o nulla – ad eccezione di un crescente deficit democratico, con il trasferimento a una tecnocrazia sovranazionale di decisioni che prima erano di competenza dei parlamenti.

D’altra parte, per quanto grave sia (date le crisi economiche che affrontiamo), il suo più grande ” peccato ” (come ha detto Sullivan) è la sua richiesta di ” regole ” globali, il cui fondamento è semplicemente “Gli interessi e i valori degli Stati Uniti e dei suoi alleati e partner”. Sullivan sostiene che gli Stati Uniti non cercano più di trasformare il sistema cinese (il che è positivo), ma insiste sul fatto che la Cina operi all’interno di un “ordine” costruito attorno agli interessi e ai valori degli Stati Uniti – in breve[in francese nel testo, ndr]. E come ha sottolineato Sullivan, lo sforzo diplomatico americano deve mirare a costringere la Cina a conformarsi a questo sistema. Da nessuna parte si parla dei costi per gli alleati, che dovrebbero rinunciare ai rapporti con la Cina o la Russia, per compiacere Biden.

Il peccato più grande , molto semplicemente, è che il tempo di queste ambizioni arroganti sia passato. L’equilibrio globale è cambiato qualitativamente, e non solo quantitativamente. Cina e Russia – le altre due componenti del mondo tripartito del generale Milley – lo hanno detto abbastanza chiaramente: rifiutano le lezioni dell’Occidente.

Fonte: Strategic Culture Foundation, Alastair Crooke, 15-11-2021

Che succede tra la Francia e l’Egitto?, di giuseppe_gagliano/

Qui sotto un interessante articolo di Giuseppe Gagliano, tratto dalla rivista https://www.startmag.it/ riguardante un episodio di informazione pilotata in grado di condizionare ed alterare gli indirizzi di politica estera francese in tutta l’area mediorientale e mediterranea. La lettura spinge ad alcune considerazioni a più livelli di astrazione. Ci suggerisce che limitare l’analisi geopolitica al mero rapporto può essere riduttivo e fuorviante. Chi agisce non è lo Stato in quanto tale, ma sono i soggetti, siano essi individui o soprattutto gruppi, in conflitto e cooperazione tra di essi, dotati di poteri decisionali e di condizionamento, in grado di rappresentarlo, di detenere le leve operative e di influenzarle. La titolarità dell’autorità è un fattore importante di agibilità se ad essa corrisponde una coerenza ed un controllo effettivi e sostanziali degli apparati. L’impegno ufficiale e formale va di pari passo con le azioni sotto traccia, rivelatrici dei legami trasversali che attraversano la dinamica di questi centri. Nella fattispecie l’articolo rivela le dinamiche di confronto e cooperazione tra alcuni centri decisionali francesi e turchi nel plasmare i rapporti con l’Egitto e i paesi del Golfo, anch’essi attraversati da spinte e controspinte. Il tutto in logiche ancora più estese che fanno riferimento alle fazioni statunitensi, una, quella obamiana, sostenitrice delle primavere arabe, l’altra ad esse ostile. Definire per altro in questo contesto Jamal Khashoggi giornalista, non rende bene la natura di questo scontro e di quell’assassinio. Rivela altresì la permeabilità e la fragilità di quelle formazioni socio-politiche che hanno aperto indistintamente, in nome di una “società aperta” apparentemente priva di identità, i propri spazi a vere e proprie comunità chiuse in grado di condizionare pesantemente e destabilizzare all’interno l’azione politica. Ad un livello ancora inferiore di riflessione deve portare a considerare la portata del Trattato del Quirinale tra l’Italia e la Francia nelle sue implicazioni nell’area mediterranea, in particolare la Libia e l’Egitto. Il trattato in qualche maniera vorrebbe mettere molto parzialmente al riparo l’Italia dalle mire turche nel vicinato prossimo della Libia e dei Balcani, in particolare l’Albania e la Bosnia. La postura, però, è talmente subordinata da farle perdere quasi ogni capacità di mediazione, sostenendo le poche figure, tra queste il figlio di Gheddafi in grado di ricomporre il mosaico libico; l’ultima possibilità di ricostruire in tal modo una nuova capacità di influenza diretta in quell’area. Lo stesso dicasi dei rapporti con l’Egitto di Al Sisi dove l’Italia, grazie all’affare Regeni, è ridotta più o meno consapevolmente a strumento di trame altrui. La liberazione di Zaki sarà probabilmente il contentino per far cadere in ombra l’omicidio Regeni; il prezzo della gestione “dell’affaire” è stato comunque già molto pesante anche per oche giulive artefici di tal fatta di questa tragicommedia. La posta in palio più significativa riguarda la Turchia di Erdogan ed il tentativo di trasformare il suo rapporto di collaborazione conflittuale con la Russia in ostilità dichiarata; di ridurre quindi i suoi margini di iniziativa autonoma e ricondurli nell’alveo del confronto strategico con la Cina e la Russia. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Ecco perché il fondatore e direttore del Centro di ricerca sull’intelligence francese (CF2R) non condivide quanto riferito dal sito di giornalismo investigativo Disclose. L’articolo di Giuseppe Gagliano

 

Secondo quanto sostenuto da Eric Denécé, fondatore e direttore del Centro di ricerca sull’intelligence francese (CF2R), quanto riferito dal sito di giornalismo investigativo francese Disclose sarebbe viziato da numerose deficienze informative oltre che da un’impostazione palesemente unilaterale e faziosa.

In primo luogo l’autore osserva – non senza amarezza – come i documenti che sono stati forniti al sito francese provengano dal ministero delle Forze armate e, in particolare, dalla Direzione dell’intelligenza militare e dal ministero degli Affari esteri. Insomma, una vera e propria fuga di notizie fatta probabilmente da analisti che non condividono le scelte poste in essere dall’attuale amministrazione francese in relazione alla vendita di armi e al sostegno al regime egiziano di Al-Sisi.

Data la gravità della condotta posta in essere da questi informatori verrà avviata un’indagine da parte del controspionaggio soprattutto perché chi ha dato questi documenti al sito investigativo francese lo ha fatto con premeditazione cioè con la volontà di danneggiare esplicitamente le relazioni bilaterali tra Francia ed Egitto. Che lo si voglia o no queste informazioni avvantaggeranno i concorrenti della Francia.

In secondo luogo, l’autore sottolinea come il sito dei giornalisti investigativi non sia certo neutrale ma sia relativamente noto in Francia per le sue posizioni antimilitariste e soprattutto per aver sostenuto le rivoluzioni arabe in particolare quelle egiziane.

Un altro aspetto sottolineato dall’autore è il fatto che secondo il sito non vi sia alcun legame tra contrabbando e terrorismo al confine occidentale con l’Egitto. I trafficanti, invece, trasportano come e quando vogliono armi, droga, migranti e vari prodotti di contrabbando come il riso per rifornire il mercato nero.

Il quarto aspetto sottolineato dall’autore è di natura squisitamente geopolitica: egli infatti afferma che l’Egitto stia vivendo in questo momento una grave minaccia terroristica determinata anche dai numerosi traffici di armi sui confini che alimentano diversi gruppi di jihadisti.

Per tutte queste ragioni – che lo si voglia o meno – non si può escludere che questa indagine sia un vera e propria opera di destabilizzazione di natura informativa. Bisogna infatti interrogarsi sullo scopo di questa indagine.

Citiamo le parole dell’autore: “Oltre allo scooping e all’attivismo politico, Disclose mira a interrompere la vendita di armi all’Egitto… a vantaggio conscio o inconscio dei nostri concorrenti. Si tratta innegabilmente anche di un attacco diretto al regime egiziano di Al-Sisi che ha posto fine alla nefasta parentesi dei Fratelli Musulmani e che ha saputo ricostruire stretti rapporti con la Francia. Non ho alcun ricordo di Disclose e dei suoi giornalisti che difendevano i copti egiziani vittime di attacchi terroristici e persecuzioni da parte dei Fratelli musulmani o che hanno riferito come Morsi stava consegnando segreti di Stato egiziani ai suoi padrini turchi e qatarioti che lo hanno sostenuto per destabilizzare il paese, ecc. La loro indignazione è quindi molto selettiva”.

Perché in definitiva le osservazioni di Denécé sono di estremo interesse?

In primo luogo perché i lettori comuni non hanno gli strumenti né per poter verificare quanto sostenuto dal sito investigativo ma neppure per poterlo smentire. In secondo luogo è molto ingenuo pensare – come fanno molti lettori in assoluta buona fede – che da un lato ci sia la verità e che quindi le informazioni debbano essere lette come oro colato e dall’altra parte invece ci sia solo ed esclusivamente la ragion di Stato e le logiche perverse della politica internazionale.

In secondo luogo perché la vendita fatta recentemente dal presidente francese Emmanuel Macron di Rafale ha suscitato la durissima reazione del giornalisti investigativi del sito francese Disclose?

Il sito dei giornalisti investigativi francesi ricorda che dal 2015, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti sono stati coinvolti nella guerra in Yemen, che ha causato quasi 400.000 vittime. Nonostante la gravità degli abusi commessi e le accuse di crimini di guerra, il tema non è stato all’ordine del giorno della visita di Macron nel Golfo venerdì 3 e sabato 4 dicembre.

Tuttavia, le armi vendute dalla Francia alle due monarchie del Golfo vengono utilizzate direttamente nel conflitto, come rivelano i documenti di “confidenzialità-difesa” ottenuti da Disclose. Queste note scritte dal Segretariato generale per la difesa e la sicurezza nazionale (SGDSN), organizzazione posta sotto l’autorità di Matignon, rivelano che lo Stato francese ha autorizzato, nel 2016, la consegna di quasi 150.000 proiettili all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti. Pur sapendo che queste munizioni sarebbero state utilizzate nella guerra in Yemen.

Il 12 maggio 2016 si è tenuta a Parigi una riunione della Commissione interministeriale top secret per lo studio delle esportazioni di materiale bellico (CIEEMG), alla presenza dei rappresentanti del ministero degli Affari esteri, della Difesa, dell’Economia e del palazzo dell’Eliseo, poi occupata da François Hollande.

Al centro dei dibattiti, la proposta di rafforzare i controlli sulle esportazioni di armi verso i Paesi coinvolti nella guerra in Yemen. Il ministero degli Esteri, allora guidato da Jean-Marc Ayrault, è favorevole. Si interroga, in particolare, sulle consegne in corso di armi Caesar all’Arabia Saudita.

“La Francia è oggetto di interrogatorio da parte del Parlamento europeo e delle Ong per presunte violazioni del Trattato sul commercio delle armi”, ha avvertito un diplomatico.

Qualunque sia l’avvertimento, il gabinetto di Jean-Yves Le Drian si oppone a ogni forma di restrizione: “Un blocco doganale di apparecchiature già oggetto di un contratto sarebbe difficile da giustificare all’Arabia. I diplomatici sono costretti a concordare con questa opinione. Le armi verranno consegnate”.

Nel dettaglio, si tratta di 41.500 proiettili della compagnia Junghas, sussidiaria di Thales, destinati alla guardia saudita; 3.000 proiettili anticarro, 10.000 proiettili fumogeni, 50.000 proiettili ad alto potenziale esplosivo e 50.000 razzi di artiglieria prodotti da Nexter all’esercito degli Emirati, nonché 346 missili anticarro dalla società MBDA all’esercito del Qatar. Importo totale dei contratti: 356,6 milioni di euro.

Non importa di quali crimini siano accusati i “partner” della Francia. Come l’assassinio dell’ottobre 2018 del giornalista saudita Jamal Khashoggi. Sabato 4 dicembre, Macron sarà il primo leader occidentale a rimettere in sella il principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman, sospettato dalla comunità internazionale di aver ordinato l’omicidio.

https://www.startmag.it/mondo/che-succede-tra-la-francia-e-legitto/?fbclid=IwAR3RSddir9W7FO8m42LHWF4En0qe0RfyoDzLgOuooPaNOs9cQyC-kev7KpI

Algeria, la pericolosa fuga in avanti_di Bernard Lugan

La crisi che ogni giorno si aggrava tra Algeria e Marocco si spiega perché
L’Algeria è contro il muro. Per anni, negando il suo appoggio diretto al Polisario, ha voluto
far credere che fosse solo un’osservatrice della questione del Sahara occidentale. Oro
il crollo del Polisario e la disgregazione del suo appoggio, ora lo costringe ad agire per primo linea in un’escalation verbale e militare [1]

Dopo aver interrotto unilateralmente le relazioni
relazioni diplomatiche con il Marocco, poi dopo aver
vieta il suo spazio aereo ai suoi aerei civili e mette
la fine del progetto del gasdotto per
Spagna di passaggio in Marocco, il discorso
Il guerriero algerino è salito di livello
dopo la distruzione di due camion algerini da parte di
un drone marocchino. Da entrambe le parti, truppe
sono ammassati al confine. Mentre il Marocco
si astiene da qualsiasi dichiarazione bellicosa, il
Il governo algerino si fa avanti
parole ostili abbondantemente trasmesse da a
stampa falco.
Cosa sta cercando l’Algeria? Dov’è l’interesse?
anche un “Sistema” difficile da suonare
pericolosamente con il fuoco?
La linea di fondo è che il “Sistema”
L’algerino sa che i suoi giorni sono contati e che,
semplicemente risparmiare tempo, ritardare
l’inevitabile implosione, ha bisogno di un derivato
nazionalista. Esattamente come nel 1963
quando la “guerra delle sabbie” glielo aveva permesso
per evitare la secessione della Cabilia da
designazione di un nemico conveniente, il Marocco
(pagina mappa…).
Oggi l’Algeria è diplomaticamente
isolato. Economicamente, è in bancarotta e
politicamente è sull’orlo di un precipizio. quanto a
nella sua giovinezza ha un solo futuro, il
haraga in Europa…
Per una gerontocrazia senza fiato, di cui
l’esercito, suo ultimo pilastro, è diviso in clan che
odiatevi a vicenda – per un decennio 30 generali hanno
stato imprigionato – l’unica via d’uscita è l’unità

artificiale, sia contro il vicino marocchino che
contro l’ex colonizzatore francese. Le due
sono attualmente il suo obiettivo…
Il problema è che le accuse in piedi
contro la Francia ha avuto un risultato contrario al gol
Ricerca. Nonostante tutte le sue concessioni, di tutto
i suoi abbandoni e anche tutte le sue genuflessioni, il
Il presidente Macron che non è stato pagato in cambio
Sembra aver finalmente capito che non lo farà mai
basta agli occhi di Algeri, che vuole tenere la Francia sotto il
giogo del pentimento perpetuo.
Inoltre, a parte i soliti “portatori di
valigie ”, questo stravagante ricatto della memoria esercitato
dal “Sistema” algerino finì per risvegliarsi a
parte dell’opinione pubblica francese. Così tanto che
uno dei temi della campagna presidenziale è
proprio quello del rifiuto del pentimento.
Più così ora è sempre meno
raro sentire politici francesi
tenere il seguente discorso: come ha dimostrato l’Algeria
che la Francia non farebbe mai abbastanza nel
contrizione, quindi non c’è più niente da aspettarsi da lei.
Quindi, in queste condizioni, perché no?
sostenere apertamente la posizione marocchina e rendere
come gli Stati Uniti, riconoscendo
ufficialmente il carattere marocchino del Sahara occidentale?
Per quanto riguarda il Marocco, l’incessante
Anche le accuse algerine sono a
totale inefficacia. Algeri lo sa benissimo
le sue richieste riguardo al Sahara marocchino no
non può mai essere soddisfatto.
Tanto più che l’Algeria, che occupa il suo
confine occidentale di intere regioni

storicamente marocchina e quella colonizzazione
abbastanza artificialmente attaccato a lui, non ignorare
che il Marocco non accetterà mai di rinunciare al suo
province sahariane.
Allora perché l’Algeria insiste?
rimanere in un’impasse conflittuale fondata
su un rifiuto concreto della realtà? Invece di prendere
prendere in considerazione la questione non negoziabile di
marocchina del Sahara occidentale, e, a partire da
questa realtà, per cercare di trarne vantaggio
commerciale o altro negoziando con il
Marocco, perché, al contrario,
lei affonda un po’ più a fondo in un?
all’endismo che minaccia la pace regionale?
Il rischio è che, indurendo il tono e

tenere discorsi bellicosi, un punto no
ritorno sarà eventualmente raggiunto, con il risultato,

un conflitto che avrebbe solo esiti negativi
per entrambi i paesi. A meno che, avendone solo uno
solo obiettivo a brevissimo termine, vale a dire il suo unico
sopravvivenza, il “Sistema” algerino e lo stato maggiore
impegnarsi in un conflitto suicida nel tentativo di
aprirsi all’Algeria “bloccata” sulla costa
mediterraneo una finestra sulla facciata
Atlantico… Una scommessa pazzesca. Ma c’è un altro?
spiegazione per l’autismo politico algerino?

Il cuore del problema è quello dei confini
tra i due paesi. Per creare l’Algeria che
non è mai esistita, la Francia infatti si è smembrata
Marocco, eliminando le regioni storicamente
Marocchino, che sia Tindouf, il
Gourara, Tidikelt ecc. come è stato
spiegato nel numero di ottobre 2021 di
Vera Africa.
A ciò si aggiunge la questione del Sahara occidentale,
immensità strappata al Marocco dalla colonizzazione
Spagnolo. Tuttavia, per i marocchini, questo è
loro “Alsazia-Lorena” mentre gli algerini
vorrebbe la creazione di uno “Stato del Sahara” che
essere loro subordinato e che vieterebbe al Marocco di
avere una costa di diverse migliaia
chilometri da Tangeri a nord fino al confine
Mauritano a sud.
Ecco perché, come diceva Hubert Védrine,
ex capo della diplomazia francese: “(…)
l’affare Sahara è un affare nazionale per
Il Marocco e una questione di identità per l’esercito
algerina “.
Tanto più che l’attuale capo di gabinetto
algerino, il generale Saïd Chengriha, ex
Comandante della Terza Regione Militare,
colui il cui cuore è Tindouf e che perciò
nei confronti del Marocco, alimenta una nota avversione per
nei confronti dei suoi vicini marocchini.ù

Plus d’informations sur le blog de Bernard Lugan.

L’oceano mondiale contro il continente, di  Jacek Bartosiak

L’oceano mondiale contro il continente

La potenza marittima dominante sta acquisendo forza per una contesa con una crescente potenza terrestre.

Apri come PDF

Per secoli, il potere che controlla i mari – il “World Ocean” – ha ostacolato con successo i rivali continentali e dettato le regole del commercio mondiale. Il geografo tedesco Friedrich Ratzel descrisse questo conflitto come uno tra il Leviatano e il Behemoth, rispettivamente. Il Behemoth cerca di fare a pezzi il Leviatano usando le corna e i denti, mentre il Leviatano cerca di soffocare il Behemoth in modo che non possa respirare, mangiare o bere. Classicamente, questo si riferisce ai blocchi navali, ma nel mondo moderno il Leviatano – gli Stati Uniti – ha altre opzioni meno rischiose, come tagliare l’accesso del Behemoth alla valuta di riserva globale. Questo era di progettazione.

Halford Mackinder credeva che nel tempo il continente avrebbe ottenuto un chiaro vantaggio sull’Oceano Mondiale perché l’Heartland eurasiatico, sebbene inaccessibile alle navi mercantili, è inaccessibile anche alle navi da guerra, ed è quindi immune all’autorità dell’Oceano Mondiale. Allo stesso tempo, le innovazioni nei trasporti ferroviari, stradali e aerei migliorerebbero notevolmente i collegamenti terrestri. La massa terrestre eurasiatica, sosteneva Mackinder, possedeva tutti gli elementi per la mobilità economica e militare (quella che oggi chiameremmo la libera proiezione del potere) su distanze molto lunghe. Come ulteriore vantaggio, il continente godrebbe di linee di comunicazione interne in tutta la massa terrestre eurasiatica, in contrasto con le inefficienti linee di comunicazione esterne del potere che controlla l’Oceano Mondiale intorno all’Eurasia.

Oggi, la Cina sta implementando le idee di Mackinder per il consolidamento eurasiatico tramite la sua Belt and Road Initiative. Autostrade, ferrovie, collegamenti aerei, porti, cavi, 5G e flussi di dati sono tutti sintomi del consolidamento eurasiatico. I decisori di Pechino non hanno dimenticato gli insegnamenti di Nicholas Spykman – anche la loro Belt and Road corre lungo la costa e attraverso i mari costieri eurasiatici – ma il continente verrà necessariamente prima.

L'iniziativa cinese Belt and Road

clicca per ingrandire )

La firma del patto di investimento UE-Cina nel dicembre 2020 è stato un segnale che l’unità transatlantica che ha definito gli equilibri di potere dal 1945 potrebbe scomparire molto rapidamente e che l’Eurasia potrebbe diventare un sistema per la prima volta. Il sistema eurasiatico sarebbe molto complesso e la concorrenza per i mercati e il denaro sarebbe intensa. Una tale svolta degli eventi sarebbe una minaccia per lo stato dell’Oceano Mondiale, una minaccia che gli Stati Uniti non possono tollerare.

La battaglia per la supremazia ha sempre riguardato le catene del valore e la conseguente divisione globale del lavoro. Questi determinano nuove tecnologie e cicli di investimento, che conferiscono denaro e potere a coloro che entrano nel mercato per primi o in una posizione strutturale migliore. L’arbitro ultimo è la potenza militare in grado di dominare la scala dell’escalation, che per la maggior parte è determinata dalla ricchezza.

Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti godettero di un dominio indiscusso (o, come preferiscono chiamarlo gli americani, leadership o primato). È stata l’unica egemone negli ultimi 30 anni di globalizzazione, sostenuta dal dollaro, dalla Marina degli Stati Uniti e dalle sue portaerei, dal GPS, dalla Silicon Valley, dalla Borsa di New York, da Hollywood, dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale. Gli Stati Uniti stabiliscono le regole, che gli conferiscono un’influenza massiccia sulla divisione del lavoro nella produzione, nei servizi e nelle catene del valore; prezzi e flussi strategici; la valuta in cui avvengono le transazioni; la direzione e gli obiettivi di investimento; cicli tecnologici e nuove scoperte scientifiche; e regolamenti che modellano il mercato.

La ricchezza e il potere degli Stati Uniti si basano sulle dimensioni della classe media americana, sulla sua immensa capacità di domanda e sulla forza del mercato interno degli Stati Uniti, ma tale potere non sarebbe sorto senza il commercio marittimo nell’Oceano Mondiale. Né gli americani avrebbero il primato senza il controllo dell’Oceano Mondiale, dove ha luogo la maggior parte dei flussi strategici mondiali. Le regole dell’Oceano Mondiale sono fatte in America e difese dalla US Navy, che domina i suoi nemici con la sua flotta ammiraglia di portaerei in grado di proiettare forza lontano dalle coste del Nord America.

Nel mondo moderno, la proiezione di potenza globale attraverso gli oceani e il controllo del traffico marittimo fanno sempre più uso di molti sistemi di osservazione e comunicazione spaziali che aiutano sia la navigazione che la guerra. Ciò riduce notevolmente la nebbia di guerra, che era la rovina del dominio marittimo, soprattutto in mare aperto. Ha aiutato gli Stati Uniti a controllare il corso della globalizzazione e a promuovere i principi del commercio mondiale che hanno funzionato a loro favore, il tutto mentre gli Stati Uniti hanno mantenuto la loro posizione dominante nella finanza internazionale e il dollaro funge da valuta mondiale. Gli Stati Uniti sono stati in grado di diffondere la propria influenza attraverso gli investimenti e il mantenimento di alleanze militari vantaggiose per Washington, come accordi bilaterali con Giappone, Australia e Corea del Sud e accordi di sicurezza collettiva come la NATO.

Negli ultimi 500 anni, il Nord Atlantico è stato il fulcro geostrategico del mondo. Il controllo del Nord Atlantico nel XIX e XX secolo ha aiutato gli Stati Uniti e la Gran Bretagna a coordinare e attuare congiuntamente le politiche durante le principali guerre europee dell’epoca. Durante entrambe le guerre mondiali e la guerra fredda, la comunicazione ininterrotta dalla costa orientale degli Stati Uniti all’Europa occidentale è stata la base della forza della NATO e il fondamento della presenza avanzata dell’America nel continente, che ha reso credibili le garanzie di sicurezza degli Stati Uniti in Europa contro il Vecchio Continente.

L’obiettivo fondamentale della strategia di entrambe le potenze è proteggere i loro interessi e la loro sicurezza e garantire la stabilità e la prevedibilità di un sistema internazionale che serva i loro interessi. Gli elementi chiave di questo sistema sono le linee di comunicazione, anche transfrontaliere, che garantiscono stabilità sociale ed economica e, ove necessario, assistenza militare. Esistono differenze significative tra i confini terrestri e marittimi, e quindi tra le linee di comunicazione. Le linee di comunicazione terrestri sono sempre meno sicure perché le persone vivono sulla terraferma e le loro azioni e interazioni (flussi di capitali, rimesse, migrazioni, ecc.) significano che i confini terrestri sono molto più inclini a cambiare, specialmente in assenza di barriere naturali come le montagne , paludi o foreste.

Inoltre, bilanciare i comportamenti contro la pressione dei poteri terrestri è molto più comune perché a terra ogni minaccia è più immediata. La storia dell’Europa ne è un esempio lampante. I confini terrestri generano più conflitti, che era un’altra ragione per cui l’Eurasia era strutturalmente più debole dell’Oceano Mondiale.

Alfred Thayer Mahan è famoso per aver affermato che le potenze navali che controllano le rotte marittime sono intrinsecamente più potenti delle potenze terrestri. Questo è vero, ma c’erano e ci sono ancora importanti vie di terra. In effetti, per alcuni paesi eurasiatici, come il Kazakistan, non c’è alternativa. Uno di questi percorsi era l’antica Via della Seta, che collegava la Cina all’Europa e attraversava il Medio Oriente e il Levante. Una rete di oleodotti e gasdotti, ferrovie e autostrade essenziali per il funzionamento dell’economia globale garantisce ancora la connettività tra le aree ricche di risorse.

L’Eurasia – abitata da molte nazioni, stati, imperi, gruppi etnici e persino tribù legate insieme in una rete di interessi conflittuali – è estremamente volatile, soprattutto su lunghi orizzonti. Le alleanze sono mutevoli e la fiducia è scarsa. Al contrario, la stabilità delle rotte marittime può cullarci nella falsa sensazione che la navigazione degli oceani sia libera e aperta, al di là del controllo di qualsiasi potenza. Questa percezione persiste in tempi di dominio di un’unica potenza marittima, prima la Gran Bretagna e ora gli Stati Uniti. Ma l’egemonia del mare può in qualsiasi momento negare ad altri il diritto alla navigazione libera e indisturbata, interrompendo i flussi marittimi strategici. Il commercio marittimo tedesco è stato interrotto durante la prima guerra mondiale e gli Stati Uniti hanno interrotto Cuba durante la crisi missilistica cubana. Lo stesso potrebbe essere tentato in qualsiasi momento lungo gli approcci a Malacca o nel Mar Cinese Meridionale,

Jacek Bartosiak è un esperto di geopolitica e geostrategia e analista senior di Geopolitical Futures. È fondatore e proprietario di Strategy & Future. Il Dr. Bartosiak è l’autore di tre libri: Pacific and Eurasia: About the war (2016), che tratta dell’imminente rivalità delle grandi potenze in Eurasia e della potenziale guerra nel Pacifico occidentale; Il Commonwealth tra terra e mare: On war and peace (2018), sulla situazione geostrategica della Polonia e dell’Europa nell’era della rivalità tra le potenze in Eurasia; e Il passato è un prologo sui cambiamenti geopolitici nel mondo moderno. Inoltre è Direttore del Programma Giochi di Guerra e Simulazione della Fondazione Pulaski; Senior Fellow presso The Potomac Foundation a Washington, co-fondatore di “Play of Battle”, che prepara simulazioni militari; socio della Nuova Confederazione e del New Generation Warfare Center di Washington; membro del gruppo consultivo del Plenipotenziario del governo per il porto di comunicazione centrale (2017-2018), presidente del consiglio di amministrazione della società Centralny Port Komunikacyjny Sp. z oo (2018–2019). Il Dr. Bartosiak interviene a conferenze sulla situazione strategica nell’Europa centrale e orientale, nel Pacifico occidentale e in Asia. Laureato presso la Facoltà di Giurisprudenza e Amministrazione dell’Università di Varsavia, è socio amministratore di uno studio legale che si occupa di servizi alle imprese dal 2004.

Stati Uniti! Vittorie di Pirro_con Gianfranco Campa

Non sarebbe la prima volta che una vittoria, oscurata per altro da sospetti giustificati, si può trasformare rapidamente in una sconfitta, addirittura in una rotta catastrofica. Ne sta prendendo atto la classe dirigente statunitense. Il gruppo dirigente democratico considera ormai la presidenza Biden-Harris una parentesi da chiudere e da contenere con il minor danno possibile. Confermata la pochezza disarmante di Kamala Harris, ormai il gruppo dirigente democratico sta pensando alle possibili alternative senza provocare ulteriori conflitti distruttivi. Nell’altro versante i neocon sembrano prendere atto della loro sconfitta e del loro drammatico isolamento. Considerano Trump non più un nemico, ma una risposta inadeguata a problemi reali. Stanno quindi pensando ad una tattica di condizionamento ed infiltrazione. Dal loro cappello iniziano a spuntare conigli e personaggi di varia umanità, medici dalla propensione istrionica, personaggi costruiti sulle scene televisive, proprio quando il movimento trumpiano sta superando brillantemente la propria dipendenza dal personaggio pubblico e si sta trasformando in una corrente strutturata, memore delle esperienze e delle debolezze della sua fase originaria legata ai Tea Party. Tattiche e strategie che tengono in poco conto l’accavallarsi di problemi, dalle caratteristiche a volte disgustose, perverse e di crisi che stringe drammaticamente i margini di azione e rivela i limiti di indirizzo politico di una classe dirigente ormai priva di autorevolezza e credibilità ma ancora con un enorme potere. La combinazione perversa di ambizioni smisurate e drammatica inadeguatezza è una miscela esplosiva. La tentazione di colpi di mano dalle conseguenze drammatiche si insinua pericolosamente, sia all’interno che all’esterno del paese. Il focolaio dell’Ucraina potrebbe essere la prima miccia disponibile. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

NB_ Abbiamo il fondato sospetto, quasi la certezza, che You Tube, in buona compagnia con piattaforme dello stesso orientamento, manipolano pesantemente i dati di accesso e la condivisione di testi e video. Suggeriamo, quindi, di digitare in maniera preferenziale la piattaforma di rumble, indicata con il link dedicato. Quando disporremo di altri mezzi attingeremo ad una fonte del tutto autonoma

https://rumble.com/vq8zbl-stati-uniti-vittorie-di-pirro-con-gianfranco-campa.html

Il dibattito sull’America prima di tutto, di  George Friedman

Il dibattito sull’America prima di tutto

Apri come PDF

Dagli anni ’30, c’è stato un dibattito negli Stati Uniti su una politica estera basata su “America First”, una politica nazionalistica che dà la priorità agli obiettivi degli Stati Uniti rispetto ad altri. È un’idea che in tempi diversi è stata centrale sia per i Democratici che per i Repubblicani. Le posizioni andavano dalla destra che esortava gli Stati Uniti a non assumersi la responsabilità del destino di altre nazioni, e la sinistra che condannava gli Stati Uniti per aver agito come la polizia mondiale. La sinistra ha sostenuto una strategia secondo cui gli Stati Uniti devono rimanere invischiati nel mondo attraverso alleanze. A destra, c’era la convinzione che gli Stati Uniti dovessero rimanere invischiati nel mondo per sconfiggere, ad esempio, il comunismo. Ha assunto il carattere di principio morale e di azione prudente in entrambe le tendenze ideologiche, e anche di obbligo morale in entrambe.

La questione del corretto rapporto degli Stati Uniti con il resto del mondo è stata una questione centrale sin dalla fondazione dell’America. Thomas Jefferson ha messo in guardia contro le alleanze intricate, mentre George Washington e Benjamin Franklin stavano manovrando per cercare di coinvolgere la Francia nella rivoluzione americana. L’America è stata fondata come alternativa all’Europa e un nuovo ordine dei secoli. Era anche una nazione tra tante e per un po’ molto debole. Il rapporto americano con il mondo è sempre stato ambiguo come questione pratica e morale e in tempi diversi per entrambe le parti.

La nozione moderna di America First è emersa negli anni precedenti la seconda guerra mondiale. Gli Stati Uniti erano stati coinvolti nella prima guerra mondiale, in molti modi contro la loro volontà, e l’opinione generale e ragionevole era che poco si fosse guadagnato dalla guerra, che stava per riaccendersi. La sinistra vedeva l’intervento contro Hitler come un obbligo morale. La destra sosteneva che il principale obbligo morale degli Stati Uniti era il benessere degli americani e che se l’intervento fosse stato una necessità morale, Stalin sarebbe stato un bersaglio più appropriato.

Gli Stati Uniti presumevano che gli oceani che separavano gli Stati Uniti dall’Europa avrebbero protetto l’America dalle follie europee. Il problema con questo ragionamento era che non l’avrebbe fatto. Quando Hitler conquistò la Francia e lanciò una guerra contro l’Europa, apparve un vasto pericolo. La Gran Bretagna aveva la marina più potente del mondo. Se la Germania avesse sconfitto la Gran Bretagna, avrebbe potuto prendere il controllo delle sue navi, e ne sarebbe derivato il controllo del Nord Atlantico e avrebbe rappresentato una minaccia esistenziale per gli Stati Uniti. Il movimento America First ha visto l’intervento come un atto di beneficenza, non come un imperativo strategico. America First ha sopravvalutato la sicurezza degli Stati Uniti in un mondo pericoloso. L’isolazionismo era pericoloso.

Dopo la seconda guerra mondiale, l’opinione americana era che il costo in vite americane fosse il risultato di un fallimento nell’agire prima contro la Germania e il Giappone. Di conseguenza, ha reagito al potere sovietico riducendo la sua forza bellica ma senza mai smobilitare. Gli Stati Uniti hanno creato l’alleanza più avvincente possibile, la NATO, e hanno intrapreso una politica per cui, come ha affermato il presidente John Kennedy, “pagheremo qualsiasi prezzo, sopporteremo qualsiasi onere, affronteremo qualsiasi difficoltà, sosterremo qualsiasi amico, ci opporremo a qualsiasi nemico per assicurare la sopravvivenza e il successo della libertà”. Questo era, ovviamente, l’impegno più estremo che una nazione potesse prendere. Fu la logica continuazione dell’interventismo liberale e aprì la porta a una serie di guerre, a cominciare dal Vietnam, che continuano ancora oggi. Ed è stato sostenuto nel complesso dalla destra.

In Vietnam la guerra non è andata né male né bene. È semplicemente andata. E mentre procedeva, lo stato d’animo contenuto nella dichiarazione di Kennedy svanì. La Dottrina Kennedy è stata attaccata dalla sinistra, che sosteneva che gli Stati Uniti, assumendosi la responsabilità del mondo, erano diventati un mostro imperialista, che conduceva una guerra spietata che non era affar loro. La visione andava oltre il Vietnam, fino all’idea che l’influenza e il potere americani in tutto il mondo stessero sfruttando e schiacciando i diritti di altre nazioni. La sinistra ha sostenuto il ritiro americano dal mondo, non come una dottrina America First, ma come una dottrina per la quale era immorale per gli Stati Uniti essere la polizia mondiale. Sfumature a parte, l’applicazione pratica era America First senza la celebrazione dell’America.

L’interventismo nel discorso di Kennedy era una reazione contro l’America First prima della seconda guerra mondiale. Sotto attacco da sinistra, il principio è sopravvissuto. Gli Stati Uniti hanno trascorso più tempo in guerra dal 2000 che in qualsiasi secolo precedente in totale. (E dall’11 settembre, ha condotto la guerra in gran parte senza successo.) Il tempo non è intensità, ma rimodella ancora la comprensione della nazione di se stessa.

America First è una dottrina evidentemente ragionevole se significa porre gli interessi americani al centro della considerazione. Ogni nazione del mondo mette al primo posto i propri interessi. Le alleanze devono servire l’interesse nazionale, così come l’isolamento. Nessuna sono dottrine strategiche in sé. Sono mezzi per un fine. Il governo ha l’obbligo morale di proteggere la nazione. A volte ciò richiede alleati ea volte la guerra, ma intraprendere la visione di Kennedy significherebbe creare una serie di obblighi che possono spezzare una nazione e in effetti è costato molto agli Stati Uniti.

E se l’idea che gli americani mettano l’America al primo posto è evidente, allora ciò che significa in pratica è sottile e complesso. Gli isolazionisti di destra pensavano che gli Stati Uniti fossero invincibili così com’erano. Gli isolazionisti di sinistra consideravano gli Stati Uniti un brutale oppressore. Entrambe le analisi erano semplicistiche, dannose e false. Ma al centro di ogni strategia nazionale deve esserci una comprensione dell’interesse nazionale, che non è mai semplice, né evidente. E sfida le ideologie semplicistiche. Il mondo è un posto pericoloso, e anche se non vogliamo la guerra, la guerra potrebbe volere noi. E un principio morale che richieda una guerra costante è insopportabile.

Il problema è sempre cosa faremo ora. Non quello che abbiamo fatto prima, e nemmeno quello che faremo dopo. Il futuro ci sorprende sempre. Il problema è essere riflessivi e sottili e mettere sempre l’America al primo posto, il che potrebbe portarci in molte parti del mondo. America First non è isolazionismo, è il nostro impegno morale nei confronti della nazione.

https://geopoliticalfutures.com/the-debate-over-america-first/

UE, Italia, Francia, Germania! Il triangolo imperfetto_di Giuseppe Germinario

Grande emozione e tanta enfasi tra i protagonisti della firma del trattato del Quirinale. Peccato che a così grandi aspettative ostentate non sia corrisposta una corrispondente ed adeguata attenzione nella stampa italiana, relegata ben addentro alle pagine interne, alle spalle della scontata sequela su green pass e coronavirus; sorprendentemente almeno un qualche minimo accenno nella stampa transalpina. Un oscuramento che stigmatizza intanto un aspetto: la credibilità di Draghi, evidentemente, non coincide e non ha un effetto di trascinamento significativo su quella dell’Italia; il destino e le fortune politiche di uno sono evidentemente separati da quelli dall’altra. Il dubbio che il segno politico concreto dell’iniziativa si discosti pesantemente dall’immagine e dalla narrazione che si è voluto offrire si insinua nelle menti meno coinvolte dalla propaganda; tutto questo a cominciare dalla forma stessa adottata prima ancora di entrare ad esaminare i contenuti. Il valzer iniziato con il trattato bilaterale di Aquisgrana tra Francia e Germania nel 2019 e proseguito con quello odierno sottoscritto da Francia e Italia richiama l’immagine di un triangolo incompiuto.

Per essere un direttorio autorevole armato della volontà di imprimere una svolta al processo di costruzione della Unione Europea nella forma avrebbe dovuto concludersi con un accordo trilaterale o quantomeno con un ulteriore bilaterale tra Italia e Germania dai contenuti del tutto corrispondenti a quello di Aquisgrana; per essere un sodalizio latino-mediterraneo credibile in grado di sostenere il confronto con le altre due aree geopolitiche costitutive della UE avrebbe dovuto comprendere almeno la Spagna, per quanto ancora essa dibattuta storicamente tra Francia e Germania.

Nel primo caso la coerenza avrebbe richiesto tutt’al più un accordo tra capi di governo tale da definire le condotte nel Consiglio Europeo e in sede di Commissione Europea, quindi nelle sedi preposte; nel secondo avrebbe sancito definitivamente anche nella forma l’Unione Europea come il terreno di confronto e cooperazione tra stati nazionali raggruppati in sfere di influenza e di interessi più omogenei.

La scelta più o meno consapevole di adottare la forma così impegnativa e costrittiva del trattato tra stati sotto le spoglie del lirismo europeista avulso e nemico degli stati nazionali non fa che accentuare i limiti, i vincoli e le ambiguità della costruzione europea tali da rimuovere piuttosto che porre chiaramente sul terreno e possibilmente risolvere i problemi e i conflitti latenti, sino a renderli progressivamente dirompenti; con il risultato finale di rivelare finalmente nella NATO più che nella UE il reale fattore, per altro esogeno, di relativa coesione politica di gran parte del continente. In mancanza saranno i trattati stessi ad essere progressivamente svuotati di contenuti o dimenticati.

I rapporti di cooperazione rafforzata, pur nella loro ambiguità, sono qualcosa di diverso e di poco compatibile con la forma del trattato, checché ne dicano gli estensori di quest’ultimo, in quanto riconoscono implicitamente la trasversalità interna agli stati del confronto politico ed esplicitamente la loro coerenza e subordinazione agli indirizzi della Commissione Europea. I due trattati, in particolare quello più esteso e specifico tra Italia e Francia, di fatto formalizzano ed irrigidiscono il confronto tra stati all’esterno del circuito istituzionale.

Dubbi e riserve che non sono affatto attenuati dall’esame del merito delle clausole, pur avendo queste ultime più la forma di una dichiarazione di intenti che di impegni cogenti in entrambi i trattati, ma maggiormente in quello franco-tedesco.

Quest’ultimo deve pagare certamente pegno alla funzione di apripista, ma può permettersi di indugiare maggiormente nella retorica europeista grazie al ruolo di leadership locale dei due paesi.

Essendo carenti di aspetti cogenti e piuttosto pleonastici nella stesura, non rimane che individuare nell’enfasi attribuita ai singoli aspetti le diversità, le affinità e soprattutto le intenzioni riposte in questi due atti in attesa di conoscere i protocolli aggiuntivi, sempre che siano resi disponibili.

In quello di Aquisgrana prevale nettamente l’enfasi sul ruolo del sodalizio franco-tedesco nell’agone mondiale, con la ciliegina della richiesta velleitaria di un seggio alemanno all’ONU; nell’esplicita richiesta di coinvolgimento delle Germania nell’area subsahariana con un effetto solo secondario di trascinamento della UE.

Riguardo al contesto europeo la postura generale franco-tedesca è quella di due paesi impegnati a determinare genericamente gli indirizzi e l’organizzazione della Unione Europea; quella del trattato quirinalizio è piuttosto di due paesi impegnati ad adeguarsi all’indirizzo, specie giuridico, della Comunità, per quanto si possa parlare di indirizzo giuridico coerente di essa.

L’unico afflato europeista decisamente retorico presente in quello di Aquisgrana viene riservato alla collaborazione ed integrazione persino giuridica delle aree transfrontaliere, in particolare dei distretti; un vecchio cavallo di battaglia della retorica europeista non a caso più incisivo e pernicioso nei confronti dell’organizzazione statale francese che di quella teutonica.

Un ambito curato anche in quello italo-francese ma senza enfasi ed articolato in ambiti più definiti tra i due stati.

Un altro ambito comune trattato nei due accordi riguarda la forza e il complesso industriale militare.

In quello franco-germanico il tono è più generico ed enfatico; nell’altro è più scontato e precisato.

La ragione del primo risiede sicuramente nei trascorsi storici particolarmente drammatici tra i due paesi, come pure nella loro collocazione, con la Francia dibattuta in tre scenari geografici, dei quali uno prettamente terraneo dal quale sono arrivati i guai peggiori. Sono però il presente e le prospettive future a dettare le scelte. Al destino manifesto di duratura concordia verso una meta ed una casa comune annunciato nel patto corrisponde un percorso a dir poco contraddittorio se non controcorrente. A fronte di un paio di progetti industriali integrati in stato di avanzamento corrisponde lo stallo totale in materia di controllo e gestione dell’armamento strategico nucleare, di gestione delle comunicazioni, di indirizzo e addestramento comune delle due forze militari e di sviluppo di una logistica comune. Poca cosa rispetto a progetti più importanti (Gaia, il nuovo caccia europeo, semiconduttori, ect) in colpevole ritardo, ancora ai prodromi, con un divario terribile da colmare; troppo presto per distinguere il fumo dall’arrosto, la velleità dalla volontà. Il paradosso maggiore risiede in una Germania che di fatto predilige il coordinamento e l’integrazione militare con paesi come l’Olanda, la Repubblica Ceca e la Danimarca e di un corpo militare francese assai poco disposto a condividere i propri asset strategici, specie nel nucleare, nella missilistica e in aviazione, per quanto fragili e malconci, con un paese quasi del tutto privo di conoscenze in quei settori.

Dal lato italico il quadro generale della cooperazione ed integrazione militare appare almeno in apparenza molto più scontato con la parte francese che dimostra di avere le idee molto chiare e gli italiani a giocare di rimessa e limitare i danni quando non arriva a infliggersi la zappa sui piedi. La tradizione tutta italica di adesione a qualsivoglia avventura militare occidentale in giro per il mondo e di delega agli organismi internazionali delle decisioni non fanno che alimentare queste altrui aspettative. Lo si nota già nelle facilitazioni previste alla mobilità delle truppe molto più fruttuose per la Francia, visti i suoi interessi nel Mediterraneo, che per l’Italia, assente nello scenario Atlantico e renano. La decisione, improvvida quantomeno nei tempi, di affidare integralmente all’ESA (Agenzia Spaziale Europea) la gestione dei propri fondi del settore spaziale, presa dal quel campione dell’interesse nazionale del Ministro Colao, nonché l’esito nefasto del tentativo di controllo dei cantieri navali francesi STX da parte di Fincantieri, non fa che confortare ulteriormente questa impressione di subordinazione ed ignavia ormai ben sedimentata.

Non a caso l’intervento comune in questi ambiti sia specificato molto meglio nel trattato franco-italiano.

I due anni trascorsi tra un trattato e l’altro hanno con ogni evidenza modificato notevolmente il contesto che ha portato alla loro stesura.

Allora si trattava di contrapporre un polo europeista a guida franco-tedesca all’anomalia della politica estera trumpiana, all’insorgere dell’ondata “sovranista” in Italia, in Ungheria e alla Brexit.

Oggi si tratta di riportare nell’alveo dell’eterno confronto-scontro della competizione franco-tedesca la progressiva formazione di almeno tre aree culturali e di cooperazione distinte di stati europei. In queste sono comprese quella costitutiva dell’Europa Orientale e dei paesi sede di paradisi fiscali (Irlanda, Austria, Olanda) controllata con sempre maggiore difficoltà dalla Germania; l’altra latino-mediterranea, potenzialmente dirompente, ma tutta da inventare, comprensiva almeno di Italia, Spagna e Francia.

Una prima lettura dell’accordo italo-francese potrebbe indurre a coltivare l’illusione di un’area così strategica.

La diversa qualità del ceto politico, delle classi dirigenti e degli assetti istituzionali dei due paesi e il pesante ed evidente squilibrio tra questi dovrebbero ricondurci a considerazioni più prosaiche e prudenti.

Se a questo si aggiunge il sostegno entusiastico espresso dall’amministrazione Biden, parecchi altri dubbi dovrebbero dissolversi sulla reale natura dell’accordo. Un paese che non riesce e la sua corrispondente amministrazione che, a differenza di Trump, probabilmente nemmeno intende districare il groviglio di interessi economici che la avviluppano alla Cina, principale avversario-nemico strategico, con il suo appoggio all’accordo intende paradossalmente, ma non troppo, non tanto inibire tentazioni autonome pressoché velleitarie della classe dirigente tedesca dalla leadership americana a favore delle relazione con cinesi e russi, quanto di farle capire e ricordare che gli indirizzi e gli impulsi geoeconomici relativamente autonomi devono ormai sempre più essere ricondotti e sottomessi alle dinamiche geopolitiche di un contespo multipolare.

Il trattato di Aquisgrana ha seguito infatti metodi e significati opposti rispetto a quello dell’Eliseo del 1963 allorquando fu snaturato nel significato solo dal repentino voltafaccia tedesco sotto pesante pressione americana e vide l’esclusione dell’Italia, per il suo eccessivo e cieco filoatlantismo.

IL RAPPORTO TRA ITALIA E FRANCIA

Il giudizio sul “trattato del Quirinale” non può differire di molto dal suo equivalente di due anni fa.

Vi è un punto in realtà realmente qualificante per i due paesi e disconosciuto nei commenti: l’attenzione riservata al settore agricolo. Sia l’Italia che la Francia fondano gran parte del proprio investimento in agricoltura sul prodotto tipico con un relativo ridimensionamento da parte francese, anche per ragioni di ambientalismo liturgico, di alcune produzioni intensive di allevamento e vegetali su vasti territori e con una significativa riduzione negli ultimi tempi dei contributi finanziari europei elargiti di fatto a compensazione del sostegno finanziario francese alla Unione Europea. Un aspetto che mette in concorrenza tra loro le economie agricole dei due paesi, ma che li spinge a fare fronte comune contro la Commissione Europea tutta impegnata a penalizzare questo tipo di coltivazione.

Paradossalmente, quindi, più un fattore di polarizzazione all’interno della UE che di coesione.

Per il resto la sospensione di giudizio sul trattato pende purtroppo a sfavore di un rapporto più equilibrato tra i due paesi.

La Francia infatti dispone ancora a differenza dell’Italia:

  • di una organizzazione statale, pur insidiata dal regionalismo europeista, ancora sufficientemente centralizzata, con la presenza di una classe dirigente e dirigenziale compresa quella militare, preparata e in buona parte diffidente se non ostile all’attuale presidenza, tale da consentire la definizione e il perseguimento di una strategia; quella italiana in antitesi è frammentata e ridondante nelle competenze in modo tale da consentire flessibilità e capacità di adattamento passivo e reazione surrettizia;

  • di una grande industria strategica, pubblica e privata, anche se fragilizzata, specie nell’aspetto finanziario, da alcune scelte imprenditoriali e tecnologiche sbagliate; l’Italia, dal canto suo, continua a vivere e ad emergere in qualche maniera grazie alla presenza prevalente della piccola e media industria in gran parte però dipendente produttivamente da circuiti produttivi e imprenditoriali stranieri;

  • di un sistema universitario riorganizzato in sei grandi poli in grado di offrire nuovamente, rispetto a questi ultimi anni, una buona formazione e specializzazione tecnico-scientifica. Il numero e la qualità di ingegneri e ricercatori ha infatti ricominciato a risalire;

  • di un sistema finanziario e bancario più centralizzato e indipendente reso possibile dalla presenza della grande industria, da una gestione coordinata delle risorse finanziarie ricavate dalle attività agricole e dalla rendita monetaria garantita dalla gestione dell’area africana francofona; un vantaggio che le ha consentito di codeterminare, assieme alla Germania, anche se in posizione subordinata, le regole europee di regolazione del sistema bancario e finanziario con la supervisione statunitense;

  • di un sistema di piccole e medie imprese, al contrario il quale, a differenza di quello italiano, sta rasentando l’irrilevanza e trascinando il paese verso un cronico deficit commerciale e dei pagamenti, sempre meno compensato dalla fornitura di servizi evoluti e che costringe sempre più il paese ad assorbire la propria rendita finanziaria e a dipendere ulteriormente dai dictat tedeschi e dalle scorribande e acquisizioni americane. Con un peso dell’industria che non arriva nemmeno al 18% del prodotto francese, non a caso la stampa transalpina batte ormai da anni sul problema della reindustrializzazione del paese come fattore di coesione sociale, di riduzione degli enormi squilibri territoriali e di acquisizione di potenza. Un elemento che dovrebbe mettere sotto altra luce il lirismo professato a piene mani nel trattato sui propositi di collaborazione, integrazione e scambio imprenditoriali in questo ambito. Qualcosa di particolarmente evidente assurto agli onori della cronaca nel settore automobilistico in un rapporto di gran lunga peggiorativo rispetto a quello detenuto dalla componentistica italiana rispetto all’industria tedesca.

Una situazione non irreversibile a patto di avere una classe dirigente e un ceto politico non genuflesso e capace.

Per concludere giudicare l’accordo franco-italiano soprattutto dal punto di vista propagandistico e dal vantaggio di immagine offerto a Macron in vista delle prossime elezioni presidenziali risulta troppo limitativo se non proprio fuorviante. Tant’è, come già sottolineato, che la stampa francese lo ha del tutto ignorato, quella italiana lo ha glissato e relegato, per altro per breve termine, nelle pagine interne.

Il peso politico di questo accordo rischia di essere molto più soffocante per l’Italia, soprattutto per la qualità della nostra classe dirigente che prescinde dalla validità di numerosi suoi esponenti spesso relegati in funzioni periferiche e di second’ordine, ma anche purtroppo del nostro ceto politico nella sua quasi totalità.

Una ulteriore cartina di tornasole della direzione, oltre alla già citata decisione nel settore aerospaziale a favore dell’ESA presa da Colao & C., sarà l’esito de:

  • la vicenda TIM dove si prospetta il pericolo di una divisione dei compiti tra la gestione americana della rete strategica e quella francese del sistema multimediale italiani con la eventuale compartecipazione, bontà loro, italiana

  • la vicenda OTO-Melara con la possibile cessione ad un gruppo industriale del complesso militare franco-tedesco.

Chissà se questa volta sarà sufficiente per la nostra sopravvivenza la capacità tutta italica di adeguamento passivo e di atteggiamento erosivo così brillantemente esposto da Antonio de Martini. In mancanza non resterà che sperare nel “buon cuore” statunitense, possibilmente preoccupato di un dominio franco-tedesco che potrebbe indurre dalla condizione di dipendenza privilegiata a giungere realmente ad una forma di qualche indipendenza politico-economica dall’egemone americano e di rivalsa rispetto al tradimento britannico della Brexit. Nel caso ancora più nefasto, il placet americano così entusiasta al trattato del “Quirinale” potrebbe essere il segnale di via libera ad una aggregazione dell’Italia nel tentativo di mantenere una parvenza di influenza della Francia nell’Africa francofona; soprattutto di uno spolpamento definitivo del Bel Paese, anche come compensazione dell’affronto subito dalla Francia ad opera di Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia sulla faccenda dei sommergibili e sulla sua silenziosa esclusione di fatto dal quadrante strategico del Pacifico, pur essendo lì presente con qualche residuo coloniale. A meno di un tracollo di Macron e della macronite. Solo a quel punto il giochino a fasi alterne, tra i tanti passi quello di affidare la maggior parte dei comandi militari nella periferia della NATO alla forza militare più limitata ed infiltrata, la Germania e al potenziale ribelle qualche pacca e qualche osso, potrà richiedere qualche nuova variante.

NB_Qui sotto il testo dei due trattati oggetto dell’articolo

aquisgrana 2019

TRATTATO DEL QUIRINALE ITA FRANCIA

Stati Uniti! Papaveri e papere_con Gianfranco Campa

Un ceto politico chiaramente impresentabile, incapace di un pensiero autonomo e preda dei giochi di potere e di colpi di mano. Il tempo stringe e con esso diventa stringente la necessità di un ricambio politico interno alla componente democratica e neoconservatrice in grado di sostenere il confronto con Donald Trump e soprattutto il trumpismo. Si tratta però di una ricerca quasi disperata, ridotta al lumicino di pochi uomini, scarsamente rappresentativi. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vpxhfv-stati-uniti-papaveri-e-papere.html

 

Geopolitica dell’energia, di François Campagnola

L’energia è uno dei principali motori delle economie industriali e, come tale, terreno fertile per il confronto di interessi tra protagonisti in un contesto di scarsità di risorse. È quindi prima di tutto un fattore e un determinante della guerra. In tempo di pace, il confronto degli interessi rimane attraverso i mezzi pacifici di strutturazione dei mercati e determinazione dei prezzi.

Gli elementi costitutivi della geopolitica energetica

In tempo di guerra, l’energia è sia un fattore di guerra che una determinante della guerra. Per quanto riguarda il tempo di pace, cinque elementi stanno oggi riconfigurando la geopolitica globale dell’energia. Sono questi i vincoli dell’imperativo climatico, l’importanza assunta oggi dal gas, il peso assunto da Cina e India nel consumo energetico mondiale, il riemergere degli Stati Uniti come primo produttore mondiale di energia, il continuo peso energetico del Golfo paesi e Russia, nonché l’arrivo sul mercato di nuovi attori statali.

La geopolitica dell’energia in tempo di guerra: guerra ed energia

Dalla prima guerra mondiale, l’energia è stata tanto un fattore nella guerra quanto una determinante della guerra. L’energia infatti è diventata una determinante della guerra quando la meccanizzazione delle forze armate ha reso il peso dell’accesso al petrolio una costante nelle operazioni militari. A questo proposito, la seconda guerra mondiale ha consumato quasi 350 volte più petrolio della prima guerra mondiale. Come determinante, la supremazia della flotta britannica sulla flotta tedesca durante la seconda guerra mondiale è dovuta a una decisione di W. Churchill prima della prima guerra mondiale per dotare la flotta di propulsione a petrolio e non più a carbone. La dottrina tedesca Blitzkrieg basata sulla mobilità del carro armato, la sua azione combinata nell’aviazione, le scoperte tecnologiche nel campo dei segnali e la ricerca dell’elemento sorpresa è fondamentalmente una dottrina volta ad ottenere una rapida decisione militare perché la configurazione geopolitica di La Germania ha limitato le sue possibilità di fornire petrolio e materie prime per una lunga guerra. In fin dei conti, la decisione del 1942 che portò alla sconfitta tedesca a Stalingrado distolse la Germania dall’obiettivo di prendere Mosca in favore di un’azione militare nel Caucaso al fine di impossessarsi del petrolio di Baku per l’uso delle sue forze e per bloccare l’approvvigionamento di petrolio delle forze sovietiche.

L’energia è stata anche un fattore nella guerra quando, nel 1941, il Giappone ha lanciato la sua guerra preventiva contro gli Stati Uniti a Pearl Harbor per sfuggire al soffocamento economico prodotto dall’embargo petrolifero americano. All’indomani della seconda guerra mondiale, l’intervento franco-britannico a Suez nel 1956 fu una risposta alla nazionalizzazione del Canale di Suez attraverso il quale passava la maggior parte del petrolio importato dagli europei. Il primo shock petrolifero del 1973 fu anche una risposta diretta al sostegno occidentale a Israele attaccato nel 1973 da una coalizione guidata da Egitto e Siria. La guerra Iran-Iraq dal 1980 al 1988 tra due paesi che da soli hanno prodotto un terzo del petrolio del Golfo e che hanno prodotto 1, 2 milioni di morti sono in parte dovuti a una disputa di confine sul possesso di petrolio dallo Shatt-el-Arab allo sbocco del Golfo Persico. La prima guerra del Golfo del 1990/1991 segue l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq per il possesso delle riserve energetiche della seconda. La seconda guerra del Golfo del 2003 per il rovesciamento di Saddam Hussein è stata in gran parte motivata dal desiderio americano di prendere il controllo del petrolio iracheno. L’embargo petrolifero è ancora un’arma anche nelle controversie interstatali, compresa quella contro l’Iran, perché il suo possesso di armi nucleari rappresenterebbe un grande rischio per lo Stretto di Hormuz e per Israele. Infine, è probabile che la recente autosufficienza energetica degli Stati Uniti dovuta allo sfruttamento degli idrocarburi di roccia li porti a ritirarsi dal Medio Oriente per concentrarsi sulla Cina, divenuta nel frattempo il suo principale avversario strategico. Nei conflitti intra-statali, anche la risorsa petrolifera svolge un ruolo importante in quanto alimenta rivolte e guerre interne per il controllo della sua rendita, come avviene oggi in Libia, Ciad e Sudan, così come intorno al Golfo di Guinea.

Da leggere anche

Russia: la geopolitica dell’energia

Geopolitica dell’energia in tempo di pace: l’attuale riconfigurazione

In termini di clima, è stato calcolato che il riscaldamento globale potrebbe essere limitato a 1,5°C. in caso di neutralità carbonica raggiunta nel 2050, a 2°C. se questo tappo fosse stato ottenuto nel 2070 e a 2,5°C. se fosse ottenuto nel 2100. La questione è dunque quella dei mezzi necessari per raggiungere questa carbon neutrality in un contesto internazionale segnato da una grande divergenza degli interessi economici e delle risorse ambientali dei paesi come recentemente dimostrato. Glasgow. In termini energetici, questo obiettivo prevede la riduzione del consumo di carbone e idrocarburi a favore del nucleare e delle rinnovabili. Per quanto riguarda il consumo mondiale di energia è previsto un aumento di un altro 50% nel 2030 rispetto al 2005 e la produzione annua di gas naturale che era di 3, 9 miliardi di m3 nel 2018 prima della crisi covid dovrebbero continuare ad aumentare entro il 2030/2040. Questo perché è un’energia alternativa meno inquinante del carbone in un contesto globale di tentativi di ridurre le emissioni di gas serra. All’interno di questa produzione di gas naturale, dovrebbe aumentare significativamente anche la quota di gas di base, in particolare dagli Stati Uniti.

La Cina oggi concentra il 24% del consumo mondiale di energia primaria e il 18,5% della sua produzione mondiale. È il primo produttore mondiale di carbone con una produzione di 3,8 miliardi di tonnellate, il 4 ° produttore di gas con una produzione di 191 Gm 3 e il 6 ° produttore di petrolio con una produzione di 195 milioni di tonnellate. È anche il primo importatore mondiale di energia con volumi rispettivamente di 505 milioni di tonnellate di petrolio, 125 miliardi di m 3 di gas e 306 milioni di tonnellate di carbone. Questa situazione non può che peggiorare entro il 2030 mentre, sulla sua scia, cresce anche il consumo energetico indiano. Si trova a 3 eclassifica mondiale per consumo dietro a Stati Uniti e Cina con, tuttavia, un basso livello di consumo pro capite. E ‘il 5 ° rango per le sue riserve di carbone, che corrispondono al 10% delle riserve mondiali e 2 e la produzione di rango dopo la Cina. Le sue riserve di petrolio e gas sono meno dell’1% delle riserve mondiali con produzioni che coprono solo il 16% del suo consumo di petrolio e il 45% di gas. Ha finalmente localizzato a 2 E in tutto il mondo per le sue importazioni di petrolio e carbone. Tuttavia, le sue energie rinnovabili coprono il 23% del suo consumo di energia primaria.

Grazie agli idrocarburi di roccia, gli Stati Uniti, che all’epoca erano il maggior importatore mondiale di petrolio e gas, sono diventati il ​​maggior produttore mondiale. La sua produzione di petrolio è così aumentata da 333 a 747 milioni di tonnellate tra il 2010 e il 2019 e la sua produzione di gas da circa 230 milioni di m3 nel 2010 a oltre 600 milioni di m3 nel 2019. Il tutto non dovrebbe raggiungere il suo picco prima del 2030 sebbene la caratteristica del substrato roccioso depositi è che si esauriscono più rapidamente rispetto ai depositi convenzionali. Per quanto li riguarda, Russia e Arabia Saudita sono il 2 ° e il 3 °produttori di petrolio con una produzione rispettivamente di 568 e 560 milioni di tonnellate nel 2019. La Russia è anche il primo esportatore di gas naturale in Europa e ora in Cina con una produzione annua di circa 650 miliardi di m 3. Infine, la geografia globale della produzione di energia si è arricchita di nuovi attori. Il Canada oggi beneficia delle sue immense riserve di petrolio e gas di base. La sua produzione annuale di petrolio oggi è di 275 milioni di tonnellate di petrolio. Il Brasile è diventato un importante produttore di petrolio con una produzione annua di 150 milioni di tonnellate grazie alla recente scoperta di grandi giacimenti di acque profonde al largo delle sue coste. Infine, molto importanti sono anche le riserve energetiche dell’Africa, soprattutto offshore, che offrono un forte potenziale di crescita anche se la produzione del continente è ancora di soli 400 milioni di tonnellate di petrolio all’anno. I principali giacimenti sono nel Golfo di Guinea, Nigeria, Angola, Gabon, Ghana, Niger e Mozambico.

L’energia in un’economia di mercato: logica di mercato e sistema dei prezzi

In un’economia di mercato, la geopolitica dell’energia è essenzialmente condizionata dalla struttura dei mercati e dalla determinazione dei prezzi. Nell’economia liberale, entrambi sono determinati dall’esistenza o meno di ostacoli alla libertà di mercato. Questi prendono la forma di nazionalizzazione, cartello, potere di mercato e contratti a lungo termine.

La struttura dei mercati energetici

In termini di produzione, l’energia è prima di tutto un settore fortemente capital-intensive per l’importanza dei suoi costi fissi e per la concentrazione della produzione nelle mani di poche grandi aziende attorno alle quali ruotano una miriade di società di servizi. Accanto alle compagnie statali che oggi controllano l’83% e l’85% delle riserve di petrolio e gas, le compagnie private continuano a svolgere un ruolo fondamentale nell’esplorazione e nello sfruttamento delle risorse energetiche del pianeta, investendo circa il 30% del totale mondiale. Sul primo elemento, l’attaccamento al principio di sovranità sulle risorse naturali ha portato a numerosi Stati produttori di energia in Medio Oriente, L’Africa e l’America Latina hanno nazionalizzato la loro produzione energetica tra il 1960 e il 1980 quando le risorse dell’URSS e della Cina erano già state nazionalizzate dalle rivoluzioni del 1917 e del 1949. Ciò ha portato in particolare alla creazione di società nazionali come Saudi Aramco per l’Arabia Saudita, Nioc per Iran, Sonatrach per l’Algeria e PEMEX per il Messico. Infine, le principali società cinesi sono Sinopec, CPC e CNOOC. Sul secondo elemento degli interessi privati, le risorse energetiche della Russia sono state parzialmente privatizzate negli anni ’90 dando vita ai colossi Gazprom e Lukoil mentre Saudi Aramco è stata parzialmente quotata in borsa nel 2019. In Occidente, lo smembramento nel 1911 della Standard Oil creata da Rockefeller in base alla legge antitrust americana aveva dato vita a 6 società private tra cui Chevron, Exxon e Mobil. Oggi, tra le major mondiali in ordine di importanza in termini di fatturato, la Royal Dutch Shell dei Paesi Bassi, ExxonMobil derivante dalla fusione delle due società nel 1998,British Petroleum (BP) per il Regno Unito, Total per la Francia che si è fusa con Elf nel 2000 e Gulf-Chevron.

Sul fronte dei trasporti, la geopolitica dei flussi energetici corrisponde prima di tutto a quella delle rotte marittime per il petrolio e ora per il gas. Le principali strozzature che richiedono un controllo sono lo Stretto di Hormuz attraverso il quale passa il 20% della produzione mondiale di petrolio, i canali di Suez e Mozambico, il Capo di Buona Speranza e gli Stretti di Gibilterra e Malacca e la Sonda. Le principali aree marittime interessate sono l’Oceano Indiano e l’Oceano Atlantico, nonché il Mar Mediterraneo, il Mar Nero e il Mare del Nord. Così, metà della produzione mondiale di petrolio e gas naturale liquefatto passa attraverso l’Oceano Indiano verso l’Asia. Infine, i golfi di Aden e Guinea sono aree marittime a rischio per l’ondata di pirateria marittima e l’Oceano Artico è proiettato nel futuro come una nuova frontiera marittima ed energetica su scala globale. Per il gas e l’elettricità, la geopolitica dei flussi energetici coincide con quella dei tubi e delle reti. In Europa, molti gasdotti terrestri trasportano il gas russo dalla Siberia, passando tradizionalmente attraverso la Bielorussia e l’Ucraina. La Russia ha anche intrapreso una vigorosa politica di diversificazione delle sue rotte di esportazione del gas verso l’Europa attraverso la costruzione di gasdotti sottomarini volti a ridurre il potere di transito dell’Ucraina. Sotto il Mar Nero, ciò ha portato alla costruzione di gasdotti Per il gas e l’elettricità, la geopolitica dei flussi energetici coincide con quella di tubi e reti. In Europa, molti gasdotti terrestri trasportano il gas russo dalla Siberia, passando tradizionalmente attraverso la Bielorussia e l’Ucraina. La Russia ha anche intrapreso una vigorosa politica di diversificazione delle sue rotte di esportazione del gas verso l’Europa attraverso la costruzione di gasdotti sottomarini volti a ridurre il potere di transito dell’Ucraina. Sotto il Mar Nero, ciò ha portato alla costruzione di gasdotti Per il gas e l’elettricità, la geopolitica dei flussi energetici coincide con quella dei tubi e delle reti. In Europa, molti gasdotti terrestri trasportano il gas russo dalla Siberia, passando tradizionalmente attraverso la Bielorussia e l’Ucraina. La Russia ha anche intrapreso una vigorosa politica di diversificazione delle sue rotte di esportazione del gas verso l’Europa attraverso la costruzione di gasdotti sottomarini volti a ridurre il potere di transito dell’Ucraina. Sotto il Mar Nero, ciò ha portato alla costruzione di gasdotti La Russia ha anche intrapreso una vigorosa politica di diversificazione delle sue rotte di esportazione del gas verso l’Europa attraverso la costruzione di gasdotti sottomarini volti a ridurre il potere di transito dell’Ucraina. Sotto il Mar Nero, ciò ha portato alla costruzione di gasdotti La Russia ha anche intrapreso una vigorosa politica di diversificazione delle sue rotte di esportazione del gas verso l’Europa attraverso la costruzione di gasdotti sottomarini volti a ridurre il potere di transito dell’Ucraina. Sotto il Mar Nero, ciò ha portato alla costruzione di gasdottiBlue Stream e Turkish Stream , nonché un progetto di costruzione di South Stream . Sotto il Mar Baltico, ciò ha portato alla costruzione del Nord-Stream1 e 2 verso la Germania. In Asia esiste una vasta rete di oleodotti e gasdotti tra Cina e Russia e tra Cina e Asia centrale Uno degli obiettivi energetici delle nuove Vie della Seta è quello di aggirare finalmente lo Stretto di Malacca attraverso il quale passa l’80% dell’energia cinese importazioni, ma che la Cina non controlla. Questa è in particolare la funzione degli oleodotti progettati tra la costa meridionale del Pakistan e lo Xinjiang per trasportare 1 milione di barili al giorno, ovvero il 15% del consumo cinese. Infine, esistono anche progetti per realizzare collegamenti elettrici tra Europa e Cina in modo da far fronte all’aumento del 70% dei consumi cinesi previsto entro il 2040.

In termini di commercio, le risorse energetiche prima competono strutturalmente tra loro. La prima funzione del petrolio era quindi quella di sostituire l’olio di balena per l’illuminazione individuale prima di raggiungere gradualmente tutti i settori dell’economia, in particolare a scapito del carbone. Il petrolio ha così conquistato la sua quota di mercato perché è una risorsa di grande flessibilità di utilizzo e di costo di produzione altamente competitivo e la strategia delle compagnie petrolifere è stata sin dall’inizio molto aggressiva in ottica di controllo delle quote di mercato dell’energia. Ha anche beneficiato per lungo tempo del mercato vincolato del trasporto su strada. Il gas è anche un sostituto del carbone, in particolare per il riscaldamento in concorrenza con l’elettricità prodotta dal nucleare e dalle energie rinnovabili. Le ragioni del commercio energetico sono poi dominate da un’altissima concentrazione di aree di produzione di petrolio e gas e una relativa dispersione per il carbone. Il grosso della produzione petrolifera è infatti concentrato nei paesi OPEC più che sono i paesi OPEC (Arabia Saudita, Venezuela, Iraq, Kuwait, Emirati Arabi Uniti. Iran, Algeria, Libia, Angola, Gabon, Nigeria, Guinea Equatoriale e Repubblica di Congo.) E i nuovi arrivati ​​all’OPEC Plus che sono Russia, Azerbaigian, Kazakistan e Messico, nonché Bahrain, Brunei, Malesia, Oman e Sudan. Tre paesi infine condividono il 48% delle riserve di gas convenzionale che sono la Russia, Iran e Qatar a cui si aggiungono oggi i nuovi paesi produttori di idrocarburi di roccia, ancora principalmente gli Stati Uniti. Infine, le ragioni di scambio sono dominate dalla concorrenza dei contratti a lungo termine e dei mercati a pronti a breve termine in rapido sviluppo, i cui termini e prezzi non obbediscono alle stesse regole. A parte il GNL, la maggior parte delle consegne di gas naturale e due terzi delle consegne di petrolio per lungo tempo sono passate attraverso contratti a lungo termine. In tema di gas, la tendenza degli europei è stata comunque negli anni 2010 a rimettere in discussione i contratti a lungo termine a favore delle consegne al mercato spot. In parallelo,

Da leggere anche

Nuovo numero speciale: Army, il salto verso l’alta intensità

Determinazione dei prezzi dell’energia

Innanzitutto, i costi fissi sono inclusi nel calcolo del prezzo dell’energia. Si tratta di costi di esplorazione tanto più elevati quanto più difficili sono le condizioni di esplorazione, come nell’Artico o in acque profonde, e più incerto il risultato. In media, si ritiene che una campagna esplorativa su quattro porti a una start-up. Si tratta, invece, di costi operativi che si suddividono in spese infrastrutturali e spese operative. Nel primo caso si tratta in particolare del costo di installazione o noleggio di piattaforme di produzione, in particolare offshore. Il tutto induce costi di accesso che variano da 8 dollari al barile per il greggio onshore del Vicino Oriente a 45 dollari al barile per il deep offshore del Mare del Nord o del Golfo di Guinea. Nel calcolo del prezzo sono comprese anche le spese di trasporto che variano in base alle distanze e alla natura dell’energia trasportata. Poiché è pesante e costoso da trasportare e poiché i siti di produzione sono relativamente sparsi, il carbone è sempre stato consumato vicino ai siti di estrazione o nei paesi limitrofi. È quindi solo quando il prezzo di altre energie alternative aumenta che diventa interessante trasportarlo, come dimostra l’attuale importazione di carbone americano in Europa come sostituto dell’impennata del prezzo del gas. Al contrario, il prezzo del trasporto è basso per il petrolio, da uno a due dollari al barile, ma cinque volte più alto per il trasporto di gas naturale a potere calorifico equivalente. Per quanto lo riguarda, il costo del trasporto GNL è dell’ordine di 4-6 volte il costo del trasporto terrestre via metanodotto con un andamento comunque decrescente dovuto al progresso tecnologico e all’ammortamento degli investimenti già effettuati. Infine, l’importanza degli investimenti in queste ultime infrastrutture spiega perché i contratti per la fornitura di GNL siano contratti a lungo termine dell’ordine di un decennio.

Poiché sono soggetti alla legge della domanda e dell’offerta, il prezzo dell’energia oscilla in base ai capricci del mercato e alla politica dei prezzi dei produttori. A livello internazionale, la maggior parte del diritto internazionale applicabile, sia esso prodotto dall’OMC o dalle diverse leggi regionali, converge da tempo sul principio della rimozione degli ostacoli alla libertà di mercato. Il risultato è una tendenza alla veridicità dei prezzi e all’aumento dei mercati spot a breve termine. Tuttavia, ciò non impedisce l’uso continuato di contratti a lungo termine da 10 a 25 anni, come tradizionalmente avviene per la fornitura di gas russo all’Europa. Questo è il caso quando il peso degli investimenti necessari per la produzione e il trasporto richiede di assicurarsi gli investitori attraverso questo tipo di contratto. La verità dei prezzi può anche essere minata da politiche di prezzo aggressive delle aziende produttrici nazionali. Così, dal 2014 al 2016, in un contesto di rallentamento della domanda cinese di petrolio e di concomitante consolidamento della produzione americana di shale oil, l’Arabia Saudita e i paesi OPEC hanno intrapreso una politica di liberalizzazione dell’offerta a 30 $ al barile destinata, da un lato da un lato, per guadagnare quote di mercato attraverso prezzi più bassi e, dall’altro, per indebolire la situazione finanziaria dei produttori americani di idrocarburi di roccia madre che competono con loro e la cui sopravvivenza richiede un prezzo al barile superiore a $ 40.

Su questa base, la struttura dei prezzi del petrolio mostra da diversi decenni una curva al rialzo con periodi di elevata volatilità. Il prezzo medio del petrolio era quindi di 2 dollari al barile prima del primo shock petrolifero del 1973, di 12 dollari il giorno successivo e di 40 dollari dopo il secondo shock petrolifero del 1979. È sceso a 10 dollari al barile con il controshock del 1986. poi di nuovo al tempo della crisi asiatica del 1998. Dall’inizio degli anni 2000 al suo crollo nel 2014/2016, il prezzo del petrolio non ha smesso di salire fino a raggiungere i 100 $ all’inizio del 2008 per poi crollare nuovamente a 40 $ durante la crisi finanziaria del 2008 per poi risalire a 100 dollari tra il 2010 e il 2014 e crollare nuovamente a 30 dollari nel 2016. È poi risalito a 65 dollari all’inizio del 2019 e raggiunge oggi il livello di 80 dollari al barile. Per quanto la riguarda, la struttura dei prezzi del gas è distinta da quella del petrolio anche se ad esso è in tutto o in parte indicizzata. Si distingue perché, a differenza del mercato petrolifero, il mercato del gas non è globalizzato, ma segmentato tra un mercato americano, un mercato europeo e un mercato asiatico. Questa segmentazione regionale del mercato del gas si riflette quindi sui prezzi. Pertanto, il prezzo del gas in Europa è il doppio rispetto agli Stati Uniti e il 30% in meno rispetto all’Asia. Tuttavia, lo sviluppo del trasporto marittimo di GNL costituisce un potente fattore di unificazione del mercato del gas su scala globale che dovrebbe tradursi in ultima analisi in una tendenza alla convergenza dei prezzi. a differenza del mercato petrolifero, il mercato del gas non è globalizzato, ma segmentato tra un mercato americano, un mercato europeo e un mercato asiatico. Questa segmentazione regionale del mercato del gas si riflette quindi sui prezzi. Pertanto, il prezzo del gas in Europa è il doppio rispetto agli Stati Uniti e il 30% in meno rispetto all’Asia. Tuttavia, lo sviluppo del trasporto marittimo di GNL è un potente fattore di unificazione del mercato del gas su scala globale che dovrebbe tradursi in ultima analisi in una tendenza alla convergenza dei prezzi. a differenza del mercato petrolifero, il mercato del gas non è globalizzato, ma segmentato tra un mercato americano, un mercato europeo e un mercato asiatico. Questa segmentazione regionale del mercato del gas si riflette quindi sui prezzi. Pertanto, il prezzo del gas in Europa è il doppio rispetto agli Stati Uniti e il 30% in meno rispetto all’Asia. Tuttavia, lo sviluppo del trasporto marittimo di GNL è un potente fattore di unificazione del mercato del gas su scala globale che dovrebbe tradursi in ultima analisi in una tendenza alla convergenza dei prezzi. il prezzo del gas in Europa è il doppio rispetto agli Stati Uniti e il 30% in meno rispetto all’Asia. Tuttavia, lo sviluppo del trasporto marittimo di GNL è un potente fattore di unificazione del mercato del gas su scala globale che dovrebbe tradursi in ultima analisi in una tendenza alla convergenza dei prezzi. il prezzo del gas in Europa è il doppio rispetto agli Stati Uniti e il 30% in meno rispetto all’Asia. Tuttavia, lo sviluppo del trasporto marittimo di GNL costituisce un potente fattore di unificazione del mercato del gas su scala globale che dovrebbe tradursi in ultima analisi in una tendenza alla convergenza dei prezzi.

Infine, il potere di mercato dei produttori ha a lungo giocato un ruolo nella determinazione dei prezzi degli idrocarburi. Negli Stati Uniti, prima del suo smantellamento nel 1911, la Standard Oil di D. Rockefeller era il prezzo del petrolio perché monopolizzava l’80% del trasporto del petrolio americano e il 90% della sua raffinazione. A livello internazionale e fino alla creazione dell’OPEC, le Sette Sorelle americane che monopolizzavano il 90% del commercio petrolifero internazionale formarono un cartello che istituì un sistema noto come prezzo unico Gulf Plus ritenuto proveniente dalla costa orientale degli Stati Uniti. Oggi, però, le cinque major private rappresentano solo il 12% del mercato petrolifero dalla nazionalizzazione della produzione petrolifera e vedono quindi il loro potere di mercato notevolmente ridotto. La nazionalizzazione dell’83% delle riserve mondiali di petrolio in tutto il mondo e la corrispondente creazione dell’OPEC nel 1960 hanno quindi stabilito un potente potere di mercato per i paesi dell’OPEC. L’affermazione di quest’ultimo potere di mercato è stata tuttavia graduale. In un primo momento, l’OPEC ha semplicemente cercato di lottare contro il calo dei prezzi e quindi delle sue royalties. Con gli aumenti di prezzo del primo shock petrolifero, l’OPEC ha preso davvero coscienza del suo potere di mercato e poi lo ha testato con il secondo shock petrolifero del 1979 dopo la rivoluzione iraniana. L’OPEC ha semplicemente cercato di lottare contro la caduta dei prezzi e quindi delle sue royalties. Con gli aumenti di prezzo del primo shock petrolifero, l’OPEC ha preso davvero coscienza del suo potere di mercato e poi lo ha testato con il secondo shock petrolifero del 1979 dopo la rivoluzione iraniana. L’OPEC ha semplicemente cercato di lottare contro la caduta dei prezzi e quindi delle sue royalties. Con gli aumenti di prezzo del primo shock petrolifero, l’OPEC ha preso davvero coscienza del suo potere di mercato e poi lo ha testato con il secondo shock petrolifero del 1979 dopo la rivoluzione iraniana.

In termini di struttura dei prezzi, il primo shock petrolifero mirava a introdurre una rendita di scarsità nel prezzo del petrolio anticipando un probabile aumento dei prezzi del petrolio dovuto all’aumento della domanda internazionale in quel momento. Successivamente, il secondo shock petrolifero mirava a introdurre nel mercato una rendita di monopolio. Tuttavia, il potere di mercato dell’OPECtendeva rapidamente a erodere dal 54% della produzione mondiale di petrolio nel 1973 al 30% nei primi anni 1980. Di conseguenza, l’OPEC ha dovuto scegliere tra due tipi di strategie di prezzo di mercato. La prima strategia è una strategia di difesa delle proprie quote di mercato attraverso un aumento della produzione e una diminuzione dei prezzi in modo da escludere dal mercato i concorrenti con costi di produzione più elevati. Questo è stato il caso negli anni ’80 così come nella seconda metà degli anni 2010. La seconda strategia mira a mantenere il potere d’acquisto dei paesi produttori riducendo l’offerta di petrolio per aumentare i prezzi. Infine, si scopre oggi che, a parte il ruolo di bilanciamento che l’Arabia Saudita svolge nell’OPEC, quest’ultimo ha dovuto espandersi nel 2016 in un’OPEC Plus che includeva la Russia ei paesi dell’Asia centrale per garantire il potere di mercato di fronte all’ascesa dello shale oil americano. Il problema qui è che più membri di un cartello sono, più è difficile imporre una disciplina delle quote di produzione. Questo era già il caso all’interno dell’OPEC, quindi probabilmente sarà anche il caso all’interno dell’OPEC Plus. Infine, una delle sfaccettature del prezzo di equilibrio ricercato è quella che consente di impedire agli acquirenti di petrolio di ricorrere, quando possibile, alle energie alternative (rinnovabili, gas, carbone e nucleare). Il problema qui è che più membri di un cartello sono, più è difficile imporre una disciplina delle quote di produzione. Questo era già il caso all’interno dell’OPEC, quindi probabilmente sarà anche il caso all’interno dell’OPEC Plus. Infine, una delle sfaccettature del prezzo di equilibrio ricercato è quella che consente di impedire agli acquirenti di petrolio di ricorrere, quando possibile, alle energie alternative (rinnovabili, gas, carbone e nucleare). Il problema qui è che più membri di un cartello sono, più è difficile imporre una disciplina delle quote di produzione. Questo era già il caso all’interno dell’OPEC, quindi probabilmente sarà anche il caso all’interno dell’OPEC Plus. Infine, una delle sfaccettature del prezzo di equilibrio ricercato è quella che consente di impedire agli acquirenti di petrolio di ricorrere, quando possibile, alle energie alternative (rinnovabili, gas, carbone e nucleare).

https://www.revueconflits.com/geopolitique-de-lenergie-francois-campagnola/

una polemica giustificata_a cura di Giuseppe Germinario

La stampa italiana, nella quasi totalità è ridotta ad una grancassa di livello miserabile. A maggior ragione serve ascoltare altre campane_Giuseppe Germinario
Maria Zhakarova risponde a Molinari di Repubblica:
“Ho letto con entusiasmo il Suo articolo, dottor Maurizio Molinari, su Repubblica. Era da molto tempo che non vedevo un’assurdità così deliziosa.
Capisco perché nessuno della Sua redazione lo abbia firmato e Lei si sia assunto in prima persona la responsabilità di questa vergognosa missione. Nessun giornalista che si rispetti vorrebbe il suo nome sotto il titolo “Carri armati e migranti: la morsa di Putin sull’Europa”.
Andiamo per ordine.
L’articolo dice: “…abbiamo visto l’arrivo di unità militari russe al confine con l’Ucraina: stiamo parlando di almeno 90.000 uomini con relativi mezzi blindati ed artiglieria… l’esercito ha stabilito una base a Yelnya, 260 km a nord del confine ucraino”.
Probabilmente, dottor Molinari, Lei ha ascoltato le affermazioni statunitensi secondo cui la Russia starebbe concentrando truppe al confine con l’Ucraina, ma non ha letto il comunicato ufficiale del Ministero della difesa ucraino, che smentisce le fobie statunitensi. Lei per definizione chiaramente ignora la posizione di Mosca. E perché dovrebbe, quando può scrivere della “creazione di una base con mezzi blindati ed artiglieria a Yelnya” senza alcun fact-checking. Non c’è nessuna base. Nel nostro Paese non esistono affatto basi militari. Esiste la dislocazione di unità delle forze armate russe sul nostro territorio nazionale. E questo è assolutamente un nostro diritto sovrano, che non viola gli impegni internazionali assunti e appartiene, come, tra gli altri, ama dire la NATO, alle “attività di routine”.
Ma il Suo sproloquio sulla realtà russa non finisce qui. Lei scrive che Yelnya si trova a km. 260 dal confine ucraino. E dunque i nostri carri armati sono sul confine o a km. 260 da esso? Se il direttore di Repubblica ha un’idea confusa di dove sia Yelnya (anche se non lo credo, visto che le ha dedicato un intero articolo) forse sarà più informato sulla collocazione della Svizzera tra Francia e Italia. E la distanza è addirittura inferiore ai 260 km. Ma non è che domani la Repubblica scriverà che Berna è a un passo dall’attaccare Italia e Francia contemporaneamente, visto che tutte le truppe svizzere sono più vicine ai confini di questi Paesi di quanto non sia Yelnya all’Ucraina?
Il difetto di tale logica non sembra ovvio ai lettori del Suo giornale Repubblica? Quello che Lei si permette di fare non è consentito a un giornalista perbene.
“… Nel 2014 la Russia intervenne dopo la sconfitta nelle presidenziali ucraine del candidato da lei sostenuto…. Ora la minaccia di invasione punta a tenere sotto scacco il nuovo presidente ucraino Volodymyr Zelensky” – prosegue l’articolo.
E chi sarebbe il “candidato della Russia” che avrebbe perso le elezioni nel 2014? Si riferisce a Yanukovych? Candidato non della Russia, ma delle regioni sud-orientali dell’Ucraina. E non ha perso, ha vinto, e non nel 2014, ma nel 2010. Inoltre, aveva vinto le elezioni precedenti, nel 2004. Ma per impedirgli di andare al potere allora, l’opposizione ucraina, sostenuta dai protettori occidentali, ha escogitato una procedura inconcepibile, una parodia della democrazia – un “terzo turno” di elezioni, e ha fomentato una “rivoluzione arancione”, trascinando Victor Yushchenko alla presidenza dell’Ucraina. E nel 2010 Viktor Yanukovych ha vinto di nuovo, con un ampio sostegno dalle regioni del sud-est dell’Ucraina, ma l’Occidente non ha avuto alcuna possibilità di ribaltare di nuovo la scelta del popolo ucraino. Gli USA e l’UE hanno deciso di rimandare il putsch a un momento più favorevole. Momento che si è presentato nel 2013, quando Viktor Yanukovych è diventato improvvisamente immeritevole, rimandando la firma dell’accordo di associazione con l’Unione europea. Nel giro di un paio di mesi, in Ucraina si è tenuta un’altra “Maidan” sotto la guida degli Stati Uniti, con la sottosegretaria di Stato americano Nuland che distribuiva soldi, panini e promesse di sostegno incondizionato ai “rivoluzionari”. E nel 2014, caro Direttore, Viktor Yanukovych non si è candidato. Ha lasciato l’Ucraina perché se fosse rimasto lì, sarebbe stato ucciso dai radicali ucraini che hanno sparato, picchiato a morte e bruciato centinaia di loro connazionali
La Sua non conoscenza della sostanza della questione è sorprendente.
Anche se mi è piaciuta molto l’espressione “tenerlo sotto scacco” che Lei usa in riferimento alla politica russa in Ucraina e personalmente a Vladimir Zelensky. Prima di tutto è un’espressione bellissima. In secondo luogo, non mi pare che gli scacchi siano vietati, vero? O solo se i russi non vincono?
L’unico problema è che in Ucraina ora non c’è un re, infatti i pedoni possono trasformarsi solo in regine.
La politica della Russia nei confronti della sovranità dell’Ucraina fin dalla sua indipendenza ha avuto come unico obiettivo la costruzione di relazioni di buon vicinato. Quello che è successo nel 2014 in Crimea è qualcosa che spieghiamo di continuo, ma che in Occidente viene costantemente ignorato. Ogni tentativo di esporre i fatti si scontra con “articoli”, simili al Suo, che distorcono la percezione della realtà.
Ma lo ripeterò ancora una volta. Nel 2014, dopo il colpo di stato incostituzionale in Ucraina, ennesimo risultato dell’ingerenza occidentale negli affari di uno stato sovrano, il popolo che vive in Crimea ha fatto la sua scelta storica, è sfuggito al dilagante estremismo nazionalista e illegale tenendo un referendum che in precedenza aveva molte volte cercato di organizzare, ma che gli era sempre stato vietato.
La prossima volta che sulle pagine del Suo giornale apparirà qualcosa sulla “volontà illegittima del popolo di Crimea”, siate così gentili da ricordare ai lettori che in Kosovo non c’è stato assolutamente alcun referendum, ma i Paesi occidentali, compresa l’Italia, ne hanno riconosciuto la “sovranità”. E questo nonostante la risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che indica esplicitamente l’integrità territoriale della Serbia, intendendo il Kosovo come parte di essa.
Veniamo ora ai migranti: “Putin crea parallelamente un’altra situazione di crisi sostenendo il dittatore bielorusso Alexander Lukashenko nella decisione di far arrivare migliaia di migranti da Asia e Medio Oriente fino alla frontiera polacca per creare un nuovo, esplosivo, fronte di attrito con l’Unione europea”.
Signor Molinari, pare che Lei abbia letto molti “rapporti dal campo” polacchi visto che ripete come un mantra tutte queste infinite accuse contro Alexander Lukashenko e per qualche motivo contro il presidente russo per aver “creato un esplosivo fronte di attrito” e una “situazione di crisi”. Ma dice sul serio?
Viene voglia di rimandarla al sito del Ministero dell’Interno italiano, in particolare alla sezione “Statistiche dell’immigrazione”. Bene, questo meraviglioso sito web italiano è stato recentemente aggiornato e scrive nero su bianco che il numero di migranti che vengono maltrattati attraverso il confine dalle forze dell’ordine polacche non è niente in confronto al numero di clandestini dall’Africa lasciati entrare nell’UE attraverso il suo territorio dalla sola Italia. In soli tre giorni di novembre: più di duemila persone. Dall’inizio dell’anno – quasi 60 mila (e molti di loro attraverso la Libia devastata dall’occidente, di cui parleremo in seguito). Gli attuali eventi sul Bug sono solo una vivida immagine (che però dimostra chiaramente fino a che livello di disumanità possono arrivare le guardie di frontiera di uno stato membro dell’UE).
Ora la domanda è: quando Repubblica scriverà che gli Stati Uniti e i paesi della NATO hanno “creato un esplosivo fronte di attrito e una situazione di crisi in Europa” con le loro azioni folli?
Bruxelles dovrebbe cercare le vere cause della crisi migratoria dell’UE nelle vecchie dichiarazioni dei leader della coalizione anti-Iraq, anti-Libia, dei capi di stato e di governo di quei paesi che hanno istigato la “primavera araba” e per 20 anni in Afghanistan hanno fatto non si sa cosa.
L’articolo prosegue così: “è interessante come tutto ciò coincida con l’imminente inaugurazione del Nord Stream 2, che aumenterà la dipendenza dell’Europa dalle importazioni di gas russo, e con l’ostilità di Mosca a raggiungere accordi sul clima…”
Qualche parola sul gas, sulla “dipendenza dell’Europa” e sull’ecologia, visto che ha deciso di mettere insieme più o meno tutti i temi all’ordine del giorno (in quello che chiama “editoriale”). L’Italia da sola riceve fino a 20 miliardi di metri cubi di gas all’anno dalla Russia. Mosca non ha mai tradito o ingannato Roma sulle consegne di gas. Come può in coscienza un giornalista italiano parlare con un tono così becero dei fornitori russi di idrocarburi?
Lei personalmente, dottor Molinari, non ama il gas russo? Molto bene. Ho una grande idea: Maurizio per protesta riscaldi la sua casa con copie de “La Repubblica”.
Chi Le dà il diritto di insultare il nostro Paese con calunnie nauseanti? È alla ricerca dello scoop? Ho una super esclusiva per Lei. Pubblichi una frase di verità sul Suo giornale: “Non c’è fornitore di gas all’Europa più affidabile della Russia”.
Ora parliamo della “dipendenza”, una parola di cui chiaramente non capisce il significato. La vita di tutti noi dipende da un numero enorme di cose, senza le quali cesseremmo di esistere: acqua, sole, ossigeno, ecc. Questo La fa impazzire? Per quanto riguarda il gas russo, la situazione è molto più certa dei terremoti in Sicilia o dell’acqua alta a Venezia : il gas c’è, c’era e ci sarà. La smetta di confondere i lettori e di farsi prendere dal panico.
Gioisca per ogni nuovo giorno, anche se tutto in questo mondo è interdipendente: le persone dipendono l’una dall’altra, la vita dipende dal sole, le piante dall’acqua.
Fondamentalmente non ha senso commentare i Suoi giudizi sulle politiche ambientali della Russia: le nostre priorità in questo settore (molto avanzate anche per gli standard europei) sono state enunciate dal presidente russo nell’ambito degli eventi multilaterali ad alto livello conclusisi di recente. Per favore, dottor Molinari, quando si occupa dell’agenda russa, segua almeno le dichiarazioni che vengono fatte nel Suo Paese. Nel suo videomessaggio al vertice del G20 (tenutosi a Roma, Maurizio!) il presidente Putin ha detto senza mezzi termini: “La Russia sta sviluppando a ritmo spedito il settore energetico a basso contenuto di carbonio. Oggi, la quota di energia proveniente da fonti praticamente senza carbonio – e questo include, come sappiamo, il nucleare, l’energia idroelettrica, l’eolico e il solare – supera il 40% e, se aggiungiamo il gas naturale – il combustibile a più basso contenuto di carbonio tra gli idrocarburi – la quota raggiunge l’86%. Questo è uno dei migliori indicatori del mondo. Secondo gli esperti internazionali, la Russia è tra i leader nel processo di decarbonizzazione globale”.
E infine la Libia “…nella tela europea del presidente Putin c’è anche la Turchia … soprattutto per la convergenza di interessi in Libia nel riuscire a scongiurare le elezioni in programma il 24 dicembre per eleggere un governo”.
Qui Le voglio ricordare che la firma del rappresentante russo si trova sotto il documento finale della seconda conferenza di Berlino sulla Libia, e la Russia è una di quelle (poche, a dire il vero) parti che, anche nelle attuali difficili circostanze, hanno promosso la normalizzazione e il dialogo politico nel Paese distrutto dall’Occidente. La Russia ha partecipato ad alto livello (ministro degli esteri Lavrov) alla recente conferenza internazionale sulla Libia a Parigi, e ha concordato la dichiarazione finale. Il ministro ha sottolineato più volte, anche durante discorsi pubblici, che la cosa principale ora è rispettare il calendario che i libici stessi hanno concordato un anno fa, soprattutto per quanto riguarda lo svolgimento delle elezioni generali, sia presidenziali che parlamentari. Lo vede, spero, che questo contraddice completamente quello che Lei scrive?
Se vogliamo parlare della tela in cui l’Europa è caduta, dovrebbe ricordare come l’Occidente abbia alterato la risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sulla Libia. Le ricordo che nel 2011 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU aveva dichiarato una no-fly zone sulla Libia, che è stata utilizzata da alcuni paesi della NATO, non per proteggere i civili, ma per bombardarli, con la conseguente distruzione dello stato libico, il barbaro assassinio di Gheddafi e la pluriennale crisi migratoria in Europa, di cui l’Italia è prima vittima. Non lo sa? Mi contatti, sono sempre disponibile a raccontarLe molte cose interessanti, compreso a quale link corrisponde il sito dell’ONU.
A parte mi soffermo su qualcosa che non balza agli occhi a prima vista. Lei pone la domanda ” come reagirà l’Ue di Macron, Scholz e Draghi alla sfida ibrida russa in pieno svolgimento”.
La risposta è breve: in nessun modo. Non reagiranno in alcun modo, perché non c’è “nessuna sfida ibrida russa”. È un’invenzione, come tutto il Suo articolo. La smetta di alimentare questo mito per entrare nelle grazie di politici russofobi. Rispetti i Suoi lettori. Gli italiani non meritano bugie così sfacciate.”
(Ambasciata della Federazione Russa in Italia e San Marino)
1 222 223 224 225 226 289