Italia e il mondo

Inerzia e punti di svolta_ di Giacomo Gabellini

Nell’ottica statunitense, l’Ucraina continua a rappresentare una pedina preziosa, sistematicamente impiegata per mettere alle corde la Russia nell’attuale fase ma potenzialmente riciclabile, in un’ottica di medio-lungo periodo, come merce di scambio in nome di un riavvicinamento tra Washington e Mosca funzionale al contenimento della Cina. Prospettiva apparentemente inconcepibile, alla luce del fervore anti-russo che anima gli ambienti neoconservatori fortemente sovrarappresentati all’interno dello “Stato profondo”, ma pur sempre presente nel novero delle opzioni strategiche e proprio per questo pro-fondamente temuta dai leader russofobi e ultra-atlantisti della “nuova Europa”. I quali non perdono occasione per trascinare l’imbelle Unione Europea verso una posizione di crescente ostilità nei confronti della Russia – dai risultati catastrofici dal punto di vista sia economico che strategico – proprio perché persuasi che il rango dei loro Paesi, e i relativi dividendi di natura economica e (geo)politica che ne derivano, risulti direttamente subordinato al grado di rilevanza che gli Stati Uniti attribuiscono all’accerchiamento della Russia.
Osservata dal punto di vista strettamente geopolitico, infatti, la dottrina del rollback applicata da Washington nei confronti della Federazione Russa denota una smaccata illogicità di fondo. Prima d’ora, gli Stati Uniti non si sono mai trovati nelle condizioni di affrontare un avversario come la Repubblica Popolare Cinese, che va ogni giorno di più attrezzandosi per soverchiare gli Usa sotto il profilo economico, tecnologico e militare. Attualmente, gli sforzi della Casa Bianca e del Congresso si concentrano sulla rottura del legame di dipendenza sviluppato dalle imprese multinazionali statunitensi nei confronti della manifattura cinese, attraverso la riorganizzazione delle catene di approvvigionamento, la rinazionalizzazione delle industrie strategiche e l’imposizione di nuovi standard produttivi concepiti appositamente per colpire l’ex Celeste Impero.
Ammesso – e non concesso – che l’ambiziosissimo progetto giunga effettivamente a realizzazione, occorreranno comunque decenni per riconfigurare le filiere, rimpatriare gli impianti delocalizzati a partire dai primi anni ’80 e rimodellare la globalizzazione in base ai propri interessi specifici. I numeri, d’altra parte, sono largamente favorevoli alla Cina, dal punto di vista sia demografico che economico. Per cui, insistono i più illustri esponenti della corrente di pensiero realista, è tempo di abbandonare le velleità di dominio maturate durante il breve periodo unipolare e prendere atto che gli Stati Uniti non dispongono più dei mezzi né dell’autorità sufficiente per piegare il resto del mondo alle proprie direttive. All’inizio degli anni ’70, quando gli Stati Uniti erano alle prese con la dispendiosissima e fallimentare Guerra del Vietnam, fu una constatazione di questo genere a spingere Nixon e Kissinger a superare le barriere di carattere ideologico consustanziali alla Guerra Fredda per aprire alla Repubblica Popolare Cinese e condannare l’Unione Sovietica a un fatale isolamento politico ed economico.
All’epoca, Washington conseguì il risultato capitalizzando politicamente i timori e le questioni aperte tra Mosca e Pechino, a coronamento di un meticoloso lavoro preparatorio che denotava una profonda consapevolezza circa le opportunità potenzialmente costruttive offerte dallo scenario multipolare in via di costituzione. Oggi, la logica della strategia imporrebbe ai decisori statunitensi l’adozione di un approccio altrettanto pragmatico, implicante cioè la predisposizione di una manovra di avvicinamento verso il Cremlino basata sul riconoscimento degli interessi nazionali russi e la strumentalizzazione delle non inesistenti divergenze tra Mosca e Pechino. In primo luogo perché la Russia «non ha la taglia per scalare la vetta del potere planetario. Ma è la quantità marginale che gettando il suo peso sull’uno o sull’altro piatto della bilancia può decidere della partita fra Stati Uniti e Cina»; un’alleanza tra Federazione Russa e Repubblica Popolare Cinese raggiungerebbe la massa critica per «squilibrare il parallelogramma delle forze a danno di Washington». Un’intesa con il Cremlino, viceversa, permetterebbe a Washington di riposizionare nell’area dell’Indo-Pacifico le risorse attualmente dedicate all’accerchiamento della Federazione Russa in Europa orientale, Caucaso e Medio Oriente, e focalizzare così l’attenzione sulla questione di gran lunga più cogente, costituita dall’ascesa della Cina e dalla rapidità con cui Pechino continua implacabilmente ad erodere i residui vantaggi di cui godono ancora gli Usa.
Non è un caso che il più convinto sostenitore della linea della normalizzazione dei rapporti con Mosca sia proprio Henry Kissinger, il principale architetto dell’intesa sino-statunitense del 1972. In un’intervista rilasciata a «The Atlantic» nel 2016, l’ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale e segretario di Stato di Nixon raccomandava di guardare alla Russia «non come a un avversario, ma come a un partner con cui trovare una soluzione».
Sulla strada che conduce all’attuazione delle direttive kissingeriane si ergono una serie di ostacoli formidabili, a partire dall’impellente necessità dell’apparato dirigenziale Usa di preservare un “nemico perfetto” attraverso cui (tentare) tenere insieme i pezzi di una società domestica frustrata, impoverita e pericolosamente avviata verso la disgregazione, e legittimare allo stesso la sopravvivenza di un’organizzazione obsoleta e sempre più contestata come la Nato. La quale costituisce a sua volta la migliore garanzia per la perpetuazione dell’occupazione militar-strategica statunitense di un teatro di primaria importanza come l’Europa, che nella visione profondamente influenzata dalle teorizzazioni di Mackinder e Brzezinski tuttora imperante nel mondo degli “apparati” di Washington risulta imprescindibile per prevenire qualsiasi forma di collaborazione tra Russia ed Europa (leggi: Germania) in grado di ridimensionare la supremazia Usa. Di qui la decisione statunitense di pianificare la sovversione degli equilibri politici interni all’Ucraina per trasformarla in un cuneo da frapporre tra Mitteleuropa e Russia votato all’isolamento dell’Heartland, e intensificare al contempo la pressione militare (espansione della Nato, moltiplicazione delle esercitazioni dell’Alleanza Atlantica in Europa orientale), economica (inasprimento delle sanzioni) e politica (strumentalizzazione del caso Naval’nyj e delle proteste in Bielorussia) sulla Russia.
Kissinger è stato tra i pochissimi – nell’intervista a «The Atlantic», è egli stesso a definire minoritaria” la sua scuola di pensiero – a cogliere la natura spiccatamente difensiva delle mosse compiute da Vladimir Putin a partire dal 2014, e a rendersi conto che nessun leader russo avrebbe mai potuto accettare la prospettiva, resa particolarmente concreta dal colpo di Stato di “Euro-Majdan”, di ritrovarsi la Nato saldamente impiantata in Crimea e alle porte dello stesso bassopiano sarmatico attraversato dalle armate di Napoleone ed Hitler. L’annessione della penisola, attuata con il consenso schiacciante della popolazione locale, ha preservato il controllo russo sull’importantissimo porto di Sebastopoli, mentre l’appoggio garantito alle repubbliche secessioniste di Luhans’k e Donec’k ha permesso alla Federazione Russa di frapporre un imprescindibile cuscinetto fra sé e la Nato. Le cui porte rimangono aperte non solo per l’Ucraina, ma anche per la Georgia, come dichiarato sia dal segretario di Stato Blinken che dal segretario generale dell’Alleanza Stoltenberg. Ai due Paesi, la possibilità era già stata prospettata durante il vertice della Nato di Bucarest dell’aprile 2008, pochi mesi prima che Saakashvili ordinasse l’attacco contro Abkhazia e Ossezia del Sud innescando l’escalation culminata con la sconfitta militare della Georgia ad opera della Russia. A dispetto di quanto prospettato da alcuni6, le intenzioni del Cremlino non vertono sull’annessione del Donbass sulla falsariga del precedente della Crimea, ma sulla stretta osservanza degli Accordi di Minsk, implicanti la concessione di uno statuto speciale alle regioni di Luhans’k e Donec’k (dove i russi etnici sono in maggioranza) che assicuri alla Russia una “quinta colonna” interna allo Stato ucraino di cui avvalersi per influenzare il processo decisionale di Kiev – per lo stesso, identico motivo, la leadership ucraina ostacola l’applicazione dell’intesa raggiunta in Bielorussia e ne invoca la revisione.
A ennesima riprova del fatto che, ristabilito l’equilibrio strategico grazie alla messa a punto di un formidabile arsenale nucleare, la priorità odierna della Russia consiste nel sigillare i propri confini occidentali, consolidando la propria influenza entro gli ex satelliti al fine di ricostituire legami politico-economico-commerciali con il proprio “estero vicino” confluito sotto l’ombrello militar-strategico statunitense e impedire un’ulteriore espansione della Nato verso est. Una logica pressoché analoga si riscontra nella sempre più spiccata propensione del Cremlino a raggiungere compromessi tattici con la Turchia dell’ambiguo e inaffidabile Erdoğan, e ad attingere alla vasta gamma di strumenti di guerra ibrida per intervenire in scenari critici quali quello libico e, soprattutto, siriano. Dove «sul campo i proiettili russi colpiscono i nemici di Assad, ma simbolicamente sono una sorta di “fuoco di interdizione” a un intervento occidentale, per evitare uno scontro diretto tra grandi potenze. In qualche modo, i russi stanno “segnando” il proprio spazio di influenza» nel tentativo di ricavarsi aree strategiche in cui operare per far fronte alla crescente aggressività degli Stati Uniti e della Nato. La cui ostinata renitenza a riconoscere a Mosca qualsiasi legittimità nell’esercizio di influenza nel proprio “estero vicino” ha portato alla formazione di una sorta di “vallo eurasiatico” che, nelle intenzioni di Washington, dovrebbe «interrompere arterie secolari, in grado di assicurare la circolazione di beni materiali, culture, costumi, tradizioni, religioni, dialogo interetnico che si era sviluppata dall’antichità all’età di mezzo, dall’era moderna a quella contemporanea fino ai nostri giorni».
differenza di quella originaria, per di più, la nuova “cortina di ferro” appare strutturalmente votata a produrre frizioni anziché (relativa) stabilità, soprattutto perché priva di una collocazione geografica fissa. Essa non corre più “da Stettino a Trieste”, ma da Murmansk a Sebastopoli, sfiorando la direttrice San Pietroburgo-Rostov. La “linea del fronte” si è quindi spostata 1.200 km più a est, a una distanza dal cuore storico, demografico ed economico della Russia mai così pericolosamente ridotta dai tempi di Ivan in Grande. La presenza della Nato a ridosso dei confini russi priva il Cremlino dello spazio necessario a qualsiasi forma di arretramento, costringendo Mosca a reagire a ogni iniziativa dello schieramento nemico con la durezza e l’imprevedibilità ravvisabili in qualsiasi soggetto che si ritrovi nelle condizioni di dover fronteggiare minacce di tipo esistenziale. Di qui l’inequivocabilità con cui Putin ha indicato nel mantenimento dell’Ucraina in uno stato di neutralità geopolitica e nella permanenza della Bielorussia entro la sfera d’influenza russa – con o senza Lukašenko – le due “linee rosse” di cui non verrà d’ora in poi tollerata in alcun modo la violazione.
Come ha osservato Stephen Cohen, eminente russologo statunitense recentemente scomparso, «l’epicentro politico della “nuova Guerra Fredda” non si trova più nella lontana Berlino, come accadeva nei tardi anni ’40, ma direttamente ai confini della Russia, all’altezza dei Paesi baltici, dell’Ucraina e di un’altra ex repubblica sovietica, la Georgia. Da ciascuno di questi fronti potrebbe scaturire la scintilla in grado di scatenare una guerra […], perché il blocco sovietico che un tempo fungeva da cuscinetto tra la Nato e la Russia non esiste più», grazie all’espansione dell’Alleanza Atlantica verso est avviata nella seconda metà degli anni ’90 per iniziativa di Washington. Un processo che George Kennan, massimo architetto della dottrina del containment, aveva caldamente sconsigliato di innescare già nel 1997; a suo avviso, l’allargamento della Nato avrebbe infatti «infiammato le tendenze nazionalistiche, anti-occidentali e militariste in seno all’opinione pubblica russa; prodotto un effetto negativo sullo sviluppo della democrazia russa; rigettato le relazioni tra est e ovest nel clima della Guerra Fredda e indirizzato la politica estera di Mosca verso direzioni a noi sfavorevoli».
I decisori di Washington hanno puntualmente ignorato il monito di Kennan, in nome di una hybris imperiale che continua ancora oggi a definire le direttrici strategiche statunitensi nonostante il palese declino politico, economico e sociale che attanaglia il Paese. Lo si evince dall’ostinazione con cui l’apparato dirigenziale Usa si prodiga per impedire che gli equilibri geopolitici mondiali assumano una configurazione multipolare, nell’ambito di una “fatica di Sisifo” intrapresa in base all’illusoria convinzione di poter invertire un processo storico ineluttabile. Anche a costo di spingere il pianeta sull’orlo del disastro.Tratto da facebook

DA MAYERLING A MINSK, di Antonio de Martini

DA MAYERLING A MINSK
La guerra si avvicina.
Alle minacce di “ sanzioni economiche mai viste” fatte dai portavoce dell’occidente circa l’Ucraina, la Russia ha risposto, per bocca del suo capo minacciando brutalmente “sanzioni militari”.
Pensando che l’Ucraina sarebbe stata filo russa per sempre, all’atto dello scioglimento dell’URSS, le conferirono la Crimea e un grande stock di armi nucleari pensando di scaricare dei costi.
Ora paventano l’adesione ucraina alla NATO.
La Russia di Eltsin, all’atto della stesura delle intese con gli USA , diede per assodata l’esistenza sempiterna di una serie di protettivi stati cuscinetto appartenenti all’ex patto di Varsavia e non pretese di mettere nero su bianco.
Succede quando si vuole restare nell’ombra e nei negoziati ci si fa rappresentare da un alcolista.
Gli ex paesi dell’est si stanno, ad uno a uno, facendo incantare dall’idea che aderire alla NATO sia lo stesso che aderire all’Europa e con questo si sono fatti sfuggire la possibilità di creare un blocco di stati neutrali in grado di diventare aghi della bilancia.
Pensavano anche loro che non ci sarebbe più stata una rivalità russo americana da arbitrare.
Per ovviare al grande errore di ingenuità commesso, i russi hanno fatto un colpo di mano in Crimea che ha sorpreso gli USA, provocando una crescente aggressività politico-economica ma non militare ( come deciso da Chamberlain contro la Germania nel 36 in attesa di riarmare).
Gli Stati Europei, troppo poco e troppo tardi, vogliono distinguersi dalla NATO creando in esercito europeo distinto.
I russi pensano , come Hitler con Danzica e Saddam col Kuwait, di aver avuto mano libera e progettano un colpo di mano sull’Ucraina o almeno sul Donetz.
Adesso siamo in balia del menomo errore di valutazione di un elenco sterminato di cretini chiamati “ le cancellerie” che hanno una tradizione centenaria di giudizi errati e esiti terribili.
Nessuno invoca più la “ pace in terra agli uomini di buona volontà “.
Anche il Papa divaga sul sociale e i migranti e monta il presepe senza la scritta tradizionale.
Ken Follet, nel suo ultimo best seller natalizio evoca il caso della guerra mondiale per errori che tradiscono le intenzioni, ma nessuno dice che dal 1914 in poi ogni errore fu provocato e sfruttato con abilità per distruggere un rivale ingombrante.

LA MODIFICA DEL PANORAMA IDEOLOGICO DI UN’EPOCA, di Pierluigi Fagan

LA MODIFICA DEL PANORAMA IDEOLOGICO DI UN’EPOCA. [Post di teoria politica, quindi di interesse per pochi] In questo post ragioneremo con Gramsci, useremo cioè una struttura del suo pensato per pensare a nostra volta.
Questa fruttifera relazione tra strutture del pensiero venne resa immagine immortale da Giovanni di Salisbury (XII secolo), il quale però la riferiva come detto del suo maestro ovvero Bernardo di Chartres: “siamo come nani montati sulle spalle di giganti”.
L’immagine ha un implicito di “vedere più lontano” o “vedere da più in alto”. Ma al di là della formulazione che ne diede Bernardo, cattura una dinamica delle relazioni tra strutture del pensiero, una dinamica che, sempre in analogia, assomiglia a quella che in chimica si chiama “funzione catalitica”. La funzione catalica opera nelle trasformazioni chimiche (crea del nuovo dal vecchio) ed è svolta da una sostanza o complesso di sostanze che partecipano al processo, con ruolo necessario, senza però venire incluse nell’esito finale. Così, strutture di pensiero che aspirano al nuovo, usano quelle consolidate e più strutturate del vecchio, vi si appoggiano, le usano, per sottrazione o addizione o riformulazione. Il processo serve a produrre tentativi di nuovo pensato sotto due aspetti: quello della struttura del pensiero (riformulazione), quello della modifica della ricetta (addizione di nuovi elementi o sottrazione di vecchi elementi). Per addizione e/o sottrazione e/o riformulazione, si usa in modo catalitico la struttura di un pensiero consolidata, per produrne di nuove o comunque portare il processo cognitivo su altre strade da successivamente sviluppare. Chiaritaci la relazione di pensiero sottesa alla frase “ragioneremo con Gramsci”, accenniamo al suo contenuto.
Ci troviamo in quella area di pensiero dei Quaderni che somma diverse riflessioni sugli intellettuali, l’egemonia, la funzione del partito, l’ideologia, la filosofia della prassi, rapporti tra filosofia e senso comune che pare influenzò anche il Wittgenstein via Sraffa.
Far entrare questi argomenti in un post ha del temerario, ma forse ci serve come appunto del pensiero.
In forma scandalosamente ridotta, Gramsci pensa che alcune forme del pensiero di Marx vadano riformulate (al modo del nano che sale sulle spalle del gigante diventando a sua volta gigante che attrae nuovi nani scalatori), il tutto in un processo sociale dialettico ma anche gnoseologico tra “intellettuali e semplici”, seguendo partizioni di classe sociale, dentro una formazione sistemica che è il partito, al fine di promuovere l’affermazione di un nuovo panorama ideologico, che faccia da premessa ad una nuova affermazione politica.
Abbiamo qui alcuni assunti da precisare: 1) per quanto da modificare, Gramsci ha una “concezione del mondo” (IdM) di profondo riferimento, quella di Marx (non del marxismo, G. anticipa la distinzione “marxiano-marxista” usata variamente da dopo gli anni ’90 qui in Occidente); 2) G. non rinuncia alla partizione sociale di classe stante che quando pensava e scriveva, l’Italia degli anni ’20-’30 del secolo scorso, le classi erano nitide e consistenti (contadini, operai, classe media, classe alta, religiosi, industriali etc.); 3) presuppone come finalità perseguibile, il gioco politico delle democrazie occidentali, attraverso un sistema ritenuto potente quale il “partito”. L’intera storia del PCI ne discende. Dentro questi assunti perimetrali, organizza un pensiero davvero importante e dalle molteplici ricadute, relativamente ai fini che si dava con la sua filosofia della prassi, sostanzialmente la XI Tesi su Feuerbach (mai pubblicate fintanto Marx in vita).
Va notata la stranezza per la quale il G è attivamente studiato nell’accademia anglosassone (soprattutto gli USA), l’intero concetto di “soft power” vi deriva, mentre qui da noi è dimenticato nei polverosi archivi del pensato. Del resto, qui da noi, da almeno trenta anni, non si frequentano più gli archivi del pensato in quanto non si pensa, almeno a quel livello.
Prima di procedere oltre, una breve nota di commento su questo ultimo punto. Nel Q.XI il G. analizza i processi di formazione ed affermazione delle “concezioni del mondo” ovvero quelle che noi chiamiamo qui “immagini di mondo” (tutte riformulazioni del concetto di Weltanschauung che Dilthey trae in implicito dal Kant della KdRV). Come conclusioni brevi della sua analisi segna due punti. Il primo è “non stancarsi mai di ripetere i propri argomenti perché la ripetizione è il mezzo didattico più efficace” consiglio assunto da Goebbels ai pubblicitari fino alla politica da televisione recente e più in generale dalle forme egemoniche liberali-anglosassoni dominanti negli ultimi trenta anni. Il secondo era “lavorare incessantemente per elevare intellettualmente sempre più vasti strati popolari …”. In Italia, negli ultimi trenta anni, l’egemonia più importante l’ha esercitata un personaggio-fenomeno (ovvero un fenomeno che ha avuto vaste ragioni incarnato da un personaggio catalizzatore) che ha operato in osservanza del primo punto e nel ribaltamento simmetrico del secondo: “lavorare incessantemente per degradare intellettualmente sempre più vasti strati popolari, etc.”. Sicuramente, questa idea è stata formalizzata da quell’oscuro consigliere del Principe, palermitano, oggi in carcere e le cui vicende giudiziarie hanno oscurato la sua levatura intellettuale comunque presente e sottovalutata. Questo non spiega tutto della deprimente condizione del pensiero italiano, ma ne è comunque parte consistente.
Tornando al corso principale del nostro pensare con Gramsci, rileviamo alcuni punti critici, non critici del Gramsci ma dell’usabilità della sua ricetta. Il primo punto è il problema delle classi. Al di là del liquidismo baumaniano, abbiamo oggi una teoria sociologica chiara sullo stato delle partizioni e dinamiche sociali nelle nostre società contemporanee? No. Non avendola ci troviamo in un primo pasticcio, non riusciamo ad avere una idea chiara dell’oggetto sul quale vorremmo intervenire. Impossibile modificare il “panorama ideologico” di un’epoca se non si ha conoscenza chiara dell’oggetto sociale (e quindi sul soggetto e/o soggetti promotori di un nuovo programma ideologico).
Il secondo problema è che non abbiamo possibile ricorso all’idea del partito perché l’intero sistema che chiamiamo “democrazia occidentale” si basa su un disguido concettuale: noi continuiamo a chiamare “democrazia” un sistema che non vi corrisponde. Attenzione, chi scrive, non dice che “non vi corrisponde più” come dicono alcuni “risvegliati” recenti, non vi ha mai corrisposto, è un chiaro, longevo e doloroso caso di schizofrenia tra parola e cosa. Pochi o nessuno ha posto attenzione a questo “doloroso caso” per tempo perché il “panorama ideologico” delle teorie politiche era ingombrato da una tesi che usa apposta questa falsa nominazione per confondere ed una antitesi che invece che contestargli l’abuso, farfugliava di elementi misti confusi nell’espressione “dittatura del proletariato”, accluse romanticherie rivoluzionarie, che aveva statuto teorico inconsistente, almeno qui in Occidente.
Il terzo problema chiude e riassume anche gli altri due. Al di là dei mille-ed-uno problemi inerenti la “modifica del panorama ideologico di un’epoca” (sempre Q XI) da analizzare a parte oltre quelli appena accennati, abbiamo noi una “teoria mondo” di riferimento, quale Gramsci l’aveva rispetto a Marx? No. Noi abbiamo molte tesi contro ma nessuna tesi alternativa, quantomeno non in forma di “teoria mondo”. Possiamo avere vaghe immagini di mondo critiche ma nessuna tesi sul mondo che dia alternativa egemonica a quella dominante.
Il post non conclude, è “appunto per il pensiero”. Personalmente, ho la convinzione che i tre punti siano collegati e che risolvendo il secondo (una teoria politica forte della democrazia), applicato al primo (il paesaggio sociale delle società europee occidentali al XXI secolo, a partire dalla nostra), si avrebbe soluzione del terzo. Ma è solo un’ipotesi, un appunto per i “compiti del pensiero” che però volevo condividere con chi è interessato, per provare a “pensare assieme”.

Stati Uniti! Percorsi paralleli…per ora_Con Gianfranco Campa

Qualsiasi formazione sociale, prima o poi, è costretta ad affrontare una situazione di crisi della propria classe dirigente e del corrispondente ceto politico. La dinamica di queste crisi è una particolare cartina di tornasole utile a definire queste fasi di transizione come un percorso di declino oppure di trasformazione attiva e rigeneratrice. Un indizio significativo è la capacità di ricambio e rinnovamento di soggetti promotori e protagonisti. Negli Stati Uniti stiamo assistendo a due tendenze apparentemente contraddittorie. Da una parte, nel campo democratico e neoconservatore, alla parziale riproposizione di personaggi in grado di proporre spartiti ormai ripetitivi e desueti; maschere consunte ormai in grado di incantare, con la loro narrazione e in un quadro di degrado morale e di corruzione di costumi sterili, fasce sempre più ristrette di pubblico; dall’altra ad una dinamica del confronto politico tra due forze che, impossibilitate a comunicare e incapaci di definire un terreno comune di gioco, ormai procedono lungo percorsi paralleli sino a creare luoghi propri e separati di comunicazione, di organizzazione sociale, propri canali di finanziamento. Una situazione che non potrà protrarsi ancora per troppo tempo, pena il disfacimento dell’attuale formazione socio-politica statunitense. Una situazione che potrà trovare una soluzione di continuità quando una delle parti avrà saputo completare la propria fase di rinnovamento e di formazione di una classe dirigente e di un ceto politico presentabile e convincente. Al momento è il movimento legato a Donald Trump ad avere più prospettive di successo e a offrire una qualche prospettiva realistica a quel paese. Il fatto che una parte dell’establishment sempre più significativa abbia preso atto di questa dicotomia e stia scegliendo, a differenza di quattro anni fa, quest’ultima componente rivela il carattere ormai strutturato del movimento. Si vedrà se a questa maggiore solidità corrisponderà altrettanta coerenza e saldezza politica. L’oggetto del contendere sono l’accettazione o meno della coesistenza in un mondo multipolare ormai consolidato e le modalità costitutive di una formazione sociale sufficientemente coesa e dinamica. Due temi sempre più presenti in quella nazione e sempre più evanescenti nel nostro amato e decadente Bel Paese. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

NB_ Abbiamo il fondato sospetto, quasi la certezza, che You Tube, in buona compagnia con piattaforme dello stesso orientamento, manipolano pesantemente i dati di accesso e la condivisione di testi e video. Suggeriamo, quindi, di digitare in maniera preferenziale la piattaforma di rumble, indicata con il link dedicato. Quando disporremo di altri mezzi attingeremo ad una fonte del tutto autonoma

https://rumble.com/vqpy3f-stati-uniti-e-i-percorsi-paralleli-con-gianfraco-campa.html

Transizione energetica e dogmatismo, di Alessandro Visalli

Si parla di leggi inesorabili del mercato; in realtà la condizione di sofferenza dei paesi europei nelle forniture energetiche è il frutto della sudditanza geopolitica e di scelte scellerate sulle modalità di fornitura e sulla gestione delle scelte di conversione ecologica. Buona lettura, Giuseppe Germinario
Dati ed informazioni.
Transizione energetica.
Settore fotovoltaico.
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Nel 2021 a livello mondiale si prevedono 180.000.000 di kW di nuova potenza installata (3 kW sono la potenza media installabile per i consumi di una famiglia) e nel 2022 se ne prevedono pochi di più. Equivalente quindi alla capacità per i consumi domestici di 60.000.000 di famiglie, una nazione come l’Italia o la Corea del Sud.
La spinta ad installare viene dagli Usa e Australia, in misura minore dall’Europa, ma soprattutto dalla Cina, nel paese asiatico si installano 25.000.000 di kW con una crescita del 60% sul 2020.
Ma molti progetti in questo momento sono rinviati per la dinamica dei prezzi delle componenti. I moduli sono cresciuti di prezzo del 15% negli Usa, ma, soprattutto, c’è molta incertezza nella catena logistica che si traduce in difficoltà a rispettare tempi e qualità delle consegne. Chiaramente per i grandi cantieri questo è un problema enorme ed un fattore di costo molto rilevante. In un impianto il costo della manodopera incide almeno al 30%.
Il prezzo dei moduli dipende da un vertiginoso incremento del costo del polisilicio con cui sono costruiti, che è aumentato da 6,3$/kg del 2020 a 37 $/kg del 2021. Si spera che comincino a scendere dal 2023-24, in concomitanza con l’aumento della produzione cinese (fuori dello Xinjiang) e la riapertura degli stabilimenti americani e tedeschi o malesi che erano stati chiusi per la concorrenza cinese.
Altri fattori di rallentamento ed incertezza sono le difficoltà di spedizione ed i relativi costi. Nel 2020 e 2021 sono aumentati del 500%, arrivando a 0,03 $/Wp (ovvero 17,5 $ per un pannello da 585 Wp), prima erano circa 3 $.
Quindi l’incremento dei costi delle altre materie prime (argento, rame, alluminio, vetro) che in alcuni casi sono letteralmente fuori controllo.
D’altra parte la stessa congiuntura mondiale (che non sono convinto essere passeggera, potendo essere invece un punto di svolta di sistema) determina alti costi dell’energia in tutto il mondo. Quindi la riattivazione di investimenti potrebbe avvenire anche rinegoziando i precontratti di vendita (per lo più gli impianti di grande taglia sono ‘bancati’ avendo in pancia un contratto di vendita di lungo periodo a sconto sul prezzo medio atteso, che con i prezzi in vertiginosa crescita di questi mesi è diventato estremamente svantaggioso per loro).
II
Mi dicono che nel libro (che non ho letto) di Diego Zanetti “Adam Smith a Mosca”, nel quale è analizzata la politica russa degli ultimi venti anni la tesi sia che nel sistema del grande paese euroasiatico sia stato sviluppato un modello a-capitalistico nel quale la salda presa dello Stato si esprime nella predominanza delle imprese statali (70% del Pil), con il monopolio della produzione ed esportazione energetica che è stata la grande battaglia di Putin al suo esordio (ricordare la lotta senza esclusione di colpi ai satrapi energetici privati) altamente tassato, e la presenza complementare di piccole e medie imprese che operano in mercati tenuti in stato molto concorrenziale (per cui i profitti sono bassi, la composizione organica del capitale non supera certi livelli e l’occupazione è alta). La conclusione sarebbe, appunto, che questo modello assomiglia a quello cinese e allo ‘sviluppo naturale’ smithiano (su questo torniamo leggendo “La ricchezza delle nazioni” prossimamente). E quindi sarebbe propriamente ‘non capitalista’ (se con questo termine si intende il dominio del capitale mobile, ovvero dell’alleanza tra alta finanza e grande industria internazionalizzata).
La politica della nazione russa sarebbe quindi rivolta essenzialmente a garantirsi un sentiero di sviluppo autonomo dal grande capitale internazionale e dalle intromissioni dell’imperialismo occidentale.
In questa direzione assume qualche interesse la vicenda che ci sta colpendo (e ci colpirà) ogni mese quando paghiamo e pagheremo le nostre bollette elettriche (e del gas). Il prezzo del gas, dopo mesi di tensione causati dalle strozzature distributive frutto dello shock pandemico mondiale, è andato in sofferenza per la ripresa delle produzioni e dei consumi in questo rimbalzo mondiale nel ’21. Alla ripresa post estiva (quando i prezzi calano per effetto della chiusura delle fabbriche) Gazprom (società monopolista pubblica russa) ha ridotto in una misura che per alcune fonti è del 70% le forniture di gas all’Europa. In parte perché le ha aumentate alla Cina e perché i contratti di lungo periodo, che garantivano la fornitura, erano stati sostituiti da contratti “spot” durante la crisi. Ciò è accaduto sui gasodotti che passano per la Bielorussia tra settembre ed ottobre, quando sono scese da 112 milioni di mc a 30. Ma anche quelle attraverso l’Ucraina sono scese da 110 ml a 85. Infine le forniture tramite l’oleodotto Yamal, che sbocca in Polonia, sono scese della metà. Quindi i prezzi ‘future’ sul mercato TTF olandese sono saliti del 100%.
La Russia si è dichiarata pronta ad aumentarle e, nello stesso momento, ha assicurato che le forniture a lungo termine sono state sempre rispettate (ma, appunto, ormai erano ridotte ad una frazione del necessario perché la Commissione uscente aveva deciso di comprare “spot” il necessario di volta in volta, per lucrare sul basso prezzo di mercato nella fase di debolezza).
Che succede?
Se ricordiamo l’analisi prima condotta, sulla centralità delle grandi aziende estrattive e distributive di Stato nella strategia di assunzione di controllo del proprio percorso di sviluppo (e, quindi, in ottica chiaramente geopolitica), si apre una chiave.
Ma, prima, ci vuole un altro tassello: la Russia ha appena completato l’allaccio del gasodotto North Stream che ha provocato negli scorsi anni le più fiere battaglie con gli Usa e i suoi alleati e le tensioni degli stessi con la Germania (terminale e quindi principale beneficiario della infrastruttura).
Il gasodotto fornisce energia direttamente dalla Russia alla Germania senza passare per la delicata regione bielorussa o ucraina. E ha la potenzialità di fornire 1/3 del fabbisogno europeo, risolvendo d’un sol colpo qualsiasi problema di forniture e, quindi, riportando i prezzi del gas (e quindi dell’energia elettrica) sotto controllo. Ciò mentre arriva l’inverno.
Facile, no?
Non proprio, perché la Ue tiene ferma la cosa in quanto vuole imporre ai Russi “l’accesso non discriminatorio alla rete” per tutti i concorrenti. Ovvero imporre che il proprietario dell’infrastruttura non possa praticare prezzi diversi ai diversi clienti, inibirne l’accesso, (il gas si può comprare, ad esempio, da un operatore o distributore italiano, anche alla fonte e far passare sui tubi pagando il servizio, se viene consentito). Ma la Russia vuole gestire il gasodotto come un proprio monopolio, avendolo costruito. La Bundesnetzagentur all’inizio del mese ha quindi minacciato multe.
La battaglia vede quindi, semplificando, la Russia che tiene sulla corda l’Europa con le forniture di gas per ottenere una piena capacità di vendita discrezionale sulla infrastruttura del North Stream. La Ue, probabilmente d’accordo con il Dipartimento di Stato, che vuole imporre allo Stato estero il rispetto della normativa europea sulla concorrenza, e quindi disattivare il potenziale geopolitico della fornitura.
Noi che, per ora, siamo in mezzo paghiamo i rincari del 40% delle
bollette.
In ogni piccola cosa non si capisce niente del mondo se non si considera quanto è interdipendente, e quanto sono grandi i conflitti per diminuire la dipendenza (ed imporla agli altri).

Concorrenza globale: la supremazia americana con un altro nome, di Alastair Crooke

Casa

11 dicembre 2021 // Le crisi

Concorrenza globale: la supremazia americana con un altro nome

L’equilibrio globale è cambiato qualitativamente, e non solo quantitativamente, scrive Alastair Crooke

Fonte: Strategic Culture Foundation, Alastair Crooke
Tradotto dai lettori del sito Les-Crises

© Foto: REUTERS / Kevin Lamarque

Parlando all’Aspen Security Forum due settimane fa, il generale Milley ha ammesso che il secolo americano è finito, una consapevolezza che avrebbe dovuto essere presa molto tempo fa, si potrebbe dire. Eppure, che sia tardi o meno, questa dichiarazione sembra segnalare un importante cambiamento strategico: “Stiamo entrando in un mondo tripolare, con Stati Uniti, Russia e Cina come grandi potenze. [e] Solo mettendo tre su due aumenta la complessità “, ha detto Milley.

Più recentemente, in un’intervista alla CNN, Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza di Biden, ha affermato che è stato un errore cercare di cambiare la Cina: “L’America non sta cercando di contenere la Cina: non è una nuova guerra fredda. Le osservazioni di Sullivan arrivano una settimana dopo che il presidente Biden ha affermato che gli Stati Uniti non stavano cercando un “conflitto fisico” con la Cina, nonostante le crescenti tensioni. “Questa è una competizione”, ha detto Biden.

Questo in effetti sembrava segnalare qualcosa di importante. Ma è davvero così? L’uso della parola “competizione” è una terminologia un po’ strana e richiede un po’ di decrittazione.

L’intervistatore della CNN Fareed Zakaria ha chiesto a Sullivan: cosa è stato ottenuto dalla Cina dopo tutto il tuo duro discorso, cosa è stato negoziato? Si potrebbe immaginare una risposta che descriva come Biden pensa di gestire al meglio questi interessi in competizione in un complesso mondo tripolare. Beh, quella non era la linea di Sullivan. “Brutta domanda”, ha detto senza mezzi termini: non chiedere informazioni sugli accordi bilaterali, chiedi cos’altro abbiamo.

Il modo corretto di guardare a questo, ha detto Sullivan, è: “Abbiamo stabilito i termini per una concorrenza effettiva in cui gli Stati Uniti siano in grado di difendere i propri valori e promuovere i propri interessi, non solo nella regione indo-pacifica, ma anche Intorno al mondo. Quando si tratta dei nostri alleati in tutto il mondo, gli Stati Uniti e l’Europa sono allineati su questioni commerciali e tecnologiche per garantire che la Cina non possa “abusare dei nostri mercati”; e poi sul fronte indo-pacifico, siamo andati avanti in modo da poter ritenere la Cina responsabile delle sue azioni. “

“Vogliamo creare la situazione in cui due grandi potenze opereranno all’interno di un sistema internazionale per il prossimo futuro – e vogliamo che i termini di quel sistema siano favorevoli agli interessi e ai valori americani: è più di una disposizione favorevole in cui il Gli Stati Uniti e i suoi alleati possono modellare le regole di condotta internazionali sui tipi di questioni che saranno fondamentalmente importanti per il popolo del nostro paese [America] e per i popoli del mondo “, ha affermato. -aggiunge.

L’obiettivo dell’amministrazione Biden non era cercare una trasformazione politica in Cina, ha detto Sullivan, ma modellare l’ordine internazionale in un modo che servisse i suoi interessi e quelli di altre democrazie che la pensano allo stesso modo: “Vogliamo le condizioni per questa coesistenza in il sistema internazionale favorevole agli interessi e ai valori americani. Vogliamo che le regole del gioco riflettano una regione indo-pacifica aperta, equa e libera, un sistema economico internazionale aperto e il rispetto dei valori e degli standard fondamentali sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani nelle istituzioni internazionali, ha dichiarato. . Sarà una competizione mentre andiamo avanti. “

Sullivan propone molto chiaramente un ordine mondiale basato su “regole di condotta internazionali” che si svilupperebbe attorno ad un interesse strategico centrale (quello dell’America), senza preoccuparsi delle conseguenze che potrebbero derivarne per gli altri. Questo “sistema internazionale aperto, equo e libero” è solo uno strumento per la globalizzazione del sistema neoliberista occidentale finanziarizzato. Josh Rogin ha scritto questa settimana: “L’internazionalismo a guida americana, nonostante i suoi difetti e i suoi passi falsi, rimane l’ultima, la migliore speranza per l’umanità. “

E per intenderci, quando sentiamo parlare di un sistema economico aperto e libero favorevole agli interessi americani, non sono gli “interessi del 99%” a essere sanciti nel sistema, ma quelli della classe finanziaria dell’1%. , che pretendono il diritto di spostare denaro e beni ovunque, in qualsiasi momento, senza restrizioni.

Il riferimento di Sullivan ai diritti umani riflette lo “spirito” dell’UE, dove la dottrina dello stato di diritto europeo è servita come dispositivo pratico per estendere l’autorità centrale dell’Unione senza riscrivere i trattati. O, in questo caso simile, che gli Stati Uniti espandano la propria autorità e procedano senza dover concludere accordi bilaterali con la Cina (o la Russia) o chiunque altro. Sullivan è stato molto chiaro su questo punto: gli accordi negoziati con la Cina non erano il “parametro di riferimento” giusto per giudicare il successo della politica statunitense.

Inizialmente, nessuno in Europa si è preoccupato molto quando la Corte europea ha “scoperto” che nei trattati dell’UE era nascosta una supremazia generale dei valori e del diritto dell’UE (sebbene a prima vista non fosse così evidente). Questa tranquilla reazione, tuttavia, è in gran parte dovuta al fatto che la competenza dell’UE era ancora piuttosto limitata all’epoca.

Successivamente, il trasferimento graduale della sovranità nazionale a un interesse strategico centralizzato (Bruxelles) divenne il principale motore di quella che è stata definita “integrazione attraverso il diritto”. Nel tempo, una lettura approfondita dei trattati (per i trattati europei, leggi la “consacrazione” di Sullivan della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo) ha offerto nuove ragioni per sottoporre le politiche nazionali democratiche a una lettura sovranazionale. “

Allo stesso modo, la Dichiarazione universale dei diritti umani offrirà probabilmente a Sullivan nuove ragioni e possibilità per armare il testo e piegare alleati e “avversari” alla disciplina di interesse strategico centrale (altrimenti nota come Washington).

Quindi, quello che sembrava segnalare un cambiamento significativo nel pensiero americano, dopo un po’ di decrittazione, si è rivelato nulla del genere. La competizione tra le grandi potenze non è altro che l’ordine globale globalista, incentrato sugli Stati Uniti e basato su regole. Gli Stati Uniti si astengono dal “trasformare” (cioè fomentare una rivoluzione colorata) il Partito Comunista Cinese, perché non possono; questo strumento si applica ancora ai piccoli pesci (es. Nicaragua).

Da un lato, abbiamo visto le conseguenze di questo approccio centralizzato alle “regole” – praticato a Bruxelles oa Washington: ne deriva una sorta di torpore soporifero. Tutte le energie sono dedicate a mantenere a galla il fragile sistema (che si tratti delle regole del gioco dell’UE o degli Stati Uniti), piuttosto che trovare soluzioni reali. Si aprono divisioni che politicamente è impossibile contenere; il risentimento aumenta; le crisi sono gestite e non risolte; giochiamo con il tempo; le riforme sono graduali e poi improvvisamente unilaterali; e, alla fine, regna l’immobilità. In Europa si chiama Merkelismo (dal nome del Cancelliere tedesco).

Dopo il tranquillo vertice del G20 a Roma e la COP26 a Glasgow, sembra che stiamo iniziando a vedere la Merkelizzazione del mondo. La sensazione che rimane è quella di un meccanismo (due in realtà se includiamo l’UE), che produce suoni convincenti di macchine ruggenti e che fa sperare in qualche risultato, ma che non porta alla fine a poco o nulla – ad eccezione di un crescente deficit democratico, con il trasferimento a una tecnocrazia sovranazionale di decisioni che prima erano di competenza dei parlamenti.

D’altra parte, per quanto grave sia (date le crisi economiche che affrontiamo), il suo più grande ” peccato ” (come ha detto Sullivan) è la sua richiesta di ” regole ” globali, il cui fondamento è semplicemente “Gli interessi e i valori degli Stati Uniti e dei suoi alleati e partner”. Sullivan sostiene che gli Stati Uniti non cercano più di trasformare il sistema cinese (il che è positivo), ma insiste sul fatto che la Cina operi all’interno di un “ordine” costruito attorno agli interessi e ai valori degli Stati Uniti – in breve[in francese nel testo, ndr]. E come ha sottolineato Sullivan, lo sforzo diplomatico americano deve mirare a costringere la Cina a conformarsi a questo sistema. Da nessuna parte si parla dei costi per gli alleati, che dovrebbero rinunciare ai rapporti con la Cina o la Russia, per compiacere Biden.

Il peccato più grande , molto semplicemente, è che il tempo di queste ambizioni arroganti sia passato. L’equilibrio globale è cambiato qualitativamente, e non solo quantitativamente. Cina e Russia – le altre due componenti del mondo tripartito del generale Milley – lo hanno detto abbastanza chiaramente: rifiutano le lezioni dell’Occidente.

Fonte: Strategic Culture Foundation, Alastair Crooke, 15-11-2021

Che succede tra la Francia e l’Egitto?, di giuseppe_gagliano/

Qui sotto un interessante articolo di Giuseppe Gagliano, tratto dalla rivista https://www.startmag.it/ riguardante un episodio di informazione pilotata in grado di condizionare ed alterare gli indirizzi di politica estera francese in tutta l’area mediorientale e mediterranea. La lettura spinge ad alcune considerazioni a più livelli di astrazione. Ci suggerisce che limitare l’analisi geopolitica al mero rapporto può essere riduttivo e fuorviante. Chi agisce non è lo Stato in quanto tale, ma sono i soggetti, siano essi individui o soprattutto gruppi, in conflitto e cooperazione tra di essi, dotati di poteri decisionali e di condizionamento, in grado di rappresentarlo, di detenere le leve operative e di influenzarle. La titolarità dell’autorità è un fattore importante di agibilità se ad essa corrisponde una coerenza ed un controllo effettivi e sostanziali degli apparati. L’impegno ufficiale e formale va di pari passo con le azioni sotto traccia, rivelatrici dei legami trasversali che attraversano la dinamica di questi centri. Nella fattispecie l’articolo rivela le dinamiche di confronto e cooperazione tra alcuni centri decisionali francesi e turchi nel plasmare i rapporti con l’Egitto e i paesi del Golfo, anch’essi attraversati da spinte e controspinte. Il tutto in logiche ancora più estese che fanno riferimento alle fazioni statunitensi, una, quella obamiana, sostenitrice delle primavere arabe, l’altra ad esse ostile. Definire per altro in questo contesto Jamal Khashoggi giornalista, non rende bene la natura di questo scontro e di quell’assassinio. Rivela altresì la permeabilità e la fragilità di quelle formazioni socio-politiche che hanno aperto indistintamente, in nome di una “società aperta” apparentemente priva di identità, i propri spazi a vere e proprie comunità chiuse in grado di condizionare pesantemente e destabilizzare all’interno l’azione politica. Ad un livello ancora inferiore di riflessione deve portare a considerare la portata del Trattato del Quirinale tra l’Italia e la Francia nelle sue implicazioni nell’area mediterranea, in particolare la Libia e l’Egitto. Il trattato in qualche maniera vorrebbe mettere molto parzialmente al riparo l’Italia dalle mire turche nel vicinato prossimo della Libia e dei Balcani, in particolare l’Albania e la Bosnia. La postura, però, è talmente subordinata da farle perdere quasi ogni capacità di mediazione, sostenendo le poche figure, tra queste il figlio di Gheddafi in grado di ricomporre il mosaico libico; l’ultima possibilità di ricostruire in tal modo una nuova capacità di influenza diretta in quell’area. Lo stesso dicasi dei rapporti con l’Egitto di Al Sisi dove l’Italia, grazie all’affare Regeni, è ridotta più o meno consapevolmente a strumento di trame altrui. La liberazione di Zaki sarà probabilmente il contentino per far cadere in ombra l’omicidio Regeni; il prezzo della gestione “dell’affaire” è stato comunque già molto pesante anche per oche giulive artefici di tal fatta di questa tragicommedia. La posta in palio più significativa riguarda la Turchia di Erdogan ed il tentativo di trasformare il suo rapporto di collaborazione conflittuale con la Russia in ostilità dichiarata; di ridurre quindi i suoi margini di iniziativa autonoma e ricondurli nell’alveo del confronto strategico con la Cina e la Russia. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Ecco perché il fondatore e direttore del Centro di ricerca sull’intelligence francese (CF2R) non condivide quanto riferito dal sito di giornalismo investigativo Disclose. L’articolo di Giuseppe Gagliano

 

Secondo quanto sostenuto da Eric Denécé, fondatore e direttore del Centro di ricerca sull’intelligence francese (CF2R), quanto riferito dal sito di giornalismo investigativo francese Disclose sarebbe viziato da numerose deficienze informative oltre che da un’impostazione palesemente unilaterale e faziosa.

In primo luogo l’autore osserva – non senza amarezza – come i documenti che sono stati forniti al sito francese provengano dal ministero delle Forze armate e, in particolare, dalla Direzione dell’intelligenza militare e dal ministero degli Affari esteri. Insomma, una vera e propria fuga di notizie fatta probabilmente da analisti che non condividono le scelte poste in essere dall’attuale amministrazione francese in relazione alla vendita di armi e al sostegno al regime egiziano di Al-Sisi.

Data la gravità della condotta posta in essere da questi informatori verrà avviata un’indagine da parte del controspionaggio soprattutto perché chi ha dato questi documenti al sito investigativo francese lo ha fatto con premeditazione cioè con la volontà di danneggiare esplicitamente le relazioni bilaterali tra Francia ed Egitto. Che lo si voglia o no queste informazioni avvantaggeranno i concorrenti della Francia.

In secondo luogo, l’autore sottolinea come il sito dei giornalisti investigativi non sia certo neutrale ma sia relativamente noto in Francia per le sue posizioni antimilitariste e soprattutto per aver sostenuto le rivoluzioni arabe in particolare quelle egiziane.

Un altro aspetto sottolineato dall’autore è il fatto che secondo il sito non vi sia alcun legame tra contrabbando e terrorismo al confine occidentale con l’Egitto. I trafficanti, invece, trasportano come e quando vogliono armi, droga, migranti e vari prodotti di contrabbando come il riso per rifornire il mercato nero.

Il quarto aspetto sottolineato dall’autore è di natura squisitamente geopolitica: egli infatti afferma che l’Egitto stia vivendo in questo momento una grave minaccia terroristica determinata anche dai numerosi traffici di armi sui confini che alimentano diversi gruppi di jihadisti.

Per tutte queste ragioni – che lo si voglia o meno – non si può escludere che questa indagine sia un vera e propria opera di destabilizzazione di natura informativa. Bisogna infatti interrogarsi sullo scopo di questa indagine.

Citiamo le parole dell’autore: “Oltre allo scooping e all’attivismo politico, Disclose mira a interrompere la vendita di armi all’Egitto… a vantaggio conscio o inconscio dei nostri concorrenti. Si tratta innegabilmente anche di un attacco diretto al regime egiziano di Al-Sisi che ha posto fine alla nefasta parentesi dei Fratelli Musulmani e che ha saputo ricostruire stretti rapporti con la Francia. Non ho alcun ricordo di Disclose e dei suoi giornalisti che difendevano i copti egiziani vittime di attacchi terroristici e persecuzioni da parte dei Fratelli musulmani o che hanno riferito come Morsi stava consegnando segreti di Stato egiziani ai suoi padrini turchi e qatarioti che lo hanno sostenuto per destabilizzare il paese, ecc. La loro indignazione è quindi molto selettiva”.

Perché in definitiva le osservazioni di Denécé sono di estremo interesse?

In primo luogo perché i lettori comuni non hanno gli strumenti né per poter verificare quanto sostenuto dal sito investigativo ma neppure per poterlo smentire. In secondo luogo è molto ingenuo pensare – come fanno molti lettori in assoluta buona fede – che da un lato ci sia la verità e che quindi le informazioni debbano essere lette come oro colato e dall’altra parte invece ci sia solo ed esclusivamente la ragion di Stato e le logiche perverse della politica internazionale.

In secondo luogo perché la vendita fatta recentemente dal presidente francese Emmanuel Macron di Rafale ha suscitato la durissima reazione del giornalisti investigativi del sito francese Disclose?

Il sito dei giornalisti investigativi francesi ricorda che dal 2015, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti sono stati coinvolti nella guerra in Yemen, che ha causato quasi 400.000 vittime. Nonostante la gravità degli abusi commessi e le accuse di crimini di guerra, il tema non è stato all’ordine del giorno della visita di Macron nel Golfo venerdì 3 e sabato 4 dicembre.

Tuttavia, le armi vendute dalla Francia alle due monarchie del Golfo vengono utilizzate direttamente nel conflitto, come rivelano i documenti di “confidenzialità-difesa” ottenuti da Disclose. Queste note scritte dal Segretariato generale per la difesa e la sicurezza nazionale (SGDSN), organizzazione posta sotto l’autorità di Matignon, rivelano che lo Stato francese ha autorizzato, nel 2016, la consegna di quasi 150.000 proiettili all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti. Pur sapendo che queste munizioni sarebbero state utilizzate nella guerra in Yemen.

Il 12 maggio 2016 si è tenuta a Parigi una riunione della Commissione interministeriale top secret per lo studio delle esportazioni di materiale bellico (CIEEMG), alla presenza dei rappresentanti del ministero degli Affari esteri, della Difesa, dell’Economia e del palazzo dell’Eliseo, poi occupata da François Hollande.

Al centro dei dibattiti, la proposta di rafforzare i controlli sulle esportazioni di armi verso i Paesi coinvolti nella guerra in Yemen. Il ministero degli Esteri, allora guidato da Jean-Marc Ayrault, è favorevole. Si interroga, in particolare, sulle consegne in corso di armi Caesar all’Arabia Saudita.

“La Francia è oggetto di interrogatorio da parte del Parlamento europeo e delle Ong per presunte violazioni del Trattato sul commercio delle armi”, ha avvertito un diplomatico.

Qualunque sia l’avvertimento, il gabinetto di Jean-Yves Le Drian si oppone a ogni forma di restrizione: “Un blocco doganale di apparecchiature già oggetto di un contratto sarebbe difficile da giustificare all’Arabia. I diplomatici sono costretti a concordare con questa opinione. Le armi verranno consegnate”.

Nel dettaglio, si tratta di 41.500 proiettili della compagnia Junghas, sussidiaria di Thales, destinati alla guardia saudita; 3.000 proiettili anticarro, 10.000 proiettili fumogeni, 50.000 proiettili ad alto potenziale esplosivo e 50.000 razzi di artiglieria prodotti da Nexter all’esercito degli Emirati, nonché 346 missili anticarro dalla società MBDA all’esercito del Qatar. Importo totale dei contratti: 356,6 milioni di euro.

Non importa di quali crimini siano accusati i “partner” della Francia. Come l’assassinio dell’ottobre 2018 del giornalista saudita Jamal Khashoggi. Sabato 4 dicembre, Macron sarà il primo leader occidentale a rimettere in sella il principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman, sospettato dalla comunità internazionale di aver ordinato l’omicidio.

https://www.startmag.it/mondo/che-succede-tra-la-francia-e-legitto/?fbclid=IwAR3RSddir9W7FO8m42LHWF4En0qe0RfyoDzLgOuooPaNOs9cQyC-kev7KpI

Algeria, la pericolosa fuga in avanti_di Bernard Lugan

La crisi che ogni giorno si aggrava tra Algeria e Marocco si spiega perché
L’Algeria è contro il muro. Per anni, negando il suo appoggio diretto al Polisario, ha voluto
far credere che fosse solo un’osservatrice della questione del Sahara occidentale. Oro
il crollo del Polisario e la disgregazione del suo appoggio, ora lo costringe ad agire per primo linea in un’escalation verbale e militare [1]

Dopo aver interrotto unilateralmente le relazioni
relazioni diplomatiche con il Marocco, poi dopo aver
vieta il suo spazio aereo ai suoi aerei civili e mette
la fine del progetto del gasdotto per
Spagna di passaggio in Marocco, il discorso
Il guerriero algerino è salito di livello
dopo la distruzione di due camion algerini da parte di
un drone marocchino. Da entrambe le parti, truppe
sono ammassati al confine. Mentre il Marocco
si astiene da qualsiasi dichiarazione bellicosa, il
Il governo algerino si fa avanti
parole ostili abbondantemente trasmesse da a
stampa falco.
Cosa sta cercando l’Algeria? Dov’è l’interesse?
anche un “Sistema” difficile da suonare
pericolosamente con il fuoco?
La linea di fondo è che il “Sistema”
L’algerino sa che i suoi giorni sono contati e che,
semplicemente risparmiare tempo, ritardare
l’inevitabile implosione, ha bisogno di un derivato
nazionalista. Esattamente come nel 1963
quando la “guerra delle sabbie” glielo aveva permesso
per evitare la secessione della Cabilia da
designazione di un nemico conveniente, il Marocco
(pagina mappa…).
Oggi l’Algeria è diplomaticamente
isolato. Economicamente, è in bancarotta e
politicamente è sull’orlo di un precipizio. quanto a
nella sua giovinezza ha un solo futuro, il
haraga in Europa…
Per una gerontocrazia senza fiato, di cui
l’esercito, suo ultimo pilastro, è diviso in clan che
odiatevi a vicenda – per un decennio 30 generali hanno
stato imprigionato – l’unica via d’uscita è l’unità

artificiale, sia contro il vicino marocchino che
contro l’ex colonizzatore francese. Le due
sono attualmente il suo obiettivo…
Il problema è che le accuse in piedi
contro la Francia ha avuto un risultato contrario al gol
Ricerca. Nonostante tutte le sue concessioni, di tutto
i suoi abbandoni e anche tutte le sue genuflessioni, il
Il presidente Macron che non è stato pagato in cambio
Sembra aver finalmente capito che non lo farà mai
basta agli occhi di Algeri, che vuole tenere la Francia sotto il
giogo del pentimento perpetuo.
Inoltre, a parte i soliti “portatori di
valigie ”, questo stravagante ricatto della memoria esercitato
dal “Sistema” algerino finì per risvegliarsi a
parte dell’opinione pubblica francese. Così tanto che
uno dei temi della campagna presidenziale è
proprio quello del rifiuto del pentimento.
Più così ora è sempre meno
raro sentire politici francesi
tenere il seguente discorso: come ha dimostrato l’Algeria
che la Francia non farebbe mai abbastanza nel
contrizione, quindi non c’è più niente da aspettarsi da lei.
Quindi, in queste condizioni, perché no?
sostenere apertamente la posizione marocchina e rendere
come gli Stati Uniti, riconoscendo
ufficialmente il carattere marocchino del Sahara occidentale?
Per quanto riguarda il Marocco, l’incessante
Anche le accuse algerine sono a
totale inefficacia. Algeri lo sa benissimo
le sue richieste riguardo al Sahara marocchino no
non può mai essere soddisfatto.
Tanto più che l’Algeria, che occupa il suo
confine occidentale di intere regioni

storicamente marocchina e quella colonizzazione
abbastanza artificialmente attaccato a lui, non ignorare
che il Marocco non accetterà mai di rinunciare al suo
province sahariane.
Allora perché l’Algeria insiste?
rimanere in un’impasse conflittuale fondata
su un rifiuto concreto della realtà? Invece di prendere
prendere in considerazione la questione non negoziabile di
marocchina del Sahara occidentale, e, a partire da
questa realtà, per cercare di trarne vantaggio
commerciale o altro negoziando con il
Marocco, perché, al contrario,
lei affonda un po’ più a fondo in un?
all’endismo che minaccia la pace regionale?
Il rischio è che, indurendo il tono e

tenere discorsi bellicosi, un punto no
ritorno sarà eventualmente raggiunto, con il risultato,

un conflitto che avrebbe solo esiti negativi
per entrambi i paesi. A meno che, avendone solo uno
solo obiettivo a brevissimo termine, vale a dire il suo unico
sopravvivenza, il “Sistema” algerino e lo stato maggiore
impegnarsi in un conflitto suicida nel tentativo di
aprirsi all’Algeria “bloccata” sulla costa
mediterraneo una finestra sulla facciata
Atlantico… Una scommessa pazzesca. Ma c’è un altro?
spiegazione per l’autismo politico algerino?

Il cuore del problema è quello dei confini
tra i due paesi. Per creare l’Algeria che
non è mai esistita, la Francia infatti si è smembrata
Marocco, eliminando le regioni storicamente
Marocchino, che sia Tindouf, il
Gourara, Tidikelt ecc. come è stato
spiegato nel numero di ottobre 2021 di
Vera Africa.
A ciò si aggiunge la questione del Sahara occidentale,
immensità strappata al Marocco dalla colonizzazione
Spagnolo. Tuttavia, per i marocchini, questo è
loro “Alsazia-Lorena” mentre gli algerini
vorrebbe la creazione di uno “Stato del Sahara” che
essere loro subordinato e che vieterebbe al Marocco di
avere una costa di diverse migliaia
chilometri da Tangeri a nord fino al confine
Mauritano a sud.
Ecco perché, come diceva Hubert Védrine,
ex capo della diplomazia francese: “(…)
l’affare Sahara è un affare nazionale per
Il Marocco e una questione di identità per l’esercito
algerina “.
Tanto più che l’attuale capo di gabinetto
algerino, il generale Saïd Chengriha, ex
Comandante della Terza Regione Militare,
colui il cui cuore è Tindouf e che perciò
nei confronti del Marocco, alimenta una nota avversione per
nei confronti dei suoi vicini marocchini.ù

Plus d’informations sur le blog de Bernard Lugan.

Stati Uniti! Vittorie di Pirro_con Gianfranco Campa

Non sarebbe la prima volta che una vittoria, oscurata per altro da sospetti giustificati, si può trasformare rapidamente in una sconfitta, addirittura in una rotta catastrofica. Ne sta prendendo atto la classe dirigente statunitense. Il gruppo dirigente democratico considera ormai la presidenza Biden-Harris una parentesi da chiudere e da contenere con il minor danno possibile. Confermata la pochezza disarmante di Kamala Harris, ormai il gruppo dirigente democratico sta pensando alle possibili alternative senza provocare ulteriori conflitti distruttivi. Nell’altro versante i neocon sembrano prendere atto della loro sconfitta e del loro drammatico isolamento. Considerano Trump non più un nemico, ma una risposta inadeguata a problemi reali. Stanno quindi pensando ad una tattica di condizionamento ed infiltrazione. Dal loro cappello iniziano a spuntare conigli e personaggi di varia umanità, medici dalla propensione istrionica, personaggi costruiti sulle scene televisive, proprio quando il movimento trumpiano sta superando brillantemente la propria dipendenza dal personaggio pubblico e si sta trasformando in una corrente strutturata, memore delle esperienze e delle debolezze della sua fase originaria legata ai Tea Party. Tattiche e strategie che tengono in poco conto l’accavallarsi di problemi, dalle caratteristiche a volte disgustose, perverse e di crisi che stringe drammaticamente i margini di azione e rivela i limiti di indirizzo politico di una classe dirigente ormai priva di autorevolezza e credibilità ma ancora con un enorme potere. La combinazione perversa di ambizioni smisurate e drammatica inadeguatezza è una miscela esplosiva. La tentazione di colpi di mano dalle conseguenze drammatiche si insinua pericolosamente, sia all’interno che all’esterno del paese. Il focolaio dell’Ucraina potrebbe essere la prima miccia disponibile. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

NB_ Abbiamo il fondato sospetto, quasi la certezza, che You Tube, in buona compagnia con piattaforme dello stesso orientamento, manipolano pesantemente i dati di accesso e la condivisione di testi e video. Suggeriamo, quindi, di digitare in maniera preferenziale la piattaforma di rumble, indicata con il link dedicato. Quando disporremo di altri mezzi attingeremo ad una fonte del tutto autonoma

https://rumble.com/vq8zbl-stati-uniti-vittorie-di-pirro-con-gianfranco-campa.html

POLARIZZAZIONI, di Pierluigi Fagan

POLARIZZAZIONI. Il teorico di economia comportamentale Cass Sunstein, co-autore con R. Thaler di “Nudge” (2009) che in buona parte fu ragione del Nobel per l’economia a Thaler nel 2017, nel suo “Come avviene il cambiamento” (Einaudi, 2021), illustra il meccanismo sociale osservato ed indagato sperimentalmente della “polarizzazione”. Ve ne riferisco a titolo d’ipotesi su cui confrontarsi.
In breve, si tratterebbe di un meccanismo di precisazione delle opinioni nei gruppi per il quale chi è orientato verso un corno di un problema sociale, nel tempo, tende a precisare e polarizzare la propria iniziale tendenza, assumendo posizioni sempre più nitide, conformi a quelle del suo gruppo d’opinione, opposte radicalmente a quelle del polo avversario, per altro oggetto di pari dinamica.
Motivi della dinamica secondo il Sunstein, sarebbero: 1) ogni gruppo che si forma intorno una opinione, tende -nel tempo- a selezionare per lo più informazioni conformi alla propria opinione che, rinforzandosi, si polarizza; 2) il discorso svolto in una di queste enclave d’opinione diventa sempre più stilizzato e perentorio, centrato su verità ritenute acquisite, spostandosi su toni sempre più estremi (anche se questa estremizzazione è dovuta anche da pari progressiva estremizzazione dell’antitesi avversaria); 3) il tutto ha un dente d’arresto di irreversibilità in quanto l’opinione spesa ripetutamente e condivisa dal gruppo di riferimento diventa parte dell’identità e mostrare identità deboli depone in sfavore della reputazione sociale.
Si potrebbero aggiungere altri elementi sfuggiti al Sunstein, come il conformismo (che vale anche per il presunto anti-conformismo), l’allineamento a sovra-ideologie imperanti nel livello più fondamentale delle immagini di mondo, le strutture sociali che permettono e non permettono il confronto tra diversamente pensanti, la voglia di odiare un nemico costruito di tutto punto per meritarsi il nostro odio dovuto per lo più ad altre questioni sociali non proprie dell’argomento scelto per la polarizzazione.
Ma forse, il meccanismo più insidioso che spesso opera al di sotto della dinamica è il progressivo allontanamento dalla realtà, specie quando questa è, come spesso è, contradditoria. In verità sarebbero contradditori i sistemi di opinione, ma la volontà di pensare preciso, lucido, veritiero e condiviso, porta a sostituire la realtà con il sistema d’opinione in una forma di nevrosi che può sfociare nella psicosi. Quest’ultimo meccanismo diventa in realtà la convenzione del gioco sociale delle due polarizzazioni, unite nel progressivo allontanarsi dalla realtà, divise nel percorso scelto della direzione ideale cui tendere per rappresentarsi una realtà-verità nitida e non contraddittoria. Condividere nevrosi sociali, anche se poi si gioca ai guelfi e ghibellini, è pur sempre uno stare assieme. Non è che non siamo esistiti nei secoli i senesi, nonostante l’alta conflittualità rionale.
Ci sono poi altre dinamiche di contorno interessanti da indagare tra cui i polarizzatori professionali di cui sono ricchi i social e gli imprenditori della polarizzazione che tramite i media hanno infine scopi sempre politici o economico-politici, se non geopolitici. Vale per i poteri in atto come per quelli sfidanti.
Il tutto tende a diventare norma in tempi come questi in cui società sfibrate da almeno quaranta anni di deriva adattiva manifestatasi con globalizzazione, finanziarizzazione, crisi ripetute, terrorismi, migrazioni, discesa dei poteri d’acquisto, rottura dell’ascensore sociale, processi iniziati quarantacinque anni fa di esplicita “democrazia diminuita”, la poco analizzata profonda crisi di capacità che in questi decenni ha colpito le classi dirigenti generando una sfiducia ormai irrecuperabile, progressiva ed inquietante informatizzazione, de-socializzazione ed altro, si trovano sempre più spesso di fronte a vere e proprie sequenze di problemi inediti e minacciosi senza aver modo e tempo di almeno comprenderli.
La complessità intrinseca certi problemi come quello ambientale e climatico o quello pandemico o le contrazioni del sistema economico moderno occidentale in rapporto ai processi intenzionali di democrazia diminuita e lo stesso rapporto tra West vs the Rest, accresce l’ansia di ridurre questioni ricche di varietà ed interrelazioni, effetti e controeffetti non lineari, a quadri nitidi, tersi, confortevolmente polari. Si forma una sorta di condivisione dell’ignoranza in cui la convenzione è avere idee tanto più chiare quanta meno conoscenza ed informazione si ha di un fenomeno.
La certezza del poter aver un nemico da combattere, su un tema che assurge a “contraddizione principale” (come se un mondo contradditorio tale fosse perché c’è una contraddizione fondamentale quando in un sistema non c’è “un” fondamentale poiché l’intera sua struttura e funzionalità è fondamentale) è pur sempre meglio che l’incertezza totale, è un semplice fatto esistenziale.
A mio avviso tutto ciò non è socialmente un bene, depotenzia la coesione sociale che può esser anche basata su diversità ritenute necessarie ma ricordandosi che la vita biologica ha da 3,5 miliardi anni inventato come sua strategia adattiva il veicolo sociale o più banalmente “l’unione fa la forza” e forza per resistere alle intemperie adattive ce ne vuole sempre parecchia. Vero è che i senesi sono sopravvissuti e secoli di conflitto rionale, ma solo perché l’hanno sublimato in una innocua corsa di cavalli. Le polarizzazioni avvengono per lo più intorno interessi individuali o di gruppo, quasi mai rispetto al più importante interesse generale, l’interesse che tutti dovremmo avere verso il sistema di cui facciamo parte. Non si tratta di opporre una indesiderabile unipolarizzazione di gruppo alla bipolarizzazione di questo meccanismo. Si tratta di constatare che tra polo ed equatore, la vita si è maggiormente diffusa nelle fasce intermedie dove c’è del caldo ma anche del freddo.
In caso di polarizzazione assumere conoscenze ed informazioni in dosi massicce rafforza il sistema immunitario alle prese con questa sindrome tipica dei periodi storici di torsione adattiva profonda, quindi di crisi profonda. Lì dove tendiamo tutti a non fare più i conti con la realtà regalandoci momenti di confortevole certezza antagonista, viepiù se l’argomento su cui ci dividiamo è innocuo dal punto di vista del conflitto sociale basato sui più concreti rapporti di potere sociale.
[Nella foto, frame di “La parola ai giurati” del grande Sidney Lumet (1957), un film basato su un processo di inversione di polarizzazione che ben ne illustrava le dinamiche, sessanta anni prima di Sunstein]
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