Multipolarismo tra aspettative e realtà_con Gianfranco La Grassa

Questa conversazione con Gianfranco La Grassa ha preso spunto dalla pubblicazione sul nostro sito di un saggio intitolato “il mito del multipolarismo” “http://italiaeilmondo.com/2023/04/27/il-mito-del-multipolarismo-di-stephen-g-brooks-e-william-c-wohlforth/ . Si parte dal punto di vista dei due analisti statunitensi per confrontarlo con le opinioni di Gianfranco La Grassa riguardanti le dinamiche dell’attuale contesto geopolitico a partire dalla sua chiave interpretativa del “conflitto e confronto tra centri strategici”. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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Guardare e comprendere il multipolarismo_con Gianfranco La Grassa

Costruire uno strumento interpretativo adeguato a comprendere il contesto politico e geopolitico. Un impegno che non può prescindere dai tempi dettati dalla contingenza storica. Attardarsi, però, nella riproposizione pedissequa degli schemi interpretativi che hanno orientato le vicende politiche del secolo scorso porta sicuramente a posizioni fuorvianti e conclusioni sempre più paradossali. Ne parlo con Gianfranco La Grassa. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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Capitalismo è potere, capitalisti tra i poteri_con Gianfranco La Grassa

Si muove brevemente dalla scadenza elettorale che occuperà il dibattito politico da qui al 25 settembre ed oltre; si passa progressivamente a considerare le logiche che muovono il conflitto politico e le dinamiche di composizione delle formazioni sociali. Il punto di partenza espresso da Gianfranco La Grassa non può prescindere dalla sua formazione teorica iniziale e quindi dalla definizione di Marx delle due caratteristiche essenziali che conformano il capitalismo. Presupposti allo stato, pur nella loro genialità, rivelatesi in parte errati, in parte insufficienti a spiegare la complessità delle dinamiche politiche conflittuali e dei comportamenti dei soggetti politici e dei centri decisori. La Grassa da un ventennio ha avviato con relativo successo un primo tentativo di definire chiavi interpretative più adeguate e cercato di inserire alcuni presupposti ancora validi della teoria marxiana nelle categorie determinanti e prevalenti del ruolo del politico nei vari ambiti delle sfere di attività sociale dell’uomo e nel conflitto determinante dei centri decisori. L’auspicio espresso è che questo sforzo teorico sia finalmente colto in Italia e proseguito da forze nuove e fresche meno vincolate dagli schemi maturati negli ultimi grandiosi e tragici due secoli. Schemi potenti, ma in buona parte fuorvianti rispetto all’effettivo corso degli eventi. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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Stati Uniti, Russia! Nebbia della guerra, nebbie nelle menti_con Gianfranco Campa

Un presidente ormai isolato, ignorato, oltre il limite del patetico. Un ceto politico sempre più privo di senso istituzionale, tutto preso dallo scontro politico e dalle beghe interne. E’ la situazione paradossale della più grande potenza mondiale, laddove solo il Pentagono e quindi gran parte delle più alte cariche militari sembrano aver conservato prudenza e lucidità in un contesto geopolitico sempre più mutevole e conflittuale. L’Ucraina è attualmente il centro focale delle attenzioni, ma è sicuramente uno soltanto degli episodi che costelleranno la scacchiera internazionale in uno stillicidio di provocazioni e risposte. L’Ucraina è attualmente un porto delle nebbie dove la verità pretende di essere dettata dai detentori della propaganda e del sistema mediatico. Vedremo se il castello di menzogne riuscirà a reggere sino al logoramento dell’iniziativa russa oppure andrà incontro al crollo di una realtà politica e socioeconomica che, specie in Europa, si avvia sempre più velocemente verso un drammatico dissesto. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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La Russia e il multipolarismo in Europa_con Gianfranco La Grassa

Il multipolarismo sta sbarcando in Europa. I paesi europei più che parteciparvi, lo stanno subendo. La narrazione dominante addita la Russia come artefice della minaccia. In realtà sono i centri decisori al momento prevalenti negli Stati Uniti a cercare di stringere il giogo al collo. Le sue pressioni sono enormi ed assillanti. Un atto di forza che potrebbe trasformarsi in una manifestazione di fragilità. Tanto dipenderà dall’esito del conflitto in Ucraina. L’intervento russo assume ancora, proprio per il carattere estremo dell’iniziativa, una postura difensiva. Riuscire ad arrestare comunque il processo di allargamento della NATO ad est rappresenterebbe una prima significativa vittoria ed una ripresa dell’iniziativa già manifestatasi nei suoi prodromi in Libia, in Siria e in Africa. L’intesa con la Cina ne rappresenterebbe il suggello. I circoli dirigenti europei hanno ancora una volta scelto di appiattirsi totalmente sulla linea avventurista americana, definendo così l’Europa, il proprio continente, come il terreno di contesa e di battaglia di interessi altrui. Lo stanno facendo in nome della pace e dell’unità europea. Avrebbero avuto la possibilità di giocare sulle contraddizioni e sul conflitto che sta imperversando nei centri politici statunitensi; stanno al contrario alimentando le condizioni per una polverizzazione della realtà politica continentale foriera di lotte intestine ben manipolate e rinfocolate dall’esterno. E’ una classe dirigente che deve la propria esistenza sulla delega e sulla dipendenza ormai settantennale dalle scelte di oltreatlantico, condannando così l’Europa, in primis l’Italia, ad una condizione prossima di pauroso dissesto e degrado. Qualche segnale di reazione comunque appare all’orizzonte; più strutturato in Francia, con la candidatura di Zemmour all’Eliseo, più sottotraccia in Germania, in Ungheria. In Italia i sussulti di un paio di anni fa si sono rivelati un fuoco fatuo; forse ancora meno. Acrobazie parodistiche di saltimbanchi improvvisati, incapaci di destare un qualche timore nei centri che contano. L’epilogo lo abbiamo visto con l’allineamento tempestivo ed esibito, ammantato di anelito patriottico, di quelli che avrebbero aspirato a rappresentare una opposizione seria a questo sfacelo e a questa postura così meschina ed autolesionista. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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UN MUTAMENTO DECISIVO DI PROSPETTIVA, di Gianfranco la Grassa

UN MUTAMENTO DECISIVO DI PROSPETTIVA
Già effettuato, ma da ribadire
1. Nei modelli teorici si parte spesso da una presupposta situazione di equilibrio, che si sa bene servire soltanto da base per studiare poi i processi di non equilibrio. Ad es. Marx prende le mosse dalla <<riproduzione semplice>>, con crescita nulla del sistema, che resterebbe di ciclo in ciclo sempre eguale a se stesso. Schumpeter immagina invece un <<flusso circolare>>, che in genere prevede una crescita ma sempre secondo eguale proporzione tra le varie parti del sistema. Dalla <<riproduzione semplice>> si passa a quella <<allargata>> con il reinvestimento di una quota del plusvalore ottenuto da parte dei capitalisti (proprietari dei mezzi produttivi); mentre dal <<flusso circolare>> si passa allo <<sviluppo>> grazie all’attività innovativa di specifici imprenditori.
Nella marxiana <<riproduzione allargata>> si può pensare alla semplice crescita, con allargamento del sistema produttivo secondo le medesime proporzioni dei vari settori o branche; allargamento consentito anche da una semplice accumulazione del capitale investito secondo quote sempre percentualmente eguali in questi vari settori e senza un particolare processo innovativo o, quanto meno, con innovazioni di <<processo>> che innalzino la produttività in modo uniforme nelle varie branche del sistema complessivo. Nello <<sviluppo>>, in quanto fenomeno di rottura del <<flusso circolare>>, è invece impossibile che non si verifichino processi innovativi di vario genere – fra cui le innovazioni di <<prodotto>> che complicano il reticolo intersettoriale – poiché è proprio la proporzione tra i vari settori ad uscirne alterata, con avanzamento di quelli interessati da innovazioni o addirittura nuovi a scapito degli altri più tradizionali (di passate epoche innovative, ormai divenuti di routine o maturi).
E’ però possibile affrontare il problema da una prospettiva diversa, in un certo senso opposta: presupporre lo <<squilibrio>> come processo <<fondante>> il sistema. Senza lo <<squilibrio>>, in quanto base dell’analisi relativa all’evolversi di dati processi (ad esempio quello produttivo), non sarebbe possibile una corretta individuazione e valutazione prospettica circa il verificarsi degli stessi. Si badi bene: non si tratta affatto di una supposizione che pretenderebbe di riprodurre più esaurientemente <<la realtà così com’essa è>>. In ogni caso, il teorico è consapevole di stare costruendo mappe interpretative che con il “reale” intrattengono sempre un rapporto di ipotesi di certi andamenti con verifica delle stesse, correzione delle mappe mediante nuove ipotesi, e così via in un processo senza fine mai in grado di attingere <<la realtà così com’essa è>>. Tuttavia, si ritiene preclusa la strada di un’analisi che serva all’azione (alla pratica) nel mondo “reale” se non si pone all’inizio la presenza dello <<squilibrio>>.
E’ in fondo la strada percorsa da Lenin (non so con quale consapevolezza teorica) nello studio e valutazione della fase imperialistica, che non avrebbero prodotto effetti “pratici” se non fossero stati basati sullo <<sviluppo ineguale>> dei diversi capitalismi (paesi con questo sistema di rapporti sociali), tesi abbastanza simile a quella che presuppone la priorità dello <<squilibrio>>. Senza questa presupposizione, non sarebbe stata possibile la previsione circa l’<<anello debole>> della “catena imperialistica”. E ancor meno il dirigente bolscevico avrebbe dimostrato la sua grande duttilità, legata alle esigenze della prassi politica, nel ricercare le alleanze tra grandi raggruppamenti sociali (operai e contadini) adeguate al fine di concentrare l’azione trasformativa (rivoluzionaria) su detto anello debole.
2. Per quanto non sia immediatamente “visibile”, il problema dell’alternarsi di epoche monopolari (un paese con assai larga sfera di influenza mondiale) e multipolari (più paesi in conflitto per le sfere di influenza; l’imperialismo fu una di queste) può essere trattato con modalità assai diverse a seconda della priorità assegnata all’equilibrio o allo squilibrio nel “modello” teorico utilizzato per l’interpretazione della “realtà”. Vi sono correnti, penso alla scuola dell’economia-mondo (e annessi e connessi), che di fatto fondarono la loro analisi sul passaggio dal predominio di una grande “potenza” alla supremazia di un’altra (Spagna, Olanda, Inghilterra, Stati Uniti, solo come elementare esempio). I periodi di passaggio (multipolari appunto), pur non studiati certo con modalità deterministiche, restarono (nella teoria dell’economia-mondo) in definitiva subordinati a quelli (monopolari) di preminenza di una nazione, di uno Stato, di un paese. L’attenzione del teorico era soprattutto attratta dalla “potenza” preminente, d’epoca in epoca, e questo non può non influenzare la ricostruzione storico-teorica delle epoche di transizione che, appunto, non è la riproduzione della realtà così com’essa è, ma solo un’interpretazione in grado poi di promuovere, sia pure tramite molte mediazioni, una determinata prassi oppure un’altra, ecc.
In effetti, la potenza predominante avrebbe – e non solo per ragioni economiche, ma di assai varia natura (quindi anche politico-militari, ideologico-culturali, ecc.) – possibilità di realizzare una certa regolazione dell’insieme. Chi analizza l’epoca di una predominanza – fosse anche limitata ad un’area mondiale, come lo fu la supremazia del capitalismo statunitense tra il 1945 e il 1989-91 – si accorge di un qualche ordine esistente in quell’area; non a caso si suppose, nel periodo storico considerato, la fine delle “grandi crisi” capitalistiche e l’affermarsi, pur nel “libero” mercato, di una economia (pur assai relativamente) regolata, in potenziale continuo sviluppo solo interrotto da brevi crisi sistemiche (dette “recessioni”), tutto sommato normali e controllabili. Non vi è dubbio che il mondo bipolare – la Cina vi restava estranea, malgrado la rilevanza del suo peso politico – è stato la fonte di questa interpretazione teorica.
Esisteva, da una parte, il “socialismo” – per i suoi critici un mondo comunque ostico da decifrare, tanto che spesso ci si semplificò il compito dell’analisi con l’ormai evidentemente errata tesi del “capitalismo di Stato”; tesi comunque meno aberrante di quella del “socialismo di mercato” nella Cina attuale – e, dall’altra, il capitalismo tout court, che veniva criticato e magari combattuto, ma sempre a partire dalla sua considerazione quale blocco unico; o visto come transnazionale o subordinato al centro regolatore statunitense. Non appena uno dei “mondi” crollò e sembrò essere riassorbito nel sistema complessivo, ci fu chi pensò ad un’epoca imperiale (dominata dagli Usa) di durata indeterminata, chi invece preconizzò il declino di questo paese, subito passando però ad immaginare quale sarebbe stata la nuova “potenza” predominante: prima fu il Giappone, errore marchiano, poi si è scommesso sulla Cina. Che questa lo diventi (semmai fra un bel po’ d’anni) oppure no è proprio ciò che interessa di meno. L’importante è capire – via ipotesi aperte all’errore/verifica/correzione in un processo ininterrotto – come si andrà atteggiando lo <<sviluppo ineguale>> nella nuova epoca multipolare (sarebbe meglio non usare più il termine “imperialismo”).
Spero non ci sia bisogno di spendere altre parole affinché il lettore attento afferri le maggiori possibilità di incorrere in errori (da correggere poi con grande difficoltà), accettando l’idea che l’aspetto fondamentale dell’evolversi degli eventi storici sia rappresentato dal monopolarismo, una versione della priorità analitica dell’<<equilibrio>>, che infine entrerebbe in crisi in attesa del confronto per la nuova preminenza monopolare. Mentre lasciare in sospeso quale sarà la nuova potenza a sostituire gli Stati Uniti – in declino, anche se solo iniziale al momento – vuol dire porre in primo piano le epoche multipolari, cioè le fasi dello <<squilibrio>>. Da quest’ultimo, che è per certi versi lo <<sviluppo ineguale>>, si originano – certamente dopo opportuna maturazione del processo – le crepe in grado di fessurare il sistema in dati punti, non prevedibili all’inizio del processo, che non è deterministico, ma prevalentemente caotico; questi punti (paesi in definitiva) saranno in futuro gli <<anelli deboli>> di una catena di rapporti internazionali, così come li definì Lenin.
Ecco perché sistemi teorici, tipo quelli dell’economia-mondo, non mi sembrano più riproponibili. Non dico che non abbiano avuto i loro meriti. Tuttavia, è l’impostazione generale che va accantonata. Oggi deve prevalere l’attenzione per le epoche multipolari, in definitiva per lo <<squilibrio>> come del tutto prioritario rispetto all’<<equilibrio>>. Lo ribadisco: non prioritario perché più vicino alla “realtà” – che cerchiamo di conoscere mediante l’ipotesi di alcune soltanto delle variabili della sua complessa dinamica, ritenute quelle fondamentali – ma perché abbiamo bisogno di seguire le alterne vicende mondiali riassunte nella denominazione di <<sviluppo ineguale>> dei diversi paesi capitalistici, senza più concessioni alla sciocchezza della fine degli Stati nazionali, cioè di fine delle “potenze”, proprio mentre alcune sono in crescita e ci si avvia intanto al multipolarismo, fase d’avvio dell’epoca in cui dovrà necessariamente prodursi il conflitto policentrico acuto per la supremazia mondiale.
3. Puntare sulla priorità dell’<<equilibrio>>, e dunque delle fasi di monopolarismo, ha ulteriori effetti negativi. Indubbiamente Lenin – tutto preso dalle necessità della fase storica in cui visse e in cui riuscì con il gruppo dirigente bolscevico ad approfittare della rottura della catena imperialistica nell’<<anello debole>> russo – non poté portare a compimento la necessaria “rivoluzione” anche in campo teorico. La tesi dello <<sviluppo ineguale>> si arrestò alle soglie di quest’ultima in omaggio alla pretesa di essere l’ortodosso del marxismo in lotta contro il revisionismo kautskiano (socialdemocratico), mentre la realtà era proprio l’opposto. Solo che Lenin, per ragioni storiche oggettive, rimase a mezza strada nel suo effettivo “revisionismo”. Possiamo ben dire che la tesi dell’imperialismo quale ultimo “stadio” del capitalismo gli precluse l’altra “mezza via”.
Per molto tempo, il “marxista” cristallizzato ha cercato infantilmente di sostenere che ultimo non significava finale, bensì ultimo in ordine di tempo. Non è vero, ogni marxista ha sempre stabilito analogie tra l’organismo sociale e quello biologico, con le sue fasi di nascita, giovinezza, maturità, vecchiaia e infine morte per rinascere in altra forma. L’imperialismo è stato sempre trattato quale senescenza, vecchiaia, del capitalismo. L’errore fondamentale non era però questo; non a caso ho sottolineato “stadio” e non ultimo. E’ necessario abbandonare l’idea degli stadi. Dagli anni ’90 in poi, ho più volte formulato la tesi delle “ricorsività” e non degli “stadi”, per evitare di pensare sempre alla fine di date formazioni sociali in una visione unilineare dell’evoluzione storica, tesa ineluttabilmente verso le ben note “magnifiche sorti e progressive”.
In realtà, la “ricorsività” andrebbe meglio intesa quale <<fase di transizione>> a nuove forme dei rapporti sociali, senza però pensare alla fine del capitalismo tout court; semplicemente finì il capitalismo inglese (da definirsi “borghese”), la cui forma è quella analizzata da Marx mentre era al suo apogeo. I marxisti hanno continuato a parlare di capitalismo mentre invece esistono i capitalismi. E così, mentre si vaneggiava circa l’ultimo stadio capitalistico e sulla rivoluzione che avrebbe condotto al comunismo (tramite la fase socialistica), ha invece prevalso il capitalismo statunitense che tuttora predomina nel mondo. Anche per questo va data priorità allo <<squilibrio>>, che persiste durante l’epoca della preminenza centrale di una data “potenza” e alla fine logora il sistema solo apparentemente “regolato”. Il suo lavorio appare “in superficie” nelle crisi “sistemiche”, sia pure di non drammatica intensità, ma in genere non si dà ad esso la giusta rilevanza. Alla fine esso inizia a dissolvere la coesione tra le varie parti del sistema (in definitiva le diverse formazioni <<particolari>>, i paesi, nazioni, ecc.); e ci si avvia allora verso la fase multipolare dove il conflitto, sempre unito (ma in funzione subordinata) all’alleanza e cooperazione (appunto per la conduzione del conflitto), diventa via via più acuto fino alla necessità della resa dei conti tra blocchi di “alleanze”: stabilite per pura convenienza e che quindi lasciano sempre sussistere la tensione che è <<squilibrio>>.
Tuttavia, le ricorsività di mono e multipolarismo appaiono nelle loro forme più generali, ma ogni fase multipolare (di crescente affermazione dello squilibrio) è anche senza dubbio di specifica transizione ad una nuova forma dei rapporti sociali. L’imperialismo lo fu dal capitalismo “borghese” a quello dei “funzionari del capitale” con predominanza statunitense. Per vari motivi piuttosto economicistici, di rilevanza delle forme del mercato e dell’impresa nel sistema produttivo, parliamo sempre di capitalismo; tuttavia cominciamo almeno a declinarlo al plurale (“i capitalismi”). Adesso, la nuova fase multipolare (ancora all’inizio) – considerata quale anticipazione del “policentrismo conflittuale acuto”, con scontro decisivo per la supremazia – potrebbe annunciare una nuova “transizione” in cui giocherà, in lotta con la formazione capitalistica (USA) tuttora in auge, un nuovo capitalismo le cui forme, in quest’epoca storica assai mobili e soprattutto mal conosciute, sono soprattutto (o almeno così sembra attualmente) quelle delle formazioni <<particolari>> russa e cinese; tutto sommato risultato – pur attraverso le complesse vicende di più di un secolo e con l’estensione territoriale in paesi e quindi società diverse – della <<Rivoluzione d’ottobre>>, che si conferma perciò, ma con modalità di impossibile comprensione mediante il marxismo ossificato, uno dei grandi eventi storici, al pari della <<Rivoluzione (francese) del 1789>>.
Quando, liberatici infine degli “ismi” del XX secolo ancora per null’affatto superati, riusciremo a capire meglio le “transizioni” rappresentate dalle fasi multipolari – e in particolare quella fondamentale tra capitalismo “borghese” e dei “funzionari del capitale”, avvenuta nell’epoca dell’imperialismo, giacché la successiva è appena agli inizi – saremo pure in grado di decidere se vale ancora la pena di usare il termine “capitalismo” (declinato però al plurale) oppure se, superando l’economicismo delle forme mercantili e imprenditoriali, ci si dovrà decidere per una diversa opzione. Non è però questo il problema che ci assilla oggi. Si deve cominciare con il superamento di teorie vergognosamente cristallizzate, sterili, ormai giocattoli per bambini utilizzati da adulti che si limitano ai birignao della loro infanzia.
A questo serve la tesi della <<priorità dello squilibrio>>, non a pretendersi capaci di riprodurre la <<realtà così com’essa è>>. La marxiana “riproduzione del concreto nel cammino del pensiero” (“Introduzione del 1857”) lasciamola tra gli “arnesi” (teorici) di un secolo e mezzo fa; certo importante com’è ogni “arnese” utile all’analisi dell’evoluzione storica della nostra conoscenza, che non può saltare a piè pari determinati gradini, però sapendo che quell’“arnese” conosce, dopo un determinato periodo di tempo, il suo superamento.
E’ chiaro il discorso o si devono sempre ripetere le stesse cose? Gli sclerotizzati non capiranno; allora, per favore, lasciamoli perdere. Tanto più che in parte si tratta di imbroglioni, che ingannano alcuni giovinastri cercando di ripetere il ’68, ma sono al servizio dei capitalismi più reazionari. Vediamo oggi meglio quale funzione stiano assolvendo questi intellettuali cialtroni. Non si discuta più con loro; non ha alcun senso, sono in genere al servizio dei peggiori gruppi dominanti italiani e stranieri (statunitensi in testa).
4. Ancora alcune considerazioni conclusive. Bisogna ben capire il senso della priorità dello <<squilibrio>>. Nessuna menzogna relativa al fatto che saremmo più vicini alla “verità” rispetto a coloro che partono dal presupposto “iniziale” dell’<<equilibrio>>. La scelta è solo relativa alla maggiore utilità dello strumento interpretativo (del passato) e previsivo ai fini di una prassi (politica), che non ne discende tuttavia in modo immediato e con filiazione diretta. Lunga, anche in termini temporali, è la catena dei passaggi intermedi tramite i quali si sviluppa il processo di <<ipotesi/prova/errore/nuova ipotesi>>, ecc. Lo <<squilibrio>>, inoltre, vieta di pensare ad un troppo lontano futuro poiché ci obbliga ad accorciare il tiro dei nostri “obici teorici”. In più, ci impedisce di fissarci su una sola conclusione – ad esempio, quale sarà la nuova “potenza” centrale, predominante – poiché l’importante è seguire l’evoluzione dello <<sviluppo ineguale>> assai più da vicino, con atteggiamento di grande flessibilità e adattamento a situazioni estremamente mutevoli, quali sono quelle della fase multipolare.
Vi è però un mutamento ancor più sostanziale, che esito a definire metodologico, termine che mi sembra assai limitativo. Chiamatelo come volete. Se si parte dalla <<riproduzione semplice>>, dal <<flusso circolare>>, ciò che viene pensato come passaggio a quella <<allargata>> o alla <<innovazione di rottura>> lo è sempre quale attività razionalmente tesa ad uno scopo di efficienza, di “economico” impiego delle risorse. Una parte del plusvalore viene reinvestita (accumulata), ma seguendo il criterio del conseguimento del massimo profitto, il che implica l’applicazione del principio del <<minimo mezzo>> o <<massimo risultato>> (cioè minimo costo o massimo ricavo). L’innovazione implica creatività, ma sempre in vista dello stesso risultato. L’esistenza della razionalità limitata (ad es. quella di Herbert Simon), della non trasparenza assoluta dei mercati, ecc. sono semplicemente la solita manfrina di coloro che a Galilei avrebbero obiettato: ma dove mai esiste un moto senza attrito e da potersi definire “rettilineo uniforme”? A simili effettivamente limitati pensatori hanno anche assegnato premi Nobel, ma tanto sappiamo meglio adesso come questi vengono vinti. Non badiamoli nemmeno, non sanno uscire dal vero errore commesso nel valutare il carattere del capitalismo, forma <<storicamente specifica>> di una caratteristica generale di ogni formazione sociale.
Naturalmente, si tiene conto che il massimo profitto è ottenuto in una competizione (lotta) concorrenziale; tuttavia, quest’ultima è secondaria (logicamente) rispetto al fine prioritario del profitto. La concorrenza è dunque un mezzo, obbligatorio nella forma capitalistica dei rapporti sociali (però di produzione), per raggiungere la finalità suprema del capitalista proprietario dei mezzi produttivi: il profitto appunto. Ecco allora che – supponendo la ben nota dinamica capitalistica che conduce alla scissione della società in una classe di ormai sostanziali rentier, da una parte, e nella classe dell’intero corpo lavorativo produttivo (“dall’ingegnere all’ultimo manovale”), controllore in collettivo dei mezzi di produzione, dall’altra – diventerebbe possibile pensare al recupero sociale della razionalità produttiva del capitalista concorrenziale. Il “Robinson collettivo” (vedi primo capitolo de “Il Capitale”, paragrafo sul feticismo della merce) userebbe ancora il principio del “minimo mezzo” per realizzare l’utilità sociale complessiva. La produzione potrebbe essere pianificata dalla collettività dei produttori in possesso dei mezzi produttivi in base allo stesso principio messo in primo piano dalla scienza economica dei dominanti, solo che in quest’ultima riguarda i singoli capitalisti, i proprietari dei mezzi di produzione.
In fondo, il “Robinson collettivo” utilizzerebbe i mezzi scarsi – adibiti alla produzione dei diversi beni utili a soddisfare i vari bisogni stabiliti dalla collettività con decisione comune – in base al principio del minimo mezzo; almeno fino a quando non si fosse realizzato il pieno comunismo, che implicherebbe la fine della scarsità dei beni in relazione ai bisogni (“a ciascuno secondo i suoi bisogni”, infatti). Il tutto in armonia e cooperazione. Una volta eliminato il controllo “individuale” (anche di gruppi di capitalisti evidentemente) dei mezzi produttivi, l’uso di questi – e i bisogni da soddisfare tramite i beni con essi prodotti, utilizzando la forza lavoro fornitrice del pluslavoro/plusvalore – non dipenderebbe più dalle decisioni di singoli “individui” in base al massimo profitto (con tutte le limitazioni possibili dovute agli “attriti”, pensati da cervelli poco adusi all’astrazione scientifica).
Da simili distorte concezioni sono poi dipese sia le improprie conclusioni sugli extraprofitti di monopolio, in teorie che eliminano anche gli squilibri (secondari) legati alla competizione concorrenziale; sia le altre, ancora peggiori, concernenti il detestato consumismo, anch’esso imposto da quelle “cattivone” di imprese monopolistiche, magari multinazionali, ecc. Banalità su banalità, ancora diffuse con “sapienzialità” da sciamani premiati quali grandi pensatori sociali, mentre sono vecchioni (anche quando giovani d’età) rimbambiti, pagati dai media di una classe dominante ormai degenerata nell’ambito della formazione dei <<funzionari del capitale>>; questa sì arrivata attualmente alla sua senescenza. Dopo quest’epoca di “transizione”, dovremmo trovarci in una nuova <<formazione sociale>>; di cui oggi mi sembra assurdo pensare (“da indovini”) alle specifiche caratteristiche.
Porre in prima posizione lo <<squilibrio>> spazza via tutta questa cianfrusaglia ormai odorante di stantio e perfino di putrefazione. Il profitto (plusvalore) è mezzo, non fine. Quest’ultimo è invece la <<supremazia>>, che viene raggiunta tramite un conflitto permanente (che sempre esige le alleanze tese a tal fine), in cui si usa in prevalenza il “calcolo” strategico, differente <<per natura>> da quello di efficienza, di economicità. Se è possibile, e fin quando possibile, viene certo usato questo criterio calcolistico del minimo mezzo, ma solo se non contravviene alla conquista della <<supremazia>> tramite uso delle <<strategie di conflitto>>. E tali strategie appartengono al <<campo generale della politica>>; sia che vengano impiegate nella sfera propriamente politica o invece economica, e in ogni dove si esplichi azione umana. Il capitalista non è il mero proprietario, è invece lo <<stratega>>; ciò era già in parte implicito nella teoria manageriale di Burnham (il più avanzato conoscitore della nuova formazione capitalistica affermatasi negli Usa), ma ancora con riferimento predominante alla sfera economica e restando invischiati nella problematica della lotta tra management e proprietà, in cui il primo avrebbe infine prevalso definitivamente; mentre invece le forme giuridiche, in auge nella mera sfera economica, possono essere congiunturalmente variabili, perché il conflitto, nella sua reale dimensione di <<strategia>> per conquistare la <<supremazia>> nella società nel suo complesso (a “più sfere”), è l’elemento generale e cruciale.
Un simile mutamento (di paradigma? Definitelo come volete) comporta il completo rivolgimento dell’intera prospettiva teorica; sia delle teorie dei dominanti sia di quella marxista, da cui il sottoscritto prende pur sempre le mosse. Si deve però andare avanti, servono mutamenti teorici decisivi. Qui volevo solo far notare che questi ultimi devono, fra le altre cose, prendere le mosse dall’inversione della priorità tra <<equilibrio>> e <<squilibrio>>. E tanto basti, al momento.

NB_Tratto da facebook

La vera storia della crisi dei missili a Cuba, di Gianfranco la Grassa

1. Alla fine della seconda guerra mondiale, l’Urss emerse come una delle due vere vincitrici dello scontro bellico. Tuttavia, oggi si può ben dire che la maggiore potenza era rappresentata dagli Stati Uniti. Il periodo che seguì, detto della “guerra fredda”, sembrò veramente il confronto tra paesi di forza pressoché pari; soprattutto quando nel 1949 l’Urss lanciò la prima bomba atomica, realizzando poi con una certa rapidità un arsenale nucleare abbastanza confrontabile con quello degli avversari. E nel 1957 (4 ottobre) ci fu il lancio del primo sputnik, che sembrò sancire addirittura un vantaggio dell’Urss in termini di conquista dello spazio, non indifferente a fini bellici. Si caratterizzò quel periodo storico, durato poco meno di mezzo secolo, con la definizione di “equilibrio del terrore”. Unione Sovietica e Stati Uniti erano nemici – anche socialmente e ideologicamente, essendo la prima il campione e centro del campo detto socialista; e la seconda del campo capitalistico – ma non ci fu mai, malgrado il permanente spauracchio dello svoltare della guerra da fredda a calda, un vero pericolo del genere. Vi era in realtà non tanto la disparità di forze, quanto una rigidità della struttura sociale, assai misconosciuta per molto tempo, a sfavore del paese presunto socialista. L’apparente compattezza del potere politico, fortemente accentrato in Urss, non permise a lungo di constatare questo “difetto” nella sedicente “costruzione del socialismo” (oggi capiamo che non vi fu mai un simile processo; però lo capiamo in pochi, a “destra” come a “sinistra”).
In ogni caso, per alcuni anni dopo la guerra si diffuse, e non soltanto presso i comunisti (che stravedevano per l’Urss), la sensazione di un forte sviluppo delle forze produttive nel paese “socialista” (e negli altri paesi di quel campo), favorito appunto dall’aver spezzato l’involucro rappresentato dai rapporti sociali (di produzione) capitalistici, supposto ostacolo a detto sviluppo. Nella prima metà degli anni ’50, statistiche assai addomesticate pretendevano di dimostrare che, nel giro di vent’anni, l’Urss avrebbe superato come Pil gli Usa mentre la Cina (divenuta “socialista” nel ’49 con la presa del potere da parte del partito comunista guidato da Mao) avrebbe ottenuto lo stesso risultato nei confronti dell’Inghilterra, allora secondo paese del campo capitalistico. In realtà, già Stalin, un anno prima della morte (avvenuta il 5 marzo 1953), aveva scritto un breve saggio in cui cercava di capire una serie di difficoltà di sviluppo, cui stava andando incontro l’Urss. Tuttavia, la sua analisi non poteva liberarsi dell’impaccio di una teoria marxista (ormai largamente stravolta e fortemente ideologizzata senza la minima consapevolezza di ciò da parte dei comunisti). Alla sua morte, e nella seconda metà degli anni ’50, le difficoltà vennero sempre più in evidenza.
Nel febbraio del 1956 si ebbe il colpo di scena al XX Congresso del Pcus (partito comunista dell’Unione Sovietica) con il famoso rapporto Kruscev, che non fu concordato con i maggiori rappresentanti del partito a quell’epoca, anche se fu ingoiato e apparentemente sostenuto da tutti, salvo l’inizio di una lotta sotterranea sfociata in numerosi episodi lungo tutto il successivo arco di sussistenza dell’Urss. Ero divenuto comunista due anni e mezzo prima ed ero assai giovane, ma qualcosa di marxismo già sapevo. Fui inorridito da quel rapporto, tutto basato sugli errori personali di Stalin e sul culto della sua personalità. Il “socialismo” sarebbe stato in fondo sano, ma si erano verificati (chissà chi li aveva consentiti), e per un lunghissimo periodo di tempo, sbagli clamorosi, e addirittura crimini, attribuiti al brutto carattere di Stalin con il supporto da parte di un Beria, già accoppato (sembra addirittura in sede di Comitato Centrale e con l’accordo di tutti, anche di quelli che poi Kruscev buttò fuori) nel dicembre del ’53. Mi schierai immediatamente contro quel Congresso e quel rapporto, perché afferrai fin da subito che non vi era la più pallida ombra di un’analisi storica del periodo, indubbiamente non eroico né pieno di luci, in cui l’Urss fu guidata da Stalin. Si trattò, in questa svolta del XX Congresso, di regolamenti di conti con alla testa un mediocre e ottuso politicante (certo furbastro) come Kruscev, vero precursore di Gorbaciov.
Togliatti, uomo politico di tutto rilievo ma altrettanto “alto” opportunista, che aveva commemorato Stalin il 6 marzo ‘53 con parole perfino un po’ eccessive nella loro retorica, si schierò pressoché subito con Kruscev (forse solo un attimo di sbalordimento, anche perché era uomo di cultura, intelligente e certamente non poteva non capire la rozzezza delle accuse di Kruscev, basate sul “culto della personalità”, un insulto al marxismo e ad ogni analisi minimamente sensata degli eventi storici) e rilasciò una intervista a “Nuovi Argomenti” subito dopo il XX Congresso, una delle pagine più meschine di quest’uomo. All’VIII Congresso del PCI nel dicembre di quell’anno si ribadì il pieno appoggio del partito al “nuovo” Pcus. Uno dei pochi dissidenti, Concetto Marchesi, pronunciò un discorso molto critico, in cui pronunziò una frase che approvai pienamente: “Tiberio, uno dei più grandi e infamati imperatori di Roma trovò il suo implacabile accusatore in Cornelio Tacito, il massimo storico del principato. A Stalin, meno fortunato, è toccato Nikita Kruscev”. Togliatti andò a stringergli la mano (lascio stare ogni commento). Comunque sorvoliamo su questi “particolari”, non senza però ricordare che in quel congresso venne lanciata, nella sua forma più elaborata, la famosa “via italiana al socialismo”, inizio delle più bieche svolte opportunistiche del partito, finite poi nella “lunga marcia” (partita all’incirca alla fine degli anni ’60 e inizio ’70) verso il cambio di campo e il passaggio con gli Usa e gli “atlantici”.
2. Dopo il XX Congresso, sotterraneamente iniziò una lotta tra la vecchia guardia (e non solo) e i “krusceviani”. L’esito di tale confronto fu ritardato dai fatti d’Ungheria (ottobre del ’56), dove si notò all’inizio una qualche “incoerenza”. Ci fu un primo tentativo di repressione, che inasprì la situazione anche perché fu seguito da una mezza ritirata che dimostrò appunto una qualche divisione interna all’establishment sovietico. Poi ci fu comunque l’aperta e assai dura azione di schiacciamento della rivolta. Il confronto interno al Pcus – cioè al suo vertice poiché la “base”, nella quale è bene mettere anche la gran parte dei membri del CC, era solo al seguito di questo o quel dirigente e non credo per chiari motivi politici, tanto meno ideali – riprese e sfociò infine nello scontro aperto del giugno 1957. Malenkov, Molotov (quello del patto con Von Ribbentrop, uno dei più importanti Ministri degli Esteri sovietici e alto dirigente di partito nel periodo di Stalin), Kaganovic – con l’appoggio di Bulganin e di Shepilov, considerato fedele a Kruscev e in quel momento Ministro degli Esteri; forse per questo si convinse dell’ambigua politica internazionale di chi aveva fino allora seguito – tentarono di estromettere Kruscev dalla sua carica di massimo dirigente. In effetti, il risultato fu conseguito nel Presidium del partito, gruppo ristretto di comando.
Kruscev riuscì a convocare in extremis il CC e lì vinse (come spesso accade quando giungono i vari “baciapiedi”, solo interessati a vedere come “girerà” per loro con la vittoria di questo o di quello), facendo anche passare gli avversari quale “gruppo antipartito”. Essi furono espulsi dal gruppo dirigente, ma poi anche dal partito (almeno alcuni di loro, ad es. Malenkov nel 1961). Comunque, un capitolo era chiuso, ma se ne aprì subito un altro a livello del consesso dei partiti comunisti. Quello cinese manifestò subito, anche se all’inizio molto in sordina, il suo malumore. Non venne considerato minimamente serio il rapporto Kruscev tutto basato su accuse che facevano risalire solo al carattere personale di Stalin (e al suo “culto”) le difficoltà in cui invece continuava ad incorrere l’Urss. Proprio quel rapporto, credo, spinse Mao (appunto nel 1957) a pronunciare un rilevante discorso (febbraio 1957), poi pubblicato come “Sulla giusta soluzione delle contraddizioni in seno al popolo”. L’analisi è più avanzata di quella di Stalin sopra citata (et pour cause). Tra queste contraddizioni viene inserita anche quella tra classe operaia e borghesia nazionale. Più tardi sappiamo che la contraddizione tra le due classi verrà vista come nettamente conflittuale (con ritardo nella “costruzione del socialismo”) e addirittura esistente all’interno del partito e del suo stesso organo dirigente supremo; da qui nacque nel ’66 la “rivoluzione culturale”, su cui sorvoliamo in questo contesto. Le contraddizioni tra Urss e Cina si aggravarono sempre più e passarono attraverso diverse tappe: la riunione degli 81 partiti comunisti del mondo a Mosca nel ’60, il durissimo scambio di lettere (proprio di carattere teorico e politico-ideologico) tra i CC dei due partiti nel ’63 e infine, appunto, la “rivoluzione culturale (1966-69), che sancì la definitiva inimicizia e avversità, continuata anche dopo la svolta, susseguente alla morte di Mao nel settembre del 1976, che di fatto riconsegnò il potere alla vecchia guardia rappresentata soprattutto da Deng Xiaoping (questi era già il più forte nel 1977 e consolidò definitivamente la sua guida nell’’80).
Torniamo però all’Urss ormai apparentemente dominata dal solo Kruscev. Era in realtà un’impressione, ma per alcuni anni sembrò veramente avere tutto il potere in mano; i nemici aspettavano i suoi errori. Egli tentò di rivitalizzare lo sviluppo economico sovietico, in netto calo malgrado tutte la “alterazioni” apportate ai dati della produzione e altro. E si rivolse in particolare all’economista Liberman. Questi tentò un certo mutamento della pianificazione centrale eccessivamente rigida. Le sue proposte non si possono paragonare a quelle più tarde di Deng in Cina passate sotto la definizione di “socialismo di mercato”. Tuttavia, sia lui che Ota Sik in Cecoslovacchia (in auge fino al governo Dubcek, poi represso nel ’68 dall’Urss) e Oskar Lange in Polonia (per un certo periodo vicepresidente del paese e morto nel 1965; amico del mio Maestro che mi mandò da lui per un lungo colloquio al Codevilla di Cortina nel 1963) avevano un’impostazione che non poteva definirsi marxista. Lange era anzi, a mio avviso, di chiara impronta neoclassica e nel suo manuale di Economia politica espone in modo piuttosto “elementare” (diciamo così) le leggi del materialismo storico; solo perché la sua posizione gli imponeva di essere almeno un po’ aderente a quella visione ideologica.
Le riforme che tentò di introdurre Liberman non ebbero grande successo; e certamente l’essersi rivolto a lui non giovò a Kruscev nella lotta sotterranea che continuava a svilupparsi nel Pcus (o per meglio dire, nel suo vertice). Soprattutto in campo agricolo (ma evidentemente non solo) non vi furono brillanti successi, tutt’altro. Tuttavia, non credo che tali insuccessi siano stati quelli più decisivi nel successivo maturare della sconfitta di colui che sembrava essere ormai il padrone assoluto dell’Unione Sovietica (divenne anche premier, oltre che già segretario del partito subito dopo la morte di Stalin, nel ’58 estromettendo Bulganin). Cercò in tutti i modi di rendersi simpatico non soltanto all’interno ma anche sul piano internazionale. Certi suoi gesti (come quello del battere con finta ira la sua scarpa sul tavolo mentre si era in seduta all’ONU nel 1960 e stava parlando il delegato filippino che rovesciava varie accuse sull’Urss) erano più che altro sceneggiate destinate a farlo passare per un bonario per quanto focoso capo di governo e di partito. Iniziò assai presto una politica di “appeasement” con gli Usa, dove si recò nel 1959 per due settimane, dopo aver ricevuto in Urss l’allora vicepresidente americano Nixon.
3. Nel 1958 vien nominato Papa il cardinale Roncalli (Giovanni XXIII, detto “affettuosamente” Giovanni schedina: due pareggi e tre vittorie in casa) e a fine 1960 viene eletto presidente degli Usa Kennedy, che s’insedia, come al solito, il 20 gennaio del ’61. Da quel momento, si parlò per ben più di un anno – scherzosamente ma significativamente – della S.S. Trinità; e tutti erano convinti che si andasse verso un mondo di pace. Tutti, salvo i veri dirigenti politici; in modo particolare americani e sovietici. Questa visione pacificata durò poco come del resto la suddetta “Trinità”. Nel giugno del ’63 muore il Papa, in novembre viene assassinato Kennedy, nell’ottobre del ’64 viene destituito Kruscev, che sarà buttato fuori anche dal CC del partito nel ’66. Tuttavia, le grandi speranze di pacificazione erano già finite con la “crisi dei missili a Cuba” nell’ottobre del ’62. Non è facile capire gli effettivi motivi dell’uccisione di Kennedy. Nessuna persona sensata ha mai creduto al gesto isolato di Oswald (assassinato subito dopo per evitare che rivelasse qualcosa); e nemmeno alla fola di un atto di vendetta compiuto da Allan Dulles (capo della Cia) per aver subito dei torti da Kennedy. Cerchiamo di considerare alcune “cosette”. Il 17 gennaio del ’61, Eisenhower, che di fatto non era più presidente (Kennedy s’insedierà dopo appena tre giorni), autorizza la Cia ad agire contro Cuba, soprattutto mettendo a disposizione (lui che era stato alto comandante dell’esercito e capo delle forze alleate in Europa nella seconda guerra mondiale) i necessari gruppi militari per invadere quel piccolo paese con lo sbarco alla Baia dei Porci.
Non è quindi la prima volta che un presidente, ormai di fatto non più tale, continua a tramare a pochi giorni dall’insediamento di quello che, di fatto, era un suo rivale (un po’ come Obama, non vi sembra? Per questo Trump è senz’altro avvertito dei pericoli che corre; anche se allora si trattava di un repubblicano contro un democratico, il “rovescio” rispetto ad oggi, ma conta questo negli Usa?). Il disastro di quell’operazione fu incredibile, oggi si scrive spesso che le operazioni condotte rasentarono la follia. Kennedy venne considerato connivente con la tentata operazione di rovesciare Castro. Fu veramente così? Non è che agì di soppiatto proprio per far fallire quella manovra, evento che avrebbe così gettato discredito sul suo predecessore (e il suo establishment)? Mentre se fosse riuscita sarebbe accaduto il contrario: Eisenhower sugli altari e lui (e i “suoi”) dimezzati nella popolarità come, probabilmente, nel potere (visto che anche la Cia stava con Eisenhower come recentemente con Obama). Se su quanto accadde veramente negli Usa abbiamo molte incertezze, queste diminuiscono abbastanza (non del tutto, è ovvio) per quanto invece andò verificandosi in Urss. In effetti, le sedicenti riforme non avevano gran successo, ma soprattutto andava sempre più accentuandosi il malcontento nella direzione del Pcus (e forse nacque persino qualche sospetto) per i rapporti troppo buoni tenuti dal segretario del partito con gli Usa; direi, in particolare, con Kennedy. Nel 1962, credo proprio che si andassero precisando pericoli di autentica opposizione.
Da politicante opportunista e senza principi qual era, Kruscev decise di fare la mossa, apparentemente forte, di mettere i missili a Cuba. E anche se ancora oggi ciò viene tenuto nascosto, avvertì Kennedy della mossa, gliene spiegò i motivi, pienamente accettati dal presidente americano che sapeva bene come fosse fondamentale la permanenza di un simile personaggio (ripeto, “pregorbacioviano”) alla direzione dell’Urss. Se la mossa fosse riuscita, forse alla fin fine sarebbe stato accelerato il declino dell’Urss, diretta appunto da un tipo come Krusciov ancora per anni. In ogni caso, tutto andò all’inizio per il meglio (per quanto riguarda l’accordo segreto fra i due “capi”) e, nel luglio del ’62, una sessantina di navi sovietiche si avviarono verso Cuba; alcune d’esse trasportavano i missili. McCone, direttore della Cia, avvertì il suo presidente del “pericolo” imminente (evidentemente non sapeva nulla degli accordi segretissimi intercorsi). Vi fu una riunione molto “riservata” a quattro: Kennedy, suo fratello Robert (Ministro della Giustizia), Rusk (Segretario di Stato) e McNamara (Segretario alla Difesa). Si decise che i russi non avrebbero mai avuto il coraggio di compiere una simile impresa. Mi sembra probabile, direi perfino evidente, che i quattro invece ben conoscessero quanto concordato tra il presidente e Kruscev e le sue effettive motivazioni. Difficile a questo punto capire bene il senz’altro turbinoso succedersi degli avvenimenti, pur se è facile intuire che il vicepresidente (Lyndon Johnson) non fosse molto d’accordo e fosse a conoscenza dei fatti o per informazione diretta oppure ottenuta ad insaputa del presidente.
Fatto sta che vi furono chiaramente opposizioni nette a correre quello che evidentemente alcuni ritenevano un rischio; o forse più semplicemente (perché non credo si avesse troppa paura dei missili sovietici a Cuba) non si voleva favorire l’azione krusceviana, si preferiva che venisse messo in difficoltà e si manifestassero crepe e dissidi al vertice dell’Urss. Chi lo sa; resta il fatto che a ottobre, la presenza dei missili venne rivelata con grande clamore – dal drone U2 che volò sopra Cuba e fece delle foto precise; e anche questo volo fu fatto all’insaputa di Kennedy, ma forse non di Johnson e della CIA – e, a questo punto, a Kennedy non restò altro che cadere dalle nuvole e ingiungere perentoriamente a Kruscev di ritirarli. Sia chiaro che solo più tardi si seppe che il direttore della Cia aveva avvertito il presidente già a luglio e che si era tenuta la riunione segretissima dei “quattro”, scartando la credibilità della mossa sovietica. Quindi, in ogni caso, Kennedy recitò la commedia fingendo a ottobre di essere sorpreso. Quanto a Kruscev, cosa poteva fare il poveretto? Rivelare che aveva avvertito Kennedy per poter far meglio fronte alle crescenti opposizioni interne? Dovette ingoiare il rospo (avrà magari fatto qualche telefonata indignata a chi l’aveva “tradito”) e ritirò i missili subendo una sconfitta decisiva. Non fu liquidato subito ma due anni dopo. Tuttavia, le accuse rivoltegli riguardano proprio la cattiva gestione dell’economia (e tuttavia Liberman resterà ancora in attività per qualche anno e ne era il principale responsabile), ma soprattutto la pessima gestione della crisi dei missili con figuraccia dell’Urss costretta a subire l’ingiunzione americana. E’ evidente che i dirigenti sovietici erano ormai a conoscenza di tutto l’inghippo svoltosi. Se Kruscev perse il posto, Kennedy ci rimise la vita; ma non credo proprio per quell’evento. Altri, e non chiari né ben noti tuttora (a noi almeno), furono i motivi salienti della sua eliminazione fisica.
Ancora oggi, grazie anche a storici contemporanei – in parte mediocri in parte veri falsificatori – si parla dell’ottobre 1962 come di un momento in cui si fu vicinissimi alla terza guerra mondiale. Solo il buon senso dei due “capi” – e l’intervento che fece il Papa “buono” in quell’ottobre, rivolgendosi come d’abitudine a tutti gli uomini di buona volontà – ci avrebbe salvato dall’olocausto nucleare. I miei compagnucci e amici e conoscenti erano scandalizzati perché ridevo e dicevo loro che nessun pericolo grave incombeva su di noi e sul mondo; e li prendevo in giro poiché poco capivano delle menzogne raccontate dai “potenti” per abbindolare i gonzi. E’ stata una delle mie “predizioni” più riuscite (non erano per la verità predizioni, ma cosette che sapevo nelle loro linee generali; ma soprassediamo). Dissi apertamente che non c’era alcuna crisi, che vi era stato accordo tra “i due”, andato però a male; affermai senza esitazioni che la crisi sarebbe finita in poche settimane e che Kruscev era ormai in “lista d’attesa” per essere licenziato. Non prevedevo l’assassinio di Kennedy, ma tutto non si può “indovinare”. E del resto conoscevo molto meglio ciò che accadeva nel mondo detto “comunista”; sia sul piano estero (Urss, Cina e altri paesi) sia su quello interno (i vari “intrighi” nel Pci e nei gruppuscoli filo-maoisti o quanto meno “antirevisionisti”, ecc.). Quanto si muoveva tra le fila dell’establishment statunitense mi era decisamente meno decifrabile.
Bene, con questo ho terminato la mia storiella. Vedremo se capita l’occasione di raccontarne altre (magari anche su questioni interne italiane; tipo “mani pulite” o il “rapimento Moro” con la presa in giro del “terrorismo rosso”) . Purtroppo, su alcune questioni non posso esprimermi con chiarezza perché, non potendo portare prove né testimonianze, sarei passibile di denuncia per diffamazione. Peccato, di “cosette simpatiche” ne so alcune; e anche di ghiotte. Le ho raccontate a voce ad amici, in modo che ne resti qualche traccia. Quanti “porcaccioni” ho incontrato in vita mia! Sia quando ero nell’azienda di mio padre e assieme a lui si andava per Ministeri (Agricoltura e Industria e Commercio); sia nella mia carriera universitaria; sia negli ambiti della politica, in particolare “a sinistra” perché lì erano le mie frequentazioni. Sia chiaro che ho conosciuto anche un discreto numero di persone (quasi tutte morte) di cui ho un ricordo riverente e commosso. Non esistono solo fetentoni. Tuttavia, sono quasi sempre questi a riscuotere il maggiore successo; sia fra i politicanti che fra gli intellettuali, tutti portati sugli scudi mentre sono dei miserabili da lasciare senza fiato. E oggi stiamo arrivando al capolinea.

 

I RAPPORTI TRA PCI E USA. UNA RIFLESSIONE di Luigi Longo su Gianfranco La Grassa

I RAPPORTI TRA PCI E USA. UNA RIFLESSIONE

di Luigi Longo

Ho visto i due video sui rapporti tra PCI e USA di Gianfranco La Grassa, pubblicati sul sito www.conflittiestrategie.it, del 8/1/2022 (prima parte) e del 15/1/2022 (seconda parte).

Gianfranco La Grassa parla da anni della questione argomentata nei video suddetti. Per me sarebbe opportuno ed interessante, a questo punto, approfondire il ruolo che il ’68 e i movimenti successivi hanno avuto nel confondere e fuorviarne la lettura e il senso dell’unica fase storica italiana che ha avuto due sussulti di autonomia, con Enrico Mattei prima e con Aldo Moro poi , (ben più deciso il tentativo di Enrico Mattei), entrambi stroncati dalle strategie USA che hanno utilizzato politicamente i cotonieri lagrassiani e strumentalmente la mafia (l’assassinio di Enrico Mattei) e la CIA (l’esecuzione di Aldo Moro).

Le brigate rosse non c’entrano niente con il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. Esse sono state sempre strumento (ad eccezione forse nella prima fase) della CIA come esecutrice delle strategie USA. “Lei la pagherà cara!” fu l’espressione di Henry Kissinger, potente segretario di Stato dell’amministrazione Nixon nel 1974, rivolta ad Aldo Moro perché non solo lavorava al compromesso storico con il PCI ma, soprattutto, lavorava per una timida autonomia di politica estera verso il Medio Oriente (Emanuele Montagna, Franco Soldani, “Lei la pagherà cara”. Cabina di regia Usa, Vaticano e apparati di Stato dietro l’affare Moro, Edizioni Pengradon, Bologna, 2019). Voglio precisare che Aldo Moro in una prima fase lavorò al compromesso storico con il PCI, ma successivamente intuì che gli USA stavano preparando la sostituzione del loro referente principale in Italia, dalla DC al PCI, o a quello che sarebbe diventato dopo. Insomma Aldo Moro vide lontano e forse sapeva bene che il crollo dell’ex URSS era una questione di tempo perché chi doveva sapere sapeva (gli agenti strategici statunitensi (e non solo) erano consapevoli, attraverso le loro reti diplomatiche, le agenzie governative, eccetera, delle difficoltà strutturali della società sovietica “ […] che era rimasta irrimediabilmente indietro rispetto al capitalismo occidentale e che la gara con gli Stati Uniti era stata persa”) che l’URSS era un gigante militare-nucleare dai piedi di argilla (sulla fine dell’ex URSS c’è una convergenza, di ben altra natura, con le analisi di Charles Bettelheim, di Gianfranco La Grassa, di Costanzo Preve e di Emmanuel Todd).

Riporto un passo molto significativo: “[…] i membri di vertice delle BR all’epoca del sequestro erano già da tempo agenti di Stato e funzionari dei servizi segreti italiani e Nato (sotto coordinamento della CIA, mia precisazione LL) […] la vera natura dei sedicenti “brigatisti” venne al tempo occultat persino dal gruppo del “Il Manifesto” e in particolare da Rossana Rossanda, non appena quest’ultima in un suo tempestivo articolo del 28 marzo 1978 incorniciò le BR in un presunto “album di famiglia” del PCI, offrendo a queste ultime su un piatto d’argento una sorta di legittimazione politica ufficiale “da sinistra” e assecondando nel contempo, nelle peggiori delle ipotesi a sua insaputa, i disegni dei perpetratori. Avrebbero potuto desiderare qualcosa di meglio questi ultimi?” (Emanuele Montagna, Franco Soldani, “Lei la pagherà cara”, op. cit., pp.10-11).

Ora le domande che si pongono sono: di tutto questo la sinistra, i piccisti (come giustamente erano definiti da Gianfranco La Grassa e da Costanzo Preve), i gruppi rivoluzionari (potere operaio, autonomia operaia, avanguardia operaia, eccetera) che cosa hanno conosciuto, capito, elaborato, analizzato, teorizzato e praticato? E quale è stato il loro ruolo politico nelle relazioni sociali del sistema Italia?

Se applicassimo le propensioni storiche con le inclinazioni delle diverse fasi della storia mondiale di cui parla François Jullien (Essere o vivere. Il pensiero occidentale e il pensiero cinese in venti contrasti, Feltrinelli, Milano, 2019, seconda edizione) allora la preparazione dello spostamento del PCI verso l’Occidente inizia nel secondo dopoguerra con Palmiro Togliatti ed esplode in maniera evidente dopo il crollo (dissoluzione reale) dell’URSS (1990-1991)

PER UNA AUTONOMIA NAZIONALE, a cura di Luigi Longo

PER UNA AUTONOMIA NAZIONALE BISOGNA ROMPERE LA SERVITÙ VOLONTARIA VERSO GLI STATI UNITI D’AMERICA

a cura di Luigi Longo

Propongo la lettura dello scritto Conflitti tra stati e autonomia nazionale. Perchè? di Gianfranco La Grassa apparso su www.conflittiestrategie.it il 12/11/2021.

Premetto che riprenderò il costruendo paradigma del conflitto strategico di Gianfranco La Grassa in un altro scritto complessivo e sistematico. Il conflitto strategico, visto in una logica multidisciplinare, rappresenta una lettura approfondita, originale ed altra della conoscenza, dell’interpretazione e della progettualità della coda della realtà. E’ chiaro che occorre avere acutezza nell’individuare il sapere che illumina e avvolge gli altri saperi assumendo a base dell’analisi i rapporti sociali reali e il loro sistematico insieme nazionale e mondiale, soprattutto in questo periodo di decisivo sviluppo della fase multicentrica che la cesura storica della guerra batteriologica da Covid-19 ha accelerato. Il conflitto strategico apre nuove strade teoriche e pratiche.

Vengo, ora, allo scritto proposto. E’ una riflessione stimolante che inizia a fare chiarezza sulle seguenti questioni principali: 1) la distinzione tra lo stato (gli strumenti degli agenti strategici dominanti articolati sull’intero territorio nazionale, la robusta catena di fortezza e di casematte di Antonio Gramsci) e la nazione (il territorio della comunità con la sua storia, il suo rapporto sociale, la sua cultura, la sua lingua, il suo paesaggio, il suo costume, la sua natura, eccetera); 2) il conflitto tra gli agenti strategici delle varie nazioni europee non si gioca intorno ad una idea di sviluppo autonomo dell’Europa (qualunque sia la forma dello stare insieme che le diverse nazioni si vorranno dare) ma si consuma nella corsa di posizione privilegiata verso la servitù statunitense. Preciso che divido gli agenti strategici in: quelli che pensano le strategie, quelli che gestiscono le strategie e quelli che eseguono le strategie; 3) la necessità di rompere con la servitù volontaria verso gli USA (potenza dominante in declino che è per un mondo monocentrico a sua immagine e somiglianza) e la possibilità della costruzione di relazioni con l’Oriente (Russia e Cina, potenze in ascesa che sono per un mondo multicentrico); 4) l’autonomia nazionale per la costruzione di un modello di sviluppo che renda possibile stabilire nuove relazioni interne e mondiali a partire da una nuova idea di Europa (bisogna andare oltre il progetto statunitense dell’Unione Europea che è sempre più sostituito dalla nuova NATO come strumento degli Usa nel conflitto strategico della fase multicentrica); 5) le riflessioni critiche dell’esperienza rivoluzionaria del secolo scorso (soprattutto quella russa e quella cinese) e sul tipo di società che sono diventate oggi (a prescindere dall’eterogenesi dei fini che è un concetto a me poco simpatico) che nulla hanno a che fare né con il socialismo né tantomeno con il comunismo; 6) il conflitto per scalzare gli agenti strategici esecutori e servili (per esempio, Mario Draghi è un esecutore e per questo è un pericolo per gli interessi nazionali con le sue articolazioni sociali: la sua storia a partire dagli anni Novanta del secolo scorso è illuminante per le funzioni svolte) per costruire una vera autonomia nazionale in grado di guardare a Oriente per il consolidamento della fase multicentrica (nell’attesa della costruzione di una Europa in grado di essere un soggetto politico autonomo capace di costruire relazioni altre nel rispetto della diversità tra l’Occidente e l’Oriente?); 7) lo stabilizzarsi della fase multicentrica aprirebbe il conflitto all’interno delle singole potenze per la messa in discussione delle relazioni di potere e di dominio che dominano i rapporti sociali, storicamente determinati, a vantaggio di una esigua minoranza delle popolazioni.

Credo che si possa ragionevolmente affermare che la questione fondamentale si sposta nella Politica, intesa come azioni strategiche per l’acquisizione del potere e del dominio nel senso che il potere degli agenti strategici delle diverse sfere sociali (economica, politica, culturale, eccetera) si indirizza, nel conflitto, verso la costruzione di un blocco egemone per il dominio dell’intera società. Tale dominio non è mai definitivo ma temporalmente dinamico proprio a causa del continuo e ineliminabile conflitto per conquistare il potere e il dominio sociale (rimanendo nell’ambito dell’ordine simbolico maschile). E’ nel suddetto blocco egemone che si gioca l’egemonia degli agenti strategici espressione della potenza di fuoco rappresentata simbolicamente dal denaro accumulato con tutti i mezzi legali e illegali (Vincenzo Ruggiero). Le relazioni nelle diverse sfere sociali hanno un comune denominatore che è dato dal rapporto di potere che nelle diverse sfere (economica, politica, eccetera) si configura in maniera diversa tra chi ha gli strumenti (che variano da fase a fase della storia umana sessuata) per conquistare il potere (la minoranza) e chi non ha niente (la maggioranza).

Chi si deve far carico, nel breve-medio-lungo periodo, di queste questioni: una forza nuova, un nuovo principe sessuato o altro?

L’importante è non scordare la lezione attuale di Karl Marx quando afferma: << È né più né meno che un inganno sobillare il popolo senza offrirgli nessun fondamento solido e meditato per la sua azione. Risvegliare speranze fantastiche […] lungi dal favorire la salvezza di coloro che soffrono, porterebbe inevitabilmente alla loro rovina: rivolgersi ai lavoratori senza possedere idee rigorosamente scientifiche e teorie ben concrete (corsivo mio, LL) significa giocare in modo vuoto e incosciente con la propaganda, creando una situazione in cui da un lato un apostolo predica, dall’altro un gregge di somari lo sta a sentire a bocca aperta: apostoli assurdi e assurdi discepoli.

In un paese civilizzato non si può realizzare nulla senza teorie ben solide e concrete; e finora, infatti, nulla è stato realizzato se non fracasso ed esplosioni improvvise e dannose, se non iniziative che condurranno alla completa rovina la causa per la quale ci battiamo. L’ignoranza non ha mai giovato a nessuno! (Hans Magnus Enzensberger, a cura di, Colloqui con Marx e Engels, Einaudi, Torino, 1977, pag. 53).

CONFLITTI TRA STATI E AUTONOMIANAZIONALE. PERCHE’?

di Gianfranco La Grassa

1. Tratto normalmente Stato, paese o anche nazione quasi si trattasse di sinonimi. So che non è così, ma per quanto riguarda quanto devo dire in merito al problema dell’autonomia nazionale, credo si capisca comunque il discorso. Ammetto di non sapere mai con precisione che cosa debbo intendere con la parola Stato. Mi sembra che se ne parli sempre in modo metafisico o quasi; e in ogni caso come ci si riferisse ad un vero e proprio soggetto, di cui si possa disquisire quasi avesse volontà, desideri, intendimenti, finalità, ecc. propri, esattamente come quando si parla di un singolo individuo umano o di un determinato gruppo sociale, insieme di individui espletanti funzioni specifiche o che assuma decisioni in comune. Diciamo pure che per Stato si potrebbe intendere un grande raggruppamento di individui, in genere con ben preciso insediamento territoriale definito da confini, spesso (ma non sempre) unito da una sola lingua, che accetta un dato complesso di regole di comportamento fissate da leggi e il cui non rispetto viene sanzionato mediante un sistema di perseguimenti e di punizioni posto in atto da organi unanimemente accettati nel loro funzionamento a tali fini.

Preferirei tuttavia che si specificasse meglio il complesso, strutturato, di apparati che costituisce quello che chiamiamo Stato, sia nell’esercizio dei compiti relativi all’intero territorio posto sotto la sua potestà sia in quello decentrato nelle diverse parti in cui è suddiviso quest’ultimo. In particolare, darei la massima rilevanza a quegli apparati addetti all’esercizio della Politica, intesa quale insieme organico di mosse – che possiamo definire strategia – compiute per raggiungere determinate finalità all’interno di un dato paese così come all’esterno d’esso, nei confronti degli altri paesi. Un conto è quella che potremmo definire l’amministrazione di determinati affari riguardanti il coordinamento d’insieme di una data comunità territoriale (suddivisa in diversi gruppi sociali); un altro è il vero potere di esplicare la Politica diretta all’interno o all’esterno di quel paese. Il controllo degli apparati dotati di tale potere è il vero oggetto della lotta che si svolge tra diverse associazioni di individui (partiti o altri organismi di vario genere).

Di questi apparati (di potere) si dovrebbe soprattutto discettare per meglio definire i compiti che si pone chi intende perseguire l’autonomia del proprio paese. In questi ultimi anni si era diffusa una particolare concezione, che tuttavia mi sembra oggi un po’ in decadenza. Si sosteneva la fine della funzione degli Stati nazionali. Con ciò s’intendeva sostenere precisamente che quegli apparati di potere (interno ed esterno), di cui ho appena detto, non avevano più alcun reale compito in quanto ormai il potere in questione spetterebbe ad organismi sovranazionali, in particolare di carattere finanziario; vere massonerie che ormai comanderebbero in tutto il mondo o quasi. A tali organismi dovrebbero ribellarsi tutti i cittadini (le “moltitudini”), senza più distinzione di questo o quel paese (di tutto il mondo appunto). Tale tesi, che sembra voler essere una sorta di versione aggiornata e moderna dell’antico “internazionalismo proletario” (essa è in genere propagandata da vecchi arnesi della pseudo rivoluzione sessantottarda e sue propaggini ulteriori), mira di fatto a salvaguardare il potere di quei gruppi che, all’interno di ogni paese, controllano gli apparati statali in questione (sia rivolto all’interno che verso l’estero). I “vecchi arnesi” sono ormai parte integrante, e subordinata, dei gruppi dominanti.

In realtà, in ogni paese (o nazione, se si preferisce) vi sono gruppi dominanti dotati di potere (decisionale), che controllano gli apparati statali di cui stiamo parlando; questi sono costantemente in funzione, per nulla superati e riposti in un qualche museo. Il problema è diverso. Esistono complessi (e spesso ben mascherati) legami internazionali tra i vari gruppi decisionali nei diversi paesi. E tali legami assicurano a quelli attivi nei paesi preminenti – oggi sopra tutti stanno gli Stati Uniti – un particolare potere di “influsso” (chiamiamolo così) sui gruppi decisionali di paesi che si pongono in una determinata filiera di potere via via discendente; per cui abbiamo gruppi che potremmo definire subdominanti, subsubdominanti, ecc. fino a quelli via via sempre più subordinati. I gruppi di potere nei vari paesi, anche i più subordinati, hanno pur sempre capacità decisionali nell’ambito degli apparati statali appositamente addetti alla Politica, alla strategia, alle mosse da compiere per giungere a certe finalità interne ed esterne. Semplicemente, i loro poteri decisionali si subordinano a quelli dei gruppi dominanti di altri paesi, secondo una gerarchia che muta di fase storica in fase storica; e ha gradazioni differenti anche nell’ambito di ognuna di queste fasi.

Tanto per fare un “banale” esempio, i gruppi decisori italiani sono sempre stati subordinati a quelli statunitensi dalla fine della seconda guerra mondiale. E oggi siamo sempre in quella fase storica iniziata nel 1945, in cui sono stati creati vari organismi per sanzionare la supremazia Usa, fra cui la NATO e poi le varie organizzazioni intereuropee, fino a questa indecorosa UE. Tuttavia, il grado di subordinazione dei gruppi decisori italiani ha avuto un netto scatto in crescita con la fine della prima Repubblica, con la sporca operazione di falsa “giustizia” denominata “mani pulite” e tutto ciò che ne è seguito. E oggi appare in ulteriore continuo accrescimento.

Bene, una volta chiarito questo punto, e dichiarata pura mistificazione la tesi della fine degli Stati nazionali, passerò ad un altro ordine di considerazioni. In effetti, la nostra attuale attenzione ai problemi dell’autonomia nazionale potrebbe sembrare un semplice cambiamento di impostazione teorica. In quanto marxisti, eravamo interessati un tempo alla lotta di classe e al problema dell’abbattimento e trasformazione della società capitalistica; ci siamo oggi innamorati della geopolitica, dell’interazione tra Stati? Oppure siamo stati folgorati da una visione nazionalistica e quindi abbandoniamo ogni discorso di conflitto (in verticale) tra classi per abbracciare quello (in orizzontale) tra comunità nazionali? Non è affatto questa la nostra effettiva posizione.

2. Personalmente, continuo a ritenere importante, in linea di principio, la struttura dei rapporti sociali (rapporti tra diversi gruppi in cui è suddivisa la società). Proprio per questo, malgrado la mia critica non marginale al marxismo, continuo tuttavia ad avere grande attenzione per tale teoria della società. E, sempre in linea di principio, la ritengo più avanzata rispetto all’individualismo tipico delle teorie liberali. Tuttavia, in Marx è fondamentale, nella costituzione di società, la sfera produttiva. In una sua lettera a Kugelman (mi sembra del 1864) si afferma che anche i bambini sanno che, se non si producesse nulla per un breve periodo di tempo, ogni società verrebbe a dissolversi. E’ quindi logico che i rapporti sociali per questo pensatore decisivi sono quelli di produzione. E simili rapporti si annodano intorno al problema della proprietà (potere effettivo di disposizione) o meno dei mezzi produttivi. In base a quest’ultima, Marx distinse, nella società capitalistica, la classe borghese (i proprietari) e quella proletaria (o operaia) solo in possesso della propria capacità lavorativa da vendere in qualità di merce come ogni altro bene circolante nella società in questione. Da qui – corro perché ho scritto in proposito ormai centinaia di pagine – deriva l’ipotesi della dinamica capitalistica che avrebbe condotto infine ad una borghesia assenteista rispetto alla direzione dei processi produttivi, mentre in questa sfera sociale si sarebbe andato consolidando un corpo di produttori associati; dal massimo gradino dirigente fino all’ultimo di carattere esecutivo. Già nel grembo del capitalismo, quindi, si sarebbe formata la condizione base della nuova società socialista, primo gradino di quella comunista.

Nulla di tutto questo si è storicamente verificato; in nessuna delle società a capitalismo avanzato si è mai andato costituendo il “lavoratore collettivo cooperativo” (i produttori associati) così come previsto da Marx. E, soprattutto, le rivoluzioni più radicali si sono avute in società a prevalenza contadina e non operaia. Il cosiddetto socialismo del XX secolo – o quanto meno la “costruzione” (solo presunta purtroppo) dello stesso – si è rivelato essere una società estremamente verticistica, in cui la sfera produttiva era completamente sottomessa alla direzione di quella degli apparati del potere strettamente politico. Non intendo qui diffondermi su che cosa è stata questa particolare formazione sociale venuta a crearsi con le rivoluzioni guidate da partiti comunisti in paesi sostanzialmente precapitalistici. Mi sembra comunque evidente che non si è creata alcuna società socialista nel senso marxiano del termine. Lascio perdere i tentativi di diffondere l’idea (del resto tarda, ultimo sbiadito tentativo di difendere l’indifendibile) che si trattava di un “socialismo di mercato” (questa la definizione data della Cina odierna da alcuni “ritardati”).

Di fronte al fallimento storico di un movimento rivoluzionario guidato da una specifica teoria – del resto ormai molto modificata rispetto all’originale e ridotta a pura agitazione di tipo ideologico con presa sempre minore fino al suo azzeramento – ho proposto già da tempo l’abbandono del principio guida della proprietà o meno dei mezzi produttivi, andando invece nella direzione della Politica intesa appunto quale conflitto tra le strategie di più gruppi sociali in cerca di una supremazia nel controllo dei vari apparati funzionanti nelle diverse sfere sociali: produttiva, politica, ideologico-culturale. Credo che questo mutamento abbia effetti abbastanza positivi nella considerazione realistica delle lotte sociali sussistenti all’interno della società in cui viviamo; anche perché fa vedere come gli “attori” in conflitto non siano, prevalentemente, quelli attivi nella sfera produttiva, ma vi siano invece svariati rapporti, e spesso piuttosto stretti, tra agenti in opera nelle diverse sfere per la conquista di una supremazia sociale complessiva. Tuttavia, è ovvio che la teoria del conflitto tra strategie non consente alcuna divisione netta tra le classi in lotta, riducendole a due soltanto. E non pone in luce alcuna dinamica, intrinseca all’attuale formazione sociale di tipologia capitalistica, diretta alla sua trasformazione in altra nettamente differente che possa pensarsi quale fase di transizione ad una qualsiasi forma di socialismo o comunismo.

I gruppi sociali, insomma, non possono essere definiti classi nel senso in cui queste erano intese nel marxismo in base al criterio, rivelatosi piuttosto semplicistico, della proprietà o meno dei mezzi produttivi. Inoltre, tali gruppi non possono mai ridursi a due; a meno che il conflitto diventi tanto acuto da spingere vari gruppi ad allearsi tra loro in modo che, alla fine, si trovano a confrontarsi due schieramenti contrapposti, che non saranno mai comunque due classi in lotta, ma due coacervi di gruppi riunitisi per le concrete esigenze “di combattimento” in quella particolare fase storica e in quella determinata formazione sociale, in cui si è prodotto un contrasto così netto e ormai irrisolvibile con semplici mediazioni. Vi è di più. Si possono verificare – per contingenze non riconducibili all’intenzione consapevole di trasformare quella data formazione sociale in un’altra considerata superiore – dei cosiddetti “sollevamenti di masse”, causati dal malcontento e disagio sociale particolarmente acuti, in genere susseguenti all’incapacità ormai manifesta di coloro, che hanno in mano gli apparati del potere, di saperli gestire in modo minimamente appropriato ai bisogni complessivi di quella società. Questi sollevamenti non produrranno mai effetti stabili e di reale trasformazione, se nel loro ambito non agiscono dati nuclei dirigenti dei “malcontenti”, che possono allearsi, in genere solo temporaneamente, per dare risposta alla gravità della crisi provocata dalla suddetta incapacità dei vecchi nuclei al potere.

In ogni caso, sia se si producono, abbastanza raramente, situazioni così estreme sia se ci si trova in una situazione di più “normale” e non sconvolgente conflitto tra strategie per ottenere la supremazia (in base ad esigenze di lungo periodo o invece per risolvere problemi di portata momentanea e d’ambito ristretto), non si è in presenza del semplificato scontro tra dominanti e dominati di cui troppo spesso si blatera. In un certo senso esiste un confronto, più o meno serrato, tra gruppi sociali con maggiori o minori (in certi casi magari nulle) prerogative decisionali. Tuttavia, nel reale conflitto, sempre condotto in base alla Politica (cioè secondo varie linee strategiche), si enucleano alcune élites dirigenti, che tendono a rappresentare più gruppi sociali. E anche quando si tratti di gruppi formati principalmente da “non decisori”, le loro dirigenze partecipano comunque, con maggiore o minore forza, alle decisioni sociali di maggiore portata. Esempio tipico ne è la lotta sindacale. I nuclei dirigenti di quei gruppi situati alla base della piramide sociale (i cosiddetti ceti lavoratori) non sono certo privi di qualsiasi potere decisionale in merito a questioni interessanti l’intera collettività di quel dato paese.

3. Giungiamo adesso al problema centrale che ci interessa. E che ci interessa – almeno per quanto mi riguarda e riguarda, credo, anche coloro che con me hanno dato vita a “Conflitti e Strategie” – proprio in quanto abbiamo dovuto prendere atto del fallimento delle finalità poste al movimento delle cosiddette “masse popolari” da una data concezione dello sviluppo sociale, quella concezione che è appunto il marxismo. Si è dovuto prendere atto che non c’è stata finora alcuna effettiva possibilità di evoluzione dell’attuale società verso strutture di rapporti da definire oltre-capitalistiche. Quello che abbiamo sempre chiamato capitalismo (e così continuiamo a denominarlo) si è andato indubbiamente trasformando profondamente rispetto al suo punto di partenza; o anche semplicemente considerando l’ultimo secolo. Tuttavia, alcuni suoi moduli non si sono modificati; non si è certo giunti al rivolgimento della sua configurazione piramidale caratterizzata dalle concentrazioni imprenditoriali e dal correlato assetto degli apparati politici, fortemente verticistico anche nei paesi dove si ciancia sempre di “democrazia parlamentare” e si esaltano le periodiche “chiamate al voto”, che si fanno passare per espressione genuina della “volontà popolare” in grado di governare gli affari del paese, sempre invece nella sostanza affidati a contrapposizioni tra date élites.

Intendiamoci bene. Nessuno di noi svaluta quelle lotte sociali che mirino a migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle più vaste “masse” situate nei gradini medi e bassi della piramide sociale. E dobbiamo ammettere che oggi, anzi, quelle lotte stentano perfino a mantenere vecchie “conquiste” in tema di benessere. Di conseguenza, un rilancio di queste lotte sarebbe senz’altro visto da tutti noi con estremo favore. Tuttavia, dobbiamo rilevare alcuni semplici fatti. Simili lotte diventano sempre più difficili, sono viepiù spezzettate e condotte spesso in modo da lasciare largo spazio a quella divisione tra strati sociali medio-bassi che favorisce i vertici della società (il ben noto “dividere per imperare”). E’ però un caso che ciò avvenga? E soprattutto nella presente fase storica (che dura da due-tre decenni)? Non posso dilungarmi nella considerazione delle condizioni storiche che avevano consentito un qualche elevamento della posizione degli strati sociali in questione. Noto solo che l’attuale peggioramento di tale posizione dimostra a iosa come non si fosse compiuto alcun decisivo passo in direzione dell’indebolimento di quella società denominata capitalismo.

Si è dovuto constatare un fatto ancora più rilevante per le nostre convinzioni ideologiche (e anche teoriche). Sia l’iniziale successo (relativo) di certe lotte sociali, sia la loro crescente irrilevanza attuale, sono fondamentalmente dipesi dalla predominanza di fatto che sempre hanno mantenuto gli Stati Uniti dalla seconda guerra mondiale in poi. Credevamo che il mondo bipolare fosse un contrasto tra capitalismo e socialismo. Siamo stati messi in crisi dalla rottura tra Urss e Cina, ma non abbiamo interpretato correttamente (e non sappiamo farlo ancora adesso) che cosa in realtà fosse accaduto. Abbiamo preso il successo di certe lotte anticoloniali (vedi Vietnam) come si trattasse di un allargamento del campo “socialista”; un allargamento durato l’espace d’un matin, con conflitto tra Vietnam e Cina e poi il progressivo spostarsi di quel paese verso l’orbita statunitense (sia pure dopo il crollo dell’Urss, che comunque non è stato un caso “sfortunato”). Oggi dobbiamo prendere atto – in una considerazione di più lungo periodo; ed è su questo che la storia deve essere “misurata” nei suoi effettivi andamenti – che gli Stati Uniti sono stati sempre il perno più solido dell’andamento degli affari mondiali.

In definitiva, è ora di ammettere infine che non esiste più da molto tempo (ammesso che sia mai esistita nei termini pensati dai marxisti) la lotta di classe su cui tante speranze erano un tempo riposte. Non esiste soprattutto un antagonismo tra due grandi blocchi sociali alternativi, foriero di trasformazioni anticapitalistiche. Nei paesi a capitalismo sviluppato – che ha conosciuto varie trasformazioni da giudicarsi interne a quel certo “modulo” sociale – si sono verificati contrasti, anche assai forti a volte, che sono sempre stati di tipo redistributivo; soprattutto di reddito, in parte anche di potere. E’ tuttavia mancato proprio l’effetto che alcuni attribuivano a tale conflitto, la trasformazione in senso anticapitalistico. Chiunque ancora ne parli – ormai alcuni rimasugli di dementi – va proprio ignorato. Ripeto che questo tipo di lotte va appoggiato proprio per quello che può al massimo conseguire: la difesa delle condizioni di vita e di lavoro dei ceti medio-bassi, oggi in deciso peggioramento. E sempre con la precisa consapevolezza che simili conflitti sono diretti da determinati gruppi dirigenti politici e sindacali, i maggiori beneficiari degli eventuali risultati positivi dello scontro, oggi piuttosto rari.

Cosa invece si nota nettamente nell’attuale fase storica? I conflitti più acuti e più significativi sono quelli tra Stati. Di conseguenza, diventa in un certo senso scopo preminente seguire gli eventi di quella che è la politica internazionale, l’interrelazione tra i diversi Stati, lo stabilirsi di determinati rapporti di forza tra essi, il loro eventuale modificarsi i cui effetti ricadono immediatamente anche sull’andamento dei sistemi economici. Tuttavia, abbiamo già ricordato come gli Stati siano un insieme organico di svariati apparati, di cui alcuni sono quelli adibiti all’effettivo uso del potere (mentre altri hanno un carattere più propriamente amministrativo, diciamo così). E’ allora rilevante la comprensione dei contrasti in atto tra quei gruppi d’élite che si battono per il controllo e l’uso di tali apparati. Poiché questo “battersi” è appunto la Politica, è un intreccio tra differenti strategie svolte per conquistare la supremazia, i gruppi d’élite (se tali sono effettivamente) debbono essere strettamente correlati con dati nuclei in cui si elaborano le strategie. E poiché le mosse della Politica mirano al successo nell’ambito di uno scontro tra le varie élites, la segretezza è d’obbligo; e ogni venir meno della stessa o è una di queste mosse o è lo sgretolamento della “copertura” (lo sbucciarsi della “corteccia”) dovuto ad un acuirsi del combattimento tra due o più “attori”.

Del resto ho già ricordato un fatto ben noto a chiunque segua minimamente le vicende politiche. Non esistono élites dirigenti dei gruppi sociali nei diversi paesi, che non siano variamente interrelate tra loro in senso economico, politico, culturale. E certamente nel nostro paese, e più generalmente in tutti i paesi europei, in misura maggiore o minore queste élites sono strettamente collegate con quelle statunitensi, ponendosi nei loro confronti in una situazione di maggiore o minore subordinazione. In questo senso, gli Stati Uniti sono ancor oggi il centro di un ampio sistema mondiale di paesi; in particolare, hanno la guida, per quanto a volte appena mascherata, dell’intera UE che, come già detto, è in definitiva un’organizzazione parallela a quella della NATO. E’ impossibile seguire le vicende politiche interne di un qualsiasi paese europeo senza tener conto dei rapporti di subordinazione rispetto al paese predominante. Questo è particolarmente valido per l’Italia, paese la cui subordinazione è di alto livello e va crescendo. E continuerà a crescere per quanto diremo subito appresso.

4. Con quanto appena sostenuto, sia pure succintamente, abbiamo svelato il “segreto” della nostra pretesa preferenza – soltanto temporanea e secondo me obbligata dai “fatti” – per la politica internazionale e per il tema dell’indipendenza o autonomia di singoli paesi; ma non certo per spirito nazionalistico, ci mancherebbe altro! Abbiamo semplicemente preso atto della fine della ormai “mitica” lotta di classe; e constatiamo che attualmente sono in ribasso perfino le lotte sindacali per la semplice “redistribuzione”, pur anche soltanto nel tentativo di evitare l’arretramento delle cosiddette “conquiste sociali” di alcuni decenni fa. Dopo circa mezzo secolo di mondo bipolare e con i pericoli, spesso esagerati e montati a bella posta, relativi alla “guerra fredda”, si è avuto il “crollo” del campo sedicente socialista ed è sembrato che ci si avviasse verso una sorta di monocentrismo Usa. La sensazione è durata poco e ormai, malgrado sia ancora predominante quel paese, pare assai probabile che ci si avvii intanto verso un multipolarismo per quanto ancora imperfetto. Il caos nel mondo va accentuandosi come sempre avviene in epoche del genere; più volte ho fatto il paragone con la fine del secolo XIX.

In una situazione simile, è del tutto evidente un crescente impegno degli Stati Uniti per accentuare la presa sull’Europa e scongiurare quanto indubbiamente sembra serpeggiare al suo interno con il rafforzarsi di movimenti detti “euroscettici”; per quanto essi sembrino ancora abbastanza deboli e del tutto confusionari. Il “Trattato transatlantico” (TTIP) dal punto di vista economico (che ha sempre riflessi politici), gli sconvolgimenti, più o meno ben riusciti, suscitati nel Nord Africa e in Medioriente, la crisi ucraina (dopo il primo approccio in Georgia), l’impulso dato alle organizzazioni islamiche “estremiste” poi ovviamente combattute (con forti ambiguità e senza ancora una conclusiva decisione), le situazioni estremamente confuse e di sostanziale stallo (pur assai sanguinoso) in Libia e Siria, così come altre egualmente poco chiare (in Egitto come in Turchia o Iran, ecc.),sono operazioni che avranno certo motivazioni legate ai rapporti di forza nelle aree interessate; e tuttavia non vi è dubbio che il principale obiettivo degli Stati Uniti è, in ultima analisi, il mantenimento della presa in Europa e l’isolamento massimo possibile della Russia.

Se veniamo al nostro paese, credo che esso sia abbastanza importante per le suddette finalità perseguite dagli Stati Uniti. La posizione geografica dell’Italia è in tutta evidenza significativa per le operazioni nelle aree investite, non sempre direttamente, dagli Usa (con l’Amministrazione Obama ci si è largamente serviti di “sicari”). Tuttavia, con l’operazione “giudiziaria” che mise fine alla prima Repubblica (solo dopo il crollo del campo “socialista”) si è reso del tutto manifesta la funzione che a noi spetta nelle intenzioni americane di tenere strettamente agganciata l’Europa. Dobbiamo essere decisamente affermativi in proposito. L’Europa è l’area in cui ancora si giocheranno i destini del probabile prossimo scontro policentrico per conquistare una nuova centralità preminente (uno scontro non temporalmente vicino, meglio essere espliciti in proposito). E l’Italia è paese fondamentale per il controllo europeo. Ci sono forti tendenze – a mio avviso tutte ben finanziate da chi di dovere – a sostenere l’ormai irreversibile decadenza europea e la crescente dipendenza italiana. Sia chiaro che l’ultimo premier (il ben noto sedicente tecnico sempre in linea da dove soffia il vento) è in realtà un commissario di poteri stranieri e soprattutto americani.

Mai si era visto in quest’area e in questo paese un degrado sociale (e culturale) come quello odierno. Tutto questo avviene però proprio perché l’Europa (e, al suo interno, l’Italia) sono aree di importanza decisiva per gli Usa nel loro tentativo di restare preminenti; anzi di arrivare un giorno a porsi in una situazione di sostanziale monocentrismo, magari attraverso un futuro regolamento generale di conti. In questa fase, la pressione Usa sul nostro paese è massima, anche se non viene solitamente rilevata perché ovviamente non si esprime con le vecchie modalità. Di conseguenza, nella presente fase storica di non breve momento, chiunque straparli di lotta anticapitalistica, inganna scientemente quelle minoranze che cominciano a rendersi conto della situazione di degrado e sfascio sociale (e anche istituzionale), in cui ci hanno condotto le forze politiche padrone  dell’andamento degli “affari” nel nostro paese.

Non ci sono per nulla prospettive di superamento del capitalismo in Italia (e in Europa); e nemmeno si saprebbe in che direzione si dovrebbe andare in una simile fantasiosa prospettiva. Ripeto che nessuno (di noi) si oppone a che i ceti medio-bassi difendano le proprie condizioni di vita aggredite dal potere esistente. Questo però non significa avere la forza (e le idee) in grado di abbattere il capitalismo (e di quale si sta parlando, del resto, se non a vanvera?). E non c’è nessuna difesa possibile se restiamo un paese governato da élites che si pongono nella relazione di subordinazione rispetto a quelle del paese predominante. E’ di una evidenza palmare che il primo passo da compiere è (diciamo sarebbe) togliere il governo ai servi del potere statunitense. E vorrei essere preciso. Quando parlo in questo contesto di governo non mi riferisco soltanto a quelle forze politiche che hanno in mano la direzione dell’Italia. Tutte quelle oggi in campo sono invischiate in quel gioco elettorale che fa dimenticare ogni problema di reale potere, con il mero scopo di conquistare favori nell’“opinione pubblica” onde migliorare la propria posizione all’interno dell’attuale struttura politica, comunque sempre subordinata alla predominanza degli Stati Uniti.

Ecco allora spiegato perché è indispensabile battersi oggi per un minimo di autonomia nazionale (lo ripeto: senza ideologie nazionalistiche!). E per porsi in quest’ottica, è necessario dedicare i nostri sforzi soprattutto all’analisi degli intrecci internazionali tra i vari paesi; nelle loro filiere di predominanti, subdominanti, subsubdominanti….ecc. fino alle ultime propaggini della subordinazione, laddove siamo tutto sommato situati noi italiani. E mi sembra lampante che passi in avanti di questa autonomia sarebbero favoriti dall’affermarsi crescente della tendenza al multipolarismo. Quindi ci si deve battere per il rafforzamento delle relazioni – non solo economiche, bensì proprio politiche e di collegamento tecnico-scientifico e di “Informazione” e magari anche militari – con i paesi che hanno maggiori prospettive “oggettive” di ergersi quali antagonisti degli Stati Uniti; e fra questi, a mio avviso, il principale è la Russia (senza per questo trascurare la Cina). Nessuna particolare simpatia per questo paese e nessuna particolare antipatia per gli Stati Uniti. Semplicemente, è necessario battersi per l’accentuarsi del multipolarismo e, dunque, per la nostra autonomia. Multipolarismo e indipendenza sono in relazione biunivoca. E sono il primo compito per la fase attuale.

5. C’è poco da aggiungere, io credo. Ritengo auspicabile – nella fase storica che viviamo e che non sarà di breve momento – una politica tesa all’autonomia dei paesi europei rispetto a quello ancora oggi preminente, pur se a mio avviso procediamo, in modo certo non lineare e continuo, verso una situazione multipolare. Qualcuno potrebbe obiettare che sarebbe bene allora battersi per una profonda revisione dell’attuale organizzazione dell’Europa Unita in modo da ottenere l’effetto voluto. Credo che ci si avvierebbe lungo una strada fallimentare. La UE non mi sembra affatto riformabile per come è nata e si è andata configurando sulla base dell’accettazione di una chiara subordinazione – sia pure con accenti diversi nei vari paesi – agli Stati Uniti. Mi sembra anche non molto chiara l’agitazione di alcuni movimenti per l’uscita del proprio paese dalla UE e dall’euro.

Il problema centrale è la lunga subordinazione che, soprattutto i più sviluppati paesi europei (quelli “occidentali”), hanno dovuto subire rispetto agli Usa. Bisogna invertire questo processo – economico, politico, culturale – di dipendenza. Per far questo, nei vari paesi europei devono crescere movimenti consapevoli della difficoltà e complessità di tale compito, che comporterà infine la necessità di abbattere con energia i governi del servilismo. E’ un processo che va sviluppato all’interno dei vari paesi; e che, se avrà successo, lo avrà in modi e tempi specifici per ognuno d’essi. Ogni movimento dovrà rispettare le caratteristiche del proprio paese, delle proprie popolazioni (e, in questo senso, tornerà utile anche l’analisi delle differenti strutture dei rapporti sociali).

I movimenti di autonomia devono senza dubbio ricercare il reciproco collegamento nel contesto europeo, ma senza mai dimenticare le differenze del proprio paese rispetto agli altri; pena il diffondersi di una nuova “mistica” europeista che ha già prodotto in passato i guasti che vediamo oggi sotto i nostri occhi. E’ stata proprio la propaganda di questa idea di una generica Europa unita a consentire il prevalere nella nostra area di élites dirigenti che – oggi finalmente è venuto in chiara luce – si sono piegate, spesso con pingui finanziamenti, agli intendimenti e voleri degli Stati Uniti. Alcuni si saranno anche “venduti”, ma altri hanno superficialmente creduto che, come si erano fatti gli Stati Uniti d’America, si potessero fare quelli d’Europa, i cui paesi hanno ben più complessa e “antica” storia. E sono sempre stati in costante antagonismo d’interessi; per molto tempo perfino bellico, oggi con altre modalità. Pur sempre politiche, lo si tenga presente. Chi insiste sui problemi del dominio della finanza e altre superficialità consimili, è al servizio – consapevole o meno – degli interessi dei gruppi subdominanti europei legati ai dominanti statunitensi.

Ulteriore problema. Malgrado molti paesi europei siano economicamente piuttosto avanzati, è altrettanto evidente la loro debolezza politica e – perché voler essere pacifisti ad oltranza – bellica. Ogni movimento che si batta per l’autonomia del proprio paese – lo ripeto ossessivamente, autonomia soprattutto in direzione degli Usa – dovrà non soltanto cercare i collegamenti con i propri simili europei, bensì sviluppare precise politiche verso est; in particolare nei confronti della Russia. Inutile nascondersi che simili politiche potrebbero un giorno provocare il passaggio dalla tendenza multipolare all’affermarsi di un reale policentrismo conflittuale, con tutti i rischi che ben conosciamo dal XX secolo. Se si teme questo, è inutile mettersi sulla strada dell’autonomia; si resti subordinati come lo si è adesso.

E veniamo così all’ultimo punto. Ci sono molti sciocchi che credono ad un’Italia di benessere diffuso sulla base del turismo, sfruttando i suoi mari blu, i cieli azzurri, le cosiddette bellezze paesaggistiche (come se altrove mancassero), i suoi cibi (che nemmeno gli italiani più giovani sanno ormai apprezzare); e altre litanie del genere. Se l’Italia rimane a questo livello, resterà pure tranquillamente subordinata; e avvizziranno progressivamente in essa tutti quei settori che consentono il maggiore sviluppo di un qualsiasi paese nell’epoca moderna (a meno che non si tratti di quei paeselli, magari isole, che sono piccole oasi per i “ricchi del mondo”). E mancando l’autonomia e il tipo di sviluppo ad essa connesso, inutile anche pensare a chissà quali possibilità di lotta sociale per difendere le proprie condizioni di vita, soprattutto da parte dei già più volte ricordati ceti medio-bassi.

Lasciamo perdere per favore la lotta anticapitalistica; abbiamo una concezione arretratissima di capitalismo, ancora primonovecentesca se va bene. Non abbiamo assolutamente l’idea di quel che dovrebbe essere una società non più capitalistica (a parte le ubbie anti-grande finanza diffuse oggi). Ho però sostenuto che è approvabile la resistenza dei ceti meno abbienti di fronte ad un chiaro peggioramento delle prospettive nei nostri paesi detti avanzati. E’ bene mettersi in testa che in un periodo di multipolarismo in accentuazione, si amplifica il “caos” nelle relazioni internazionali; e non solo politicamente, ma pure economicamente. In poche parole, quella che chiamiamo crescita (aumento del Pil) non conoscerà andamenti travolgenti per molto tempo. Molti finalmente cominciano ad arrivare a simili conclusioni. Tuttavia, la debole (o nulla) crescita non impedisce uno sviluppo, cioè un miglioramento di certe strutture sociali e

l’arresto del progressivo smantellamento delle “conquiste” ottenute già da tempo.

Tuttavia, non vi sarà nulla di tutto questo se si cede sul punto dell’autonomia propria, dello sviluppo di settori innovativi che la subordinazione invece sacrificherà sempre più. Cari “amici delle lotte sociali”, volete che possano essere ancora condotte almeno in un certo grado? Ebbene, battetevi per l’autonomia del paese rispetto all’attuale piatta subordinazione agli Stati Uniti. Battetevi per una diversa politica internazionale. Invece di fissarvi sul superamento del capitalismo (che si supera da solo in sempre nuove forme che vi lasciano poi a mani, e testa, vuote), concentratevi sull’attuale evoluzione dei rapporti di forza tra Stati (paesi), in modo da giocare nel suo ambito con opportune politiche di “nuove alleanze” al fine di non veder peggiorare gravemente le condizioni del vostro paese e, dunque, dei ceti sociali in esso meno favoriti.

E con questo fervorino finale, veramente Amen.

http://www.conflittiestrategie.it/conflitti-tra-stati-e-autonomia-nazionale-perche

CONOSCENZA E IDEOLOGIA, FEDELTA’ E RINNEGAMENTO, di Gianfranco La Grassa

CONOSCENZA E IDEOLOGIA, FEDELTA’ E RINNEGAMENTO

Come chiarì Althusser siamo sempre dentro un’ideologia; scopriamo quella di altri, di epoche passate soprattutto, mettiamo in luce ciò che quell’ideologia tendeva a mascherare, ma altri dovranno poi far risaltare la nostra e quali problemi essa ha occultato o quanto meno distorto.

Diceva Schumpeter, con analogia riferita agli aeromobili, che l’ideologia è come l’attrito dell’aria: frena il movimento, obbliga ad un surplus di energia consumata per muoversi, anzi per accelerare il movimento stesso, ma consente poi di alzarsi da terra e prendere il volo. Nel suo significato positivo, l’ideologia è dunque un punto di vista da cui guardiamo ai “fatti” e ai “processi”; un punto di vista che dipende pure da una “scelta di campo”, da una “presa di partito”. Nelle analisi del mondo che ci circonda e in cui ci muoviamo dobbiamo per quanto possibile mantenere un atteggiamento “oggettivo”, tendenzialmente spassionato, ma non possiamo attenerci ad una oggettività assolutamente imparziale che consenta di riprodurre la realtà così com’essa è. Nessuna completa “asetticità” è possibile, nessuna esclusione esaustiva delle nostre “passioni”, che sono invece un alimento della ricerca, stimolano l’intuizione di nuove “verità” (in effetti, di nuovi “punti di vista”), selezionano il materiale concreto che ci si affastella davanti, guidano la disposizione dei vari pezzi da noi scelta nel tentativo di ricostruire il quadro complessivo della situazione, ma sempre secondo l’angolo d’osservazione preferito, ecc. ecc.

I “fatti” e “processi”, che non possiamo riprodurre così com’essi sono, hanno comunque “qualcosa di duro”, di irriducibile e non piegabile ai nostri voleri di interpreti; qualcosa che sfugge al senso e alla direzione che ad essi attribuiamo. Questo “qualcosa” si afferma sempre con il passare del tempo. Anche quando inizialmente, e talvolta a lungo, la nostra interpretazione sembra reggere, appare piuttosto soddisfacente, sempre inizia poi, con il passare del tempo, la constatazione che la nostra presa su tali “fatti” e “processi” si è fatta labile, è come una mano che cerca di afferrare un pesce direttamente nell’acqua in cui guizza. L’atteggiamento scientifico è quello che al più presto rimette mano all’“amo” e ci consente così di acquisire il prima possibile la sensazione del mutamento intervenuto, di avvertire la crescente incongruità di date ipotesi e la necessità di intraprendere un’altra strada, sforzandoci di intuire nuove direzioni via via corroborate da indizi, che cogliamo però perché abbiamo cambiato l’angolo del “fascio d’osservazione”. E in questa nuova presa di coscienza mai verrà meno il lato ideologico, riflesso delle nostre rinnovate passioni.

Solo la cristallizzazione in dottrina di vecchie ipotesi, la loro trasformazione in “Principi Immutabili”, crea l’ortodossia e le eresie, la fedeltà e il rinnegamento. Quest’ultimo si configura quasi sempre come tradimento, svendita ad altro punto di vista, ad altra scelta di campo, ad altra presa di partito. Può sembrare che, tutto sommato, il fedele sia meno riprovevole del rinnegato. Certo, dal punto di vista del giudizio sui singoli individui è così; e quando possibile, i rinnegati vanno puniti nel modo più drastico. Tuttavia, la fede incrollabile in qualcosa di ormai morto non consente più una prassi adeguata ai “nuovi tempi”, favorisce quindi anche il rinnegamento che sorge sempre dal crollo di quella fede, con il suo corollario di abietto cinismo privo di qualsiasi passione, di qualsiasi emozione, di qualsiasi volontà di comunque creare il nuovo, il “più grande”, ecc. Va dunque rifiutato e considerato esiziale il mero rinnegamento di quanto si era “creduto” in epoche passate; ma creduto in base ad una riflessione, che sempre deve restare aperta alla problematizzazione ed essere mossa da un “punto di vista” e da una “scelta di campo”. Si rinnega solo quando non ci si apre più ad alcuna nuova riflessione, quando semplicemente si abbandona una fede e si passa al nemico d’essa; punto e basta.

Quando i ripetuti fallimenti, lo sbriciolarsi della nostra prassi retta da vecchie ipotesi, diventano ormai fin troppo evidenti, non vi è alcun rinnegamento nel ripensarle, nel problematizzarle, nel tentare nuove vie che implicano riflessione critica e formulazione – cauta e non dogmatica, non tetragona a possibili cambiamenti perfino in corso d’opera – di nuove ipotesi, che diciamo teoriche solo perché non attengono all’immediatezza del vivere quotidiano, perché si sforzano di attribuire nuove “strutture” (di rapporti) a “fatti” e “processi” di cui cerchiamo nuovamente di venire a capo. Solo gli ossificati, gli sclerotizzati, non distinguono tra il rinnovamento scientifico, anche soltanto tentato, e il rinnegamento puro e semplice. Noi però dobbiamo evitare l’interlocuzione sia con gli sclerotizzati che con i rinnegati, due facce della stessa medaglia, rappresentata dal fallimento e perdita di presa della vecchia prassi guidata dal superato e ormai inservibile impianto teorico.

Oggi molti “ultrarivoluzionari”, tipo i ben noti “sessantottardi”, sono passati completamente nel campo di coloro che essi ritenevano reazionari e addirittura da eliminare. Questi ultimi hanno pure essi mutato le loro posizioni e le loro strutture di potere. Non sono però riusciti a modificare di molto la loro teoria sociale (ed economica), intrisa dell’ideologia “robinsoniana” che si rifà al primato del singolo individuo, la cui “libertà” andrebbe difesa da ogni tentativo di suo indebolimento. Questa concezione, il liberalismo, è in uso fin da troppo tempo e sta procurando progressivamente il degrado della nostra società. L’individuo – che è tale, nessuno lo nega – è sempre immerso in una complessa rete di rapporti ed è da questa “socialmente determinato” come sosteneva del tutto giustamente Marx. I suddetti “ultrarivoluzionari” non hanno capito un accidenti di questo scienziato e lo hanno visto solo come il profeta di una società più “giusta”, priva di conflitti e antagonismi, pervasa da uno spirito di totale comunità. Alla fine essi hanno dovuto prendere atto che la strada intrapresa da certe rivoluzioni “contro il capitale” ha seguito tutt’altro percorso; allora questi ribaldi hanno rinnegato quanto attribuito da dissennati a Marx e sono di fatto tornati alla vecchia ideologia liberale; taluni magari con qualche “mal di pancia” mai però produttivo se non ….di quanto produce il “mal di pancia”.

Tra Marx – con la sua teoria della “determinazione sociale” degli individui, che restano tali, ognuno diverso dagli altri, ma tutti astretti in quella struttura di rapporti sociali specifica di una data epoca storica – e i banali liberal-liberisti, con la loro ideologia “robinsoniana”, non vi è dubbio dove deve cadere la scelta di chi vuol riprendere in mano le sorti della nostra ormai devastata formazione sociale d’inizio del XXI secolo. E chi effettua la scelta secondo me corretta non può però credersi libero da ogni influenza ideologica, a cui lo spinge appunto l’infame e ormai orrida organizzazione sociale che i liberali vogliono continuare a propagandare; e che sempre più serve soltanto a coprire il loro reale cammino verso la soppressione di ogni opposizione a ceti dominanti scellerati e distruttori della nostra plurisecolare civiltà, della capacità di pensiero tipica dell’essere umano.

Tuttavia, chi resta convinto della superiorità di Marx – e anche però di una serie di acute intuizioni leniniane – deve prendere atto di una serie di loro errori di previsione in merito al futuro svolgimento dei processi sociali. Gli errori di previsione sempre si rileveranno ex post poiché ribadisco l’impossibilità di appropriarsi esaustivamente della caotica realtà in cui ci muoviamo; dobbiamo per forza creare schemi (teorici) di interpretazione che la stabilizzino e ci consentano un movimento ordinato. Basta essere consci che questi schemi durano il tempo che durano, poi bisogna adeguarli ai mutamenti del tutto imprevisti del “caos reale”. Quando si parla di “errori teorici” di questo o quello scienziato sia chiaro che ci si riferisce a quanto questo “caos” ci ha sorpreso per la direzione presa dai processi reali. Nell’epoca di quello scienziato, i suoi schemi teorici erano probabilmente realistici, erano quanto di più appropriato egli poteva elaborare. Bisogna solo capire che “il tempo passa” e spesso “l’uomo non se n’avvede”.

Quindi impegniamoci a correggere quelli che definiamo, non proprio in modo corretto, “errori”. Se le previsioni marxiane non si sono realizzate, ci sono evidentemente degli “errori” nella sua elaborazione; datata a “metà del secolo XIX”. Resta a mio avviso la sua decisa (e per me enorme) superiorità rispetto all’insulso individualismo “robinsoniano” dei liberali. Resta la “determinazione sociale” dei vari soggetti (individui) che compongono ogni data forma di società nell’evolvere delle diverse epoche storiche. E resta, aggiungo, la fondamentale differenza dell’“animale” uomo che – solo lui – produce sempre un “di più” rispetto a quanto serve per la semplice sopravvivenza biologica. E lo produce grazie a quella sua caratteristica definita “pensiero”; proprio quella che gli attuali ceti dominanti tendono a far degenerare.

Diamoci da fare, infine; il nostro ritardo è enorme e in parte colpevole.

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