MORALINA, LEGALINA ED ETICA POLITICA, di Teodoro Klitsche de la Grange

MORALINA, LEGALINA ED ETICA POLITICA

1.0 È risaputo che politica e morale (spesso) non vanno d’accordo; lo è parimenti che accusare i propri nemici di essere immorali o amorali è tra i più impiegati topos della propaganda. Ed è altrettanto diffuso ritenere che tra politica ed etica possa esservi antitesi inconciliabile; di guisa che per mostrarsi di una qualità etica superiore, si auspica l’antipolitica1.

A leggere, tra gli altri Croce, questi scrive delle varie forme dell’attività umana e di come l’una tenda a sottomettere l’altra. E ricorda2 che la schietta politica non distrugge, ma anzi genera la morale3. Proprio perché (l’esistenza e) l’attività umana non è possibile se non nella sua interezza4, sostiene “E l’uomo morale non attua la sua moralità se non operando politicamente, accettando la logica della politica”. Ciò significa accettarne i mezzi. Ed è proprio “L’amoralità della politica, l’anteriorità della politica alla morale fonda, dunque, la sua specificità e rende possibile che essa serva da strumento di vita morale”.

A Max Weber dobbiamo, nella ricerca di un’etica politica, la distinzione tra etica della convinzione ed etica della responsabilità5.

La conseguenza è che chi agisce secondo la prima sarà auto-assolto da possibili insuccessi “Se le conseguenze di un’azione determinata da una convinzione pura sono cattive, ne sarà responsabile, secondo costui, non l’agente bensì il mondo o la stupidità altrui o la volontà divina che li ha creati tali”. Al contrario “chi invece ragiona secondo l’etica della responsabilità tiene appunto conto di quei difetti presenti nella media degli uomini; egli non ha alcun diritto… di presupporre in loro bontà e perfezione, non si sente autorizzato ad attribuire ad altri le conseguenze della propria azione, fin dove poteva prevederla”, assumendosi così la responsabilità del proprio operato6. Weber, in modo non dissimile da Croce, riteneva che “L’etica religiosa si è variamente adeguata al fatto che noi apparteniamo contemporaneamente a diversi ordini di vita, soggetti a leggi diverse tra loro” (i corsivi sono miei).

Da ciò deriva che spesso l’etica delle religioni ha adattato all’attività dell’uomo le regole da osservare. Così, per il cristianesimo “accanto al monaco che non può versar sangue altrui e non può trarre profitti, vi sono il pio cavaliere e il borghese, dei quali l’uno va esente dal secondo di quei divieti e l’altro del primo”7.

Dato che la politica è caratterizzata dall’uso della forza è questa che “determina la particolarità di ogni problema etico della politica”. L’apparato di potere (i seguaci o l’aiutantato, come lo chiamava Miglio) ha bisogno di “bottino, potenza e prebende. Il successo del capo dipende…dal funzionamento di questo suo apparato”8; il che comporta l’uso di mezzi per lo più non commendevoli o comunque estranei all’etica (della convinzione). Quindi l’etica della convinzione è del tutto irrealistica e politicamente inopportuna? Non del tutto, sostiene Weber perché “la politica si fa con il cervello ma non con esso solamente. In ciò l’etica della convinzione ha pienamente ragione”9. Senza il riferimento ad un progetto, valori, al “regno dei fini”, la politica diventa un mestiere. Determinare quanto sia opportuno seguire l’una o l’altra etica è difficile da fare a priori. Perché, conclude Weber “l’etica della convinzione e quella della responsabilità non sono assolutamente antitetiche ma si completano a vicenda e solo congiunte formano il vero uomo, quello che può avere la “vocazione alla politica (Beruf zur Politik)”.

2.0 C’è nell’etica della responsabilità un elemento decisivo: che tiene in una considerazione prevalente l’interesse degli altri. È un’etica “sociale” per natura; è pensabile (pienamente) in relazione alla cura d’interessi non propri.

Se, come nel caso, poi la si applica alla politica, occorre tener conto cosa la politica è; e cosa l’istituzione politica – ossia, nella modernità, lo Stato – e per esso i governanti debbano curare. Freund definisce la politica “come l’attività sociale che si propone d’assicurare con la forza, generalmente fondata sul diritto, la sicurezza esterna e la concordia interna di un’unità politica particolare garantendo l’ordine tra i conflitti nascenti dalla diversità e dalla divergenza d’opinioni ed interessi10.

Il pensatore francese per stabilire quale ne sia il fine specifico, parte da Aristotele; per il quale ogni attività umana ha un fine particolare (la salute del paziente per il medico; la vittoria in guerra per lo stratega, e così via). Lo scopo della politica (e dell’uomo politico) è il bene comune, definito come quello “della Repubblica (cioè dell’istituzione) o del popolo che formano insieme una collettività politica”11. Desumendone i caratteri essenziali da Hobbes, il bene comune consiste nella protezione contro i nemici, nella pace, nel benessere e nel godimento d’un’innocente libertà12. Il bene comune è sempre il fine, ma gli obiettivi da raggiungere per assicurarlo variano a seconda della situazione concreta.

Coniugando l’etica “di settore” al fine della politica ne consegue che l’etica del governante prescrive di tutelare e perseguire il bene comune e cioè l’interesse generale (come – per lo più – denominato nei moderni testi costituzionali).

Il fatto che poi il governante non sia sotto il profilo della morale “privata” uno stinco di santo – e di solito non lo è – è irrilevante (o poco rilevante).

Come scrive Croce in un passo tante volte ripetuto – è “l’ideale che canta nelle anime di tutti gli imbecilli”, di auspicare un governo d’onest’uomini, salvo poi, vistane l’inettitudine a guidare lo Stato, rovesciarlo; perché l’onestà politica “non è altro che la capacità politica: come l’onestà del medico e del chirurgo, che non rovina e assassina la gente con la propria insipienza condita di buone intenzioni e di svariate e teoriche conoscenze” (il corsivo è mio). Lo stesso Montesquieu nell’Avertissement all’Ésprit de lois, temendo la confusione tra virtù privata e virtù pubblica (assai vicina all’oggetto qui trattato) chiarisce che parla di questa, come la molla (ressort) che da movimento al governo repubblicano.

3.0 Un problema analogo si è presentato, limitandosi all’epoca moderna senza voler risalire nel tempo (giacché se ne legge già nella Farsaglia di Lucano)13, nel contrasto tra norma giuridica e interesse generale o, meglio, “ragion di Stato”. Dove il contrasto più evidente è nello Status mixtus democratico-liberale (o borghese) perché coniugante principi di forma politica con i principi dello Stato borghese di diritto, tra i quali emerge la soggezione alla legge (anche) del potere esecutivo, che renderebbe invalida, se coerentemente applicata, la deroga alla legge. Cosa che potrebbe compromettere la stessa esistenza della comunità politica e dell’istituzione che la mette in forma. Per cui nelle costituzioni borghesi sono previste forme di deroga: dallo stato d’eccezione e dalle rotture costituzionali, fino alle eccezioni della giurisdizione (per gli Acts politiques) e ai giudizi penali speciali (per funzionari e politici). Si sostiene che certe deroghe ledono il principio d’uguaglianza: ma il carattere dell’istituzione politica, come si legge all’inizio dei manuali di diritto pubblico e costituzionale, è che i rapporti relativi sono tra soggetti giocoforza disuguali (per funzione): tra chi ha il diritto di comandare e chi il dovere di obbedire.

Senza tale disuguaglianza non può esistere unità politica, che è in primo luogo, unità del comando e dell’esecuzione.

4.0 Nella contemporaneità, quanto alla morale, è stato affermato che quella derivante dal “pensiero unico” è moralina “un concetto il cui nome rimanda, da una parte, alla morale e, dall’altra, grazie al suffisso impiegato, a tutte quelle sostanze che danno dipendenza, sostanze eccitanti e tossiche come l’anfetamina” il cui effetto è “che contamina queste stesse fonti con un manicheismo capace solo di opporre il bene al male, i buoni ai cattivi, il vero al falso, l’informazione all’intossicazione”14. In Italia accanto – e non ben distinta – dalla moralina, si è affermata, per così dire, la legalina, cioè una concezione della legalità che ne costituisce la caricatura (e spesso la strumentalizzazione).

I fondamenti della legalina sono: la soggezione di tutti alla stessa legge; l’inammissibilità delle procedure di deroga previste dall’ordinamento; la percezione strabica delle stesse deroghe, spesso incidenti su diritti che con la politica hanno meno a che fare, mentre ne hanno con la soggezione a decisioni e prassi burocratiche; la mancata considerazione che quelle deroghe appartengano alla natura dell’istituzione politica, la quale genera un proprio diritto – una propria giustizia, connotati fondamentalmente dell’ineguaglianza tra le parti, cioè la Temi di Hauriou (correlata al droit disciplinaire)15, contrapposta a Dike (correlata al droit commun). Scriveva il giurista francese, in relazione all’aspirazione di voler sottomettere lo Stato al diritto che nell’ordinamento inglese (così privatistico) c’è una prospettiva che inganna (trompe-l’oeil) nell’asserita soggezione degli amministratori pubblici alla legge: lo sono per le piccole cose, ma i grandi affari di governo restano fuori dal diritto16. Per cui questa aspirazione rimane sempre relativamente realizzabile: perché se lo fosse integralmente distruggerebbe l’istituzione (e la comunità). La politica risponde alla massima salus reipublicae suprema lex (l’esistenza politica prevale sul diritto), la giustizia su fiat justitia pereat mundus (fare giustizia a costo dell’esistenza)17.

Tale alternativa è decisiva per le conseguenze che può avere: valutare una scelta secondo criteri politici e non morali porta (spesso) alla distruzione e ancor più frequentemente alla decadenza dello Stato e della comunità: vale sempre il giudizio sulla bontà politica di Machiavelli: “perché un uomo che voglia fare in tutta la parte professione di buono, conviene ruini fra tanti che non sono buoni”. Giustamente Hegel, sosteneva che “lo stato non ha nessun dovere più alto della conservazione di se stesso” e ne deduceva che “E’ un principio noto e risaputo che questo interesse particolare è la considerazione più importante; e non è lecito ritenerla in contrasto con i doveri i diritti o la moralità perché anzi ogni singolo corpo statale, essendo uno stato particolare, è tenuto a non sacrificarsi per un universale dal quale non può aspettarsi alcun aiuto: piuttosto, il principe di uno stato territoriale come il consiglio comunale di una città imperiale hanno il sacro dovere di preoccuparsi del loro territorio e dei loro sudditi18 (il corsivo è mio).

5.0 In particolare la normazione relativa ai migranti del Governo Conte (1), fortemente voluta dall’allora Ministro Salvini, ha offerto una vasta casistica di affermazioni, riconducibili alla legalina. Il cui fondamento esegetico (principale) è trovare una qualche norma (regolamentare, legislativa, costituzionale, interna, internazionale, consuetudinaria, pattizia, eccezionale ecc. ecc.) che possa fornire un appiglio alla tesi preferita.

Il che spesso non è difficile, attesa la pletora di norme. Ma, dato che lo stesso problema si pone in tante interpretazioni giuridiche l’interpretazione preferibile è quella che non contrasta con il sistema, con l’ordinamento. Applicando così due noti principi enunciati in frammenti del Digesto19.

Così è stato affermato da un noto giornalista, che non fermarsi all’alt della guardia costiera è legale, perché il diritto di sbarcare in Italia sarebbe garantito dalla Costituzione (da quale articolo?); altrove si legge che un ex Sindaco ha detto “Nessuno deve evitare un processo se accusato di aver commesso reati e questo deve valere anzitutto per un uomo politico… non ci si deve nascondere dietro i ruoli politici e istituzionali per avere immunità particolari” (e allora la legge sull’accusa ai Ministri dov’è finita?). Ma comunque non è giusto, continua l’ex Sindaco perché “Salvini da Ministro dell’interno ha avuto un comportamento inaccettabile, che io considero un reato a livello umano e morale e anche politico; vedremo se i giudici riterranno che si sia trattato anche di un reato penale” né si può ridurre, sempre a giudizio dello stesso, il problema a questione d’ordine pubblico che è il principale compito del Ministro degli interni (se no, che ci sta a fare?).

Un gruppo di giuriste dell’Università di Torino ha poi equivocato sui fatti affermando che Salvini impediva “azioni umanitarie” (cioè i soccorsi in mare); in realtà, ha solo impedito l’ingresso nelle acque territoriali e i successivi sbarchi nei porti italiani, soggetti (le acque e i porti) alla sovranità nazionale di cui all’art. 1, della Costituzione (come sosteneva, più di due secoli fa, l’abate Galliani – tra gli altri).

Qualcun altro la “butta” sulla distinzione tra legalità e legittimità, anche se vi sono contrapposte opinioni sul punto – essenziale – se l’ex Ministro degli interni stava dalla parte della legalità e della legittimità: coloro i quali pensano che legittimità significhi rispondenza alla volontà del popolo, ritengono che il comportamento dell’ex Ministro sia contrario alla legalità costituzionale. Quelli che concedono che la legalità sia stata rispettata, fanno appello alla legittimità dei valori costituzionali, tirandosi appresso Antigone, i monarcomachi ecc. ecc.

6.0 In un contesto confuso, tra moralina e legalina e svariate opinioni sulle medesime, c’è da chiedersi se politico “morale” sia chi rispetta i dettami della morale privata (e della legge) o colui che provvede in vista del bene comune.

Non v’è dubbio che aveva ben visto Hegel per il quale preoccuparsi del territorio e dei sudditi è un sacro dovere (v. sopra); così Croce il quale faceva coincidere l’onestà politica (cioè il perseguimento del bene) con la capacità politica e non con l’essere l’uomo politico pio e morigerato. E con l’aver ancorato la politica e lo Stato all’utile, al vivere (e al buon vivere) cioè all’esistente prima che al normativo.

Ad applicare tale criterio, l’uomo a cui si addice di più appare proprio il leader della Lega e non i moralisti e legalisti salmodianti in politicamente corretto. Con un’avvertenza: che la capacità politica non si giudica sulla conformità a buone intenzioni, ma al raggiungimento dei risultati auspicati: per averla occorre, come sostiene Machiavelli, tanta virtù (politica) cioè prudenza e intelligenza delle situazioni necessarie a battere l’avversa fortuna. Da questo e non solo dall’intenzione di seguire l’interesse pubblico (che ne è la premessa necessaria) si misura.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 La quale, a parte la propaganda, è altrettanto possibile che abolire la legge di gravità, essendo la politica connaturale all’uomo come diceva già Aristotele (zoon politikon) e ribadito da tanti, tra cui Freund con la sua teoria delle essenze. Resta da dimostrare se proprio perché l’uomo ne ha diverse, può fare a meno di qualcuna. Ora il politico, ora l’etico, ora l’economico e così via.

2 “La politica, che è e non può essere schietta politica, non distrugge ma anzi genera la morale, nella quale è superata e compiuta. Non c’è nella realtà una sfera dell’attività politica o economica che stia da sé, chiusa e isolata; ma c’è solo il processo dell’attività spirituale, nel quale alla incessante posizione delle utilità segue l’incessante risoluzione di esse nell’eticità” , v. Etica e politica, Bari 1931, p. 228.

3 Op. loc. cit.

4 “Non vita morale, se prima non sia posta la vita economica e politica; prima il «vivere» (dicevano gli antichi), e poi il «ben vivere». Ma altresì non vita morale che non sia insieme vita economica e politica, come non anima senza corpo”

5 Scrive Weber “ogni agire orientato in senso etico può oscillare tra due massime radicalmente diverse e inconciliabilmente opposte: può esser cioè orientato secondo l’«etica della convinzione» oppure secondo l’«etica della responsabilità». Non che l’etica della convinzione coincida con la mancanza di responsabilità e l’etica della responsabilità con la mancanza di convinzione. Non si vuol certo dir questo. Ma v’è una differenza incolmabile tra l’agire secondo la massima dell’etica della convinzione la quale – in termini religiosi – suona: «il cristianesimo opera da giusto e rimette l’esito nella mani di Dio», e l’agire secondo la massima dell’etica della responsabilità, secondo la quale bisogna rispondere delle conseguenze (prevedibili) delle proprie azioni” v. Politik als Beruf, trad. it. di A. Giolitti ne Il lavoro intellettuale come professione, Torino 1966, p. 109.

6 Weber delinea nel prosieguo alcuni tratti, in ispecie di chi segue l’etica della convinzione. Il rifiuto relativo della forza, a meno che non giustificata dalla santità dei fini. La non accettazione (almeno parziale) della realtà perché “non sopporta l’irrazionalismo del mondo; il rifiuto del paradosso delle conseguenze (Freund), cioè che buone azioni possano provocare il male (e viceversa). Ossia il contrario, dice Weber, di quanto credono tutte le religioni della terra, col problema fondamentale della teodicea (op. cit. p. 112). Già i primi cristiani, scrive “sapevano perfettamente che il mondo è governato da demoni e che chi s’immischia nella politica, ossia si serve della potenza e della violenza, stringe un patto con potenze diaboliche e, riguardo alla sua azione, non è vero che soltanto il bene possa derivare dal bene e il male dal male, bensì molto spesso il contrario. Chi non lo capisce, in politica non è che un fanciullo”.

7 Op. cit., p. 116; per un esame sommario della teologia politica cristiana si rinvia ai miei articoli Meglio Callicle, in Behemoth n. 24 e Tangentopoli tra politica morale ed etica politica in Behemoth n. 23.

8 E prosegue “Il risultato da lui effettivamente raggiunto in siffatte condizioni del suo agire non è rimesso alla sua volontà, bensì gli è prescritto dai motivi – per lo più eticamente scadenti – ai quali s’ispira l’azione dei suoi seguaci… però questa fede, anche se soggettivamente sincera, è in gran parete dei casi semplicemente la «legittimazione» etica della brama di vendetta, di potenza, di bottino e di prebende”, op. cit., p. 116.

9 Op. cit., p. 118.

10 v. L’essence du politique, Paris 1965, p. 751.

11 op. cit., p. 651. Freund afferma di seguire la concezione di Hobbes (in effetti risente anche del pensiero di M. Hauriou), e sottolinea come nel corso dei secoli lo stesso concetto sia stato denominato con diverse espressioni.

12 op. cit., p. 652.

13 Nel consiglio dato da Plotino a Tolomeo di non proteggere Pompeo, fuggiasco in Egitto “«lus et fas multos faciunt, Ptolomaee, nocentes; dat poenas laudata fides, cum sustinet» inquit «quos fortuna premit. Fatis accede deisque et cole felices, miseros fuge. Sidera terra ut distant et flamma mari, sic utile recto. Sceptrorum vis tota perit, si pendere iusta incipit, evertitque arces respectus honesti. Libertas scelerum est, quae regna invisa tuetur, sublatusque modus gladiis. Facere omnia saeve non inpune licet, nisi cum facis. Exeat aula qui vult esse pius. Virtus et summa potestas non coeunt »”. E Pompeo, di conseguenza, fu ucciso con l’inganno. Nel consiglio dell’eunuco c’è l’antitesi tra interesse dello Stato e l’uso di dare asilo “politico”.

14 v. M. Onfray Teoria della dittatura, Milano 2020, p. 198.

15 Su questa e sulla situazione inegualitaria – spesso deprecabile – della giustizia nei confronti delle pubbliche amministrazioni, mi sia consentito rinviare al mio scritto Temi e dike nel tramonto della Repubblica in rete (v. Italia e il mondo).

16 v. Précis de droit constitutionnel, Paris 1929, p. 100.

17 Sul punto v. Radbruch Propedeutica alla filosofia del diritto, Torino 1959, p. 116.

18Verfassung Deutschlands” trad. it. – in “Scritti politici” pag. 90-91, Torino 1974.

19 Incivile est, nisi tota lege perspecta, una aliqua particula eius proposita judicare vel respondere, e Scire leges non est verba earum tenère, sed vim ac potestatem, , ambedue di Celso.

LA CAPUEIDE,

Il sistema dell’informazione ha un ruolo cruciale nelle modalità di condizionamento delle scelte politiche e degli orientamenti. Quando si parla di “opinione pubblica” i più la identificano con gli ascoltatori e i lettori; in realtà sono gli “organi a vario titolo dell’informazione e della formazione dell’opinione”, compresi gli spettacoli di intrattenimento. Le modalità di gestione della crisi pandemica sono dipese in gran parte dalla gestione delle informazioni. Una mistura venefica di allarmismo ed approssimazione che è servita a confondere e condizionare pesantemente. Tra le vittime più o meno consapevoli gran parte del ceto politico, incapace di gestire tempi, rapporti e metodi con il sistema mediatico, quando no consapevolmente connivente. Più che una cupola onnipotente ci troviamo di fronte a dinamiche mosse e sfruttate da centri decisionali i più vari, spesso in conflitto tra loro stessi. Buona lettura_Giuseppe Germinario
LA CAPUEIDE
In questi mesi, grazie al Corriere della Sera e a La7 è diventata il vate del coronavirus, sempre con un occhio attento agli input che arrivano dal Colle. Per lei, scienziata, non esiste il dubbio che è l’anima della ricerca scientifica. Lei ha solo certezze, anche se un giorno è una e un altro giorno è un’altra. Dipende dall’aria che tira.
Il 21 marzo sul Messaggero la Capua fece l’ottimista, esprimendo la “speranza che non ci sarà bisogno del vaccino perché si sarà attenuata la forza del coronavirus, ricordiamoci che nella stragrande maggioranza dei casi chi è infetto è asintomatico”.
Il 25 marzo su La7 prosegue con il mood ottimista: “Il virus sembra allentare la presa. Sono cautamente ottimista, nelle prossime settimane speriamo di vedere il blocco del contagio”. E arriva ad ipotizzare che donne possano diventare il semaforo del via libera: “Il Coronavirus è più aggressivo negli uomini. Si potrebbe pensare di far tornare prima al lavoro le donne”. Idea di poco successo, subito accantonata.
Sempre ottimista, il 31 marzo dice che i “dati spingono all’ottimismo, ma fino a quando non ci sarà immunità di gregge dovremo avere pazienza”.
Il 28 aprile, però, su La7 vira sul pessimismo: “È verosimile una ondata di ritorno”.
Ma il 26 maggio su La7 torna ottimista: “Vi garantisco che se continuiamo ad osservare alcuni comportamenti potrebbe anche non esserci una seconda ondata”.
Il 24 settembre il Presidente Mattarella risponde a Boris Johnson spiegando che noi non siamo come i britannici, perchè “gli italiani amano la libertà, ma anche la serietà”. E subito allineata al verbo mattarelliano, il 29 settembre su La7 la Capua sentenzia che “la seconda ondata arriverà se gli italiani si comporteranno come i britannici”.
E oggi l’Icona del politicamente e sanitariamente corretto nomina l’orrenda formula: “Il vaccino sarà lento, spero nell’immunità di gregge”.
Ascoltando Ilaria Capua torna alla mente il vecchio slogan di un dentifricio: “Con quella bocca, può dire ciò che vuole”. Ma quella era Virna Lisi, ed era una pubblicità di Carosello.

Mali: serve un cambio di paradigma, di Bernard Lugan

Scrivo da anni che nel nord del Mali il problema non è principalmente quello dell’islamismo, ma quello dell’irredentismo tuareg. Questo dato a lungo termine, radicati nella notte dei tempi, si sono manifestati dal 1962 attraverso periodiche risorgenze [1] . Secondo l’equilibrio di potere del momento, si esprime sotto varie bandiere. Oggi è sotto quello dell’islamismo.
Avendo trascurato i loro consiglieri di tener conto del peso dell’etno-storia, i leader francesi definirono una politica nebbiosa confondendo gli effetti e le cause. Da qui l’attuale impasse strategico da cui è tanto più difficile districarsi poiché l’equilibrio di potere locale è cambiato. Infatti, i suoi “emiri” algerini sono stati uccisi uno dopo l’altro da Barkhane, Al-Qaeda-Aqmi non è più governata localmente da stranieri, ma dal tuareg Iyad ag Ghali. Tuttavia, e come avevo anche annunciato, questi ultimi finirono per prendere il controllo delle varie fazioni Tuareg per un periodo ufficialmente e artificialmente rivali. L’accoglienza personale che ha riservato a Kidal ai “jihadisti” recentemente rilasciati ha mostrato in modo eloquente che il nord del Mali è ora sotto il suo controllo.
È quindi con questa nuova realtà in mente che vanno analizzate e comprese le dichiarazioni del 14 ottobre dell’AQIM e del GSIM ( Support Group for Islam and Muslims ), due falsi nasi di Iyad ag Ghali, chiedendo la partenza di Barkhane attraverso la retorica bellicosa sulla lotta contro i “crociati”. Tuttavia, è soprattutto una nuvola di fumo destinata a non lasciare il campo aperto all’EIGS ( Stato Islamico nel Grande Sahara ) affiliato a Daesh e il cui leader regionale è Adnane Abou Walid al-Saharaoui, un arabo marocchino della tribù Réguibat. Questo ex quadro del Polisario, accusa di tradimento Iyad ag Ghali per aver privilegiato la rivendicazione Tuareg attraverso trattative con Bamako e ciò, a scapito del califfato transetnico per ingombrare gli attuali stati saheliani.
A meno che non si scelga deliberatamente la via dello stallo, questi recenti cambiamenti costringeranno i responsabili delle decisioni francesi a rivedere molto rapidamente le missioni di Barkhane. Altrimenti la guerra al nord si riaccenderà inevitabilmente e dovremo quindi affrontare un fronte aggiuntivo, quello dei Tuareg. Inoltre, poiché la “legittimità” del nostro intervento è diventata almeno “incerta” dopo il colpo di stato di Bamako lo scorso agosto, è quindi tempo di porre la questione della nostra strategia regionale nella SBS. (Banda sahelo-sahariana).
Si distinguono tre aree, ognuna delle quali merita un trattamento speciale:

– Nel nord del Mali dove, politicamente e militarmente, non abbiamo nulla da difendere, l’errore sarebbe quello di continuare a persistere in un’analisi basata sullo slogan artificiale della lotta al “terrorismo islamista” e di cui l’unico risultato sarebbe l’apertura delle ostilità con i Tuareg. In queste condizioni, poiché l’Algeria considera il nord del Mali come il suo cortile, lascia che i suoi servizi si adattino alle “sottigliezze” politiche locali, cosa che faranno tanto più facilmente perché non saranno paralizzati da i “vapori” umanitari che impediscono qualsiasi azione reale ed efficace sul terreno …

– La regione dei “tre confini” presenta un caso diverso perché è la chiusa del Burkina Faso e più a sud quella dei paesi costieri, compresa la Costa d’Avorio, con cui abbiamo accordi. Il nostro sforzo deve quindi concentrarsi lì attraverso il sostegno dato agli eserciti del Niger e del Burkina Faso.

– La regione del Ciad in senso lato, perché dobbiamo includere il Camerun e la Repubblica centrafricana, è una futura ampia zona di destabilizzazione. Ecco perché deve essere guardato con la massima attenzione. È quindi imperativo rafforzare la nostra presenza militare lì.

[1] Sono evidenziati e sviluppati nel mio libro Les guerres du Sahel des origines à nos jours .

Maggiori informazioni sul blog di Bernard Lugan .

La crisi pandemica in Italia_ con il dottor Giuseppe Imbalzano

Una lunga conversazione con il dottor Giuseppe Imbalsano. Si discute della gravità della crisi pandemica e delle modalità con le quali viene e dovrebbe essere affrontata. Le dinamiche politiche e geopolitiche rimangono nello sfondo; continueranno ad essere affrontate in altri articoli. La conversazione offre numerosi elementi per poterle individuare fondatamente secondo i vari punti di vista. Il dottor Imbalzano è medico, manager di aziende sanitarie e consulente; uno dei maggiori esperti nel settore. Ha scritto numerosi saggi e libri. Qui sotto alcuni link propedeutici alla intervista:

https://statisticallearningtheory.wordpress.com/2020/10/24/previsioni-covid-19-di-ricoveri-terapie-intensive-e-decessi-23-ottobre-15-novembre-2020/

https://www.valigiablu.it/scienza-etica-immunita-gruppo/

https://tg24.sky.it/cronaca/2020/10/24/covid-previsioni-contagi-ricoveri-terapie-intensive#06

dpc-covid19-ita-scheda-regioni-latest – 2020-10-23T170541.747

Buon ascolto_Giuseppe Germinario

Responsabilità e dilemmi, di Andrea Zhok e Antonio de Martini

RESPONSABILITA’, di Andrea Zhok
Il quadro di evoluzione della pandemia in Italia e il DPCM in fase di elaborazione sollecitano alcune brevi riflessioni sulla questione delle responsabilità civili, a vari livelli.
1) In primo luogo, una considerazione la merita il ruolo delle regioni. Finora tutte le regioni avevano la facoltà di intervenire in forme più restrittive di quelle blande promosse a livello centrale. Questa opzione era coerente con l’idea, costantemente rivendicata dai presidenti di regione, secondo la quale essi avrebbero il polso della situazione locale e potrebbero prendere decisioni consone. Ma curiosamente (con l’eccezione del talentuoso cabarettista che guida la regione Campania), nessun presidente di regione è intervenuto restrittivamente, modulando in forme specifiche e selettive gli interventi, se non in misura omeopatica.
Anzi, al contrario, tutte le regioni sollecitano il governo centrale ad intervenire per ‘coordinare gli interventi’.
Ma questo sollecito in verità esprime un desiderio molto più semplice: i presidenti delle regioni vogliono che a loro sia lasciato il ruolo del ‘poliziotto buono’.
Vogliono che sia lo stato centrale a fare la faccia feroce, mentre, agli occhi dei propri elettori, loro vestono i panni di chi si batte per preservarne la libertà.
Si tratta di un gioco di deresponsabilizzazione alquanto vile, con tanti saluti alle ciance sulle autonomie regionali: l’autonomia la vogliono quando si tratta di spendere, ma quando si tratta di sporcarsi le mani con assunzioni di responsabilità, allora si ritirano su postazioni protette.
2) Se le regioni hanno torto, non è che il governo centrale abbia ragione. Gli interventi che si profilano nel DPCM sono come al solito tagliati con l’accetta e ispirati da un’approssimazione che solo la perenne emergenzialità può cercar di nascondere.
Le aree in cui il governo poteva e doveva intervenire direttamente erano una principale, e due di rincalzo.
Innanzitutto si doveva portare subito in remoto tutto quanto era possibile portare in remoto della pubblica amministrazione, oltre che delle scuole superiori e dell’università. Questo intervento da solo avrebbe ridotto drasticamente gli spostamenti nei mezzi pubblici, che sono certamente il principale veicolo di diffusione del virus.
In tutti e tre questi comparti, un po’ di preparazione (in gran parte già fatta in occasione della prima ondata) avrebbe consentito di svolgere questi servizi con una perdita di efficacia tutt’al più modesta.
Ma rispetto a questa prospettiva ha avuto la meglio una componente squisitamente ideologica, in cui, le invettive di Confindustria contro la pubblica amministrazione neghittosa che sta a casa, e le paranoie sulla sostituzione definitiva dell’insegnamento pubblico con forme telematiche hanno avuto la meglio.
Interventi collaterali a questi dovevano essere l’intensificazione del trasporto pubblico e della medicina territoriale. Trattandosi di interventi massivi, non potevano essere implementati abbastanza da essere decisivi, ma qualcosa di più poteva essere fatto.
Così, invece di predisporre (anche sul piano normativo, oltre che tecnico) un buon sistema di didattica a distanza, ed un efficiente sistema di erogazione del lavoro in remoto, (abbinato ad incremento del trasporto pubblico e di medici sul territorio) si è preferito puntare i piedi proclamando d’ufficio il ‘ritorno alla normalità’.
E se la realtà non è d’accordo, tanto peggio per la realtà.
Invece di questo tipo di soluzioni, semplicemente pragmatiche, si finirà per chiudere forzosamente e a tappeto bar, ristoranti, palestre, piscine, ecc. anche quando sono stati ligi ai protocolli, e anche in regioni in cui la circolazione del virus è relativamente bassa (ci sono regioni in cui le percentuali di positività sono un terzo o un quarto di altre).
Così, alla faccia del richiamo alle ‘responsabilità individuali’ e alle ‘specificità dei territori’, si farà il solito taglio lineare che dimostra solo la pochezza e imprevidenza di un ceto politico.
3) Infine, quanto alle responsabilità individuali, una parola va spesa nei confronti di tutti quelli che in questi mesi hanno giocato la partita della minimizzazione. Tutti questi, e sono tanti, che con i loro argomenti farlocchi hanno alimentato comportamenti sciatti e incauti (in particolare tra i giovani, passabilmente certi di non correre comunque seri rischi), questi che hanno persino promosso l’idea del ‘contagio terapeutico’ (variante dell’immunità di gregge) magari finendo per contagiare altri, quando non per finire essi stessi ad occupare un letto d’ospedale, ecco tutti questi sono corresponsabili della situazione emergenziale attuale.
Essi hanno remato nella stessa direzione che ora porta all’intasamento dei pronto soccorso e dei ricoveri, tirando con la loro stupefacente ottusità la loro palata di terra sulla salma del paese.
Ecco, tutti questi, se avessero pudore, dovrebbero soltanto e definitivamente uscire in silenzio dal dibattito pubblico per non farvi più ritorno.
SCEGLIERE TRA SALUTE E ORDINE PUBBLICO ?, di Antonio de Martini
Temo che la gente non abbia capito a cosa serva la QUARANTENA e il termine americano LOCKDOWN non abbia semplificato la situazione.
A questo, si aggiunge una banda di pubblici amministratori e imbonitori sanitari che hanno drammatizzato i fatti distorcendoli vieppiù per valorizzare le proprie persone/funzioni/trasmissioni.
La Quarantena è l’unico strumento a disposizione per difenderci ( relativamente) dal contagio e mantenere efficiente ( relativamente) il servizio sanitario nazionale scaglionando gli afflussi alle terapie intensive.
Se le terapie intensive si intasano, il pericolo di morte dei contagiati diventa certezza.
Il fatto che esistano piu numerose cause INELUDIBILI di morte non ha senso.
Se la morte – anche di pochi – è eludibile, va rimandata, altrimenti la società civile non ha motivo di esistere. A morire da soli siamo buoni tutti.
La Svizzera ci ha forse preceduti di poco decidendo di non ammettere più gli anziani ( della mia età) in terapia intensiva per riservare i non sufficienti letti a disposizione a chi ha ( relativamente) maggiori probabilità di sopravvivenza.
Sta accadendo quel che è successo durante la grande crisi finanziaria: si cercò anzitutto di salvare il sistema bancario indispensabile a mantenere in funzione una società civile.
Analogamente, senza un sistema sanitario generale, salterebbe ogni forma di pacifica convivenza civile.
Le avvisaglie affiorano: la selezione alla dottor Mengele tra gli “ atti alla vita” e no ; il ribellismo dei lazzaroni napoletani e la convocazione del Consiglio Supremo di Difesa al Quirinale con un ordine del giorno surreale.
Se guardate il sito della Unione Europea sul COVID19 le statistiche di tutti i paesi, potrete fare un collegamento tra la credibilità di ogni singola classe dirigente e i risultati di morte.
Dove i dirigenti sono rispettati, credibili e sinceri, i contagiati e i morti sono di meno ( sotto il famoso 1%) e il SSN regge.
Dove la direzione è carente, insincera, pulcinellesca e pretesca il sistema va verso la crisi.
Se la gente non comprerebbe un auto usata da costoro, come volete che li creda capaci di sottrarci alla morte e all’impoverimento dei superstiti ?
La comunicazione sia univoca e affidata a veri portavoce professionali e i politici siano banditi dalle TV su questi temi.
Si dica la verità senza infingimenti , si usino i militari come cervelli esperti in sopravvivenza e non come becchini, spazzini o protettori di incapaci e la crisi rientrerà entro parametri gestibili.
UN MIO COMMENTO _ Giuseppe Germinario

Allo scaricabarile ha partecipato ampiamente anche il Governo Centrale sin dall’inizio della crisi ma con una aggravante: i governi regionali sono in realtà dei centri di spesa e di amministrazione. La deresponsabilizzazione è quindi consustanziale e su quello, con poche eccezioni si è formato il personale politico che poi di solito assurge ad incarichi nazionali. Il Governo no; ha la piena responsabilità gestionale sia pure all’interno del disastro istituzionale ormai venuto alla luce non a caso in una situazione di crisi gravissima anche se non ancora catastrofica. Stasera pubblicherò una videointervista al dottor

Giuseppe Imbalzano

che offrirà qualche ulteriore spunto di riflessione

PARADOSSO, di Roberto Buffagni

E’ comica la nostra epoca, la più fissata con il cambiamento di tutta la storia umana, e la meno dotata delle capacità intellettuali e morali di cambiare alcunché.

ASCOLTATE QUESTO INTERVENTO. PARTICOLARE ATTENZIONE ALLA PARTE CONCLUSIVA

NB_ tratti da facebook

Homo Chip – I polli di Harari, isolati e connessi, di Elio Paoloni

 Homo Chip – I polli di Harari, isolati e connessi

Elio Paoloni

 

Tratto in inganno dal titolo – Homo Deus – avevo pensato all’ennesimo tentativo di deificazione dell’uomo, solito copione illuminista (satanico dovrebbe dire un credente). In effetti l’autore comincia con i soliti fuochi d’artificio sull’assurdità delle religioni e del concetto di anima, enumerando le catastrofi dovute alle superstizioni dei credenti. Però si diffonde anche sugli errori compiuti dai non credenti, quelli commessi dall’uomo “troppo umano”. E infine la bordata: l’uomo non è in grado di scegliere (e non stiamo parlando solo del libero arbitrio inteso religiosamente); crede di scegliere ma non lo fa: non solo perché non sa cosa è bene per lui ma proprio perché le scelte sono determinate materialisticamente, sono puro riflesso pavloviano. Per l’alfiere del “datismo” l’intera specie umana è un “sistema di elaborazione dati, con gli individui che assolvono la funzione di chip”.

 

L’uomo è solo un grumo di cellule, poco più di un ratto. L’unica differenza tra un uomo e un pollo – leggiamo – e che “l’uomo è in grado di assorbire più dati (ricordate che in base all’attuale dogma biologico – ma i dogmi non erano ciarpame? – emozioni e intelligenza sono soltanto algoritmi)”. Ma l’uomo succeduto al Sapiens non doveva essere Dio? No, evidentemente il titolo era sarcastico. Dal “noi siamo dei” al “noi siamo cacca”; inevitabile sviluppo. Uno come me, che crede che l’uomo sia stato fatto “poco meno degli Angeli”, a questo punto potrebbe lasciar perdere. Infatti si comprende già che partendo da queste premesse si arriverà a proporre l’abolizione di famiglie, comunità, culti, partiti, patrie, in favore del dominio della tecnica, in particolare dell’algoritmo. I politici saranno poco più che amministratori di condominio: Fratello Google saprà tutto di noi, momento per momento, anche la frequenza del respiro, e predisporrà, adatterà ogni cosa. Niente più errori, niente più carestie, niente più pandemie; vivremo 400 anni (i privilegiati ovviamente) e piripi e piripà. Non stupisce che nel 2013 Google abbia lanciato una controllata chiamata Calico, la cui missione era “risolvere il problema della morte”. Ed è noto che la «parabiosis» non è più riservata ai vampiri, ma è offerta dalla start-up Ambrosia a chiunque sia disposto a spendere 8 mila dollari per seduta. L’ingegneria genetica è assai vicina a dare vita a uomini privi delle imperfezioni che affliggono gli Homo sapiens. Apprendisti stregoni crescono.

 

Non avremo più bisogno di prendere decisioni, di fare passi inopportuni, di scegliere alcunché. Tutto sarà deciso per noi nella maniera più efficiente. Questo dissociato prende in esame la vicenda di Romeo e Giulietta per auspicare la soluzione tecnologica: “occorre fare in modo che i desideri inopportuni non sorgano mai. Pensate a quanto dolore si sarebbe potuto evitare se invece di bere il veleno avessero potuto semplicemente indossare un casco in grado di reindirizzare il loro sventurato amore verso altre persone”. Mi chiedo perché non ha indossato lui il casco, invece di accasarsi con lo sventurato “marito” (insieme al quale, tramite la società Sapienship, ha donato un milione di dollari all’Organizzazione mondiale della sanità – curioso, no?).

 

Fin qui nulla che non abbiamo abbondantemente subodorato. Conosciamo queste distopie. Ma il cocco di Mark Zuckerberg e Barack Obama va oltre: se fin qui Sua Divinità l’Algoritmo è sempre stato associato a due o tre Grandi Sacerdoti, siano ormai in prossimità di un mondo nel quale l’Algoritmo si autoregola, si autoriproduce, crea la realtà. “Gli uomini sono meri strumenti per creare “Internet-di-Tutte-le-Cose” (…) Questo sistema cosmico di elaborazione dati sarebbe come Dio. Sarebbe ovunque e controllerebbe tutto quanto. Gli umani sono destinati a fondersi in lui”.

 

Se, insomma, ci era sembrato che si trattasse del solito prometeismo “umanista”, scopriamo che Harari è il Prometeo dei microchip. Se ogni tanto, da esperto manipolatore, l’israeliano fa mostra – lo faceva soprattutto in altri suoi libri – di deprecare certe derive della tecnica, qui si palesa invasato dalla prospettiva, ansioso di fondersi nel radioso futuro cyber.

 

Veniamo al dunque: il meschino scriveva queste cose nel 2015 e prevedeva mestamente tempi lunghi per la scomparsa del fastidioso Sapiens. Ora questi tempi si sono accorciati. Cogliendo al volo (o creando?) l’occasione dell’infopandemia, i signori dell’algoritmo stanno catapultandoci in pochi mesi nel mondo dell’assenza di relazioni, di corporeità, di comunità, di culto, persino del focolare. La trasformazione dell’uomo in monade, in ameba eterodiretta, preparata da decenni, sta per giungere a maturazione. Saremo isolati e connessi, volenti o nolenti, consapevoli o inconsapevoli, a qualcosa che non conosceremo, che non possiamo, non dobbiamo conoscere.

IN BOLIVIA TRIONFA LA SINISTRA INDIGENISTA, di Giuseppe Angiuli

IN BOLIVIA TRIONFA LA SINISTRA INDIGENISTA

DOPO UN PERIODO DI CRISI E DESTABILIZZAZIONE

 

A sinistra Luis Arce, nuovo Presidente della Bolivia e già ministro dell’Economia nei Governi a guida di Evo Morales

A destra nella foto, il nuovo vice-Presidente David Choquehuanca

 

Le elezioni presidenziali tenutesi in Bolivia domenica 18 ottobre 2020 hanno visto la chiara vittoria senza contestazioni di Luis Arce Catacora, candidato del M.A.S. – I.P.S.P. (Movimiento al Socialismo – Instrumento Político por la Soberanía de los Pueblos), ministro di lungo corso nei governi diretti dell’ex Presidente Evo Morales.

Luis Arce, economista di solida formazione teorica, guiderà il Paese per i prossimi cinque anni e sarà affiancato dal suo vice David Choquehuanca, storico lìder dei movimenti contadini indigeni del Paese e già ministro degli Esteri con Evo Morales.

Queste ultime elezioni si sono celebrate in un clima di forte polarizzazione nel Paese andino e sono giunte al termine di un periodo di circa un anno contraddistinto da grande incertezza ed instabilità politica, dopo che l’ex Presidente Evo Morales (rimasto saldamente alla guida della Bolivia dal 2006 fino al 2019) era stato costretto a dimettersi a novembre dello scorso anno, appena dopo avere apparentemente vinto per la quarta volta consecutiva le elezioni presidenziali e quando le aspre contestazioni di piazza, unitamente alle pressioni dei vertici di Polizia e dell’esercito, lo avevano costretto alla fuga all’estero.

A partire dalla prima vittoria elettorale alla fine del 2005 di Evo Morales – soprannominato el indio, storico sindacalista dei contadini che abitano i vasti altipiani del Paese e primo Presidente indigeno (di etnia haymara) ad ascendere ai vertici di una nazione sud-americana – la Bolivia aveva imboccato un percorso politico di netta inversione di marcia rispetto al suo lungo passato di dominio coloniale ed aveva fornito un suo contributo decisivo al processo politico di integrazione continentale con gli altri Paesi del cono sur delle Americhe.

La Bolivia ha inscritta nel suo stesso nome tale propensione verso l’ideale dell’unità politica del sub-continente indio-latino e non per caso, circa due secoli fa, la nazione per un breve periodo era stata battezzata República de Bolívar, con un espresso riferimento alla figura mitica del libertador Sìmon Bolívar.

Anche in virtù del solido rapporto di amicizia che lo legava al compianto lìder venezuelano Hugo Chavez, Evo Morales non aveva avuto dubbi nel condurre la Bolivia all’interno del blocco dei Paesi latino-americani contraddistinti dal più enfatico radicalismo anti-U.S.A. e riuniti nell’ALBA (Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra América).

Da tale percorso politico, la Bolivia aveva tratto una forte spinta all’emancipazione dalla storica piaga del sottosviluppo e aveva saputo intraprendere con efficacia un programma di massiccia redistribuzione dei proventi delle sue copiose ricchezze naturali e minerarie, consentendo forse per la prima volta dopo secoli, alle componenti più povere della sua società, di riscattarsi socialmente e di recuperare un diffuso spirito di fierezza e dignità.

Alla base dell’azione politica di Evo Morales e del Movimiento al Socialismo (un movimento politico da lui stesso fondato nel 1997) vi è sempre stata una miscela ideologica sincretica data dalla fusione di alcuni principi del marxismo classico con gli storici ideali del nazionalismo indigeno latino-americano: nella comunicazione politica del M.A.S., assume da sempre una consueta centralità il richiamo alla necessità di recuperare una piena sovranità del popolo boliviano rispetto alle entità straniere che storicamente lo hanno sottomesso e umiliato, depredandolo delle sue risorse umane e materiali.

L’avvento di Morales alla Presidenza aveva dunque segnato un complessivo rovesciamento del paradigma di rappresentanza degli interessi interni al Paese, avendo egli messo al centro del suo programma per la prima volta i diritti delle popolazioni rurali di origine dell’altopiano andino – in particolare le rivendicazioni dei piccoli poveri contadini cocaleros, ossia i coltivatori di coca, una pianta tipica della cultura andina – e non più gli interessi delle componenti elitarie di etnia bianca indo-europea, da lungo tempo assolute dominatrici nella conduzione della politica e del modello economico  estrattivista del Paese.

Erano state proprio queste elites bianche di origine europea, molto presenti soprattutto nell’area industrializzata della città di Santa Cruz de la Sierra e da sempre assai legate agli U.S.A., a non digerire fin dal primo istante l’ascesa di Morales alla più alta carica governativa del Paese nel 2006: fin da quel momento, le classi dirigenti di quella ricca regione dell’est della Bolivia avevano pertanto dato vita ad una forte conflittualità e ad una radicale delegittimazione delle scelte del Governo centrale di La Paz, non mancando di alimentare anche delle pericolose spinte secessioniste.

Evo Morales, Presidente della Bolivia dal 2006 al 2019

 

Il primo evento di grande impatto simbolico che aveva suggellato l’avvio del nuovo corso della Bolivia era stato senz’altro l’avvento della nuova carta costituzionale nel 2009, allorquando il Paese aveva assunto per la prima volta la denominazione di Stato plurinazionale di Bolivia, a testimonianza della composizione pluri-etnica e del carattere multi-culturale della sua popolazione[1].

Con lo storico passaggio a tale nuova dominazione ufficiale dello Stato e con l’approvazione della nuova Costituzione indigenista (che presenta non pochi punti di contatto con le coeve nuove carte costituzionali adottate da Venezuela ed Ecuador), la nuova Bolivia di Morales aveva dunque segnato il riconoscimento della sua natura di Stato di diritto unitario, plurinazionale e comunitario fondato sul pluralismo politico, economico, giuridico, culturale e linguistico.

 

Non per caso, fin dai suoi primi articoli la nuova carta costituzionale del 2009 menziona espressamente le nazioni e i popoli indigeni quali originari abitanti della Bolivia pre-coloniale e sancisce il diritto di tali componenti autoctone alla conservazione di alcune sfere intangibili di autonomia politico-amministrativa, al mantenimento della loro cultura originaria e ad esercitare delle forme di autogoverno tramite il riconoscimento di istituzioni proprie e tramite il consolidamento di entità territoriali autonome pur nel quadro di una pacifica convivenza all’interno dell’unità statale.

In altri passaggi della stessa magna carta, non manca una espressa consacrazione del diritto inalienabile delle comunità autoctone alla proprietà collettiva sulle terre ancestrali.

Come è tristemente noto, i percorsi rivoluzionari ispirati da una forte spinta ideologica di stampo egualitario  partono quasi sempre con degli ottimi propositi ma molto spesso – non soltanto alle latitudini latino-americane –  non riescono a raggiungere gli auspicati risultati in termini di benessere e sviluppo economico.

Anche in tempi recenti, altre esperienze di Governo delle sinistre in America Latina – tra tutte il Venezuela e il Brasile – a dispetto dei proclami enfatici di marca anti-imperialista, non sono state in grado di promuovere la nascita di nuovi modelli di sviluppo efficienti e dalle gambe solide.

Viceversa, nel caso della Bolivia di quest’ultimo quindicennio, pur senza volere indulgere verso qualsiasi atteggiamento di faziosità ideologica, è lecito senz’altro affermare che l’esperienza dei Governi a guida socialista non aveva oggettivamente deluso le attese anche sul terreno socio-economico, facendo conseguire al Paese degli indici di sviluppo e di crescita economica – pari a circa il 5% annuo in media – davvero invidiabili e che trovano difficilmente un riscontro all’interno di analoghi contesti nazionali dei Paesi latino-americani di questo XXI° secolo.

Nello stesso periodo, secondo i dati generalmente accettati dalla comunità internazionale e dalle principali testate giornalistiche del globo, i governi a guida del M.A.S. erano riusciti a mantenere sotto controllo sia l’inflazione che il tasso di disoccupazione e inoltre erano stati in grado di ottenere una drastica riduzione dell’indice di povertà interno al Paese: sotto quest’aspetto, è significativo ricordare che nel giugno del 2015, in occasione della 39^ Conferenza Generale della F.A.O. (organismo delle Nazioni Unite che si occupa di elaborare programmi per l’alimentazione e per lo sviluppo dell’agricoltura), il Governo boliviano era stato insignito del riconoscimento ufficiale per avere saputo ridurre di più della metà il dato percentuale della popolazione sotto-alimentata, che era passato dal 34% al 15% prendendo in esame un periodo compreso tra il 1990 ed il 2015.

Il celebre incontro tra Evo Morales e Papa Bergoglio nel 2015

 

Altrettanto significativo e per certi versi clamoroso era stato il riconoscimento pervenuto in tempi non sospetti ai governi socialisti a guida di Morales – che avevano visto proprio nell’attuale neo-Presidente Arce lo stratega della crescita economica nella sua qualità di ministro per l’Economia – perfino dalle colonne del Wall Street Journal, che nel 2014 aveva definito Luis Arce «il principale architetto del risorgimento economico del Paese»[2].

Tra le più significative misure di marca anti-liberista adottate negli anni di Governo a guida di Evo Morales va senz’altro segnalata la nazionalizzazione non solo dei giacimenti di gas naturale e di idrocarburi ma anche delle riserve di preziosi minerali e metalli strategici come litio, stagno e cobalto, oltre alla completa ri-pubblicizzazione delle risorse idriche del Paese, che prima dell’avvento dei governi di marca socialista erano finite anch’esse nel mirino delle società multinazionali, dando vita ad un forte rincaro dei costi di accesso all’acqua e così scatenando la protesta di ampie fasce del popolo boliviano.

L’immenso deserto di sale Salar de Uyuni in Bolivia, la più grande riserva di litio al mondo

 

Nel 2016, Evo Morales aveva provato a fare approvare con referendum consultivo una modifica alla Costituzione con l’obiettivo di consentire a se stesso di lanciarsi in una quarta ricandidatura consecutiva alle elezioni presidenziali (non permessa dalla magna carta da lui stesso promossa).

In quell’occasione, il popolo boliviano, votando a maggioranza per il NO al referendum costituzionale, aveva inviato al lìder un chiaro messaggio di presa di distanza dalla deriva auto-referenziale del suo potere personale.

Nell’occasione, si era registrato l’errore politico più evidente di Evo Morales, forse dettato da un suo eccesso di sicurezza e di spavalderia: il Presidente indio, anziché accettare di buon grado il responso dell’elettorato, aveva inaspettatamente forzato la mano, rivolgendosi alla Corte Suprema della Bolivia, dinanzi alla quale era riuscito a fare affermare il discutibile principio per cui il diniego alla sua possibilità di ri-presentarsi ancora una volta alle elezioni presidenziali avrebbe costituito una presunta «violazione dei suoi diritti umani» (sic).

Questa inaccettabile forzatura costituzionale aveva costituito la più imperdonabile delle sviste per Evo Morales ed aveva messo a rischio il funzionamento dei meccanismi di partecipazione democratica nel Paese, facendolo scivolare verso forme di caudillismo nella sua accezione deteriore (una strada già tristemente seguita dall’attuale Venezuela di Maduro).

Un vero peccato per il Presidente indigeno il quale, pure avendo bene governato per circa un quindicennio, non aveva saputo resistere alle tentazioni personalistiche e col suo comportamento aveva purtroppo creato un primo serio vulnus nel rapporto di fiducia fino ad allora sapientemente instaurato con la maggioranza della popolazione boliviana.

Morales in compagnia di Hugo Chavez e Rafael Correa

 

 

Alle elezioni presidenziali del 20 ottobre 2019, Morales si era dunque ri-presentato agli elettori provando ad essere ri-eletto per la quarta volta consecutiva.

Al termine del processo di conta dei voti, che aveva subito un andamento anomalo per via di alcuni poco facilmente spiegabili rallentamenti, secondo i dati diffusi dal C.N.E. (Consiglio Nazionale Elettorale) il Presidente uscente avrebbe conseguito il 47,08% dei voti contro il 36,51% del suo principale rivale e con tale scarto di voti, superiore al 10% dei votanti, non ci sarebbe stato bisogno di celebrare un secondo turno di ballottaggio ma Morales sarebbe stato rieletto Presidente al primo turno per la quarta volta consecutiva.

A quel punto, la sua controversa quarta proclamazione come Presidente dello Stato plurinazionale della Bolivia non era stata riconosciuta dalle opposizioni che, forti del sostegno esterno di Luis Almagro e della Organizzazione degli Stati Americani (O.S.A.) da lui presieduta, avevano presto incitato alla rivolta di piazza, da cui era scaturito un clima di forte polarizzazione dello scontro politico, con scontri violenti nelle principali città del Paese andino che in pochi giorni avevano provocato almeno alcuni morti e diverse centinaia di feriti.

In seguito, in un clima di aspra contestazione del risultato che non accennava a placarsi, a convincere Evo Morales ad annunciare il 10 novembre 2019 le sue dimissioni dalla carica presidenziale, aveva assunto una valenza decisiva la pressione esercitata su di lui dai vertici delle Forze Armate e della Polizia, che avevano disconosciuto la validità della sua rielezione, mettendo così in atto, in forme analoghe a quanto già avvenuto nella storia più recente dei Paesi dell’America Latina, una sorta di Golpe morbido istituzionale.

Al momento di lasciare il suo Paese per rifugiarsi momentaneamente in Messico e per poi stabilirsi in Argentina, Evo Morales aveva denunciato al mondo di essere stato costretto a rinunciare alla sua carica a causa di un «colpo di Stato».

 

Un’immagine delle proteste di piazza in Bolivia dopo la deposizione di Evo Morales nel novembre 2019

 

 

La defenestrazione repentina di Evo Morales – come detto, senza dubbio favorita da un suo evidente errore politico – si era inserita in un vasto disegno di destabilizzazione dell’arco dei Governi progressisti dell’America Latina messa in agenda in questi ultimi anni dal Dipartimento di Stato U.S.A., con l’obiettivo di disarticolare quel processo di integrazione politica su base continentale che aveva preso vita nel primo decennio di questo secolo sotto il decisivo impulso del compianto Presidente venezuelano Hugo Chavez.

Nel corso del mandato presidenziale di Donald Trump alla Casa Bianca, l’amministrazione in carica a Washington, quantunque abbia sposato in molti casi un approccio più soft alla sua politica estera in aree lontane come il medio oriente e la Corea del Nord, ha palesato la consapevolezza sulla necessità di riassumere al più presto possibile il pieno controllo politico di quell’ampia area compresa tra il fiume Río Bravo e la Patagonia e che già 2 secoli fa veniva ufficialmente considerata dall’establishment U.S.A. come il proprio «backyard» («il cortile di casa»), secondo una celebre definizione data dal Presidente James Monroe nel 1823.

James Monroe, Presidente degli Stati Uniti d’America tra il 1817 e il 1825

 

Se tale esigenza di asservimento geopolitico dell’intera America Latina ha costituito da sempre un punto irrinunciabile per la proiezione imperiale degli U.S.A., tanto più la riassunzione di un pieno controllo sul subcontinente latino-americano ha necessitato di essere ribadita con forza in questi ultimi tempi, quando i consiglieri più in sintonia con Trump – sul punto in dissenso con i vertici del Pentagono – si sono convinti della insostenibilità per gli Stati Uniti della compresenza di troppi fronti di guerra in giro per il globo e sulla conseguente inevitabilità di un parziale e progressivo rientro a casa delle forze armate regolari già dislocate in alcune aree-chiave del pianeta (Siria e Afghanistan su tutte).

Sta di fatto che la netta vittoria popolare alle elezioni in Bolivia del 20 ottobre 2020 del nuovo Presidente socialista Luis Arce, successore espressamente designato da Evo Morales (oggi ancora in esilio in Argentina), sta a dimostrare che per gli U.S.A. forse è ormai davvero finito il tempo in cui in una qualsiasi nazione dell’America Latina bastava registrare una qualche sintonia di intenti tra i vertici dell’esercito e una ristretta elite indo-europea per sequestrare la volontà di un intero popolo, ancorchè questo fosse desideroso di voltare pagina: in questo senso, gli esempi di Governi filo-U.S.A. impostisi in America Latina nel secolo scorso per il semplice volere di falchi come Henry Kissinger sono innumerevoli, a cominciare dalla triste dittatura militare nel Cile di Augusto Pinochet.

 

Il popolo boliviano – che ha dovuto attendere quasi un anno per poter tornare ad esprimersi nelle urne, dopo che le elezioni già fissate al 3 maggio 2020 erano poi state rinviate per l’emergenza sanitaria da Covid –  avendo tributato dei generosi consensi pari al 52% a favore di Luis Arce, con circa 20 punti di distacco dal principale sfidante di destra, ha senza dubbio inteso esprimere un forte desiderio di continuità con le politiche anti-liberiste e di segno integrazionista che avevano contraddistinto quasi un quindicennio di azione politica di Evo Morales.

Vista la profonda sintonia di vedute tra il neo-Governo progressista boliviano e quelli dello stesso orientamento politico già al potere in Argentina e in Messico, adesso il quesito che resta da sciogliere è quale futuro attende il continente latino-americano, alla luce di un quadro politico alquanto variegato e composito, che ad oggi contraddistingue l’intera regione a sud del Rìo Bravo.

 

 

Giuseppe Angiuli

[1] All’articolo 8 della nuova Costituzione dello Stato plurinazionale di Bolivia, si legge: «Lo Stato si fonda sui valori di unità, uguaglianza, inclusione, dignità, libertà, solidarietà, reciprocità, rispetto, complementarità, armonia, trasparenza, equilibrio, pari opportunità, uguaglianza sociale e di genere nella partecipazione,
benessere comune, responsabilità, giustizia sociale, distribuzione e ridistribuzione dei
prodotti e beni sociali, per vivere bene
».

[2] Cfr.  l’articolo a firma di John Otis, «Luis Alberto Arce, l’uomo dietro il successo di Evo Morales», The Wall Street Journal, 9 ottobre 2014.

 

La stabilità della politica estera nel caos politico, di George Friedman

Qualcosa di simile non è accaduto anche all’impero romano? Lo scontro politico interno, le guerre civili e i chiarimenti hanno dato linfa ed energia alla costruzione dell’impero, ma ne hanno anche determinato la fine in altre circostanze. L’attuale conflitto interno agli Stati Uniti sta assumendo sempre più le caratteristiche di qualcosa di endemico_Giuseppe Germinario

https://geopoliticalfutures.com/the-stability-of-foreign-policy-amid-political-chaos/?tpa=OTk3NzE1ZWYxNDlhN2RhYWNiMmRlZTE2MDM4OTkzNDFjYmFiNDc&utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_term=https%3A%2F%2Fgeopoliticalfutures.com%2Fthe-stability-of-foreign-policy-amid-political-chaos%2F%3Ftpa%3DOTk3NzE1ZWYxNDlhN2RhYWNiMmRlZTE2MDM4OTkzNDFjYmFiNDc&utm_content&utm_campaign=PAID+-+Everything+as+it%27s+published

La stabilità della politica estera nel caos politico

Negli anni ’70, il presidente Richard Nixon entrò nel caos politico e sociale provocato dall’amministrazione Johnson e lo aggravò sostanzialmente. Quindi, quando ho visitato l’Europa durante la fine degli anni di Nixon, tutto il discorso riguardava il declino degli Stati Uniti. Ciò era in parte dovuto alla guerra del Vietnam, ma anche a crisi politiche come il Watergate. Dal punto di vista europeo, la sconfitta in una guerra di sette anni, unita a profonde divisioni nella politica americana, potrebbe solo significare il declino dell’America. (Ricorda che molti americani hanno continuato a sostenere Nixon fino alla fine, accusando i media ei suoi nemici di aver cercato di abbatterlo.)

Allo stesso tempo, Nixon stava gettando le basi di una politica estera che sarebbe rimasta in vigore fino alla fine della Guerra Fredda. Aveva tre elementi. La prima è stata l’intesa con la Cina. La guerra del Vietnam aveva indebolito le forze armate statunitensi. Nixon ha ribattuto che entrando in una relazione con la Cina. I cinesi avevano combattuto i sovietici in battaglie lungo il fiume Ussuri. Erano allarmati dall’indebolimento degli Stati Uniti quanto lo erano gli europei. Qualunque cosa fosse segretamente concordata, i sovietici dovevano presumere che includesse un certo grado di coordinamento.

Il secondo fondamento era la distensione con l’Unione Sovietica. All’inizio degli anni ’60, gli Stati Uniti e i sovietici avevano giocato una partita spericolata. L’intesa raggiunta con i sovietici non contraddiceva il rapporto con la Cina e, di fatto, si è costruita su di essa. Se gli Stati Uniti avessero un’intesa con la Cina, anche i sovietici ne avrebbero avuto bisogno, altrimenti avrebbero potuto essere intrappolati tra Stati Uniti e Cina. La distensione ha creato canali per eliminare i conflitti tra i due paesi e ha formato un’intesa, per lo più seguita, per evitare conflitti che potrebbero degenerare in uno scontro.

La terza fondazione stava creando un quadro per la pace tra Israele ed Egitto che rendesse impossibile una guerra convenzionale arabo-israeliana. Ciò è stato accelerato dall’attacco di Egitto e Siria a Israele e dalla conclusione di una guerra che ha richiesto un incontro diretto tra ufficiali egiziani e israeliani, con Henry Kissinger presente. Il presidente egiziano Anwar Sadat era l’architetto, ma gli americani erano garanti fondamentali. Ciò ha portato alla fine agli accordi di Camp David, al ritiro di Israele dal Sinai e al posizionamento delle truppe statunitensi con sede nel Sinai come cuscinetto.

L’accordo con la Cina è rimasto in vigore anche dopo la morte di Mao Zedong. (Probabilmente, è durato fino a tempi molto recenti.) La distensione tra Washington e Mosca è rimasta in vigore fino al collasso dell’Unione Sovietica. L’accordo egiziano-israeliano continua ad essere il garante di quanta stabilità ci sia nella regione. Molto di questo è emerso nel tempo, ma le basi sono state gettate negli anni di Nixon, nonostante tutto il caos politico e l’imminenza della sua impeachment.

Tali momenti di ristrutturazione non si verificano spesso. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, una politica estera di comprensione universale che esisteva sotto il presidente Bill Clinton è crollata nel 2001. Sotto il presidente George W. Bush, l’attenzione degli Stati Uniti era su al-Qaeda e sui suoi potenziali benefattori. La politica degli Stati Uniti nel resto del mondo era in gran parte basata sul pilota automatico, o modellata per concentrarsi sulla minaccia dell’Islam radicale.

Non è stato fino al presidente Barack Obama che è stato posto il tempo libero e la necessità di una nuova fondazione. Il primo fondamento è stato la fine o almeno una presenza statunitense drasticamente ridotta in Afghanistan e Iraq, e il rifiuto di entrare in conflitto in modo simile nella regione. Gli Stati Uniti sarebbero rimasti politicamente coinvolti ma ovviamente, senza una presenza militare, il coinvolgimento politico significava meno. Per Obama, il problema principale era l’esposizione degli Stati Uniti agli eventi nella regione, non gli eventi stessi.

Il secondo fondamento era affrontare la Russia senza rischiare la guerra con essa. In particolare, voleva limitare l’influenza russa, soprattutto in Europa. Ciò è stato innescato dalla guerra russa del 2008 con la Georgia, un conflitto che ha segnato un drammatico cambiamento nella politica russa. La risposta americana è stata quella di imporre sanzioni alla Russia e di sostenere i movimenti anti-russi in paesi come l’Ucraina.

Infine, sulla Cina, Obama ha avviato una politica per sfidare Pechino su questioni come l’accesso delle merci statunitensi al mercato cinese, la manipolazione cinese del valore della sua valuta e una serie di altre questioni. I cinesi non erano cooperativi, ma durante la sua amministrazione una serie di incontri tesi portarono ad aprire tensioni nelle relazioni USA-Cina. Obama non ha agito su queste tensioni, ma ha gettato le basi per gli eventi se la Cina fosse rimasta rigida.

Non è chiaro quanto dureranno queste fondamenta. Come Obama, il presidente Donald Trump ha ridotto il coinvolgimento militare degli Stati Uniti in Medio Oriente, con alcune eccezioni. Ha continuato la politica di imporre sanzioni sostenendo paesi anti-russi come Polonia e Romania. Trump ha esteso la posizione di Obama sulla Cina imponendo tariffe, una mossa che è stata considerata ma non eseguita da Obama.

Come per la fondazione Nixon, le fondamenta di Obama sono state gettate in un momento in cui l’instabilità politica ribolliva sotto la superficie, come evidenziato dall’elezione di Trump. Ed è stato derivato dall’agenda pressante che la nazione deve affrontare piuttosto che da un capriccio o un’ideologia. Ha sollevato l’impronta degli Stati Uniti in Medio Oriente, ha utilizzato strumenti limitati per contenere la Russia e ha affrontato la Cina. Nonostante tutto il dramma, Trump ha semplicemente costruito su queste basi. Molti dei suoi sostenitori negherebbero con veemenza che Obama abbia creato gli aspetti più importanti delle sue politiche, proprio come i nemici di Trump negherebbero che le politiche di Trump assomigliano in qualche modo a quelle di Obama. Ma poi, il presidente Jimmy Carter non voleva davvero ammettere che gli accordi di Camp David furono generati da Nixon.

C’è ciò che è necessario per la politica estera di una nazione e ciò che è necessario per la sua politica interna. Creano una grande tensione, vista dall’esterno come la fine del potere americano. In realtà è una delle radici del suo potere. La politica estera condotta dagli Stati Uniti è modellata dalla realtà del mondo. La politica in cui si impegna si basa sulle realtà sociali. È difficile vederlo quando succede. Ma quando guardiamo indietro a Nixon e ricordiamo che era un periodo come il nostro, possiamo vederlo in azione. Ma in un momento di reciproco disgusto e disprezzo, come c’era alla fine degli anni ’60 e ’70, l’idea che un criminale come Nixon, oi suoi feroci nemici, potessero agire con prudenza è inaccettabile. Ma in questo mondo alcune cose sono impossibili e altre no, e il mondo non è sottile. Non importa quante cose impossibili vengono tentate,

Ci sono tre punti che sto sottolineando. Il primo è che le turbolenze politiche degli Stati Uniti non sono incompatibili con una politica estera stabile. Il secondo è che c’è più continuità nella politica estera di quanto ci si potrebbe aspettare nel tempo. Il terzo è che, a parte due esempi recenti, abbiamo assistito a una tale continuità dopo la seconda guerra mondiale con disordini politici intermittenti. All’interno, l’America potrebbe sembrare in fiamme. All’esterno, può essere ingannevolmente stabile. Ovviamente, c’è un numero enorme di altri problemi sul tavolo in qualsiasi momento, ma pochi che definiscono le generazioni.

LA COLPA E LA PAURA, di Teodoro Klitsche de la Grange

LA COLPA E LA PAURA

Da quando il Covid-19 ha riportato il dibattito pubblico alla realtà dell’esistenza, fatta di buona e cattiva sorte, di guerre, pestilenze, terremoti, alluvioni, come di pace, benessere, bel tempo e buona salute, tutte cose ottenute grazie al progresso e al buon governo (??), l’argomento onde spiegare (e addossare) le responsabilità della mala sorte è che i governati sarebbero confusi dal sentimento della paura; quello occultato è che sono condizionabili da quello di colpa. Cose ambedue affermate già da Thomas Hobbes.

La prima, la paura, è nota; l’antropologia del filosofo inglese si basa sul potere dell’uomo di uccidere il proprio simile (e sulla frequenza con la quale avviene) e sulla conseguente necessità di creare un’istituzione che protegga la vita degli associati: contratto sociale, obbligazione politica, sovranità, comando e obbedienza ne sono i derivati coerenti.

Ma di ciò, della coerenza delle conclusioni alla premessa (il sentimento di paura per la propria vita) se ne sta facendo un’arma politica; sia per darla in testa agli avversari, sia per ingannare i governati.

Così il candidato democratico Biden accusa Trump perché ha sottovalutato l’impatto del virus (vero, ma l’hanno fatto quasi tutti i governi della terra, Giuseppi, Macron, Johnson in testa): è, aggiornata, la caccia all’untore dei “Promessi sposi”. Nell’altro, al fine di propiziare i DPCM – comodo tipo di normazione – sostenendo che sono fatti (anche se male) con buone intenzioni (possibile) e con risultati riconosciuti eccellenti nell’ “Universo e in altri siti” come cantava Dulcamara e ripete il nostro Governo.

Ma perché ciò si verifichi, continua la canzone governativa, occorre che i cittadini siano disciplinati, mascherati, tappati in casa, poco deambulanti e mai di notte. Se i risultati non saranno quelli sperati (vivamente da tutti) la colpa sarà dei governati indisciplinati, goderecci, incivili ed insensibili.

E qua torniamo all’altro sentimento, meno noto, ma necessario nell’arte di governo, evidenziato da Hobbes nel “Behemoth”: la colpa, o meglio il senso di colpa. Questo, sostiene il filosofo, è uno strumento necessario per esercitare potere sul comportamento degli altri, instillandone il senso per certe azioni ed intenzioni, ed acquisire così influenza. E lo enuncia a proposito dei predicatori puritani. Scrive: “questi predicatori inveivano spesso con grande zelo e severità contro due peccati, la concupiscenza della carne, ed il parlar profano; il che, senza dubbio, era molto ben fatto. Ma da ciò la gente comune era resa incline a credere che niente fosse peccato, salvo ciò che è proibito dal terzo e dal settimo comandamento… Sia nei sermoni, sia negli scritti, questi ministri sostenevano ed inculcavano l’opinione che i primissimi movimenti della mente, cioè il piacere che uomini e donne provano alla vista del bel corpo d’una persona dell’altro sesso” fosse già peccato “E, così, divennero confessori di quelli che avevano la coscienza turbata per questo motivo, e che obbedivano loro come a direttori spirituali, in tutti i casi di coscienza”. È acuto il filosofo di Malmesbury nel fondare almeno in parte la costituzione di un rapporto di potere (e quindi di comando/obbedienza) sul senso di colpa. Cosa sempre capitata nella storia delle istituzioni.

Ma di ciò i governanti italiani hanno fatto uso continuo e sovrabbondante, sia per sostenere la bontà delle proprie intenzioni e realizzazioni (in altri tempi per salvarli dall’inferno, ora dal virus); sia per trasferirne le responsabilità ai governati. Mentre risuona sempre il ritornello sulle tasse (paghiamone meno, paghiamole tutti), che per aumentarle a chi le paga, da quasi cinquant’anni i governanti ne attribuiscono la causa a chi non le evade. E continuano a farlo ad onta dell’inefficacia del ritornello. Come non fosse nota la pulsione del governanti ad attingere dal portafoglio dei governati.

Così col Covid, se arriverà una seria seconda ondata, la colpa sarà dei passeggiatori smascherati, dei bevitori in compagnia, dei banchettatori nei matrimoni e cresime. Troppo facile: ripensiamo a Hobbes.

Teodoro Klitsche de la Grange

Il lupo nell’ovile, a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Jean-Claude Michéa, Il lupo nell’ovile, Meltemi, Milano 2021, pp. 142, € 14,00.

Scrive l’autore che nel “Capitale” Marx riteneva il mercato liberista (meglio concepito dai liberisti) “l’Eden dei diritti innati dell’uomo”. Oggetto del saggio (rielaborazione di una conferenza, integrata da 35 scolii) è, sviluppando l’affermazione di Marx, da un lato il rapporto tra mercato e diritto; dall’altro quello tra socialismo e progressismo, che ha, secondo Michéa, snaturato la sinistra, subordinandola al capitalismo, quello post-moderno soprattutto.

Michéa prende le mosse dalle guerre di religione del XVI-XVII secolo, che avrebbero generato un modo nuovo borghese di pensare la politica, fondato su due postulati. Il primo è che “l’apparente facilità con cui il legame sociale sembra così potersi spezzare sarà d’ora in poi interpretata dalle correnti dominanti della filosofia moderna come la prova che l’essere umano non è affatto l’animale politico (in altre parole, fatto per vivere in società) descritto da Aristotele e dai pensatori medievali”. L’uomo diventa l’homo homini lupus di Hobbes. Cioè un individuo indipendente, in primo luogo dai legami sociali. Il secondo “consiste nel fatto che è visibilmente impossibile che le persone si trovino d’accordo su qualsiasi definizione comune del Bene, sia essa morale, filosofica o religiosa”; da cui consegue che lo Stato dev’essere “assiologicamente neutro”.

La “superiorità filosofica dei liberali” nel pensiero moderno (rispetto alle teorie assolutistiche dello Stato) è di porre “l’esistenza collettiva sotto l’unica regolamentazione protettiva di processi senza soggetto, ovvero sistemi al tempo stesso anonimi, impersonali e basati su disposizioni puramente meccaniche di pesi e contrappesi”: ossia il mercato e il diritto (inteso à la Weber, come calcolabile e prevedibile). Al contrario cioè del sovrano, personale di Hobbes e del rapporto di comando/obbedienza quale relazione tra persone. Prevale l.’impersonalità della legge (della norma).

Peraltro se il diritto liberale prescinde dai legami comuni (cioè comunitari) è in forse la stessa esistenza della comunità.

Venuto meno ogni altro rapporto, è quello economico a fare da collante “questo perché si tratta semplicemente dell’unica forma di legame sociale (basato sul qui pro quo dello scambio contrattuale) capace di fondersi integralmente con i principi della libertà individuale e della neutralità assiologica del liberalismo politico”. L’accettazione, da parte dei partiti di sinistra dell’ideologia mercatista e dei diritti connessi, è funzionale al capitalismo, ed in particolare a quello contemporaneo.

Una sinistra (e non solo), sostiene Michéa, che omette, infatti, di come “tenere finalmente conto dell’stanza della vita comune e di distinguere quindi le libertà che rafforzano la nostra autonomia individuale e collettiva da quelle che accrescono la nostra atomizzazione”; e così difendere la libertà civile, di guisa che la difesa non possa, al contrario, essere utilizzata contro i popoli, smarrisce la propria funzione. “Non è certo continuando a voltare sistematicamente le spalle (come la sinistra fa ormai da più di trent’anni) e ciò che c’era di buono e fecondo nella tradizione socialista, anarchica e populista dell’Ottocento che un tale lavoro, divenuto oggi più che mai indispensabile, avrà la minima possibilità di essere realizzato con successo”.

Due considerazioni (tra le molte che il saggio, breve, ma ricco di idee, stimola) occorre fare.

La prima; come molti altri negli ultimi decenni, Michéa considera liberali i sedicenti tali contemporanei, moltiplicatisi a dismisura – specie in Italia – dopo l’implosione del comunismo. Il minimo che si possa dire è che tale equivalenza è ampiamente riduttiva, così da diventare fuorviante.

Al contrario di questi, il liberalismo: a) non minimizza (o annulla) il politico, col privatizzare il pubblico, col sostituire l’ostilità con il commercio, e con la giuridicizzazione o meglio la giurisdizionalizzazione del comando. Piuttosto il costituzionalismo liberale unisce in una sintesi istituzionale principi di forma politica (in particolare quella democratica) e principi dello Stato borghese (Schmitt). b) Non relativizza totalmente i valori in procedure. La libertà (meglio le libertà) fondamentali (tra cui la proprietà) non possono essere relativizzate: così il nemico (ideologico) dei liberali c’è: è quello che nega il carattere irrinunciabile delle libertà (comprimibili nello Stato d’eccezione, ma solo temporaneamente). E così nessuna procedura, giudiziaria o no, può annichilire i diritti (sostanziali) di libertà. Il liberalismo ha comunque un nocciolo duro contenutistico e non meramente procedurale.

La seconda: Michéa rileva, come tanti altri, che il turbo-capitalismo ha aumentato le differenze di reddito. Quel che è peggio, specie nei paesi sviluppati, sta impoverendo la maggior parte della popolazione, in particolare i ceti medi. Se ciò è vero – come pare vero – significa che sta creando, anzi ha creato da se la propria contraddizione: in un sistema “mercatista” la proprietà privata “classica” è nel migliore dei casi irrilevante, nel peggiore un ostacolo da rimuovere; così l’agricoltore, il commerciante, l’artigiano, il professionista sono destinati ad essere ridimensionati (o azzerati) dalle grandi imprese che sottraggono loro il mercato. Così il carico fiscale si è aggravato sui ceti medi e popolari. La spiegazione della crescita dei movimenti sovran-popul-identitari non è solo sovrastrutturale, ma anche strutturale, cioè economica (e sociale).

Un saggio come questo di Michéa contribuisce alla consapevolezza di ciò. E non è poco per raccomandarne la lettura.

Teodoro Klitsche de la Grange

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