Emmanuel Macron e l’Europa – Di Eric Juillot (4/4)

Mappa:

– I discorsi: idealismo e manierismo (1/4)

– I discorsi: incoerenza e indigenza (2/4)

– Ricostruzione dell ‘” Europa “: tra piccoli passi insignificanti e ambizioni eccessive (3/4)

– Atti e risultati della politica europeista di Emmanuel Macron (4/4)

Atti e risultati della politica europeista di Emmanuel Macron

Emmanuel Macron, o le disgrazie della virtù europea


Sono passati 29 mesi dall’arrivo di Emmanuel Macron. Questo è un periodo abbastanza ampio per procedere, con il necessario senno di poi, a una prima valutazione della sua azione politica volta a rilanciare ancora una costruzione europea il cui sfarfallio la travolge.

L’analisi delle ambizioni che lo hanno animato nella primavera del 2017, quando è arrivato all’Eliseo, ha permesso – speriamo – di dimostrare che le loro possibilità di realizzazione erano estremamente ridotte a priori . Che ne dici di due anni e mezzo dopo, quando lo stato dei media e il godimento politico di cui ha goduto a livello europeo si sono da tempo dissipati? In che misura il suo ardente volontarismo è riuscito a sfondare il muro di una realtà che il nuovo presidente ha rifiutato di osservare seriamente?

Un’osservazione è immediatamente ovvia: la stragrande maggioranza delle proposte menzionate nel discorso programmatico della Sorbona non ha avuto il minimo inizio. Sembra che molti di quei punti non siano nemmeno stati discussi. Esce , in questa fase, la tassa sul carbone alle frontiere, l ‘”Agenzia europea per l’innovazione”, il nuovo partenariato con l’Africa, la riduzione a 15 del numero di commissari, la rinuncia chiesta ai “grandi” Stati del ‘loro’ Commissario, la convergenza delle aliquote fiscali sulle imprese, il “pavimento sociale europeo”, liste transnazionali per le elezioni europee , ecc .

Europa della difesa: guadagni tattici, debacle strategico

Nella delicata area della difesa, le ambizioni smisurate del presidente sono cadute a margine senza essere neppure esaminate seriamente dai nostri partner. Il bilancio militare congiunto, la forza e la dottrina di intervento comune che il presidente vuole per il 2020 non saranno ovviamente messi in atto nei prossimi mesi, o anche oltre, poiché nessuno ci pensa davvero nel futuro UE.

Con questi annunci fragorosi quanto improbabili, il presidente francese ha dimostrato in particolare nel 2017 l’indigenza delle sue opinioni sulla geostrategica e la sua mancanza di conoscenza delle questioni militari. C’era qualcosa di preoccupante nella persona che è costituzionalmente il capo degli eserciti francesi. In seguito ha confermato questa impressione riferendosi superficialmente, a novembre 2018, alla prospettiva di un “vero esercito europeo” [1], il cui irrealismo ha provocato allarme negli ambienti autorizzati.

Sembra, tuttavia, che nel corso dei mesi sia tornato a considerazioni un po’ meno barocche. Dunque, dallo scorso luglio, non si è mai trattato di “esercito europeo”, ma solo di una capacità di “  agire insieme, che non è né rinunciare né abbassare la sovranità nazionale, né, ovviamente, rinunciare l’Alleanza atlantica  ”[2]. Con queste semplici parole, il presidente francese sta infatti conducendo un ampio ritiro strategico, sotto forma di debacle concettuale. Ovviamente peccò per dilettantismo ed esaltazione ideologica, prima che le sue ambizioni si spezzassero sulla realtà geostrategica del continente.

Per realizzare una “potenza dell’Europa”, sarebbe necessario, innanzitutto, fare della violenza verso l’Europa così com’è, nella diversità delle relazioni con il mondo specifiche di ciascun popolo, nella varietà delle culture politiche e posture militari, strategiche e pratiche operative. Sarebbe necessario, ancor più concretamente, ridurre a una piccola cosa la sovranità e la libertà delle nazioni europee in questo dominio supremo tra tutti gli usi della forza armata. Tale ambizione è semplicemente una sciocchezza.

Per quanto riguarda “L’Europa della difesa”, il presidente Macron è stato rapidamente costretto a fare la stessa cosa dei suoi predecessori negli ultimi vent’anni: ha dovuto impiegare un’impressionante creatività istituzionale per nascondere il suo fallimento. Questa creatività, sebbene di natura puramente formale, dovrebbe consentire all’UE di continuare a fingere, in questo campo anche più che in tutti gli altri: alla brigata franco-tedesca, all’Eurocorpo [3], ai “raggruppamenti tattici” dell’UE (che vivacchiano da circa dieci anni), allo Stato maggiore dell’UE [4], all’Agenzia europea per la difesa, è stato aggiunto un Fondo europeo per la difesa [5] (proposto dalla Commissione europea, con il sostegno della Francia) e la cooperazione strutturata permanente [6] (CSP).

Tutti i suoi elementi dovrebbero dare sostanza e coerenza alla politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC). Ma sono ancora insufficienti agli occhi dell’attuale presidente francese, dal momento che Parigi ha voluto lanciare, inoltre, un “Intervento di iniziativa europea” (IEI), un ulteriore esempio all’interno del quale tenteremo di “  favorire l’emergere di una cultura strategica comune [… e creare] i presupposti per futuri impegni coordinati e coordinati futuri  ”[8]!

Punto interessante: questo IEI non rientra nel campo istituzionale e giuridico dell’UE, come se Parigi si fosse improvvisamente resa conto che il quadro comunitario può essere paralizzante. Dieci paesi hanno finora manifestato l’intenzione di partecipare, compreso il Regno Unito. Sarà ovviamente difficile fare qualcosa di diverso da un guscio vuoto, come tutto ciò che è stato provato in questo settore dal 1992 e la nascita della politica estera e di sicurezza comune (PESC). Il Generale Bosser (Capo dello Staff Land) è stato in grado di vedere da solo, come dimostrato dalla sua audizione all’Assemblea Nazionale del settembre 2018: “ Per tutta la durata del forum dei capi di stato maggiore europeo, solo io ho pronunciato il nome di IEI e ho avuto l’impressione di avere davanti a me veri equivoci.  [9] Il contegno nei propositi dell’Assemblea, dovrebbe essere messo in evidenza.

Al solo scopo di credere falsamente a sostanziali progressi nell ‘”Europa della difesa”, il presidente Macron sta facendo tutto il possibile per aumentare il prodigiosamente inefficace bazar istituzionale che dovrebbe incarnarlo. La proliferazione di progetti e istituzioni, il processo infinito di consultazione, le magnifiche e fragorose dichiarazioni di intenti: tutto ciò consente di affermare che ogni giorno si stanno compiendo importanti progressi lungo il cammino di un’autentica difesa europea. Questa agitazione superficiale, tuttavia, è strategicamente simile al puro infantilismo, a suo agio e simpatica in tempi calmi, ma destinata a frantumarsi alla prima grave crisi che si dovesse verificare.

Europa sociale a fuoco

Nel campo dell ‘”Europa sociale”, la grande impresa dell’inizio del quinquennio è stata la revisione dello status dei lavoratori distaccati. Conseguita in un anno, questa revisione era, infatti, già prevista prima dell’arrivo di Emmanuel Macron al potere. Ma bisogna ammettere che ha ottenuto ulteriori emendamenti nell’interesse del nostro Paese. La questione è fino a che punto la riforma finalmente accettata dal Consiglio europeo nell’ottobre 2017, quindi dal Parlamento a maggio 2018, probabilmente metterà in discussione lo scandalo di questo status di lavoratori distaccati quando si applica ai paesi con livelli di sviluppo significativamente diversi.

Se la stampa dall’orientamento europeista coglie ovviamente il “successo” e persino la “vittoria” [10] del presidente su questo argomento – prove secondo lei della sua padronanza diplomatica  altri giornali, tuttavia, sono francamente più avveduti [ 11]. Tutti gli anticipi ottenuti sono in effetti simbolici o marginali: la durata del distacco è ridotta da 24 a 12 mesi al massimo, ma in effetti i lavoratori distaccati in Francia raramente rimangono più di qualche mese. Ancora più importante , a priori, i lavoratori distaccati saranno ora pagati come gli altri (compresi i bonus) e non solo il salario minimo.

Mentre questa misura innegabilmente va nella giusta direzione, poiché diminuisce l’interesse nell’uso di questo tipo di lavoro, è tuttavia di portata limitata. La maggior parte dei posti occupati dai lavoratori distaccati sono pagati presso lo SMIC o poco sopra. Nulla o quasi nulla cambierà, soprattutto perché la disposizione più sleale dello statuto rimane invariata: i lavoratori distaccati e i loro datori di lavoro continueranno a pagare i contributi di sicurezza sociale nel loro paese di origine.

Inoltre, il settore del trasporto su strada, che è molto interessato ai lavori distaccati, è stato escluso dall’accordo per ottenere l’adesione di Spagna e Portogallo. Infine, gli impegni formali assunti dagli Stati per rafforzare la loro cooperazione nella lotta contro la grande frode che accompagna questo status [12] sono difficilmente credibili: perché i paesi dell’Europa mediana sarebbero solerti in questo settore, quando questo zelo sarebbe obiettivamente contrario ai loro interessi economici? Per quanto riguarda la Francia, è anche ovvio che le poche centinaia di dipendenti pubblici mobilitati nella lotta contro queste frodi sono abbastanza sopraffatte [13].

La riforma ottenuta dal presidente riguarda quindi il trompe-l’oeil quasi al completo. Ciò è tanto più vero in quanto non entrerà in vigore prima del 2020. Ci sono voluti un totale di sedici anni per modificare modestamente questo status tipicamente comunitario. Sebbene sia stato istituito nel 1996, le sue deleterie conseguenze economiche e politiche sono state osservabili dal 2004, a causa del primo allargamento dell’UE ad est [14]. Sedici anni per far finta di agire, sotto la pressione di un “populismo” crescente che condanna i leader cinici, ma preoccupati, di preoccuparsi superficialmente della giustizia sociale. Questo è tutto ciò che un’Unione europea alla fine del suo corso può mostrare come dinamismo emancipatorio, e non è nulla, se non un po’ di polvere negli occhi.

La riforma soddisferà gli europei fiduciosi, generalmente protetti dalla concorrenza sleale dei lavoratori distaccati dal loro status o livello di qualifica; il resto della popolazione capirà rapidamente che è stato nuovamente ingannato. La comunicazione politica, tuttavia, ha avuto l’audacia di presentare questa riforma come un successo dell’ “Europa che protegge” [15], seduto sull’assurdo paradosso di tale affermazione poiché qui “Europa” protegge solo se stessa. Chi può comprenda…

Tale è, in questa fase, lo scarso bilancio di E. Macron su “Europa sociale”. Bisogna temere che non ci si debba aspettare nulla dalla sua azione in questo campo negli anni a venire. La campagna per le elezioni europee della primavera 2019 è stata quindi contrassegnata dall’assenza di riferimenti all’idea di “Europa sociale” da parte dei candidati EMN (nonché di quelli degli altri partiti). Il tema è letteralmente scomparso dai discorsi, mentre era insistito da trenta anni ad ogni elezione nella speranza di risvegliare l’interesse dei cittadini per il Parlamento europeo. Forse è stato finalmente compreso dal personale del campo che era stato usato sino alla trama e che era controproducente usarlo. Ad ogni modo, sembra che venga determinata una svolta


Eurozona: due anni di chiacchiere per niente

Si tratta della zona euro, del suo approfondimento ritenuto necessario, laddove le ambizioni del presidente Macron erano allo stesso tempo le più grandi e le più realizzabili a priori , tanto è vero che la costruzione europea è principalmente di ordine economico . In questo settore come negli altri, tuttavia, i primi due anni del quinquennio si sono rapidamente trasformati in dolorose Stazioni della Croce, le cui numerose stazioni hanno crudelmente messo alla prova chi ha affermato, nel febbraio 2017, di non respingere il “  Dimensione cristica  ” [16] dell’incarnazione presidenziale.

Cosa ha ottenuto per il prezzo del suo impegno? Niente. Nessuna delle sue proposte di riforma per l’area dell’euro è stata approvata. Il suo fallimento è completo fino in fondo e un risultato del genere era altamente prevedibile. Il nuovo presidente francese non aveva reali possibilità di vincere. La manovrabilità del Cancelliere tedesco ha facilmente trionfato sul suo volontarismo giovanile, ma non è questo il punto. I fattori strutturali hanno giocato ben oltre queste cause superficiali.

Innanzi tutto, un effetto contestuale: non è più tempo che l’UE faccia importanti riforme politiche. Ha gettato la sua ultima forza nell’artigianato istituzionale del 2010, reso necessario dall’urgenza della crisi finanziaria e monetaria (con la creazione del meccanismo europeo di stabilità e il tentativo di unione bancaria). La costruzione dell’Europa è ormai finita, soprattutto perché il suo approfondimento implicherebbe l’abbandono della sovranità in aree così sensibili che quasi nessuno le considera seriamente. Per andare oltre, i cittadini e i leader dei paesi dell’UE dovrebbero dimostrare che, su questioni che sono essenziali per loro, sono diventati europei anziché nazionali. Tale non è e tale non può essere il caso, in mancanza di una identità europea sostanziale.

Pertanto, le questioni relative al debito pubblico, al bilancio dello Stato, alla politica monetaria non sono solo questioni tecniche, poiché la Francia si impegna a credere nei suoi negoziati con la Germania. Queste domande implicano profonde considerazioni di identità, cultura e moralità, sulle quali Berlino non intende cedere nulla di importante. La Germania accetterebbe un approfondimento della zona euro se fosse simile a una germanizzazione, ma non è proprio l’ambizione francese su questo argomento … Parigi e Berlino si sono quindi date, da maggio 2017, a una vera guerra di posizione, che si concluse con una sconfitta francese.

Riunioni bilaterali – formali o informali – Vertici europei, comunicati ufficiali, scambi di organi di stampa interposti … Nel corso dei mesi e degli anni, gli innumerevoli contatti e sessioni di negoziazione hanno avuto per risultato paradossale uno status quo o quasi di cui la Germania si rallegra perché la avvantaggia. Le pietre miliari che hanno portato a questo fallimento francese sono così numerose che è impossibile – e inutile – elencarle qui. Alcuni sono comunque particolarmente salienti:

  • Il 19 giugno 2018, dopo il 20 ° Consiglio dei ministri franco-tedesco, si legge nella dichiarazione di Meseberg. Il principio di creare un bilancio specifico per l’area dell’euro a partire dal 2021 è accettato dalla Germania [17]. Gli altri Stati interessati devono tuttavia prendere una decisione in merito;
  • 29 giugno 2018: 10 giorni dopo Meseberg, il comunicato finale del vertice dell’area dell’euro, organizzato dopo la riunione del Consiglio europeo del 28, non si preoccupa nemmeno di menzionare l’idea di un bilancio per la zona euro come se non fosse nemmeno stato menzionato [18]. Va detto che 12 Stati avevano inviato una lettera qualche giorno prima al presidente dell’Eurogruppo esprimendo la loro opposizione frontale a tale progetto [19];
  • 14 giugno 2019: in occasione di una riunione dei ministri delle finanze dell’UE, sembra essere stata raggiunta una svolta decisiva, poiché sta emergendo un accordo sul principio del bilancio unico per l’area dell’euro, anche se nulla viene deciso sul suo importo (evoca 17 miliardi di euro per il periodo 2021-2027, quasi nulla), il suo metodo di finanziamento e i suoi obiettivi (“stabilizzazione”, vale a dire, sollievo puntuale verso un paese in difficoltà o investimenti a lungo termine per promuovere la competitività e la convergenza). “  Abbiamo un bilancio dell’area dell’euro  ” [20], tuttavia proclama Bruno Le Maire, ministro francese dell’economia;
  • 21 giugno 2019: alla fine del Consiglio europeo, non sono stati compiuti progressi sul bilancio. Il primo ministro olandese afferma addirittura con soddisfazione che “  la stabilizzazione è finita. Anche il bilancio della zona euro  ”[21].

La Germania ha quindi raggiunto il suo obiettivo senza difficoltà: l’intenso attivismo dispiegato dalla Francia per ottenere un approfondimento dell’area dell’euro si è impantanato nel corso dei mesi, fino a quando non affonda completamente. Se il cancelliere tedesco ha ben presto abbandonato l’idea di un ministro delle finanze o di un parlamento della zona euro, se avesse chiarito chiaramente di essere contraria a qualsiasi idea di mettere in comune fondi. i debiti pubblici, la questione del budget – capitale per Parigi – l’ha costretta a molte manovre di ritardo, essenziali per smorzare nel tempo l’ambizione riformatrice dei francesi.

E’ senza dubbio così che deve essere compreso l’improvviso interesse di Berlino per lo status di membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di cui gode la Francia. Suggerendo ripetutamente che Parigi potrebbe donarlo all’UE [22], le autorità tedesche hanno implicitamente inviato un messaggio alle loro controparti francesi: “Non chiederci l’impossibile, altrimenti faremo lo stesso”. L’euro, questo segno esteso su scala continentale, è importante per la Germania come lo è per la Francia il suo status all’ONU. In entrambi i casi, sono in gioco elementi centrali nella concezione di ciascuno della sua sovranità, della sua identità e del suo ruolo nel mondo. Se le autorità francesi hanno avuto difficoltà a capirlo fino ad allora, dobbiamo sperare che il messaggio così espresso è stato compreso questa volta.

Allo stesso tempo, A. Merkel soffiava costantemente caldo e freddo; a volte sembrava conciliante – dicendo ad esempio a luglio 2017 di non essere ostile all’adozione di un bilancio della zona euro [23] – a volte riluttante a progressi seri – come quando ha evocato pubblicamente i suoi “  scontri  [24] con il presidente Macron. Fu in grado di interpretare la sua partitura con la stessa sottigliezza in quanto altri stati – a cominciare dai Paesi Bassi – manifestano regolarmente un’opposizione categorica alle proposte francesi, che Berlino non avrebbe potuto esprimere così duramente senza umiliare Parigi. Si è concluso con un modesto trionfo, affermando semplicemente, alla fine del Consiglio europeo di giugno 2019, di essere “  soddisfatto delle conclusioni relative all’area dell’euro. ”[25].

L’impossibile missione hugolian del presidente francese

Cosa pensare finalmente della vertiginosa cascata di fiaschi incontrata da Emmanuel Macron da quando è salito al potere? Sarebbe stato facile prevenirli dimostrando modestia. Ma un simile atteggiamento, oltre a non adattarsi all’attuale presidente, avrebbe comportato l’aggiunta al disastroso quinquennio di Francois Hollande di cinque anni di ulteriore immobilità, un fermo intorpidimento mortale per un’Unione europea minacciata di disintegrazione.

Durante la campagna elettorale, il futuro presidente francese aveva fatto dell ‘”Europa” il suo principale cavallo di battaglia. Ci saltò sopra con grande fervore non appena arrivò al Palazzo dell’Eliseo e deve essere riconosciuto per la sua vera abnegazione nel tentativo di rilanciare il progetto europeo. Ma va notato, tuttavia, che il suo impegno europeista oggi è un puro donchisciottismo, dal momento che nessuna delle condizioni necessarie per il successo è stata soddisfatta. Come ha fatto il presidente a non accorgersene? Per capirlo, forse è consigliabile tornare a Hugo, la cui relazione con l’idea europea è sempre stata un riferimento essenziale per l’europeismo francese.

“  Verrà un giorno in cui tu, Francia, Russia, Italia, Inghilterra, Germania, tutte voi nazioni del continente, senza perdere le vostre distinte qualità e la vostra gloriosa individualità, vi fonderete strettamente in un’unità superiore e costituirete in Fraternità europea […]. Verrà un giorno in cui vedremo questi due grandi gruppi, gli Stati Uniti d’America, gli Stati Uniti d’Europa, uno di fronte all’altro, che si protendono sul mare [ Quindi, con la loro azione, l’Asia sarebbe stata restituita alla civiltà, l’Africa sarebbe stata restituita all’uomo. Invece di fare rivoluzioni, avremmo creato delle colonie! Invece di portare la barbarie alla civiltà, la civiltà sarebbe portata alla barbarie.  [26]

Queste parole, spesso citate – con l’ovvia eccezione delle ultime righe di un esaltato colonialismo – esprimono con fervore ed enfasi la grande idea di Hugo sull’Europa, eretta dall’illustre poeta all’orizzonte dell’attesa di tipo politico; Hugo vede nella sua unificazione un risultato storico, attraverso il quale l’umanità dimostrerà la sua capacità di sollevarsi. 170 anni dopo, è in questa mistica che pendono in Francia coloro che non riescono a concepire l’idea di un fallimento generale della costruzione europea. Emmanuel Macron s’è fatto il suo campione. Ma il suo ardore, sebbene sembri abbastanza sincero, non può bastare a concretizzare la speranza di Hugo di una vera Unione Europea.

In questo caso particolare, un abisso separa davvero la mistica dalla politica, e tutti coloro che pensano di poterlo attraversare in qualche modo cadono necessariamente lì. Questo è ciò che sta accadendo ora al presidente francese. Perché chiunque cerchi di concretizzare la visione hugoliana affronta una doppia impossibilità:

  • Un’impossibilità logica in primo luogo: come potrebbero le nazioni del continente conservare le loro “  qualità distinte  ” e la loro “  gloriosa individualità  ” fondendosi in una “  unità superiore  ”? Un tale processo implicherebbe l’abbandono della sovranità con cui ciascuno esprime liberamente la propria relazione specifica con il mondo e si evolve secondo le proprie aspirazioni, la principale delle quali è perseverare nell’essere. Questa è un’aporia che i 70 anni di costruzione europea non hanno affatto contribuito a dissipare;
  • Un’impossibilità nata da una formidabile ambiguità allora: Hugo scrive allora che non si realizzano né l’unità italiana né quella tedesca. Scrive in un momento in cui la Francia pensa a se stessa ed è percepita da molti come la madre delle lettere e delle arti e come il faro politico della razza umana. Se il brano sopra citato suggerisce che la futura fraternità europea sarà per Hugo di natura egualitaria, in seguito ha fatto altre osservazioni che suggeriscono, al contrario, che l’Europa sarà unita dall’azione illuminata della sua avanguardia francese. “La  Francia è un predestinato  ”, “  la nazione utile  che “  dipende dal popolo “, è quella “da cui possiamo aspettarci tutto Dice in un discorso nell’ottobre 1877 [27].

È comprensibile, in queste condizioni, che Hugo sia sempre stato attaccato all’ideale, che non abbia mai ritenuto necessario specificare le modalità concrete del passaggio verso gli Stati Uniti d’Europa. Per lui, l’unità deve essere raggiunta dall’irresistibile forza di attrazione della civiltà francese, la cui diffusione su scala continentale servirà da cemento unificante. L’Europa è possibile perché l’Europa è essenzialmente la Francia. Lo ha anche detto in modo molto esplicito durante la sua ultima apparizione pubblica, il 29 novembre 1884, in occasione di una visita a Bartholdi che ha appena completato la Statua della Libertà: “Questa bellissima opera tende a ciò che ho sempre amato, chiamato: pace. Tra l’America e la Francia – la Francia che è l’Europa – questo impegno di pace rimarrà permanente . [28] Non potremmo essere più chiari …

La visione hugoliana dell’Europa è contaminata da un etnocentrismo che è ancora difficile da concepire oggi e che persiste nelle menti di un gran numero di europei. I voli messianici del grande scrittore sono suggellati da un’ambiguità che uccide sul nascere ogni tentativo di concretizzarli politicamente. Questa ambiguità, insuperabile, è quella di un universale fortemente ancorato a un particolare, è l’ambizione di una Repubblica europea plasmata dal genio nazionale francese.

Nella sua versione attuale, è la speranza di una “Europa sociale” e quella di una “potenza dell’Europa”, in genere ambizioni francesi che sono difficilmente condivise oltre i nostri confini. Da qui il paradosso degli europeisti nel nostro paese: vogliono essere “europei” soprattutto, aderiscono alle dissolvenze del “post-nazionale”, pur non essendo in grado di concepire che l’UE può essere qualcosa di diverso da ciò che in loro lo spirito – il francese nonostante tutto – gli impone. Questa ambiguità deriva da incomprensioni a cascata con i nostri partner e da un blocco permanente su tutti i punti importanti.

Emmanuel Macron ha cercato di rilanciare un progetto moribondo cercando di infondere un po’ del misticismo di Hugo e impiegando una notevole energia in infinite negoziazioni. A questo punto, il suo fallimento è completo e probabilmente definitivo. Ma all’impossibile, nessuno è obbligato. Forse prenderà atto di questa impossibilità nella seconda metà del suo quinquennio, data la lucidità che ha mostrato puntualmente [29]. In ogni caso, dobbiamo sperare per il bene della Francia e per l’Europa che l’UE abbia coperto la sua crosta sterile.

Eric Juillot

fonti

[1] http://www.opex360.com/2018/11/06/the-president-macron-about-setting-a-right-european-right/[2] http://www.opex360.com/2019/07/14/exit-expression-armee-europeenne-le-president-macron-parle-days-dagir-ensemble/[3] O “Corpo europeo di risposta rapida”. È uno staff multinazionale di circa 800 persone creato nel 1992. Con sede a Strasburgo, negli ultimi anni ha lavorato principalmente a beneficio della NATO.[4] Uno staff multinazionale con sede a Bruxelles con circa 200 dipendenti e, in quasi 20 anni, ha guidato solo una manciata di micro-operazioni.[5] Questo fondo è destinato a fornire sostegno finanziario a progetti comuni; il suo budget (probabilmente qualche miliardo di euro) non è stato ancora determinato, lo sarà per il periodo 2021-2027.[6] Questa cooperazione assume la forma di progetti avviati da una nazione guida per rafforzare l’interoperabilità, consentendo l’ammodernamento condivisione di attrezzature, ecc . Tutti i progetti avviati in questa fase hanno dimensioni modeste.[7] Sono previsti un carro armato franco-tedesco e un aereo. Tali programmi sono auspicabili ma a determinate condizioni: controllo dei costi, vantaggi industriali proporzionati per tutti gli attori coinvolti, reale efficienza operativa dell’attrezzatura prodotta. Se in passato questo tipo di cooperazione ha avuto successo (Alphajet, Transall, Jaguar …), gli ultimi risultati si sono spesso rivelati laboriosi e costosi (A 400 M ed elicottero NH 90).[8] http://www.opex360.com/2019/07/14/exit-expression-armee-europeenne-le-president-macron-parle-days-dagir-ensemble/[9] http://www.opex360.com/2018/11/06/the-president-macron-parks-to-establish-a-right-european-right/[10] https://www.liberation.fr/france/2017/10/24/work-detaches-la-victoire-europeenne-de-macron_1605391[11] https://www.marianne.net/economics/student-workers-the-three-statches-of-macron-victory[12] https://www.lemonde.fr/economie/article/2018/02/05/detached-workers-the-figures-are-embedded-in-france_5251933_3234.html[13] L’ispettorato del lavoro riesce a effettuare circa mille ispezioni all’anno, non di più, quando il numero di lavoratori distaccati è ora stimato in oltre 500 000. CF: https://www.actualvalues.com/economy / 46-in-un-il-numero-di-dipendenti-dipendente-senvole-93017[14] Nel 2004 l’UE ha aderito a 10 paesi: Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Ungheria, Repubblica ceca, Slovacchia, Slovenia, Cipro e Malta. Nel 2007, la Romania e la Bulgaria hanno aderito all’UE, seguita dalla Croazia nel 2013. Durante un periodo di transizione, alcuni Stati dell’Europa occidentale hanno introdotto restrizioni per limitare afflusso di lavoratori distaccati da alcuni paesi (Romania, Bulgaria).[15] https://en-marche.fr/articles/actualites/workers-stoppers[16] https://www.lejdd.fr/Politique/Emmanuel-Macron-confidences-sacrees-846746[17] http://www.lefigaro.fr/international/2018/06/19/01003-20180619ARTFIG00368-declaration-of-meseberg-to-reform-the-news-and-of-points- -completer.php[18] https://www.consilium.europa.eu/media/36001/29-euro-summit-statement-en.pdf[19] https://english.rt.com/economy/51866-12-european-countries-are-opposing-to-a-futur-budget-from-euro-zone-europe[20] https://www.euractiv.fr/section/economie/news/no-agreement-on-euro-budgetary-tool-ministers-send-hot-potato-back-to-leaders/[21] https://www.euractiv.fr/section/economie/news/stabilisation-mechanism-in-induced-coma-after-eu-leaders-meeting/[22] https://www.ouest-france.fr/monde/organismes-internationaux/onu/onu-l-la-germany-propose-the-france-of-the-future-of-its-permanent-union-europeenne -6096948[23] https://www.la-croix.com/Economie/Monde/Budget-zone-euro-Il-faut-saisir-lopportunite-souvre- us-2017-07-13-1200862817[24] http://www.lefigaro.fr/international/angela-merkel-recognized-to-have-a-conflictual-relations-with-manuel-macron-20190515[25] https://www.euractiv.fr/section/economie/news/stabilisation-mechanism-in-induced-coma-after-eu-leaders-meeting/ – Gli altri progetti nella zona euro (allargando il ruolo del Anche MES e il completamento dell’unione bancaria), che E. Macron ha ereditato dai suoi predecessori, sono fermi.[26] Estratto dal discorso di Victor Hugo al Congresso per la pace, 21 agosto 1849.[27] Jean GARRIGUES, The Republic Incarnate, da Leon Gambetta a Emmanuel Macron , Parigi, Perrin, 2019, pagina 91.[28] Jean GARRIGUES, La Repubblica incarnata , op. cit ., pagina 110.[29] http://www.lefigaro.fr/conjoncture/2015/09/28/20002-20150928ARTFIG00208-why-macron-predit-il-la-fin-de-la-zone-euro.php

https://www.les-crises.fr/emmanuel-macron-et-leurope-par-eric-juillot-4-4/

Verso il capestro, di Luciano Barra Caracciolo

Il saggio potrebbe in alcuni passi risultare ostico alla comprensione ai non addetti. La ratio e il contenuto assumono comunque straordinaria importanza quanto più i termini dell’accordo prossimo futuro in sede comunitaria sono gelosamente e misteriosamente custoditi sino a portarci all’ennesimo fatto compiuto. Si cercherà con qualche intervista di chiarire gli aspetti più complessi di quanto esposto. Il senso dell’operazione in corso appare comunque nel testo in maniera cristallina_Giuseppe Germinario

IL “NUOVO” ESM: TRA LA VECCHIA SOLUZIONE DEL “TRATTAMENTO GRECIA” E LA SFIDA TEDESCA ALL’ITAL€XIT_di Luciano Barra Caracciolo

 

  1. Il quadro generale della congiuntura italiana nei suoi possibili sviluppi di breve e medio termine.

Cerchiamo di approfondire l’evoluzione della situazione italiana dentro l’eurozona all’incirca nei prossimi due anni (indicativamente). E cioé, appunto, entro un breve periodo in cui si acutizzino i fattori recessivi esogeni (crisi strutturale e geopolitica, – cioè neo-multilaterale-, della globalizzazione asimmetrica) e endogeni all’eurozona (ulteriore consolidamento fiscale, pro-ciclico, determinato dagli obiettivi di pareggio strutturale di bilancio derivanti dal modo in cui viene calcolato l’output-gap dal working group che supporta le prescrizioni impartiteci dalla Commissione Ue).

Nell’appunto sull’applicazione dell’art.65 TFUE, la situazione italiana (attuale) viene riassuntivamente così descritta :

L’Italia attualmente si trova:

  1. a) impossibilitata comunque a promuovere politiche di crescita di c.d. “piena occupazione” (effettiva), e anzi obbligata, dal fiscal compact e dalle sue linee guida applicative (qui, p.3), a perseguire un aggiuntivo e forte consolidamento fiscale, induttivo di una probabile recessione che si aggiunge alla forte stagnazione “esogena” attualmente in corso;
  2. b) impossibilitata, di conseguenza, anche a svolgere le politiche anticicliche (qui, pp. 5-8) la cui necessità e urgenza si manifesta a causa della fase di stagnazione-recessione in cui, anzitutto, la Germania si trova, “trascinando”, di conseguenza anche il nostro sistema produttivo che ne è divenuto, per notori motivi, strettamente dipendente;
  3. c) vincolata, entro breve tempo, (dato l’atteggiamento, ormai da considerare negozialmente tanto irreversibile quanto improvvido, assunto dai vari livelli di rappresentanza italiani), al “nuovo” trattato ESM che implica, in caso di crisi economica in un singolo Stato-membro, che l’intervento del fondo di salvataggio ci sia precluso a priori dal mancato rispetto della regola del debito (limite del 60% su Pil ovvero riduzione significativa negli ultimi esercizi); e ciò, si noti, tranne il caso di previa ristrutturazione dei titoli del debito pubblico nazionale, agevolata, anzi “incentivata”, nella stessa riforma dell’ESM, dall’estensione operativa delle clausole CACS (cioè relative ai poteri dei creditori, in maggioranze ora semplificate, di prescegliere una certa forma, ampiezza, e un certo livello di sostanziale default).
  4. La portata e gli effetti “sistemici” della riforma del trattato ESM.

In questa sede si ritiene di approfondire il punto c), poiché emerge come di primaria importanza per definire in concreto l’ulteriore aggravamento della traiettoria inerziale (quindi in assenza dell’adozione di rimedi “difensivi” da parte delle autorità di governo nazionale), di stress economici, recessivi e distruttivi, cui verrà sottoposta l’intera società italiana, portando alle estreme conseguenze l’ingestibilità e l’instabilità politico-istituzionale.

L’entrata in vigore del “nuovo” trattato ESM (complementare ai trattati Ue, ma sostanzialmente intergovernativo e diretto ai soli membri dell’eurozona, e quindi costituente un vincolo aggiuntivo ed autonomo rispetto al regime dei trattati stessi), nel corso del 2020 può essere dato per scontato: appare infatti ormai impensabile, – date le posizioni favorevoli “in blocco” finora espresse dall’Italia e l’aperta adesione (acritica) dell’attuale governo-, che tale trattato “complementare” non sia definitivamente approvato, come previsto, entro dicembre 2019. La successiva ratifica (che dovrà essere adottata ai sensi dell’art.80 Cost., essendo appunto la sostanziale modifica di un trattato, e non di una fonte di diritto europeo tipizzata, a suo tempo soggetto a ratifica, promulgata nel luglio del 2012), risulta del pari prevedibile ed entro lo stesso anno (salva crisi di governo subentrante prima del compimento di entrambe le deliberazioni delle due camere…). [1]

Schematizziamo il clou delle novità, – di regime dell’eurozona e di gestione delle crisi che possono (asimmetricamente) colpire uno degli Stati ad essa aderenti-, che scaturiscono da questa “riforma”.

Le nuove linee condizionali precauzionali (PCCL- precautionary conditioned credit line), mostrano criteri di ammissibilità agli aiuti impossibili, ove dovesse intervenire a favore di uno Stato che versi nelle condizioni di debito/PIL e di “spazio” di indebitamento annuale dell’Italia (in neretto le condizioni ostative più rilevanti):

(1) non essere in procedura di infrazione,

(2) da due anni non avere deficit superiore al 3%,

(3) anzi, inferiore, come definito da un ‘indice strutturale’ diverso da paese a paese,

(4) da due anni, avere un debito inferiore al 60% ovvero averlo dibotto di almeno 1/20 della distanza dal 60%,

(5) non avere alcun disequilibrio macroeconomico,

(6) avere accesso ai mercati dei capitali ‘a termini ragionevoli’ (ma sconosciuti nei loro esatti termini definitori),

(7) un debito estero sostenibile,

(8) un settore finanziario non vulnerabile.

Criteri che il Consiglio dello ESM è libero di applicare discrezionalmente, secondo linee di “aggiustamento” interpretativo non ragionevolmente preventivabili e, anzi, potenzialmente discriminatorie (come s’è già visto in tema di unione bancaria e discrezionalità relativa ai presupposti di ammissione dei vari tipi di ricapitalizzazione pubblica preventiva e di burden sharing a carico degli obbligazionisti, non evitato a causa di una decisione della Vestager poi ritenuta illegittima dal giudice europeo di primo grado; “caso Tercas).

Infatti queste linee di intervento ordinario sono pensate, per così dire, per Paesi che cadano in crisi…nonostante sé stessi: cioè che, – nonostante siano in condizioni di osservanza dei criteri complessivi del Fiscal Compact e, peraltro, essendovi riusciti pur in vigenza del regime dell’unione bancaria nonché, per la verità, grazie alla “misteriosa” pregressa tolleranza sul deficit (es; casi di Francia, Spagna, Portogallo nel periodo 2009-2017), riescano, allo stato attuale, ancora a registrare una situazione di equilibrio macroeconomico (secondo gli indicatori che accompagnano le regole del Fiscal Compact sugli squilibri macroeconomici); ciò in specie nei conti con l’estero, nonché per quanto concerne le condizioni di accesso “sostenibile” ai mercati per il finanziamento del debito pubblico.

In pratica, il nuovo ESM ammette il salvataggio “ordinario”, dedicato ad un singolo Stato dell’eurozona, come “caso impossibile”, al punto da rendere i suoi strumenti di intervento anti-crisi in concreto del tutto irrilevanti (tranne forse che per un salvataggio rivolto alla Germania o all’Olanda, caso della cui verificazione, stante l’attuale pseudo-equilibrio dell’eurozona, ci sarebbe da molto dubitare; peraltro, già per la Francia, l’attuale linea di deficit perseguita dal governo Macron, risulterebbe escludente, – il condizionale è d’obbligo, nel caso della Francia-, restringendo ulteriormente l’utilità concreta dello strumento).

In difetto di queste condizioni “ideali”, e concretamente paradossali, di concessione dell’intervento, viene poi previsto un “ESM loan”, o linea di credito a condizioni rafforzate, sul modello d’azione tipico del FMI (ECCL- Enhanced Conditions Credit Line), per l’acquisto di titoli del debito pubblico del paese in crisi (da spread, e quindi di rifinanziamento), sia sul mercato primario che sul secondario: e questo, però, solo se venga valutato, sempre con fortissima discrezionalità, che “la generale situazione economica e finanziaria rimane forte ed il debito pubblico sostenibile”.

Infatti, lo ESM è tenuto ad espletare, preliminarmente, una analisi di sostenibilità del debito.

Complessivamente e senza dettagliare la farraginosa disciplina in ogni sua ipotesi, – considerate, appunto, le eventualità effettive di intervento “utile” del Fondo – il Paese che chiede il sostegno dello ESM, deve sapere in partenza che gli verrà chiesta preliminarmente una ristrutturazione del debito.

Per rendere ancora più agevole l’imposizione di questa pregiudiziale fase di condizionalità (fortemente traumatica, nell’ordine degli eventi che concernono la vita di uno Stato appartenente all’OCSE…), col Trattato, le parti contraenti si impegnano a inserire, sin da subito, ed a prescindere dal manifestarsi di prevedibili condizioni di crisi, in tutte le proprie nuove emissioni, le clausole CAC (CAC-Collective Action Clauses) Single Limb (estensive dell’attuale capacità dei creditori di deliberare una ristrutturazione, tra i cui eventi presupposti, va rammentato, è previsto anche il cambio di valuta del paese emittente).

Ma non è finita qui; solo dopo tale ristrutturazione, lo ESM potrà offrire un prestito, “soggetto a stretta condizionalità (…) un programma di aggiustamento macroeconomico”, d’intesa con Commissione, Bce, IMF, dunque “duro” come sempre, per capirsi, come nel caso della Grecia. Il credito così concesso, inoltre, darà luogo a un congruo utile, per livello di interesse previsto, allo ESM, (evidentemente a compensare le perdite del resto del portafoglio, investito in Titoli di Stato tedeschi e francesi). Mentre lo ESM ed i suoi direttori si appropriano di piena immunità legale e penale.

  1. Il riassetto “estremo” che l’ESM determinerà nel funzionamento dell’eurozona.

Vediamo dunque quali saranno le novità essenziali che deriveranno da questa nuova disciplina nel funzionamento, già di per sé difficoltoso, dell’eurozona:

  1. a) le difficoltà di collocamento del debito pubblico determinate dagli spread, e la quasi totale soppressione di ogni spazio di intervento fiscale anti-recessivo degli Stati, potrebbero essere ovviate solo attraverso il prestito del nuovo ESM, previa ristrutturazione/default, e non più tramite l’OMT (Outright Monetary Transaction): cioè l’effetto, essenzialmente “psicologico”, sui mercati finanziari, del whatever it takes pronunciato da Draghi nell’estate del 2012. Quest’ultimo strumento, infatti, – nella sua forma di implicita e pura garanzia del debito pubblico apprestata dalla banca centrale (come accade nel rapporto tra banca centrale e emissioni del tesoro in ogni normale Stato dotato della propria moneta sovrana) -, non esiste più da anni, (ove mai la “creatività” di Draghi gli avesse dato una effettiva esistenza…non mediatico-comunicativa), poiché, su rimessione della Corte costituzionale tedesca, la Corte di giustizia europea, con sentenza del giugno 2015, ha chiarito definitivamente chel’attuazione del programma OMT è subordinata al rispetto integrale, da parte degli Stati membri interessati, di programmi di aggiustamento macroeconomico del Fondo europeo di stabilità finanziaria (FESF) o del Meccanismo europeo di stabilità (MES)”.

Ora, non sfugga che, in virtù del nuovo regime dell’ESM, i programmi di aggiustamento macroeconomico vengono ancor più inaspriti, erigendo a ipotesi unica, vincolante ed effettivamente applicabile, il “metodo” utilizzato con la Grecia
Appare perciò del tutto evidente che i problemi di crisi del debito pubblico, entro l’eurozona, – determinati anzitutto da evidenti difficoltà di ottenere un adeguato livello di crescita nonché di risolvere una crescente disoccupazione strutturale (e i suoi ovvii effetti di gettito tributario calante e di pressione all’aumento della spesa pubblica per “ammortizzatori sociali”), sono, (dal 2020 in modo ancor più vincolante), risolvibili solo attraverso il trauma della ristrutturazione del debito pubblico e con la sostanziale abrogazione dei già ristretti margini di intervento autonomo della banca centrale, a differenza di quanto accade per ogni altro Stato dotato di un proprio potere di emissione monetaria.

Va infatti rammentato che gli spread sono dipendenti da una condizione strutturale dell’eurozona: cioè costituiscono il “premio”, crescente, di rischio relativo alla uscita di uno Stato-membro, a causa dell’insostenibilità macroeconomica della moneta unica, a sua volta dovuta alle condizioni permanentemente punitive, per la crescita (e quindi per il calo del rapporto debito/PIL) implicite nel divieto di bail-out degli Stati aderenti (ovverosia, divieto di “solidarietà” fiscale dentro l’eurozona; artt.124 e 125 TFUE), nonché nel divieto della BCE di acquisto diretto dei titoli di debito pubblico (art.123 TFUE).

A seguito della crisi del debito pubblico, del salvataggio “psicologico” determinato dalla mera prospettazione dell’OMT, e poi, decisivamente, del primo programma di acquisto dei titoli del debito pubblico lanciato nel 2015 dalla BCE (QE), gli spread appaiono inoltre strettamente collegati al permanere di un atteggiamento “attivo” della stessa BCE, cioè legati al suo intervento (tramite banca centrale nazionale) negli acquisti sul mercato secondario (in particolare per l’Italia), mediante l’utilizzazione della liquidità, già immessa nel sistema, e riveniente dal rimborso alle scadenze dei titoli detenuti in forza di tale QE (e di altri precedenti facoltà di acquisto consentite alla BCE).

  1. Riforma ESM, orientamento privilegiato alla ristrutturazione del debito pubblico, e suoi effetti sul sistema bancario e sul risparmio nazionale nel quadro dell’Unione bancaria.

In complemento a questo scenario di ulteriore irrigidimento delle condizioni fiscali dell’eurozona, occorre considerare la contemporanea vigenza della c.d. Unione bancaria e gli effetti collaterali, di propagazione recessiva, che conseguirebbero, perciò, all’intreccio tra le due discipline, quella dello ESM e quella, già applicabile, dell’unione bancaria.

Detto in estrema sintesi: con il vincolo di (paradossale salvataggio previa) ristrutturazione del debito pubblico, ovvero con la partecipazione del settore privato, detentore dei relativi titoli, alle perdite, tutte le banche italiane andrebbero in default, con prevedibili conseguenze sistemiche.

La sequenza è: a) perdita vistosa dei corsi dei titoli, b) perdita conseguente di bilancio degli istituti bancari, c) esigenza di ricapitalizzazione a livelli impensabili, e non appetibili, per qualsiasi investitore privato, d) contemporanea preclusione di qualsiasi forma di ricapitalizzazione pubblica, non finanziabile sui mercati (ancorché susseguente a burden sharing a carico di azionisti e obbligazionisti…spesso piccoli risparmiatori), ergo: e) inevitabile bail-in di massa dei correntisti e ondata recessiva (aggiuntiva a quella che avrebbe, in assunto, giustificato il ricorso all’ESM!) di dimensioni epocali; ciò a causa della massiccia distruzione di risparmio e, dunque, di investimenti e degli stessi consumi (occorre infatti considerare la c.d. propensione al consumo del risparmio liquido e persino, sebbene inferiore, della ricchezza immobiliare, a valori drammaticamente descrescenti: tali asset infatti sono sempre più divenuti una riserva di consumo “eventuale”, legata all’incertezza e al calo dei redditi delle famiglie).

4.1. Riassumendo:

  1. a) la BCE assumeun ruolo sempre più centrale nell’eurozona, ma ancor più di prima, “in negativo”: cioè divenendo, in modo estremo, assolutamente neutrale nelle sue (peraltro giuridicamente vietate) funzioni di garanzia dell’azione fiscale degli Stati. L’indipendenza pura (cioè estesa non alla mera “libertà” della BC dall’’indicazione governativa di intervento sul mercato dei titoli al collocamento, ma come espresso “divieto” di tale acquisto in, eventuale, “monetizzazione” del debito pubblico stesso; v.art.123 TFUE) e dunque l’adesione all’idea neutrale della moneta, confinano la BCE ad effettuare la vigilanza bancaria ed il (mero) finanziamento del relativo settore secondo le pratiche di regolazione della massa monetaria fisiologicamente legate a tale neutralità (in pratica, l’emissione di moneta di banca centrale sarebbe assolutamente sigillata in un circuito che escluderebbe qualsiasi diretta o indiretta connessione con la “dazione” a soggetti dell’economia reale);
  2. b) non a caso appare altamente improbabile, e anzi complementare alla riforma dell’ESM, che, – in questa direzione impressa all’assetto dell’eurozona -, il nuovo QE sia effettivamente portato a compimento…il che, tra l’altro, equivale anche a una sostanziale rinuncia al vano tentativo di riportare l’eurozona al target inflattivo del 2%, compito già obiettivamente fallito col primo QE, e che risulta ora ostacolato dall’intento aggiuntivo di vietare, col nuovo ESM, i suoi effetti formalmente “secondari” (del QE): cioè quello di sostegno economico-fiscale agli Stati (che tante opposizioni ha suscitato e, ancor più suscita ora, nella Germania e nei suoi satelliti), nonché quello di effetto svalutativo nei confronti del dollaro (effetto che potrebbe essere rinunziato da Francia e Germania, come risulta dall’attuale decisa opposizione delle rispettive banche centrali, per evitare uno scontro commerciale e valutario con gli Stati Uniti);
  3. c) tutto il peso del riequilibrio interno all’EZ ricade sul finanziamento dell’ESM, che si profila anticipatamente come: a) meramente teorico in via di intervento ordinario, in condizioni fisiologiche; b) acutamente pro-ciclico, in caso di intervento residuale e concretamente applicabile, determinando una punizione “estrema” del paese che non reggerà la duplice condizione del pareggio di bilancio e di una crescita priva di squilibri macroeconomici;
  4. d) per l’Italia, a cui appare “mirato” il nuovo regime dell’ESM, questa situazione complessiva equivale a vincolo legale, fortemente sanzionato, a seguire una rigida politica fiscale pro-ciclica e, in prospettiva resa inevitabile, a sottoporsi alla ristrutturazione del proprio debito pubblico con conseguenze bancarie sistemiche e un bail-in di massa disastrosamente recessivo;
  5. e) questo scenario di imminente riforma rende perciò, va sottolineato, quasi obbligato, per l’Italia, un intervento precauzionale di imposizione patrimoniale sul risparmio privato nei depositi bancari, – ovvero un insieme di misure tributarie equivalenti (quanto a gettito)- nonché una ulteriore accelerazione nel progressivo smantellamento del sistema pensionistico e sanitario pubblico, che, ai fini del pareggio strutturale di bilancio, risultano infatti i maggiori aggregati della spesa pubblica (e la cui “incomprimibilità” politica viene considerata il principale ostacolo ad una virtuosa appartenenza all’eurozona). Ma anche questa serie di politiche “precauzionali”, accelerate dalla minaccia…del salvataggio ESM (!), risultano fortemente recessive, se non esiziali per la nostra economia e per il minimo di coesione sociale che caratterizza un paese democratico.
  6. La segregazione nel sistema Target2: una “quasi mediazione” per conservare l’euro e creare un ibrido che potrebbe preparare alla sua dissoluzione concordata.

Di fronte ad una tale ricetta per una fine disastrosa dell’eurozona, rimane sul tappeto un’ipotesi, come dire, di “mediazione” (come vedremo non meno penalizzante, a seconda dei suoi tempi e circostanze di adozione).

Il meccanismo in pratica è stato già ventilato “sottovoce” da più parti.

Nella fase attuale, la spinta di partenza sarebbe così riassumibile: se. in virtù del “nuovo” Trattato ESM, le regole tedesche non reggerebbero alla prova dei fatti (inducendo un collasso dell’EZ, proprio perché volutamente troppo costrittive), in realtà, l’introduzione di una riforma così “minacciosa”, potrebbe essere il modo migliore per costringerci ad accettare la c.d. segregazione.

La segregazione consiste (sulla traccia di quanto sperimentato dalla BCE nei confronti di Cipro e della Grecia) nella imposizione, all’interno del sistema di pagamenti Target2, di un obbligo di preventiva prestazione di cauzione per ogni pagamento in uscita proveniente da uno Stato considerato “debitore a rischio” (verso il rimanente sistema delle banche centrali dei singoli paesi-membri e, per riflesso, verso i sistemi bancari di tali paesi “creditori”).   Tale cauzione può assumere la forma di un deposito (presso la BCE) di una certa quantità di riserve della banca centrale nazionale, in oro o valute “forti”. Ma preso nella sua rigida forma giustificativa, avrebbe un limite (l’ammontare di tali riserve, comparato con il volume dei pagamenti verso l’estero dei residenti italiani), relativo all’onere sostenibile da parte della Banca d’Italia, che sarebbe presto raggiunto (in pochi mesi).

Infatti, per un paese che comunque presenta una forte componente di esportazioni, ma anche di connesse importazioni per rifornire il proprio sistema di trasformazione industriale, si avrebbe quasi certamente la concreta traslazione, da parte delle autorità bancarie nazionali, dell’onere di prestazione della garanzia a carico delle banche commerciali che eseguono gli ordini di pagamento in uscita. Queste, a loro volta, agendo come mandatarie degli operatori economici che importano, chiederebbero agli stessi o di sopportare il costo della garanzia, ovvero, in termini più pratici, un sovrapprezzo rispetto a quello corrispondente all’ordine di pagamento derivante dalla transazione di importazione.

Analogamente, nel sistema della segregazione, l’operatore nazionale esportatore, maturando un credito con un profitto (al netto dell’imposizione fiscale), che determina un attivo nelle partite correnti commerciali, non potrebbe poi più generare un pagamento in uscita nel sistema Target2 corrispondente all’investimento, per lo più finanziario, di tale profitto netto: e ciò, appunto, senza doverne sopportare una forte decurtazione a seguito della disposizione di “segregazione” (in sostanza, per l’investitore italiano verso l’estero ciò comporta un aumento del prezzo dello strumento finanziario estero prescelto; all’interno della sola eurozona, peraltro). L’effetto pratico sarebbe che, pur rimanendo l’Italia formalmente nell’eurozona, per gli acquisti dall’estero e per le esportazioni di capitale (all’interno della sola eurozona), l’euro “italiano” risulterebbe de facto svalutato nella misura percentuale corrispondente all’ammontare della cauzione/costo della garanzia imposta per un pagamento verso altri paesi dell’eurozona.

Ciò avrebbe un vantaggio, sia pure costrittivo, consistente in una misura equivalente alla restrizione delle importazioni (componente negativa del PIL), – vietata dall’art.34 TFUE ma consentita dalla supposta specialità delle regole applicabili dalla BCE -, nonché determinante un vincolo all’investimento nazionale dell’eventuale surplus delle partite correnti: tale investimento “nazionale” del surplus (aderendo all’idea che, tendenzialmente, importazioni più costose avrebbero perciò un minor volume, e, sempre tendenzialmente, il surplus commerciale medesimo potrebbe addirittura risultare aumentato) sarebbe, in ipotesi, destinato a rivitalizzare sia la domanda di titoli del debito pubblico che di beni immobiliari.

In altri termini, poiché l’Italia non è Cipro, ma un forte paese industriale manifatturiero, con una consolidata vocazione esportativa, si avrebbe una sorta di ibrido “lira-euro”, ragionevolmente svalutato e, come vantaggio ipotizzato dai tedeschi, una correzione abbastanza rapida del loro saldo attivo Target2, che la Germania considera, in modo unilaterale e controverso, come un attivo di riserve (in euro) della propria banca centrale.

  1. Osservazioni conclusive concernenti le prospettive vincolate dell’evoluzione della situazione politica e di governo italiane.

Qualche osservazione finale che aiuti a comprendere appieno la “svolta” che, senza apparente reazione alcuna da parte del governo nazionale, si sta così profilando:

1) La riforma dell’ESM risulta come una plateale accelerazione della “germanizzazione” dell’eurozona: infatti, si tratta di regole tedesche che non reggerebbero alla prova dei fatti per un debito pubblico e un’economia delle dimensioni di quella ITA. La stessa entità della provvista di cui è dotato l’ESM appare insufficiente a un salvataggio di tali dimensioni. Oltretutto, l’ESM si risolve nella “segregazione”, ovverosia in un vero e proprio sequestro “escludente” della (notevole) contribuzione italiana all’ESM (che assommandosi a quella già erogata all’incorporato ESFS, arriva a oltre 120 miliardi…).

2) Insomma, politicamente, ormai, la decisione finale sulla sopravvivenza o meno dell’€urozona spetterà alla Bundesbank che, certo, potrà invocare il mancato rispetto delle ‘regole’, ma dovrà assumersi l’onere della fine di un meccanismo che, allo stato dei fatti, favorisce l’espansionismo francese (dato che, vale la pena di rammentarlo, lo Stato francese e le banche francesi hanno accesso “non sindacato” al credito BCE);

3) l’alternativa alla segregazione, o, prima ancora, all’applicazione “punitiva” del trattato ESM (pressione tedesca), è costituita dall’ottenimento di saldi primari, pluriennali, del bilancio pubblico, dell’ordine di 3,5 – 4% del PIL (pressione francese), economicamente insostenibili (per crescita e occupazione), ma pienamente compatibili con uno sfruttamento coloniale, ovvero la via €uropea, di trasformazione definitiva del sistema italiano: prima di tutto costituzionale, secondo l’indicazione, ormai insistita da circa tre decenni, data dalla tecnocrazia italica (e dall’insieme di forze economiche e mediatiche che sostengono la permanenza nell’eurozona “ad ogni costo”);

4) il perseguimento di saldi primari di tale entità presupporrebbe, piuttosto, una situazione di, almeno, moderata crescita (sebbene, nell’eurozona, nell’accezione solowian-Barro-sargentiana, cioè praticamente una lunga stagnazione). Per contro, come dovrebbe ormai essere evidente a tutti, la globalizzazione, come s’è detto, si è inceppata, e pare vicina al collasso nella sempre più paventata evenienza della prossima crisi finanziaria globale (è, in estrema essenza, un problema di asimmetrie istituzionali nell’applicazione del WashingtonConsensus, v. pp. 1-2, a cui sono soggetti i paesi OCSE, in primis USA e eurozona, ma non altrettanto i paesi emergenti maggiori, come Cina e India, che hanno eroso crescita, capacità produttiva e occupazione nei paesi OCSE, ricorrendo a uno sviluppo caratterizzato da un forte intervento statale e da un incontrollato dumping sul costo e sulla tutela del lavoro).

Ergo, l’aspirazione francese, a prendere il controllo del sistema (finanziario, industriale e dei servizi) italiano, già nel medio periodo, se rapportata alla congiuntura economica globale, risulta velleitaria (può risolversi in un boomerang, con una recessione che contagi l’intera eurozona); così come appunto velleitaria è l’ostinazione dello spaghetti €stablishment nell’assecondare l’espansionismo francese, promettendo (da decenni), una crescita futura “competitiva”, senza potersi basare su alcun ragionevole motivo macroeconomico che gli consenta di mantenere tale promessa…pagandone appunto il costo in termini elettorali;

5) in questo quadro globale, peraltro, trova spiegazione anche l’opposizione francese (cioè della banca centrale di Francia: un fatto considerato “sorprendente”…) al “nuovo” Quantitative Easing lanciato da Draghi.

Tale opposizione è ragionevolmente dovuta (v. qui, p. 8.1.): a) ai rendimenti negativi sulla gran parte dei loro titoli del debito pubblico che gli stessi francesi stanno subendo (permanendo in parallelo anche l’impossibilità politica per Macron di realizzare le riforme strutturali alla “tedesca”, e quindi di sopportare il costo politico-sociale di politiche di (ulteriore) svalutazione interna; b) all’effetto svalutativo sul dollaro del QE, e alla conseguente guerra daziaria (e anche valutaria) che ne deriverebbe (Trump deve aver parlato chiaro a Macron all’ultimo G7 di settembre), che i francesi commercialmente e geopoliticamente non possono permettersi (essendo gli Usa il primo paese di destinazione, per volume, delle loro esportazioni).

6) Volendo accreditare di una certa sostenibilità le politiche di perseguimento del pareggio strutturale di bilancio, che l’attuale governo persegue con molte incertezze, si renderebbe indispensabile un intervento “di riserva” della BCE alternativo al QE (come abbiamo visto sopra parlando degli spread)…ma sarebbe sufficiente a compensare l’entità della recessione fiscalmente indotta? L’esperienza “Monti” e governi seguenti ci dice di no.

E qui giunge al pettine un nodo nevralgico: l’ESM “punitivo”, tedeschizzato, fondato appunto sulla definitiva neutralizzazione di ogni possibilità di intervento della BCE, porterebbe al riacutizzarsi entro breve di un conflitto franco-tedesco. Ed infatti, la Germania ha interesse a minacciare la (imminente) ristrutturazione del nostro debito pubblico, se non altro (nella migliore delle ipotesi), per consentire di imporci la “segregazione” e assicurarsi un riequilibrio dei saldi Target2, (che, in controluce, prepara in realtà o una German-exit o un’Ital-exit); vale a dire: la Francia ha bisogno di tempo e di politiche di consolidamento fiscale che diluiscano nel tempo, in Italia, un effetto equivalente alla ristrutturazione del debito italiano (come abbiamo visto), per assicurarsi (in forza della tradizionale “cooperazione” politica del PD) il completo controllo finanziario e industriale della penisola.

7) Insomma: il valore operativo dell’ESM sta nell’imporlo (all’Italia), come minaccia “estrema”; consiste cioè, in un certo senso, in una sfida tedesca a imporci l’uscita. Però, prima regolando, a loro favore, i saldi Target2 (cioè vogliono la liquidazione per rimpinguare di riserve la loro moneta forte futura: possibilmente, per loro, un euro senza l’Italia).

 

[1] Questa la configurazione originaria dell’ESM: Il Meccanismo europeo di stabilità (MES), detto anche Fondo salva-Stati (in inglese European Stability Mechanism; ESM), è un’organizzazione internazionale a carattere regionale nata come fondo finanziario europeo per la stabilità finanziaria della zona euro (art. 3); è istituita dalle modifiche al Trattato di Lisbona (art. 136) approvate il 23 marzo 2011 dal Parlamento europeo[1] e ratificate dal Consiglio europeo a Bruxelles il 25 marzo 2011[2][3]. Esso ha assunto però la veste di organizzazione intergovernativa (sul modello del FMI), a motivo della struttura fondata su un consiglio di governatori (formato da rappresentanti degli stati membri) e su un consiglio di amministrazione e del potere, attribuito dal trattato istitutivo, di imporre scelte di politica macroeconomica ai paesi aderenti al fondo-organizzazione.[4]

Il Consiglio Europeo di Bruxelles del 9 dicembre 2011, con l’aggravarsi della crisi dei debiti pubblici, decise l’anticipazione dell’entrata in vigore del fondo, inizialmente prevista per la metà del 2013, a partire da luglio 2012.[5] Successivamente, però, l’attuazione del fondo è stata temporaneamente sospesa in attesa della pronuncia da parte della corte costituzionale della Germania sulla legittimità del fondo con l’ordinamento tedesco.[6] La Corte Costituzionale Federale tedesca ha sciolto il nodo giuridico il 12 settembre 2012, quando si è pronunciata, purché vengano applicate alcune limitazioni, in favore della sua compatibilità con il sistema costituzionale tedesco[7].

Il MES sostituisce il Fondo europeo di stabilità finanziaria (FESF) e il Meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria (MESF), nati per salvare dall’insolvenza gli stati di Portogallo e Irlanda, investiti dalla crisi economico-finanziaria.[8] Il MES è attivo da luglio 2012 con una capacità di oltre 650 miliardi di euro, compresi i fondi residui dal fondo temporaneo europeo, pari a 250-300 miliardi.[9][10][11]

Il MES è regolato dalla legislazione internazionale e ha sede a Lussemburgo. Il fondo emette prestiti (concessi a tassi fissi o variabili) per assicurare assistenza finanziaria ai paesi in difficoltà e acquista titoli sul mercato primario (contestualmente all’attivazione del programma Outright Monetary Transaction), ma a condizioni molto severe. Queste condizioni rigorose “possono spaziare da un programma di correzioni macroeconomiche al rispetto costante di condizioni di ammissibilità predefinite” (art. 12). Potranno essere attuati, inoltre, interventi sanzionatori per gli stati che non dovessero rispettare le scadenze di restituzione i cui proventi andranno ad aggiungersi allo stesso MES.[12] È previsto, tra le altre cose, che “in caso di mancato pagamento, da parte di un membro dell’Esm, di una qualsiasi parte dell’importo da esso dovuto a titolo degli obblighi contratti in relazione a quote da versare […] detto membro dell’Esm non potrà esercitare i propri diritti di voto per l’intera durata di tale inadempienza” (art. 4, c. 8).

Il fondo è gestito dal Consiglio dei governatori formato dai ministri finanziari dell’area euro, da un Consiglio di amministrazione (nominato dal Consiglio dei governatori) e da un direttore generale, con diritto di voto, nonché dal commissario UE agli Affari economico-monetari e dal presidente della BCE nel ruolo di osservatori. Le decisioni del Consiglio devono essere prese a maggioranza qualificata o a maggioranza semplice (art. 4, c. 2).[12] Il MES emette strumenti finanziari e titoli, simili a quelli che il FESF emise per erogare gli aiuti a Irlanda, Portogallo e Grecia (con la garanzia dei paesi dell’area euro, in proporzione alle rispettive quote di capitale nella BCE), e potrà acquistare titoli di stati dell’euro zona sul mercato primario e secondario. Il fondo potrà concludere intese o accordi finanziari anche con istituzioni finanziarie e istituti privati. È previsto l’appoggio anche delle banche private nel fornire aiuto agli stati in difficoltà. In caso di insolvenza di uno Stato finanziato dallo MES, quest’ultimo avrà diritto a essere rimborsato prima dei creditori privati.

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dal russiagate all’ucrainagate, di Gianfranco Campa

Impeachment! Impeachment! Impeachment!  La parola  più volte sussurrata dall’establishment repubblicano e dallo stato ombra, più volte sbandierata, strillata a squarciagola dai rappresentanti politici e dal popolo democratici. In cima ai desideri l’obiettivo ultimo, mai nascosto, è la rimozione di Trump con le buone o con le cattive. Con le buone, tramite appunto l’impeachment; con le cattive… beh lascio a voi immaginare i modi e i metodi. I precedenti non mancano. Con l’annuncio dell’impeachment siamo finalmente arrivati all’epilogo di questa farsa pur con due anni di ritardo.

Avevo scritto e narrato in molte occasioni, con podcast e articoli, che fin dal principio, cioè dall’insediamento di Trump alla Casa Bianca, l’obiettivo ultimo era di rimuovere Trump dalla presidenza. Avevo anche denunciato, in due podcast precedenti alle elezioni medio termine del 2018 che l’alto numero di candidati democratici alla camera di estrazione militare e di intelligence, aveva due scopi: il primo, far presa sugli elettori repubblicani, i quali con la presenza di candidati veterani, si sarebbero sentiti meno motivati a votare repubblicano, poiché lo spirito patriottico li portava automaticamente a fidarsi dei candidati ex militari indipendentemente dal colore politico. Secondo, come conseguenza del primo, le elezioni di molti candidati democratici di questa origine, la loro presenza alla Camera dei Deputati, avrebbe portato il popolo repubblicano, se non ad abbracciare la causa, almeno ad ingoiare la pillola  dell’impeachment. Infatti  c’è una certa, come posso dire, timidezza da parte dell’elettorato repubblicano nel criticare i veterani militari e i gli operatori degli apparati di sicurezza in generale, chiunque essi siano. Tutto questo  per motivi di rispetto e gratitudine verso i servitori dello stato incaricati della sicurezza della patria.

Il russiagate e il pornogate avrebbero dovuto servire da trampolino di lancio, da base per l’impeachment, inizialmente difficile da attuare per il semplice motivo che il controllo della Camera da parte dei repubblicani avrebbe reso difficile qualsiasi iniziativa in tal senso. Con le elezioni di medio termine, con la vittoria dei democratici che riprendono il controllo della Camera, l’impeachment è ora tornato al centro dello scenario politico americano. Per questo motivo la farsa del russiagate  si è trascinata oltre le elezioni di medio termine del 2018, concludendosi ufficialmente solo un paio di mesi fa con la deposizione di fronte al Congresso Americano dell’ex procuratore speciale Robert Mueller. La squadra investigativa di Mueller aveva come solo obiettivo indagare Trump fino alle elezioni del 2018 sperando che il Russiagate riuscisse ad offrire lo strumento della rimozione in mano ai Democratici, attualmente controllori del Senato e a sferrare l’attacco decisivo a Donald Trump.  Ora sappiamo tutti com’è andata finire questa farsa. Un’inchiesta maldestra e scandalosa, conclusasi con la disastrosa performance di Mueller di fronte al Congresso Americano e a milioni di telespettatori. Anche il pornogate non ha raggiunto miglior sorte, con l’arresto dell’avvocato che rappresentava la pornodiva Stromy Daniels, Michael Avenatti, per estorsione e violenza domestica. Col Russiagate e il Pornogate liquefattisi nelle fiamme degli inferi politici americani, lo stato ombra e i democratici necessitano di un’altra strategia per creare il casus belli necessario all’impeachment. Ci ritroviamo così oggi con un altro “scandalo” inventato, creato dallo stato ombra in un ennesimo tentativo di azzoppamento, l’Ucrainagate. E’ un colpo di stato strisciante, cominciato subito dopo le elezioni di Trump, riprodottosi costantemente sotto nuove forme ogni volta che risultano necessari un cambiamento di rotta o un tattica diversa. A tre anni dalle elezioni di Trump lo stato ombra, sostenuto dai mass media, non sembra aver esaurito il suo impulso sovversivo e sovvertitore.

Qualunque sia il modus operandi, la strategia dello stato ombra, mostra i propri limiti e la propria inettitudine nel creare quella forza d’urto necessaria a dare la spallata definitiva a Donald Trump. Se analizziamo l’Ucrainagate e le informazioni in merito  finora disponibili, troviamo molte analogie con il Russiagate. Proprio come il Russiagate, di cui ne avevo previsto il fallimento con abbondante anticipo, così l’Ucrainagate si incanala sugli stessi binari, finirà nel cestino della storia. Un maldestro, l’ennesimo, tentativo dei soliti accoliti di condurre la presidenza Trump verso binari morti.

Lo stampo dello stato ombra su questa nuova farsa, questa nuova caccia alle streghe è visibile e lampante, addirittura telefonata.

Offriamo comunque una analisi dettagliata; cominciamo dall’antefatto.

La lettera del fantomatico whistleblower che “denuncia” i crimini di Trump è stata consegnata  il 12 Agosto del 2019 ai deputati Adam Schiff e Richard Burr, rispettivamente Presidenti della Commissione di Intelligence della Camera e del Senato. Schiff è deputato democratico della California, Burr senatore proveniente dalla Carolina del Nord. Qui il link della lettera che ha dato inizio ufficialmente all’Ucrainagate:

https://intelligence.house.gov/uploadedfiles/20190812_-_whistleblower_complaint_unclass.pdf

La prima cosa importante che notiamo è la data della consegna della lettera di denuncia, il 12 Agosto 2019, tre settimane dopo la disastrosa testimonianza di Robert Mueller (24 Luglio) al cospetto del Congresso Americano che affondava una volte per tutte la stagione del Russiagate. La tempistica è sospetta, tre settimane; il tempo necessario a commissionare, costruire e divulgare un nuovo scandalo seguendo una trama internazionale.

Leggendo la lettera del whistleblower, mi viene subito  in mente il dossier di Christopher Steele. La tecnica di denuncia è quasi la stessa. Una serie di presunte accuse lanciate con materiale di supporto scadente usando come annotazione il cosiddetto “hearsay”; tradotto in Italiano sarebbe “per sentito dire”, in altre parole una versione piu sosfiticata per descrivere “gossip”, il pettegolezzo. “Non sono stato testimone diretto della maggior parte degli eventi descritti“, si legge nella lettera del whistleblower. In altre parole la sua denuncia , proprio come il dossier di Steele,è piena di voci di seconda mano, provenienti da fantomatici funzionari essi stessi anonimi. Quindi quanto credito si può dare ad un omonimo whistleblower che non ha conoscenza diretta dei presunti crimini di Trump.

Nel 2016 il dossier di Steele fu divulgato e propagandato dagli ambienti del giornalismo “professionale” come prova inconfutabile della connubio Trump-Putin – fino a quando la fantomatica teoria della collusione crollò come un castello di sabbia. Ho la sensazione che questa denuncia seguirà la stessa malinconica sorte. L’unica differenza è che almeno il primo dossier aveva un autore riconosciuto, Christopher Steele, ex agente britannico dell’MI6. Di questo whistleblower non conosciamo ancora le generalità, sappiamo solo che secondo il New York Times sarebbe un ex agente della CIA di stanza alla Casa Bianca. Seguendo alcuni indizi abbastanza seri, il dossier di Christopher Steele, sembra sia stato commissionato dall’ex direttore della CIA, il pericolosissimo famigerato John Brennan, commentatore politico ben conosciuto e ossequiato qui in Italia. Non mi sorprenderebbe il fatto che Brennan sia il vero architetto di questo nuovo scandalo, commissionato dallo stato ombra. Secondo alcuni indizi, questo whistleblower ha lavorato per John Carlin. Chi sarebbe John Carlin ? E’ proprio colui che usando il falso dossier Steele ha ottenuto un mandato dalla corte FISA per spiare il collaboratore di Trump, Carter Page. Gira e rigira sono gli stessi personaggi che dietro le quinte lavorano per lo stato ombra. La CIA e l’FBI sono al centro dei due “scandali” che hanno plasmato la presidenza di Trump.

Quale accusa lancia il whistleblower contro Trump?

Nella lettera di denuncia sostiene che  durante una telefonata del 25 luglio tra Trump e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky; Trump ha esortato Zelensky più volte a collaborare con il suo avvocato personale, Rudy Giuliani per indagare sul figlio di Biden, Hunter Biden, e sui suoi legami con una compagnia energetica di proprietà di un oligarca ucraino.

All’epoca Biden era già entrato in corsa per le presidenziali del 2020 e probabilmente Trump considera Biden il suo principale sfidante.

La fonte dell’indagine richiesta da Trump su Hunter Biden deriva dal fatto che il figlio è stato membro del consiglio di amministrazione della società di gas naturale Burisma Holdings.

Nel 2014, mentre era ancora vice presidente sotto l’amministrazione Obama, Joe Biden  minaccia di bloccare un miliardo di dollari di prestiti statunitensi all’Ucraina nel caso il governo Poroshenko non avesse licenziato il magistrato ucraino titolare delle indagini sulle accuse di corruzione della Burisma Holdings. Quella inchiesta sollevò forti preoccupazioni per un potenziale conflitto di interessi, potenzialmente dannoso per la campagna presidenziale di Biden. Sicuramente Biden non si sarebbe presentato alle presidenziali del 2016 come candidato, lasciando spazio a Hillary Clinton, perché preoccupato delle possibili ripercussioni negative della vicenda sulla sua famiglia e sulla sua candidatura. Nel  dicembre del 2015, il New York Times pubblicò un resoconto con il quale affermava che Burisma aveva assunto Hunter Biden poche settimane dopo che il presidente Obama aveva chiesto al Vicepresidente di gestire le relazioni USA-Ucraina. In quello stesso articolo il New York Times dichiarava che  procuratore generale Viktor Shokin stava conducendo un’indagine su Burisma e sul suo fondatore, l’oligarca Mykola Zlochevsky. Biden disse a Poroshenko che se non avesse licenziato Shokin, l’Ucraina non avrebbe ricevuto il miliardo di dollari.

Shokin, riguardo al suo licenziamento e alla sua inchiesta su Burisma Holdings, ha pubblicato un documento dove denuncia testualmente “Sono stato costretto a lasciare l’incarico, a causa delle forti e dirette pressioni di Joe Biden e dell’amministrazione americana”. Qui il link della lettera di Shokin:

https://www.scribd.com/document/427618359/Shokin-Statement

Hunter Biden veniva pagato $ 50.000 al mese per il suo incarico presso la compagnia energetica. Pagato profumatamente direi, visto che Hunter Biden non possiede nessuna credenziale o titolo di studio da qualificarlo per un posto da consigliere in una azienda energetica. Hunter Biden  ha lasciato il consiglio di amministrazione di Burisma all’inizio di quest’anno.

Strana storia quella della Burisma Holdings; oltre alla trascorsa presenza di Hunter Biden nel suo consiglio di amministrazione,  l’azienda ha conosciuto un altro losco personaggio, dal 2017, come membro attivo del consiglio di amministrazione, Joseph Cofer Black

Chi e`Joseph Cofer Black? E’ stato consigliere per la sicurezza nazionale di Mitt Romney nella sua campagna presidenziale del 2012. Nell’ottobre del 2011, l’allora candidato alla presidenza Mitt Romney,annunciò che Joseph Cofer Black (conosciuto anche come “Cofer Black”) era stato scelto come consigliere sulla strategia di politica estera, questioni di difesa, questioni di intelligence, antiterrorismo e politica regionale.

L’esperienza di  Black, inizia dal suo lungo curriculum alla  CIA, dove iniziò a lavorare nel 1974 fino a diventare direttore del National Counterterrorism Center dal 1999 al 2002. Per pura coincidenza, questo fu il periodo in cui al-Qaeda pianificò e realizzò l’attacco del 11 settembre, senza che trovasse ostacoli dall’apparato di controspionaggio della Comunità di Intelligence nazionale. Nonostante il clamoroso fallimento, Black non solo non fu penalizzato ma fu addirittura promosso e nominato a coordinatore per l’antiterrorismo dal presidente George W. Bush nel dicembre 2002. Sempre per puro caso il signor Black fu accompagnato nel suo ruolo come direttore del National Counterterrorism Center da John Brennan.

Torniamo alla denuncia del whistleblower. Dopo la lettera pubblicata con la quale questo personaggio anonimo denuncia i crimini di Trump, la Casa Bianca ha pubblicato per intero la trascrizione della chiamata tra Trump e Zelensky, qui il link della trascrizione:

 

https://www.scribd.com/document/427409665/Ukraine-Call-Transcript#from_embed

Nella trascrizione si legge che durante la telefonata del presidente Trump con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky avvenuta il 25 Luglio scorso, Trump aveva chiesto di riaprire le indagine sulla Burisma e quindi su Hunter Biden. Quello che invece non risulta confermato nella telefonata sono invece le accuse lanciate contro Trump da parte del whistleblower e dai democratici: il presunto ordine di Trump di aver ordinato al suo staff di congelare quasi 400 milioni di dollari di aiuti all’Ucraina annunciati pochi giorni prima della telefonata con Zelensky. Un’accusa strumentale tesa a giustificare la chiamata all’impeachment, portando alla fine Nancy Pelosi ad annunciare un’indagine formale sull’impeachment.  La trascrizione mostra che Zelensky alla fine suggerisce a Trump che la questione Biden sarebbe stata esaminata da un nuovo procuratore.

Veniamo all’impeachment. Prima di tutto stiamo parlando di un cosiddetto Impeachment inquiry non una procedura, un processo di Impeachment? Qual’è la differenza? In un processo di impeachment si va direttamente dalla testimonianza al voto.

In questo caso, essendo l’impeachment di Trump non condiviso da circo il 58% degli americani, la decisione di Pelosi potrebbe ritorcersi contro i democratici; proprio per calmare i bollenti spiriti della base democratica Pelosi concede loro un contentino sapendo benissimo che anche  se la Camera arrivasse a votare a favore dell’Impeachment, il Senato sotto il controllo dei repubblicani, lo annullerebbe. A quel punto però Pelosi potrà addossare la colpa ai Repubblicani sollevando i rappresentanti democratici da ogni critica di elusione.

Fra tutti i candidati democratici alla presidenza solo Tulsi Gabbard si è espressa contro l’impeachment del presidente Trump, sostenendo, non ha torto che un impeachment contro Trump dividerebbe ancora di più la ormai tanto fratturata società americana, rischiando una divisione incolmabile e pericolosa per il paese. È la sola a indicare Ia strada per battere Trump nei seggi elettorali, non con i trucchi sovversivi dello stato ombra.

Una ultima riflessione su questa storia del whistleblower e dell’impeachment, in attesa di scoprire il nome di questo fantomatico personaggio della CIA. Questa storia dell”Uncrainagate coinvolge più Biden che Trump. Non vorrei che i Democratici non avessero innescato tutta questa faccenda per far fuori Biden piuttosto che Trump. Sanno che Trump potrebbe distruggere Biden durante le presidenziali, usando le connessioni con l’Ucraina come materiale di scandalo. Negli ultimi tre giorni, da quando è cominciato L’Ucrainagate, la Hillary Clinton ha rialzato la testa. Coincidenza? Forse sono io che che fantastico troppo. Intanto si è concessa una lunga vacanza in Italia. Tutta la corte di postulanti di grido accorsi al suo cospetto lascia intendere che non si è trattato di sola ricerca di relax. Lo stesso Bill Barr è appena giunto a Roma e in Italia; c’è da scommettere che il segugio stia seguendo le tracce di Mifsud, uno dei protagonisti e inventori del filone italiano del Russiagate. Frenesie e fibrillazioni che lasciano intendere che la trama ordita da questi mestatori non sia poi così perfetta; l’ipotesi che arrivi addirittura a ritorcersi contro gli stessi tessitori non è poi così peregrina. Il Trump di oggi, sia pure spossato e irretito, non è più il Trump donchisciottesco di tre anni fa; soprattutto non è più così solo.

Sarebbe bene che gli attuali inquilini del Governo Conte lo tenessero in considerazione, almeno per contenere e controllare queste scorribande purtroppo così usuali nel Belpaese così ospitale ed aperto, sin troppo.

 

Qualche riflessione sul problema migratorio, di Andrea Zhok

Qualche riflessione sul problema migratorio

1) Premessa

Discutere oggi di immigrazione in Italia, come in Europa in generale, finisce facilmente per fornire occasioni di polemica corrente e per focalizzare su questo o quell’episodio mediatico. Non è questa l’intenzione delle brevi considerazioni che seguono. Non prenderemo posizione su decisioni del presente governo, di quello precedente, del Consiglio d’Europa, ecc. L’intento invece è quello di chiarire, contestualizzandola storicamente, la cornice economica ed etica entro la quale è sensato prendere le nostre decisioni in termini di immigrazione.

 

2) Il contesto italiano in rapporto al fenomeno migratorio

L’immigrazione verso l’Italia è un fenomeno relativamente recente, che però ha avuto una crescita molto rapida, con direttrici di provenienza che sono variate nel tempo. Gli stranieri residenti in Italia sono al 1° gennaio 2018 5 milioni e 144mila (5.144.440), cui vanno aggiunti secondo le stime del Ministero degli Interni circa 600.000 clandestini. Questo significa che la popolazione di stranieri residenti rappresenta l’8,57% della popolazione, cui va aggiunto circa un 1% di clandestini, per un totale approssimativo del 9,5%.

I gruppi nazionali prevalenti sono, in ordine di grandezza e limitandoci ai gruppi che superano le 100.000 presenze: Romania (1.190.000), Albania (440.000), Marocco (416.000), Cina (290.000), Ucraina (237.000), Filippine (167.000), India (151.000), Moldavia (131.000), Bangladesh (131.000), Egitto (119.000), Pakistan (114.000), Sri Lanka (107.000), Nigeria (106.000), Senegal (105.000).

Ciò che colpisce immediatamente è come la percezione pubblica della ‘problematicità’ o ‘onerosità’ di alcuni gruppi di stranieri non coincida con la mole della loro presenza sul territorio. Alcuni gruppi, pur presenti in modo massiccio (Cina, Ucraina, Filippine, India) sembrano aver prodotto un impatto minimo in termini di ‘disfunzionalità percepita’ rispetto ad altri. Proveremo a vedere in seguito se a questo elemento di ‘percezione’ corrispondano elementi obiettivi o meno.

La situazione italiana ha alcune caratteristiche specifiche rispetto ad altri paesi europei con dimensioni simili. In termini assoluti, in raffronto a paesi di dimensioni comparabili, abbiamo una percentuale di stranieri residenti non particolarmente elevata: come abbiamo detto l’Italia presenta circa il 9,5% di stranieri residenti di contro al 14,8% della Germania; al 14% del Regno Unito; all’11,8% della Francia, al 9,9% dell’Austria, al 9,8% della Spagna.

L’andamento temporale della presenza in Italia è però particolare. Rispetto a Francia, Germania o Inghilterra, l’Italia ha iniziato ad assorbire forza lavoro straniera solo in tempi recenti, con una curva degli ingressi molto repentina. Nel 2000 gli stranieri in Italia erano circa un milione, oggi sono oltre 5 milioni, con una quintuplicazione della popolazione straniera nell’arco di 18 anni.

Per comprendere anche le specificità nella percezione pubblica del problema bisogna ricordare come a questa dinamica di crescita si sia aggiunto il fenomeno degli sbarchi clandestini, dovuto alla collocazione geografica del paese. Con l’eccezione della fiammata del 1991, con lo sbarco di circa 50.000 albanesi in pochi mesi, fino al 2010 il tasso di sbarchi si era contenuto in una forbice che andava dai 4.000 ai 50.000, poi a partire dal 2011, con 62.000 sbarchi, è iniziata una tendenza alla crescita che ha portato nel 2014 a 170.100, nel 2015 a 153.843, e nel 2016 a 181.436 sbarchi. Ancora nella prima parte del 2017 l’andamento sembrava ricalcare quello del 2016, ma il successo della strategia di contenimento adottata dal ministro Minniti ha ridotto drasticamente gli sbarchi nella seconda metà dell’anno, che sono risultati alla fine 119.247.

La rapidità della crescita percentuale della popolazione straniera in pochi anni e il recente fenomeno di immigrazione clandestina di massa sono le coordinate obiettive indispensabili per comprendere il formarsi di una percezione pubblica dell’immigrazione come priorità nazionale. A questo aspetto oggettivo va però abbinato l’aspetto interpretativo, più specificamente politico, su cui ci soffermeremo in seguito.

 

3) L’immigrazione dall’Africa subsahariana come caso di studio

Proviamo ora a concentrare l’analisi su quella componente che, a dispetto di numeri non debordanti, è stata percepita negli ultimi anni come maggiormente problematica, ovvero l’immigrazione proveniente dall’Africa subsahariana. Prendiamo questa situazione non solo per il suo carattere di emergenza contingente, ma soprattutto come esempio di problemi che potrebbero verificarsi su altre direttrici, e per cui bisogna approntare una risposta.

Per quanto il problema degli ‘sbarchi’ dal Mediterraneo riguardi persone provenienti tanto dal Medio Oriente e dal Maghreb che dall’Africa subsahariana, la situazione in prospettiva più preoccupante è quest’ultima, in quanto non sembra di essere di fronte a crisi passeggere, ma ad una condizione di squilibrio strutturale.

In Italia, sulla rotta mediterranea, giungono prevalentemente migranti da Senegal, Nigeria, Tunisia, Guinea, Eritrea, Sudan, Gambia, Costa d’Avorio, e Somalia. Sono quasi tutti paesi con condizioni di vita problematiche, spesso in mano a cordate familistiche che detengono il potere in forme autocratiche ed autoritarie. Salvo il caso del Gambia non si tratta in senso stretto di ‘paesi poveri’.

La Tunisia è l’unico paese del Maghreb in questa lista. Dal 2010 le vicissitudini politiche seguite alla ‘primavera araba’ hanno abbattuto un Pil che nei precedenti dieci anni oscillava tra il 2 e il 6% di crescita; da allora il paese è in sostanziale stagnazione, nonostante il ritorno ad una situazione di stabilità politica.

Il Senegal è il paese dell’Africa subsahariana con la maggiore stabilità politica e con una crescita economica prima facie invidiabile (salvo una breve recessione nel 2012 oscilla negli ultimi dieci anni tra i 2% e il 10% di crescita).

La Guinea ha avuto una serie di vicissitudini politiche interne che hanno inciso sull’economia, inducendo un andamento ondivago della produzione, con negli ultimi anni un episodio recessivo e ora una crescita apparentemente solida, oltre il 6%.

La Nigeria, paese produttore di petrolio, ha visto una crescita del Pil oscillante tra il 4 e il 6% tra il 2005 e il 2015, per poi avere una repentina recessione (2016-2017) ed una ripresa all’attuale 1,5%.

L’Eritrea, dopo una lunga guerra intestina, ha ripreso a crescere nel 2009, tenendo una crescita media un po’ superiore al 4%.

Anche il Sudan è un paese produttore di petrolio che ha avuto un tasso di crescita medio negli ultimi 10 anni poco sopra il 4%.

Il Gambia, uno dei paesi africani più poveri, ha comunque avuto buona crescita (3-4%) negli ultimi 10 anni, con un episodio recessivo nel 2011.

Dopo la conclusione di una guerra civile nel 2011, la Costa d’Avorio, il più grande esportatore al mondo di cacao, ha infine un’economia che, in termini di Pil, appare galoppante.

Senza voler entrare in troppi dettagli, ad uno sguardo generale è facile riconoscere che in quasi tutti i casi si tratta di paesi ricchi di risorse naturali, con potenzialità produttive buone e talvolta eccellenti, ma dove tuttavia la ricchezza procapite non riesce ad aumentare in modo significativo.

Ciò sembra dipendere da una molteplicità di fattori, ma tre si presentano in primo piano: 1) l’organizzazione politica interna è spesso conflittuale e disfunzionale, con una distribuzione interna della ricchezza estremamente diseguale, dove a fronte di una ristretta élite estremamente benestante c’è una parte ampia della popolazione sulla soglia della sopravvivenza; 2) l’elevata crescita demografica suddivide la crescita totale su di una popolazione a sua volta crescente; 3) nei casi più ‘favorevoli’, dove il paese ‘gode della fiducia’ degli ‘investitori stranieri’, questi ultimi drenano ampia parte del Pil al di fuori del paese. In sostanza, come è stato osservato più volte, parlare di ‘paesi poveri’ è limitativo e fuorviante; si tratta di paesi i cui problemi di ordinamento interno, fragile e conflittuale, si ripercuotono in instabilità e scarsa capacità di imporre le proprie condizioni negli scambi internazionali.

Se guardiamo all’evoluzione demografica in questi paesi troviamo, come detto, elevata natalità, contenuta in parte da una mortalità più elevata rispetto a quella dei paesi OCSE. Nell’Africa Subsahariana le donne hanno in media 5,2 figli nel corso della loro vita, rispetto all’1,6 dell’Europa e all’1,9 del Nord America, e la densità media della popolazione nell’Africa subsahariana è di 43 abitanti per kmq. Per avere un raffronto, in Italia la demografia è in lieve decrescita (-0,12/anno), con una densità di popolazione di 202 persone per kmq.

Più specificamente in Africa troviamo:

Eritrea: crescita demografica = + 2,3%/anno, densità: 51 persone per kmq;

Somalia: crescita demografica = + 2,96%/anno; densità: 24 persone/kmq; Nigeria: crescita demografica = + 2,64%; densità 215/kmq;

Costa d’Avorio: Popolazione + 2,53%/anno, densità 78/kmq;

Gambia: Popolazione + 3,1%/anno, densità 214/kmq;

Senegal: popolazione +2,42%/anno, densità 84/kmq;

Guinea: crescita demografica = + 2,64%/anno, densità 44/kmq.

L’unico paese con un tasso di crescita demografica relativamente ridotto è la Tunisia, con uno 0,96%, per una densità di 65/kmq.

Naturalmente qui contano anche i valori assoluti di partenza e perciò l’incidenza di crescita della Nigeria, con quasi 200 milioni di abitanti, è molto superiore a quella del Gambia, con poco più di due milioni di abitanti. Con una crescita media del 2,6% la popolazione dell’Africa subsahariana è destinata a raddoppiare nell’arco di una generazione (ogni 27 anni).

Ciò che si può evincere da questi dati demografici è una dinamica di fondo. Gran parte dell’Africa Subsahariana adotta una strategia riproduttiva adatta a condizioni di vita rurali e precarie, strategia non dissimile da quella che si poteva ritrovare anche in Europa fino a un secolo fa: le famiglie fanno comparativamente molti figli per tre ragioni: a) l’investimento richiesto (ad esempio in formazione) per il mantenimento di un figlio è comparativamente basso; b) il gruppo famigliare rappresenta la principale risorsa economica e di influenza sociale; c) l’incertezza delle condizioni di vita rende sensato considerare la possibilità di decessi precoci.

Questa strategia riproduttiva potrebbe lasciare spazio ad una strategia differente, come spesso predicato dai demografi, solo in presenza di condizioni di sviluppo differenti. Tuttavia al momento i sistemi di organizzazione sociale e produzione, a base familistica, e le condizioni di sfruttamento internazionale non sembrano consentire cambiamenti consistenti: i gruppi dominanti, su base familiare o tribale, spesso tributari a potenze estere, si appropriano di una parte comparativamente molto elevata del Pil, che non alimenta né servizi locali, né la domanda interna. Questo è testimoniato anche dall’Indice di Gini, che cerca di misurare il tasso di diseguaglianza economica (dal minimo al massimo, tra 0 e 100). Per quanto l’Indice di Gini sia spesso di ardua misurazione in quei contesti, nella misura in cui lo riteniamo attendibile, esso mostra una forbice reddituale tendenzialmente ampia. Prendendo come parametro la Germania (31.4) o l’Italia (34.7), troviamo il Senegal con 40.3, la Costa d’Avorio con 41.7, la Nigeria con 43.0, il Gambia con 47.3, ecc.

Nel complesso questa situazione può essere rappresentata come una sorta di ‘squilibrio perpetuo’, dove i problemi interni di questi paesi, politici ed economici, vengono allentati ricorrendo alla valvola di sicurezza dell’emigrazione. Tale valvola, tuttavia, si limita a impedire (o limitare) la conflittualità interna, senza indurre mutamenti sistemici e anzi consentendo a quegli squilibri di perpetuarsi indefinitamente.

È abbastanza evidente come questa dinamica non rappresenti né un meccanismo socioeconomico capace di risolvere i problemi delle relative nazioni africane, né un processo sostenibile nel medio-lungo periodo dai paesi europei.

Nei paesi industrializzati, il tasso demografico ridotto corrisponde ad un modello sociale dove l’investimento in cura e formazione è tendenzialmente elevato, dove i tempi di lavoro e i correlati oneri tendono a lasciare tempi contingentati alla cura famigliare, e dove il raggiungimento delle condizioni economiche favorevoli alla procreazione ne impongono spesso una dilazione considerevole. Queste condizioni, non meno strutturali ed oggettive di quelle che dettano una strategia demografica diversa nel Terzo Mondo, si sono sviluppate in Europa in forme sociali ed economiche dove lo Stato si assume un ruolo di cura e supporto significativo (welfare state). Tali forme sociali possono essere messe a repentaglio dai flussi migratori, in forme che vedremo.

Qual è dunque l’effetto dei flussi migratori in Europa? L’effetto dipende naturalmente da paese a paese, a seconda di quali siano le condizioni sociali ed economiche pregresse, ed è un’impresa complessa darne un resoconto che quantifichi separatamente l’impatto migratorio rispetto ad altre variabili. Tuttavia, è possibile estrarre una dinamica generale di incidenza sia sul piano strettamente economico, che su quello sociale.

4) L’impatto dell’immigrazione su stato sociale e spesa pubblica

Dal punto di vista economico un afflusso di immigrati può influire in modi diversi, a seconda di quanto essi possano essere assorbiti dal locale mercato del lavoro.

Se gli immigrati sono in grado di entrare nel circuito produttivo e di pagare contributi, essi possono incidere positivamente sul benessere economico di un paese. Ciò accade quando un paese è in una condizione prossima alla piena occupazione, oppure nell’eventuale caso di ingressi settoriali di lavoratori qualificati per supplire a mancanze di offerta lavorativa interna altamente specifiche. Questo secondo caso riguarda tipicamente lavori specializzati e non comporta spostamenti massicci di popolazione.

Se siamo in presenza di moderata disoccupazione, l’afflusso di forza lavoro straniera crea un incremento di concorrenza, che, in un regime di libero mercato, crea una pressione al ribasso dei salari e in generale delle condizioni di lavoro. Questo naturalmente non si verifica ad ogni livello, ma solo in quegli ambiti lavorativi in cui la manodopera immigrata è in grado di fornire un contributo lavorativo. Di norma il fenomeno è percepito nelle occupazioni con minore valore aggiunto. Tale processo viene spesso salutato con favore da una parte della classe imprenditoriale, mentre viene percepito come un problema dai lavoratori autoctoni, specialmente quelli meno qualificati, le cui condizioni sul mercato del lavoro tendono a degenerare. Naturalmente l’idea che ‘esistano lavori che gli italiani / europei non vogliono più fare’ è una sciocchezza: quel che è vero è solo che mestieri al di sotto di certi livelli salariali sono accettabili solo per chi è prossimo alla disperazione. Un sistema che dia per scontato che è impossibile elevare le condizioni di lavoro dei mestieri meno piacevoli, e che dunque, per preservare i margini dei ceti benestanti, si richiede l’importazione di persone disperate, rappresenta un tale abisso morale da non richiedere particolari commenti. Per una bizzarra perversione concettuale, chi sostiene questa tesi di sfruttamento sistematico spesso ammanta sé stesso di virtù umanitarie ed etichetta chi la contesta di razzismo.

Infine, se siamo in condizioni di elevata disoccupazione, il sistema economico non è in grado di assorbire alcuna nuova forza lavoro. In queste circostanze un afflusso migratorio genera fatalmente esiti altamente problematici, che incidono sul sistema di welfare e/o sulle risorse statali. I nuovi arrivi, non trovando occupazione non possono fornire alcuna risorsa al paese con i propri contributi. Al tempo stesso, quanto più esteso e generalista è un sistema di welfare, tanto più esso viene messo sotto tensione da tali nuovi arrivi, che inevitabilmente pesano su asili nido, case popolari, servizio sanitario pubblico, assistenza alla povertà, ecc.

Ciò ha anche un effetto indiretto di logoramento del welfare negli stati che lo offrono. Infatti, gli Stati che offrono di meno in termini di servizi pubblici e ammortizzatori sociali (scarso welfare e ampie aree privatizzate) sono anche meno oberati dall’afflusso di persone disoccupate o maloccupate. I servizi di welfare degli Stati più socialmente generosi sono messi in tensione dall’utenza addizionale e riducono perciò la propria qualità ed accessibilità. Questo deterioramento alimenta l’opinione comune e l’azione politica favorevole ad una sostituzione del servizio pubblico con un servizio privato, che per sua natura non è universalistico e non rappresenta un onere per le casse dello stato. Perciò, con un meccanismo indiretto ma intuitivo, un’immigrazione incontrollata produce pressioni per la riduzione del welfare pubblico e la privatizzazione dei servizi.

Nel peggiore dei casi, infine, i soggetti che non riescono ad entrare nel circuito dell’economia legale si ritroveranno in quello dell’economia illegale, quando non senz’altro in quella criminale.

5) L’impatto dell’immigrazione sull’ordinamento sociale

Prendiamo ora in considerazione l’altro lato, oltre a quello economico, dell’impatto di un’immigrazione eccedente le capacità di assorbimento di un paese. Fino a che l’immigrazione riesce a integrarsi essa può rappresentare un arricchimento, come testimoniano, per dire, i ristoranti etnici di molte grandi città. C’è tuttavia un nesso causale ovvio tra l’impossibilità di integrazione economica e la tendenza a nutrire le fila della criminalità: chi non può vivere legalmente vivrà illegalmente. Inoltre, sia la cultura di provenienza sia la specifica formazione culturale del migrante non sono variabili neutrali quanto alla facilità o difficoltà di integrazione. Persone che presentano maggiori difficoltà di integrazione culturale possono essere più difficilmente assorbibili dal tessuto lavorativo (dove tale assorbimento è ancora possibile) e finire più facilmente per minare la convivenza e la legalità. Troviamo una conferma di questi due effetti nei dati relativi alla popolazione carceraria italiana.

Al 31 dicembre 2017 i detenuti stranieri in Italia erano 19.745 su 57.608 detenuti totali, dunque il 34,27% del totale a fronte di una popolazione straniera residente del 9,5%. Questo dato sembra segnalare una maggiore propensione a delinquere nella popolazione straniera, propensione sensatamente ascrivibile alla maggiore difficoltà di integrazione sociale ed economica. È stato peraltro osservato, giustamente, come la popolazione carceraria straniera tenda ad essere sovrarappresentata per la maggiore difficoltà ad avere accesso a servizi sostitutivi al carcere. Tuttavia, come vedremo, questa difficoltà non può spiegare se non in piccola parte l’asimmetria tra le percentuali in oggetto (9,5% vs 34.27%).

Questo dato generale può essere confermato e precisato analizzandolo per sottogruppi. Questo 34% di popolazione carceraria straniera può essere suddiviso per macroaree come segue: 7.287 (il 12,64% del totale) provengono dall’Europa di cui 3387 (il 5,87%) da paesi UE; dall’Africa provengono 9.797 detenuti (il 17,00%), dall’Asia 1.357 (il 2,35%) e dalle Americhe 1.096 (il 1,90%). Il dato qui è molto grossolano, e andrebbe spezzato per singolo paese di provenienza, ma alcune linee sono di particolare interesse. In particolare colpisce la divergenza tra il dato di presenza sul territorio e quello relativo alla popolazione carceraria.

Gli europei nella popolazione straniera residente sono 2.620.257 (cioè il 4,36% della popolazione totale residente in Italia), e nella popolazione carceraria sono il 12,64%. Questo significa che la percentuale di popolazione carceraria di origine europea è in una proporzione di 2,89 a 1 rispetto alla percentuale degli stranieri europei residenti.

Gli asiatici nella popolazione straniera residente sono 1.053.838 (cioè l’1,75% della popolazione totale), e nella popolazione carceraria sono il 2,35%). Questo significa che la percentuale di popolazione carceraria di origine asiatica è in una proporzione dell’1,34 a 1 rispetto a quella degli asiatici residenti.

Gli africani (Maghreb incluso) nella popolazione straniera residente sono 1.096.089 (l’1,82% della popolazione totale), cui però vanno certamente aggiunti una parte significativa dei 600.000 clandestini, che potrebbe portare la percentuale totale intorno al 2,5%. In termini di popolazione carceraria tuttavia essi ne rappresentano il 17,00%. Questo significa che la popolazione carceraria di origine africana è in una proporzione di 6,8 a 1 rispetto a quella degli africani residenti.

Per un raffronto, gli italiani in carcere sono 37.863, che in rapporto alla popolazione italiana rappresenta una proporzione dello 0,74.

Come sempre tutti questi dati vanno presi con cautela e verificati con attenzione, tuttavia essi sembrano confermare in maniera netta sensazioni diffuse, spesso sbrigativamente additate come ‘razzismo’. Così come è ragionevole aspettarsi che persone che hanno maggiori difficoltà ad integrarsi nell’economia, come un migrante disoccupato, abbiano una maggiore propensione ad entrare in forme di economia illegale o criminale, parimenti è ragionevole aspettarsi che divergenze culturali più accentuate, maggiori difficoltà ad identificarsi con usi e costumi del paese ospitante, accentuino la violazione delle regole comuni. – Di passaggio questo dato scomposto chiarisce anche come l’argomento della maggiore difficoltà degli stranieri di accedere a servizi sostitutivi al carcere non sia decisivo: se lo fosse non si comprenderebbe la vasta divergenza nelle proporzioni di cui sopra tra differenti gruppi stranieri, visto che tutti quanti hanno le stesse difficoltà di accesso a servizi alternativi in quanto stranieri.

Qui va evitata nel modo più netto ogni tendenza a trasformare questi dati in discussioni razziali, trattandosi di questioni perfettamente trattabili con variabili schiettamente sociologiche. Tuttavia, il problema rappresentato dalle specifiche difficoltà di integrazione, economica, culturale e sociale, con i relativi costi, non può essere sottovalutato, e in questo contesto l’immigrazione dal continente africano sembra rappresentare un problema di gravità specifica rispetto ai problemi posti da altre provenienze. Ciò aiuta forse anche a comprendere le ragioni per cui in Italia il rigetto nei confronti dei flussi migratori si sia accentuato drasticamente in concomitanza con il fenomeno degli ‘sbarchi’, provenienti dall’altra sponda del Mediterraneo.

In sintesi, è chiaro e non dovrebbe essere oggetto di controversie, se non ideologiche, che in condizioni lontane dalla piena occupazione un afflusso di popolazione migrante rappresenta per il paese ospitante un logoramento del welfare, un onere economico netto, ed una pressione disgregativa sul piano sociale e legale.

Come abbiamo notato, esiste un problema di integrazione economica, ma esiste poi anche un problema di integrazione sociale complessivo. Come si è visto in paesi con economie più prospere della nostra, la capacità di integrare gli ingressi lavorativi nel tessuto economico produttivo non garantisce che essi siano anche integrati sul piano sociale. Le periferie urbane di Parigi, Londra e Bruxelles, con le tensioni e gli scontri che vi si verificano da tempo e reiteratamente, stanno lì a ricordarci come fornire un posto di lavoro sia solo un passo necessario, ma ampiamente insufficiente verso l’integrazione e l’assimilazione, un passo che, se rimane l’unico, apre facilmente la strada a successive situazioni di aspro conflitto. È un dato manifesto che vi sono forme di vita e culture con gradi di conciliabilità maggiore o minore. Nei casi di minore conciliabilità, la creazione di enclave etniche impermeabili le une rispetto alle altre tende a produrre tensioni tra aspettative differenti in termini di leggi e costumi. Nei periodi di afflusso rapido di popolazione, anche dove le condizioni economiche ne consentano l’impiego, la creazione di tali enclave resta esiziale.

Questo è uno dei temi perennemente misconosciuti nel dibattito pubblico corrente. Lo è innanzitutto perché è un tema obiettivamente delicato e molto difficile da trattare, visto che la ‘conciliabilità (o inconciliabilità) culturale’ non è un dato immediatamente evidente, ma è l’esito di una pluralità di fattori, legati alla religione, ai costumi popolari pregressi, al livello culturale complessivo. Ma è misconosciuto anche perché è un tipo di questione che nella prospettiva culturale oggi dominante, di matrice liberale, viene delegittimata in partenza, in quanto l’esistenza stessa di identità collettive (società, comunità, nazioni, ecc.) è considerato un atavismo o un nonsenso.

Ad essere misconosciuto qui è un dato di fondo, ovvero che nessuna società è in grado di funzionare sulla sola base delle leggi formali, scritte, dei codici implementati da tribunali e carabinieri. In ogni sistema normativo (perfino nei contratti redatti tra contraenti volontari) esiste sempre un’ampia parte di ‘tacito senso condiviso’ che non può essere formalizzato, non può essere esplicitato, ma che presuppone una comunanza di vita, un’esistenza di vissuti pregressi comuni, di percorsi formativi comuni, ecc. Per quanto, come è ovvio, non ci siano due individui che abbiano esattamente gli stessi trascorsi e le stesse radici, comunque esistono gradi di maggiore o minore conciliabilità, e i confini tradizionali degli Stati nazione rappresentano a tutt’oggi la maggiore discontinuità in questo ambito di ‘comunanza informale’.

Fino a quando l’ospitalità concerne numeri limitati o casi episodici, chiunque si trapianti in un nuovo paese tende naturalmente ad assimilarsi, anche senza un intervento intenzionale da parte dello Stato. Ma quando si è di fronte ad afflussi massicci in tempi brevi, la tendenza a creare comunità chiuse, che replicano le forme di vita dei paesi d’origine è pressoché irresistibile. E mentre nel caso di differenze culturali blande ciò può rappresentare un problema minore, in altri casi esso può costituire un processo potenzialmente deflagrante, come le banlieue parigine ci ricordano.

6) Tre argomenti a favore dell’immigrazione e il contesto italiano

Torniamo nello specifico al caso italiano e alla recente sensibilizzazione di una parte cospicua della popolazione al problema migratorio. Per comprendere quanto accaduto è necessario ricordare insieme la catena degli eventi oggettivi e il modo in cui essa è stata discussa nel dibattito pubblico e sui media.

Che obiettivamente ci sia stato un doppio processo capace di ingenerare allarme lo abbiamo sottolineato sopra: abbiamo assistito ad una crescita rapida della popolazione straniera e negli ultimi anni ad un fenomeno di sbarchi clandestini accentuato e apparentemente irrefrenabile. Rispetto a questo quadro oggettivo il monopolio di una posizione semplicemente avversa è stato detenuto dalla Lega. Ma nonostante la Lega (come Lega Nord) sia stata al governo per otto degli ultimi diciotto anni (2001-2006 e 2008-2011) il dibattito mediatico è stato dominato da varianti di tre argomenti, tutti e tre in forme diverse favorevoli all’immigrazione. Possiamo chiamarli per comodità espressiva, rispettivamente, a) l’argomento “umanista”, b) l’argomento “fatalista” e c) l’argomento “utilitarista”. Va notato come spesso tali argomenti, nonostante si appellino a istanze incompatibili, vengano usati liberamente come opzioni alternative, tali per cui, se una opzione appare impercorribile, ci si appella senza remore ad una differente. Questo procedimento argomentativo dà talvolta la sgradevole impressione che qualunque cosa vada bene purché supporti il fine predeciso, cioè il sostegno alla libertà di immigrazione.

6.1) L’argomento umanista

Questo argomento è probabilmente quello più difendibile. Si tratta di un appello di natura deontologica alla necessità di aiutare i meno fortunati e al rispetto dei diritti umani. Questo appello, umanamente condivisibile, presenta però tutti i tipici problemi degli appelli a diritti/doveri fondati aprioristicamente e svincolati dal contesto reale di applicazione.

C’è innanzitutto il problema dell’identificazione di chi sia prioritariamente da aiutare. In un periodo affluente, di benessere diffuso, con condizioni di lavoro agiate, redditi generali crescenti, può essere facile identificare il bisognoso e motivare così il soccorso. Molto meno facile farlo quando precarietà reddituale e lavorativa sono ampiamente presenti. Esercitare comparazioni di fino circa chi sia più ‘sfortunato’ tra i bisognosi prossimi e quelli remoti, tra l’infanzia negata della periferia di Napoli o quella di Abuja, diventa un’impresa francamente improbabile. In ogni caso le difficoltà di vita non sono mai misurate dai dati sul Pil medio pro-capite, visto che livelli di sviluppo e di organizzazione differenti richiedono risorse molto differenti per tenere la testa sopra la linea di galleggiamento. Peraltro, sul piano politico, a chi nutra fondati timori per il futuro proprio o della propria famiglia non si può realisticamente chiedere di posporre questi timori all’aiuto di ignoti estranei.

Nella stessa ottica appellarsi, in maniera più o meno vaga, ai ‘diritti umani’ è una mossa retoricamente brillante, ma vacua. Chi si prenda la briga di visionare gli articoli della Dichiarazione dei Diritti Umani del 1948 può facilmente notare come essi siano ampiamente disattesi in tutto il mondo, per diversi miliardi di persone, e per moltissime persone anche nel nostro paese. Chi volesse prendere l’appello ai ‘diritti umani’, come imposizione di un ‘dovere inderogabile’, si troverebbe in un vicolo cieco. Molte persone incontrate quotidianamente sull’autobus o per strada vedono i propri ‘diritti umani’, a partire da quelli sociali, palesemente violati (sia prendendo come riferimento la Dichiarazione del 1948 che la Costituzione italiana). Ciò significa che il presunto obbligo ‘kantiano’ deve necessariamente essere temperato con un criterio selettivo: possiamo essere d’aiuto sempre solo a una netta minoranza degli aventi bisogno in senso assoluto. Ma una volta riconosciuto che un criterio selettivo deve esserci, il passo ulteriore è abbastanza diretto: nel patto sociale che fonda ciascuno Stato ci si vincola innanzitutto a diritti e doveri reciproci nell’ambito della medesima nazione. Questa è la dimensione primaria cui dobbiamo rivolgerci in termini di doveri di aiuto. Solo nel momento in cui questa sfera di soddisfacimento dei diritti sociali fosse adeguatamente coperta, avrebbe senso aprire un secondo livello di prossimità, rappresentato ad esempio da chi desideri insediarsi nel nostro paese.

6.2) L’argomento fatalista

Il secondo argomento, anch’esso frequentemente sollevato di fronte al fenomeno migratorio, suona più o meno così: siamo di fronte ad un movimento storico, epocale, fatale, di fronte cui opporre resistenza è futile, pretenzioso ed illusorio; migrazioni e spostamenti di popoli ci sono sempre stati e nessuno può farci nulla: meglio dunque disporci in maniera adattiva alla nuova situazione. Questo argomento, frequentemente ripetuto nei salotti televisivi non meno che in pensosi editoriali, è stato uno di quelli che hanno nutrito in maggior misura il successo della Lega di Matteo Salvini alle ultime elezioni. Infatti, il combinato disposto di crescita di stranieri e sbarchi da un lato e appello alla resa di fronte ad un ‘ineluttabile movimento storico’, ha prodotto naturalmente un’acuta ‘sindrome da invasione’. Inutile sottolineare come l’idea di un’invasione possa essere accettata con serena compiacenza solo da una minoranza di persone altamente ideologizzate. L’argomento fatalista così dispiegato è stato tra i maggiori contributori di quella svolta nella percezione pubblica che ha reso in qualche modo obbligati gli interventi di Minniti prima e di Salvini poi. La questione infatti era diventata quella di dimostrare sul piano pratico come, volendo, il flusso migratorio potesse essere arrestato o ridotto ai minimi termini. Cosa puntualmente avvenuta.

6.3) L’argomento utilitarista

Con ciò si arriva al terzo e ultimo argomento. Questo è forse l’argomento sollevato più spesso nell’ultimo periodo, in particolare nella versione per cui l’afflusso migratorio, colmando il deficit di crescita demografica italiana, servirebbe a pagarci le pensioni. In questo argomento ci sono una quantità di fallacie logiche del tutto indipendenti da stime numeriche o calcoli più o meno affidabili. Qual è, infatti, il modello di pagamento delle pensioni che esso prefigura? Se l’immigrazione è necessaria per pagare le pensioni, ciò significa che per riuscire a pagare le pensioni un sistema dovrebbe avere un numero di lavoratori in ingresso sempre crescente rispetto ai lavoratori in uscita. In sostanza si dice che senza crescita demografica infinita, o senza drenare risorse umane da paesi poveri, i paesi industriali non potrebbero pagare quanto dovuto ai pensionandi. In sostanza si propone come norma un sistema in perenne squilibrio che ‘vampirizza’ risorse umane altrui. È peraltro difficile capire come un modello del genere possa essere sostenibile nel tempo, in particolare in paesi con densità di popolazione già molto elevata (come tutta l’Europa occidentale).

Detto questo, bisogna ricordare che gli introiti della previdenza sociale non dipendono dal ‘numero dei lavoratori’, ma dal reddito complessivo dei lavoratori e dalla percentuale di questo reddito versato in contributi. Il modo più ovvio per supplire a difficoltà del sistema pensionistico sarebbe aumentando i redditi dei lavoratori attuali, e/o aumentando gli occupati, non certo aumentando indefinitamente il numero assoluto di lavoratori sempre più impoveriti. In un paese con la disoccupazione a doppia cifra e 100.000 giovani con alta formazione in uscita ogni anno, dire che per pagare le pensioni bisogna far entrare persone destinate a lavori a basso valore aggiunto o, più spesso, al lavoro nero o alla disoccupazione, può valere solo come una provocazione, non come una proposta costruttiva.  Incidentalmente, tutto questo discorso non sfiora neppure la prospettiva a brevissimo termine in cui, a causa della crescente automazione, si prevede una riduzione della domanda di lavoro pur in presenza di produttività crescente.

Se si prende come argomento a favore dell’accoglienza degli afflussi migratori l’idea che lo si debba fare nel nome dell’utilità economica, questo argomento andrebbe svolto con coerenza in tutte le sue implicazioni. Questo ragionamento implica che in presenza di disoccupazione locale, nel paese ospitante non dovrebbe entrare assolutamente nessuno, salvo eventuali contingenti mirati a momentanee scoperture di personale con precise qualifiche (e solo fino a quando il paese non sia in grado di riconvertire forza lavoro locale a quei compiti). Un afflusso di migranti in presenza di disoccupazione più che ‘fisiologica’ può solo sostituire lavoratori già impiegati (comprimendo i salari) o nutrire il lavoro nero: in entrambi i casi nessuno contributo giunge ai cespiti che pagano le pensioni.

 

7) Conclusioni e modelli di integrazione possibili

Nel complesso, le linee generali che sembrerebbe ragionevole adottare nei confronti del fenomeno migratorio (parliamo dei cosiddetti ‘migranti economici’) sembrano chiare. Se si ha a cuore il paese, nella situazione attuale e per il prevedibile futuro, ogni ingresso di popolazione migrante dev’essere rigorosamente regolamentata, il che significa che deve poter essere possibile bloccare gli accessi (altrimenti parlare di ‘regolamentazione dei flussi’ è solo una chiacchiera). La consegna, con riferimento alla cosiddetta ‘migrazione economica’ dev’essere quella di accogliere solo quantità di persone integrabili sia lavorativamente che socialmente.

A grandi linee ciò potrebbe implicare l’adozione di questi indirizzi.

Innanzitutto il paese deve avere un canale ufficiale per gli ingressi legali, canale che possa essere modulato in modo restrittivo e selettivo, e che consenta l’inoltro di richieste d’asilo per ragioni umanitarie. Queste ultime, fino a quando rimangono entro numeri non esorbitanti, possono essere considerate in eccezione alle esigenze di funzionalità del paese.

Per quanto concerne la migrazione di tipo economico, in prima istanza, il modello di accoglimento può essere di tipo funzionalista, simile a quello dei Gastarbeiter tedeschi, dunque con permessi funzionali, limitati, rinnovabili, senza la pretesa, né l’aspettativa che un processo di assimilazione avvenga. Questo processo ha senso solo per numeri limitati, e per periodi limitati.

In seconda istanza, quando c’è l’aspettativa che la permanenza lavorativa si protragga nel tempo è opportuno entrare nell’ottica di una strategia ‘assimilazionista’, mirata in ultima istanza alla creazione di nuovi cittadini. Questa strategia deve farsi carico di alcuni elementi di supporto all’integrazione di tipo culturale e linguistico, e deve portare, dopo un congruo numero di anni (dieci?) alla possibilità di richiedere la cittadinanza. La cittadinanza dovrebbe peraltro essere conferita solo previo superamento di alcune prove (una seria prova di italiano parlato, e una conoscenza normativa di base, con particolare riferimento alla normativa costituzionale). A chi obietti che anche alcuni cittadini italiani potrebbero essere in difficoltà a superare tali prove bisogna replicare che ciò sarebbe una buona ragione per dedicare sforzi primari alla formazione degli italiani, non certo una ragione per abbassare ulteriormente il livello di formazione medio. In ogni caso, il senso di tali prove è quello di supplire, almeno in parte, alla mancanza di un retroterra pregresso comune, che per gli autoctoni si estende a numerosi livelli informali impossibili da insegnare ‘tecnicamente’.

Infine, chiunque abbia a cuore l’esistenza futura del proprio paese, la tenuta di qualche forma di stato sociale, e la prosperità della propria popolazione deve respingere radicalmente i modelli di accoglimento di tipo ‘pluralista’ o ‘multiculturalista’. Tali modelli infatti tendono a creare enclave incomunicabili, conflitti sociali endemici, e difficoltà nel governo del territorio. Una volta di più, a chi obietti che da tali difficoltà l’Italia è già afflitta, bisogna replicare che questo è solo un argomento per farsene carico seriamente, e non certo per dichiarare per l’ennesima volta la resa di fronte al degrado.

Emmanuel Macron e l’Europa – Di Eric Juillot (3/4)

Emmanuel Macron e l’Europa – Di Eric Juillot (3/4)

Mappa:

– I discorsi: idealismo e manierismo (1/4)

– I discorsi: incoerenza e indigenza (2/4)

– Ricostruzione dell ‘”Europa”: tra piccoli passi insignificanti e ambizioni eccessive (3/4)

– Atti e risultati della politica europeista di Emmanuel Macron (4/4)

Ricostruzione dell ‘”Europa”: tra piccoli passi insignificanti e ambizioni eccessive

Alla fine del suo vano tentativo di imbambolamento a sostegno del progetto europeista, dopo aver evocato – senza dimostrare – la necessità e la possibilità di un approfondimento dell’UE, Emmanuel Macron giunge alle sue proposte per “l’Europa”. Sono simili a un catalogo di misure disparate, senza apparente preoccupazione per la definizione delle priorità e il cui ambito è generalmente limitato.

Per sviluppare l ‘”Europa della cultura”, si tratta di promuovere l’apprendimento di due lingue europee in tutta l’UE e di creare vere “università europee”.

La transizione energetica deve essere finanziata a livello dell’UE aumentando il prezzo del carbone e introducendo una tassa sul carbone alle frontiere. Questa seconda proposta è una gradita sfida al credo di libero scambio di Bruxelles, con il quale scopriamo che ciò che non è concepibile per l’agricoltura o l’industria è per il clima. Comunque sia, sarà certamente difficile per la Francia avere accolta una misura del genere dagli Stati con un grande surplus commerciale (Germania e Paesi Bassi).

Per promuovere “L’Europa della difesa”, Emmanuel Macron intende lavorare per l’emergere di una cultura strategica comune, prima della creazione “  all’inizio del prossimo decennio […], di una forza comune di intervento, un bilancio comune per la difesa e una dottrina comune per l’azione  ”. Questa è un’ambizione del tutto esagerata. Il presidente francese sembra credere che il suo volontarismo distruggerà facilmente tutti gli ostacoli, anche in un campo sensibile come quello della difesa, il cuore della sovranità propria di ogni stato. Per la cronaca, la Brigata franco-tedesca creata nel 1989 non è mai stata dispiegata, in 30 anni, come un’unità formata su qualsiasi teatro di operazioni di sorta.

Al fine di non offendere nessuno dei nostri partner, il Presidente afferma inoltre che mira ad offrire all’UE “  una capacità di azione autonoma  ”, ma “  oltre alla NATO  ”. La vecchia ossessione francese dell’autonomia strategica dell’UE è, fin dall’inizio, fortemente inquadrata dalla stessa Francia, che impiega il tempo per ricordare il ruolo centrale della NATO – e quindi degli Stati Uniti – nel Difesa dell’UE.

In termini di istituzioni, Emmanuel Macron propone una Commissione europea ridotta a 15 membri anziché 30 e invita i paesi “grandi” a rinunciare al loro “commissario”. Non vi è dubbio che quando non ci saranno più italiani, tedeschi e francesi nella Commissione, la reputazione di questi ultimi esploderà in ciascuno di questi paesi. Vuole anche i 73 seggi dei deputati europei liberati dalla partenza degli inglesi nel 2019, in occasione delle elezioni europee, occupate dai parlamentari eletti nelle liste transnazionali [10], fino a quando metà dei parlamentari non sara eletta in questo modo nel 2024. Gli elettori, anche qui, probabilmente apprezzeranno di non poter più comunicare con i loro rappresentanti se non in una lingua straniera.

Data l’essenza dell’UE, è ovviamente in campo economico che le proposte del presidente francese sono le più importanti. Vuole, per iniziare, espandere l’Europa digitale con la creazione di una “Agenzia europea per l’innovazione rivoluzionaria” e un progetto per il mercato unico digitale. Più significativamente, si spende a favore di un budget netto per l’area dell’euro per attutire lo shock delle crisi, poiché – e questa è un’ammissione interessante – “  uno stato non può da solo affrontare una crisi quando non decide più la propria politica monetaria  . Naturalmente, tale budget deve essere accompagnato da un fermo impegno da parte di tutti gli Stati coinvolti a proseguire le sacrosanti “riforme” neoliberali, con l’efficacia ovunque dimostrata.

Prudente e realistico, Emmanuel Macron specifica che non è più una questione di “mutualizzazione dei debiti”. La Francia prende così finalmente atto del rifiuto viscerale di una simile idea da parte dei tedeschi, un rifiuto espresso più volte da loro negli ultimi anni. Con questa certezza, si lasceranno ammaliare dal presidente francese in merito al suo budget per l’area dell’euro? Nulla è meno certo, dal momento che questo budget equivarrebbe a mettere in comune i debiti del futuro, in mancanza di quelli del passato.

Per dare all’Unione monetaria un volto politico, l’Eliseo auspica che venga creato un posto di ministro comune a tutti i paesi interessati, la cui autorità sarebbe vincolante per tutti i governi. A quanto pare Emmanuel Macron ritiene che il ministro francese dell’Economia e delle finanze sia ancora troppo potente e che dovrebbe togliere i pochi residui di potere che ha lasciato finora la costruzione europea.

Ansioso di soddisfare le aspettative della gente, termina la sua enumerazione con proposizioni di un affermato carattere sociale:

  • Vuole che lo stato di “lavoratore distaccato” venga modificato in modo approfondito. Tale ambizione è benvenuta, poiché questo status procede, nel suo principio, dal dumping sociale più iniquo; ma non sarà facile convincere i paesi beneficiari a rinunciare;
  • Mira a promuovere la convergenza fiscale sull’imposta sulle società, la cui divergenza da uno stato a un altro porta a una concorrenza malsana e danneggia le finanze pubbliche di alcuni. Tuttavia, come possiamo convincere i piccoli stati che hanno fatto della base imponibile molto bassa uno dei pilastri della loro strategia economica a rinunciarci? Nulla è specificato qui. Al massimo, comprendiamo che la libera circolazione dei capitali garantita dall’UE al suo interno non ha solo vantaggi;
  • È necessario adottare un “piano sociale europeo”, comprendente un “salario minimo adattato alla realtà economica di ciascun paese”. Sebbene sia davvero adatto a questa realtà economica, non è chiaro come possa effettivamente limitare il dumping sociale a livello dell’UE. In effetti, la convergenza dei modelli sociali si scontra con diverse impossibilità, in particolare le principali differenze culturali e la persistente disparità di sviluppo tra Europa occidentale e centrale. Questa disuguaglianza rende utopistico il finanziamento in tutti i paesi di un sistema di protezione sociale modellato sulle norme danese, svedese o francese, anche a medio termine;
  • Infine, è necessario aumentare la trasparenza e le esigenze sociali e ambientali nella negoziazione di accordi commerciali con il resto del mondo. Dato che questa è una prerogativa della Commissione, che il governo francese è qui legalmente ridotto alla passività, non costa nulla chiederlo educatamente, sperando in cambio di qualche considerazione.

Inoltre, per buona misura, Emmanuel Macron invia in cinque righe l’idea di un partenariato con l’Africa, il libero scambio imposto a questo continente dall’UE negli ultimi vent’anni, non avendo apparentemente soddisfatto tutti le sue promesse nello sviluppo economico.

L’enumerazione di queste numerose proposizioni è inevitabilmente noiosa. Dopo aver cercato di infondere ardore e fede in “coloro che dubitano” evocando l’infinita grazia della dea Europa, il presidente francese deve inevitabilmente lasciare gli empi per tornare sulla terra. Dall’Europa ideale alla palude di Bruxelles, l’atterraggio è brutale e, all’impatto, l’ipervolontarismo di Emmanuel Macron si disperde in una moltitudine di proposte dedicate a progredire faticosamente prima di impantanarsi, per lo più, nella vischiosità delle istituzioni comunitarie. Molte di queste proposizioni sono di un realismo inversamente proporzionale alla loro importanza. I più seri non hanno quasi possibilità di successo e la comunicazione politica dovrà fare molto per convincere gli elettori del contrario.

Ma questi discorsi rimarranno nella storia come il segno di un presidente francese in controtempoVolendo a tutti i costi fermare un’evoluzione che considera fatale rifiutando di vedere le cause che la determinano, Emmanuel Macron ha scelto di essere l’ultimo e più anacronistico difensore di un sistema che finisce, quando avrebbe potuto, al contrario, prendere nota – se non rallegrarsi – dell’inesorabile dislocazione di un’UE viziata nelle sue fondamenta, nonché nelle sue affermazioni e che ha soffocato la vitalità creativa degli Stati e dei popoli del continente.

“  I fatti non entrano nel mondo in cui vivono le nostre credenze, non hanno dato vita a queste credenze, non le distruggono. Possono infliggere loro le smentite più costanti senza indebolirli  . Proust fu forse un po ‘veloce nel rendere questa riflessione una verità generale quando la posò sulla carta. Tuttavia, si applica perfettamente al presidente Macron e ai suoi sostenitori, la cui cecità ideologica è in qualche modo sorprendente. Che il sogno di un’Europa immaginata impedisca nel 2019 di considerare l’UE così com’è, nei suoi fastidi, ti lascia senza parole. Che l’attuale presidente francese pensi di poter far realizzare questa “Europa”, oggi e ora, armato del suo stesso volontarismo, è semplicemente desolante.

L’UE non può essere salvata dalla dissoluzione che vince, e le soluzioni proposte da Emmanuel Macron per fermare questo processo oscillano tra l’insignificante e l’illusorio; quale sia l’esame concreto del bilancio della sua azione a favore del L’UE si proverà a dimostrare nel prossimo articolo.

Note

[1] Gli eventi della Brexit hanno effettivamente impedito l’attuazione di questa proposta nel 2019, ma in precedenza aveva incontrato un educato silenzio.

https://www.les-crises.fr/emmanuel-macron-et-leurope-par-eric-juillot-3-4/

Emmanuel Macron e l’Europa – Di Eric Juillot (2/4)

Emmanuel Macron e l’Europa – Di Eric Juillot (2/4)

Mappa:

– I discorsi: idealismo e manierismo (1/4)

– I discorsi: incoerenza e indigenza (2/4)

– Ricostruzione dell ‘”Europa”: tra piccoli passi insignificanti e ambizioni eccessive (3/4)

– Atti e risultati della politica europeista di Emmanuel Macron (4/4)

Incoerenza e indigenza

Questa è forse la caratteristica più spettacolare dei discorsi di Emmanuel Macron dedicati all’UE: a parte l’idea principale “Europa che è pace”, non contengono alcun argomento nel dimostrare che la costruzione dell’Europa può e deve essere continuata: nessun risultato che permetta di perseguirla con orgoglio ed energia, nessuna analisi delle difficoltà teoriche e pratiche che deve affrontare il cui svolgimento possa consentire agli europei di trovare briciole di speranza per il futuro del loro progetto. Niente di tutto ciò è discusso. La prosa presidenziale si accontenta di atti di fede, petizioni di principio e dichiarazioni non comprovate. Questa indigenza senza discussioni è particolarmente chiara su tre temi principali: democrazia, sovranità e nazione.

“  L’essenza del progetto europeo è la democrazia. Dico anche che è la sua più grande forza, il suo vero cibo  ”. Questo cliché, destinato nuovamente a proteggere l’Unione europea sotto un velo di virtù, non regge al serio controllo. Trattato dopo trattato, la costruzione europea ha posto un gran numero di scelte fondamentali oltre la portata della deliberazione democratica: la dinamica del progetto europeo – se non la sua “essenza” – è più una questione di eradicamento della democrazia piuttosto che sua fioritura.

In effetti, la democrazia in Europa non deve nulla all’UE. La Carta dei diritti e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino godono entrambi di una certa precedenza storica sulla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e oggi la democrazia in Europa deve la propria solidità alla sua iscrizione al centro delle culture politiche nazionali piuttosto che agli impegni giuridici degli Stati membri nei confronti dell’UE. Inoltre, l’unica istituzione democratica nell’UE è il suo parlamento, che ha un’assemblea falsa, quindi i suoi poteri tenui. I suoi membri sono, infatti, i rappresentanti di un popolo europeo che non esiste. Una tale impresa istituzionale è abbastanza tipica di ciò che l’UE può produrre come parte della sua logica funzionalista. Anche qui a Strasburgo, fai vivere questa democrazia in Europa ogni giorno  ”, ha detto Emmanuel Macron ai parlamentari europei, apparentemente inconsapevole che la democrazia senza popolo è destinata a svuotarsi a causa della mancanza di legittimità.

Ma la democrazia secondo l’europeismo è, infatti, singolarmente atrofizzata, poiché si riduce, come afferma il presidente francese, al rispetto di “  l’individuo, delle minoranze, dei diritti fondamentali  ”. Questi sono aspetti essenziali, ovviamente, ma che riducono il regime democratico alla sua unica parte individualista, cancellando la dimensione collettiva della sovranità popolare e nazionale, ambito che costituisce l’unica fonte di legittimità per un potere veramente democratico. Sulla base di questa concezione emiplegica della democrazia, Emmanuel Macron può, tuttavia, scartare ogni idea di consultazione del popolo mediante referendum su quesiti europei: “  La risposta è nota, è sempre” no “, qualunque sia la domanda ”, Afferma senza mezzi termini (ignorando l’esito del trattato di Maastricht) e senza ulteriori spiegazioni, dimostrando così con il senso di una frase che l’europeismo terminale non si trova a proprio agio con la democrazia diretta dal 2005 (rifiuto francese e olandese del Trattato costituzionale) e 2016 (vittoria della Brexit nel Regno Unito).

La gente sì, ma non troppo, e in piccoli pezzi, per favore, il presidente francese preferisce referendum “  semplicistico  ” un “  ampio dibattito per identificare le priorità  ” dei cittadini sull’UE, per “  ricostruire il Progetto europeo […] con un requisito democratico molto più forte di una semplice domanda binaria  ”. L’arte di mettere la museruola su un popolo sostenendo di dargli la parola … Tutti conoscono davvero i limiti insiti nei grandi dibattiti di questo tipo nell’approfondimento della democrazia [1].

Ciò che pone un problema all’europeismo nel regime democratico è, pertanto, l’espressione attraverso la sua sovranità politica di una legittimità senza pari e che può costituire un nemico mortale per l’UE. Da qui il termine “sovranista” usato da anni dai mestatori dell’UE per designare con ombra di disprezzo tutti i sostenitori senza scrupoli della democrazia nazionale. Qui, tuttavia, Emmanuel Macron sceglie di innovare, prendendo in considerazione il termine “sovranità”. Si dichiara, infatti, a favore di una “  piena sovranità europea  ” al punto da renderlo l’asse strutturante del suo discorso alla Sorbona e lo declina in molte forme: deve essere climatico, commerciale, culturale, geostrategica, ecc .

Questo tentativo di recupero è intelligente. Attraverso di esso, il presidente spera di consentire all’UE di appropriarsi di ciò che costituisce la forza politica dello stato-nazione. L’enfasi sul tema della sovranità rende anche possibile eliminare la parola “federalismo” dalla sua retorica. L’idea federale è davvero fuori stagione; i leader non ci credono più, perché conoscono l’ostilità delle persone su questo argomento; oggi è radicato in circoli fanatici, nei laboratori stipendiati da Bruxelles o codificati nei media istituzionali. La sovranità europea, tuttavia, punta allo stesso obiettivo, ma sfocando i binari in modo da non spaventare l’opinione pubblica, secondo una tattica spesso usata nella storia della costruzione europea.

Il presidente francese specifica persino, nella speranza di disinnescare qualsiasi controversia su questo argomento: ” Abbiamo bisogno di una sovranità complementare più forte della nostra, complementare senza nessuna sostituzione  ”. Questa precauzione semantica, tuttavia, si presta a critiche radicali. L’idea che la sovranità possa essere fatta valere a livello dell’UE senza indebolire in alcun modo la sovranità nazionale è in effetti un’aberrazione logica. Affinché Bruxelles si affermi, Berlino, Varsavia, Roma o Parigi dovrebbero essere declassate. Il potere sovrano europeo può esistere solo attraverso la capacità di vincolare le parti.

Il presidente francese ammette, inoltre, ingenuamente, volendo indondere l’entusiasmo europeista, senza apparentemente cogliere ciò che questa confessione potrebbe avere di preoccupante per un capo di stato: “La  Francia vuole un’Europa per amore di Europa, non per se stessa “. In questa prospettiva, “l’Europa” diventa un fine in sé a cui gli Stati membri devono accordarsi per sacrificare i loro interessi almeno puntualmente, mentre è stata storicamente presentata ai popoli come un mezzo che potrebbe moltiplicare il loro potere.

Va notato, tuttavia, che l’esercizio da parte dell’UE della piena sovranità è in questa fase quasi un successo. Negli ultimi 30 anni, l’europeismo è stato abbastanza forte da strappare interi settori di sovranità dagli Stati membri, in particolare nella sfera economica, in modo che ne siano rimasti solo pochi, soprattutto nel campo fiscale. I risultati catastrofici per la maggior parte dei paesi sono ben noti [2]. Rinunciando alla maggior parte della loro sovranità economica, gli stati dell’UE hanno infatti organizzato la loro impotenza collettiva, anche se alcuni, sfruttando le regole su misura per loro, fanno meglio di altri.

In realtà, l’idea di una “sovranità condivisa” cara agli europei è inetta. In materia di sovranità, tutto ciò che è condiviso è, nella migliore delle ipotesi, perso dall’effetto della neutralizzazione, nella peggiore delle ipotesi catturato da un altro stato che può così affermare il suo potere [3]. La sovranità, intesa come il potere di un popolo libero, non è quindi assimilabile dall’UE data la sua natura. Non può esserci vera sovranità europea in senso stretto poiché non esiste alcun popolo europeo la cui espressione politica la consentirebbe. Può prosperare solo temporaneamente con il fagocitare la sovranità nazionale, senza le condizioni che hanno permesso a quest’ultima di affermarsi storicamente. Rappresenta quindi una situazione di stallo, in fondo al quale il volontarismo vibrante dell’attuale presidente è destinato a incagliarsi.

Nella speranza di dare alla luce questa sovranità forcipe, Emmanuel Macron pensa tuttavia che sia saggio stigmatizzare lo stato-nazione e la sua presunta impotenza. Se accetta, per mancanza di una migliore idea di “Europa a più velocità”, se afferma di voler “  assicurare l’unità senza cercare l’uniformità “, insiste anche, a lungo termine, sul tema della follia di un persistente attaccamento allo stato-nazione: “  Tutte le sfide future … sono sfide globali che una nazione che si ritrae può affrontare solo su poche cose ” ; sulla politica migratoria: ” il ritiro ai nostri confini […] sarebbe sia illusorio che inefficace ”. Per quanto riguarda la politica agricola comune, l’agricoltore medio ” verrà all’idea che l’Europa lo proteggerebbe meglio di un’assurda politica nazionale  ”.

Questo tipo di affermazione, tuttavia, pone due problemi: come abbiamo visto sopra, non è sufficiente dichiarare che la sovranità europea sarebbe più efficace delle sovranità nazionali in modo tale che, fin dall’inizio, queste sovranità sarebbero rimpiazzate dai cittadini a beneficio del loro glorioso successore. Le cose sono molto più complicate di così, e ciò che sarebbe desiderabile non è necessariamente possibile, specialmente nel caso della costruzione europea.

Inoltre, le affermazioni antinazionali del presidente non sono mai state provate. Perché le frontiere dell’UE sarebbero più facili da controllare rispetto a quelle di uno Stato membro? Perché la PAC non può essere nazionalizzata senza conservarne l’efficacia? In entrambi i casi, l’esempio della Svizzera, nel cuore del continente, dimostra che è possibile agire efficacemente a livello statale. Ma il presidente Macron afferma di credere che le sue affermazioni siano verità provate, la cui semplice ripetizione è sufficiente per ottenere il sostegno di coloro che lo ascoltano. Tuttavia, al di fuori della Svizzera, ci sono molti esempi nel mondo di stati di piccole e medie dimensioni che non appartengono a nessuna organizzazione sovranazionale che si appropria della propria sovranità e ha un tenore di vita uguale o superiore. a quello dei paesi ricchi dell’UE:

L’argomentazione semplicistica delle dimensioni, sistematicamente avanzata dagli europei per giustificare la loro ambizione di approfondire l’UE, è in effetti piuttosto controversa. Ciò che conta non è la dimensione di un paese, ma il suo grado di coesione interna, a sua volta dipendente dal suo grado di coscienza nazionale. Più forte è quest’ultimo, più uno stato è in grado, ad esempio, di controllare gli effetti della globalizzazione sul suo suolo. In questo contesto, gli stati della zona euro hanno dimostrato per vent’anni che l’unione può fare la debolezza, il crollo del loro potere economico infliggendo una negazione violenta a tutti coloro che, venti anni fa, hanno annunciato la prosperità grazie all’euro [4].

Fondamentalmente, è la forza del sentimento di appartenenza a una comunità politica che determina la capacità di quest’ultima di agire efficacemente nel senso di un interesse generale generato dal dibattito democratico. “  Non ho una sola goccia di sangue francese, eppure la Francia scorre nelle mie vene  ” , ha detto Romain Gary. Nessun europeo potrebbe oggi dire così sull’UE senza esporsi a beffe o commiserazioni, quando Gary può motivare con queste poche parole milioni di lettori. Ora, il senso di appartenenza non può essere decretato, non più di quanto possa riposare nel vuoto; deriva da un processo secolare e di civiltà oltre la portata dell’UE.

Infine, la nazione è la forma politica moderna, nata negli ultimi secoli in Europa o nei paesi d’oltremare di insediamento europeo. Come può l’UE persuadersi di incarnare l’Europa, mentre altera per la sua stessa esistenza; ciò che costituisce un’eredità particolarmente preziosa per tutta l’umanità? C’è un paradosso impossibile da mantenere nel tempo.

Democrazia, sovranità, nazione: così tante idee e concetti essenziali che il presidente Macron gestisce con la massima incoerenza, affondando i suoi discorsi in una sorprendente vacuità intellettuale. Molte incoerenze vengono aggiunte al resto. È di natura generale, suscettibile di minare l’intero edificio argomentativo della prosa presidenziale: se “l’Europa” è destinata ad essere luminosamente salvifica come dice, perché ostacoli, resistenze e opposizioni al suo avvento sono sempre più numerosi? L’ovvio non dovrebbe imporsi a tutti, al di là del persistente attaccamento a vecchie forme e vecchi usi obsoleti o pericolosi? L’argomentazione manichea del diavolo nazionalista ha ovviamente una portata esplicativa molto limitata,

L’incoerenza è anche osservata su una scala più sottile, nel dettaglio di alcuni argomenti. E così la diversità culturale del continente: “  La nostra frammentazione è solo superficiale  ” dichiara perentoriamente il presidente, per aggiungere, qualche riga in più: “  Ovunque, quando un europeo viaggia, è poco più che un francese, che un greco, un tedesco o un olandese ”. C’è una contraddizione qui: se la frammentazione è solo superficiale, la qualità europea non dovrebbe avere la precedenza sulla qualità nazionale, invece di essere una piccola identità in più, come dice la seconda frase? Un altro esempio, anche sfortunato: come possiamo dire che non è più possibile costruire “l’Europa al sicuro dalla gente” come hanno fatto i cosiddetti “padri fondatori” mentre squalificavano poche righe dopo l’uso del referendum nel quadro di un progetto europeo presentato altrimenti come “liberamente consentito”?

Ancora più gravemente, la sua esaltazione a volte condanna il presidente Macron a una certa confusione. Deriva, il più delle volte, dal desiderio di gestire il paradosso un po’ troppo lontano, cercando di scorgere in ostacoli dirimenti semplici sfide – contro le quali la volontà trionferà se è abbastanza forte – ritenendole talvolta persino risorse. Quindi, sulla “frammentazione” culturale: “  In realtà è la nostra migliore possibilità. E invece di lamentarci della profusione delle nostre lingue, dobbiamo renderle un vantaggio ! ”. La forza della convinzione dovrebbe mitigare qui la debolezza dell’argomento, come se bastasse decretare che la frammentazione linguistica del continente è una risorsa in modo che cessi di essere un ostacolo alla sua unità politica e all’emergere di uno spirito pubblico europeo. Ciò non impedisce al Presidente di aggiungere ulteriori acrobazie, molto blandamente: ” E l’Europa deve essere fatta di queste lingue e sarà sempre resa di intraducibile. E questo deve essere colto . L’incomunicabilità come vettore della costruzione europea, è stato necessario pensarci; capire chi può …

Note

[1] In queste circostanze, comprendiamo la leggerezza con cui l’UE ha calpestato la democrazia in Grecia negli ultimi anni, in particolare ponendo l’azione legislativa della rappresentanza nazionale sotto lo stretto controllo della Troika: un esempio chimicamente puro di alienazione. democrazia attraverso debito e tecnocrazia in nome di una grande “causa” e di interessi finanziari ben compresi. Con questa infamia, l’ideale europeo, se non è mai esistito, è vissuto.[2] Sul tasso di crescita, sul tasso di disoccupazione, sulla deindustrializzazione, sulla bilancia commerciale, sul debito pubblico, sul futuro luminoso promesso dai sostenitori della moneta unica non si è verificato, è il minimo che il possiamo dire. Vedi: SAPIR Jacques, “La zona euro ha 20 anni”, Les-Crises , https://www.les-crises.fr/russeurope-en-exil-the-euro-zone-to-20-ans-by- Jacques-Sapir /[3] La Germania e l’euro sono un esempio spettacolare di questo stato di cose.[4] Vedi: SAPIR Jacques, “La zona euro ha 20 anni”, Les-Crises , https://www.les-crises.fr/russeurope-en-exil-the-euro-zone-20-years -da-Jacques-Sapir /

https://www.les-crises.fr/emmanuel-macron-et-leurope-par-eric-juillot-2-4/

Emmanuel Macron e l’Europa – Di Eric Juillot (1/4)_traduzione di Giuseppe Germinario

Emmanuel Macron e l’Europa – Di Eric Juillot (1/4)

– I discorsi: idealismo e manierismo (1/4)

 

“  È la nostra storia, la nostra identità, il nostro orizzonte, ciò che ci protegge e ciò che ci dà un futuro  ” [1]: quando parla di “Europa”, Emmanuel Macron trabocca di entusiasmo Spera di essere comunicativo e lo incoraggia a presentare la costruzione dell’Europa come un processo dal quale abbiamo tutto da aspettarci e fuori dal quale non siamo nulla. Ancor prima di essere eletto presidente della Repubblica, durante la campagna elettorale, ha reso la sua adesione al progetto europeo il punto centrale delle sue ambizioni per la Francia, probabilmente per dare un po ‘di sollievo a un programma di tipo Giscardiano, disperatamente piatto, ma anche – riconosciamo questa qualità – con sincero attaccamento a ciò che l’Unione Europea rappresenta ai suoi occhi.

Più di due anni dopo l’entrata in carica, è possibile redigere un bilancio fallimentare della sua azione a favore dell’UE. I suoi sostenitori probabilmente troverebbero questa affermazione prematura, credendo che non si fa tutto in un giorno, che il tempo deve essere concesso al tempo, ecc. Al contrario, riteniamo che la valutazione avrebbe potuto essere effettuata già nell’autunno del 2017, quando il nuovo presidente ha presentato le sue opinioni sull’UE in un discorso presentato come fondativo, alla Sorbona il 26 settembre 2017 [2] .

Questo discorso condensa una tale somma di incoerenze e sciocchezze che porta in sé i semi del fallimento osservabile oggi. Per capire questo fallimento, per capire come fosse inevitabile, dobbiamo tornare a questo discorso e agli altri che lo hanno seguito, che sono solo occasioni in una forma raccolta: il discorso pronunciato prima nel Parlamento europeo [3] (17 aprile 2018), discorso in occasione dell’assegnazione del premio “Carlo Magno” [4] (10 maggio 2018) e il discorso che celebra il trattato franco-tedesco di Aquisgrana [5] (22 gennaio 2019).

Idealismo e Manichismo

L’Unione Europea non esiste. In ogni caso, è l’impressione paradossale che emana dai discorsi che l’attuale presidente gli dedica, poiché non viene mai menzionato in questo modo. Emmanuel Macron preferisce a questa designazione ufficiale e rigorosa il termine “Europa”, cantandola decine di volte per ciascuno dei suoi interventi. Questa sostituzione non è affatto innocua e inconscia. Quando menziona la costruzione dell’Europa, il presidente francese cerca sistematicamente di presentarla sotto l’aspetto grandioso di una causa sacra. L’espressione “Unione europea” ha qualcosa di noioso e realistico, incompatibile con questa ambizione. Si impadronì così dell ‘”Europa” per posizionarsi immediatamente nel cielo etereo di princìpi e idee, accanto alla figlia di Agenor, di cui Zeus stesso si innamorò.

Ciò che il processo perde nell’onestà intellettuale, acquista forza nel suo potere evocativo. Almeno si crede, perché in questo sequestro dell’Europa da parte dell’UE una mistificazione che, se può sedurre all’inizio, rende più arida e più sinistra l’evocazione concreta dell’Europa alla quale dobbiamo tornare prima o poi. Da qui una sorta di grande differenza permanente da un paragrafo all’altro, osservabile in ogni discorso, che suscita circospezione piuttosto che aderenza, incredulità piuttosto che entusiasmo, tanto la volontà di tenere assieme i grandi i principi e le proposte tecniche con portata limitata sembra artificiale.

Qualunque sia il caso, Emmanuel Macron spera, ponendosi al livello dell’Ideale, di riaccendere la fiamma dell’europeismo che per lungo tempo ha vacillato – se non estinto – nella mente pubblica. Cerca di includere il progetto europeista in una prospettiva morale, a volte persino escatologica, fuori dal tempo e dalla storia. Questo lo autorizza a tutte le deformazioni nella sua lettura del passato, fino a quando non affonda spesso in un rozzo manicheismo.

Il cliché della pace per merito dell ‘”Europa” viene quindi usato in modo abbastanza naturale non appena si presenta l’opportunità: “  Per definire ciò che la costruzione europea ci ha portato dopo le conseguenze della seconda guerra mondiale, siamo abituati a dire che ci ha permesso di vivere 70 anni di pace ed è vero. L’Europa ha vissuto questo storico miracolo di 70 anni di pace tra i nemici ereditari di ieri  . Essa consente, ovviamente, di evocare il passaggio di Robert Schuman e la sua dichiarazione del 9 maggio 1950: “  Credo che le sue parole sorprendenti quando ha detto:” L’Europa non è stato fatto e abbiamo avuto la guerra “  ”. Eppure non c’è più molta gente disposta a suggestionarsi con questa favola.

Ricordiamoci rapidamente: dire che la costruzione europea ha portato la pace nel continente significa semplicemente confondere la causa e il suo effetto. Perché è, al contrario, la pace che ha reso possibile l’affermazione del progetto europeista. E questo stato di pace tra le nazioni europee è una conseguenza della scomparsa del nazionalismo bellicoso, vittima delle due guerre mondiali e delle decine di milioni di morti che ha causato. La guerra divenne impossibile, prima perché non era più concepibile culturalmente. Credere che il mercato unico, la politica agricola comune o la creazione dell’euro siano state le cause profonde della pace in Europa per decenni ci sta portando fuori strada.

Comprendiamo, tuttavia, l’interesse ad una tale mistificazione: consente di dare all’Europa una postura di nobiltà che i suoi risultati concreti e prosaici non gli permetterebbero di ottenere. Inoltre, dà all’europeismo una impronta idealistica. I suoi seguaci possono a poco costo deliziarsi nell’idea che sono l’incarnazione del bene, e questo è il carburante più potente che la causa può usare, poiché rende possibile in cambio la demonizzazione di avversari e persino semplici scettici, accusati di giocare al gioco del male.

“  Vediamo di nuovo sorgere cosa potrebbe distruggere la pace, ciò che ci fa tremare  ”, “  Questa ambizione che portiamo è il sussulto di coscienza che dobbiamo assumere quando questo oscurantismo si risveglia in Europa quasi ovunque  ”. Cos’è questo oscurantismo del ritorno, questo Male risorto, stranamente insensibile alla grandiosità e alla bellezza dell ‘”Europa”? Lo stesso presidente Macron risponde a questa domanda piena di suspense: “  Non lascerò nulla, niente a tutti coloro che promettono odio, divisione o regressione nazionale ”. “Nazionale”: la parola è caduta. È l’unico che è preciso in questa frase grondante di eroismo, ed è ovviamente associato all’idea di regressione, e si fonde con “odio” e “divisione”, queste altre piaghe di cui forse è la causa.

E dal momento che “l’Europa” ne vale la pena, è possibile andare ancora oltre nella denuncia del mal nazionale, assimilandolo francamente a un nazionalismo bellicoso, per quanto difficile da osservare oggi in Europa. Quindi “  riappare una forma di guerra civile europea, dove le nostre differenze, a volte il nostro egoismo nazionale sembrano più importanti di ciò che ci unisce  ”. Il termine “guerra civile europea”, coniato da alcuni storici per riferirsi al periodo 1914-1945 in Europa, è tutt’altro che innocuo, ma chiaramente non è necessario arretrare davanti a nulla quando si tratta di salvare la Dea “Europa” dalle forze del male.

Nello stesso discorso, il presidente insiste su questa idea: “  coloro che commerciano questa rabbia [dei popoli] che suscitano propongono come unico futuro il vicolo cieco del ritorno alla lacerazione nazionalista di ieri. Abbiamo sperimentato tutti i modi e tutte le conseguenze ”. “Europa”, quindi, o morte per il caos nazionalista … Non sembra venire in mente al presidente che l’attuale ritorno delle nazioni è radicato nel senso di espropriazione democratica che l’approfondimento dell’UE ha sviluppato in molti paesi. Non gli viene in mente che l’identità pericolosa o le tensioni nazionalistiche che sono osservabili qui probabilmente sarebbero meno acute se l’UE non fosse, per qualche ragione, vista come una minaccia all’indipendenza e alla libertà delle persone, dei popoli del continente.

Questo è uno dei principali punti ciechi dei discorsi presidenziali: non solo l’UE non ha contribuito storicamente per nulla nell’eradicazione del nazionalismo su scala continentale, ma, soprattutto, contribuisce alla fine del viaggio alla sua rinascita. Convincendosi che una dose extra di europeismo avrebbe vaccinato l’Europa contro il ritorno del male, il presidente Macron agisce in modo del tutto irresponsabile e fa in modo che le persone si sbarazzino di una UE che diventerà finalmente tempo apertamente spoliatrice. Gli euroscettici non possono lamentarsi di questa cecità, ma tutti devono temere che all’estremismo europeista non finisca per rispondere un risorgente estremismo nazionalista.

Alimentato dalle sue illusioni, Emmanuel Macron preferisce, tuttavia, rinchiudersi nelle false alternative del suo primigenio manicheismo e in una lettura revisionista della storia del continente. Pertanto, “  [la divisione] tende a ridurre la maggior parte dei dibattiti a una sovrapposizione di nazionalismi convincendo coloro che dubitano di rinunciare alle libertà vinte al prezzo di mille sofferenze  ”. Si noti al passaggio dell’uso dell’espressione “coloro che dubitano” il tacito riconoscimento che la Causa è soprattutto una questione di fede.

Più seriamente, tuttavia, la menzione delle “mille sofferenze” che dovevano essere sopportate per conquistare nuove libertà è sufficiente per rimanere sbalorditi: l’UE ha reso possibile solo la libera circolazione di capitali, merci e lavoratori. , e non vediamo quale montagna di sofferenza fosse necessario scalare per attuare queste libertà tipicamente comunitarie, estranee alle gloriose libertà pubbliche stabilite ad esempio in Francia durante le rivoluzioni del 1789, 1830 e 1848, nonché dalla Terza Repubblica nascente. Lo scopo, deliberatamente confusionario nella speranza di fondere la piccola storia dell’UE con la grande storia delle nazioni europee, è una pura truffa intellettuale.

L’idealismo spazzatura e il contro-manicheismo sono quindi i due protagonisti dell’europeismo macroniano. Il tema troppo sfruttato di salvare l’Europa contro il male ci mostra un’ambizione: convincere che il progetto europeista è ontologicamente superiore a tutto ciò che è e a tutto ciò che è stato in grado di trasformare radicalmente tutto ciò che sarà purché i suoi seguaci abbiano quella fede attraverso la quale le montagne vengono spostate. Una tale visione è ovviamente rivolta al grandioso, ma sprofonda rapidamente nel ridicolo poiché l’oggetto a cui si applica non si presta ad esso: chi può seriamente pretendere di provare un sacro brivido quando pensa al mercato unico, alla BCE o alla Commissione europea? L’impresa di sacralizzazione dell’UE è in effetti una missione impossibile, nessuna propaganda potrà mai muovere le masse al riguardo. Tuttavia, sembra avere un vantaggio in termini di retorica, dal momento che il presidente francese si impegna a credere – i suoi discorsi lo dimostrano – a tal punto  che lo esonerano da qualsiasi seria argomentazione.

Eric Juillot, per Les-Crises.fr

Note

[1] https://www.elysee.fr/emmanuel-macron/2017/09/26/initiative-for-the-europe-discourse-of-emmanuel-macron-for-a-europe-country-sustainable-country-world[2] https://www.elysee.fr/emmanuel-macron/2017/09/26/initiative-for-the-europe-of-emmanuel-macron-for-a-europe-sustainable-country-world[3] https://www.elysee.fr/emmanuel-macron/2018/04/17/public-president-speakers-in-the-european-par Parliament-in – strasbourg[4] https://www.elysee.fr/emmanuel-macron/2018/05/10/president-speakers-of-the-republique-emmanuel-macron- when- cerimonia- cerimonia -du-prezzo-Charlemagne-a-Aix-la-Chapelle[5] https://www.elysee.fr/emmanuel-macron/2019/01/22/signature-du-traite-franco-gallery-of-aix-chapelle

catastrofismo ambientale e abiezioni globaliste, a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto la traduzione di una lettera-appello sottoscritta da 500 scienziati di varie nazioni, indirizzata all’ONU il cui testo ammonisce sui rischi di strumentalizzazione di una campagna allarmistica, spesso condotta con mezzi abbietti e disgustosi, che tende ad attribuire troppo scontatamente al fattore umano la responsabilità, non dell’inquinamento di parti importanti del pianeta, fatto di per sé innegabile, ma dei prossimi catastrofici cambiamenti climatici.  Una strumentalizzazione dai numerosi risvolti politici ed economici ancora tutti da mettere a nudo. Tra i vari articoli pubblicati da questo sito ne riproponiamo uno di carattere prettamente scientifico e divulgativo utile a cogliere alcuni elementi di base necessari alla comprensione_ Giuseppe Germinario

http://italiaeilmondo.com/2017/06/21/il-riscaldamento-climatico-e-quello-degli-animi-a-cura-di-giuseppe-germinario/

 

Eccellenze,

Non c’è emergenza climatica

Una rete mondiale di oltre 500 scienziati e professionisti esperti del clima e di campi correlati hanno l’onore di inviare alle Vostre Eccellenze l’annessa “Dichiarazione europea sul clima”, di cui i firmatari di questa lettera sono gli ambasciatori nazionali.

I modelli di divulgazione generale sul clima su cui si basa attualmente la politica internazionale sono inadeguati. È pertanto crudele nonché imprudente sostenere la perdita di trilioni di dollari sulla base dei risultati di modelli così imperfetti. Le attuali politiche climatiche indeboliscono inutilmente il sistema economico, mettendo a rischio la vita nei Paesi a cui è negato l’accesso all’elettricità permanente a basso costo.

Vi invitiamo a seguire una politica climatica basata su solida scienza, realismo economico e reale attenzione a coloro che sono colpiti da costose e inutili politiche di mitigazione.

Vi invitiamo inoltre a organizzare con noi ai primi del 2020 un incontro costruttivo di alto livello tra scienziati di fama mondiale sostenitori di entrambe le parti del dibattito sul clima. Questo incontro renderà effettiva l’applicazione del giusto e vecchio principio di buona scienza e giustizia naturale secondo il quale le due parti devono poter essere ascoltate in modo completo ed equo. Audiatur et altera pars!

Rispettosamente,

Gli ambasciatori della Dichiarazione europea sul clima:
Guus Berkhout, professore (Paesi Bassi)
Richard Lindzen, professore (Stati Uniti)
Reynald Du Berger, professore (Canada)
Ingemar Nordin, professore (Svezia)
Terry Dunleavy (Nuova Zelanda)
Jim O’Brien (Irlanda)
Viv Forbes (Australia)
Alberto Prestininzi, professore (Italia)
Jeffrey Foss, professore (Canada)
Benoît Rittaud, docente (Francia)
Morten Jødal (Norvegia)
Fritz Varenholt, professore (Germania)
Rob Lemeire (Belgio)
Viconte Monkton of Brenchley (Regno Unito)

Dichiarazione europea sul clima

Non c’è emergenza climatica
Questo messaggio urgente è stato preparato da una rete globale di 500 scienziati e professionisti. La scienza del clima deve essere meno politicizzata, mentre la politica del clima deve essere più scientifica. Gli scienziati devono stigmatizzare apertamente le incertezze e le esagerazioni nelle loro previsioni sul riscaldamento globale, e i leader politici devono valutare in modo spassionato i benefici e i costi reali dell’adattamento al riscaldamento globale, nonché i costi reali e i benefici attesi della mitigazione.

Un riscaldamento è causato da fattori naturali e antropici
La rilevazione geologica rivela che il clima della Terra varia da quando esiste il pianeta, con fasi naturali fredde e calde. La piccola era glaciale si è conclusa solo di recente, intorno al 1850, quindi non sorprende che oggi stiamo vivendo un periodo di riscaldamento.

Il riscaldamento è molto più lento del previsto
Il mondo si è riscaldato con un ritmo inferiore alla metà di quanto era stato inizialmente previsto, e meno della metà di ciò che ci si poteva aspettare basandosi sull’influsso diretto umano e sullo squilibrio radioattivo. Questo ci dice che siamo lungi dal comprendere il cambiamento climatico.

La politica climatica si basa su modelli inadeguati
I modelli climatici presentano molte carenze e sono difficilmente utilizzabili come strumenti decisionali. Inoltre, probabilmente esagerano gli effetti dei gas serra come la CO2. Ignorano infine il fatto che arricchire l’atmosfera con CO2 è benefico.

La CO2 è il cibo delle piante, il fondamento di tutta la vita sulla Terra
La CO2 non è un inquinante. È essenziale per tutta la vita sulla Terra. La fotosintesi è una benedizione. Più CO2 fa bene alla natura, rende la Terra verde: l’aggiunta di CO2 nell’aria ha portato ad un aumento della biomassa vegetale globale. È anche buono per l’agricolutura, aumentando i raccolti in tutto il mondo.

Il riscaldamento globale non ha necessariamente causato disastri naturali
Non ci sono prove statistiche che il riscaldamento globale stia intensificando uragani, alluvioni, siccità o altri disastri naturali simili, né che li renderebbe più frequenti. Al contrario, le misure di mitigazione della CO2 sono devastanti quanto costose. Le turbine eoliche uccidono uccelli e pipistrelli e le piantagioni di olio di palma distruggono la biodiversità delle foreste tropicali.

L’azione politica deve rispettare le realtà scientifiche ed economiche
Non c’è emergenza climatica. Non vi è quindi motivo di panico e di allarme. Ci opponiamo fermamente alla politica inutile e irrealistica di neutralità carbonica proposta per il 2050. Fino a quando non emergeranno approcci più attendibili, il che certamente accadrà, abbiamo ampio tempo per riflettere e adattarci. L’obiettivo della politica internazionale deve essere quello di fornire energia affidabile ed economica, permanentemente e in tutto il mondo.

http://www.technocracy.news/climate-scientists-write-to-un-there-is-no-climate-emergency/?fbclid=IwAR1H4a1raCVlC8rEW2TwJaewLiBPJi6OevvD3I2ieXQdLaUNjROw3Vnp88w

Tunisia, la frammentazione politica_di Bernard Lugan

La cortina fumogena di commenti dei media dovrebbe essere dissipata da una chiara analisi del risultato del primo turno delle elezioni presidenziali tunisine.

Come nelle precedenti elezioni nel 2014, il paese è diviso in due aree geografiche e politiche, il nord favorito il centrosud emarginato. Contrariamente a quanto si legge troppo spesso, non solo non c’è un chiaro vincitore, nessun candidato raggiunge il 20% dei voti, ma, come spiego in questa analisi, gli islamisti non sono perdenti .

Per il secondo turno i giochi sono aperti. L’avvocato Kais Saied ha un’immagine di integrità e la cui formula “la classe politica non può fare la Storia con le sue piccole storie”, ha spiegato una parte del suo successo, beneficiando dei voti di antisistema, diseredati e islamisti. Per quanto riguarda Nabil Karoui, dovesse uscire di prigione, raccoglierà le voci di tutti coloro che temono una Kais Saied fuori del sistema e, quindi, fuori controllo.

Sei grandi lezioni si possono trarre dal primo turno delle elezioni presidenziali tunisine:

1) Il tasso di partecipazione è molto basso: 45% contro 64% nel 2014.

2) La dispersione dei voti è sorprendente tra i diciassette candidati

3) Il numero totale dei voti da parte delle tre principali candidati è inferiore al 50%.

4) Kais Saied, un candidato indipendente ha ottenuto il 18,4%, Nabil Karoui, attualmente detenuto e imprenditore 15.58%, e il partito islamista Ennahda Abdelfattah Mourou, 12,9%.

5) L’elezione del 15 settembre dimostra ancora una volta che la Tunisia è tagliata a metà. Il nord, il Sahel, è sviluppato e molto occidentalizzato, svantaggiati il Centro Sud. Lo aapevamo dopo le elezioni presidenziali del dicembre 2014, quando Beji Caid Essebsi, leader del partito Nidaa Tounes (55.68% dei voti) ha superato Marzouki sostenuta da islamisti di Ennahda (44.32% di voti ). La cesura politico-religiosa in Tunisia è stata così limpida; il nord e la regione di Tunisi votano Essebsi, centro e sud hanno affidato le loro voci a Marzouki, così gli islamisti. Oggi, i primi due candidati prevalgono nelle regioni svantaggiate.

6) I commentatori che sottolineano il fallimento degli islamisti sono in errore. Per due motivi:

– La prima è che ci sono stati diversi candidati islamisti piccoli o vicini a islamisti, che ammontano almeno tra il 6 e il 9% dei voti.

– La seconda è che Kais Saied ha sottratto consensi dai sostenitori della linea dura del partito Ennahda ora diviso tra “moderati” e “tradizionalisti”, chiamando a raccolta gli adepti di quest’ultimo grazie al suo programma islamista relativo al rifiuto della depenalizzazione dell’omosessualità, la negazione della parità di genere in eredità e la difesa della pena di morte.

Qualunque sia l’esito, il futuro presidente avrà una missione impossibile perché la “primavera araba”, come elogiata dagli europei ingenui e creduloni, ha lasciato rovine e ha lacerato la Tunisia.

In questo paese che il presidente Ben Ali aveva portato quasi fuori dal “sottosviluppo” ed è oggi in fallimento, la assoluta priorità del vincitore del secondo turno sarà l’occupazione giovanile, in particolare i giovani laureati, più colpita dalla disoccupazione. In Tunisia, alla vigilia della rivoluzione, due su tre disoccupati erano sotto i 30 anni e spesso venuti fuori dall’università. Il paradosso è che, da Rabat a Tunisi via Algeri, i laureati sono troppo numerosi rispetto alle necessità. Ancora una volta, il mito del progresso a livello europeo ha causato un disastro in società che non sono preparate a riceverlo, lo subiscono.

La missione del futuro presidente sarà anche impossibile perché lui dovrà ricostruire ciò che è stato distrutto dalla cosiddetta rivoluzione dei “Gelsomini”. Infatti, tra il 1987 e il 2011, sotto il generale Ben Ali, la Tunisia è diventata un paese moderno la cui credibilità ha consentito l’accesso al mercato finanziario internazionale. Attraendo capitali e le industrie, il paese aveva progredito al punto che l’80% dei tunisini è diventato proprietario di case. Questo polo di stabilità e di tolleranza in un mondo musulmano spesso caotico vide entrare milioni di turisti in cerca di esotismo temperato dalla grande modernità.

Migliaia di pazienti sono venuti lì per interventi a costi inferiori e per la stessa qualità delle cure che in Europa. In questo paese, che ha dedicato oltre l’8% del suo PIL per l’istruzione, la gioventù era scolarizzata al 100%, il tasso di alfabetizzazione è stato oltre il 75%, le donne erano libere e non portava il velo. A proposito di dati demografici, con un tasso di crescita dell’1,02% aveva raggiunto un livello quasi europeo. Il 20% del PIL è stato investito in sociale e più del 90% della popolazione ha beneficiato di copertura medica. Realizzazioni quasi uniche tra i paesi arabo-musulmani tanto più notevoli che, a differenza di Algeria e Libia, i suoi due vicini, la Tunisia offre risorse naturali relativamente scarse.

I tunisini erano così privilegiati ai quali non mancava che una libertà politica generalmente inesistente nel mondo arabo-musulmano. Ed ecco i ricchi del Nord che, raggiunti dai poveri nel sud e nel centro, si sono concessi il lusso di una rivoluzione, non vedendo che stavano tirando una pallottola a un piede.

La loro euforia era però di breve durata. Ingenui, essi infatti ritenevano che la democrazia avrebbe risolto i loro problemi, che la corruzione sarebbe scomparsa, la disoccupazione giovanile sarebbe stata assorbita e che i diritti delle donne sarebbero stati salvaguardati …

Otto anni più tardi, scoprono con amarezza di aver segato il ramo su cui si trovavano assisi relativamente comodi.

Inoltre, non importa chi sarà il vincitore del secondo turno delle elezioni presidenziali, perché, prima o poi, la Tunisia sarà di fronte a una scelta chiara: anarchia politica sopra il collasso economico e sociale o un nuovo potere forte.

Bernard Lugan

2019/09/18

NB Bernard Lugan è analista geopolitico e africanista. Autore di numerosi testi e libri, nonché del periodico Afrique Réelle

Il 1989 Visto da Mosca: declino o rinascita?, traduzione di Giuseppe Germinario

L’Europa tre decenni dopo l’apertura della cortina di ferro

Il 1989 Visto da Mosca: declino o rinascita?

Di  Cyrille BRET , 22 settembre 2019  Stampa l'articolo  lettura ottimizzata  Scarica l'articolo in formato PDF

Cyrille Bret è un alto funzionario e geopolitico. Ispettore dell’amministrazione, ha lavorato nelle industrie aeronautiche, digitali e ora è di stanza in un gruppo di difesa pubblica. Dopo la formazione all’Ecole Normale Supérieure, alla Sciences Po e all’Ecole Nationale d’Administration, è stato revisore contabile presso l’Istituto di studi di difesa nazionale superiore (IHEDN).

C. Bret ci offre una magistrale dimostrazione delle rotture e inversioni degli ultimi tre decenni in Russia. Diamo un’occhiata a Mosca per capire meglio l’Europa geografica – cioè la Russia inclusa, almeno fino agli Urali – da non confondere con l’Unione Europea, che è comunque vicina ad essa.

1989, un evento per la Russia?

Visto da Mosca l’anno 1989 è molto diverso da quello celebrato a Berlino e Parigi. Considerato dalla capitale dell’URSS e poi dalla Russia, il 1989 è una delle tappe che guidano lo stato sovietico dall’apice del suo potere alla sua dissoluzione, nell’arco di un decennio. Dal 1979, anno dell’intervento sovietico in Afghanistan nel 1991, che consacrò lo scioglimento dell’Unione, fino al 1985, data dell’adesione di Mikhail Gorbachev alla carica di segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica (PCUS), l’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche si stava avviando da potenza mondiale a perdente geostrategico e al disastro economico. Tuttavia, visto da Mosca, l’anno 1989 segna anche un nuovo inizio: è l’anno delle prime elezioni libere dalla rivoluzione del 1917.

È da molto tempo che dobbiamo cogliere la giusta posizione di quest’anno nel passato della Russia– e nel suo immediato futuro. A livello regionale, il 1989 segna il fallimento della strategia europea che l’URSS ha messo in atto dopo la seconda guerra mondiale: il 1989 è la replica inversa della vittoria del 1945 (I) anno in cui l’URSS è presente ovunque nell’Europa orientale e in Germania. Sul fronte interno, questo è il punto in cui le riforme di Mikhail Gorbachev segnano il tempo e annunciano la fine del regime comunista: il 1989 sta preparando il 1991 (II). Infine, nelle rappresentazioni collettive, è l’anno che inaugura l’indebolimento degli anni ’90 e prepara la rinascita del potere russo: il 1989 annuncia il 1999, data di ascesa al potere di Vladimir Putin. Se il 1989 è un momento chiave nella storia dell’Europa, è anche una data importante per la Russia (III).

Vista di Mosca del 1989: declino o rinascita?
Cyrille Bret
Cyrille Bret è un alto funzionario e geopolitico

I. Dal 1945 al 1989: la fine dell’egemonia sovietica nell’Europa orientale

Il 1989 è un evento europeo prima di essere un evento intrinsecamente russo. È a Berlino, Bucarest, Budapest, Vienna o Vilnius che si svolgono i principali eventi dell’anno. Per la Russia , questo è il momento in cui l’Europa centrale e orientale esce dalla sua alleanza militare, politica, economica e culturale. Inizia quindi un movimento di “de-radicalizzazione del fianco orientale dell’Europa” che porterà all’estensione della NATO e all’ampliamento dell’UE in questa zona di influenza russa.

La rapida democratizzazione dell’Europa orientale

Numerosi eventi nel 1989 segnano la fine del potere mondiale per l’Unione Sovietica. Prima in Asia centrale: il 15 febbraio 1989, le autorità sovietiche annunciarono il ritiro definitivo delle loro truppe dall’Afghanistan. È la fine di un’operazione militare lunga un decennio e un’ammissione di fallimento. Questa campagna sovietica in Afghanistan (1979-1989) è soprannominata “Vietnam dell’URSS”. In effetti, una superpotenza militare e nucleare non è riuscita a sostenere un regime comunista in questo paese al confine con l’URSS. Questa confessione di impotenza geopolitica porta a una serie di eventi che portano alla disintegrazione, in un anno, dell’egemonia sovietica su quello che fu chiamato il blocco orientale. La caduta – o apertura – del muro di Berlino , 9 novembre 1989, è il punto più alto di questo vasto riflusso. Già in primavera, il 2 maggio 1989, l’Ungheria comunista ha aperto i suoi confini all’Austria, avamposto dell’Occidente, ha riabilitato Imre Nagy, una figura di resistenza all’URSS nel 1956, e ha posto fine al regime comunista il 23 Ottobre 1989 proclamando la Repubblica. Nell’agosto 1989 la Polonia non ha più un primo ministro comunista: Tadeusz Mazowiecki, membro di Solidarnosc, accede alla premierato. E l’effetto “palla di neve” è impressionante: i cittadini della Repubblica Democratica Tedesca (RDT) stanno fuggendo dal regime comunista da Ungheria e Austria. In questo contesto di rapido ritiro sovietico, Mikhail Gorbachev, che è venuto a Berlino Est per celebrare il 40 ° anniversario della DDR, annuncia che nessun intervento armato frenerà il movimento al di fuori del comunismo. Ciò ha provocato la caduta del muro di Berlino, la fine della DDR e, successivamente, la riunificazione tedesca. Di fronte a questa passività esplicita e volontaria, le domande sono molte: è un trucco per riprendere in seguito il controllo dell’area? O un’ammissione di debolezza? o una strategia per superare la temporanea debolezza dell’URSS?

La guerra fredda è stata esplicitamente chiusa dal presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan e dal leader sovietico Mikhail Gorbachev il 2 dicembre 1989 al vertice di Malta. Con la “rivoluzione rumena”, si conclude – tra il 16 e il 25 dicembre – l’anno 1989 smantellando un regime comunista alleato dell’URSS sul versante sud-orientale dell’Europa. Il suo sviluppo è sintomatico della fuga storica del 1989: di fronte ai movimenti di protesta a Timisoara nell’ovest del paese, la dittatura Ceausescu cerca di resistere organizzando, il 21 dicembre 1989, una manifestazione a sostegno del regime. Si ribella ai suoi organizzatori, costringendo il dittatore a fuggire, per essere perseguito e poi giustiziato, con sua moglie, Elena Petrescu, il 25 dicembre 1989.

Per l’URSS, il 1989 è un anno di inversione: quando inizia l’anno, il blocco orientale viene sfidato ma rimane al suo posto. Alla fine dell’anno, questo blocco è in declino.

Il fallimento della strategia stalinista della protezione occidentale

Per Mosca, gli eventi del 1989 hanno posto fine alla strategia europea ideata e messa in atto da J. Stalin sulla scia della seconda guerra mondiale. Il suo scopo era in effetti quello di costituire una fortezza comunista avanzata nell’Europa centrale e orientale. Con la presenza delle sue truppe sul suolo di questi stati, l’URSS aveva organizzato l’istituzione di “democrazie popolari”, ovvero regimi comunisti non democratici in Polonia (1944-1947), Romania (1947) Cecoslovacchia (Coup de Praga nel febbraio 1948), Ungheria (1949), ecc. La “liberazione” di questi paesi da parte delle truppe sovietiche contro la Germania nazista aveva permesso all’URSS di esercitare una vera amministrazione fiduciaria su quegli stati ridotti al ruolo di satelliti. Questa è la strategia della “cortina europea” per l’URSS,

Sul fronte economico, l’URSS aveva imposto la creazione del Comecon o Council for Mutual Economic Assistance (CMEA) per contrastare il Piano Marshall del 1947. Questa organizzazione internazionale stabilì una divisione del lavoro e una divisione dei ruoli tra i diversi Stati comunisti della regione. La sua missione era soprattutto quella di diffondere gli strumenti dell’economia pianificata sovietica, di organizzare il commercio tra questi Stati e l’URSS. A causa del ruolo centrale della valuta sovietica, del rublo e della dipendenza tecnologica dall’URSS, il Comecon permise all’URSS di assumere il ruolo di leader economico nell’Europa orientale. Se il CMEA non scompare ufficialmente fino al 1991, il 1989 segna la sua vera fine a causa della scomparsa dei regimi comunisti nelle principali economie della regione.

Sul versante militare, il Patto di Varsavia era lo strumento dell’egemonia sovietica nell’Europa centrale e orientale. Basato su un trattato multilaterale di amicizia e assistenza tra gli alleati dell’URSS, il Patto riunì, sotto la guida dell’Armata Rossa, le varie forze armate delle democrazie popolari. Nel 1989, è ancora in vigore ed è stato rinnovato per vent’anni nel 1985. Sebbene il Patto sia stato ufficialmente sciolto il 1 ° luglio 1991, è gradualmente scomparso nel 1989. In effetti, queste trasformazioni politiche hanno segnato il fine della cosiddetta dottrina della “sovranità limitata”, la cui paternità spetta a L. Breznev. L’evoluzione di un regime comunista verso un regime liberale è considerata a Mosca come una questione di interesse comune per tutti i regimi comunisti.

In breve, nel 1989 la rapida democratizzazione dell’Europa centrale e orientale segnò la fine di un progetto geopolitico di istituzione di un blocco e una zona cuscinetto tra la Russia e il resto dell’Europa. Si apre la strada a una “occidentalizzazione” di questa parte del continente. Si svolgerà già negli anni ’90.

II. Dal 1985 al 1991 fino al 1989: tentativi di riforme interne allo scioglimento dell’URSS

Per la politica interna sovietica e russa, il 1989 si avvicina secondo una sequenza più ampia che inizia con l’avvento di Mikhail Gorbachev al potere l’11 marzo 1985 e termina alla fine di dicembre 1991 con lo scioglimento ufficiale da parte di quest’ultima dell’URSS . Il 1989 replica quindi alla Rivoluzione del 1917.

Il regime comunista può riformarsi?

Consapevole delle debolezze economiche dell’URSS e della sua incapacità finanziaria di sostenere il costo della corsa agli armamenti con gli Stati Uniti, Mikhail Gorbachev è diventato Segretario Generale del Partito Comunista nel 1985. Ha lanciato un’ondata di riforme interne in URSS con l’obiettivo di consolidare il regime comunista e promuoverlo in Occidente. Sulla scena internazionale, dà priorità al disarmo simmetrico con gli Stati Uniti al fine di alleviare la pressione di bilancio che i programmi di armamento esercitano sulle finanze pubbliche sovietiche. Ma a livello nazionale, il 1986 segna l’inizio dei programmi di liberalizzazione politica ed economica. Il programma di “Trasparenza” (”  glasnost”)porta a misure ad alto contenuto simbolico: revoca dei divieti su molte produzioni culturali tra cui ”  Doctor Jivago  ” di Boris Pasternak; fine dell’esilio interno del fisico dissidente Andrei Sakharov a Gorkij.

Nel campo strettamente politico, la composizione del Partito Comunista viene rinnovata per portare i “riformatori” nei ruoli principali. In termini economici, la “ristrutturazione” o “ricostruzione” (”  perestrojka  “) impegna un nuovo NEP: i prezzi sono parzialmente liberalizzati, le società private sono autorizzate e emerge un intero settore informale. Questo movimento accelera nel 1989: per eleggere i due terzi dei deputati al Congresso dei deputati dell’Unione Sovietica, i cittadini dell’URSS possono scegliere tra diverse liste e vedere garantita la segretezza del voto. Questo è uno sviluppo decisivo per il Paese.

Il primo periodo delle riforme di Gorbachev assume un tono euforico … soprattutto all’estero: la ”  Gorbymania  ” in effetti ammalia gli Stati Uniti e in particolare l’Europa occidentale nel 1987. Tuttavia, la popolarità interna del leader sovietico è ben minore, a causa dei limiti delle sue riforme  [ 1 ] .

I limiti delle riforme e la fine dell’impero sovietico

Tuttavia, a partire dal 1989, iniziano a comparire i limiti delle riforme avviate. Sul fronte economico, le disuguaglianze si stanno allargando e l’inflazione sta aumentando, mettendo in discussione il patto sociale sovietico con i quali sono stati garantiti l’occupazione per tutta la vita, l’accesso a servizi pubblici a basso costo e l’uguaglianza sociale (relativa) in cambio di obbedienza politica. A livello rigorosamente politico i movimenti di scissione e secessione si moltiplicano. Sebbene Mikhail Gorbachev sia stato eletto presidente dell’URSS nel 1990, in parlamento i suoi sostenitori sono stati sopraffatti dai nazionalisti e dai liberali che preferivano la terapia d’urto. Così, già nel 1990, la Repubblica socialista federale russa della Russia è guidata da Boris Eltsin, la cui autorità è in aperta competizione con quella del leader sovietico. La tensione tra i riformatori liberali guidati da Eltsin e i conservatori sovietici sostenuti dall’esercito viene gradualmente esacerbata sulla scena politica. Culmina a terra e con le armi in mano nel tentativo di colpo di stato militare del 20 agosto 1991. Sostenuto dal presidente degli Stati Uniti, il presidente russo Eltsin si impone, eclissando il riformatore comunista e sospendendo il Partito comunista nel novembre 1991. La scacchiera politica russa, il movimento di decomunistizzazione iniziato timidamente nel 1989 termina, pochi mesi dopo, alla fine dell’URSS.

Nelle Repubbliche Federate, il 1989 vede le forze centrifughe risvegliate dal  glasnost  . Le aspirazioni all’indipendenza si manifestano in una forma che segna l’Europa. Negli Stati baltici (Estonia, Lettonia e Lituania), le manifestazioni iniziate nel 1987 hanno avviato il processo di decomunistizzazione e di indipendenza nazionale. Questi movimenti pacifisti culminarono il 23 agosto 1989 formando una vasta catena umana, la Via Baltica, che univa le tre capitali (Tallin, Riga, Vilnius)oltre 500 chilometri. Questo è l’atto fondante di un processo di indipendenza per la Lituania (11 marzo 1990), l’Estonia (30 marzo 1990) e la Lettonia (4 maggio 1990). Durante il periodo dal 1989 al 1991, in questa parte dell’URSS, gli scontri armati sono strettamente evitati, ma le tensioni economiche e politiche sono più alte, specialmente in Lituania dove il blocco economico sovietico è rigoroso.

Il movimento di secessione degli Stati baltici lancia una spirale centrifuga che culmina con lo scioglimento dell’Unione Sovietica l’8 dicembre 1991. Nel Caucaso, l’Armenia diventa indipendente (23 agosto 1990), come la Georgia (9 aprile 1991) e Azerbaigian (18 ottobre 1991). L’Ucraina e le repubbliche dell’Asia centrale lasciano l’Unione tra il 1990 e il 1991. Che si tratti della strategia risoluta della Russia contro i costi dell’eccessiva estensione imperiale o dell’abbandono forzato, la Russia si sta liberando da queste periferie imperiali e sta permettendo a questi stati di allontanarsi dalla sua sovranità secolare. La fine dell’URSS, avviata dai movimenti del Baltico nel 1989, fu consacrata dalle dimissioni di Mikhail Gorbachev dalla sua posizione di Presidente dell’Unione Sovietica il 25 dicembre 1991 … che non esiste da due settimane (8 Dicembre 1991). È il Commonwealth of Independent States (CIS) che sostituisce l’Unione con una confederazione con legami istituzionali piuttosto ampi. La Repubblica, poi Federazione Russa, perde il posto centrale che occupava nel sistema istituzionale dell’URSS.

In sintesi, come visto da Mosca, in termini di politica interna, il 1989 è l’anno cardine di una rivoluzione al tempo stesso politica, territoriale ed economica. Lungi dal salvare il regime comunista adattandolo, il ”  glasnost” e l’introduzione di una dose di democrazia nelle istituzioni sovietiche hanno accelerato la caduta del PCUS. Allo stesso modo, la rinuncia alla violenza armata contro i movimenti centrifughi nel 1989 ha accelerato il processo di decomposizione.

III. Dal 1989 al 1999: dal declino al revanchismo russo

Se si considera l’immediato futuro della Russia, il 1989 apre un doloroso decennio che termina nel 1999 con l’ascesa di Vladimir Putin alla carica di presidente ad interim, eletto poi l’anno successivo.

Sul fronte economico, il fallimento delle “riforme” del periodo 1987-1989 porta a un’era di brutale liberalizzazione chiamata “terapia d’urto” in cui l’inflazione arriva fino al 1000% all’anno, dove esplode la disoccupazione e dove molte industrie statali scompaiono. Le disuguaglianze esplodono e lo stato sociale viene smantellato privando gran parte della popolazione russa dell’accesso all’assistenza sanitaria, all’istruzione, alle pensioni o all’energia. D’altra parte, alcune considerevoli fortune private sono costituite in pochi mesi dagli oligarchi che acquistano a prezzi economici i fiori all’occhiello dell’economia diretta nella metallurgia, negli idrocarburi e persino negli armamenti. Il crollo economico e il saccheggio delle risorse culminarono nel 1998 quando la Russia fu colpita da una violenta crisi economica.

Nella sfera domestica, la contrazione del PIL e il crollo delle finanze pubbliche russe stanno danneggiando le forze armate: le basi militari sono chiuse a decine e gli ordini industriali cessano. Unito all’ondata di indipendenza nazionale, l’indebolimento delle forze armate apre la strada a movimenti separatisti all’interno della stessa Federazione Russa. Pertanto, la prima guerra cecena, dal 1993 al 1996, ha visto la Nuova Russia reprimere in un bagno di sangue i movimenti di indipendenza spesso supportati da reti islamiste. Ciò che è in gioco allora è, per la Russia, la capacità di fermare il suo decadimento territoriale. La Russia degli anni ’90, nata dagli shock del 1998, coltiva la scomparsa politica.

In termini di geopolitica regionale, il 1989 si sta preparando per la perdita del vicino straniero. L’estensione della NATO alle porte della Federazione Russa è possibile solo perché la rete di alleanze sovietiche è stata rovinata nel 1989. In effetti, per la più giovane Federazione Russa nata nel 1991, il decennio 1989-1999 è il declino. Il 1999 ha segnato un grave rovesciamento militare nel continente: la Polonia, la Repubblica Ceca e l’Ungheria hanno aderito all’Alleanza atlantica, seguite nel 2004 da molti altri stati precedentemente parte del Patto di Varsavia, tra cui tre ex Repubbliche socialiste sovietiche (Estonia, Lettonia, Lituania). Visto da Mosca, questo movimento è una battuta d’arresto strategica di significato storico. In effetti, l’Occidente è ai confini dello spazio russo. È in questo decennio e grazie alle rivoluzioni colorate in Georgia (rivoluzione delle rose nel 2003) in Ucraina (rivoluzione arancione nel 2004), che la Russia riattiva la diffidenza verso i propri interlocutori.

Ma il 1989 finì davvero nel 1999, quando Vladimir Putin mise gradualmente in atto sia il suo regime che gli elementi di un relativo rinascimento per la Russia. Il decennio 1989-1999 è il periodo fondativo per comprendere la Russia di oggi. Per concedere agibilità agli oligarchi, li subordina come clienti o li fa condannare, come nel caso di Khodorkovsky. Per porre rimedio all’espansione della NATO, sta lottando contro l’adesione di Ucraina e Georgia e contro lo spiegamento di batterie antimissile sul suolo europeo. Ultimo ma non meno importante, per alleviare la debolezza militare della Russia, nel 2009 ha lanciato un vasto piano di modernizzazione, crescita e riforma delle forze armate. La forza politica e geopolitica della Russia nel 2019 è direttamente radicata nel lungo trauma del decennio 1989-1999. In breve, Vladimir Putin si pone come uno che rimedia agli anni fatali 1989-1991.

*

1989, anno fondamentale per la Russia (anche)

Per la comunità europea, il 1989 è un anno altamente simbolico con una connotazione positiva. Questa data è sinonimo di margini di rilascio a Budapest, Varsavia o Bucarest . Le sovranità nazionali, indebolite dal XIX e XX secolo, sono state recuperate. A Parigi e Bonn, poi a Berlino, nel 1989 inizia l’incontro dell’Europa attorno al progetto portato avanti dalla Comunità e poi dall’Unione Europea . Dopo i conflitti dell’inizio del secolo e la divisione della guerra fredda, il 1989 annuncia la speranza di un periodo di convergenza e pace.

Vista di Mosca, 1989 ha uno status più ambiguo. L’anno ha una chiara carica negativa, soprattutto nelle attuali rappresentazioni collettive: all’esterno, segna il fallimento della strategia sovietica di barriere difensive in ​​Europa; all’interno, fa precipitare la fine del regime comunista e prepara il caos politico ed economico degli anni 1990. Ecco perché il 1989, associato al 1991, è, nel discorso del presidente Putin, un annus horibilis per la Russia. Tuttavia, il 1989 apre un decennio decisivo per la Russia contemporanea. Fu dal 1989 che la Russia di Putin iniziò a mettere radici: la creazione di un’oligarchia mafiosa, i fallimenti contro gli Stati Uniti, ecc. tutti questi fattori contribuiscono all’avvento di un regime centralizzato, forte e seduto su una potenza militare. Così, la Russia di oggi ha le sue origini nel 1989 e nel 1991 quanto nel 1999, l’anno del l’ascesa al potere dell’attuale presidente russo .

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