Emmanuel Macron e l’Europa – Di Eric Juillot (2/4)

Emmanuel Macron e l’Europa – Di Eric Juillot (2/4)

Mappa:

– I discorsi: idealismo e manierismo (1/4)

– I discorsi: incoerenza e indigenza (2/4)

– Ricostruzione dell ‘”Europa”: tra piccoli passi insignificanti e ambizioni eccessive (3/4)

– Atti e risultati della politica europeista di Emmanuel Macron (4/4)

Incoerenza e indigenza

Questa è forse la caratteristica più spettacolare dei discorsi di Emmanuel Macron dedicati all’UE: a parte l’idea principale “Europa che è pace”, non contengono alcun argomento nel dimostrare che la costruzione dell’Europa può e deve essere continuata: nessun risultato che permetta di perseguirla con orgoglio ed energia, nessuna analisi delle difficoltà teoriche e pratiche che deve affrontare il cui svolgimento possa consentire agli europei di trovare briciole di speranza per il futuro del loro progetto. Niente di tutto ciò è discusso. La prosa presidenziale si accontenta di atti di fede, petizioni di principio e dichiarazioni non comprovate. Questa indigenza senza discussioni è particolarmente chiara su tre temi principali: democrazia, sovranità e nazione.

“  L’essenza del progetto europeo è la democrazia. Dico anche che è la sua più grande forza, il suo vero cibo  ”. Questo cliché, destinato nuovamente a proteggere l’Unione europea sotto un velo di virtù, non regge al serio controllo. Trattato dopo trattato, la costruzione europea ha posto un gran numero di scelte fondamentali oltre la portata della deliberazione democratica: la dinamica del progetto europeo – se non la sua “essenza” – è più una questione di eradicamento della democrazia piuttosto che sua fioritura.

In effetti, la democrazia in Europa non deve nulla all’UE. La Carta dei diritti e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino godono entrambi di una certa precedenza storica sulla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e oggi la democrazia in Europa deve la propria solidità alla sua iscrizione al centro delle culture politiche nazionali piuttosto che agli impegni giuridici degli Stati membri nei confronti dell’UE. Inoltre, l’unica istituzione democratica nell’UE è il suo parlamento, che ha un’assemblea falsa, quindi i suoi poteri tenui. I suoi membri sono, infatti, i rappresentanti di un popolo europeo che non esiste. Una tale impresa istituzionale è abbastanza tipica di ciò che l’UE può produrre come parte della sua logica funzionalista. Anche qui a Strasburgo, fai vivere questa democrazia in Europa ogni giorno  ”, ha detto Emmanuel Macron ai parlamentari europei, apparentemente inconsapevole che la democrazia senza popolo è destinata a svuotarsi a causa della mancanza di legittimità.

Ma la democrazia secondo l’europeismo è, infatti, singolarmente atrofizzata, poiché si riduce, come afferma il presidente francese, al rispetto di “  l’individuo, delle minoranze, dei diritti fondamentali  ”. Questi sono aspetti essenziali, ovviamente, ma che riducono il regime democratico alla sua unica parte individualista, cancellando la dimensione collettiva della sovranità popolare e nazionale, ambito che costituisce l’unica fonte di legittimità per un potere veramente democratico. Sulla base di questa concezione emiplegica della democrazia, Emmanuel Macron può, tuttavia, scartare ogni idea di consultazione del popolo mediante referendum su quesiti europei: “  La risposta è nota, è sempre” no “, qualunque sia la domanda ”, Afferma senza mezzi termini (ignorando l’esito del trattato di Maastricht) e senza ulteriori spiegazioni, dimostrando così con il senso di una frase che l’europeismo terminale non si trova a proprio agio con la democrazia diretta dal 2005 (rifiuto francese e olandese del Trattato costituzionale) e 2016 (vittoria della Brexit nel Regno Unito).

La gente sì, ma non troppo, e in piccoli pezzi, per favore, il presidente francese preferisce referendum “  semplicistico  ” un “  ampio dibattito per identificare le priorità  ” dei cittadini sull’UE, per “  ricostruire il Progetto europeo […] con un requisito democratico molto più forte di una semplice domanda binaria  ”. L’arte di mettere la museruola su un popolo sostenendo di dargli la parola … Tutti conoscono davvero i limiti insiti nei grandi dibattiti di questo tipo nell’approfondimento della democrazia [1].

Ciò che pone un problema all’europeismo nel regime democratico è, pertanto, l’espressione attraverso la sua sovranità politica di una legittimità senza pari e che può costituire un nemico mortale per l’UE. Da qui il termine “sovranista” usato da anni dai mestatori dell’UE per designare con ombra di disprezzo tutti i sostenitori senza scrupoli della democrazia nazionale. Qui, tuttavia, Emmanuel Macron sceglie di innovare, prendendo in considerazione il termine “sovranità”. Si dichiara, infatti, a favore di una “  piena sovranità europea  ” al punto da renderlo l’asse strutturante del suo discorso alla Sorbona e lo declina in molte forme: deve essere climatico, commerciale, culturale, geostrategica, ecc .

Questo tentativo di recupero è intelligente. Attraverso di esso, il presidente spera di consentire all’UE di appropriarsi di ciò che costituisce la forza politica dello stato-nazione. L’enfasi sul tema della sovranità rende anche possibile eliminare la parola “federalismo” dalla sua retorica. L’idea federale è davvero fuori stagione; i leader non ci credono più, perché conoscono l’ostilità delle persone su questo argomento; oggi è radicato in circoli fanatici, nei laboratori stipendiati da Bruxelles o codificati nei media istituzionali. La sovranità europea, tuttavia, punta allo stesso obiettivo, ma sfocando i binari in modo da non spaventare l’opinione pubblica, secondo una tattica spesso usata nella storia della costruzione europea.

Il presidente francese specifica persino, nella speranza di disinnescare qualsiasi controversia su questo argomento: ” Abbiamo bisogno di una sovranità complementare più forte della nostra, complementare senza nessuna sostituzione  ”. Questa precauzione semantica, tuttavia, si presta a critiche radicali. L’idea che la sovranità possa essere fatta valere a livello dell’UE senza indebolire in alcun modo la sovranità nazionale è in effetti un’aberrazione logica. Affinché Bruxelles si affermi, Berlino, Varsavia, Roma o Parigi dovrebbero essere declassate. Il potere sovrano europeo può esistere solo attraverso la capacità di vincolare le parti.

Il presidente francese ammette, inoltre, ingenuamente, volendo indondere l’entusiasmo europeista, senza apparentemente cogliere ciò che questa confessione potrebbe avere di preoccupante per un capo di stato: “La  Francia vuole un’Europa per amore di Europa, non per se stessa “. In questa prospettiva, “l’Europa” diventa un fine in sé a cui gli Stati membri devono accordarsi per sacrificare i loro interessi almeno puntualmente, mentre è stata storicamente presentata ai popoli come un mezzo che potrebbe moltiplicare il loro potere.

Va notato, tuttavia, che l’esercizio da parte dell’UE della piena sovranità è in questa fase quasi un successo. Negli ultimi 30 anni, l’europeismo è stato abbastanza forte da strappare interi settori di sovranità dagli Stati membri, in particolare nella sfera economica, in modo che ne siano rimasti solo pochi, soprattutto nel campo fiscale. I risultati catastrofici per la maggior parte dei paesi sono ben noti [2]. Rinunciando alla maggior parte della loro sovranità economica, gli stati dell’UE hanno infatti organizzato la loro impotenza collettiva, anche se alcuni, sfruttando le regole su misura per loro, fanno meglio di altri.

In realtà, l’idea di una “sovranità condivisa” cara agli europei è inetta. In materia di sovranità, tutto ciò che è condiviso è, nella migliore delle ipotesi, perso dall’effetto della neutralizzazione, nella peggiore delle ipotesi catturato da un altro stato che può così affermare il suo potere [3]. La sovranità, intesa come il potere di un popolo libero, non è quindi assimilabile dall’UE data la sua natura. Non può esserci vera sovranità europea in senso stretto poiché non esiste alcun popolo europeo la cui espressione politica la consentirebbe. Può prosperare solo temporaneamente con il fagocitare la sovranità nazionale, senza le condizioni che hanno permesso a quest’ultima di affermarsi storicamente. Rappresenta quindi una situazione di stallo, in fondo al quale il volontarismo vibrante dell’attuale presidente è destinato a incagliarsi.

Nella speranza di dare alla luce questa sovranità forcipe, Emmanuel Macron pensa tuttavia che sia saggio stigmatizzare lo stato-nazione e la sua presunta impotenza. Se accetta, per mancanza di una migliore idea di “Europa a più velocità”, se afferma di voler “  assicurare l’unità senza cercare l’uniformità “, insiste anche, a lungo termine, sul tema della follia di un persistente attaccamento allo stato-nazione: “  Tutte le sfide future … sono sfide globali che una nazione che si ritrae può affrontare solo su poche cose ” ; sulla politica migratoria: ” il ritiro ai nostri confini […] sarebbe sia illusorio che inefficace ”. Per quanto riguarda la politica agricola comune, l’agricoltore medio ” verrà all’idea che l’Europa lo proteggerebbe meglio di un’assurda politica nazionale  ”.

Questo tipo di affermazione, tuttavia, pone due problemi: come abbiamo visto sopra, non è sufficiente dichiarare che la sovranità europea sarebbe più efficace delle sovranità nazionali in modo tale che, fin dall’inizio, queste sovranità sarebbero rimpiazzate dai cittadini a beneficio del loro glorioso successore. Le cose sono molto più complicate di così, e ciò che sarebbe desiderabile non è necessariamente possibile, specialmente nel caso della costruzione europea.

Inoltre, le affermazioni antinazionali del presidente non sono mai state provate. Perché le frontiere dell’UE sarebbero più facili da controllare rispetto a quelle di uno Stato membro? Perché la PAC non può essere nazionalizzata senza conservarne l’efficacia? In entrambi i casi, l’esempio della Svizzera, nel cuore del continente, dimostra che è possibile agire efficacemente a livello statale. Ma il presidente Macron afferma di credere che le sue affermazioni siano verità provate, la cui semplice ripetizione è sufficiente per ottenere il sostegno di coloro che lo ascoltano. Tuttavia, al di fuori della Svizzera, ci sono molti esempi nel mondo di stati di piccole e medie dimensioni che non appartengono a nessuna organizzazione sovranazionale che si appropria della propria sovranità e ha un tenore di vita uguale o superiore. a quello dei paesi ricchi dell’UE:

L’argomentazione semplicistica delle dimensioni, sistematicamente avanzata dagli europei per giustificare la loro ambizione di approfondire l’UE, è in effetti piuttosto controversa. Ciò che conta non è la dimensione di un paese, ma il suo grado di coesione interna, a sua volta dipendente dal suo grado di coscienza nazionale. Più forte è quest’ultimo, più uno stato è in grado, ad esempio, di controllare gli effetti della globalizzazione sul suo suolo. In questo contesto, gli stati della zona euro hanno dimostrato per vent’anni che l’unione può fare la debolezza, il crollo del loro potere economico infliggendo una negazione violenta a tutti coloro che, venti anni fa, hanno annunciato la prosperità grazie all’euro [4].

Fondamentalmente, è la forza del sentimento di appartenenza a una comunità politica che determina la capacità di quest’ultima di agire efficacemente nel senso di un interesse generale generato dal dibattito democratico. “  Non ho una sola goccia di sangue francese, eppure la Francia scorre nelle mie vene  ” , ha detto Romain Gary. Nessun europeo potrebbe oggi dire così sull’UE senza esporsi a beffe o commiserazioni, quando Gary può motivare con queste poche parole milioni di lettori. Ora, il senso di appartenenza non può essere decretato, non più di quanto possa riposare nel vuoto; deriva da un processo secolare e di civiltà oltre la portata dell’UE.

Infine, la nazione è la forma politica moderna, nata negli ultimi secoli in Europa o nei paesi d’oltremare di insediamento europeo. Come può l’UE persuadersi di incarnare l’Europa, mentre altera per la sua stessa esistenza; ciò che costituisce un’eredità particolarmente preziosa per tutta l’umanità? C’è un paradosso impossibile da mantenere nel tempo.

Democrazia, sovranità, nazione: così tante idee e concetti essenziali che il presidente Macron gestisce con la massima incoerenza, affondando i suoi discorsi in una sorprendente vacuità intellettuale. Molte incoerenze vengono aggiunte al resto. È di natura generale, suscettibile di minare l’intero edificio argomentativo della prosa presidenziale: se “l’Europa” è destinata ad essere luminosamente salvifica come dice, perché ostacoli, resistenze e opposizioni al suo avvento sono sempre più numerosi? L’ovvio non dovrebbe imporsi a tutti, al di là del persistente attaccamento a vecchie forme e vecchi usi obsoleti o pericolosi? L’argomentazione manichea del diavolo nazionalista ha ovviamente una portata esplicativa molto limitata,

L’incoerenza è anche osservata su una scala più sottile, nel dettaglio di alcuni argomenti. E così la diversità culturale del continente: “  La nostra frammentazione è solo superficiale  ” dichiara perentoriamente il presidente, per aggiungere, qualche riga in più: “  Ovunque, quando un europeo viaggia, è poco più che un francese, che un greco, un tedesco o un olandese ”. C’è una contraddizione qui: se la frammentazione è solo superficiale, la qualità europea non dovrebbe avere la precedenza sulla qualità nazionale, invece di essere una piccola identità in più, come dice la seconda frase? Un altro esempio, anche sfortunato: come possiamo dire che non è più possibile costruire “l’Europa al sicuro dalla gente” come hanno fatto i cosiddetti “padri fondatori” mentre squalificavano poche righe dopo l’uso del referendum nel quadro di un progetto europeo presentato altrimenti come “liberamente consentito”?

Ancora più gravemente, la sua esaltazione a volte condanna il presidente Macron a una certa confusione. Deriva, il più delle volte, dal desiderio di gestire il paradosso un po’ troppo lontano, cercando di scorgere in ostacoli dirimenti semplici sfide – contro le quali la volontà trionferà se è abbastanza forte – ritenendole talvolta persino risorse. Quindi, sulla “frammentazione” culturale: “  In realtà è la nostra migliore possibilità. E invece di lamentarci della profusione delle nostre lingue, dobbiamo renderle un vantaggio ! ”. La forza della convinzione dovrebbe mitigare qui la debolezza dell’argomento, come se bastasse decretare che la frammentazione linguistica del continente è una risorsa in modo che cessi di essere un ostacolo alla sua unità politica e all’emergere di uno spirito pubblico europeo. Ciò non impedisce al Presidente di aggiungere ulteriori acrobazie, molto blandamente: ” E l’Europa deve essere fatta di queste lingue e sarà sempre resa di intraducibile. E questo deve essere colto . L’incomunicabilità come vettore della costruzione europea, è stato necessario pensarci; capire chi può …

Note

[1] In queste circostanze, comprendiamo la leggerezza con cui l’UE ha calpestato la democrazia in Grecia negli ultimi anni, in particolare ponendo l’azione legislativa della rappresentanza nazionale sotto lo stretto controllo della Troika: un esempio chimicamente puro di alienazione. democrazia attraverso debito e tecnocrazia in nome di una grande “causa” e di interessi finanziari ben compresi. Con questa infamia, l’ideale europeo, se non è mai esistito, è vissuto.[2] Sul tasso di crescita, sul tasso di disoccupazione, sulla deindustrializzazione, sulla bilancia commerciale, sul debito pubblico, sul futuro luminoso promesso dai sostenitori della moneta unica non si è verificato, è il minimo che il possiamo dire. Vedi: SAPIR Jacques, “La zona euro ha 20 anni”, Les-Crises , https://www.les-crises.fr/russeurope-en-exil-the-euro-zone-to-20-ans-by- Jacques-Sapir /[3] La Germania e l’euro sono un esempio spettacolare di questo stato di cose.[4] Vedi: SAPIR Jacques, “La zona euro ha 20 anni”, Les-Crises , https://www.les-crises.fr/russeurope-en-exil-the-euro-zone-20-years -da-Jacques-Sapir /

https://www.les-crises.fr/emmanuel-macron-et-leurope-par-eric-juillot-2-4/

Emmanuel Macron e l’Europa – Di Eric Juillot (1/4)_traduzione di Giuseppe Germinario

Emmanuel Macron e l’Europa – Di Eric Juillot (1/4)

– I discorsi: idealismo e manierismo (1/4)

 

“  È la nostra storia, la nostra identità, il nostro orizzonte, ciò che ci protegge e ciò che ci dà un futuro  ” [1]: quando parla di “Europa”, Emmanuel Macron trabocca di entusiasmo Spera di essere comunicativo e lo incoraggia a presentare la costruzione dell’Europa come un processo dal quale abbiamo tutto da aspettarci e fuori dal quale non siamo nulla. Ancor prima di essere eletto presidente della Repubblica, durante la campagna elettorale, ha reso la sua adesione al progetto europeo il punto centrale delle sue ambizioni per la Francia, probabilmente per dare un po ‘di sollievo a un programma di tipo Giscardiano, disperatamente piatto, ma anche – riconosciamo questa qualità – con sincero attaccamento a ciò che l’Unione Europea rappresenta ai suoi occhi.

Più di due anni dopo l’entrata in carica, è possibile redigere un bilancio fallimentare della sua azione a favore dell’UE. I suoi sostenitori probabilmente troverebbero questa affermazione prematura, credendo che non si fa tutto in un giorno, che il tempo deve essere concesso al tempo, ecc. Al contrario, riteniamo che la valutazione avrebbe potuto essere effettuata già nell’autunno del 2017, quando il nuovo presidente ha presentato le sue opinioni sull’UE in un discorso presentato come fondativo, alla Sorbona il 26 settembre 2017 [2] .

Questo discorso condensa una tale somma di incoerenze e sciocchezze che porta in sé i semi del fallimento osservabile oggi. Per capire questo fallimento, per capire come fosse inevitabile, dobbiamo tornare a questo discorso e agli altri che lo hanno seguito, che sono solo occasioni in una forma raccolta: il discorso pronunciato prima nel Parlamento europeo [3] (17 aprile 2018), discorso in occasione dell’assegnazione del premio “Carlo Magno” [4] (10 maggio 2018) e il discorso che celebra il trattato franco-tedesco di Aquisgrana [5] (22 gennaio 2019).

Idealismo e Manichismo

L’Unione Europea non esiste. In ogni caso, è l’impressione paradossale che emana dai discorsi che l’attuale presidente gli dedica, poiché non viene mai menzionato in questo modo. Emmanuel Macron preferisce a questa designazione ufficiale e rigorosa il termine “Europa”, cantandola decine di volte per ciascuno dei suoi interventi. Questa sostituzione non è affatto innocua e inconscia. Quando menziona la costruzione dell’Europa, il presidente francese cerca sistematicamente di presentarla sotto l’aspetto grandioso di una causa sacra. L’espressione “Unione europea” ha qualcosa di noioso e realistico, incompatibile con questa ambizione. Si impadronì così dell ‘”Europa” per posizionarsi immediatamente nel cielo etereo di princìpi e idee, accanto alla figlia di Agenor, di cui Zeus stesso si innamorò.

Ciò che il processo perde nell’onestà intellettuale, acquista forza nel suo potere evocativo. Almeno si crede, perché in questo sequestro dell’Europa da parte dell’UE una mistificazione che, se può sedurre all’inizio, rende più arida e più sinistra l’evocazione concreta dell’Europa alla quale dobbiamo tornare prima o poi. Da qui una sorta di grande differenza permanente da un paragrafo all’altro, osservabile in ogni discorso, che suscita circospezione piuttosto che aderenza, incredulità piuttosto che entusiasmo, tanto la volontà di tenere assieme i grandi i principi e le proposte tecniche con portata limitata sembra artificiale.

Qualunque sia il caso, Emmanuel Macron spera, ponendosi al livello dell’Ideale, di riaccendere la fiamma dell’europeismo che per lungo tempo ha vacillato – se non estinto – nella mente pubblica. Cerca di includere il progetto europeista in una prospettiva morale, a volte persino escatologica, fuori dal tempo e dalla storia. Questo lo autorizza a tutte le deformazioni nella sua lettura del passato, fino a quando non affonda spesso in un rozzo manicheismo.

Il cliché della pace per merito dell ‘”Europa” viene quindi usato in modo abbastanza naturale non appena si presenta l’opportunità: “  Per definire ciò che la costruzione europea ci ha portato dopo le conseguenze della seconda guerra mondiale, siamo abituati a dire che ci ha permesso di vivere 70 anni di pace ed è vero. L’Europa ha vissuto questo storico miracolo di 70 anni di pace tra i nemici ereditari di ieri  . Essa consente, ovviamente, di evocare il passaggio di Robert Schuman e la sua dichiarazione del 9 maggio 1950: “  Credo che le sue parole sorprendenti quando ha detto:” L’Europa non è stato fatto e abbiamo avuto la guerra “  ”. Eppure non c’è più molta gente disposta a suggestionarsi con questa favola.

Ricordiamoci rapidamente: dire che la costruzione europea ha portato la pace nel continente significa semplicemente confondere la causa e il suo effetto. Perché è, al contrario, la pace che ha reso possibile l’affermazione del progetto europeista. E questo stato di pace tra le nazioni europee è una conseguenza della scomparsa del nazionalismo bellicoso, vittima delle due guerre mondiali e delle decine di milioni di morti che ha causato. La guerra divenne impossibile, prima perché non era più concepibile culturalmente. Credere che il mercato unico, la politica agricola comune o la creazione dell’euro siano state le cause profonde della pace in Europa per decenni ci sta portando fuori strada.

Comprendiamo, tuttavia, l’interesse ad una tale mistificazione: consente di dare all’Europa una postura di nobiltà che i suoi risultati concreti e prosaici non gli permetterebbero di ottenere. Inoltre, dà all’europeismo una impronta idealistica. I suoi seguaci possono a poco costo deliziarsi nell’idea che sono l’incarnazione del bene, e questo è il carburante più potente che la causa può usare, poiché rende possibile in cambio la demonizzazione di avversari e persino semplici scettici, accusati di giocare al gioco del male.

“  Vediamo di nuovo sorgere cosa potrebbe distruggere la pace, ciò che ci fa tremare  ”, “  Questa ambizione che portiamo è il sussulto di coscienza che dobbiamo assumere quando questo oscurantismo si risveglia in Europa quasi ovunque  ”. Cos’è questo oscurantismo del ritorno, questo Male risorto, stranamente insensibile alla grandiosità e alla bellezza dell ‘”Europa”? Lo stesso presidente Macron risponde a questa domanda piena di suspense: “  Non lascerò nulla, niente a tutti coloro che promettono odio, divisione o regressione nazionale ”. “Nazionale”: la parola è caduta. È l’unico che è preciso in questa frase grondante di eroismo, ed è ovviamente associato all’idea di regressione, e si fonde con “odio” e “divisione”, queste altre piaghe di cui forse è la causa.

E dal momento che “l’Europa” ne vale la pena, è possibile andare ancora oltre nella denuncia del mal nazionale, assimilandolo francamente a un nazionalismo bellicoso, per quanto difficile da osservare oggi in Europa. Quindi “  riappare una forma di guerra civile europea, dove le nostre differenze, a volte il nostro egoismo nazionale sembrano più importanti di ciò che ci unisce  ”. Il termine “guerra civile europea”, coniato da alcuni storici per riferirsi al periodo 1914-1945 in Europa, è tutt’altro che innocuo, ma chiaramente non è necessario arretrare davanti a nulla quando si tratta di salvare la Dea “Europa” dalle forze del male.

Nello stesso discorso, il presidente insiste su questa idea: “  coloro che commerciano questa rabbia [dei popoli] che suscitano propongono come unico futuro il vicolo cieco del ritorno alla lacerazione nazionalista di ieri. Abbiamo sperimentato tutti i modi e tutte le conseguenze ”. “Europa”, quindi, o morte per il caos nazionalista … Non sembra venire in mente al presidente che l’attuale ritorno delle nazioni è radicato nel senso di espropriazione democratica che l’approfondimento dell’UE ha sviluppato in molti paesi. Non gli viene in mente che l’identità pericolosa o le tensioni nazionalistiche che sono osservabili qui probabilmente sarebbero meno acute se l’UE non fosse, per qualche ragione, vista come una minaccia all’indipendenza e alla libertà delle persone, dei popoli del continente.

Questo è uno dei principali punti ciechi dei discorsi presidenziali: non solo l’UE non ha contribuito storicamente per nulla nell’eradicazione del nazionalismo su scala continentale, ma, soprattutto, contribuisce alla fine del viaggio alla sua rinascita. Convincendosi che una dose extra di europeismo avrebbe vaccinato l’Europa contro il ritorno del male, il presidente Macron agisce in modo del tutto irresponsabile e fa in modo che le persone si sbarazzino di una UE che diventerà finalmente tempo apertamente spoliatrice. Gli euroscettici non possono lamentarsi di questa cecità, ma tutti devono temere che all’estremismo europeista non finisca per rispondere un risorgente estremismo nazionalista.

Alimentato dalle sue illusioni, Emmanuel Macron preferisce, tuttavia, rinchiudersi nelle false alternative del suo primigenio manicheismo e in una lettura revisionista della storia del continente. Pertanto, “  [la divisione] tende a ridurre la maggior parte dei dibattiti a una sovrapposizione di nazionalismi convincendo coloro che dubitano di rinunciare alle libertà vinte al prezzo di mille sofferenze  ”. Si noti al passaggio dell’uso dell’espressione “coloro che dubitano” il tacito riconoscimento che la Causa è soprattutto una questione di fede.

Più seriamente, tuttavia, la menzione delle “mille sofferenze” che dovevano essere sopportate per conquistare nuove libertà è sufficiente per rimanere sbalorditi: l’UE ha reso possibile solo la libera circolazione di capitali, merci e lavoratori. , e non vediamo quale montagna di sofferenza fosse necessario scalare per attuare queste libertà tipicamente comunitarie, estranee alle gloriose libertà pubbliche stabilite ad esempio in Francia durante le rivoluzioni del 1789, 1830 e 1848, nonché dalla Terza Repubblica nascente. Lo scopo, deliberatamente confusionario nella speranza di fondere la piccola storia dell’UE con la grande storia delle nazioni europee, è una pura truffa intellettuale.

L’idealismo spazzatura e il contro-manicheismo sono quindi i due protagonisti dell’europeismo macroniano. Il tema troppo sfruttato di salvare l’Europa contro il male ci mostra un’ambizione: convincere che il progetto europeista è ontologicamente superiore a tutto ciò che è e a tutto ciò che è stato in grado di trasformare radicalmente tutto ciò che sarà purché i suoi seguaci abbiano quella fede attraverso la quale le montagne vengono spostate. Una tale visione è ovviamente rivolta al grandioso, ma sprofonda rapidamente nel ridicolo poiché l’oggetto a cui si applica non si presta ad esso: chi può seriamente pretendere di provare un sacro brivido quando pensa al mercato unico, alla BCE o alla Commissione europea? L’impresa di sacralizzazione dell’UE è in effetti una missione impossibile, nessuna propaganda potrà mai muovere le masse al riguardo. Tuttavia, sembra avere un vantaggio in termini di retorica, dal momento che il presidente francese si impegna a credere – i suoi discorsi lo dimostrano – a tal punto  che lo esonerano da qualsiasi seria argomentazione.

Eric Juillot, per Les-Crises.fr

Note

[1] https://www.elysee.fr/emmanuel-macron/2017/09/26/initiative-for-the-europe-discourse-of-emmanuel-macron-for-a-europe-country-sustainable-country-world[2] https://www.elysee.fr/emmanuel-macron/2017/09/26/initiative-for-the-europe-of-emmanuel-macron-for-a-europe-sustainable-country-world[3] https://www.elysee.fr/emmanuel-macron/2018/04/17/public-president-speakers-in-the-european-par Parliament-in – strasbourg[4] https://www.elysee.fr/emmanuel-macron/2018/05/10/president-speakers-of-the-republique-emmanuel-macron- when- cerimonia- cerimonia -du-prezzo-Charlemagne-a-Aix-la-Chapelle[5] https://www.elysee.fr/emmanuel-macron/2019/01/22/signature-du-traite-franco-gallery-of-aix-chapelle

catastrofismo ambientale e abiezioni globaliste, a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto la traduzione di una lettera-appello sottoscritta da 500 scienziati di varie nazioni, indirizzata all’ONU il cui testo ammonisce sui rischi di strumentalizzazione di una campagna allarmistica, spesso condotta con mezzi abbietti e disgustosi, che tende ad attribuire troppo scontatamente al fattore umano la responsabilità, non dell’inquinamento di parti importanti del pianeta, fatto di per sé innegabile, ma dei prossimi catastrofici cambiamenti climatici.  Una strumentalizzazione dai numerosi risvolti politici ed economici ancora tutti da mettere a nudo. Tra i vari articoli pubblicati da questo sito ne riproponiamo uno di carattere prettamente scientifico e divulgativo utile a cogliere alcuni elementi di base necessari alla comprensione_ Giuseppe Germinario

http://italiaeilmondo.com/2017/06/21/il-riscaldamento-climatico-e-quello-degli-animi-a-cura-di-giuseppe-germinario/

 

Eccellenze,

Non c’è emergenza climatica

Una rete mondiale di oltre 500 scienziati e professionisti esperti del clima e di campi correlati hanno l’onore di inviare alle Vostre Eccellenze l’annessa “Dichiarazione europea sul clima”, di cui i firmatari di questa lettera sono gli ambasciatori nazionali.

I modelli di divulgazione generale sul clima su cui si basa attualmente la politica internazionale sono inadeguati. È pertanto crudele nonché imprudente sostenere la perdita di trilioni di dollari sulla base dei risultati di modelli così imperfetti. Le attuali politiche climatiche indeboliscono inutilmente il sistema economico, mettendo a rischio la vita nei Paesi a cui è negato l’accesso all’elettricità permanente a basso costo.

Vi invitiamo a seguire una politica climatica basata su solida scienza, realismo economico e reale attenzione a coloro che sono colpiti da costose e inutili politiche di mitigazione.

Vi invitiamo inoltre a organizzare con noi ai primi del 2020 un incontro costruttivo di alto livello tra scienziati di fama mondiale sostenitori di entrambe le parti del dibattito sul clima. Questo incontro renderà effettiva l’applicazione del giusto e vecchio principio di buona scienza e giustizia naturale secondo il quale le due parti devono poter essere ascoltate in modo completo ed equo. Audiatur et altera pars!

Rispettosamente,

Gli ambasciatori della Dichiarazione europea sul clima:
Guus Berkhout, professore (Paesi Bassi)
Richard Lindzen, professore (Stati Uniti)
Reynald Du Berger, professore (Canada)
Ingemar Nordin, professore (Svezia)
Terry Dunleavy (Nuova Zelanda)
Jim O’Brien (Irlanda)
Viv Forbes (Australia)
Alberto Prestininzi, professore (Italia)
Jeffrey Foss, professore (Canada)
Benoît Rittaud, docente (Francia)
Morten Jødal (Norvegia)
Fritz Varenholt, professore (Germania)
Rob Lemeire (Belgio)
Viconte Monkton of Brenchley (Regno Unito)

Dichiarazione europea sul clima

Non c’è emergenza climatica
Questo messaggio urgente è stato preparato da una rete globale di 500 scienziati e professionisti. La scienza del clima deve essere meno politicizzata, mentre la politica del clima deve essere più scientifica. Gli scienziati devono stigmatizzare apertamente le incertezze e le esagerazioni nelle loro previsioni sul riscaldamento globale, e i leader politici devono valutare in modo spassionato i benefici e i costi reali dell’adattamento al riscaldamento globale, nonché i costi reali e i benefici attesi della mitigazione.

Un riscaldamento è causato da fattori naturali e antropici
La rilevazione geologica rivela che il clima della Terra varia da quando esiste il pianeta, con fasi naturali fredde e calde. La piccola era glaciale si è conclusa solo di recente, intorno al 1850, quindi non sorprende che oggi stiamo vivendo un periodo di riscaldamento.

Il riscaldamento è molto più lento del previsto
Il mondo si è riscaldato con un ritmo inferiore alla metà di quanto era stato inizialmente previsto, e meno della metà di ciò che ci si poteva aspettare basandosi sull’influsso diretto umano e sullo squilibrio radioattivo. Questo ci dice che siamo lungi dal comprendere il cambiamento climatico.

La politica climatica si basa su modelli inadeguati
I modelli climatici presentano molte carenze e sono difficilmente utilizzabili come strumenti decisionali. Inoltre, probabilmente esagerano gli effetti dei gas serra come la CO2. Ignorano infine il fatto che arricchire l’atmosfera con CO2 è benefico.

La CO2 è il cibo delle piante, il fondamento di tutta la vita sulla Terra
La CO2 non è un inquinante. È essenziale per tutta la vita sulla Terra. La fotosintesi è una benedizione. Più CO2 fa bene alla natura, rende la Terra verde: l’aggiunta di CO2 nell’aria ha portato ad un aumento della biomassa vegetale globale. È anche buono per l’agricolutura, aumentando i raccolti in tutto il mondo.

Il riscaldamento globale non ha necessariamente causato disastri naturali
Non ci sono prove statistiche che il riscaldamento globale stia intensificando uragani, alluvioni, siccità o altri disastri naturali simili, né che li renderebbe più frequenti. Al contrario, le misure di mitigazione della CO2 sono devastanti quanto costose. Le turbine eoliche uccidono uccelli e pipistrelli e le piantagioni di olio di palma distruggono la biodiversità delle foreste tropicali.

L’azione politica deve rispettare le realtà scientifiche ed economiche
Non c’è emergenza climatica. Non vi è quindi motivo di panico e di allarme. Ci opponiamo fermamente alla politica inutile e irrealistica di neutralità carbonica proposta per il 2050. Fino a quando non emergeranno approcci più attendibili, il che certamente accadrà, abbiamo ampio tempo per riflettere e adattarci. L’obiettivo della politica internazionale deve essere quello di fornire energia affidabile ed economica, permanentemente e in tutto il mondo.

http://www.technocracy.news/climate-scientists-write-to-un-there-is-no-climate-emergency/?fbclid=IwAR1H4a1raCVlC8rEW2TwJaewLiBPJi6OevvD3I2ieXQdLaUNjROw3Vnp88w

Tunisia, la frammentazione politica_di Bernard Lugan

La cortina fumogena di commenti dei media dovrebbe essere dissipata da una chiara analisi del risultato del primo turno delle elezioni presidenziali tunisine.

Come nelle precedenti elezioni nel 2014, il paese è diviso in due aree geografiche e politiche, il nord favorito il centrosud emarginato. Contrariamente a quanto si legge troppo spesso, non solo non c’è un chiaro vincitore, nessun candidato raggiunge il 20% dei voti, ma, come spiego in questa analisi, gli islamisti non sono perdenti .

Per il secondo turno i giochi sono aperti. L’avvocato Kais Saied ha un’immagine di integrità e la cui formula “la classe politica non può fare la Storia con le sue piccole storie”, ha spiegato una parte del suo successo, beneficiando dei voti di antisistema, diseredati e islamisti. Per quanto riguarda Nabil Karoui, dovesse uscire di prigione, raccoglierà le voci di tutti coloro che temono una Kais Saied fuori del sistema e, quindi, fuori controllo.

Sei grandi lezioni si possono trarre dal primo turno delle elezioni presidenziali tunisine:

1) Il tasso di partecipazione è molto basso: 45% contro 64% nel 2014.

2) La dispersione dei voti è sorprendente tra i diciassette candidati

3) Il numero totale dei voti da parte delle tre principali candidati è inferiore al 50%.

4) Kais Saied, un candidato indipendente ha ottenuto il 18,4%, Nabil Karoui, attualmente detenuto e imprenditore 15.58%, e il partito islamista Ennahda Abdelfattah Mourou, 12,9%.

5) L’elezione del 15 settembre dimostra ancora una volta che la Tunisia è tagliata a metà. Il nord, il Sahel, è sviluppato e molto occidentalizzato, svantaggiati il Centro Sud. Lo aapevamo dopo le elezioni presidenziali del dicembre 2014, quando Beji Caid Essebsi, leader del partito Nidaa Tounes (55.68% dei voti) ha superato Marzouki sostenuta da islamisti di Ennahda (44.32% di voti ). La cesura politico-religiosa in Tunisia è stata così limpida; il nord e la regione di Tunisi votano Essebsi, centro e sud hanno affidato le loro voci a Marzouki, così gli islamisti. Oggi, i primi due candidati prevalgono nelle regioni svantaggiate.

6) I commentatori che sottolineano il fallimento degli islamisti sono in errore. Per due motivi:

– La prima è che ci sono stati diversi candidati islamisti piccoli o vicini a islamisti, che ammontano almeno tra il 6 e il 9% dei voti.

– La seconda è che Kais Saied ha sottratto consensi dai sostenitori della linea dura del partito Ennahda ora diviso tra “moderati” e “tradizionalisti”, chiamando a raccolta gli adepti di quest’ultimo grazie al suo programma islamista relativo al rifiuto della depenalizzazione dell’omosessualità, la negazione della parità di genere in eredità e la difesa della pena di morte.

Qualunque sia l’esito, il futuro presidente avrà una missione impossibile perché la “primavera araba”, come elogiata dagli europei ingenui e creduloni, ha lasciato rovine e ha lacerato la Tunisia.

In questo paese che il presidente Ben Ali aveva portato quasi fuori dal “sottosviluppo” ed è oggi in fallimento, la assoluta priorità del vincitore del secondo turno sarà l’occupazione giovanile, in particolare i giovani laureati, più colpita dalla disoccupazione. In Tunisia, alla vigilia della rivoluzione, due su tre disoccupati erano sotto i 30 anni e spesso venuti fuori dall’università. Il paradosso è che, da Rabat a Tunisi via Algeri, i laureati sono troppo numerosi rispetto alle necessità. Ancora una volta, il mito del progresso a livello europeo ha causato un disastro in società che non sono preparate a riceverlo, lo subiscono.

La missione del futuro presidente sarà anche impossibile perché lui dovrà ricostruire ciò che è stato distrutto dalla cosiddetta rivoluzione dei “Gelsomini”. Infatti, tra il 1987 e il 2011, sotto il generale Ben Ali, la Tunisia è diventata un paese moderno la cui credibilità ha consentito l’accesso al mercato finanziario internazionale. Attraendo capitali e le industrie, il paese aveva progredito al punto che l’80% dei tunisini è diventato proprietario di case. Questo polo di stabilità e di tolleranza in un mondo musulmano spesso caotico vide entrare milioni di turisti in cerca di esotismo temperato dalla grande modernità.

Migliaia di pazienti sono venuti lì per interventi a costi inferiori e per la stessa qualità delle cure che in Europa. In questo paese, che ha dedicato oltre l’8% del suo PIL per l’istruzione, la gioventù era scolarizzata al 100%, il tasso di alfabetizzazione è stato oltre il 75%, le donne erano libere e non portava il velo. A proposito di dati demografici, con un tasso di crescita dell’1,02% aveva raggiunto un livello quasi europeo. Il 20% del PIL è stato investito in sociale e più del 90% della popolazione ha beneficiato di copertura medica. Realizzazioni quasi uniche tra i paesi arabo-musulmani tanto più notevoli che, a differenza di Algeria e Libia, i suoi due vicini, la Tunisia offre risorse naturali relativamente scarse.

I tunisini erano così privilegiati ai quali non mancava che una libertà politica generalmente inesistente nel mondo arabo-musulmano. Ed ecco i ricchi del Nord che, raggiunti dai poveri nel sud e nel centro, si sono concessi il lusso di una rivoluzione, non vedendo che stavano tirando una pallottola a un piede.

La loro euforia era però di breve durata. Ingenui, essi infatti ritenevano che la democrazia avrebbe risolto i loro problemi, che la corruzione sarebbe scomparsa, la disoccupazione giovanile sarebbe stata assorbita e che i diritti delle donne sarebbero stati salvaguardati …

Otto anni più tardi, scoprono con amarezza di aver segato il ramo su cui si trovavano assisi relativamente comodi.

Inoltre, non importa chi sarà il vincitore del secondo turno delle elezioni presidenziali, perché, prima o poi, la Tunisia sarà di fronte a una scelta chiara: anarchia politica sopra il collasso economico e sociale o un nuovo potere forte.

Bernard Lugan

2019/09/18

NB Bernard Lugan è analista geopolitico e africanista. Autore di numerosi testi e libri, nonché del periodico Afrique Réelle

Il 1989 Visto da Mosca: declino o rinascita?, traduzione di Giuseppe Germinario

L’Europa tre decenni dopo l’apertura della cortina di ferro

Il 1989 Visto da Mosca: declino o rinascita?

Di  Cyrille BRET , 22 settembre 2019  Stampa l'articolo  lettura ottimizzata  Scarica l'articolo in formato PDF

Cyrille Bret è un alto funzionario e geopolitico. Ispettore dell’amministrazione, ha lavorato nelle industrie aeronautiche, digitali e ora è di stanza in un gruppo di difesa pubblica. Dopo la formazione all’Ecole Normale Supérieure, alla Sciences Po e all’Ecole Nationale d’Administration, è stato revisore contabile presso l’Istituto di studi di difesa nazionale superiore (IHEDN).

C. Bret ci offre una magistrale dimostrazione delle rotture e inversioni degli ultimi tre decenni in Russia. Diamo un’occhiata a Mosca per capire meglio l’Europa geografica – cioè la Russia inclusa, almeno fino agli Urali – da non confondere con l’Unione Europea, che è comunque vicina ad essa.

1989, un evento per la Russia?

Visto da Mosca l’anno 1989 è molto diverso da quello celebrato a Berlino e Parigi. Considerato dalla capitale dell’URSS e poi dalla Russia, il 1989 è una delle tappe che guidano lo stato sovietico dall’apice del suo potere alla sua dissoluzione, nell’arco di un decennio. Dal 1979, anno dell’intervento sovietico in Afghanistan nel 1991, che consacrò lo scioglimento dell’Unione, fino al 1985, data dell’adesione di Mikhail Gorbachev alla carica di segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica (PCUS), l’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche si stava avviando da potenza mondiale a perdente geostrategico e al disastro economico. Tuttavia, visto da Mosca, l’anno 1989 segna anche un nuovo inizio: è l’anno delle prime elezioni libere dalla rivoluzione del 1917.

È da molto tempo che dobbiamo cogliere la giusta posizione di quest’anno nel passato della Russia– e nel suo immediato futuro. A livello regionale, il 1989 segna il fallimento della strategia europea che l’URSS ha messo in atto dopo la seconda guerra mondiale: il 1989 è la replica inversa della vittoria del 1945 (I) anno in cui l’URSS è presente ovunque nell’Europa orientale e in Germania. Sul fronte interno, questo è il punto in cui le riforme di Mikhail Gorbachev segnano il tempo e annunciano la fine del regime comunista: il 1989 sta preparando il 1991 (II). Infine, nelle rappresentazioni collettive, è l’anno che inaugura l’indebolimento degli anni ’90 e prepara la rinascita del potere russo: il 1989 annuncia il 1999, data di ascesa al potere di Vladimir Putin. Se il 1989 è un momento chiave nella storia dell’Europa, è anche una data importante per la Russia (III).

Vista di Mosca del 1989: declino o rinascita?
Cyrille Bret
Cyrille Bret è un alto funzionario e geopolitico

I. Dal 1945 al 1989: la fine dell’egemonia sovietica nell’Europa orientale

Il 1989 è un evento europeo prima di essere un evento intrinsecamente russo. È a Berlino, Bucarest, Budapest, Vienna o Vilnius che si svolgono i principali eventi dell’anno. Per la Russia , questo è il momento in cui l’Europa centrale e orientale esce dalla sua alleanza militare, politica, economica e culturale. Inizia quindi un movimento di “de-radicalizzazione del fianco orientale dell’Europa” che porterà all’estensione della NATO e all’ampliamento dell’UE in questa zona di influenza russa.

La rapida democratizzazione dell’Europa orientale

Numerosi eventi nel 1989 segnano la fine del potere mondiale per l’Unione Sovietica. Prima in Asia centrale: il 15 febbraio 1989, le autorità sovietiche annunciarono il ritiro definitivo delle loro truppe dall’Afghanistan. È la fine di un’operazione militare lunga un decennio e un’ammissione di fallimento. Questa campagna sovietica in Afghanistan (1979-1989) è soprannominata “Vietnam dell’URSS”. In effetti, una superpotenza militare e nucleare non è riuscita a sostenere un regime comunista in questo paese al confine con l’URSS. Questa confessione di impotenza geopolitica porta a una serie di eventi che portano alla disintegrazione, in un anno, dell’egemonia sovietica su quello che fu chiamato il blocco orientale. La caduta – o apertura – del muro di Berlino , 9 novembre 1989, è il punto più alto di questo vasto riflusso. Già in primavera, il 2 maggio 1989, l’Ungheria comunista ha aperto i suoi confini all’Austria, avamposto dell’Occidente, ha riabilitato Imre Nagy, una figura di resistenza all’URSS nel 1956, e ha posto fine al regime comunista il 23 Ottobre 1989 proclamando la Repubblica. Nell’agosto 1989 la Polonia non ha più un primo ministro comunista: Tadeusz Mazowiecki, membro di Solidarnosc, accede alla premierato. E l’effetto “palla di neve” è impressionante: i cittadini della Repubblica Democratica Tedesca (RDT) stanno fuggendo dal regime comunista da Ungheria e Austria. In questo contesto di rapido ritiro sovietico, Mikhail Gorbachev, che è venuto a Berlino Est per celebrare il 40 ° anniversario della DDR, annuncia che nessun intervento armato frenerà il movimento al di fuori del comunismo. Ciò ha provocato la caduta del muro di Berlino, la fine della DDR e, successivamente, la riunificazione tedesca. Di fronte a questa passività esplicita e volontaria, le domande sono molte: è un trucco per riprendere in seguito il controllo dell’area? O un’ammissione di debolezza? o una strategia per superare la temporanea debolezza dell’URSS?

La guerra fredda è stata esplicitamente chiusa dal presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan e dal leader sovietico Mikhail Gorbachev il 2 dicembre 1989 al vertice di Malta. Con la “rivoluzione rumena”, si conclude – tra il 16 e il 25 dicembre – l’anno 1989 smantellando un regime comunista alleato dell’URSS sul versante sud-orientale dell’Europa. Il suo sviluppo è sintomatico della fuga storica del 1989: di fronte ai movimenti di protesta a Timisoara nell’ovest del paese, la dittatura Ceausescu cerca di resistere organizzando, il 21 dicembre 1989, una manifestazione a sostegno del regime. Si ribella ai suoi organizzatori, costringendo il dittatore a fuggire, per essere perseguito e poi giustiziato, con sua moglie, Elena Petrescu, il 25 dicembre 1989.

Per l’URSS, il 1989 è un anno di inversione: quando inizia l’anno, il blocco orientale viene sfidato ma rimane al suo posto. Alla fine dell’anno, questo blocco è in declino.

Il fallimento della strategia stalinista della protezione occidentale

Per Mosca, gli eventi del 1989 hanno posto fine alla strategia europea ideata e messa in atto da J. Stalin sulla scia della seconda guerra mondiale. Il suo scopo era in effetti quello di costituire una fortezza comunista avanzata nell’Europa centrale e orientale. Con la presenza delle sue truppe sul suolo di questi stati, l’URSS aveva organizzato l’istituzione di “democrazie popolari”, ovvero regimi comunisti non democratici in Polonia (1944-1947), Romania (1947) Cecoslovacchia (Coup de Praga nel febbraio 1948), Ungheria (1949), ecc. La “liberazione” di questi paesi da parte delle truppe sovietiche contro la Germania nazista aveva permesso all’URSS di esercitare una vera amministrazione fiduciaria su quegli stati ridotti al ruolo di satelliti. Questa è la strategia della “cortina europea” per l’URSS,

Sul fronte economico, l’URSS aveva imposto la creazione del Comecon o Council for Mutual Economic Assistance (CMEA) per contrastare il Piano Marshall del 1947. Questa organizzazione internazionale stabilì una divisione del lavoro e una divisione dei ruoli tra i diversi Stati comunisti della regione. La sua missione era soprattutto quella di diffondere gli strumenti dell’economia pianificata sovietica, di organizzare il commercio tra questi Stati e l’URSS. A causa del ruolo centrale della valuta sovietica, del rublo e della dipendenza tecnologica dall’URSS, il Comecon permise all’URSS di assumere il ruolo di leader economico nell’Europa orientale. Se il CMEA non scompare ufficialmente fino al 1991, il 1989 segna la sua vera fine a causa della scomparsa dei regimi comunisti nelle principali economie della regione.

Sul versante militare, il Patto di Varsavia era lo strumento dell’egemonia sovietica nell’Europa centrale e orientale. Basato su un trattato multilaterale di amicizia e assistenza tra gli alleati dell’URSS, il Patto riunì, sotto la guida dell’Armata Rossa, le varie forze armate delle democrazie popolari. Nel 1989, è ancora in vigore ed è stato rinnovato per vent’anni nel 1985. Sebbene il Patto sia stato ufficialmente sciolto il 1 ° luglio 1991, è gradualmente scomparso nel 1989. In effetti, queste trasformazioni politiche hanno segnato il fine della cosiddetta dottrina della “sovranità limitata”, la cui paternità spetta a L. Breznev. L’evoluzione di un regime comunista verso un regime liberale è considerata a Mosca come una questione di interesse comune per tutti i regimi comunisti.

In breve, nel 1989 la rapida democratizzazione dell’Europa centrale e orientale segnò la fine di un progetto geopolitico di istituzione di un blocco e una zona cuscinetto tra la Russia e il resto dell’Europa. Si apre la strada a una “occidentalizzazione” di questa parte del continente. Si svolgerà già negli anni ’90.

II. Dal 1985 al 1991 fino al 1989: tentativi di riforme interne allo scioglimento dell’URSS

Per la politica interna sovietica e russa, il 1989 si avvicina secondo una sequenza più ampia che inizia con l’avvento di Mikhail Gorbachev al potere l’11 marzo 1985 e termina alla fine di dicembre 1991 con lo scioglimento ufficiale da parte di quest’ultima dell’URSS . Il 1989 replica quindi alla Rivoluzione del 1917.

Il regime comunista può riformarsi?

Consapevole delle debolezze economiche dell’URSS e della sua incapacità finanziaria di sostenere il costo della corsa agli armamenti con gli Stati Uniti, Mikhail Gorbachev è diventato Segretario Generale del Partito Comunista nel 1985. Ha lanciato un’ondata di riforme interne in URSS con l’obiettivo di consolidare il regime comunista e promuoverlo in Occidente. Sulla scena internazionale, dà priorità al disarmo simmetrico con gli Stati Uniti al fine di alleviare la pressione di bilancio che i programmi di armamento esercitano sulle finanze pubbliche sovietiche. Ma a livello nazionale, il 1986 segna l’inizio dei programmi di liberalizzazione politica ed economica. Il programma di “Trasparenza” (”  glasnost”)porta a misure ad alto contenuto simbolico: revoca dei divieti su molte produzioni culturali tra cui ”  Doctor Jivago  ” di Boris Pasternak; fine dell’esilio interno del fisico dissidente Andrei Sakharov a Gorkij.

Nel campo strettamente politico, la composizione del Partito Comunista viene rinnovata per portare i “riformatori” nei ruoli principali. In termini economici, la “ristrutturazione” o “ricostruzione” (”  perestrojka  “) impegna un nuovo NEP: i prezzi sono parzialmente liberalizzati, le società private sono autorizzate e emerge un intero settore informale. Questo movimento accelera nel 1989: per eleggere i due terzi dei deputati al Congresso dei deputati dell’Unione Sovietica, i cittadini dell’URSS possono scegliere tra diverse liste e vedere garantita la segretezza del voto. Questo è uno sviluppo decisivo per il Paese.

Il primo periodo delle riforme di Gorbachev assume un tono euforico … soprattutto all’estero: la ”  Gorbymania  ” in effetti ammalia gli Stati Uniti e in particolare l’Europa occidentale nel 1987. Tuttavia, la popolarità interna del leader sovietico è ben minore, a causa dei limiti delle sue riforme  [ 1 ] .

I limiti delle riforme e la fine dell’impero sovietico

Tuttavia, a partire dal 1989, iniziano a comparire i limiti delle riforme avviate. Sul fronte economico, le disuguaglianze si stanno allargando e l’inflazione sta aumentando, mettendo in discussione il patto sociale sovietico con i quali sono stati garantiti l’occupazione per tutta la vita, l’accesso a servizi pubblici a basso costo e l’uguaglianza sociale (relativa) in cambio di obbedienza politica. A livello rigorosamente politico i movimenti di scissione e secessione si moltiplicano. Sebbene Mikhail Gorbachev sia stato eletto presidente dell’URSS nel 1990, in parlamento i suoi sostenitori sono stati sopraffatti dai nazionalisti e dai liberali che preferivano la terapia d’urto. Così, già nel 1990, la Repubblica socialista federale russa della Russia è guidata da Boris Eltsin, la cui autorità è in aperta competizione con quella del leader sovietico. La tensione tra i riformatori liberali guidati da Eltsin e i conservatori sovietici sostenuti dall’esercito viene gradualmente esacerbata sulla scena politica. Culmina a terra e con le armi in mano nel tentativo di colpo di stato militare del 20 agosto 1991. Sostenuto dal presidente degli Stati Uniti, il presidente russo Eltsin si impone, eclissando il riformatore comunista e sospendendo il Partito comunista nel novembre 1991. La scacchiera politica russa, il movimento di decomunistizzazione iniziato timidamente nel 1989 termina, pochi mesi dopo, alla fine dell’URSS.

Nelle Repubbliche Federate, il 1989 vede le forze centrifughe risvegliate dal  glasnost  . Le aspirazioni all’indipendenza si manifestano in una forma che segna l’Europa. Negli Stati baltici (Estonia, Lettonia e Lituania), le manifestazioni iniziate nel 1987 hanno avviato il processo di decomunistizzazione e di indipendenza nazionale. Questi movimenti pacifisti culminarono il 23 agosto 1989 formando una vasta catena umana, la Via Baltica, che univa le tre capitali (Tallin, Riga, Vilnius)oltre 500 chilometri. Questo è l’atto fondante di un processo di indipendenza per la Lituania (11 marzo 1990), l’Estonia (30 marzo 1990) e la Lettonia (4 maggio 1990). Durante il periodo dal 1989 al 1991, in questa parte dell’URSS, gli scontri armati sono strettamente evitati, ma le tensioni economiche e politiche sono più alte, specialmente in Lituania dove il blocco economico sovietico è rigoroso.

Il movimento di secessione degli Stati baltici lancia una spirale centrifuga che culmina con lo scioglimento dell’Unione Sovietica l’8 dicembre 1991. Nel Caucaso, l’Armenia diventa indipendente (23 agosto 1990), come la Georgia (9 aprile 1991) e Azerbaigian (18 ottobre 1991). L’Ucraina e le repubbliche dell’Asia centrale lasciano l’Unione tra il 1990 e il 1991. Che si tratti della strategia risoluta della Russia contro i costi dell’eccessiva estensione imperiale o dell’abbandono forzato, la Russia si sta liberando da queste periferie imperiali e sta permettendo a questi stati di allontanarsi dalla sua sovranità secolare. La fine dell’URSS, avviata dai movimenti del Baltico nel 1989, fu consacrata dalle dimissioni di Mikhail Gorbachev dalla sua posizione di Presidente dell’Unione Sovietica il 25 dicembre 1991 … che non esiste da due settimane (8 Dicembre 1991). È il Commonwealth of Independent States (CIS) che sostituisce l’Unione con una confederazione con legami istituzionali piuttosto ampi. La Repubblica, poi Federazione Russa, perde il posto centrale che occupava nel sistema istituzionale dell’URSS.

In sintesi, come visto da Mosca, in termini di politica interna, il 1989 è l’anno cardine di una rivoluzione al tempo stesso politica, territoriale ed economica. Lungi dal salvare il regime comunista adattandolo, il ”  glasnost” e l’introduzione di una dose di democrazia nelle istituzioni sovietiche hanno accelerato la caduta del PCUS. Allo stesso modo, la rinuncia alla violenza armata contro i movimenti centrifughi nel 1989 ha accelerato il processo di decomposizione.

III. Dal 1989 al 1999: dal declino al revanchismo russo

Se si considera l’immediato futuro della Russia, il 1989 apre un doloroso decennio che termina nel 1999 con l’ascesa di Vladimir Putin alla carica di presidente ad interim, eletto poi l’anno successivo.

Sul fronte economico, il fallimento delle “riforme” del periodo 1987-1989 porta a un’era di brutale liberalizzazione chiamata “terapia d’urto” in cui l’inflazione arriva fino al 1000% all’anno, dove esplode la disoccupazione e dove molte industrie statali scompaiono. Le disuguaglianze esplodono e lo stato sociale viene smantellato privando gran parte della popolazione russa dell’accesso all’assistenza sanitaria, all’istruzione, alle pensioni o all’energia. D’altra parte, alcune considerevoli fortune private sono costituite in pochi mesi dagli oligarchi che acquistano a prezzi economici i fiori all’occhiello dell’economia diretta nella metallurgia, negli idrocarburi e persino negli armamenti. Il crollo economico e il saccheggio delle risorse culminarono nel 1998 quando la Russia fu colpita da una violenta crisi economica.

Nella sfera domestica, la contrazione del PIL e il crollo delle finanze pubbliche russe stanno danneggiando le forze armate: le basi militari sono chiuse a decine e gli ordini industriali cessano. Unito all’ondata di indipendenza nazionale, l’indebolimento delle forze armate apre la strada a movimenti separatisti all’interno della stessa Federazione Russa. Pertanto, la prima guerra cecena, dal 1993 al 1996, ha visto la Nuova Russia reprimere in un bagno di sangue i movimenti di indipendenza spesso supportati da reti islamiste. Ciò che è in gioco allora è, per la Russia, la capacità di fermare il suo decadimento territoriale. La Russia degli anni ’90, nata dagli shock del 1998, coltiva la scomparsa politica.

In termini di geopolitica regionale, il 1989 si sta preparando per la perdita del vicino straniero. L’estensione della NATO alle porte della Federazione Russa è possibile solo perché la rete di alleanze sovietiche è stata rovinata nel 1989. In effetti, per la più giovane Federazione Russa nata nel 1991, il decennio 1989-1999 è il declino. Il 1999 ha segnato un grave rovesciamento militare nel continente: la Polonia, la Repubblica Ceca e l’Ungheria hanno aderito all’Alleanza atlantica, seguite nel 2004 da molti altri stati precedentemente parte del Patto di Varsavia, tra cui tre ex Repubbliche socialiste sovietiche (Estonia, Lettonia, Lituania). Visto da Mosca, questo movimento è una battuta d’arresto strategica di significato storico. In effetti, l’Occidente è ai confini dello spazio russo. È in questo decennio e grazie alle rivoluzioni colorate in Georgia (rivoluzione delle rose nel 2003) in Ucraina (rivoluzione arancione nel 2004), che la Russia riattiva la diffidenza verso i propri interlocutori.

Ma il 1989 finì davvero nel 1999, quando Vladimir Putin mise gradualmente in atto sia il suo regime che gli elementi di un relativo rinascimento per la Russia. Il decennio 1989-1999 è il periodo fondativo per comprendere la Russia di oggi. Per concedere agibilità agli oligarchi, li subordina come clienti o li fa condannare, come nel caso di Khodorkovsky. Per porre rimedio all’espansione della NATO, sta lottando contro l’adesione di Ucraina e Georgia e contro lo spiegamento di batterie antimissile sul suolo europeo. Ultimo ma non meno importante, per alleviare la debolezza militare della Russia, nel 2009 ha lanciato un vasto piano di modernizzazione, crescita e riforma delle forze armate. La forza politica e geopolitica della Russia nel 2019 è direttamente radicata nel lungo trauma del decennio 1989-1999. In breve, Vladimir Putin si pone come uno che rimedia agli anni fatali 1989-1991.

*

1989, anno fondamentale per la Russia (anche)

Per la comunità europea, il 1989 è un anno altamente simbolico con una connotazione positiva. Questa data è sinonimo di margini di rilascio a Budapest, Varsavia o Bucarest . Le sovranità nazionali, indebolite dal XIX e XX secolo, sono state recuperate. A Parigi e Bonn, poi a Berlino, nel 1989 inizia l’incontro dell’Europa attorno al progetto portato avanti dalla Comunità e poi dall’Unione Europea . Dopo i conflitti dell’inizio del secolo e la divisione della guerra fredda, il 1989 annuncia la speranza di un periodo di convergenza e pace.

Vista di Mosca, 1989 ha uno status più ambiguo. L’anno ha una chiara carica negativa, soprattutto nelle attuali rappresentazioni collettive: all’esterno, segna il fallimento della strategia sovietica di barriere difensive in ​​Europa; all’interno, fa precipitare la fine del regime comunista e prepara il caos politico ed economico degli anni 1990. Ecco perché il 1989, associato al 1991, è, nel discorso del presidente Putin, un annus horibilis per la Russia. Tuttavia, il 1989 apre un decennio decisivo per la Russia contemporanea. Fu dal 1989 che la Russia di Putin iniziò a mettere radici: la creazione di un’oligarchia mafiosa, i fallimenti contro gli Stati Uniti, ecc. tutti questi fattori contribuiscono all’avvento di un regime centralizzato, forte e seduto su una potenza militare. Così, la Russia di oggi ha le sue origini nel 1989 e nel 1991 quanto nel 1999, l’anno del l’ascesa al potere dell’attuale presidente russo .

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Superiorità miserevoli, di Fabio Falchi

Molte persone hanno notevole difficoltà a comprendere che i frutti velenosi sono appunto solo dei frutti , ossia che una certa pianta non può che produrre dei frutti velenosi. Il caso di Bibbiano non fa eccezione. Benché sia più che comprensibile che si voglia fare chiarezza su questa vicenda, impegnarsi in questo senso servirà a ben poco se non si capisce che il “sistema Bibbiano” (definiamolo così) e altri simili – come il “sistema Forteto” – non nascono per caso. Non si tratta cioè di semplici “aberrazioni” di un organismo sociale sostanzialmente sano, bensì di manifestazioni di un organismo sociale malato.
In particolare, sotto questo aspetto, è illuminante il “caso Epstein” (e molti altri esempi si potrebbero fare).
Eppure anche il “caso Epstein” non dovrebbe sorprendere. Certo, difficilmente può meravigliare chi, ad esempio, ha letto “Men di Zero” o “American Psycho” di Bret Easton Ellis.
Difatti, anche se ormai il romanzo raramente può essere in grado di farci comprendere il nostro essere-nel-mondo (dacché la forma romanzo nel mondo moderno è legata a doppio filo con l’ascesa e il declino della borghesia, e oggi quella che si definisce borghesia in realtà è postborghesia, ossia la classe sociale dominante – a sua volta divisa in varie sottoclassi – della postmodernità), non si deve generalizzare.
In questo senso, i due romanzi sopraccitati di Ellis sono davvero significativi.
Certo, Ellis non disdegna nemmeno di criticare duramente e apertamente l’industria culturale e in specie il mondo dei media ovverosia il mondo liberal/neoliberal (in pratica, la “sinistra”), che egli accusa di diffondere una ideologia totalitaria che include chiunque tranne chi “fa domande”, chi non “si adegua” ossia chi non è liberal/neoliberale. Si tratta di un ottuso e pernicioso conformismo culturale, politico e morale che si presenta con la veste di una assoluta superiorità morale e che uccide l’arte, l’intelligenza critica e creatrice. Così chi non è liberal/neoliberale è subito accusato di essere un “hater” o un “barbaro” che tutt’al più si può cercare di “salvare” ma a cui si deve togliere “diritto di parola”, ovviamente per il bene dell’umanità (peraltro, Ellis, che pure è omosessuale, non esita nemmeno a parlare di fascismo gay, soprattutto a causa dei cosiddetti “movimenti Lgbtq”).
Più che la sua critica del mondo liberal/neoliberale sono però i personaggi dei suoi romanzi che rivelano alcuni tratti distintivi della attuale società postborghese (che da un lato è figlia di quella borghese, dall’altro ne è, per così dire, l’“immagine speculare”). Difatti, anche Epstein poteva benissimo essere un personaggio di un romanzo di Ellis. Epstein cioè non è un “mostro”, ma il “frutto naturale” della società postborghese. La sua vera colpa è stata quella di esseri spinto “troppo avanti” e di essersi fatto “scoprire”. Non tutto si può rivelare, almeno per ora.
Ma al di là di quel che può pensare Ellis e dei suoi stessi romanzi, si dovrebbe tener presente che se il borghese era sessuofobo, morigerato, tutto lavoro e famiglia, per il postborghese sono proprio i vizi privati del borghese che devono diventare “pubbliche virtù” (benché questa trasformazione – come prova lo stesso “caso Epstein” – richieda del tempo per realizzarsi compiutamente).
L’ arroganza, l’intolleranza, la prepotenza, la miseria esistenziale e in definitiva anche culturale e intellettuale del postborghese, sono allora “mascherate” da una ideologia che rappresenta il postborghese come antropologicamente superiore sotto tutti punti vista, di modo che la stessa illimitata bramosia di possesso e potere che caratterizza la classe sociale cui egli appartiene sia “percepita” dalle masse come ciò che favorisce il progresso dell’umanità ovverosia un imprescindibile fattore di civilizzazione cui solo un “barbaro” può opporsi.
Il nuovo Tribunale dell’Inquisizione può e deve dunque operare per punire i “peccatori” e far trionfare il “bene” nel mondo.

https://www.ilfoglio.it/cultura/2019/09/16/news/il-totalitarismo-dei-buoni-274224/?fbclid=IwAR2Oi69crbVQPC9foRCxQbP5LOcrq6ukxogkUj2lo0Zxl9fqsjNxyY67HAE

IL RE È NUDO E IL PRINCIPE IN MUTANDE, di Antonio de Martini

IL RE È NUDO E IL PRINCIPE IN MUTANDE

Tra ieri e oggi mi sono divertito a leggere qua e là i commenti dei « geopolitici » che spuntano come funghi dopo la pioggia.

Cercano di scrutare nella breve dichiarazione di Mike Pompeo come gli auruspici nelle viscere degli animali sacrificati.

E, conseguentemente, segnalano merda.

1) prima cacca:lasciano intendere che gli Houti siano poco più che una milizia filo iraniana e sciita.

FALSO: sono una tribù che vive da almeno un secolo alla frontiera Saudita. Hanno un credo religioso a metà strada tra i sunniti e gli sciiti.

Si sono ribellati periodicamente fino a che furono sottomessi da Salah, il Presidente che gli USA vollero cacciare dopo un trentennio di regno, in nome della democrazia.

Accettò, gravemente ferito, di farsi curare negli USA lasciando però la presidenza al suo vice e le FFAA al cognato.

Tornato, trovo il vice che non voleva tornare nell’ombra e il cognato defenestrato e in rivolta.

Si rivolse agli Houti che aveva sottomesso e li aiutò a debellare il regime. È morto un paio di anni fa in combattimento. Aveva un grande carisma ed era un guerriero nato.

Il suo vice il pallido HADI è oggi rifugiato in Arabia Saudita in regime di semilibertà dorata.

Mohammed ben Salman – il principe assassino saudita- da neo ministro della Difesa dichiarò guerra allo Yemen ( senza interpellare il Crownprince o gli Esteri) credendo di liquidare gli Houti in una blitz krieg e conquistare lo Yemen.

Fu ripetutamente e sonoramente battuto, ma raggiunse l’obbiettivo di fare amicizia con i lobbisti americani degli armamenti cui assegnò cospicue quanto inutili commesse. Si avvicinò al potere scalzando il cugino ministro dell’interno, ma la guerra non si concluse.

Ora ha il potere saudita ma non riesce a vincere la guerra benché abbia coinvolto gli Emirati della UAE ( specie Abu Dahbi) che volevano partecipare al bottino, per non lasciare Aden ai sauditi, ma non a una guerriglia logorante.

Il capo degli Houti , mi spiace non ricordarne il nome, si è rivelato un vero guerriero della tempra di Salah: affronta gli avversari compensando gli svantaggi tecnologici con la sorpresa e la motivazione dei suoi.

Ha trasformato la deportazione ( subita da Salah) dei suoi in nuove basi di attacco, ha trovato i mezzi per le armi e sembra che abbia imparato a miniaturizzare i congegni di guida dei vettori inserendo il GPS russo che non ha zone illeggibili.

Dopo due attacchi di prova ( a Maggio e a Agosto) ha colpito la provincia orientale governata da un fratello del Crownprince col duplice scopo di fargli fare una figura barbina e avvertire la famiglia reale che se vuole continuare a vendere la loro mercanzia devono lasciare lo Yemen, paese di guerrieri.

2) seconda cacca: gli USA, non hanno ancora interiorizzato la lezione dell’attacco alle due torri. Gli arabi , come noi italiani del resto, sono cattivi organizzatori militari e combattenti temerari e audacissimi.
Gli USA cercano di spiegarsi l’evento attribuendolo ( con cautela) agli iraniani e i “ geopolitici” de noantri assecondano gli israeliani con la storiella della base di lancio vicina a Bagdad.

La realtà, molto più semplice, è che se gli Houti possono trasferirsi nel cuore dell’Irak, a maggior ragione possono farlo nel cuore dell’Arabia Saudita. C’è anche meno strada.

Certo, bisognerebbe ammettere che oltre a non avere il controllo dei cieli e del mare, il grande principe saudita ( e il suo potente alleato) non ha nemmeno il controllo del territorio, specie da quando ha fatto ammazzate due suoi fratelli-cugini pretendenti al trono. La vendetta è un obbligo d’onore.

Terza cacca. Per non offendere l’alleato nessun occidentale fa notare l’estrema cautela dei vertici americani.

I militari tacciono non sanno come spiegare il fatto che non hanno controllato le coste yemenite bloccando il contrabbando; non hanno controllato i cieli sauditi ( solcati da dieci droni o missili , fa lo stesso ) e non hanno controllato le vie di terra giudicandole impossibili per via del clima da attraversare. Trilioni al vento.

Non sanno ( gli analisti)che mio padre nel ‘35 andò proprio lì a reclutare 400 guerrieri per attraversare il deserto dancalo ( il più caldo al mondo + 65 all’ombra) per prendere alle spalle l’esercito del Negus schierato col fianco sul lago Ashanghi.

Per essere arruolati a piena paga dovevano fare cinque centri consecutivi a 200 metri col 91 su un fiaschetta di Chianti da mezzo litro, col collo interrato.

I politici , anche Trump, hanno lasciato parlare solo Pompeo e lui non ha detto praticamente nulla.

Ben Salman, cui Trump ha demandato un “ assessment”, si sta chiedendo di quanto si è avvicinato alla fine.

Putin, ha imparato il marketing: ha detto che con il sistema antiaereo S400 non sarebbe successo.

La borsa petrolifera invece ha detto che è un buon affare (+20% in un giorno per il greggio USA e il Brent che non c’entrano affatto).

Ricordate l’aeroplano che atterrò sulla piazza Rossa a Mosca quasi preannunziando la fine dell’URSS?
Il parallelo giusto è questo. Il re è nudo e il principe assassino è in mutande.

TORNA LA COMPAGNIA DELLE INDIE?

È bastato che Donald Trump lasciasse intravvedere la possibilità di incontrare il premier iraniano Rouhani la prossima settimana all’Assemblea delle Nazioni Unite a New York, perché “entità sconosciute” promuovessero un attacco distruttivo alla più grande zona petrolifera del mondo.

Per attutirne gli effetti, persino il Pentagono sta suggerendo “risposte caute” e “ soluzioni pacifiche”.

Il nuovo consigliere per la sicurezza nazionale è stato scelto tra i “ negoziatori” e non tra i geopolitici o i militari.
Rouhani non ha aperto bocca. I sauditi tacciono.
Gli Stati nazionali sono stati colti alla sprovvista.

Una ultima disperata resistenza di chi non ama l’idea di un incontro-dialogo è stata organizzata attorno alla concessione o meno del visto di ingresso negli USA al premier Rouhani e dall’annunzio che la Marina Saudita si unisce agli USA nel pattugliamento a protezione delle rotte del petrolio. Non ha protetto casa sua, ma vuole pattugliare il quartiere…

Mano a mano che il tempo passa, si delineano schieramenti non tanto nazionali ma tra entità interessate all’apertura di negoziati distensivi e altre interessate a mantenere lo stato di tensione, le sanzioni escludenti e il prezzo del greggio elevati.

Queste entità trascendono i confini nazionali e li attraversano longitudinalmente, continuano l’opera di criminalizzazione di ogni altro tipo di combustibile: carbone, legno ( amazzonia), nucleare.

Costoro, coperti anche da ruoli pubblici, creano intralci politici, logistici ed etici ad alcuni paesi produttori con grandi riserve petrolifere ( Venezuela, Iran, Russia) per tenerli fuori dai mercati e mantenere livelli di prezzi di mercato remunerativi per l’estrazione del petrolio di scisti.

Altri paesi potenzialmente ricchi in petrolio ( Egitto, Sudan) vengono ricattati con la minaccia di assetarli bloccando a monte il Nilo per riempire faraonici bacini di dighe e centrali idroelettriche in paesi ( Etiopia) dove non esiste alcunarete di distribuzione energetica e per crearla serviranno decenni e decenni.

Senza nuove urgenti e cogenti leggi di diritto internazionale che escludano eserciti privati, milizie paramilitari e proxy wars ci troveremo a fare guerre provocate e/o dichiarate ufficialmente da consigli di amministrazione e stati acquistati o conquistati da società per azioni.

WRESTLING, di Pierluigi Fagan

WRESTLING. “Forma di spettacolo nel quale si combina l’esibizione atletica, con quella teatrale, la cui origine risiede nelle esibizioni di compagnie itineranti in fiere di paese” così Wikipedia. Il wrestling venne creato in quanto cosa a sé da un americano dell’Iowa. Esso è quindi una forma tipicamente americana in cui convergono: 1) “spettacolo” che fa pubblico ed audience quindi occasione commerciale di profitto; 2) “violenza” quindi sfogo dell’istinto alla competizione; 3) “simulazione” quindi trasferimento della violenza ad un piano in cui la forma (violenta) si dissocia dalla sostanza (effetti del subire vera violenza); 4) “convenzione” in quanto i wrestler condividono una codice teatrale conosciuto solo a loro che li fa attori di una compagnia di giro che fa spettacolo rivolto al pubblico in cui si simula la violenza depurandola dagli effetti materiali, spettacolo che per loro significa lavoro, soldi, prestigio e fan.

L’americanizzazione della cultura occidentale ha ormai decenni di penetrazione e sebbene da alcuni criticata con le affilate armi dell’intelligenza vigile, viene il dubbio abbia colonizzato anche la stessa intelligenza vigile. Un po’ come in quei film dei morti viventi in cui il protagonista che è ancora vivo-naturale e col quale ci identifichiamo, scappa di qui e di lì finendo a volte in trappole di relazioni con personaggi che “sembrano vivi” ma poi si rivelano anche loro ormai passati dall’altra parte.

Il trasferimento della politica a wrestling è la cifra più pericolosa dell’americanizzazione culturale che subiamo da decenni. Nessuno ormai pensa alla politica avendo come obiettivo i componenti della polis (città-Stato) cioè i polites (cittadini), chi “fa” politica pensa di default a come diventare rappresentante dei cittadini. Tutto il discorso pubblico è orientato ai politici che critichiamo o appoggiamo, ai loro partiti, chi non trova soddisfazione nell’”offerta politica”, ne crea una nuova, cioè fonda un partito. Ognuno è posseduto dal richiamo del dover dare “voce al popolo”, il suo popolo, la sua porzione di popolo, la sua interpretazione personale della parte di un popolo, da cui fondare “partiti”, cioè istituzionalizzazione di forme particolari di rappresentanza. Il popolo è “dato”, un dato immodificabile, rimane solo da dargli “voce”. Ma il vero richiamo del wrestler politico è esser “eletto”, diventare un eletto, il partito è solo il mezzo.

E’ un po’ come nell’economia di mercato, si fa una indagine di mercato, si scopre che c’è un buco nella domanda ovvero gente che domanda confusamente cose del tipo “Ambrogio … avverto un certo languorino … la mia non è proprio fame, è più voglia di qualcosa … di buono” con misto di speranze contraddittorie tipo “goloso ma che non fa ingrassare”. Si fa allora un Rocher con carta stagnola luccicante che promette di tappare il buco. Per questa soluzione tappabuchi, in politica, non si chiedono soldi ma voti. I voti poi fanno eleggere il rappresentante del popolo che va a fare il wrestler in nome e per conto del suo pubblico-cliente.

La pubblicità dei Rocher politici spazia dalla promessa di più sicurezza, più lavoro, più ricchezza, più modernità, più sovranità, più libertà e molto altro, oppure la promessa di contro, contro il liberismo, contro l‘unione europea, contro i migranti, contro i pedofili, contro i populisti o altro. Si noti l’asimmetria logica: “più” nel positivo, “contro” nel negativo, non “meno” che non scalda gli animi, “contro!”. Se poi ‘oggetto dopo il contro è macroscopico come “il capitalismo” meglio ancora, in fondo mica si tratta di fare i conti con la realtà, è una sorta di sondaggio d’opinione quello che si fa alle elezioni.

I temi su cui si offrono i più o i contro , sono quelli del discorso pubblico, una agenda di solito istituita dal potere in atto, il quale decide e nomina non solo i “suoi” temi ma anche quelli avversari. Chi sceglie il fronte contro il potere prende il termine negativo imposto dal potere e lo rivernicia di positivo, fatica immane e qualche volta anche energia mal riposta poiché nominare è creare enti e se l’ente è creato in un certo modo lo spazio politico che tenta di ribaltarne il giudizio (da negativo a positivo) è pre-determinato proprio da coloro contro i quali si vorrebbe fare lotta politica. Grande parte di quei più o contro sono irrealistici, forme dicotomiche del pensiero semplificato che sussume cose complicate in un termine-concetto in cui le porzioni di popolo si identificano come le contrade fanno col loro totem odiando il totem avversario.

Si tifa il proprio wrestler che fa finta di prender a cazzotti il wrestler del proprio odiato vicino invece che prender direttamente a cazzotti il proprio vicino. L’importante è che i “cittadini” non facciano direttamente politica tra loro, facciano gli spettatori, senza spettatori paganti viene giù tutto. Vale per i giovani filosofi non meno che per gli imbroglioni seriali.

L’estrema ambiguità del tutto crea questo spettacolo che nulla a che fare con la politica, dove il mercato è fatto di “valori”, i totem sono tanto squillanti quanto irrealistici, i wrestler gareggiano urlando ma mai facendosi davvero male, sperando di finire in qualche assemblea pubblica in forma stabile che gli procurerà fama, successo, soldi e porzioni di potere. Quando poi falliranno, e falliscono tutti -sistematicamente poiché i presupposti tra promessa e realtà sono in genere infondati- avanti una nuova linea di aspiranti “diamo voce al popolo!”.

Il post non conclude, era solo per sfogare amarezza personale. Non ne posso più di veder fondare partiti oltretutto soprastanti un dibattito politico pubblico che sta raggiungendo vette di confusione, indeterminazione, falsa coscienza, irrealismo, presa per il culo sistematica, ormai su una tangente che punta all’infinto ed oltre. E non vale solo per i wrestler, vale anche per coloro che fanno da pubblico perché sono loro, siamo noi a tener in piedi lo spettacolo.

tratto da facebook

LA MATASSA, di Antonio de Martini

LA MATASSA

L’Arabia Saudita si trova tra due fuochi da lei provocati: a sud la guerra con lo Yemen e a nord il conflitto siriano.

Gli Stati Uniti si trovano anch’essi tra due fuochi possibili: da una parte il conflitto in Irak con l’ISIS ( per combattere il quale hanno equipaggiato e autorizzato le milizie sciite) e dall’altra dovrebbero combattere e disarmare le stesse milizie sciite che secondo le accuse israeliane sono la base dell’attacco agli impianti petroliferi.

Entrambi i paesi stanno concertandosi oggi a Gedda circa il da farsi che consisterebbe nel decidere atti di guerra contro l’Iran, il quale nega tutto.

Gli Stati Uniti promettono di esibire alle Nazioni Unite le “ prove” che l’intelligence sta approntando, sempre che si trovi un Presidente USA disponibile a ripetere la scena di Colin Powell sulle armi di distruzione di massa irachene per avere il sostegno degli alleati.

Ne dubito.

Al massimo lo farà il fido Pompeo e tornerà con le pive nel sacco.

Il senato USA, anche repubblicani, dice che bisogna accertarsi che l’alleato saudita “ abbia tutte le armi necessarie” alla sua difesa . Escludono attacchi diretti di qualsiasi genere.
Alla peggio vorranno fare una Proxy war, ma ne stanno già facendo due….

La proxy war è una forma di lotta affidata nascostamente a terzi mirante a guerreggiare contro un paese terzo senza che appaia il mandante per non violare in forma sfacciata il principio di non ingerenza negli affari interni altrui fissato da Metternich nel Congresso di Vienna( 1815) .

Di fatto è impossibile trovare prove di una proxy war.

I dati di fatto sono che l’AS ha speso quest’anno 82,6 miliardi di dollari in armamenti e l’Iran 13,2.
Gli abitanti dichiarato dai sauditi sono 20 milioni e dagli iraniani 70.

L’Iran è stato oggetto di sanzioni da parte americana e gli europei stanno lavorando per farle togliere o attenuarne gli effetti.

Non credo vi siano dubbi su chi sia l’attaccante strategico, ne sulla fine che farebbero Riad e Tel Aviv in caso di scontro aperto.

Le conclusioni del vertice tra Mohammed ben Salman e Mike Pompeo dunque sono scontate.

La risposta di aumento delle sanzioni, inasprirebbe la situazione a danno degli interessi degli Stati Uniti, ma sarebbe ben vista dai sauditi.

Una decisione di intensificare qualche forma di proxy war sarebbe ben vista dagli americani ma danneggerebbe i sauditi destinati inevitabilmente a sostenere la reazione.

Una reazione nei confronti delle milizie sciite irachene ( incolpevoli) provocherebbe una nuova guerra in Irak e smentirebbe tre decenni di scelte politiche USA, dato che furono loro a dare il potere agli sciiti ed armarne le milizie.
Si passerebbe dalla tragedia alla farsa.

Parimenti impensabile è una rappresaglia contro gli Houti, dato che lo Yemen è stato da mesi dichiarato “ emergenza umanitaria” dalle Nazioni Unite e una serie di ben tre delibere senatoriali che proibivano di fornire armi e assistenza ai sauditi in guerra sono state fermate da un veto presidenziale.
Il quarto sarebbe di troppo.

Un’azione contro Hezbollah in Libano verrebbe vista come un diversivo e scatenerebbe una reazione contro Israele in un momento politico delicatissimo e alla vigilia della comunicazione del piano di pace coi palestinesi.

Le sole soluzioni sono un “ coup de teatre” di Trump alle Nazioni Unite con Rouhani ( che però agli occhi di molti potrebbe sembrare una sconfitta) o far fuori ( sei mesi) Mohammed ben Salman e dare tutte le colpe a lui.
Voi cosa scegliereste ?

IL FUTILE PARAVENTO DELLA “PIATTAFORMA ROUSSEAU” OVVERO DELL’ETERNO RITORNO DELL’UGUALE, di Emilio Ricciardi

IL FUTILE PARAVENTO DELLA “PIATTAFORMA ROUSSEAU” OVVERO DELL’ETERNO RITORNO DELL’UGUALE.

A seguito del suo intervento del 6 settembre 2019 (d’ora innanzi “Intervento”) intitolato “Colpo di extrastato”, in cui Massimo Morigi attribuisce a questo sintagma dignità di categoria teorica atta a cogliere la presunta epocale novità rappresentata dal voto elettronico espresso mediante la Piattaforma Rousseau dagli iscritti (a ciò legittimati) del Movimento 5 Stelle in relazione alla recente formazione dell’attuale governo, lo stesso autore è tornato sulla questione una prima volta il 9 settembre 2019 per approntare una replica (d’ora in poi “Replica”) ad un mio commento (in appresso “Commento”) al suo Intervento e, ancora, il 14 settembre 2019, per operare ulteriori annotazioni, che tuttavia non aggiungono alcunché di sostanziale alla completa esposizione della propria tesi, difatti già compiuta nei suoi primi due testi.

Quindi, seppure non vada trascurato di soffermarsi sui passaggi pertinenti dell’ultimo dei tre testi citati, è prevalentemente sui primi due, ma con attenzione ancor maggiore sulla Replica (di cui ringrazio Morigi per il tempo e la cura ad essa dedicati), che conviene incentrare le presenti mie considerazioni. Anticipo comunque sin d’ora che la Replica (ed a maggior ragione anche l’ultimo scritto) non è stata in grado di convincermi sull’asserita utilità e consistenza concettuale della categoria di “colpo di extrastato”. E ciò per i seguenti motivi.

0. Occorre prendere le mosse dalla constatazione secondo cui Morigi finisce per darmi ragione quando nella Replica afferma che “Il vero punto è […] non tanto la più o meno esibita trasparenza dei partiti” giacché, aggiunge, “se i partiti fossero trasparenti svanirebbero come la neve al sole dalla notte al mattino”.

Difatti, il nucleo fondamentale della critica all’Intervento espressa nel mio Commento era così compendiato: “nell’economia del testo di Morigi, il riferimento alla scarsa trasparenza di procedura ed esito del sondaggio svolto sulla piattaforma telematica dei 5 stelle, appa[re] tutto sommato superfluo, come del resto in buona sostanza sottolineato dallo stesso suo autore. Anche perché, se si continua a rimarcare la scarsa trasparenza di questa operazione, dolendosene, si corre il rischio di accreditare implicitamente l’idea secondo cui finora i processi decisionali interni ai partiti politici (che, è bene ricordarlo, sono semplici associazioni private non riconosciute) si siano svolti all’insegna delle più luminose democrazia ed, appunto, trasparenza. Il che sarebbe, com’è ovvio, balla colossale oltreché offensiva dell’intelligenza quanto meno del lettore abituale di queste pagine”.

Sulla mancanza di “trasparenza” quale fattore ampiamente noto e preesistente nelle teoria e prassi politiche (italiane e straniere, passate ed attuali), dunque, nulla quaestio[1].

  1. La dimensione fortemente problematica della concezione di Morigi, piuttosto, comincia a far esplicitamente capolino nella Replica allorché in questa si soggiunge: “Il vero punto è, come rileva anche Ricciardi ma come stranamente Ricciardi sembra non attribuirmi una piena consapevolezza in merito, […] che questi partiti, un tempo tanto importanti e la cui esistenza veniva espressamente citata anche in Costituzione, oggi non sono più lo snodo principale del conflitto strategico che si svolge all’interno delle élite politiche nazionali impegnate nella lotta per la conquista del potere”.

Senonché, basta leggere il mio Commento per avvedersi che nemmeno mi pongo il quesito in merito alla piena consapevolezza o meno di Morigi circa la pretesa novità rappresentata dalla sopraggiunta perdita d’importanza dei partiti politici.

E non me lo pongo perché già Morigi nel suo Intervento aveva in buona sostanza negato che questa fosse una novità, sostenendo ciò che ha poi confermato nella Replica (come segnalato sopra al paragrafo 0), ossia che “il punto importante per dare corpo alla categoria ‘colpo di extrastato’ non è tanto il fatto che la piattaforma Rousseau è tutto tranne che trasparente (in passato la <democrazia> dei partiti era nascostamente pesantemente guidata, quando questa etero direzione non era addirittura teorizzata, vedi centralismo democratico del vecchio PCI; e le lobby che da sempre manovrano le decisioni dei parlamenti delle moderne democrazie sono forse il fenomeno più studiato dall’attuale scienza politica, fino ad arrivare alla <postdemocrazia> teorizzata da Colin Crouch)”.

È indubbio, difatti, che sostenere che “in passato la <democrazia> dei partiti era nascostamente pesantemente guidata” e dunque assoggettata ad una “etero direzione”, equivalga a sostenere che i partiti non sono mai stati, non solo oggi ma anche in passato, “lo snodo principale del conflitto strategico”.

Di conseguenza, perché nel mio Commento avrei dovuto anche solo evocare o lambire la questione del se Morigi fosse pienamente consapevole o meno della sopraggiunta perdita d’importanza dei partiti, quando egli stesso nel suo Intervento ha mostrato di ritenere che pure nel passato i partiti erano etero diretti e che, quindi, nulla, sul punto, è davvero sopraggiunto?[2]

  1. Semmai, rilevo in Morigi una contraddizione (non la prima, per vero, e comunque generatrice di un’impasse che egli ha tentato di eludere in un modo che esaminerò nel successivo intero paragrafo 4) tra, da un lato, il riconoscimento della etero direzione e nulla trasparenza caratterizzanti da sempre i partiti politici e, dall’altro lato, l’asserzione circa la novità costituita dalla totale intrinseca mancanza di trasparenza nel Movimento 5 Stelle.

Peraltro, mentre tale asserzione è contenuta, per lo meno esplicitamente (spiegherò i motivi di questa puntualizzazione nel successivo sottoparagrafo 3.1.), nella sola Replica, quel riconoscimento è stato operato sin da subito nell’Intervento (e di poi ribadito nella Replica).

Il fulcro dell’Intervento, in effetti, voleva essere esplicitamente altro rispetto all’opinione inerente la mancanza di trasparenza della piattaforma Rousseau: “il punto fondamentale è un altro, ed è cioè che tutti, dalla pubblica opinione, alle massime cariche istituzionali, per dare vita ad un governo hanno aspettato senza fiatare una esplicita e chiara decisione di un corpo, ma un corpo che non è previsto né in Costituzione né in alcuna prassi politica sviluppatasi sotto il mantello costituzionale”.

Quest’ultima proposizione è poi ripresa, onde ribadirne la correttezza, nel testo del 14 settembre 2019, laddove si ripete essere la Piattaforma Rousseau un corpo politico-decisionale del tutto estraneo e prevalente al testo e alla prassi costituzionali”.

Senonché, una volta riconosciute, come si è visto aver fatto Morigi, la mancanza di trasparenza ed anzi la totale etero direzione caratterizzanti l’azione (anche) dei vecchi partiti politici, deriva necessariamente che anche tale azione si ponga contro ed al di fuori della Costituzione, atteso che l’art. 49 di questa esige il “metodo democratico” di essa azione (laddove mancanza di trasparenza ed etero direzione risultano invece evidentemente incompatibili con detto metodo).

E deriva altresì’ necessariamente che è contraddittorio affermare che un’azione politica di tal fatta si sia sviluppata “sotto il mantello costituzionale”, perché una prassi politica priva di trasparenza ed etero diretta e quindi lesiva del “metodo democratico” dettato dalla Costituzione non può, per definizione, trovare legittimazione (ossia “copertura”, quale ”mantello giuridico”) in questa stessa Costituzione.

Pertanto, se si sostiene che la Piattaforma Rousseau (recte: l’insieme degli iscritti al Movimento 5 Stelle legittimati al voto elettronico mediante utilizzo di questo dispositivo telematico) è “corpo che non è previsto né in Costituzione né in alcuna prassi politica sviluppatasi sotto il mantello costituzionale”, ed insomma “del tutto estraneo e prevalente al testo e alla prassi costituzionali”, allora si deve pure logicamente concludere che anche i vecchi partiti politici partecipano delle medesime caratteristiche che dunque non potrebbero non definirsi eversive.

Ciononostante, in costanza dell’esistenza dei vecchi partiti sia la “pubblica opinione, [sia] le massime cariche istituzionali, per dare vita ad un governo” aspettavano normalmente “senza fiatare una esplicita e chiara decisione” di organi decisionali di partiti che pure, per quanto rilevato, agivano in sostanziale spregio di quel “metodo democratico” prescritto dall’art. 49 della Costituzione.

Di conseguenza, la disamina svolta sino a questo punto delle considerazioni di Morigi sembra consentire di affermare che con la Piattaforma Rousseau non si è attuato alcun “colpo di extrastato”, in quanto asserita nuova forma della prassi politica rispetto a quella invalsa nella precedente fase storica.

Occorre ora, giunti a questo tratto del discorso che si sta conducendo, soffermarsi sull’ultimo argomento addotto da Morigi a favore della propria tesi.

  1. Prima devo tuttavia rendere una spiegazione, che mi consente anche di affrontare alcune affermazioni svolte da Morigi nel già menzionato suo testo del 14 settembre 2019.

In particolare, più sopra ho accennato alla circostanza per cui soltanto nella Replica viene sottolineata e stigmatizzata espressamente la mancanza di trasparenza del processo decisionale elettronico del Movimento 5 Stelle. Mi riferisco, precisamente, al seguente passaggio: “è la prima volta che si riconosce […] come fondamentale e fondante per la decisione politica […] una sorta di accrocchio tecnologico informatico dove la <trasparenza> non è che venga conculcata come nei vecchi partiti classici (ma ricordiamoci l’adagio <l’ipocrisia è il tributo che il vizio paga alla virtù>) ma è un concetto totalmente alieno proprio per il processo tecnologico e verificabile solo da esperti informatici nell’emissione dei suoi responsi”.

Ebbene, a parte il fatto che, sul piano degli effetti, sfugge la reale e sostanziale differenza tra conculcamento della trasparenza nei vecchi partiti politici ed eliminazione di essa già sul piano concettuale a causa dell’applicazione delle tecnologie informatiche al procedimento elettorale interno al partito de quo.

Ma soprattutto, ciò che preme rimarcare è che anche il procedimento elettorale incentrato sulla segretezza del voto cartolare risulta intrinsecamente privo di trasparenza, se per questa si intenda, come devesi e pur semplificando, l’insieme degli accorgimenti che garantiscono la certezza, per i votanti, dell’autenticità del voto espresso e del suo conteggio fino alla pubblicazione dei risultati. Difatti, è difficile negare che, se è vero che l’elettore che esprime un voto segreto conosce il dato (il suo voto) che così è immesso nel meccanismo ed il dato (aggregato) che ne è emesso, ossia il risultato elettorale, non ha invece modo di verificare l’iter che ha compiuto quel dato dal momento della sua immissione fino alla sua confluenza nel dato complessivo, o quantomeno non può avere la certezza di quale sia stato tale iter. Proprio perché nessuno potrà mai dargli la garanzia assoluta, nemmeno assistendo allo scrutinio, che nella fase di quest’ultimo il documento su cui ha apposto il suo voto sia davvero oggetto di conteggio, e di un conteggio corretto.

A ciò si aggiunga la difficile se non impossibile verificabilità della correttezza delle operazioni di conteggio del voto cartolare, e ciò a causa dell’effetto combinato dell’elevato numero di votanti (come sovente accade nelle elezioni politiche nazionali della stragrande maggioranza dei paesi a democrazia rappresentativa) e dell’esistenza di particolari regole costituzionali che devolvono la giurisdizione esclusiva inerente la contestazioni elettorali ai medesimi organi elettivi, con la conseguente assai ridotta capacità operativa di procedere ad un controllo di decine di milioni di schede elettorali in tempi fisiologici e ragionevoli, ossia tali da scongiurare un’eccessivamente prolungata incertezza riguardo la reale legittimazione popolare degli eletti[3].

Insomma, se trasparenza non c’è nel voto elettronico, con la connessa difficoltosa verificabilità della genuinità della relativa procedura, lo stesso deve dirsi per il voto cartaceo.

3.1.   Quest’ultima sottolineatura ben introduce la disamina della seguente affermazione contenuta nel testo di Morigi del 14 settembre 2019, in quanto anch’essa incentrata, come mostrerò più oltre, e sebbene Morigi non lo dichiari in modo esplicito, sul concetto di trasparenza (e con ciò giustifico l’individuazione, dianzi operata, di un legame fra essa affermazione e la critica, già analizzata, alla mancanza di trasparenza della Piattaforma Rousseau svolta nella Replica): una “procedura di voto elettronica, corretta o truffaldina che sia, designa chiaramente una costituzione materiale dello Stato che non ha assolutamente nulla a che fare con la precedente dove la scelta e selezione dei decisori alfa-strategici da parte dei decisori omega-strategici avveniva  – almeno a livello politico –  attraverso una procedura non elettronica ma semplicemente cartacea (con tutti i brogli che questa comportava, ma almeno per quanto riguarda il punto 2 questo è un elemento del tutto secondario)”.

Qui Morigi non motiva espressamente l’implicito favore che sembra accordare al voto cartaceo rispetto a quello elettronico. Ed insomma non si perita di precisare in che modo e perché la procedura elettorale elettronica determinerebbe addirittura uno stravolgimento radicale della costituzione materiale dello Stato rispetto a quella vigente in costanza dell’omologa cartacea. Nondimeno, sembra di poter capire che, secondo Morigi, la presenza di schede elettorali cartacee, pur non eliminando il rischio di brogli elettorali, consentirebbe comunque di verificarne la perpetrazione, ciò che, invece, il voto elettronico non permetterebbe di fare. In altri e più concisi termini: per Morigi sarebbe la trasparenza, sub specie verificabilità di eventuali brogli elettorali, il tratto che differenzia il voto cartaceo da quello elettronico (dunque non trasparente, come quello della Piattaforma Rousseau, secondo quanto asserito, esplicitamente, nella Replica).

Tuttavia, così in thesi argomentando, Morigi trascura che, come illustrato più sopra, anche la procedura elettorale cartacea con voto segreto, soprattutto nella fase dello scrutinio (ma anche in quella della trasmissione centralizzata) dei voti, e quando si attua in paesi con decine di milioni di votanti, non può mai né garantire al votante certezza circa la correttezza delle operazioni né rendere possibile un controllo completo dell’intera procedura medesima, tanto meno in tempi tali da essere compatibili con l’esigenza dell’opinione pubblica di avere risposte celeri in merito all’esistenza o meno di una legittimazione democratica degli eletti.

Certo, nel voto elettronico la verificabilità dei brogli è più difficoltosa di quanto lo sia con il voto cartaceo, ma si tratta di una differenza di ordine quantitativo, ossia attinente al maggior rischio di brogli (perché minore è la possibilità di verificarli) che il primo esibisce, non già di una differenza di ordine qualitativo, idonea cioè, come invece sostiene Morigi, ad incidere addirittura, sfigurandola irreversibilmente, sulla “costituzione materiale dello Stato”.

3.2.   Eppure anche in altro passaggio del suo testo del 14 settembre 2019, Morigi esprime il convincimento che “è del tutto assurdo dire che una costituzione materiale e una forma di Stato che ha avuto la sua nascita in una  passata epoca tecnologica è la stessa costituzione materiale e forma di Stato dei tempi di Internet”, e lo fa in base all’assunto, introdotto immediatamente prima, “che nelle vicende sociali e politiche i cambiamenti ed i mutamenti non appartenenti stricto sensu all’ambito politico e sociale agiscono su quest’ambito non solo additivamente ma anche qualitativamente”.

Senonché, il nesso causale che con tale assunto viene delineato su un piano generale risulta da una petizione di principio, enunciato e non dimostrato, ed allo stesso modo anche il nesso causale specifico, quello in virtù del quale la scoperta ed uso di internet non può non avere determinato un cambiamento della “costituzione materiale e forma di Stato”, risulta meccanico e proclamato in modo apodittico. Al punto da giungersi financo ad una concezione feticistica dell’innovazione tecnologica, quale potenza che plasma e trasforma la struttura e l’essenza dei rapporti poltico e sociali, a loro volta puri elementi passivi, inerti e direi neutri, che subiscono l’azione demonica ed incandescente della prima.

Per contro, non è affatto scontato che un elemento nuovo, nato in un ambito diverso dalle dimensioni politica e sociale in senso stretto, una volta trasmigrato in quest’ultime in virtù dell’uso che di esso elemento è fatto, debba divenire il fattore che trasforma la conformazione essenziale delle predette dimensioni qual era stata sino a quel momento. Insomma, può ammettersi perfettamente l’ipotesi che l’elemento sia immesso nel sistema esterno (a quello della sua genesi) e da esso assorbito senza subire, il sistema recettore, alcuna trasformazione o comunque modificazione rilevante.

  1. Terminata così la digressione resasi però necessaria per discutere le due soprariferite affermazioni contenute nel testo di Morigi del 14 settembre 2019. è possibile finalmente affrontare, come già avevo anticipato, l’ultimo argomento, stavolta svolto nella Replica del 9 settembre 2019.

In particolare, in quest’ultima viene introdotto ex novo un tema che non era stato oggetto del benché minimo accenno, nemmeno implicito, nell’Intervento: l’importanza dell’illusione.

Così al riguardo si afferma: “Ma il vero snodo, lo ripeto, della categoria di <colpo di extrastato>, non è tanto la trasparenza o l’opacità dei processi decisionali è che nella pubblica opinione, nella pubblicistica politica per finire con la scienza politica la caduta da parte di tutti dell’illusione della trasparenza nei processi decisionali non viene segnalata”.

Ebbene, qui si ha l’impressione che Morigi sia stato costretto a ricorrere all’ulteriore argomento basato sull’assunto circa la passata esistenza dell’illusione della trasparenza dell’azione dei partiti politici, al fine di aggirare la difficoltà logica di continuare a sostenere il carattere di novità epocale della Piattaforma Rousseau in quanto enigmatica ed impersonale entità telematica non controllabile se non “da esperti informatici[4], ed allo stesso tempo nondimeno riconoscere che anche nei vecchi partiti politici la trasparenza era completamente assente.

Nella Replica si sostiene, difatti, che non già la mancanza di trasparenza dei e nei partiti politici segna la novità della presente epoca del presunto “colpo di extrastato” rispetto all’epoca precedente, bensì la caduta dell’illusione della trasparenza, in passato invece esistente.

È necessario, quindi, indagare motivi e legittimità dell’asserzione che attribuisce decisiva rilevanza a questa illusione.

4.1.   Al riguardo, nella Replica si indicano due esempi per tentare di dimostrare l’importanza delle illusioni nutrite circa l’esistenza della trasparenza dei processi decisionali dei partiti politici.

Il primo esempio attinge al rapporto tra la Chiesa cattolica e la Democrazia Cristiana, affermandosi che “la Chiesa esplicitamente non ha mai fatto trapelare una esplicita e pubblica decisione a favore di questo o quel governo ma si limitava, in ottemperanza del suo alto magistero religioso e morale, a vietare ai cattolici, pena l’inferno, di votare per quei partiti che erano a suo giudizio l’espressione politica del cancro dell’ateismo e dell’irreligiosità”.

Vero; ma in questo caso non vedo dove e come avrebbe agito l’illusione sull’esistenza della trasparenza nelle decisioni della Democrazia Cristiana, atteso che all’epoca per qualsiasi osservatore ed elettore minimamente attrezzati era chiaro e palese il penetrante condizionamento vero e reale esercitato costantemente dalla Chiesa cattolica sulla prima.

Il secondo esempio riguarda più nello specifico la trasparenza dei partiti ed anche su questo punto il ragionamento fa leva sull’importanza delle false rappresentazioni, o meglio la concreta modalità di come queste possono essere rappresentate. Nei vecchi partiti per arrivare ad un decisione e/o prevalere nello scontro politico venivano messe in atto le più ignobili manovre ma se queste manovre non avevano in concreto nulla di democratico e trasparente avevano un grande pregio. Queste manovre erano condotte da uomini in carne ed ossa e chi avesse voluto vedere un po’ più a fondo avendone la formazione e l’intelligenza riusciva a mettere a fuoco, molto chiaramente e con tanto di nomi e cognomi, i volti di questi manovratori”.

Ma è proprio il contenuto del testé riportato secondo esempio a dirci in maniera inequivocabile come anche in questo caso non siano all’opera “false rappresentazioni” in ordine alla trasparenza. Difatti, posto che era nelle manovre oscure interne ai partiti che si sostanziava la mancanza di democrazia e trasparenza; e posto che, nonostante il carattere nascosto e letteralmente osceno di tali manovre, si “riusciva a mettere a fuoco, molto chiaramente e con tanto di nomi e cognomi, i volti di questi manovratori”; allora ne consegue che era possibile vedere chiaramente la vera realtà delle lotta politica interna ai partiti, senza farsi irretire, appunto, da alcuna illusione.

Peraltro, l’affermazione secondo cui sarebbero state sufficienti volontà e capacità intellettuali per lacerare il velo dell’apparenza ed identificare addirittura gli oscuri “manovratori” delle decisioni dei partiti politici, mi pare pecchi di ottimismo se non di una sorta di onnipotenza del pensiero. Si considerino, difatti, a confutazione e comunque forte ridimensionamento della portata della soprarichiamata affermazione, tutti quegl’importanti e gravi accadimenti della nostra vita politica nazionale i quali, seppure ascritti (in tutto o in parte) alle decisioni manifeste dei partiti politici, non è stato possibile ricondurre ai responsabili ultimi “con tanto di nomi e cognomi”. Laddove, in quei pochi casi in cui ciò si è verificato, lo è stato comunque a distanza di decenni, ed il più delle volte a seguito dell’emersione di circostanze e documenti, avvenuta di rado casualmente, più spesso deliberatamente, in vista del perseguimento, in quest’ultima evenienza, di scopi ulteriori poiché funzionali a nuove strategie, naturalmente ignote alla generalità della popolazione nel momento del loro dipanarsi in atto.

In definitiva, i due esempi riportati nella Replica non mi paiono così calzanti e persuasivi.

4.2.   Però nel contesto dell’esposizione del primo esempio è operato un fugace accenno al ruolo delle illusioni in generale, il quale sembra poter fornire qualche indizio utile per capire la funzione che gioca questo elemento nell’impianto argomentativo di Morigi.

Precisamente, si afferma che “in politica, come nel resto di tutte le altre faccende della vita, le illusioni contano e quando queste cadono non si può far finta di nulla pensando che siccome si trattava di illusioni la loro scomparsa conta meno di nulla e non vale nemmeno la pena di segnalarle e di cercare di elaborare un pensiero non banale a proposito”.

Ora, affermare che “le illusioni contano”, in questo contesto discorsivo, sembra voler significare che le illusioni non sono nulla, e che producono effetti reali. Se questa mia interpretazione è corretta, allora deve dirsi che tali effetti saranno pure reali, ma i pensieri e le azioni inclusi nella cerchia di tali effetti saranno irrimediabilmente inficiati dall’esser derivati da una percezione errata (qual è appunto l’illusione) della realtà vera, e dunque, in definitiva, da erroneità e falsità.

Se poi si traslano queste considerazioni generali nell’ambito del discorso che si stava conducendo, ne viene che l’asserito diffuso convincimento, presente nella precedente epoca storico-politica, circa la trasparenza delle decisioni dei partiti politici era un’illusione e, in quanto tale, un falso convincimento.

Libero, quindi, Morigi, naturalmente, di elaborare “un pensiero non banale” sulla suddetta illusione (e sulla sua presunta caduta). Ma mi permetto di osservare che se il pensiero vuole conoscere la realtà e le determinazioni vere di una presunta nuova era politica e le sue differenze rispetto alla precedente (e non v’è dubbio che Morigi voglia applicarsi alla produzione di un pensiero di tal fatta), non può accontentarsi fermandosi alla considerazione delle false rappresentazioni che sulle corrispondenti epoche storiche si sono formate, assumendole quali dati di realtà di ultima istanza. E non può perché in questo modo non sarebbe in grado di nemmeno tentare di conseguire quello scopo prefissosi (ossia l’acquisizione della conoscenza delle vere determinazioni di una nuova epoca politica).

Di conseguenza, e per tornare specificamente al discorso centrale di questo scritto, può affermarsi ciò: posto che la totale mancanza di trasparenza dei processi decisionali dei partiti politici e dunque la loro etero direzione sono dati caratterizzanti sia la precedente sia l’attuale fase storica, ne discende che l’utilizzo della piattaforma Rousseau non integra alcuna novità inerente i predetti processi, con il corollario per cui il ricorso alla nozione di “colpo di extrastato”, per qualificare tale utilizzo ed evidenziare così tale presunta novità, non pare rivestire utilità teorica. Anzi, ribadisco che, a mio avviso, il convogliamento delle energie intellettuali individuali e collettive nell’elaborazione di tale nozione può essere financo dannoso poiché rischia di distogliere l’attenzione dal tentativo di cogliere le vere configurazioni dei processi politici reali.

  1. Vergo, infine, due ordine di notazioni inerenti il seguente, in parte già riportato, passaggio: “nella pubblica opinione, nella pubblicistica politica per finire con la scienza politica la caduta da parte di tutti dell’illusione della trasparenza nei processi decisionali non viene segnalata e non segnalando la caduta di quest’illusione non si riesce a vedere un fatto di primaria importanza: e cioè che si riconosce piena titolarità politica e decisionale a corpi del tutto inediti ed extracostituzionali”.

Il primo ordine di notazioni si risolve in un unico rilievo di natura logica. In particolare, se si assume essere intervenuta “la caduta da parte di tutti dell’illusione della trasparenza nei processi decisionali”, vuol dire che questi “tutti”, ossia i soggetti portatori di tale illusione, sono consapevoli della caduta di questa, del suo venir meno. Difatti, una volta svanita una determinata illusione, i soggetti di essa si avvedono di ciò che era stata, proprio perché, essa svanendo, non ne sono più irretiti e la possono riconoscere in quanto tale. Di conseguenza, non può porsi un problema di mancata evidenziazione da parte delle “pubblica opinione”, “pubblicistica politica” e “scienza politica” della caduta, del dileguarsi di questa illusione, proprio perché il suo svanire ha segnalato ciò che essa stessa era ai soggetti che ne risultavano avvolti.

Il secondo ordine di notazioni è di natura fattuale. Contrariamente a quanto si sostiene nella Replica, esponenti di quelle istanze e discipline dianzi menzionate, ossia la pubblica opinione nonché la pubblicistica e la scienza politiche, hanno, in occasione della nota recente consultazione telematica, levato dolenti e pensosi ammonimenti di fronte al presunto nuovo ed esiziale pericolo generato dall’asserita inaudita anomalia extracostituzionale della piattaforma Rousseau[5].

D’altronde, questi ammaestramenti vanno ad alimentare una serqua di allarmi rivolti ormai da tempo sullo stesso tema da molte voci della stampa[6]. Cosicché la Piattaforma Rousseau finisce per essere ormai largamente additata, segnalata e riconosciuta all’opinione pubblica come la scatola nera che inghiotte le velleità di democrazia diretta sbandierate dai suoi fautori. È dunque la mancanza di trasparenza che si rivela in modo trasparente. O, riprendendo il titolo di questo scritto, l’innocuo paravento che tenta senza esito di mascherare l’ampiamente consolidata realtà di forze che agiscono dietro le formazioni politiche operanti sulla scena.

Peraltro, gli argomenti adoperati dai menzionati critici della recente votazione elettronica in questione esibiscono tutti quale sfondo comune la salda fede nella democrazia rappresentativa, architrave della legalità costituzionale ed anzi eterna garanzia di trasparenza messa a repentaglio da quell’inedita procedura decisionale telematica.

Ecco, il tenore di tali argomenti, ma anche la biografia pubblica dei personaggi che se ne sono resi fautori, mi pare comprovino ampiamente la fondatezza di quanto da me paventato nel Commento riguardo al rischio (che investe anzitutto il piano culturale e della consapevolezza) generato dalla concentrazione dell’analisi politica sulla ritenuta novità rappresentata dal carattere malefico ed oscuramente extracostituzionale della piattaforma Rousseau: si finisce per accreditare l’idea che questo dispositivo abbia infranto il preesistente paradiso terrestre della trasparente democrazia rappresentativa incentrata armonicamente sui partiti politici in quanto operanti con “metodo democratico”.

Idea falsa e risibile, naturalmente[7].

Ma su ciò Morigi suppongo convenga senza riserve.

 

 

[1]   Semmai sollevo un rilievo, anche se non essenziale e quindi da collocarsi non nel testo ma appunto in questa nota, il quale mira ad evidenziare una perplessità riguardo il “consiglio” di Morigi di non “avventurarsi a cuor leggero in merito alla natura più o meno privata dei partiti, i quali nella nostra Costituzione vengono citati anche se poi riguardo al loro <dover essere> ci si limita ad una vacua retorica democratica che dice tutto e il contrario di tutto”. Difatti, quale che possa essere stato lo spirito con cui nel Commento mi sono accostato (non già avventurato) a siffatto tema, e dunque se con colpevole spensieratezza (come pare ritenere Morigi) oppure con animo gravido di timore e tremore, il dato certo ed incontestabile è che la natura giuridica dei partiti politici nell’ordinamento italiano è, come segnalavo, quella di “semplici associazioni private non riconosciute”. Ed è dato la cui solidità non viene scalfita di un ette dall’accenno ai partiti che opera la Costituzione, rientrando, tale accenno, nel novero delle tanto belle quanto vacue dichiarazioni di principio o programmatiche di cui è infarcita la Carta, secondo quanto, del resto, riconosce lo stesso Morigi. Ma allora poco si comprende la congruenza di uno schema argomentativo che contempla, in un primo momento, a ritenuto sostegno della propria tesi, il richiamo alla rilevanza di un elemento che io avrei omesso di considerare (e cioè il riferimento costituzionale ai partiti politici) e, subito dopo, la radicale squalificazione dell’elemento medesimo. Non è la prima volta, peraltro, che Morigi indulge ad una simile modalità argomentativa di stampo palinodico.

[2]   Tant’è che di questo, del fatto cioè che nell’Intervento la c.d. assenza di trasparenza nei partiti non è presentata in realtà come una novità e quindi non fa problema, ho dato puntualmente atto nel mio Commento: “nell’economia del testo di Morigi, il riferimento alla scarsa trasparenza di procedura ed esito del sondaggio svolto sulla piattaforma telematica dei 5 stelle, appa[re] tutto sommato superfluo, come del resto in buona sostanza sottolineato dallo stesso suo autore.

[3]   A questo proposito, la vicenda delle elezioni politiche nazionali italiane del 2006 è paradigmatica. Esse videro la vittoria della coalizione di centrosinistra, ma con un esiguo scarto di voti alla Camera dei Deputati. La coalizione avversaria chiese allora inizialmente di procedere al riconteggio di tutte le schede elettorali, per poi accettare, a seguito di un accordo politico, di contare solo le schede del 10% dei seggi (https://www.repubblica.it/2006/12/sezioni/politica/polemica-schede/riconteggio-totale/riconteggio-totale.html). La Giunta per le elezioni, tuttavia  unico organo munito di giurisdizione al riguardo ai sensi dell’art. 66 della Costituzione, riuscì a ricontare soltanto le schede relative a 180 seggi, di contro ai programmati 6000 seggi, ossia l’equivalente del suddetto 10%, e calcolò che per ricontare il totale ci sarebbero voluti due mandati addizionali di 5 anni (traggo questi dati da http://paduaresearch.cab.unipd.it/6293/1/carlotto_paolo_tesi.pdf).

[4]   D’altronde, va pure di molto stemperata l’enfasi sulla presunta natura “malefica” di questa “sorta di accrocchio tecnologico informatico” dispensatore di “responsi” ordalici. Difatti, in base allo statuto del Movimento 5 Stelle, la devoluzione alla “consultazione in Rete degli iscritti” dell’assunzione della generalità delle decisioni politiche del Movimento stesso, tra cui è rientrata infatti anche quella riguardante la costituzione del nuovo attuale governo, non è affatto obbligatoria, ma è rimessa alla scelta totalmente discrezionale del suo “Capo Politico ovvero, in sua assenza od inerzia, d[e]l Garante” [v. art. 4, lettere a), comma 2°, ultimo alinea e b), comma 1°, dello Statuto, visionabile qui: https://s3-eu-west-1.amazonaws.com/associazionerousseau/documenti/statuto_MoVimento_2017.pdf]. Pertanto, se pure si volesse dare rilevanza all’apparenza (o illusione) della trasparenza, e dunque in definitiva sapere – per riprendere le parole usate nella Replica – “con chi dobbiamo prendercela”, la responsabilità della decisione di costituire il nuovo governo, ove per responsabilità si intende la causa prima che ha consentito agli iscritti di esprimersi, sarebbe ascrivibile formalmente e sostanzialmente a Luigi Di Maio quale “Capo Politico” ed a Giuseppe Piero Grillo quale Garante del Movimento 5 Stelle (come del resto rilevato dalla stampa: https://www.ilpost.it/2019/09/03/piattaforma-rousseau-voto-oggi).

[5]   Di seguito, riporto una breve silloge di alcune delle opinioni espresse al riguardo, tutte da me tratte dall’articolo https://www.ilfoglio.it/politica/2019/09/09/news/la-soffitta-dei-simboli-inutili-272931/. Ferruccio de Bortoli: “<#Rousseau, uno dei giorni più bui della nostra democrazia rappresentativa>”; Francesco Storace: “<La democrazia italiana nelle mani della piattaforma #Rousseau. Decide #Casaleggio senza alcuna trasparenza se il governo deve partire o no. Ora #Mattarella potrà nominare i ministri>”; Mara Carfagna:<Ah, quindi il Conte-bis non sarà legittimato dalle Camere, ma dalla piattaforma #Rousseau? Eppure non mi pare che i Padri Costituenti, nella loro saggezza e nel ruolo di rappresentanti del popolo italiano, avessero previsto di inserire la Casaleggio Associati in Costituzione>”; il presidente emerito della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick: “<non è incostituzionale in sé, ma mi sembra contro lo spirito della Carta far diventare la piattaforma Rousseau, o un’altra simile, uno strumento per l’esercizio della sovranità>”, Cesare Mirabelli: “<Il presidente incaricato, sulla base del voto di un numero ristretto di persone, sia pure iscritte al partito M5s, si ritira e restituisce il mandato nelle mani del presidente della Repubblica? Non è quanto stabilisce la Costituzione>”.

[6]   Tra gli innumerevoli interventi giornalistici, cfr. https://www.ilsole24ore.com/art/il-lato-oscuro-rousseau-hacker-bilanci-e-votazioni-non-certificate-ACDjgeg.

[7]   È significativo, al riguardo, che già nel 1966 un intellettuale come Lelio Basso, convinto assertore dell’imprescindibile funzione storica dei partiti e certamente distante da un estremismo antiparlamentare, dopo aver negato “che il parlamento sia veramente o possa essere la sede effettiva del potere e che tutti i problemi possano risolversi con la semplice azione parlamentare”, evidenziava il compimento di un “processo di progressivo svuotamento di un’autonoma funzione del parlamento a beneficio dell’esecutivo e dei partiti”, che riconosceva contestualmente essersi “rivelati strumenti politici più adeguati, anche se largamente insufficienti, alla democrazia di massa”, avendo cura però di soggiungere immediatamente che i reali beneficiari di tale processo di progressivo svuotamento erano “dietro di essi [ossia “dell’esecutivo e dei partiti”], [la] burocrazia, [i] gruppi di pressione e [le] forze economico-sociali” (http://leliobasso.it/documento.aspx?id=5b7a6827d18ca804ef8249e24302aaed).

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