Italia e il mondo

Il colle, il dragone e Sora Giorgia_di Ernesto

Il colle, il dragone e Sora Giorgia.

C’è un colle in Italia con uno scranno su cui si accomoda un tizio che dovrebbe rappresentare l’unità nazionale ed essere interprete della Carta Costituzionale nella sua evoluzione applicativa: non ci si vuole dilungare nella spiegazione della differenza tra costituzione materiale e costituzione formale. Basti in questa sede sottolineare che, le maggioranze parlamentari, la politica, hanno il compito di interpretare ed applicare la carta costituzionale ed a quel signore sul colle, spetta solo il compito di prenderne atto sorvegliando solo che la stessa non venga palesemente violata.

Insomma, in linea teorica, costui dovrebbe prendere atto della volontà popolare che esprime una maggioranza che ha un determinato programma ed è delegata dal popolo ad applicarlo.

Accade invece che questo personaggio, anche un po lugubre nella postura e nell’espressione, non perda occasione per rappresentare non già l’unità nazionale e gli interessi di questa ma, bensì, gli interessi di organismi sovranazionali a cui, a detta sua, dovremmo affidarci come un messia salvifico.

Non solo.

Egli si circonda di funzionari da Lui scelti e da noi pagati, che tramano per far cadere il governo eletto dal popolo e sostituirlo, senza passare per nuove elezioni, con uno diverso più congeniale ai desiderata di quegli organismi sovranazionali che tanto bene vogliono fare per questa povera Italia che, invece, asina quale è, si ostina a fare resistenza.

In particolare, questo disgraziato paese, ha un governicchio, eletto da un numero miserrimo di elettori che ancora credono che votare serva a qualcosa ma non completamente e del tutto supino a questi organismi sovranazionali.

Non che si opponga ma, sottotraccia e con mezze misure, fa un minimo di resistenza: si grida alle armi ed il governicchio non dice no ma fa poi dei distinguo sulle truppe, sui limiti e sull’opportunità.

Insomma, di mandare le truppe in guerra il governicchio dice che non se ne parla.

Ed allora, nel mentre dal Colle pubblicamente si incita alla adesione senza se e senza ma agli obiettivi di questi organismi, in uno di questi un Ammiraglio che colà, anch’egli, dovrebbe rappresentare gli interessi Italiani e la politica del governicchio, senza consultarsi con alcuno ciancia di attacchi preventivi ad un paese straniero con cui, formalmente, non abbiamo alcuna controversia neppure diplomatica.

Insomma questo Dragone si uniforma all’invito alle armi.

Tutti attendono con ansia una presa di posizione e guardano alla Garbatella da cui si spera, giungano segni di vita: ma niente nel Rione tutto tace.

A parte un malcelato imbarazzo e commenti di ministri vari con opposte valutazioni, Sora Giorgia, non prende una posizione.

Certo, “il bel tacer non fu mai scritto” ma che dire dell’idea della Signora in questione di varare una riforma costituzionale che prevedesse il ritorno alle urne in caso di caduta del governo prima della sua naturale scadenza?

Questa si, una misura che scongiurerebbe trame più o meno occulte per nuove maggioranze posticcie ed eterodirette.

Con buona pace di Colli e Dragoni.

Ma pare che, dopo una durissima lotta per una ennesima “non riforma” della giustizia, non ci sia spazio per altro.

Si tira a campare, come in Borgata.

Peccato che l’orizzonte non sia solo quello della Garbatella ma di un paese intero.

Carlo Galli, Tecnica_recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Carlo Galli, Tecnica, Il Mulino, Bologna 2025, pp. 170, € 16,00.

Quali contemporanei ci confrontiamo quotidianamente con la tecnica – e ancor più col progresso tecnico – che ci cambia la vita sotto ogni aspetto. Dalla comunicazione alla salute, dalle abitudini al lavoro e al tempo libero.

Questo saggio ne cura in particolare uno, quello decisivo, il rapporto tra tecnica e potere e come quella condizionasse questo, agevolandone l’opera o sovvertendolo.

Partendo dalla sua ineluttabilità. Scrive l’autore che non vi è cura per la tecnica, perché fa parte del modo di esistenza umano, è un fare produttivo: “la tecnica costituisce l’essere umano e la stessa storia della specie umana, ma è anche capace di minacciare l’umanità”. Ciò perché è “neutra” nel senso che non determina i fini, ma è un mezzo: può servire a fare antibiotici come la bomba atomica: “La tecnica è indispensabile ma non è neutra, non può esserlo – e quindi non è possibile una tecnocrazia: il kratos non è della tecnica ma di chi la produce e la impiega. La tecnica è sempre trascinata all’interno di polarità e conflitti, storici ed intellettuali: fra politica e burocrazia, fra azione e fabbricazione, fra tradizione e progresso”.

Per orientarsi sul tema Galli propone due coordinate essenziali: la prima che la tecnica va pensata come azione orientata all’utilità, cioè al profitto e alla potenza; “La seconda è che il pensiero si forma attraverso il fare, che esige la relazione col pensato, ma al tempo stesso il pensiero trascende il pensato se non altro perché è capace di pensare sé stesso e la propria origine. Il pensiero non è disincarnato ma anzi è «concreto»”.

La connessone con la politica e l’economia fa si che ci sia sempre una politica (e una geopolitica) della tecnica. Perché nella tecnica “non c’è solo l’elemento strumentale: vi sono compresi anche il Saper fare, il Voler fare, il Poter fare. Ovvero, nella tecnica sono presenti fattori epistemologici, economici, politici”. La coessenzialità di tecnica e natura umana è nel costruire ma anche nel criticare, nel co-determinare le azioni umane; implica che la “tecnica è necessaria alla definizione dell’umanità, ma non è sufficiente. La ragione tecnica è un universale parziale, ovvero non è tutta la ragione: c’è un’eccedenza, ed è il pensiero che pensa quella ragione”.

Un pensiero interessato, ma non solo strumentale che ri-orienta l’azione. A questo è dedicato il terzo capitolo in cui Galli mostra “i molti modi con cui la filosofia ha messo in rapporto la tecnica, il sapere e l’agire, la realtà naturale e l’artificio, e con cui ha reagito alla moderna esondazione della tecnica, estesa a ogni ambito della società e delle mentalità”; con soluzioni che vanno “dal massimo di estraneità fra teoria e fabbricazione, quindi, fino al massimo di immanenza”. Il libro conclude con due tesi. La prima è che il dominio che si realizza “non è della sola tecnica come strumentale fabbricazione: è dominio di una forma concreta, storica, di combinazione fra sapere pratico, politica, economia, comunicazione. Quando ci accorgiamo di servire la tecnica e il suo nichilismo, o i suoi simulacri, possiamo quindi capire che stiamo servendo il profitto o la potenza di qualcuno: non è l’impersonale ma persone”.

La seconda, collegata alla prima è che così esiste “lo spazio della critica e la possibilità dell’agire politico, che vada al di là di quel fabbricare che ci sta fabbricando”. E Galli prosegue: “Quelle due tesi, combinate, sono insomma un invito alla «critica della tecnica»… Una critica realistica (un «realismo critico») che esige capacità di vedere le contraddizioni tra universalità e parzialità, fra progresso e dominio… la cui esistenza e consistenza è il vero problema – non tanto dalla tecnica quanto dalle coazioni del sistema sociopolitico di cui questa è l’espressione storica concreta”.

Due notazioni del recensore a margine di un saggio esauriente e attuale.

La prima: a differenza delle concezioni tecnocratiche, non c’è soluzione tecnica valida a prescindere dai fini cui è indirizzata. Cioè buona, auspicabile, voluta (da chi i fini determinava). Il che significa che i presupposti del politico (comando/obbedienza; pubblico/privato; amico/nemico) rimangono immutati e pure se condizionati dalla tecnica, non se sono detronizzati.

La seconda che perciò non c’è una tecnocrazia quale forma politica (come monarchia, aristocrazia, democrazia); c’è una conformazione dell’organizzazione pubblica alla novità delle situazioni, tra cui – numerosissime – quelle risultanti dallo sviluppo tecnico. La contraria convinzione già criticata da Croce con ironia è costantemente smentita dal fatto – peraltro energicamente sostenuto da Galli – che è sempre un “modello”, a servizio di un potere (a cui risponde). E che sotto una apparente oggettività finisce per conculcare la soggettività degli individui e delle loro formazioni sociali, con il tramonto di ogni libera prospettiva di piena comprensione di un mondo di cui questi abbiano “piena comprensione e responsabilità”.

Teodoro Klitsche de la Grange

La guerra sinergica_di WS

Questo  tipo di discussione , cioè l’ insieme di questi articoli , serve a riportare in auge la “ leva di  massa”  in €uropa per un motivo ben preciso:   per  superba ironia    quei  “masters of universe”  che   da anni   perseguono la   scomparsa  dei popoli  €uropei  hanno ora  urgente  bisogno  di un “ €uroesercito  di popolo”   che  vada  a morire  per  LORO  in Russia  in una    “guerra  sinergica”   già  evidente in Ucraina.

Infatti in una  guerra  sistemica  un “esercito di popolo” , come quello svizzero,    ha un sacco di vantaggi: “gratuità”  di servizio, enormi dimensioni , facilità di mobilitazione e   di impiego per guerre di difesa ( o “narrate” come tali). Comporta anche dei “costi” politici; per  poter  mandare “aggratisse” la gente  a morire ( cioè i MASCHI )  o prima  o poi  devi pagare a questi ultimi un costo politico e sociale

Il motivo per il quale le élites, in particolare   quelle   dedite alla estrazione finanziaria, quindi in primis le élites “anglosassoni”, considerandosi per se stesse “padrone “, aborrono dover pagare simili “costi” politico-sociali”, ma ci si devono adattare ogni volta che li ritengono inevitabili davanti ad una minaccia superiore. Finiscono così anche per  dover  sottoscrivere con il proprio “popolo”, seppur in modo  generalmente  truffaldino,     un qualche “patto”  che poi,  mutate  le circostanze,   regolarmente   stracciano,  ritenendolo   una  limitazione  insopportabile    ai propri progetti  ed interessi.

Ho  già citato più volte  qui  il famosissimo  ed insuperabile (+)  “SPQR”     che   tanto  successo e tanta  gloria portò  ad  un  marginale villaggio  di pastori.   Nella storia, però,  ci sono   tanti altri esempi  seppur molto meno  appariscenti    e ovviamente      di ben più breve  durata  e successo.

Un  simile  retaggio, testé appunto  citato  all’ inizio,    è  la  “democrazia “  svizzera,    che  ha  seguito in piccolo la traiettoria romana    e  ha mantenuto  fino  ad oggi  “l’ esercito  di popolo “ nonostante  le attuali  élites   svizzere  prosperino  sostanzialmente  proprio  di “estrazione  finanziaria”.

La ragione   fondamentale  di ciò    dipende  dal fatto  che  la   Svizzera  è stata  sempre circondata  da   Stati ben più grossi  contro  cui  la guardia non poteva  mai essere  abbassata, ma  sui quali  si poteva  appunto lucrare una  rendita  da una posizione  di  inattaccabile “neutralità armata”.

Le   élites anglosassoni , le vere  signore  della “finanza estrattiva”  di oggi, non hanno avuto mai  simili problemi .  Dominando territori  immensi e ricchi di risorse  da posizioni  difese  da mari    da loro  dominati , non  hanno ( quasi) mai  avuto bisogno  di  “eserciti  di popolo”  bastandogli    sempre   il poter portare la guerra  in casa altrui  tramite   eserciti professionali ben   armati.

Ma  già nelle  due LORO WW avevano dovuto impiegare  un “esercito  di popolo”,     accollandosi un costo politico-sociale    sia  in USA    che  in GB  le cui élites  avevano  dovuto  limitare le proprie pretese a  guerra  finita per lo stesso motivo;   non  puoi     riportare  subito   “reduci”  che  sono  stati anni con le armi in mano  alla  status   di “ deplorables”.

Anche le elites  italiche  avevano  avuto lo stesso problema   nel primo dopoguerra.  Tant’è  che dovettero    poi  dividere il potere   con quel  “ fascismo”    sorto  nelle  trincee.

 E  appunto nel     1945  le  élites  “anglosassoni”    avevano  conseguito  una   vittoria pressoché  totale   su   quel tipo  di “populismo”. Ma per  questo  risultato  avevano  dovuto  condividere la vittoria  con  un altro  tipo di  “populismo”,  quello comunista” . Il  quale però   non solo  si  era preso  per   sé  mezza  Europa  , ma ora  minacciava pure  di prendersi anche l’altra metà.

In  queste  condizioni  non si poteva   restaurare  in  toto “il liberalismo”  nella  parte    di Europa “liberata”. Fu quindi per  LORO necessario  un  qualche  “populismo”  anche  lì.

E fu così  che nacque la  “  stagione  felice”  delle       “democrazie  cristiane”   e delle “socialdemocrazie “   europee. Che anni  magnifici che furono  quelli !

Ma ovviamente  le “élites” masticavano amaro  e non  restavano   “ con le mani in mano”.  Le   “democrazie”   europee  venivano  vieppiù  infiltrate  dalle   tecnocrazia  “liberale”  e dal  radicalismo  borghese  e convertivano  agli  ideali  “borghesi” i   figli inetti  ed infingardi   della dirigenza   dei partiti popolari.  Anzi , pure peggio;   diffondevano i propri  (dis)valori  pure nelle  teste   dei  giovani   del “popolo”.

In  contemporanea ed     analogamente  venivano infiltrate,   tramite oscuri  “ponti”,    le    élites  comuniste , cioè  i figli  dei  “padri”    della  “rivoluzione  comunista”,  creando una  dirigenza “comunista”  inetta   che,  pur  ripiena    di privilegi   “comunisti”,   sognava   di   vivere   come i “padroni”  de  “l’ occidente”.

  E  alla  fine   appena       fatto  crollare   così “ dall’interno”  il comunismo europeo,   subito  dopo  sono  stati liquidati anche  i “socialismi”  europei ,  con una  tale sconcertante  rapidità   che, riguardando ora il  tutto  con mente  fredda,  ci   fa  capire  quanto  il progetto  fosse antico, articolato  e pervasivo.

Il LORO  “liberismo”   aveva  vinto  per  sempre ! La  Storia  era  finita, ci proclamavano i loro  ben remunerati   cattedratici.

E  così il loro progetto  di “distruzione etnica”  è  decollato  ad una velocità impressionante,  tant’è  che già  adesso   è praticamente irreversibile. E   direi “coerentemente”,  nel  loro  “pacco”   di “ riforme”   c’ era  anche la  fine  di ogni “ esercito di popolo”;  cosa  che, chi prima e chi  dopo,  hanno  realizzato    tutte le  LORO €urocolonie

Così liquefacendo, però,  popoli / paesi ,  presi nella propria hibris,  sono  andati   ad  attaccare ,   forse prematuramente,    il  paese/popolo “sbagliato”(*). E contro  di esso  i loro  servizi  segreti,  le loro massonerie  , le loro organizzazioni    culturali economiche  ed   “umanitarie”, i loro  soliti ascari e i loro  soliti  eserciti mercenari  per ora  non sembra possano  farcela.

E  così, presto,  occorrerà  di nuovo , come nelle    altre   due  volte, un “esercito di popolo”;   gente  che, come  sempre ,  vada a “morire   gratis”  dietro  qualche  “narrazione”  fasulla   o qualche promessa  che non sarà mai mantenuta.

 Questa nuova     guerra  andrà  comunque fatta; solo le modalità  sono in discussione.  I fatti     stanno  avendo la  conseguenza  che, parafrasando Marx,  lo  spettro   del populismo   torna  ad aggirarsi per l’Europa  ed è la paura  del populismo   a  generare  questa idea fissa  nella  LORO  testa   .

Per LORO   è addirittura  esaltante    “la  sinergia “  di  mandare  a morire  l’ odiato “popolo”  per soggiogare  l’ odiata  Russia.  Due piccioni con una fava !

(+) Lo straordinario successo   della Repubblica Romana       derivò  dalla  altrettanto  straordinaria  volontà   del  “patriziato” romano   di selezionare  al meglio  i propri successori. Il  patto SPQR    durò  in piena efficienza  quasi quattro  secoli , il PCUS nemmeno  40 anni.

(*)  Per pura   ragione   di sopravvivenza    (  e forse  ci scriverò  qualcosa prima o poi ) il populismo  russo  è  intrinseco   allo  stato  russo,   come il suo militarismo. Nel XV  secolo  quando  nessuno in Europa poteva mettere in campo  forze  superiori a 50.000 uomini ,  l’ allora  Moscovia già manteneva  200.000 uomini  permanentemente  addestrati  e pronti alla guerra.

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Non c’è un fesso al Kremlino_di WS

Questi articoli di Korybko trattano tre argomenti correlati che richiedono tre commenti. Pur sintetici sono altrettanto correlati; presenterò nello stesso ordine .

1) La telefonata rubata

Non mi stupisce che siano gli inglesi a boicottare ogni iniziativa di pace in Ucraina.

Gli inglesi sono da secoli i primi agenti dei bankesters e perlomeno lo sono da quando, perdendo l’ impero nella loro scommessa contro la Germania, non hanno ora altra risorsa che la rendita finanziaria della City.

La registrazione, però, viene sicuramente dai loro cugini dei servizi americani, anche essi al servizio dei bankesters da quando la rendita finanziaria è diventata la risorsa preminente in U$A.

Un obbiettivo politico di questa “indiscrezione” è certamente Trump il quale, altrettanto certamente, cerca di sottrarsi ad una partecipazione DIRETTA degli USA alla futura “ guerra in Europa”.

Putin lo sa e farà di tutto per sostenerlo; di tutto fuorché sacrificare gli interessi strategici della Russia. Il tempo delle “ritirate strategiche” è finito nel 2007.

2) Il contrasto Germania-Polonia

” Geopoliticamente ” questo contrasto è solo per definire chi prenderà il controllo dell’ €uropa orientale nel nome della “russofobia”; di conseguenza attualmente la Russia non ha alcuna leva su nessuno dei due.

I polacchi ,come gli svedesi poi e i tedeschi successivamente, saranno sempre russofobi perché la Russia ha spezzato per sempre le loro ambizioni imperiali ad est. Nel tempo élites più intelligenti delle attuali ( e qui mi riferisco solo alla Svezia e non certo alla Polonia ) hanno capito in passato, comprenderanno forse in futuro i fondamentali geopolitici di quella sconfitta e ci si sono/saranno intelligentemente adattate. Le attuali elites di tutti questi tre paesi sono state però opportunamente selezionate ANCHE ad essere geopoliticamente stupide.

Per lo stesso motivo e per gli stessi processi selettivi anche le attuali élites francesi sono “russofobe”, anche se le precedenti si ricordavano degli ottimi affari fatti con la Russia fino alle guerre mondiali e almeno il vecchio De Gaulle aveva capito le fregature prese dalla Francia in queste ultime.

Ma anche la “russofobia” tedesca è molto recente. L’ impero tedesco era sorto e quello Austriaco prosperato, solo per una benevolenza russa poi malamente ricambiata. L’ossessione ad “andare ad est” delle élites tedesche era una idea “sassone” già spezzata dagli slavi mille anni fa e rinata solo nel XX secolo alimentata da “l’opportuna” comparsa della ideologia nazista.

E non abbiamo visto come la ” locomotiva tedesca”, poi ” scoppiata” con il Nord Stream, poggiasse solo sul gas russo a buon mercato ricevuto mentre la “furba” Merkel tramava contro gli interessi russi?

Non è un caso che in questo momento i governi russofobi in Francia e in Germania siano retti da funzionari dei bankesters ed è invece solo per puro caso che non abbiamo anche noi a palazzo Chigi uno di questi “funzionari del Grande Kapitale” . Se andiamo però nei dettagli, vediamo che tutti i governi “politici” in €uropa obbediscono al “ Grande Kapitale “ in modo più o meno diretto .

La “russofobia” quindi è destinata ad accrescersi in €uropa perché essa è intrinseca al “Grande Kapitale” e la ragione di tutto questo è molto semplice : nonostante abili sforzi e profonde infiltrazioni culminate in ben tre “rivoluzioni” ( 1905, 1917 , 1991 ), la Russia continua a sfuggirgli di mano.

Coloro che oggi hanno completamente soggiogato l’ €uropa non hanno ancora pienamente soggiogato la Russia ,contro il cui popolo provano quindi un odio anche maggiore che contro tutti gli altri popoli €uropei ormai completamente schiavizzati.

Ed essendo LORO “padroni del discorso” ( e delle banche) hanno tutti i mezzi per imporre ai propri schiavi una narrazione russofoba per il tramite delle “locali” elites servili a ciò selezionate come appositi “cani pastori”.

Quindi non c’è niente che la Russia possa fare per spezzare questa narrazione né modificare la volontà €uropea di distruggere la Russia , ANCHE autodistruggendosi . La traiettoria dell’ €uropa sarà la stessa dell ‘ Ucraina .

L’ unica cosa che la Russia può fare è prepararsi al peggio “ritardando l’ inevitabile” nella speranza che prima de “l’ inevitabile” la durezza dei fatti rompa “l’incantesimo” nelle durissime teste degli €uroschiavi. Speranza però tenue , visto che, dopo ben quattro anni, la durezza di una guerra non è riuscita sostanzialmente a cambiare nulla nella testa delle élites ucraine.

Quindi da parte russa ci sarà solo questa strategia di “ritardare l’ inevitabile” e poi cercare di sopravvivergli. Ciò che verrà dopo , cioè che cosa fare della allora “fu €uropa” , sarà una questione geopolitica durante la quale di sicuro la Germania non potrà contare ancora sulla benevolenza russa. Tre mortali errori strategici in un secolo bastano e avanzano.

3) Kazakistan.

Anche le élites kazake, come tutte quelle dei vari “stan” post sovietici non sono diverse da quelle €uropee. Sono tutte “ sapientemente” allevate nella russofobia sebbene ancora nella fase “ falso amica”, la stessa delle “elites €uropee” prima del 2008.

Sono tutte lì ben “coperte” , ma pronte ad essere “attivate” al momento oportuno. E se Putin coltiva l’ illusione di poter gestire la loro “amicizia” esattamente come dice di aver tentato di fare con i “cari partner” del G8 , allora è un fesso .

Ma ovviamente non lo è ora come non lo è stato prima. Putin gioca sempre queste partite “candido come colomba ed astuto come serpente” e si sarà certamente preparato per tempo per quando anche il “ caro Tokayev” si svelerà pubblicamente come la “ cara merkel”.

Perché , io non so per il futuro , ma per ora non c’è un fesso al kremlino.

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Thomas Hobbes e la sua filosofia politica_di Vladislav Sotirovic

Thomas Hobbes e la sua filosofia politica

Fondamenti storici, filosofici e sociali del pensiero politico di Thomas Hobbes

Con le sue opinioni nella storia della filosofia politica, il teorico politico inglese Thomas Hobbes (1588-1679) divenne un rappresentante classico della scuola dell’empirismo inglese. Costruì un sistema politico completo basato sulla tesi fondamentale che nel mondo reale esistono solo corpi materiali individuali. Con questa visione, Hobbes iniziò una guerra contro i pregiudizi del realismo medievale, per il quale i concetti erano la vera realtà, mentre le cose erano semplicemente un loro derivato. È importante notare che Hobbes credeva che esistessero tre tipi di corpi individuali: 1) corpi naturali (cioè corpi della natura stessa che non dipendono dall’uomo e dalle sue attività); 2) L’uomo (sia un corpo della natura che il creatore di un corpo artificiale, cioè innaturale); e 3) Lo Stato (un corpo artificiale come prodotto delle attività dell’uomo).

L’opera più importante di Hobbes nel campo delle scienze politiche è Leviathan (1651) [titolo completo e originale: Leviathan or the matter, form and authority of government, Londra], in cui espone le sue opinioni filosofiche sul terzo corpo, cioè lo Stato, ovviamente nel contesto dell’epoca in cui visse e di cui fu testimone. In breve, in quest’opera Hobbes elaborò la visione secondo cui lo stato naturale della vita del genere umano è una guerra di tutti contro tutti (bellum omnium contra omnes). Secondo lui, questa visione è seguita da una legge naturale che porta al superamento di tale stato e alla creazione dello Stato (cioè dell’organizzazione politica) attraverso un contratto sociale tra i cittadini e il governo, ma anche un contratto che riconosce infine il potere indivisibile e illimitato del sovrano (re) nella politica (organizzazione statale) per la protezione dei cittadini e dei loro diritti. In altre parole, i cittadini rinunciano volontariamente a una (gran parte) della loro libertà naturale, che trasferiscono allo Stato allo scopo di proteggersi dai nemici esterni e interni. Si tratterebbe di una forma politica di “fuga dalla libertà” volontaria e contrattuale, magistralmente decifrata dal filosofo tedesco Erich Fromm (1900-1980) nella sua opera omonima Escape from Freedom (1941), utilizzando l’esempio della società tedesca durante l’era del nazionalsocialismo.

Le basi sociali e storiche del pensiero politico di Hobbes erano le frequenti guerre civili in Inghilterra, in cui il re Carlo I Stuart (1625-1649) perse sia la corona che la testa (che fu tagliata con un’ascia), la nascita di due correnti politiche nel Parlamento inglese, che in seguito divennero partiti: i Tories (conservatori) e i Whigs (liberali), nonché la proclamazione del Commonwealth (cioè una repubblica, o “stato sociale”, 1649-1660) ma con il dittatore Oliver Cromwell (1599-1658), che dal 1653 portò il titolo di “Protettore” (“Protettore d’Inghilterra, Scozia e Irlanda”). A quel tempo, lo sviluppo capitalista inglese e persino quello coloniale-imperialista richiedevano la protezione di uno Stato estremamente forte e onnipotente sotto forma di monarchia, cioè di potere reale assolutistico.

Fondamentalmente, Thomas Hobbes non criticava l’attuale sistema socio-politico, ma cercava piuttosto di consolidarlo e rafforzarlo il più possibile affinché l’intero Stato con i suoi cittadini potesse funzionare nel miglior modo possibile ed essere il più efficiente possibile, a vantaggio di tutti i cittadini che prima stipulavano un contratto sulle relazioni bilaterali tra loro e poi con lo Stato. Anche da una prospettiva europea (guerre civili tra protestanti e cattolici), dato che in tutta l’Europa occidentale prevaleva un clima di paura e insicurezza personale, Hobbes desiderava la pace, la sicurezza e la protezione della proprietà privata, tanto che a tal fine divenne un convinto statalista, ovvero un sostenitore del potere statale più forte possibile sui singoli cittadini.

Nel tardo Rinascimento europeo e nel primo periodo moderno, il rafforzamento del potere monarchico attraverso lo sviluppo dell’assolutismo monarchico illuminato (dispotismo) era espressione della necessità di unità sociale e statale e di funzionalità armoniosa al fine di evitare l’anarchia politica medievale, il politeismo e l’impotenza. Quando si enfatizza l’assolutismo monarchico, generalmente non è a causa dell’illusione dei diritti divini del sovrano, ma a causa della convinzione pratica che una forte unità politica possa essere raggiunta solo nel quadro di un monarchismo assolutista illuminato. Pertanto, quando Hobbes sostiene l’assolutismo centralista del re, non lo fa perché crede nei diritti divini dei re o nel carattere divino del principio di legittimità, ma perché ritiene che la coesione della società e l’unità nazionale possano essere raggiunte principalmente in questo modo. Hobbes crede nell’egoismo naturale dell’individuo, e una conseguenza naturale di questa convinzione era l’idea che solo un’autorità centrale forte e illimitata (assolutista/dispotica) di un monarca fosse in grado di frenare e superare le forze centripete che portano alla disintegrazione della comunità sociale e alla dissoluzione dello Stato.

Leviatano (1651) – sistema politico (Stato) secondo lo Stato contrattuale

Va notato che il punto di partenza della filosofia politica di Thomas Hobbes è lo stesso di tutti gli altri rappresentanti della cosiddetta scuola del “diritto naturale e del contratto sociale”. Hobbes, come molti altri della stessa scuola, riduce l’individuo all’ordine della natura e e lo stato civile allo stato di un contratto tra cittadini e stato, ma che è formato da soggetti che, proprio in virtù del contratto con lo stato (monarca), dovrebbero diventare cittadini, liberandosi così dalla posizione e dal ruolo di sudditi medievali senza legge (cioè coloro che avevano solo obblighi nei confronti del governo ma nessun diritto in relazione allo stesso governo), almeno secondo la filosofia politica liberale.

Per Hobbes, la base della natura umana è l’egoismo e non l’altruismo, così come il bisogno di vita comunitaria, ma non come una sorta di impulso alla vita comunitaria (come negli animali selvatici che vivono in branchi), bensì un bisogno dettato da un interesse puramente egoistico. In altre parole, la società politica organizzata sotto forma di Stato nasce come risultato della paura di alcuni individui verso altri, e non come risultato di una qualche inclinazione naturale di alcuni individui verso altri. Pertanto, lo Stato è un’organizzazione socio-politica imposta come prodotto di una visione razionale della vita, cioè della sopravvivenza, della comunità umana al fine di preservare gli interessi individuali, compresa la nuda vita. In altre parole, Hobbes negava la felicità e il piacere come elementi dello stato o dell’ordine naturale. Al contrario, per lui lo stato naturale è pericoloso per l’esistenza umana perché è animalisticamente crudele e omicida. Uno stato in cui tutti combattono contro tutti. In un ordine naturale che opera secondo le leggi (animali) della natura (il diritto del più forte), la base delle relazioni interpersonali è la guerra basata sulla forza e sull’inganno.

La successiva caratteristica importante dell’ordine naturale è l’assenza di proprietà delle cose e dei beni nel senso dell’assenza di una chiara demarcazione di ciò che è di chi. In altre parole, tutto appartiene a tutti, e ciò che è di chi dipende, almeno per un certo periodo, dalla forza, dalla rapina e dalla coercizione sugli altri. Per Hobbes, tutti gli esseri umani sono uguali sia fisicamente che intellettualmente, e tutti hanno diritto a tutto, sforzandosi di preservare questo diritto naturale. Tuttavia, poiché allo stesso tempo si sforzano di ottenere il potere o almeno il dominio sugli altri, inevitabilmente si verifica una guerra di tutti contro tutti, così che la vita umana diventa insopportabile. I più forti si sforzano di diventare ancora più forti e influenti, mentre i più deboli si sforzano di trovare protezione dai più forti per sopravvivere. Da un lato, l’uomo si sforza di preservare la sua libertà naturale, ma dall’altro lato, di ottenere il potere sugli altri. Per Hobbes, questo è il dettame dell’istinto di autoconservazione (libertà + dominio). La razza umana ha lo stesso impulso per tutte le cose e, quindi, tutte le persone vogliono le stesse cose. Pertanto, tutte le persone sono una fonte costante di pericolo, insicurezza e paura per gli altri nella brutale lotta per la sopravvivenza. Pertanto, l’esistenza umana si riduce a una guerra di tutti contro tutti (l’uomo è un lupo per l’uomo).

Per Hobbes, la legge naturale fondamentale è quindi la legge dell’egoismo, che induce l’individuo umano a preservare se stesso con perdite minime e guadagni massimi a spese degli altri. La legge naturale (ius naturale) è quindi l’istinto di autoconservazione, cioè la libertà per tutti di usare la propria forza e abilità per preservare la propria esistenza. Tuttavia, il significato fondamentale dell’esistenza dell’individuo umano è la ricerca della sicurezza. Pertanto, per Hobbes, solo l’interesse, e non l’altruismo (l’inclinazione dell’uomo verso l’uomo), è il motivo naturale fondamentale nella ricerca di una via d’uscita dallo stato di natura perché sta diventando insopportabile. In altre parole, la libertà naturale sta diventando un peso sempre più gravoso sulle spalle dell’uomo che deve essere sopportato.

Hobbes si oppose agli insegnamenti di Aristotele e Grotius secondo cui l’uomo stesso ha originariamente un impulso ad associarsi, cioè un istinto sociale. Contrariamente a entrambi, Hobbes ritiene che l’uomo sia originariamente un essere completamente egoista e possieda un solo impulso, quello di autoconservazione. Questo impulso spinge l’uomo a realizzare i propri bisogni, a cogliere il più possibile da ciò che la natura stessa mette a sua disposizione e, in accordo con questo impulso, ad espandere la sfera del proprio potere individuale il più possibile e il più lontano possibile. Tuttavia, secondo la logica stessa delle cose, in questa sua intenzione l’uomo incontra la resistenza di altre persone guidate dallo stesso impulso naturale (innato), cioè dalle stesse aspirazioni, e così tra i membri della razza umana sorgono competizione, lotta e guerra, che minacciano l’esistenza fisica delle persone. Pertanto, se l’uomo vive in uno stato di natura, si trova di fronte alla realtà della guerra di tutti contro tutti, cioè una guerra causata naturalmente dal bisogno e dalla forza dell’individuo e una guerra in cui l’eventuale mancanza di forza fisica, cioè di superiorità, è sostituita dall’astuzia e dall’inganno secondo il principio che il fine giustifica i mezzi.

Lo stato di natura non permette alla ragione umana di fare nulla che possa in qualche modo mettere fisicamente in pericolo la propria vita, né di trascurare ciò che può meglio preservarla. Hobbes riconosce che la natura umana è tale da essere sempre in conflitto con varie passioni e pulsioni, tra cui predomina il desiderio di potere. Tuttavia, usando la ragione, l’uomo realizza nella pratica le leggi naturali, tra cui l’aspirazione fondamentale alla pace (personalità umana = conflitto tra passioni e ragione). Le persone, seguendo la ragione e le leggi naturali che spingono l’uomo a preservare e garantire la pace con tutti i mezzi disponibili, concludono tra loro un contratto o un accordo socialmente vantaggioso. Sulla base di tale contratto, le persone appartenenti alla stessa comunità che vivono nello stesso spazio abitativo si uniscono con l’obiettivo di formare una comunità più forte con forze congiunte sulla base di un’armonia generale, che alla fine si trasforma in una forma di statualità che garantirebbe loro pace e sicurezza. Pertanto, l’organizzazione politica ha due obiettivi fondamentali, ovvero funzioni: la difesa della comunità dai nemici esterni e la conservazione dell’ordine, della pace e della sicurezza all’interno della comunità stessa a livello interno. Così, uno Stato (dal greco polis) viene creato sulla base di un contratto, e la politica sarebbe definita come l’arte di governare uno Stato allo scopo di realizzare efficacemente le sue due funzioni fondamentali.

Tale contratto (di formazione dello Stato) impedisce le guerre all’interno della stessa comunità (socio-politica) se il contratto viene rispettato, il che è conforme alla legge naturale. Il contratto impone a ciascun individuo della comunità un gran numero di obblighi e doveri oltre ai diritti, il cui adempimento è necessario per la conservazione della pace, dell’ordine e della sicurezza. Pertanto, un individuo, membro di una comunità socio-politica, perde necessariamente una parte importante della sua libertà, che trasferisce allo Stato per il proprio benessere e la conservazione della propria esistenza. A questo proposito, va notato che la legge o l’effetto dello sviluppo della civiltà e del progresso del genere umano nel contesto storico è che con lo sviluppo della civiltà l’uomo perde sempre più le sue libertà naturali e viceversa.

Thomas Hobbes riteneva che le leggi naturali fossero, in realtà, leggi morali. Uno dei principi morali fondamentali per il funzionamento efficiente e giusto del sistema socio-politico, cioè i contratti, è che non si dovrebbe fare agli altri ciò che non si vorrebbe fosse fatto a sé stessi dagli altri. Le leggi morali sono eterne e quindi immutabili e quindi universali per tutti i membri di una comunità, quindi tutti gli individui si sforzano di armonizzare il loro comportamento verso gli altri in conformità con tali leggi morali. Tuttavia, nello stato di natura, queste leggi morali sono impotenti poiché non obbligano le persone a comportarsi in conformità con esse, ma solo fino a quando non vengono create opportunità reali affinché tutte le altre persone siano governate da esse. Infine, tali condizioni e opportunità sono create da un contratto che porta alla creazione e all’organizzazione funzionale dello Stato.

Transizione dallo stato di natura allo stato contrattuale di statualità

Secondo Hobbes, la legge appare abbandonando lo stato di natura e passando allo stato contrattuale di statualità. La statualità è l’istituzione che consente la creazione o la definizione della proprietà privata tra i membri della comunità secondo il principio del “mio”/“tuo”. Lo Stato, in quanto istituzione, è quindi obbligato a rispettare la proprietà altrui. A differenza dello stato contrattuale (civiltà), nello stato di natura (barbarie) non esisteva alcuna sicurezza reciproca né alcun garante di tale sicurezza. Creando lo Stato/la statualità come istituzione, l’uomo ha rinunciato ai diritti di cui godeva nello stato di natura. Nello stato di statualità, l’uomo aderisce ai contratti perché questo è l’unico modo per garantire la pace e, quindi, la sicurezza personale. Così, l’uomo passa ad adempiere agli obblighi morali perché contribuiscono alla conservazione della sicurezza personale.

Tuttavia, come sostiene Hobbes, il semplice contratto/accordo tra i membri di una comunità non è sufficiente per l’esistenza e il funzionamento di uno stato. Ciò richiede, oltre al contratto, una completa unità interna. In altre parole, per formare una volontà unificata del popolo, esso deve cessare di vivere come individui indipendenti e separati, cioè in qualche modo deve “affogare” nelle correnti generali della comunità statale e quindi rinunciare a una parte essenziale della propria indipendenza, individualismo e libertà naturale. Ora Hobbes passa al punto principale della sua filosofia politica, che ha un proprio specifico contesto storico, ovvero il tempo in cui Hobbes visse, sostenendo che gli individui non dovrebbero conservare né volontà né diritti per sé stessi perché tutto il potere dovrebbe passare allo Stato come istituzione generale e superiore. Hobbes essenzialmente esige che gli individui in una comunità statale siano sudditi dello Stato e non cittadini dello stesso. Pertanto, i sudditi devono obbedire ai comandamenti/alle leggi dello Stato perché solo così possono distinguere il bene dal male. Questo trasferimento di tutti i diritti e poteri individuali agli organi statali porta alla formazione della sovranità (statale) (suma potestas/sumum imperium).

In questo modo, secondo Hobbes, gli individui sono legati da un doppio contratto/accordo:

1) Un contratto in base al quale gli individui si associano tra loro; e

2) Un contratto in base al quale, come collettività sociale (individui associati), si legano a un’autorità statale alla quale cedono tutto il potere con un obbligo assoluto e incondizionato e una pratica di sottomissione ad essa (nel periodo storico specifico di Hobbes, ciò significava in particolare l’autorità reale assolutista).

La principale conseguenza diretta di questo doppio contratto è che dalla pluralità degli individui si forma un’unica entità sotto l’egida dell’autorità statale. Hobbes chiamò Leviatano questa autorità statale, ovvero l’autorità monarchica assolutista sui sudditi che ha il sostegno della chiesa. Si tratta di un mostro biblico o di un dio mortale che, nell’illustrazione di Hobbes, tiene in una mano il pastorale vescovile e nell’altra la spada, ovvero gli attributi del potere spirituale e temporale. Per Hobbes, lo Stato non è né una creazione divina né soprannaturale. L’uomo è l’opera razionale e più sublime della natura, e lo Stato-Leviatano è la creazione umana più potente. Lo Stato stesso è un corpo artificiale rispetto all’uomo, che è un corpo naturale. L’anima dello Stato è l’autorità suprema, le sue articolazioni sono gli organi giudiziari ed esecutivi, i nervi sono le ricompense e le punizioni, la memoria sono i consiglieri, la mente è la giustizia e le leggi, la salute è la pace civile, la malattia è la ribellione e la morte è la guerra civile.

L’uomo ha creato lo Stato basandosi sulla voce della ragione. Secondo Hobbes, lo Stato è un prodotto artificiale di una mossa razionale della razza umana e non un fatto naturale, come credevano molti filosofi prima di lui, come ad esempio Aristotele. Secondo Hobbes, lo Stato esercita la sovranità assoluta in modo tale che gli individui, cioè i sudditi, sono alienati nello Stato stesso, cioè rinunciano al loro diritto e alla loro condizione naturali. In altre parole, per il fatto stesso di aver concluso un accordo per sottomettersi al potere statale assoluto che hanno scelto, gli individui rinunciano ai loro diritti, che alienano trasferendoli al sovrano. Il rapporto dell’individuo con lo Stato assume la forma di un’alienazione politica dell’uomo nel sovrano, invece che dell’alienazione medievale in Dio.

Il governo e le sue forme

Hobbes riteneva che il suo sistema teorico di governo potesse essere applicato nella pratica a tutte le forme di potere statale. Nello specifico, per lui esistevano tre forme di potere statale nella loro forma pura: la monarchia (che lui preferiva), l’aristocrazia e la democrazia. Egli ammetteva anche l’istituzione di un parlamento, ma a condizione che il potere del monarca fosse forte e illimitato. La funzione di tale potere monarchico è quella di abolire lo “stato naturale” del genere umano, cioè la guerra generale di tutti contro tutti, con la sua autorità globale e il suo potere totale, e garantire così la pace e la sicurezza individuale per tutti i membri della comunità socio-politica, cioè lo Stato. La libertà come forma fondamentale di democrazia porta alla ribellione, all’anarchia e al disordine. Hobbes ritiene inoltre che il potere supremo del monarca debba essere principalmente di carattere sovrano, il che per lui significava specificamente che non doveva essere subordinato ad alcuna autorità esterna (dominio), soggetto ad alcuna legge al di fuori della legge della monarchia, sia essa naturale o ecclesiastica.

Tuttavia, in ultima analisi, il potere monarchico, almeno in teoria, non era totalmente illimitato, poiché il diritto all’esistenza era per lui l’unico diritto che consentiva una limitazione del potere supremo, cioè la sottomissione obbligatoria al sovrano. Questo perché il fondamento del potere statale in qualsiasi forma era basato sulla sopravvivenza esistenziale e sull’autoconservazione. Questa forma può essere in linea di principio monarchica, aristocratica o democratica, ma in nessun modo mista, cioè con la divisione del potere tra singoli organi. In ogni caso, il potere deve essere esclusivamente nelle mani dell’organo a cui è stato affidato. In questo caso, Hobbes nega il principio fondamentale del potere democratico moderno, che è la divisione del potere in legislativo (parlamento), esecutivo (governo) e giudiziario (organi giudiziari).

Va notato che Thomas Hobbes era un acerrimo oppositore della rivoluzione, ritenendo che l’artigianato e il commercio, e quindi, nelle sue condizioni socio-politiche, la produzione capitalistica in ascesa, avrebbero prosperato nelle condizioni di un’amministrazione statale onnipotente in cui tutti i disaccordi e le lotte politiche sarebbero stati eliminati. Egli credeva che tutto ciò che contribuisce alla vita comune delle persone sia buono e che tutto ciò che aiuta a mantenere una forte organizzazione statale debba essere sostenuto. Al di fuori dello Stato regnano la passione, la guerra, la paura e la brutalità (cioè lo stato di natura), mentre nella organizzazione statale regnano la ragione, la pace, la bellezza e la socievolezza (cioè la civiltà).

L’oggetto della cura dell’amministrazione statale (monarchia assoluta) deve essere la ricchezza dei cittadini (cioè dei sudditi) creata dai prodotti della terra e dell’acqua (mare), nonché dal lavoro e dalla parsimonia. Il dovere dello Stato è quello di garantire il benessere del popolo. Ipoteticamente, gli interessi del monarca dovrebbero essere identificati con quelli dei suoi sudditi affinché lo Stato funzioni in modo ottimale.

Osservazioni sintetiche

La dottrina di Thomas Hobbes sul potere onnipotente del monarca assolutista illuminato è il prodotto di un’epoca in cui vi era una forte necessità di organizzare uno Stato centralizzato e assolutista (centripeto) che potesse, soprattutto, resistere con successo all’universalismo papale, ma anche servire lo sviluppo del capitalismo e la limitazione degli elementi feudali (centrifughi). Da un punto di vista puramente economico, la monarchia assolutista di quel tempo e del secolo successivo corrispondeva agli interessi della borghesia capitalista e ai suoi sforzi per creare un grande mercato economico interno senza tasse regionali-feudali e imposte sulle vendite. In questo modo, d’altra parte, si sarebbe automaticamente creata l’unità nazionale come garante del funzionamento dell’economia all’interno del quadro nazionale (uno Stato unico).

Hobbes riteneva che il terribile stato di guerra naturale di tutti contro tutti potesse essere superato perché, oltre alle passioni, nell’uomo esiste anche la ragione, che insegna alle persone a cercare mezzi migliori e più sicuri per la loro vita biologica, materiale, economica e generale rispetto a quelli che portano alla guerra di tutti contro tutti. In altre parole, per garantire la pace sociale e la sicurezza individuale, ogni individuo nella società deve rinunciare al diritto incondizionato che possiede nello stato di natura. In definitiva, l’uomo lo fa perché lo impone il suo istinto di autoconservazione. Con questa rinuncia, l’uomo rinuncia e partecipa alla sua libertà naturale, cioè alla libertà data dalla legge naturale, perché l’intera comunità sociale si sottomette al contratto generale per vivere in una comunità politica-Stato. Sebbene tutti gli individui accettino tale contratto/accordo, lo fanno in linea di principio per ragioni puramente egoistiche, ma la ragione impone loro di farlo e quindi di obbedire a certe virtù fondamentali senza le quali la sopravvivenza dello Stato sarebbe impossibile (fedeltà, gratitudine, gentilezza, indulgenza, ecc.). Al di fuori del contratto statale, cioè dello Stato, ci sono affetti, guerra, paura, povertà, sporcizia, solitudine, barbarie, ecc. A differenza dello stato di natura (cioè lo stato della giungla, dell’inciviltà e della barbarie, ma anche della totale libertà in senso banale), lo stato è caratterizzato da ragione, pace, sicurezza, ricchezza, lusso, scienza, arte, ecc., ma con la condizione di una drastica restrizione e persino abolizione delle libertà naturali.

Solo con la formazione di un’organizzazione statale nasce la distinzione tra giusto e sbagliato, virtù e vizio, bene e male. Per Hobbes, la conclusione di un contratto di formazione dello Stato tra i membri di una comunità sociale può essere tacita, cioè informale. In ogni caso, la conclusione di un contratto di Stato per Hobbes è di importanza storica perché separa la preistoria dalla storia stessa. In altre parole, come per molti altri ricercatori della storia dell’umanità, il passaggio dallo stato di giungla (anti-civiltà) allo stato di statualità è anche il passaggio allo sviluppo della civiltà e alla storia in generale. Da un lato, Hobbes ha compreso abbastanza correttamente la natura dello stato di natura originario, ma non è riuscito a spiegare la nascita dello stato al di fuori del quadro del contratto sociale.

Ciò che è importante notare nella teoria del contratto di Hobbes è che egli credeva che, stipulando un contratto sociale-statale, gli individui che lo stipulavano trasferissero automaticamente tutto il loro potere e i loro diritti all’amministrazione statale, cioè al monarca assolutista. Lo Stato diventa onnipotente, dispotico e assolutista e, quindi, assomiglia al mitico mostro biblico Leviatano. Il trasferimento contrattuale del potere dall’individuo allo Stato deve essere incondizionato e, quindi, anche il potere statale stesso deve essere incondizionato. Per essere tale, il potere deve essere nelle mani di un solo uomo, ovvero il monarca assolutista che è sia l’unico amministratore che il giudice supremo. Hobbes derivò quindi dalla sua teoria del contratto la necessità della monarchia assoluta come unica forma di amministrazione statale che corrisponde pienamente alle intenzioni del contratto sociale stesso. La monarchia assoluta presenta anche altri vantaggi rispetto ad altre forme di organizzazione politica che la rendono la migliore forma di governo. Così, ad esempio, in una monarchia assoluta il potere può essere abusato da una sola persona, in un’aristocrazia da diverse famiglie e in una democrazia da molti (qui Hobbes non distingue tra la possibile gravità dell’abuso e della corruzione). Inoltre, in una monarchia assoluta, le lotte tra partiti sono più facilmente neutralizzabili e, nel caso ideale di dispotismo totale, le lotte tra partiti e politiche non esistono perché c’è una completa unità tra società, Stato e politica sotto il governo di una sola persona. Anche i segreti di Stato sono più facili da mantenere nelle monarchie assolute.

Un monarca assoluto deve anche avere un potere assoluto, cioè un diritto assoluto in tutte le relazioni politico-giuridiche e morali dello Stato (“Lo Stato sono io!”). Il monarca (nel caso di Hobbes, il re) è colui che ha sia la prima che l’ultima parola in tutte le questioni ecclesiastiche, religiose e morali. Pertanto, il monarca determina come Dio deve essere adorato; altrimenti, ciò che sarebbe adorabile per una persona sarebbe blasfemo per un’altra e viceversa. In questo modo, la società all’interno dello stesso Stato sarebbe divisa in fazioni ostili e si scatenerebbe una lotta tra queste fazioni su questioni religiose (come, ad esempio, il Sacro Romano Impero durante le guerre di religione del XVI e XVII secolo). In altre parole, Thomas Hobbes era un grande oppositore di qualsiasi tolleranza religiosa all’interno della stessa organizzazione politica. Per lui, è un atto rivoluzionario inaccettabile che qualcuno si opponga alla religione valida e unica consentita sulla base delle proprie convinzioni religiose private, perché in questo modo viene messa in discussione la sopravvivenza stessa dello Stato e il suo normale funzionamento. Pertanto, ciò che è generalmente buono e ciò che è cattivo per la società e lo Stato è deciso solo dal monarca. La coscienza morale consiste nell’obbedienza al monarca.

Thomas Hobbes, tuttavia, in seguito ammise alcune limitazioni all’assolutismo reale e ritenne che ogni potere fosse giusto se serviva il popolo e che questo potesse essere in ultima analisi anche una repubblica (Commonwealth), ma guidata da una figura di fatto assolutista (ad esempio Oliver Cromwell). La teoria dello Stato di Hobbes passò dall’interpretazione teologica medievale a quella antropologica dell’origine e dei fondamenti dello Stato. L’insegnamento di Hobbes sull’emergere dell’organizzazione statale basata sui contratti e sulla comprensione che la vita sarebbe stata migliore e più sicura nello Stato era contrario alle interpretazioni teologiche medievali e alla comprensione dello Stato, che identificavano gli obiettivi della classe feudale dei grandi proprietari terrieri con gli obiettivi divini. Molti filosofi hanno visto la teoria dello Stato di Hobbes come la dottrina dello Stato totalitario moderno. Tuttavia, la filosofia politica di Hobbes è essenzialmente individualistica e razionalistica.

Dr. Vladislav B. Sotirovic

Ex professore universitario

Ricercatore presso il Centro di studi geostrategici

Belgrado, Serbia

© Vladislav B. Sotirovic 2025

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Thomas Hobbes and his political philosophy

Historical, philosophical, and social foundations of Thomas Hobbes’ political thought

With his views within the history of political philosophy, the English political theorist Thomas Hobbes (1588–1679) became a classic representative of the school of English empiricism. He built a comprehensive political science system based on the basic thesis that in the real world, there are only individual material bodies. With this view, Hobbes began a war against the prejudices of medieval realism, for which concepts were the true reality, while things were merely derived from them. It is important to note that Hobbes believed that there were three types of individual bodies: 1) Natural bodies (i.e. bodies of nature itself that do not depend on man and his activities); 2) Man (both a body of nature and the creator of an artificial, i.e. unnatural, body); and 3) The State (an artificial body as a product of man’s activities).

Hobbes’s most important political science work is Leviathan (1651) [full and original title: Leviathan or the matter, form and authority of government, London] in which he elaborates his philosophical views on the third body, i.e., the state, of course, in the context of the time in which he lived and witnessed. In short, in this work, Hobbes elaborated on the view that the natural state of life of the human race is a war of all against all (bellum omnium contra omnes). According to him, this view is followed by a natural law that leads to the overcoming of such a state and the creation of the state (i.e. political organization) through a social contract between citizens and the government, but also a contract that finally recognizes the indivisible and unlimited power of the sovereign (king) in the polity (state organization) for the protection of citizens and their rights. In other words, citizens voluntarily give up a (large) part of their natural freedom, which they transfer to the state for the purpose of protecting themselves from external and internal enemies. This would be a political form of voluntary and contractual “escape from freedom” that was masterfully deciphered by the German philosopher Erich Fromm (1900–1980) in his eponymous work Escape from Freedom (1941), using the example of German society during the era of National Socialism.

The social and historical foundations of Hobbes’s political thought were the frequent civil wars in England, in which King Charles I Stuart (1625–1649) lost both his crown and his head (which was cut off with an axe), the emergence of two political currents in the Parliament of England, in fact later parties – the Tories (conservatives) and the Whigs (liberals), as well as the proclamation of the Commonwealth (i.e., a republic, or “welfare state”, 1649–1660) but with the dictator Oliver Cromwell (1599–1658), who from 1653 bore the title of “Protector” (“Protector of England, Scotland and Ireland”). At that time, English capitalist and even colonial-imperialist development required protection from an extremely strong and all-powerful state in the form of a monarchy, i.e., royal absolutist power.

Basically, Thomas Hobbes did not criticize the current socio-political system, but rather tried to consolidate it and strengthen it as much as possible so that the entire state with its citizens could function as well as possible and be as efficient as possible, which would be for the benefit of all citizens who first enter into a contract on bilateral relations among themselves and then with the state. Even from a European perspective (civil wars between Protestants and Catholics), given that an atmosphere of fear and personal insecurity prevailed throughout Western Europe, Hobbes desired peace, security, and the protection of private property, so that to this end he became a pronounced statist, i.e., a supporter of the strongest possible state power over individual citizens.

In the late European Renaissance and early modern period, the strengthening of monarchical power through the development of enlightened monarchical absolutism (despotism) was an expression of the need for social and state unity and harmonious functionality in order to avoid medieval political anarchy, polytheism, and powerlessness. When monarchical absolutism is emphasized, it is generally not because of the illusion of the divine rights of the ruler, but because of the practical conviction that strong political unity can only be achieved within the framework of enlightened absolutist monarchism. Thus, when Hobbes supports the centralist absolutism of the king, he does not do so because he believes in the divine rights of kings or in the divine character of the principle of legitimacy, but because he believes that the cohesion of society and national unity can primarily be achieved in this way. Hobbes believes in the natural egoism of the individual, and a natural consequence of this belief was the view that only a strong and unlimited (absolutist/despotic) central authority of a monarch is capable of restraining and overcoming the centripetal forces that lead to the disintegration of the social community and the dissolution of the state.

Leviathan (1651) – political system (state) according to the contractual state

It should be noted that the starting point of Thomas Hobbes’ political philosophy is the same as that of all other representatives of the so-called “natural law and social contract” school. Hobbes, like many others from the same school, reduces the individual man to the order in nature, and the civil state to the state of a contract between citizens and the state, but which is formed by subjects who, by the very contract with the state (monarch), should become citizens, thus freeing themselves from the position and role of medieval lawless subjects (i.e. those who had only obligations to the government but no rights in relation to the same government) at least according to the liberal political philosophy.

For Hobbes, the basis of human nature is egoism and not altruism, as well as the need for communal life, but not as some kind of drive for communal life (as in wild animals that live in packs), but a need out of purely egoistic interest. In other words, organized political society in the form of a state arises as a result of the fear of some individuals of others, and not as a result of some natural inclination of some individuals towards others. Therefore, the state is an imposed socio-political organization as a product of a rational view of life, i.e., survival, of the human community in order to preserve individual interests, including bare lives. In other words, Hobbes denied happiness and pleasure as elements of the natural state or order. On the contrary, for him, the natural state is dangerous for human existence because it is animalistically cruel and murderous. A state in which everyone wars against everyone. In a natural order that operates according to the (animal) laws of nature (the right of the stronger), the basis of inter-living relations is war based on force and deception.

The next important characteristic of the natural order is the absence of ownership of things and possessions in the sense of the absence of a clear demarcation of what is whose. In other words, everything belongs to everyone, and what is whose depends, at least for a while, on force, robbery, and coercion over others. For Hobbes, all human beings are equal both physically and intellectually, and everyone has a right to everything, striving to preserve this natural right. However, since at the same time they strive to achieve power or at least dominance over others, a war of all against all inevitably occurs, so that human life becomes unbearable. The stronger strive to become even stronger and more influential, and the weaker strive to find protection from the stronger in order to survive. On the one hand, man strives to preserve his natural freedom, but on the other hand, to gain power over others. For Hobbes, this is the dictate of the instinct for self-preservation (freedom + dominance). The human race has the same drive for all things, and therefore, all people want the same things. Therefore, all people are a constant source of danger, insecurity, and fear for others in the brutal drive for survival. Therefore, human existence is reduced to a war of all against all (man is a wolf to man).

For Hobbes, the fundamental natural law is therefore the law of egoism, which directs the human individual to preserve himself with minimal losses and maximum gains at the expense of others. Natural law (ius naturale) is, therefore, the instinct for self-preservation, i.e., the freedom for everyone to use their own strength and skill to preserve their existence. However, the fundamental meaning of the existence of the human individual is the search for security. Therefore, for Hobbes, only interest, and not altruism (the inclination of man to man), is the fundamental natural motive in the search for a way out of the state of nature because it is becoming unbearable. In other words, natural freedom is becoming an increasingly heavy burden on human shoulders that must be endured.

Hobbes opposed the teachings of Aristotle and Grotius that man himself originally has an urge to associate, i.e., a social instinct. Contrary to both of them, Hobbes believes that man is originally a completely egoistic being and possesses only one urge, which is the urge for self-preservation. This urge drives man to realize his needs, to seize as much as possible from what nature itself puts at his disposal and, in accordance with this urge, to expand the sphere of his individual power as much and as far as possible. However, according to the very logic of things, in this intention of his, man encounters resistance from other people who are guided by the same natural (innate) urge, i.e., aspirations, and thus competition, struggle, and war arise between members of the human race, which threaten the physical existence of people. Therefore, if man lives in a state of nature, he is confronted with the reality of the war of all against all, i.e. a war that is naturally caused by the need and strength of the individual and a war in which the eventual lack of physical strength, i.e. superiority, is replaced by cunning and deception according to the principle that the end justifies the means.

The state of nature does not allow human reason to do anything that can in any way physically endanger his own life, as well as to neglect what can best preserve it. Hobbes acknowledges that human nature is such that he is always in conflict with various passions and drives, among which the desire for power is predominant. However, by using reason, man realizes in practice natural laws, among which the basic aspiration for peace is (human personality = conflict of passions and reason). People, following reason and natural laws that strive for man to preserve and ensure peace by all available means, conclude a socially beneficial contract or agreement among themselves. On the basis of such a contract, people within the same living community living in the same living space unite with the aim of forming a stronger community with joint forces on the basis of general harmony, which ultimately turns into a form of statehood that would ensure peace and security for them. Thus, political organization has two basic goals, i.e., functions: the defense of the community from external enemies and the preservation of order, peace, and security within the community itself on the internal level. Thus, a state (Greek polis) is created on the basis of a contract, and politics would be defined as the art of running a state for the purpose of effectively realizing its two basic functions.

Such a (state-forming) contract prevents wars within the same (socio-political) community if the contract is fulfilled, which is in accordance with natural law. The contract imposes on each individual of the community a large number of obligations and duties in addition to rights, the fulfillment of which is necessary for the preservation of peace, order, and security. Thus, an individual, a member of a socio-political community, necessarily loses an important part of his freedom, which he transfers to the state for the sake of his own security and preservation of existence. Here, it should be noted that the law or effect of the development of civilization and the progress of the human race in the historical context is that with the development of civilization, man increasingly loses his natural freedoms and vice versa.

Thomas Hobbes believed that natural laws are, in fact, moral laws. One of the basic moral principles for the efficient and just functioning of the socio-political system, i.e., contracts, is that one should not do to others what one does not want to be done to oneself by others. Moral laws are eternal and therefore unchangeable and therefore universal for all members of a community, so all individuals strive to harmonize their behavior towards others in accordance with such moral laws. However, in the state of nature, these moral laws are powerless since they do not oblige people to behave in accordance with them, but only until real opportunities are created for all other people to be governed by them. Finally, such conditions and opportunities are created by a contract that leads to the creation and functional organization of the state.

Transition from the state of nature to the contractual state of statehood

According to Hobbes, law appears by leaving the state of nature and moving to the contractual state of statehood. Statehood is the institution that enables the creation or definition of private property between members of the community according to the principle of “mine”/“yours”. The state, as an institution, therefore, is obliged to respect the property of others. Unlike the contractual state (civilization), in the state of nature (savagery), there was no reciprocal security or guarantor of that security. By creating the state/statehood as an institution, man renounced those rights that he/she enjoyed in the state of nature. In the state of statehood, man adheres to contracts because this is the only way to ensure peace and, therefore, personal security. Thus, man shifts to fulfilling moral obligations because they contribute to the preservation of personal security.

However, as Hobbes argues, the mere contract/agreement between the members of a community is not sufficient for a state to exist and function. This requires, in addition to the contract, complete internal unity. In other words, in order to form a unified will of people, they must cease to live as independent and separate individuals, i.e., in some way they must “drown” into the general currents of the state community and thus renounce an essential part of their independence, individualism, and natural freedom. Now Hobbes moves on to the main point of his political philosophy, which has its own specific historical background, namely the time in which Hobbes lived, arguing that individuals should retain neither will nor right for themselves because all power should pass to the state as a general and superior institution. Hobbes essentially demands that individuals in a state community be subjects of the state and not citizens of it. Therefore, subjects must obey the commandments/laws of the state because only then can they distinguish good from evil. This transfer of all individual rights and powers to state bodies leads to the formation of (state) sovereignty (suma potestas/sumum imperium).

In this way, according to Hobbes, individuals are connected by a double contract/agreement:

1) A contract according to which individuals associate with each other; and

2) A contract by which, as a social collective (associated individuals), they connect themselves with a state authority to which they surrender all power with an absolute and unconditional obligation and practice of submission to it (in Hobbes’s specific historical time, this specifically meant absolutist royal authority).

The main direct consequence of this double contract is that a single entity is formed from the plurality of individuals under the auspices of state authority. This state authority, or royal absolutist authority over subjects that has support in the church, Hobbes called Leviathan. It is a biblical monster or mortal God who, in Hobbes’s illustration, holds a bishop’s crosier in one hand and a sword in the other, i.e., attributes of spiritual and worldly power. For Hobbes, the state is neither a divine nor a supernatural creation. Man is the rational and most sublime work of nature, and the state-Leviathan is the most powerful human creation. The state itself is an artificial body compared to man, who is a natural body. The soul of the state is the supreme authority, its joints are the judicial and executive organs, the nerves are rewards and punishments, memory is the counselors, the mind is justice and laws, health is civil peace, illness is rebellion, and death is civil war.

Man created the state based on the voice of reason. According to Hobbes, the state is an artificial product of a rational move of the human race and not a natural fact, as many philosophers before him believed, such as, for instance, Aristotle. According to Hobbes, the state exercises absolute sovereignty in such a way that individuals, i.e., subjects, are alienated in the state itself, that is, they renounce their natural right and condition. In other words, by the very fact that individuals have concluded an agreement to submit to the absolute state power they have chosen, they renounce their rights, which they alienate by transferring them to the sovereign. The relationship of the individual to the state is in the form of political alienation of man in the sovereign, instead of the medieval alienation in God.

Government and its forms

Hobbes believed that his theoretical system of government could be applied in practice to all forms of state power. Specifically, for him, there were three forms of state power in their pure form: Monarchy (which he preferred); Aristocracy; and Democracy. He also allowed the establishment of parliament, but under the condition of a strong and unlimited monarch’s power. The function of such a monarch’s power is to abolish the “natural state” of the human race, i.e., the general war of all against all, with its comprehensive authority and total power, and thus ensure peace and individual security for all members of the socio-political community, i.e., the state. Freedom as the basic form of democracy leads to rebellion, anarchy, and disorder. Hobbes further believes that the monarch’s supreme power must be primarily of a sovereign character, which for him specifically meant that it should not be subordinated to any external authority (domination), subject to any law outside the law of the monarchy, whether natural or ecclesiastical.

However, in the final analysis, monarchical power, at least theoretically, was not totally unlimited, since the right to exist was for him the only right that allowed for a limitation of supreme power, i.e., obligatory submission to the sovereign. This is because the foundation of state power in any form was laid on the basis of existential survival and self-preservation. This form can in principle be monarchical, aristocratic, or democratic, but in no way mixed, i.e., the division of power between individual organs. In any case, power must be exclusively in the hands of the organ to which it is handed over. In this case, Hobbes denies the basic principle of modern democratic power, which is the division of power into legislative (parliament), executive (government), and judicial (judicial organs).

It should be noted that Thomas Hobbes was a bitter opponent of the revolution, believing that crafts and trade, and therefore, in his socio-political conditions, the rising capitalist production, would flourish under the conditions of an all-powerful state administration in which all disagreements and political struggles would be eliminated. He believed that everything that contributes to the common life of people is good and that everything that helps to maintain a strong state organization should be supported. Outside the state, passion, war, fear, and brutality reign (i.e., the state of nature), while reason, peace, beauty, and sociability reign in the state organization (i.e., civilization).

The object of the care of the state administration (absolute monarchy) must be the wealth of the citizens (i.e., subjects) created by the products of the land and water (sea), as well as work and thrift. The duty of the state is to ensure the well-being of the people. Hypothetically, the interests of the monarch should be identified with the interests of his subjects for the state to function optimally.

Synthetic remarks

Thomas Hobbes’s doctrine of the omnipotent power of the enlightened absolutist monarch is a product of a time when there was a strong need to organize a centralized and absolutist state (centripetal) organization that could, above all, successfully resist papal universalism but also serve the development of capitalism and the limitation of feudal (centrifugal) elements. From a purely economic point of view, the absolutist monarchy at that time and in the following century corresponded to the interests of the capitalist bourgeoisie and its efforts to create a large internal economic market without regional-feudal taxes and sales taxes. In this way, on the other hand, national unity would automatically be created as a guarantor of the functioning of the economy within the national framework (a single state).

Hobbes believed that the terrible natural state of war of all against all could be overcome because, in addition to passions, there is also reason in man, which teaches people to seek better and safer means for their biological, material, economic, and general life than those that lead to war of all against all. In other words, in order to ensure social peace and individual security, each individual in society must renounce the unconditional right that he/she possesses in the state of nature. Ultimately, man does this because his/her instinct for self-preservation dictates it. By this renunciation, man renounces and partakes of his natural freedom, i.e., the freedom given by natural law, because the entire social community submits to the general contract to live in a political community-state. Although all individuals accept such a contract/agreement, they do so in principle for purely egoistic reasons, but reason dictates that they do so and therefore obey certain basic virtues without which the survival of the state would be impossible (fidelity, gratitude, kindness, indulgence, etc.). Outside the state contract, i.e., the state, there are affects, war, fear, poverty, filth, loneliness, barbarism, etc. Unlike the state of nature (i.e., the state of the jungle, uncivilization and barbarism, but also total freedom in the banal sense), statehood is characterized by reason, peace, security, wealth, luxury, science, art, etc., but with the condition of drastic restriction and even abolition of natural freedoms.

Only with the formation of a state organization does the distinction between right and wrong, virtue and vice, good and evil arise. For Hobbes, the conclusion of a state-forming contract among members of a social community can be tacit, that is, informal. In any case, the conclusion of a state contract for Hobbes is of historical importance because it separates pre-history from history itself. In other words, as for many other researchers of the history of mankind, the transition from the state of the jungle (anti-civilization) to the state of statehood is also the transition to civilizational development and history in general. On the one hand, Hobbes quite correctly understood the nature of the original state of nature, but he could not explain the emergence of the state outside the framework of the social contract.

What is important to note about Hobbes’s theory of contract is that he believed that by concluding a social-state contract, the individuals who concluded it automatically transfer all their power and their rights to the state administration, i.e., the absolutist monarch. The state becomes omnipotent, despotic, and absolutist, and therefore, resembles the mythical biblical monster Leviathan. The contractual transfer of power from the individual to the state must be unconditional, and therefore, the state power itself must be unconditional. To be such, power must be in the hands of only one man, and that is the absolutist monarch who is both the sole administrator and the supreme judge. Thus, Hobbes derived from his contract theory the necessity of absolute monarchy as the only form of state administration that fully corresponds to the intentions of the social contract itself. Absolute monarchy also has other advantages over other forms of political organization that make it the best form of government. Thus, for example, in an absolute monarchy, power can be abused by only one person, in an aristocracy by several families, and in a democracy by many (here Hobbes does not distinguish between the possible depths of abuse and corruption). Furthermore, in an absolute monarchy, party struggles are more easily neutralized, and in the ideal case of total despotism, party and political struggles do not exist because there is a complete unity of society, state, and politics under the rule of one person. State secrets are also easier to keep in absolute monarchies.

An absolute monarch must also have absolute power, i.e., absolute right in all political-legal and moral relations in the state (“The state, that is me”!). The monarch (in Hobbes’ case, the king) is the one who has both the first and the last word in all ecclesiastical, religious, and moral matters. Thus, the monarch determines how God is to be worshipped; otherwise, what would be worshipable to one person would be blasphemous to another, and vice versa. Thus, society within the same state would be divided into hostile parties and would wage a struggle between these parties on religious issues (like, for instance, the Holy Roman Empire during the religious wars in the 16th and 17th centuries). In other words, Thomas Hobbes was a great opponent of any religious tolerance within the same political organization. For him, it is an unacceptable revolutionary act for someone to oppose the valid and only permitted religion based on their private religious convictions, because in this way, the very survival of the state as well as its normal functioning is called into question. Therefore, what is generally good and what is bad for society and the state is decided only by the monarch. Moral conscience consists in obedience to the monarch.

Thomas Hobbes, nevertheless, later allowed for limitations on royal absolutism, and believed that every power was just if it served the people, and that this could ultimately be even a republic (Commonwealth), but headed by an in fact absolutist figure (e.g., Oliver Cromwell). Hobbes’s theory of statehood turned from the medieval theological to the anthropological interpretation of the origin and foundations of the state. Hobbes’s teaching on the emergence of state organization based on contracts and the understanding that life would be better and safer in the state was contrary to medieval theological interpretations and understandings of the state, which identified the goals of the feudal class of large landowners with divine goals. Many philosophers have seen Hobbes’ theory of the state as the doctrine of the modern totalitarian state. However, Hobbes’s political philosophy is essentially individualistic and rationalistic.

Dr. Vladislav B. Sotirovic

Ex-University Professor

Research Fellow at Centre for Geostrategic Studies

Belgrade, Serbia

© Vladislav B. Sotirovic 2025

www.geostrategy.rs

sotirovic1967@gmail.com

Sempre i soliti, di Teodoro Klitsche de la Grange

SEMPRE I SOLITI

Le ultime occasioni di dibattito pubblico interno e cioè quella sulla patrimoniale e l’altra sulle esternazioni a tavola dall’on. Garofani hanno un carattere comune: di manifestare le costanti di comportamento del centrosinistra italiano. Di guisa da renderle verosimili, anche se non fosse stata (quella sulla necessità d’impedire la vittoria della Meloni alle prossime elezioni politiche) confermata dall’esternatore.

Cos’ha detto l’on. Garofani? A quanto si legge sui giornali che, a distanza di meno di due anni dalle elezioni non c’è tempo per trovare un candidato-premier idoneo, onde per battere la Meloni servirebbe “un provvidenziale scossone”.

Prospettiva preoccupante perché negli ultimi anni gli scossoni sono stati non dipendenti dalla volontà degli italiani e delle forze politiche nazionali, ma ricordano i quattro cavalieri dell’Apocalisse: la peste (il Covid); le guerre (Ucraina e Gaza), e queste due guerre ci hanno riportato la morte. Manca la fame, ma non è escluso che, con gli auspici dell’on. Garofani, non si rifaccia viva, per propiziare la fuoriuscita della Meloni. In fondo cos’è una piccola carestia, a fronte di un risultato così provvidenziale (per il centrosinistra)?

Che buona parte dei dirigenti pubblici nominati dai governi precedenti cerchino di sdebitarsi, remando contro il governo, e diventando così dei partisan (senza la bi) è evidente, ma conoscendo il dettato dell’art. 97 della Costituzione, cercano di farlo sotto traccia, senza chiacchiere da bar o da salotto.

Ai tempo della Riforma, si chiamava nicodemismo. Invece Garofani ha contraddetto questa prassi e il consiglio di Machiavelli di parere (e non di essere) buono, devoto, legale, legittimo, ma soprattutto imparziale come prescrive l’art. 97 della Costituzione.

Una delle conferme che può quindi trarsi da questa vicenda, del tutto in linea con i precedenti (i ribaltoni anti-Berlusconi del 1994 e del 2011) è che, come scriveva Pareto, le classi dirigenti in decadenza si servono più dell’astuzia che della forza: manovre di corridoio, inciuci, finti scandali e vere calunnie sono gli espedienti preferiti per mantenersi al potere. Ciò per compensare la riduzione del potere (e dell’esercizio della forza) conseguente allo scemante consenso dei governati.

In questo Garofani ha perfettamente ragione: una legge elettorale, abilmente sfruttata, può capovolgere i risultati di una votazione persa o dubbia. Come avvenuto nel 1996 e nel 2006.

Anche l’altro tormentone mediatico sulla patrimoniale è in linea col pensiero del P.D. e non solo, come detto, con quello comunista. Se così fosse, ci sarebbe meno da preoccuparsi, perché finito il comunismo non resterebbe che aspettare la fine delle conseguenze.

Ma purtroppo non è così, confermato dalle recenti vicende italiane e dal sistema fiscale la cui maggior imposta patrimoniale, cioè l’IMU, è stata decisa dal governo Monti, non comunista, anzi tutt’altro, “tecnico” e non “politico”. I cui mediocri risultati e le politiche che li hanno causati sono stati continuati dai governi di centro sinistra che li hanno fatti propri. Come ritenuto dal pensiero politico economico realista (e liberale) dell’ultimo secolo (abbondante) la finanza pubblica può essere predatoria, parassitaria o anche mutualistica.

Di tali tipi non ripeto i criteri distintivi, resta comunque la stretta vicinanza tra assetto predatorio e imposta patrimoniale accomunati dal fatto che come in quello lo sfruttamento dei governati è tale da intaccare la capacità contributiva in misura superiore al reddito ricavabile (e così peggiora la situazione economica dei sudditi); nella seconda, proprio perché rapportata al patrimonio e non al reddito la suddetta conseguenza è del tutto irrilevante sul gettito ricavato.

Quindi per le classi dirigenti una rendita assicurata che la sinistra giubilante associa alle solite belle parole come sempre proclamate perché nascondono pessimi comportamenti.

E proprio questa è la novità del caso Garofani (almeno): che pratiche del genere sono tenute rigorosamente riservate, e se possibile segrete. Mentre il consigliere del Quirinale le ha tranquillamente esternate in allegra compagnia: per un congiurato (lo si sarebbe chiamato, in altri tempi) atteggiamento quanto mai imprudente.

Teodoro Klitsche de la Grange

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COMPAGNI DI SCUOLA – Usa scontro finale – Gianfranco Campa

Trump sempre più assillato da un dilemma che si sta trasformando in una trappola. Deve mantenere in piedi una amministrazione basata su due forze sempre più manifestamente avverse. Il gioco dello scompaginamento continuo delle carte, di una tessitura sotterranea stridente con la narrazione pubblica sta sfuggendo di mano verso una condizione schizofrenica. Trump sta rischiando di perdere il sostegno di MAGA, per meglio dire di quello che ne rimarrà, della forza della quale è espressione. Come in Ucraina gli Stati Uniti si arrogano la posizione di arbitro-giocatore-mediatore, così Trump si trova nella posizione imbarazzante di padrino di MAGA-mediatore tra MAGA e neocon. I vari centri decisori, in gran parte disarticolati, tendono ad agire sempre più per proprio conto e con prospettive opposte. Gli Stati Uniti sono ad un passo dal subire una rivoluzione colorata devastante al proprio interno e dall’avventurarsi in crescenti provocazioni militari all’estero. A meno che……dal cappello sul capo dal ciuffo rosso non esca a sorpresa il coniglio. Mah!_Giuseppe Germinario

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Il pacco, di WS

Con grandi fuochi d’ artificio Trump ha “lanciato” il suo ennesimo “piano di pace per l’Ucraina nel momento stesso che è sempre più evidente che il fronte ucraino sta cedendo , e lo scopo mi sembra evidente : “ congelare il conflitto” dichiarando che la Russia abbia “sostanzialmente” vinto .

E questo chiunque può vedere che sia solo un “pacco” per la Russia.

Infatti per la parola “pacco” il dizionario dà la definizione “Involto ben legato o confezionato apposta per la spedizione o la vendita” e nel mondo di oggi ogni vendita viene sempre sostenuta da una apposita campagna.

Così noi, di questo nuovo “piano Trump per l Ucraina “, abbiamo questo nuovo lancio “all’ americana”.

Innanzitutto sul “ prodotto” si crea “l’ attesa”: il prodotto sarà meraviglioso e definitivo.

Poi se ne conclama la genuità: il “piano Trump” e “russo-americano”, sebbene i russi dicano di non saperne molto. Però sarebbe stato “confezionato” direttamente dai due “inviati personali” di Trump e Putin , cioè un oligarca americano e un oligarca russo-americano.

Poi se ne descrive la qualità: il “piano Trump” impone la “ capitolazione” dell’ Ucraina ed è quindi una “vittoria russa” . E quale ne sarebbe la prova ? Ma è ovvio, la “rivolta” degli €uroascari al piano del loro padrone e le grida del burattino-capo a Kiev , in una raffinata variante del solito “ bad cop , good cop”

Infine se ne proclama il carattere di assoluta urgenza per cui “l’ acquirente” deve precipitarsi a comprare “il pacco” così come esso viene pubblicizzato. Il “prodotto” è imperdibile e va preso subito senza esitazione perché poi si adombrano anche delle “punizioni” per aver rifiutato un offerta tanto generosa ed irripetibile.

Ma a chi è mirato questo “prodotto”? E’ evidente che esso sia mirato alla opinione pubblica russa e soprattutto alla elite russa. Ci sono infatti segnali di problematiche interne che definiscono un certo grado di stanchezza soprattutto nella oligarchia economica russa di cui Dimitrev , “il negoziatore” russo-americano, è un esponente,

Questa oligarchia ha fretta di tornare a fare affari con “l’ occidente” e gradirebbe una qualche “pace” dichiarata come “vittoria russa” in maniera tale che l’ ala patriottica che sostiene la guerra se ne dichiarasse soddisfatta, ma…

Sorpresa! Se si apre “il pacco” si vede subito a che cosa esso mira. Esso mira ad un semplice “armistizio” che eviti il crollo della NATO-Ucraina, di fatto non solo salvando il regime NATO a Kiev , ma dotandolo di garanzie NATO ”automatiche”; in sostanza, quando la NATO sarà pronta a riprendere la guerra, basterà per questo, come al solito, una semplice provocazione di Kiev.

“Il pacco” quindi è solo un’altra “Min(s)kiata” in cui nessuna promessa sarà mantenuta e gli spazi di reazione russa a questa nuova presa in giro saranno stati notevomente ridotti dal fatto che con il “cessato il fuoco” le truppe NATO entreranno ufficialmente in Ucraina sotto vari pretesti , cosa che adesso non osano fare per non farsi dichiarare coobelligeranti. La Russia del “legalista” Putin non oserebbe di certo bombardarle dopo aver firmato la propria “vittoria “.

E qui nasce la domanda : perché mai il Kremlino non tuona contro questa ennesimo tentativo di fregare la Russia ? Putin è debole ? O addirittura Putin è complice?

Allora sgombriamo il campo al ritorno di simili sciocchezze . Non solo Putin , se mai lo sia stato, non può essere più “ complice” perché non c’ è ritorno dall’essere stato proclamato “ male assoluto” , ma anche Putin non è debole : è prudente.

Prudente perché conosce la propria debolezza e in primis l’inaffidabilità degli oligarchi russi suoi “alleati”, sempre da lui “beneficiati” seppur solo alle SUE condizioni.

Per questo manda in giro questo Dimitriev e si tiene l’inetta Nabulina , secondo il noto precetto del “ Padrino” : “gli amici tienteli stretti, ma i nemici anche di più”.

La risposta di Putin a questi “pacchi” non può quindi che essere la solita : cercare sempre queste “min(s)kiate” ed accettarle solo nell’ ambito della sua solita strategia attendista, rimanendo “ candido come colomba”, operando da “astuto come serpente”

Quindi anche se di questo ennesimo “pacco” potrà accettare molte cose, io dubito che si farà fregare così platealmente.

Questo è un teatro delle ombre in cui ognuno cerca di apparire quello che non è in attesa che i FATTI disvelino la realtà. Putin ha certamente tanti problemi ma può ancora aspettare, Trump e “l’ occidente collettivo “no.

In conclusione io ritengo che questo nuovo “pacco” , questo ritorno allo “spirito di Anchorage”, farà la fine del precedente con l’ unico vantaggio che avremo dato un altro “ calcio al barattolo”.

Il che non è poco.

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Cuius Regio Eius Religio_di Ernesto

Cuius Regio Eius Religio

Inizio questo contributo, in prosecuzione degli interventi di WS e Massimo, con riferimento al principio stabilito nella Pace di Augusta del 1555 ma che troverà definitiva conferma nel 1648 con la Pace di Westfalia perchè, a mio avviso, il 1648, la pace predetta e la decapitazione di Carlo Primo d’Inghilterra di un anno dopo (1649) segnano una chiave di volta essenziale per l’Europa nel suo complesso.

Ritengo (e la mia è una argomentazione  che potrà non essere condivisa o smentita essendo disposto a rivedere il ragionamento) che questi due eventi pongano fine, definitivamente, a quel progetto mai completato ma comunque sempre riproposto, di unificare l’Europa in prosecuzione della Romanità imperiale che si era dissolta nel 476 D.C..

Un progetto che vedeva la Chiesa cattolica Apostolica e Romana, sul presupposto della Donazione di Constantino (donazione poi falsa) quale successore nel potere Romano e quindi Imperiale: progetto che tra la dissoluzione dell’Impero d’occidente e la notte di natale dell’800, aveva vissuto alterne fortune guerre e contrasti che avevano messo a ferro e fuoco anche e, forse soprattutto, la penisola italiana.

Nella notte di natale dell’ 800 d.c., quindi, nasce il sacro Romano Impero che, però, alla morte di Carlo Magno, viene già suddiviso come ha acutamente osservato l’amico WS e, tuttavia, nei quasi mille anni successivi,  quel progetto torna comunque  a essere perseguito con lotte, guerre e frizioni di teste coronate che, comunque, ambiscono al titolo di Imperatore del sacro Romano Impero.

Chiariamoci: l’unità Imperiale, nei fatti, dopo Carlo Magno non fu mai raggiunta ma, comunque, il titolo, forniva quell’influenza capace di indirizzare le scelte, le successioni, i matrimoni e le dinastie, nei vari regni che ne facevano parte e nei quali, la “religio” cristiana, cattolica, apostolica e romana, svolgeva un ruolo di legittimazione al predetto potere imperiale: nel mezzo lo scisma d’oriente che divide cattolici da ortodossi, la riforma protestante nonché lo scisma Anglicano di Enrico VIII che, seppure con una analisi semplicistica, costituiscono elementi delle evoluzioni che porteranno alla suddetta pace di Westfalia.

Tutto questo processo si chiude nel 1648 con la Pace  de quo e nel 1649 con la decapitazione di Carlo Primo a Londra che, a dispetto di quanti credono che il primo Re a perdere la testa in una “rivoluzione” fosse Luigi XVI in Francia, dovrebbe essere letta come l’inizio di quella trasformazione della società medievale/mercantilista, in società embrionale del capitalismo moderno nel quale una nuova classe sociale, la borghesia, afferma il diritto all’esercizio del potere: processo iniziato a Londra in anticipo sui tempi rispetto al resto del continente occidentale e che, in Francia, si realizza nel 1789 con la Rivoluzione.

Quindi si può affermare che, dopo il 1648 inizia quell’evoluzione politico/sociale/economica e, anche, antropologica, che produrrà i seguenti effetti: l’Inghilterra procede a passo spedito verso la creazione di quello che sarà l’impero Inglese e l’Europa continentale, procede a disegnare quelli che diverranno, seppure con mutevoli confini, gli stati nazione.

Un processo che si chiude nel 1870 con la guerra franco/prussiana che archivia, secondo me definitivamente, le ambizioni francesi all’egemonia globale che diventano, per contro, ambizioni germaniche dopo avere archiviato, ben prima, le ambizioni spagnole in tal senso.

Si può quindi ire che, tra il 1648 ed il 1945, si assiste alla nascita ed al declino dell’Egemonia Inglese sull’Europa e sul mondo, che seppellisce in sequenza Spagnoli, Francesi e tedeschi con i quali, per ultimi, ottiene una vittoria ma non senza passare lo scettro ai cugini a stelle e strisce che sostituiscono l’impero inglese in una nuova realtà globale divisa in blocchi: l’impero Usa si concentra sull’Europa al di qua della Cortina di Ferro.

Quindi potremmo dividere il suddetto periodo in due fasi: 1648/1870 sviluppo dell’impero Inglese nell’evoluzione degli stati nazione; 1870 /1945, inizio declino Inglese e archiviazione delle ambizioni Germaniche con sostituzione degli Inglesi con gli Americani quale potenza Imperiale ad Occidente della neonata Cortina di Ferro.

I due periodi suddetti sono attraversati dal pensiero illuminista, liberale, hegeliano e poi marxiano di pari passo con le coperte scientifiche che trasformano l’economia ed i rapporti sociali: tra il 1648 ed il 1870 le aristocrazie mutano il loro rapporto con i sudditti per ragioni economico/produttive e quindi sociali/antropologiche e, poi, tramontano definitivamente tra il 1870 ed il 1945: all’esito di questo periodo, di pari passo con l’affermarsi del capitalismo moderno, i privilegi  e le prerogative dell’aristocrazia o meglio di quella che sopravvive, non hanno niente a che fare con le caratteristiche ante 1648.

Quindi, in qualche modo, l’Europa moderna e figlia della Pace di westfalia e da li, prendiamola con la dovuta approssimazione, si realizzerà, l’Italia unita prima e repubblicana poi.

Non è questa la sede per commentare l’eterogenesi dei fini di questa unità e della sua forma repubblicana ma, in questa sede, voglio solo dire che, quanto meno sotto il profilo della continuità territoriale caratterizzata da un linguaggio comune con forti legami con il latino ed un comune sentimento religioso che, figlio comunque della “familia” romana e latina e dello “ius” sempre romano, sono o, almeno, erano i tratti distintivi delle tradizioni e della cultura Italiana.

Caso mai, forse, dovremmo interrogarci sull’abbandono di tali tradizioni per influenze esterne e di come recuperarle all’interno di una cornice “repubblicana” che costituisca quel contenitore del concetto di “Patria” tale da ispirare l’appartenenza, appunto, degli Italiani ad essa.

Le forme di questa “Repubblica” intese come forma di governo e di Stato/Nazione, possono essere le più disparate e non sono certo io, uomo qualunque, a poter indicare quale sia la migliore.

Ma se il pensiero di Preve e di La Grassa mi hanno insegnato qualcosa è che, senza rinnegare il passato, ci si deve confrontare con la realtà odierna e partendo dalla comprensione del  passato, si devono aggiornare le teorie e le prassi per adattarle al presente in ottica futura.

Insomma, come dice l’amico WS: bisogna fare i conti con il passato e questo, aggiungo io, anche a rischio di essere considerati “revisionisti” (accusa che spesso mi viene mossa) anche se, in fin dei conti, non è mica detto che il revisionismo sia sempre e del tutto negativo.

Quindi lo dico assumendomene la responsabilità: revisione dell’analisi storica sul passato nostro Italiano all’interno di una cornice globale per costruire il pensiero, la teoria del  presente e tradurla in prassi per costruire il concetto di “Patria” che, mi associo a Massimo, deve essere ovviamente Repubblicana.

Che poi, ci siano i rischi di un suo uso distorto come è già stato (WS docet) è verissimo.

Ma compito di chi sa pensare ed agire, è quello di creare i pesi e contrappesi con contromisure per impedirlo.

Come?

Bhe, forse, la risposta a questa domanda va oltre le competenze di chi scrive.

Mi limito a dire che, là fuori, nella realtà di tutti i giorni, io percepisco un vuoto (la diserzione dell’urna né è un segnale anche se, per certi aspetti, non è negativo) ed i vuoti, prima o poi, vengono riempiti.

Si tratta di capire da chi e per che cosa e se la “Patria” possa giocare un ruolo in questo “riempimento” e questa volta, ovviamente, con adeguate tutele dall’eterogenesi di fini.

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Il Documento di Crosetto: Una Mappa Strategica per Navigare nell’Arcipelago delle Minacce Ibride_di Cesare Semovigo

Il Documento di Crosetto: Una Mappa Strategica per Navigare nell’Arcipelago delle Minacce Ibride

Di Cesare Semovigo italiaeilmondo.com / X @italyworld

La doppia lettura di un testo strategico e di malcelata impulsività italica

Il documento presentato dal ministro Guido Crosetto si configura come un testo denso, carico di significati stratificati e malcelata impulsività italica, che richiede una decodifica ad alto livello. Come un iceberg, appare in superficie solo una frazione del suo valore reale, mentre la sua essenza più profonda si cela nel meta-testo che, in modo calibrato, parla più agli alleati che ai nemici e lo fa in una proporzione stimabile in circa 60 a 40. Leggerlo con strumenti di Open Source Intelligence (OSINT) e di analisi militare avanzata significa trasformarlo in una mappa indispensabile per orientarsi nell’arcipelago complesso e minaccioso delle guerre ibride del XXI secolo.

L’espressione “viviamo in un’era di instabilità senza precedenti”, presente nelle prime pagine del documento, non è un mero dato di fatto o una retorica di rito. Funziona da ancora emotiva, evocando nelle menti un senso di vulnerabilità esistenziale che legittima e giustifica misure straordinarie di sicurezza e difesa. Dietro questa scelta lessicale, si nasconde una velata critica all’attuale ordine mondiale liberale, ormai percepito come inadeguato a fronteggiare le sfide di un mondo multipolare, iperconnesso e radicalmente instabile. Più che un annuncio, questa frase è un invito a prepararsi a un cambio radicale di paradigma sulle politiche di sicurezza[1][2].

Il contesto geopolitico e la genesi del documento**

Non si può capire il documento di Crosetto senza contestualizzarlo nel teatro di tensioni geopolitiche che agitano l’Europa e l’Occidente negli ultimi anni. La guerra in Ucraina ha segnato una cesura decisiva, mostrando con brutalità come anche l’Europa, considerata spesso un’isola tranquilla, possa essere teatro di conflitto e fragilità sistemica. Intorno si aggiungono faglie geopolitiche nel Mediterraneo e la netta competizione tecnologica con la Cina, che approfondisce il senso di urgenza nella revisione della sicurezza nazionale ed europea.

Il documento utilizza con intelligenza la definizione di sicurezza “ibrida, fluida, pervasiva”, un “reframe” semantico che amplifica la complessità e mutabilità della minaccia, imponendo una visione olistica che rompe definitivamente con vecchi schemi militari settoriali. Non più solo eserciti o missili, ma una commistione di cyberattacchi, disinformazione, pressioni economiche e manipolazione sociale.

Tra questi aspetti emerge con concretezza la questione drammatica della sicurezza delle infrastrutture fisiche, un tema a lungo sottovalutato in Italia. I cavi sottomarini, metaforicamente definiti “sistema nervoso dell’economia digitale”[6], sono stati oggetto di cessioni strategiche a investitori esteri, in particolare cinesi, che hanno acquisito quote rilevanti in Sparkle, la controllata internazionale di TIM, nel 2016 per circa 250 milioni di euro. Queste vendite, avvenute fra il 2015 e il 2020 sotto governi Renzi e Gentiloni, hanno indebolito la sovranità italiana su asset critici, aprendo vulnerabilità pericolose per la sicurezza nazionale. Un simile disinvestimento è stato fatto anche nel settore energetico e delle infrastrutture, e oggi Crosetto ne dà atto ufficialmente.

L’idea che la territorialità digitale passi anche per il controllo di strutture fisiche come i cavi o le reti è una presa di coscienza tardiva che emerge con forza dal documento. D’altro canto, la privatizzazione selvaggia di TIM, iniziata alla fine degli anni ’90 e conclusa nei primi anni 2000, ha trasferito il controllo di infrastrutture vitali a soggetti con priorità finanziarie, e non strategiche. Oggi la rete TIM vale oltre 15 miliardi di euro, ma il suo valore reale come pilastro di sovranità digitale è incalcolabile.

Meta-narrazione e messaggio celato agli alleati

Il nucleo nervoso del documento risiede nella sua narrazione sottesa, di cui sono destinatari principalmente gli alleati europei ed occidentali. Il messaggio scorre sotto la superficie, solcando con forza i passaggi chiave ma presentato con una discrezione tipica di comunicazioni strategiche di alto livello. Output di un’analisi semiotica e di formato PNL avanzata evidenzia come il richiamo all’unità “solo insieme possiamo affrontare queste sfide epocali” sia un appello diretto ben più che retorico.

L’uso del termine “epocali” aumenta la gravità dell’appello, suggerendo che la divisione tra Stati membri è oggi un lusso che nessuno può permettersi. Questa espressione contiene un “meta-messaggio” critico verso egoismi nazionali e liti di cortile.

Soprattutto, il richiamo alla cooperazione industriale deve essere letto attentamente. Apparentemente un generico auspicio di collaborazione, diventa una missiva indiretta a potenze come Germania e Francia affinché superino la frammentazione industriale e tecnologica che mina l’autonomia europea, favorendo invece programmi multinazionali come la EDTIB (European Defence Technological and Industrial Base)[4]. È un messaggio che si inserisce in una realtà di mercato: Leonardo, fiore all’occhiello italiano, ha subito un calo di valore azionario di circa 3,4% nel primo semestre del 2023[1], a causa non solo della domanda contratta ma soprattutto per la latitanza di una visione strategica paneuropea che manca di coordinare ricerca, finanziamenti e indirizzi produttivi.

Il caso Panther KF51[2], esempio paradigmatico di questa disarmonia, è emblematico: nato da una joint venture tedesco-francese, con un budget iniziale stimato in 1,2 miliardi di euro, ha escluso efficacemente Leonardo dalle fasi decisionali chiave. Una marginalizzazione che segna l’italia come attore di secondo piano nei futuri programmi d’armamento europeo, a grave rischio di perdita di autonomia strategica.

Il documento, in forma celata, rivoluziona inoltre il modo di concepire l’alleanza atlantica: definire “l’Europa padrona del proprio destino” è un preciso segnale politico nei confronti degli USA, affermando implicitamente il desiderio (e la necessità) di una maggiore indipendenza, bilanciata da un’intesa più paritaria e autonoma nell’integrazione ai sistemi occidentali.

Screenshot

Un moto evolutivo indispensabile: formazione e competenze tecnologiche

Qui emerge la critica più ferma verso la realtà italiana. Crosetto evidenzia la vastità delle minacce nei “campi di battaglia” ibridi, con termini come “cyberspazio”, “spazio”, “infosfera” che, pur evocando innovazione e urgenza, restano un appello generico senza indicare con chiarezza le riforme strutturali necessarie. L’Italia soffre di un deficit formativo enorme: solo 2.500 laureati in cybersecurity ogni anno, contro 15.000 in Germania e 12.000 in Francia. Questa forbice si traduce inevitabilmente in incapacità di risposta “state of the art” nei servizi di intelligence e difesa cyber. 

L’ambizione di “investire nella sicurezza come mai prima d’oggi” implica dunque ben più della mera dotazione finanziaria. Serve un cambio culturale e operativo, con dettagliata programmazione di **counter-intelligence**, formazione coraggiosa e attrazione di talenti da settori privati ad alto contenuto tecnologico. Si rende necessario creare centri di eccellenza che, pur prendendo ispirazione da modelli come le cyber academy israeliane o i centri di formazione NSA, mantengano un’originalità strategica e culturale italiana, capace di integrare diplomazia e intelligence in modo unico, soprattutto in aree critiche come il Medio Oriente.

L’informazione è definita “moneta del potere del XXI secolo”, frase che usa una metafora mercatistica per sottolinearne il valore strategico. La condivisione dell’informazione, soprattutto in un contesto di minacce  ibride, è oggi il vero fattore di successo. Ma per condividerla necessita di una produzione di intelligence robusta, che richiede a sua volta investimenti e competenze avanzate. 

Non va infine dimenticata l’eccellenza italiana nei servizi di intelligence e unità speciali. Nonostante le limitazioni finanziarie e di struttura, organizzazioni come AISE e AISI, unità come GIS e COMSUBIN, hanno saputo fornirci vantaggi strategici in scenari complessi dal Mediterraneo fino al Sahel. Questa esperienza va tutelata, valorizzata e aggiornata, poiché rappresenta un patrimonio inestimabile che rischia di andare perso senza volontà e investimenti coerenti.

Il contesto nemico e il progetto emergenziale cyber

Il documento affronta con rara franchezza il quadro delle minacce, indicandole come una guerra ibrida continua e multidominio che è già realtà quotidiana per l’Italia[5]. La proposta di istituire un progetto emergenziale per la cybersecurity italiana prevede investimenti tra 5 e 7 miliardi di euro in cinque anni, per portare le strutture al livello di Francia e Germania. Si prevede anche di sviluppare capacità offensive nel cyber, difendere infrastrutture critiche e attivare una rete nazionale di centri di eccellenza.

Di particolare interesse è l’idea, forte e innovativa, di utilizzare il MES (Meccanismo Europeo di Stabilità)[3] per finanziare questa spesa, evitando così il ricorso a un aumento incontrollato del debito pubblico italiano, oggi al 145% del PIL. Il MES, nato come risposta alla crisi del debito sovrano, potrebbe dunque trasformarsi in un pilastro anche della difesa europea, incarnando la fusione tra politica economica e sicurezza strategica, una strada percorsa con favore anche da Ursula von der Leyen.

La minaccia russa nel dominio ibrido è evidenziata apertamente come primaria, con i noti attacchi a infrastrutture energetiche, disinformazione e sabotaggio, come dimostrato dagli attacchi ai cavi sottomarini del Baltico nel 2023[6]. Più sfumata ma altrettanto grave è la minaccia cinese, data dalla penetrazione e controllo economico-strategico di punti nodali come porti europei (Trieste in primis), oltre allo spionaggio tecnologico e informatico.

Il progetto emergenziale di intelligence europea cyber prevede una dotazione di 2 miliardi di euro e mira a integrare, con governance trasparente, le capacità nazionali in un’unica piattaforma predittiva e reattiva ispirata al modello Five Eyes ma con specificità UE. Tra le proposte figura anche la creazione di un corpo di riserva cyber (stima a regime: 50.000 unità), essenziale per bilanciare la carenza di personale esperto nel settore pubblico. Il costo di questa unità sarebbe modesto se confrontato con i danni potenziali di un grave attacco cyber.

Ridefinizione di una sicurezza europea d’avanguardia

L’ultima pagina del documento è un appello potente: “Il futuro dell’Europa dipende dalle scelte che faremo oggi”. Qui la retorica si concretizza in responsabilità storica, un imperativo di azione immediata e strategica. È una chiamata che va oltre il semplice documento tecnico, posizionandosi come manifesto politico per una nuova stagione della difesa europea.

Questo testo rappresenta uno spartiacque che riconosce gli errori del passato — dalla svendita di asset strategici fino all’indebolimento delle capacità operative nelle nuove guerre ibride — ma indica anche la strada per un ritorno nelle stanze che contano. Solo con investimenti mirati, riforme strutturali e una visione politica lungimirante Italia e Europa potranno trasformare le minacce in opportunità per un’autonomia reale.

L’evoluzione formativa come chiave per un futuro all’altezza è imprescindibile, così come la volontà ferma di salvaguardare le eccellenze italiane di intelligence e forze speciali, aggiornandole agli standard tecnologici più avanzati.

Il documento è dunque un invito all’unità e alla collaborazione, che supera la canonica dicotomia amico-nemico per abbracciare la complessità del mondo ibrido, in cui la guerra si combatte tanto con i codici informatici quanto con le idee, la cultura e la capacità di leggere e influenzare la realtà.

 Note e Fonti

[1] Reuters, 2023 – Calo del valore azionario di Leonardo, con focus sul settore elicotteristico.

[2] Defense News, 2023 – Programma Panther KF51, joint venture Rheinmetall-KNDS.

[3] Il Sole 24 Ore, 2023 – Uso potenziale del MES per finanziamenti strategici.

[4] OSINT Framework, 2023 – Base industriale e tecnologica europea della difesa (EDTIB).

[5] NATO Review, 2023 – Definizione e impatti della guerra ibrida.

[6] Atlantic Council, 2023 – Vulnerabilità delle infrastrutture sottomarine (Baltico 2023).

Il Sole 24 Ore, 2023 – Privatizzazione TIM e implicazioni strategiche.

Kaspersky, 2023 – Gap formativo italiano in cybersecurity.

Politico, 2023 – Interventi Ursula von der Leyen sulla difesa europea.

NATO, 2023 – Debati sul 5% del PIL per la difesa europea.

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