Qui sotto un interessante e puntuale confronto tra due rappresentanti eminenti del pensiero liberale italiano sulla crisi della sinistra. Il segno di come l’affermazione progressiva delle categorie del realismo politico stia divaricando sempre più le posizioni all’interno delle grandi correnti del pensiero politico affermatesi nei due secoli precedenti aprendo finalmente, anche in Italia nuove strade e nuove e più adeguate chiavi di interpretazione del contesto politico. Buona lettura, Giuseppe Germinario
qui il link originario https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/
La crisi della sinistra
Botta e risposta tra Teodoro Klitsche de la Grange e Carlo Gambescia
Caro Carlo,
a distanza di cinque mesi dal 4 marzo e di parecchi anni dal momento in cui si capiva che il vento della storia stava cambiando, la sinistra non si è ancora rassegnata al deperire della dicotomia destra/sinistra, o meglio, borghese/proletario, come scriminante (prevalente) dell’amico/nemico.
A fronte di qualcuno che avverte la necessità di un “populismo di sinistra” (alla Laclau?), il che significa aver maturato la convinzione che il “vecchio” armamentario è ormai obsoleto, ve ne sono altri, più incardinati nell’establishment, i quali ritengono: a) che quella distinzione non sia obsoleta; b) che potrà riemergere; c) che il di essa deperimento di questa sia il frutto della (più abile) propaganda populista; d) e comunque è radicata e pertanto non tarderà a manifestarsi di nuovo.
Il tutto spesso confondendo tra distinzione del secolo breve (borghese/proletario) con altre scriminanti (e lotte) di classe. Se nel “Manifesto” del partito comunista Marx ed Engels sostengono che “La nostra epoca, l’epoca della borghesia, si distingue tuttavia perché ha semplificato i contrasti fra le classi. La società intera si va sempre più scindendo in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente opposte l’una all’altra: borghesia e proletariato” è pur vero che scrivono anche che “La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotta di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in una parola oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta”; ossia identificano come costante la lotta di classe, in particolare tra oppressori ed oppressi, ma come variabile il discrimine tra i gruppi sociali contrapposti. Il problema che si pone, cui occorre dar risposta non è se esiste o meno il conflitto, e neanche se esista o meno tra “oppressi e oppressori” – domande la cui risposta è “scontata” – ma se sopravviva quella tra borghesi e proletari e, ancor più se abbia ancora il carattere di scriminante politica prevalente, o piuttosto non sia ormai neutralizzata e depoliticizzata come, in altri periodi storici, quella tra cattolici e protestanti, rivoluzionari (borghesi) e reazionari dell’ancien régime, e così via.
È un tratto comune a tali ragionamenti della sinistra in affanno di essere iniziati da due-tre anni (o poco più), cioè da quando il doppio colpo dell’elezione di Trump e della Brexit dimostrava che la “ribellione della masse” alle politiche delle élite era così intensa da prevalere prima nel “centro” dell’impero, e in due Stati particolarmente importanti.
Qualche giorno fa ha suscitato un certo dibattito l’affermazione dell’on. Franceschini secondo il quale al PD occorre impedire che si consolidi il “blocco sociale” corrispondente alla maggioranza populista di governo (dividere e quindi ridurre i nemici è la migliore tattica per conseguire la vittoria, come già espresso dal detto romano divide et impera). Resta da vedere se una simile tattica sia ancora tempestiva e credibile essendosi già costituito il “blocco sociale” populista sul rifiuto delle terapie, sostenute (più) energicamente dal PD nell’ultimo ventennio, di aumento delle imposte e riduzione delle prestazioni sociali (mentre il “contratto di governo” prevede diminuzione di quelle e aumento di queste).
Più ancora la separazione delle élite (PD e non solo) dalle masse (il nuovo “blocco sociale”) era stata prevista già da decenni da commentatori e intellettuali marginalizzati dall’establishment, non solo italiano. E non era, di converso, affatto capita dalla cultura “ufficiale”.
All’uopo, caro Carlo, credo sia interessante rileggere – tra i non tanti – un libro pubblicato nel 1997 da un piccolo e coraggioso editore, deceduto da oltre quindici anni, Antonio Pellicani, “Destra/Sinistra” che raccoglie le opinioni al riguardo di pensatori italiani e non, i quali declinavano in vario modo il deperimento della distinzione destra/sinistra e il progressivo distacco dalla classe dirigente dei governati (in particolare gli elettori dei partiti di sinistra).
Il volume, proprio perché collettaneo, dimostra come, oltre vent’anni orsono, la distinzione suddetta fosse in via di neutralizzazione e come tale considerata sempre meno sentita ed utilizzabile. Tutti gli autori del libro erano marginali rispetto al “pensiero ufficiale” italiano, e neppure granché amati all’estero; tuttavia, a leggerlo ora, si può, in larga misura, constatare che le valutazioni lì fatte mostrano una preveggenza di larga parte di quanto sarebbe successo, in Italia e all’estero, nei successivi vent’anni.
In particolare l’attenzione dei suddetti autori si era soffermata sui seguenti punti:
1) il progressivo distacco tra classi dirigenti e popolo, peraltro analizzato sotto diversi profili (politico, di costumi, di convinzioni, di modi di vita, di redditi).
2) In conseguenza la scarsa considerazione dei governanti verso i governati, sulla scorta del noto lavoro di Cristopher Lasch “La ribellione delle élite”.
3) E sempre di conseguenza la mera e calante rappresentatività del popolo da parte delle élite, per cui partiti asseritamente o storicamente “aperti” ad istanze dei meno abbienti (come quelli progressisti), perdevano consensi malgrado che, in taluni casi, le condizioni dei loro (ex) elettori fossero peggiorate.
4) La difesa delle “particolarità” nazionali rispetto alla globalizzazione.
5) La perdita di senso della distinzione destra/sinistra o meglio Borghese/proletario
Di tutte, questa era la previsione più facile: una volta imploso il comunismo e L’Unione Sovietica, la “ guerra fredda” era cessata per…K.O. tecnico. È vano cercare contributi altrettanto preveggenti nei politici e intellettuali della sinistra (o del centro sinistra) italiano. Per vent’anni la loro liturgia ha oscillato tra anatemi all’arcinemico Berlusconi ( che poi tanto nemico, oggettivamente, non è mai stato ma, piuttosto un concorrente al potere) paragonato a Hitler a Videla, e Te deum alla Costituzione più bella del mondo, che, nel frattempo era spesso disapplicata allegramente – e da coloro che salmodiano.
Di analisi come quelle testè ricordate, e che tenessero conto delle novità in arrivo, non risultano; se non, e alla lontana, l’Impero di Negri – Hardt (peraltro anch’essi pensatori non proprio ortodossi).
A questo punto occorre prendere atto della scarsa chiaroveggenza di un certo settore delle classi dirigenti, in particolare di quelli che avevano più spazio nella cultura – e nell’industria culturale – di regime. Spazio completamente negato agli altri. Ancora qualche mese fa, uno degli autori di quel libro – e di tanti altri sul tema – Alain de Benoist, è stato attaccato – e con esso la Fondazione Feltrinelli – con un appello di insegnanti di università, perché non fosse invitato a parlare a un Convegno della Fondazione, in quanto ideologicamente di destra. Ma dato che De Benoist da trent’anni va ripetendo proprio quelle tesi che successivamente sono state confermate dai fatti,, sarebbe il caso, per i suoi contestatori, che lo andassero ad ascoltare, dato che i suoi libri non hanno probabilmente mai letto, e sicuramente non hanno capito.
Discriminare ideologicamente, quando le analisi eretiche, confortate dai fatti, provano il contrario, è solo imitare donna Prassede che, come scrive Manzoni, aveva poche idee ma a quelle era – come agli amici – incrollabilmente affezionata.
E più ancora, che se politici ed intellos non hanno previsto nulla di quello che stava accadendo – non fosse altro che per attutire la loro caduta prevedibile e da altri prevista – le spiegazioni possibili sono soltanto due, non antitetiche ma concorrenti. La prima che la loro “cassetta degli attrezzi”, cioè, in massima parte, il marxismo e un certo illuminismo in parte distorto, in altre depotenziato, non è il migliore paio d’occhiali per leggere la realtà e la storia. L’altra, che quella cassetta non la maneggino bene. Ovvero che i risultati negativi non sono dovuti allo strumento ma all’operatore. Il che conforta la necessità di cambiare la classe dirigente italiana – o almeno gran parte di essa.
Perché, caro Carlo, al contrario del criterio selettivo di Deng-Tsiao-Ping che l’importante non è il colore del gatto, ma che acchiappi i topi, in Italia da tanti decenni si applica il contrario: di scegliere il gatto in base al colore, invece che alla capacità di cacciare i topi.
E i risultati, purtroppo per la nazione, si vedono.
Un caro saluto,
Teodoro Klitsche de la Grange
***
Caro Teodoro,
lungi da me l’idea di voler difendere la sinistra, ma questa tua idea che la dicotomia destra-sinistra rinvii alla dicotomia borghesi-proletari e che di conseguenza, venuta meno questa sia venuta meno quella, scusami, non sta in piedi.
Eppure tu sei, come me buon lettore, di Pareto. Potranno mai cadere i due principali residui psico-sociologici da lui individuati? L’istinto delle combinazioni e la persistenza degli aggregati? Il primo rimanda alla psicologia e pratica progressiste, il secondo a quelle conservatrici. E Pareto, fornisce esempi storici di un destra-sinistra, che va al di là delle etichette, ma che esiste, anzi pre-esiste, in natura sociale e politica, risalendo fino agli antichi romani. Altro che Marx e Schmitt… Certo, le loro analisi sono interessanti, ci mancherebbe altro. Ma, ecco il punto, limitate al mondo moderno e comunque ripiegate su una visione della realtà sociale panpolitica (Schmitt) e paneconomica (Marx): da un lato le depoliticizzazioni (Schmitt), dall’altro il conflitto tra borghesi e proletari (Marx). Non scorgono altro. Semplificando, Pareto parla a tutti. Schmitt e Marx al proprio pubblico.
Inoltre, le idee dell’inutilità della sinistra e della destra e del cosiddetto conflitto élite vs popolo, non è che risalgano al convegno di Perugia, che anch’io ricordo bene (con l’editore, Antonio Pellicani, bella e dotta persona)… Ma, per dirla con Pareto, rimandano a una derivazione, o razionalizzazione ex post, inventata e usata dalle destre reazionarie, bonapartiste, fasciste e populiste per andare contro la legittimazione liberale della democrazia rappresentativa post-1789.
Ovviamente, come aveva giustamente visto Ortega, siamo davanti a una derivazione, di volta in volta, sadicamente rimescolata come un mazzo di vecchie carte, con le grandi questioni sollevate dalla società di massa, ma sempre nei termini di pesanti offensive contro le élite liberali. A prescindere.
Ciò spiega, perché il populismo, continuazione del fascismo con altri mezzi (per ora), insista sulla fine delle dicotomia destra-sinistra e, quando si dice il caso, sul superamento del Parlamento.
Non capisco, come un liberale del tuo valore, rilanci, contro la sinistra, le stesse critiche dei populisti e ancora prima dei fascisti. In Italia, il Centrosinistra (senza trattino…), sta pagando il prezzo per aver governato sette anni, portando fuori il paese dalla crisi: i dati economici, fino a giugno, sono a lì a confermarlo. Opera non indolore, ma necessaria. E dunque meritoria. Facendo per giunta fronte, non sempre linearmente (lo ammetto), contro il populismo. A differenza, caro Teodoro, di quella plutocrazia demagogica, per dirla sempre con Pareto, che invece nel Primo Dopoguerra, pur di restare al comando, si alleò con Mussolini. Va detto che anche allora molti liberali non capirono la gravità del momento. E il prezzo da pagare fu molto salato.
Pertanto, se ora, c’è una critica da fare alla sinistra è proprio quella di strizzare l’occhio ai populisti. Scelta che implica, l’accettazione della tesi reazionaria, anche a sinistra, del superamento della dicotomia destra-sinistra. Certo, non nego che il PD – o una parte del PD – sostenga di voler aprire un dialogo con le forze di sinistra interne a Cinque Stelle, puntando su una specie di populismo al quadrato, appena temperato da un antifascismo di maniera contro Salvini, l’altro azionista di maggioranza.
In realtà, facendo così, la sinistra spiana la strada al populismo (come se già non bastasse il notevole lavorio della destra post-berlusconiana, perfino liberale…). Non la si apre di certo a una sinistra riformista, democratica, rispettosa delle istituzioni rappresentative, dell’economia di mercato e, cosa più importante dell’esistenza stessa del principio di alternanza (che secondo Sartori, e non solo, definisce la democrazia dei moderni). Si spiana la strada invece a quello che tu, incautamente, chiami “nuovo armamentario”, che invece, come insegna Pareto, nuovo non è. E poi, perché gli italiani dovrebbero preferire la copia all’originale? Questo – scusami – dovevi scrivere nel tuo articolo.
Quanto al colore del gatto, caro Teodoro, non tutti i gatti sono uguali. Mussolini era un gattone, nero, che dopo aver cacciato i topolini rossi, se la prese con quelli bianchi, rosa, gialli, e via discorrendo. Il colore conta, eccome.
Ricambio il caro saluto.
Carlo Gambescia
La replica di Teodoro Klitsche de la Grange e la controreplica di Carlo Gambescia
Che c’entrano Marx, Schmitt e Pareto con la crisi della sinistra?
Caro Carlo, la tua stimolante e dotta risposta al mio articolo, da te titolato “La crisi della sinistra” mi dà il diritto “forense” alla replica (*)
Tu inizi col criticare “questa tua idea che la dicotomia destra-sinistra rinvii alla dicotomia borghesi-proletari e che di conseguenza, venuta meno questa sia venuta meno quella, scusami, non sta in piedi” e continui poi col contrapporre la tesi di Pareto (sui residui) per cui “Potranno mai cadere i due principali residui psico-sociologici da lui individuati? L’istinto delle combinazioni e la persistenza degli aggregati? Il primo rimanda alla psicologia e pratica progressiste, il secondo a quelle conservatrici” mentre le analisi di Marx e Schmitt sarebbero “limitate al mondo moderno e comunque ripiegate su una visione della realtà sociale panpolitica (Schmitt) e paneconomica (Marx): da un lato le depoliticizzazioni (Schmitt), dall’altro il conflitto tra borghesi e proletari (Marx). Non scorgono altro. Semplificando, Pareto parla a tutti. Schmitt e Marx al proprio pubblico”.
Ma non è così: le analisi di Marx e Schmitt hanno carattere universale (o almeno pretendono di averlo). La lotta di classe è secondo Marx, una costante storica; l’amico-nemico di Schmitt una regolarità (Miglio) e presupposto (Freund) del politico, come tu ben sai.
Quello che fa la differenza tra le varie opposizioni è il contenuto della distinzione: per quella borghese/proletario è la proprietà dei mezzi di produzione, mentre per le altre ricordate nel Manifesto del partito comunista la scriminante è la libertà personale (liberi e schiavi), l’appartenenza gentilizia (patrizi e plebei), il ruolo politico (baroni e servi della gleba) e così via. Ancor più vario il contenuto della distinzione schmittiana che, non essendo economicista, è aperta ad ogni dicotomia (a fondamento religioso, economico, sociale) che sia in grado di contrapporre i gruppi sociali secondo il “criterio del politico”. Per cui proprio non le vedo le tesi di Schmitt e Marx limitate alla storia europea moderna. Quanto alla distinzione destra/sinistra, notoriamente risalente alla divisione tra partiti nel Parlamento francese all’epoca della restaurazione, tra liberali e ultras – conservatori, mi pare:
- a) che sia generica al punto di equivocare sul dato fondamentale: quel’è il fondamentum distinctionis della contrapposizione? Per i liberali e gli ultras era il potere del Parlamento o del Re; per i borghesi e i proletari la proprietà dei mezzi di produzione.
- b) Riportarla ai residui paretiani da te citati, è anch’esso generico e facilmente contestabile. Oggi appartiene alla “persistenza degli aggregati” sia considerare decisiva per la distinzione suddetta la proprietà dei mezzi di produzione (lascito del “secolo breve”), sia il querulo richiamo allo Stato sociale e ancor più l’implementazione di questo con una fiscalità rapace e la compressione di prestazioni e garanzie giuridiche, ampiamente praticate nella “seconda repubblica”, sia i peana alla “Costituzione più bella del mondo” che tale non era, ma, ancor più, è stata ampiamente disapplicata (in peggio) – dalla “seconda repubblica”, ancor più che dalla prima.
Peraltro, in politica si giudica in base ai risultati più che all’intenzione. E tutti i dati – da ultimo quelli pubblicati sul numero dell’ “Espresso” ora in edicola, mostrano che la “seconda repubblica” ha avuto i peggiori risultati economici tra tutti i paesi dell’UE, che il rapporto debito pubblico/PIL è aumentato negli ultimi dieci anni, e così via. Pensare che di fronte a un tale sfascio non vi sia una incapacità di comprensione (e una responsabilità) della sinistra, magna pars del potere e del governo, è un giudizio troppo benevolo.
In realtà, ma occorrerebbe molto spazio per argomentare è che, gli ultimi decenni al criterio borghese proletario se ne sia sostituito un altro. Proprio come è sotteso al successo populista. Prenderne atto, e agire di conseguenza, è urgente. Pretendere di valutare la nuova situazione con lo sviluppo concreto e lo strumentario concettuale del secolo breve, come fa l’establishment della sinistra di regime, è imitare donna Prassede, come ho scritto. O, più paretianamente, si può considerare un caso-limite di persistenza degli aggregati.
Con la concreta stima ed amicizia.
Teodoro Klitsche de la Grange
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Grazie Teodoro della gentile e, come tuo stile, forbita replica.
Vengo subito al punto, anzi ai punti.
Marx, Schmitt, Pareto (P.S. Su Freund, da te introdotto, va fatto un discorso a parte e in altra sede). È vero che il conflitto di classe e il conflitto amico-nemico sono considerati, rispettivamente da Marx e Schmitt, regolarità e costanti, ma d’altra parte Marx e Schmitt, non le riconducono al concetto sociologico, realmente universale, di conflitto, che, come vedremo non sta in piedi da solo. Mi spiego. Marx universalizza la sottospecie (sociologicamente parlando) lotta di classe. Schmitt, addirittura, parla, in chiave quasi metafisica, del conflitto amico-nemico, come di un criterio assoluto di distinzione, alla stregua del bello, del buono, eccetera, eccetera. Ciò significa, che di conseguenza, Marx e Schmitt, sminuiscono il concetto sociologico di cooperazione, che è un’altra regolarità e costante che affianca quella di conflitto. Per Schmitt e Marx la cooperazione è un sottoprodotto del conflitto, non è data come esistente in sé. In realtà, ecco la lezione di Pareto fin dai Sistemi Socialisti, la dicotomia principale non è fra le classi e tra l’ amico e il nemico, ma tra conflitto e cooperazione. Non per nulla nel Trattato (ma non solo), Pareto sottolinea la perenne ricerca, volontaria e involontaria da parte degli uomini, di un punto di equilibrio storico tra i due fattori della cooperazione e del conflitto. Insomma, in Pareto, conflitto e cooperazione sussistono alla pari, pur in un quadro storico e sociale, dunque reale, di non sempre facile ricomposizione. In questo senso, rispetto alle sociologie parziali di Schmitt e Marx, Pareto parla al mondo. Inoltre, l’età antica, per la maggioranza degli storici non ha conosciuto la lotta di classe nel senso marxiano. Quanto a Schmitt, i suoi “processi di neutralizzazione” rinviano, a grandi linee, al mondo post-vestfaliano. Di ben altro respiro, come tu ben sai, risulta essere l’approccio storico e sociologico di Pareto (direttore, rispettatissimo, tra l’altro, delle celebre Biblioteca di Storia Economica della Società Editrice Libraria). Pareto, insisto, che proprio per questo continua a a parlare al mondo e non ai soli devoti della lotta di classe e del conflitto per il conflitto. In questa chiave, come per la filosofia di Nietzsche, la sociologia di Pareto è per tutti e per nessuno. Insomma, per chi voglia porsi in ascolto…
Quanto ai contenuti, di cui tu dibatti, ritengo ben più profondi quelli individuati da Pareto nella sua classificazione dei residui e delle derivazioni. Vi si parla di forme di mentalità e modelli di razionalizzazione, semplificando, di destra e sinistra, che assumono valore trans-storico, cioè che ritroviamo in tutte le epoche. Pareto ci spiega, e con una forza argomentativa inaudita, che la persistenza degli aggregati ( alla base del pensiero e del comportamento di tipo conservatore) e l’ istinto delle combinazioni ( alla base del pensiero progressista) praticamente, sono eterni, se preferisci, ripeto, trans-storici. Ne consegue, che destra e sinistra vivono e lottano tuttora insieme a noi. Altro che le sociologie parziali di Schmitt e Marx, i parlamenti della Restaurazione, i rapporti di proprietà, eccetera, eccetera. Sul piano sociologico, per usare un termine dell’amico Fabio Brotto, siamo davanti, caro Teodoro, a una distinzione ontologica, non in senso metafisico, mi permetto di specificare, ma sociologico.
I numeri riportati dall’ “Espresso” – che nemesi per un collaboratore e lettore del “Borghese” come tu sei… – sulle performance non entusiasmanti della Seconda Repubblica sono la classica scoperta dell’acqua calda. In una situazione di semi-guerra civile (belusconiani vs antiberlusconiani ) e di crisi economica mondiale (nell’ultima parte, dal 2008), in realtà, ci siamo abbastanza difesi, in particolare grazie ai governi di centrosinistra, soprattutto negli ultimi due anni (2016-2017). In argomento, ti rinvio all’ottimo articolo dell’economista Marco Fortis, corredato di cifre e grafici, apparso sul “Foglio” venerdì 31 agosto (**) .
Ciò che invece dovrebbe preoccuparti, caro Teodoro, non è la sinistra, che pure ha i suoi problemi, che però consistono, non nel rifiuto del populismo, ma nel rischio di una sua accettazione, elevata al quadrato: una specie terzomondismo pauperista con sessant’anni di ritardo. Dicevo, ciò che invece dovrebbe preoccuparti sono le future performance della “Terza Repubblica” pentaleghista (per semplificare). Parlo di un pittoresco, ma pericoloso, governo di asini ed energumeni, chiaramente orientato a destra, su posizioni (per ora) di fascismo perseguito con altri mezzi: quelli del populismo. Un governo pieno zeppo, direi saturo, di persistenza degli aggregati, a cominciare dal nazionalismo e dal protezionismo economico.
Governo, che tu, liberale a tutto tondo, quindi “naturalmente” nemico del populismo, continui invece sui Social, se non a difendere, a giustificare, puntando su una euristica debitrice di categorie cognitive populiste all’insegna del transeunte. Altro che la trans-storicità della sociologia paretiana.
Con pari stima e grande amicizia.
Carlo Gambescia