La dottrina Trump, di Maya Kandel

La prima parte di un articolo tratto da “Le Grand Continent” su Trump e il prosieguo dello scontro politico negli Stati Uniti. Ho detto prosieguo, non ho parlato di eredità. Per il resto affidatevi agli ormai innumerevoli scritti e podcast del sito_Giuseppe Germinario

Trump è solo un sintomo di tendenze più profonde è probabilmente la frase che sentiamo più spesso su questo straordinario presidente. È corretto, se capiamo anche che è un sintomo di uno stadio avanzato, ma di cosa? Non è un presidente “normale”, al di là anche del carattere e dei suoi eccessi, nel senso dell’arrivo attraverso di lui dell’estrema destra alla Casa Bianca. Ma rappresenta effettivamente il risultato logico.di due sviluppi americani: quello del connubio tra politica e “spettacolo” mediatico, e quello del Partito Repubblicano per 40 anni, prodotto di una strategia teorizzata in particolare da Newt Gingrich per rilevare il Congresso negli anni ’80, e i cui segni distintivi sono un discorso sempre più disinibito “anti-sistema e anti-élite”.

La presidenza Trump rappresenta anche un momento specifico per la politica estera americana, di cui cristallizza una doppia crisi: crisi interna, perché la politica estera non è più sostenuta dal popolo americano, e in particolare dalle classi medie e popolari; crisi esterna, che è allo stesso tempo crisi di mezzi, credibilità e legittimità della politica estera, legata al relativo declino del potere e della capacità di influenza degli Stati Uniti. Questa crisi è germogliata dalla fine della Guerra Fredda, e qui va ricordato che lo slogan America First , che risale alla fine degli anni ’30, era già riapparso nel 1992 con la candidatura di Pat Buchanan, considerato il padre spirituale. Trumpismo. Ma Trump, dopo Bush e Obama, sta in qualche modo portando a compimento il processo. E la prima cosa da riconoscere è che ha provocato negli Stati Uniti il ​​più ampio dibattito sugli obiettivi, i mezzi e le finalità della politica estera degli ultimi decenni – dove Obama, di cui anche ambizione, non era riuscita. Nel 2016 ci siamo chiesti se la “moderazione strategica” di Obama, il suo desiderio di disimpegnarsi e rinnovare la leadership americana fosse un’eccezione, un semplice riequilibrio dopo l’eccessiva espansione degli anni di Bush, o una nuova tendenza nella politica estera americana: con Trump che segue Obama, abbiamo la conferma che c’è una forte tendenza al lavoro.

La prima cosa che dobbiamo riconoscere in Trump è che ha provocato negli Stati Uniti il ​​più ampio dibattito sugli obiettivi, i mezzi e le finalità della politica estera degli ultimi decenni – dove Obama, di cui era anche ambizione, non era riuscita.

MAYA KANDEL

Ciò solleva la questione della natura e della portata della rottura di Trump in politica estera, e in particolare del suo punto di riferimento: fine del periodo aperto dalla fine della Guerra Fredda, messa in discussione delle basi della Pax Americana. post-1945, o addirittura indietro nel diciannovesimo secolo politico e … il dibattito non è ancora risolto, e per tutto il suo mandato, le grandi linee guida sono state oggetto di intense lotte all’interno del amministrazione come tra la Casa Bianca e il Congresso. Analisi del processo decisionalefa luce su questa lotta costante tra il presidente populista e il “sistema”, definito come il gruppo formato dagli alti funzionari della pubblica amministrazione e dalle nomine politiche (più di 8.000), e più in generale dall’insieme della burocrazia e da altri istituzioni che partecipano alla politica estera, in primo luogo il Congresso. Tieni presente che la macchina della politica estera degli Stati Uniti è una nave di linea enorme e un cambio di direzione richiede tempo. Oltre a ciò, è anche necessario interessarsi alla battaglia delle idee, perché se Trump non è un intellettuale, è circondato da ideologi che hanno teorizzato per lui e hanno partecipato alla definizione di una nuova visione del mondo, ancora in gestazione.

Foto ritratto Donald Trump Kim Jong-un La dottrina Trump Trumpismo politica estera stile populismo populista Stati Uniti Era Trump Elezioni statunitensi Presidente Biden QAnon

Questa domanda è cruciale anche perché la ridefinizione del rapporto americano con il mondo è stata al centro della campagna di Trump nel 2016 e rimane centrale nelle preoccupazioni della sua base elettorale, sia che si tratti dell’apertura delle frontiere al mondo. immigrazione e commercio, questione delle alleanze o modalità dell’azione internazionale del Paese. Con l’idea che la politica estera non fosse più al servizio degli americani, che gli alleati come avversari stessero “approfittando” dell’America, con un fortissimo rifiuto dell’istituzione della politica estera, dei Democratici repubblicani e in particolare della neoconservatori, considerati colpevoli delle guerre costose e “infinite” (e infruttuose).

La ridefinizione del rapporto americano con il mondo è stata al centro della campagna di Trump nel 2016 e rimane al centro delle preoccupazioni della sua base elettorale, sia che si tratti dell’apertura delle frontiere all’immigrazione e al commercio, la questione delle alleanze, ovvero le modalità dell’azione internazionale del Paese.

MAYA KANDEL

L’idea di ridefinire una politica estera veramente al servizio degli americani, in particolare della classe media e operaia, di riconciliare la politica estera e quella interna, è presente anche su entrambi i lati dello spettro politico americano, e soprattutto ai suoi estremi, una base trumpista. come base progressista dei Democratici. L’evoluzione del contesto internazionale sotto il doppio effetto della globalizzazione e dei social network fa sì che la distinzione tra soggetti esterni ed interni appaia sempre più artificiosa: le grandi questioni internazionali sono largamente presenti nel dibattito pubblico, e gli argomenti sono di sempre più intrecciati. Si legge spesso, come nel 2016, che la politica estera non conta nelle elezioni: ma anche affrontata dal punto di vista della politica interna, questioni come la Cina, la Russia, il commercio o il clima rimangono soggetti internazionali, oggetto di politica estera. Infine, la polarizzazione si è estesa alla politica estera, comprese le questioni regionali, rendendo definitivamente obsoleto il classico adagio americano secondo cui “la politica si ferma in riva al mare” (la politica si ferma in riva al mare ), un detto rivelatore pronunciato dal senatore Vandenberg all’alba della Guerra Fredda: questo è anche ciò che oggi viene messo in discussione, e lo testimonia la polarizzazione della politica estera.

Ciò che colpisce di più alla fine del primo mandato di Trump, quando si guarda all’opinione americana, non è solo l’estrema polarizzazione, ma anche l’estrema stabilità del suo sostegno: qualunque cosa faccia o dica, Trump mantiene un base del 40% di parere favorevole; la sua popolarità tra l’elettorato repubblicano ha raggiunto il 90%, anche se nel 2020 risente della gestione della pandemia. Questa base elettorale del Trumpismo non scomparirà, anche se perde le elezioni. Ci costringe a mettere in discussione ciò che dice del Trumpismo, della sua visione del mondo in particolare e del suo peso nelle future ridefinizioni del Partito Repubblicano.

L’evoluzione del contesto internazionale sotto il duplice effetto della globalizzazione e dei social network fa sì che la distinzione tra soggetti esterni ed interni appaia sempre più artificiosa: le grandi questioni internazionali sono largamente presenti nel dibattito pubblico, e gli argomenti sono di sempre più intrecciati.

MAYA KANDEL

Trump e la fine del periodo post-guerra fredda

La presidenza di Donald Trump segna la fine dell’era post-Guerra Fredda. La politica estera americana di questo periodo potrebbe essere riassunta da un doppio paradigma. Il primo è quello della globalizzazione, che caratterizza un’evoluzione globale ma che designa anche la linea guida della dottrina Clinton di “estensione delle democrazie di mercato”, e più in generale la globalizzazione dell’ordine internazionale creato e sostenuto dagli Stati Uniti. all’indomani della seconda guerra mondiale, le cui istituzioni, norme e principi sembravano quindi poter essere estesi a tutto il globo con la caduta dell’Unione Sovietica e del blocco omonimo. Il secondo, dall’11 settembre 2001, è quella della “guerra mondiale al terrore” di Bush, portata avanti anche se con mezzi più discreti da Obama.

Foto ritratto Melania Donald Trump Regina Elisabetta II La dottrina Trump Trumpismo politica estera populismo stile populismo Stati Uniti Era Trump Elezioni statunitensi Presidente Biden QAnon

Trump voleva rivoluzionare la politica estera americana e questo desiderio di ridefinire il rapporto dell’America con il mondo era al centro delle sue promesse elettorali. Quattro anni dopo, sembra che il cambio di paradigma sia effettivamente avvenuto: la competizione strategica e più precisamente la rivalità “sistemica” con la Cina.ha sostituito la lotta al terrorismo come obiettivo principale della politica estera; la pagina sull’estensione delle democrazie di mercato è voltata. La sua presidenza ha sancito il rifiuto del principio guida della politica estera americana del dopoguerra fredda, secondo cui l’inclusione dei rivali nel sistema internazionale li renderebbe “partner responsabili” degli Stati Uniti: i documenti strategici degli Stati Uniti. L’amministrazione si apre sull’osservazione del fallimento di questa politica. Mettendo in discussione il multilateralismo e le sue istituzioni, l’America di Trump sembra trasformarsi in un “partner irresponsabile” che rifiuta questo ordine internazionale che aveva finora garantito,

L’era Trump sancisce il rifiuto del principio guida della politica estera americana del dopoguerra fredda, secondo cui l’inclusione dei rivali nel sistema internazionale li renderebbe “partner responsabili” degli Stati Uniti: i documenti strategici dell’amministrazione Trump aperta all’osservazione del fallimento di questa politica.

MAYA KANDEL

Tuttavia, resta difficile definire il “trumpismo” in politica estera: mettere in discussione i principi guida della politica estera non significa tornare all’isolazionismo degli anni Trenta, o alla politica estera essenzialmente commerciale del XIX secolo. secolo. La difficoltà nell’interpretare la politica estera di Trump deriva dalle molteplici contraddizioni di questa politica su più temi, legati al caotico processo decisionale, oggetto di continue lotte, ma anche alla personalità del presidente; soprattutto il trumpismo, che qui caratterizza la mutazione del Partito Repubblicano sotto l’influenza della base elettorale di Trump, è ancora in gestazione, oggetto di lotte interne che si intensificheranno dopo le elezioni e di un vivace dibattito di idee, che non può prescindere dall’evoluzione demografica dell’America.

Trump non è un ideologo o un intellettuale ma ha istinti e ossessioni, e ha governato per la sua base elettorale, che fa luce sulle motivazioni interne di molte decisioni di politica estera, soprattutto in Medio Oriente. Soprattutto altri hanno teorizzato per lui, se sono ancora alla Casa Bianca dopo quattro anni, come Stephen Miller, Pete Navarro o Matt Pottinger, o sono stati solo un compagno di viaggio, come Steve Bannon o John Bolton. La longevità di Miller, Navarro e Pottinger dà già indicazioni sull’eredità: nazionalismo “giudeo-cristiano”, governance anti-global e anti-multilateralismo ( anti-immigration); politica commerciale anti-libero e anti-cinese; adottare una posizione dura contro la Cina. La   dichiarata “   nuova guerra fredda ” contro la Cina è stata avallata ai massimi livelli nell’ottobre 2018 con il discorso del vicepresidente Mike Pence: ma per farlo ci sono voluti la pandemia e l’approssimarsi delle elezioni per Trump. si è ripreso nel marzo 2020, approvando il consenso.

Ci sono voluti la pandemia e l’approssimarsi delle elezioni affinché Trump si radunasse nel marzo 2020 sulla dottrina della “nuova guerra fredda”, approvando il consenso.

MAYA KANDEL

Mirare e premiare i gruppi identificati ha portato ad alcune decisioni soprattutto su Israele, a causa del patto fatto tra Trump e gli evangelici nel 2016, ovvero il clima, con la scelta del “primato energetico” visualizzato come obiettivo strategico, sempre determinato in buona parte da un accordo concluso nel 2016 con i maggiori gruppi petroliferi. Alcune scelte di politica industriale e commerciale hanno soddisfatto anche le aspettative degli elettori chiave che hanno vinto Trump nella Rust Belt (Michigan, Pennsylvania), una regione più colpita dalle delocalizzazioni ma anche dall’abbandono del carbone. L’agenda anti-Obama risponde a un’ossessione personale di Trump, ma anche al movimento del Tea Party (di cui l’elezione di Trump è anche l’espressione di maggior successo), e ha portato alla distruzione metodica dell’eredità La politica estera di Obama (uscita dall’accordo di Parigi, accordo sul nucleare iraniano, apertura a Cuba e ovviamente denuncia immediata del TPP). Mentre alcuni elementi avrebbero potuto trovare il loro posto in un’amministrazione repubblicana più classica (Iran, clima), altri costituiscono una rottura e sono stati oggetto di un’aspra lotta, non sempre netta, tra la Casa Bianca e il Congresso in particolare. Ciò spiega la natura schizofrenica, anche la duplice politica estera che ha colpito principalmente l’Europa, o gli strumenti di politica estera: è stato il Congresso e in particolare il Senato repubblicano a difendere la NATO, ha aumentato la spesa degli Stati Uniti per la deterrenza sul fianco orientale dell’Europa, ha rafforzato la sua posizione nei confronti della Russia e ha protetto il bilancio della diplomazia dai ripetuti attacchi della Casa Bianca. altri costituiscono una rottura e sono stati oggetto di un’aspra lotta, non sempre netta, tra la Casa Bianca e il Congresso in particolare. Questo spiega la natura schizofrenica, anche la doppia politica estera che riguardava principalmente l’Europa, o gli strumenti di politica estera: era il Congresso e in particolare il Senato repubblicano a difendere la NATO, ha aumentato la spesa degli Stati Uniti per la deterrenza sul fianco orientale dell’Europa, ha rafforzato la sua posizione nei confronti della Russia e ha protetto il bilancio della diplomazia dai ripetuti attacchi della Casa Bianca. altri costituiscono una rottura e sono stati oggetto di un’aspra lotta, non sempre netta, in particolare tra la Casa Bianca e il Congresso. Questo spiega la natura schizofrenica, anche la doppia politica estera che riguardava principalmente l’Europa, o gli strumenti di politica estera: era il Congresso e in particolare il Senato repubblicano a difendere la NATO, ha aumentato la spesa degli Stati Uniti per la deterrenza sul fianco orientale dell’Europa, ha rafforzato la sua posizione nei confronti della Russia e ha protetto il bilancio della diplomazia dai ripetuti attacchi della Casa Bianca.

Queste contraddizioni illustrano la sostenibilità di diverse correnti di politica estera all’interno del Partito Repubblicano, anche se il partito si è schierato con Trump (hanno gli stessi elettori), segno di tensioni persistenti all’interno della nuova alleanza portata da Trump tra isolazionisti. e nazionalisti, a scapito degli interventisti assimilati ai neoconservatori e respinti dagli elettori trumpisti. Uno degli aspetti più commentati da accademici ed esperti è stata la “distruzione dell’ordine liberale internazionale”: illustra l’ascesa e il controllo della corrente sovranista sul Partito Repubblicano, simboleggiata da Bolton, un effimero compagno di viaggio. Trumpismo, che ha saputo usare Trump per portare avanti la sua personale crociata contro il governo mondiale.America Firstin una parola sarebbe nazionalismo (o nazional-populismo per evocare la circolazione transatlantica e l’importanza del contesto). Troviamo qui l’influenza di Bannon e Miller, ma anche del Claremont Institute, think tank sulla West Coast e fornitore ufficiale di idee al Trumpismo, che si è mobilitato molto presto alla candidatura di Trump, con Michael Anton, appunto. sulla politica estera. Altri si sono mobilitati, con obiettivi meno chiari (sintesi difficile) come l’Hudson, dove Pence ha tenuto il discorso di apertura delle ostilità sulla Cina nell’ottobre 2018 – ma ci sono voluti meno la pandemia e un’improvvisa scadenza elettorale ben avviato affinché Trump si mobiliti dietro il consenso tra agenzie della sua stessa amministrazione. Una “nuova guerra fredda” contro la Cina permette anche di mobilitare gli internazionalisti, compresi i primi e ancora neoconservatori. Tuttavia, sul piano della politica estera appunto, la sintesi intellettuale non è completata – e il dibattito non è risolto: permane una forte tensione tra la tentazione isolazionista, favorevole a un trinceramento degli Stati Uniti dietro i loro confini, e tendenza egemonica in cui la supremazia militare rimane essenziale.

Uno degli aspetti più commentati da accademici ed esperti è stata la “distruzione dell’ordine liberale internazionale”: illustra l’ascesa e la morsa della corrente sovranista sul partito repubblicano, simboleggiata da Bolton, un effimero compagno di viaggio. Trumpismo, che ha saputo usare Trump per portare avanti la sua personale crociata contro il governo mondiale.

MAYA KANDEL

Una nuova sintesi repubblicana: il ritorno degli isolazionisti

Il politologo americano Colin Dueck, specializzato nello studio della politica estera del Partito Repubblicano, ha dimostrato che ci sono tre principali correnti di politica estera all’interno del Partito Repubblicano. La prima corrente, dominante nelle élite del partito dal 1945, è la corrente internazionalista. Tutti i presidenti repubblicani, da Eisenhower a Trump, erano internazionalisti, favorevoli a un’attivista politica estera americana, che difendevano l’ordine internazionale stabilito dopo la seconda guerra mondiale e si affidavano soprattutto alle istituzioni internazionali e ad un sistema di alleanze tra Stati Uniti al centro e in posizione di leadership. Questa corrente è composta da realisti e neoconservatori, questi ultimi che hanno ottenuto l’ascesa con la presidenza Reagan.

La seconda corrente può essere definita isolazionista e ha dominato il Partito Repubblicano in particolare negli anni ’20 e ’30. È particolarmente contrario alle alleanze vincolanti e agli interventi militari non difensivi (si pensi, ad esempio, alla mancata ratifica del Trattato di Versailles nel 1919 e alla non partecipazione degli Stati Uniti alla Società delle Nazioni). Di ispirazione libertaria, è stata ancorata nel DNA americano sin dall’inizio ma è stata emarginata durante la Guerra Fredda a causa dell’imperativo di combattere il comunismo. È riemerso con forza alla fine della Guerra Fredda, con una pausa dopo gli attacchi del 2001, ed è rappresentato tra gli altri da Rand Paul (e suo padre Ron prima di lui), oggi uno dei convinti sostenitori di Trump. al Senato.

Questa corrente nazionalista ben rappresenta il punto di vista della politica estera del Tea Party, a favore di un alto livello di spesa militare e di un atteggiamento più aggressivo contro il terrorismo, come Trump.

MAYA KANDEL

Infine, la terza corrente è soprattutto nazionalista, e fino a quando Trump è rimasto poco rappresentato a livello di élite e nei think tank , un vuoto che il Claremont Institute è venuto a colmare, cui si sono aggiunti altri che si sono uniti al Trumpismo abbracciando la lotta contro la sfida cinese alla supremazia americana (Hudson). Questa corrente nazionalista ben rappresenta il punto di vista della politica estera del Tea Party, favorevole ad un alto livello di spesa militare e ad un atteggiamento più aggressivo contro il terrorismo, come Trump. I nazionalisti non sono né pacifisti né isolazionisti, ma sono davvero ostili agli interventi umanitari o di costruzione della nazione , agli aiuti esteri, alle istituzioni internazionali in generale e allel’idea di governance globale   : sono feroci difensori della sovranità americana.

Storicamente, i nazionalisti sono stati la spina dorsale del Partito Repubblicano sulle questioni internazionali, un gruppo il cui sostegno era indispensabile per qualsiasi intervento militare importante e duraturo. La loro alleanza con gli internazionalisti ha sostenuto l’attivismo americano durante la Guerra Fredda, così come nell’immediato periodo successivo all’11 settembre 2001. In tutto questo periodo, gli internazionalisti hanno dominato ei non interventisti sono stati emarginati. Ma Trump ha favorito l’emergere di una nuova alleanza tra non interventisti e nazionalisti, questa volta marginalizzando gli internazionalisti, identificati con i neoconservatori e quindi con le élite di partito in politica estera. È questa alleanza che non ha precedenti dagli anni ’30. Dopo quattro anni del presidente Trump, sembra aver prodotto una nuova postura se non una dottrina, articolata attorno a una politica estera soprattutto economico-legale (sanzioni), e una nuova guerra fredda almeno in campo commerciale e tecnologico con la Cina . L’ultimo libro di Colin Dueck è intitolato altroveAge of Iron: sul nazionalismo conservatore .

Trump ha favorito l’emergere di una nuova alleanza tra non interventisti e nazionalisti, questa volta emarginando internazionalisti, identificati con neoconservatori e quindi con élite di partito in politica estera.

MAYA KANDEL

Una politica estera “jacksoniana”: sovranità e bilateralismo

Molti osservatori insistono giustamente sugli elementi di continuità tra la politica estera di Trump e quella del suo predecessore democratico, Barack Obama, in particolare il duplice desiderio di disimpegnarsi dal Medio Oriente e di orientarsi verso l’Asia. A questo potremmo aggiungere il rifiuto di essere il “poliziotto del mondo”, cioè il garante dell’ordine internazionale, per Obama perché gli Stati Uniti non avrebbero più i mezzi, per Trump perché che non sarebbe più nel loro interesse: in entrambi i casi gli alleati sono chiamati a fare di più, gli avversari trovano nuove opportunità. Ma questi elementi non dovrebbero mascherare la vera rottura, il rifiuto del principio guida della politica estera americana del dopoguerra fredda, secondo cui l’inclusione dei rivali nell’architettura internazionale (istituzioni e regole) dovrebbe renderli “partner responsabili” degli Stati Uniti nella difesa della sicurezza e della prosperità globali (Cina all’OMC, Russia al G7). Ildocumenti  strategici dell’amministrazione Trump aperti sull’osservazione del fallimento di questo approccio. La sua amministrazione ritiene che questa architettura internazionale non sia più adatta all’attuale sistema internazionale e intende aggiornare i suoi elementi principali per adattarli al nuovo contesto, quello della rivalità americano-cinese: si tratta infatti di reinventare le istituzioni, alleanze e determinate regole, in particolare a livello commerciale e tecnologico.

Foto ritratto Donald Trump La dottrina Trump Trumpismo politica estera stile populismo populista Stati Uniti Era Trump Elezioni statunitensi Presidente Biden QAnon

Il “trumpismo” in politica estera è stato chiamato Jacksonian: nella tipologiadefinito dallo storico Walter Russell Mead, Jacksonism, in riferimento ad Andrew Jackson, un presidente populista e nazionalista che ha ampliato il voto popolare e accelerato la “pulizia etnica” dei nativi americani, descrive una politica estera basata su una ristretta ridefinizione degli interessi americani , sollevando soprattutto l’imperativo della sovranità, necessaria per preservare la libertà d’azione americana: la politica estera jacksoniana rifiuta ogni missione universale a favore della sola realpolitik. Il Jacksonismo della “dottrina Trump” si è tradotto in un assalto generalizzato al “globalismo” rispondendo soprattutto alle motivazioni interne della base elettorale trumpiana, rappresentati da americani che si considerano i perdenti della globalizzazione a vantaggio di una “élite globalizzata” vista come il nemico, anche come anti-americano. Si è manifestato attraverso gli attacchi sistematici contro le alleanze e le istituzioni internazionali – dalla NATO all’ONU, al G7 e all’OMC , il cui meccanismo di risoluzione delle controversie è stato reso de facto inoperante da Washington, o oggi contro l’OMS; o anche attraverso il ritiro definitivo dell’UNESCO o della Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite. Il tutto riflette questo assalto generalizzato a ciò che Trump e la sua base chiamano “globalismo” e al quale si oppongono al nazionalismo dell’America First line .

Il Jacksonismo della “dottrina Trump” si è risolto in un assalto generalizzato al “globalismo” rispondendo soprattutto alle motivazioni interne della base elettorale trumpiana, rappresentata dagli americani che si considerano i perdenti della globalizzazione a favore della una “élite globalizzata” considerata come il nemico, anche come anti-americano.

MAYA KANDEL

Gli americani erano soliti chiamarsi “multilateralisti quando possiamo, unilateralisti quando dobbiamo”. L’attuale rifiuto del multilateralismo riflette anche il relativo declino del potere americano, dovuto all’ascesa della Cina, molto visibile all’interno delle organizzazioni internazionali. Gli Stati Uniti erano multilateralisti, o perché erano abbastanza potenti perché la loro volontà si imponesse, o perché potevano permettersi un risultato meno ottimale, ma alla fine giustificato dall’imperativo superiore. per mantenere la stabilità egemonica. Questo margine di manovra è ormai scomparso e gli Stati Uniti sono unilateralisti soprattutto perché non sono più così potenti relativamente. Sono anche piuttosto “bilaterali”, per usare l’ analisi di David Haglund, gestione ottimale di un potere che ancora domina qualsiasi rapporto bilaterale.

Questa scelta è inseparabile dall’evoluzione ideologica del Partito Repubblicano in un partito sovranista, uno dei cui slogan è l’opposizione viscerale al governo mondiale in nome dell’indipendenza nazionale, della libertà di azione e legittimità unica della Costituzione degli Stati Uniti. Dagli anni ’90, in uno sviluppo quindi in gran parte antecedente a Trump, il Partito Repubblicano ha progressivamente adottato un’opposizione sistematica all’ONU ma anche più in generale alla diplomazia, al multilateralismo e ad ogni forma di accordo internazionale, opponendosi alla ratifica di quasi tutti i trattati. Pertanto, anche trattati come quello delle Nazioni Unite sul diritto del mare, o il trattato sui diritti delle persone disabili ( Disability Treaty), tuttavia un’iniziativa americana, non poteva essere ratificata dal Senato americano.

Dagli anni ’90, in uno sviluppo quindi in gran parte antecedente a Trump, il Partito Repubblicano ha progressivamente adottato un’opposizione sistematica all’ONU ma anche più in generale alla diplomazia, al multilateralismo e ad ogni forma di accordo internazionale, opponendosi alla ratifica di quasi tutti i trattati.

MAYA KANDEL

Dobbiamo tornare a un articolo pubblicato nel 2000 da John Bolton (allora vicepresidente del think tank American Enterprise Institute), che ha respinto il progetto di “governance mondiale” simbolo della “globalizzazione felice” degli anni ’90, rappresentato negli Stati Uniti dalla dottrina Clinton dell’espansione delle democrazie di mercato e dall’intervento umanitario sotto l’egida della ONU (o almeno NATO). Questo progetto multilateralista assimilato ai Democratici è denunciato dal Partito Repubblicano del dopo Guerra Fredda come una minaccia per la sovranità e la libertà di azione degli Stati Uniti. È in nome della difesa dell’identità americana che la governance mondiale e ciò che ne consegue – diritto internazionale, multilateralismo – sono qui considerati anti-americani. Questa frattura è ora ampiamente familiare, soprattutto perché si è diffusa in tutto il mondo, contrapponendo i nazional-populisti ai “globalisti”,

Il trumpismo è nazionalismo 

Il movimento conservatore, colonna portante intellettuale del Partito Repubblicano, ha cercato, dopo tre anni di presidenza Trump e l’avvicinarsi di una nuova scadenza elettorale, di “teorizzare gli istinti” di questo presidente straordinario, in accordo con la nuova base campagna elettorale, al fine di trattenere questi nuovi elettori che hanno portato al potere Trump e il Partito Repubblicano, sia il Presidente che il Congresso. Questa ”   teorizzazione inversa   ” del trumpismo in “conservatorismo nazionale” getta luce sull’evoluzione di questo nazional-populismo in stile americano, le cui risonanze sono numerose con i populismi europei e in particolare con la teorizzazione orbaniana della democrazia cristiana “illiberale”.. Ma questo revival nazionalista americano ha anche le sue specificità, legate alla storia degli Stati Uniti, alla costruzione della sua identità e del suo rapporto con il mondo. Il rifiuto della recente politica estera americana occupa infatti un posto centrale: ma la questione del ruolo degli Stati Uniti nel mondo è anche il punto più confuso di questo nuovo movimento, diviso tra poli ancora opposti – ma che potrebbe unirsi dietro lo scontro con la Cina. Soprattutto, è solo uno dei movimenti di idee che stanno combattendo per la base elettorale di Trump – e l’eredità del Trumpismo.

La questione del ruolo degli Stati Uniti nel mondo è anche il punto più confuso di questo nuovo movimento, diviso tra poli ancora opposti – ma che potrebbe unirsi dietro il confronto con la Cina.

MAYA KANDEL

Tra i conservatori nazionali troviamo una visione del mondo che mescola la lettura civilizzazionista di Samuel Huntington , il prisma dei “nazionalisti contro i globalisti” ripreso da Trump nei testi scritti da Stephen Miller, ma anche l’ossessione sovranista di lunga data di alcuni. Settori repubblicani e intellettuali come quelli del Claremont Institute, il cui principio fondante, ricordiamolo, è che è necessario “ripristinare i principi di fondazione del Paese”: la Costituzione americana è considerata come unica fonte di legittimità e di diritto, il che spiega anche perché l’Unione Europea figura a tal punto da eresia, nemico da distruggere. La politica estera di Mike Pompeo, vicino a Claremont, va quindi spesso intesa nelle sue due dimensioni, interna ed esterna, nel quadro di un doppio confronto, interno e globale: contro un’élite internazionalista favorevole alla governance mondiale e multilateralismo (“globalista”), ma anche multiculturalismo interno (“cosmopolita”); e contro chi vuole la fine dell’Occidente (Cina e Islam politico). Ma dove Pompeo (come Yoram Hazony, autore di The Virtue of Nationalism ) parla di ridefinire le alleanze in conformità con questi principi e di incoraggiare i nazionalisti di tutti i paesi, altri, come Tucker Carlson, vicino a Trump e conduttore di Fox News , il cui spettacolo è il secondo più visto a livello nazionale, difendere un autentico isolazionismo che vede nella politica estera la difesa dell’interesse americano ridefinito al minimo  : sicurezza territoriale, protezione delle frontiere, difesa delle aziende americane dalla concorrenza cinese; con questo in mente, non dobbiamo solo lasciare il Medio Oriente ma anche la Corea del Sud e l’Europa, l’idea di fare la guerra per difendere Taiwan non viene presa sul serio e la NATO è obsoleta (e “Perché non dovremmo essere amici della Russia”). In uno scambio con il presidente Trump, Tucker Carlson si è chiesto perché avrebbe dovuto mandare suo figlio a morire per il Montenegro, in occasione dell’ingresso di quel paese nella NATO; La risposta rivelatrice di Trump: “Mi pongo la stessa domanda”.

In uno scambio con il presidente Trump, Tucker Carlson si è chiesto perché avrebbe dovuto mandare suo figlio a morire per il Montenegro, in occasione dell’ingresso di quel paese nella NATO; La risposta rivelatrice di Trump: “Mi pongo la stessa domanda”.

MAYA KANDEL

Un “blocco nazionalista”, base elettorale del Trumpismo

Un fl nel 2019 think tank di sinistra Center for American Progress sullo sviluppo dell’opinione americana sulla politica estera ha indicato l’esistenza di un “blocco nazionalista” secondo l’opinione: un terzo degli elettori , il gruppo più numeroso individuato dallo studio, potrebbe essere definito un blocco nazionalista, definito dal desiderio di ritirarsi dal mondo e dall’adesione alle posizioni di Trump su immigrazione e commercio. Uno dei marker più importanti è stata la dimensione generazionale, evidenziata anche da altri studi., dimostrando che la maggior parte degli internazionalisti sono nella popolazione che invecchia, mentre la maggioranza degli under 40 pensa che gli Stati Uniti dovrebbero “stare alla larga dagli affari mondiali”. Senza giustificarli, i cambiamenti demografici fanno luce su queste posizioni segnate dalla paura. Secondo uno studiodal Pew Research Center nel 2017, la popolazione statunitense nata all’estero ha raggiunto i 44,4 milioni; la percentuale di immigrati residenti negli Stati Uniti era del 13,6% della popolazione, appena sotto il record del 1890 al 14,8%. Dal 1990 al 2007, la popolazione di immigrati clandestini è triplicata, raggiungendo i 12,2 milioni nel 2007. Attualmente è stimata in 10,5 milioni. Queste cifre sono vicine al livello storico più alto del 1890 e del 1910, due momenti che preludono alle febbri del nazionalismo, all’approvazione delle leggi sulle quote (1923 e 1924) e al periodo più isolazionista della politica estera americana (1920 e 1930).

Foto ritratto Donald Trump La dottrina Trump Trumpismo politica estera stile populismo populista Stati Uniti Era Trump Elezioni statunitensi Presidente Biden QAnon

Ci sono fondamentali che non cambieranno con o senza Trump: l’osservazione di un ordine internazionale che non serve più gli interessi americani e che necessita di essere riformato (dinamite, secondo Trump); la necessità di rinnovare il legame con la politica interna; il rifiuto degli interventi militari a meno che l’interesse nazionale non sia direttamente minacciato; una rivalutazione delle alleanze e degli alleati. Ma la politica estera è al centro del conservatorismo nazionale, mentre costituisce la grande debolezza di questo movimento, a causa della confusione che vi regna, e le questioni esistenziali che il suo sviluppo pone al Paese. Perché gli Stati Uniti sono sempre stati definiti dall’eccezionalità, dalla convinzione di avere un ruolo unico da svolgere nel mondo: e il disimpegno dal mondo presuppone anche una rinuncia, quella di una posizione egemonica internazionale. Non è certo che il Paese e le sue élite siano pronte: rifiutando l’eccezionalismo, gli Stati Uniti diventerebbero un Paese come un altro, una “potenza normale”. Questo punto interroga profondamente l’identità americana, la cui crisi èlegato a quello della politica estera e illumina il momento attuale negli Stati Uniti.

Gli Stati Uniti sono sempre stati definiti dall’eccezionalità, dalla convinzione di avere un ruolo unico da svolgere al mondo: e il disimpegno dal mondo presuppone anche una rinuncia, quella di una posizione egemonica sulla scena internazionale.

MAYA KANDEL

Potere normale o potere egemonico: la questione dell’eccezionalismo

Per il Claremont Institute, come per i nazionalisti e gli isolazionisti che intendono tornare alle origini del Paese, è opportuno riallacciarsi a George Washington e al suo rifiuto delle “alleanze vincolanti”; oltre a ciò, si tratterebbe di tornare alla politica estera americana del I secolo, fondata sulla necessità di potere economico e quindi su una politica commerciale aggressiva, con l’obiettivo di difendere la base manifatturiera americana e l’occupazione, ma anche su un imperialismo economico a McKinley che mette il potere dello stato per il salvataggio di imprese americane, all’interno e all’estero – questo “imperialismo privato” strettamente americano, simboleggiata dalla politica asiatica nel XIX ° secolo , di United Fruitin America Latina fino alla seconda guerra mondiale – fino alle sanzioni extraterritoriali di oggi.

Ma non tutti vedono la politica internazionale come una semplice “competizione geoeconomica”. Così, il senatore Josh Hawley, il più giovane eletto al Senato, figura in ascesa e fedele trumpista – almeno finora – ha denunciato in un discorsorecente “l’ideologia globalista dominante in molti paesi europei, in particolare Germania e Francia di Emmanuel Macron”, ideologia designata come “progressismo transnazionale”, visione “post-sovranista” o “universalismo progressista”. Ribadendo che l’obiettivo della politica estera americana non è più quello di trasformare il mondo, ha sottolineato la fondazione del paese, “costruito e sviluppato dai lavoratori, le classi medie”, sostenendo un “ordine internazionale rispettoso del nostro carattere nazionale, che deve essere una nazione prima di tutto commerciale ”. Ora, “una nazione commerciale che necessita di accesso ai mercati in tutte le regioni del mondo”, ha concluso Hawley indicando che ciò era possibile solo “se nessuna regione è controllata o sviluppata da un’altra potenza”,

Questa enfasi geopolitica che evoca le teorie di McKinder sta facendo un netto ritorno nei testi dei think tank conservatori americani, molto interessati al “controllo dell’Eurasia”.

MAYA KANDEL

Questa frase richiama il documento strategico del 1992, il primo documento del Pentagono dopo la fine della guerra fredda di Dick Cheney e Paul Wolfowitz (due uomini che si troveranno nell’amministrazione di George W. Bush nel 2001), che ribadiva uno dei fondamenti dell’atteggiamento americano nei confronti del mondo, “per impedire l’emergere di una superpotenza rivale” in grado di dominare una regione del mondo. Questa enfasi geopolitica che evoca le teorie di McKinder sta facendo un marcato ritorno nei testi dei think tank conservatori americani, molto preoccupati per il “controllo dell’Eurasia”. Hawley ha concluso il suo discorso di fondazione con una strategia di contenimento, questa volta contro la Cina, la cui “volontà di dominare costituisce la più grave minaccia alla sicurezza per gli Stati Uniti in questo secolo”. Questo discorso è vicino a quello di Tom Cotton o Nikki Haley, altre figure emblematiche della giovane guardia repubblicana e contendenti alla successione di Trump. Questo approccio sta per imporsi da parte repubblicana e potrebbe riunire le diverse correnti descritte da Dueck. Consente inoltre di invocare l’eccezionalità, in un contesto sempre più marcato di confronto dei modelli con la Cina.

Gli Stati Uniti, potenza insulare: fine della centralità delle relazioni transatlantiche 

Walter Russell Mead era al momento della pubblicazione della strategia di difesa nazionale di Amministrazione nel 2018 Trump illuminante parallelo con il dibattito politico del Regno Unito agli inizi del XX ° secolo. Alla fine del XIX E secolo in Gran Bretagna, il dibattito strategico opposti, da una parte i partigiani di una strategia di “continentale” dando priorità alle alleanze e ad una stretta collaborazione con gli Stati europei principali, e del un altro i difensori di una strategia marittima ( la politica dell’acqua blu ), che voleva allontanarsi dall’Europa per abbracciare una strategia globale, utilizzando la posizione geografica e l’impero per massimizzare il potere britannico.

Negli Stati Uniti contemporanei, si dice che i “continentalisti” siano i sostenitori dello status quo , un’estensione della politica estera post-1945.

MAYA KANDEL

Negli Stati Uniti contemporanei, si dice che i “continentalisti” siano i sostenitori dello status quo , un’estensione della politica estera post-1945: vedono ancora il mondo atlantico, con la sua fitta rete istituzionale sviluppata all’interno degli alleati della Guerra Fredda, come il modello su cui si può e si deve costruire una società pacifica globale, e quindi difendere sempre una politica americana basata soprattutto sulla collaborazione occidentale. Ma l’amministrazione Trump sembra aver fatto la scelta di una “strategia marittima”, nel senso della blue water policy del dibattito britannico: come ai tempi della Pax Britannica, i sostenitori di questa strategia intendono accumulare potere e ricchezza promuovendo i loro interessi in tutto il mondo, vedendo in questo una ricetta migliore per il successo che nelle complicazioni europee e transatlantiche. Ricordiamo, per usare la metafora di Mead, che per gli inglesi dell’epoca una Gran Bretagna forte poteva allora intervenire se necessario in Europa per mantenere o ristabilire un equilibrio di potere, e garantire così una dominazione britannica globale. Questa visione informa molte decisioni della squadra al potere a Washington. L’amministrazione Trump, ad esempio, vede l’accordo di Parigi soprattutto come un ostacolo allo sfruttamento da parte degli Stati Uniti del proprio potenziale energetico. Sopprattuto, gli Stati Uniti si vedono in una competizione geopolitica globale con la Cina che non può essere vinta invocando il multilateralismo e il diritto internazionale. La “dottrina Trump” esprimerebbe queste scelte: Asia prima dell’Europa, “realismo” piuttosto che internazionalismo liberale, prosperità americana prima del multilateralismo e cooperazione internazionale.

Questa visione ha il pregio di avvicinare sia il focus del Pentagono, già da diversi anni, sulla sfida cinese, sia alcuni istinti dello stesso presidente. Un tale approccio non volta le spalle al campo occidentale e non rifiuta le relazioni transatlantiche, ma presuppone che sia il potere americano, e non le istituzioni transatlantiche, a consentire queste stesse istituzioni, e quindi l’Occidente. esistere. Le fasi della politica estera americana e le principali rotture sono sempre legate agli sviluppi nei rapporti tra Stati Uniti ed Europa e più precisamente agli equilibri transatlantici. Si tratta quindi di un profondo cambiamento di status per le relazioni transatlantiche e forse, per quanto ci riguarda, la principale differenza tra la visione del mondo trumpista e la riflessione avviata da un campo democratico anche in piena riorganizzazione. Ma questo è solo uno dei campi di interrogazione aperti da Trump sulla politica estera. Fondamentale, per la base elettorale trumpista come per i progressisti del Partito Democratico, è anche l’idea di ridefinire una politica estera veramente al servizio degli americani, soprattutto delle classi medie e popolari, di conciliare politica estera e interna. Ma si tradurrebbe diversamente in una presidenza Biden, di cui restano da precisare i contorni e in particolare il posto di sinistra, anche se è presente anche la volontà di reinventare la politica estera e di trasformare il rapporto americano con il mondo. Fondamentale, per la base elettorale trumpista come per i progressisti del Partito Democratico, è anche l’idea di ridefinire una politica estera realmente al servizio degli americani, soprattutto della classe media e operaia, di conciliare politica estera e interna. Ma si tradurrebbe diversamente in una presidenza Biden, di cui restano da precisare i contorni e in particolare il posto della sinistra, anche se è presente anche la volontà di reinventare la politica estera e di trasformare il rapporto americano con il mondo. Fondamentale, per la base elettorale trumpista come per i progressisti del Partito Democratico, è anche l’idea di ridefinire una politica estera veramente al servizio degli americani, soprattutto delle classi medie e popolari, di conciliare politica estera e interna. Ma si tradurrebbe diversamente in una presidenza Biden, di cui restano da precisare i contorni e in particolare il posto di sinistra, anche se è presente anche la volontà di reinventare la politica estera e trasformare il rapporto americano con il mondo.

https://legrandcontinent.eu/fr/2020/10/23/la-doctrine-trump-1/

grazie Boris, di Giuseppe Masala

Accordo sulla Brexit fatto. Ora bisogna certamente lasciare il tempo di far leggere agli esperti le oltre 2000 pagine ma qualche considerazione preliminare può essere fatta sulla base di quanto letto sul Financial Times che è certamente un quotidiano britannico, ma altrettanto certamente era schierato con gli eurofili britannici.
Il punto dirimente per come la vedo io è che Londra ottiene una corte apposita che arbitri le controversie che si verificheranno in futuro. La Corte di Giustizia europea è tagliata fuori. Dunque la Gran Bretagna esce nettamente dal giogo europeo.
L’Europa si accontenta dell’uovo oggi lasciando perdere la gallina domani: niente dazi e contingentamento di merci, dunque non perde il ricco mercato britannico.
Dunque, uno a uno? Direi di no, la Eu ha accettato questo compromesso perchè nelle more del disastro economico in corso la perdita del mercato britannico sarebbe stato un danno devastante, in alcuni stati in particolare; Francia che ha uno dei suoi pochi segni positivi sulla bilancia commerciale proprio con la Gran Bretagna, Irlanda, che se perdesse il mercato inglese o muore di fame o osce dalla Ue, ma anche Italia e ovviamente Germania hanno molto da perdere, la Germania certo poteva resistere il colpo, ma all’Italia mancava solo questo per completare un disastro a livelli che è impossible anche immaginare la profondità. Bruxelles tutto sommato limita i danni immediati. Ma perde la speranza di tenere Londra come una sorta di protettorato a sovranità limitata.
In compenso i danni a lungo termine per la UE sono devastanti. Perde il primo esercito, la prima diplomazia, il primo mercato finanziario, la seconda economia della UE. Lascia inoltre a Londra la possibilità di maramaldeggiare diplomaticamente. E soprattutto è indicata la strada per l’uscita agli scontenti. Ora tutti sanno che si può e che la UE non è così forte da poter infliggere danni irreparabili né diplomatici, né economici. Grazie Boris!

FUTURO E PASSATO, di Teodoro Klitsche de la Grange

FUTURO E PASSATO

Da quando – diversi mesi – si è sentito il profumo dei soldi che – consenziente l’U.E. – dovrebbero arrivare in Italia, il dibattito pubblico è stato orientato: a) a decantare la bontà dell’Europa; b) la capacità del governo Conte per averli ottenuti; c) a pregustare il radioso futuro che le già celebrate misure del governo ci assicurerebbero

Ossia un racconto viziato da un eccesso di partigianeria (nonché da auto – ed etero – incensamento); partigianeria che si manifesta non tanto e non solo in quello che si dimentica ma ancor più in ciò che si vuole omettere.

Nel racconto suddetto vi sono asserti facilmente contestabili: quanto all’Europa, il cambiamento di marcia della stessa non è stato dovuto tanto alla solidarietà politica, fondamento del vivere in comunità (v. art. 2 della Costituzione italiana), quanto al trovarsi tutti – chi più e chi meno – in una crisi e nella necessità di superarla. Riguardo le misure del governo, sono in grande prevalenza orientate a indirizzare interventi e spese a favore di certe categorie piuttosto che di altre (specie le partite IVA), ed è evidente – a leggere la stampa, la differenza tra le toppe italiane e le misure tedesche – di converso indirizzate alle generalità dei cittadini – beneficiari (taglio dell’IVA; contributi alle imprese pari al 70% del fatturato perso nel 2020). Oltretutto favorendo – involontariamente – anche le cattive condotte (tanto sbandierate dalla sinistra). Ad esempio, se si riconosce come farebbe la Merkel un (parziale) contributo per la perdita del fatturato, questo significa che nulla va a chi non fattura (lavoro nero): tra i quali coloro che percepiscono reddito da attività illecite e financo criminali.

E in più è un incentivo a fatturare: chi non fattura – parafrasando una nota canzone – non ha il ristoro. Ma queste sono considerazioni che, nella loro ovvietà sono precluse a un governo che dalla burocrazia dallo stesso mantenuta ha appreso la pratica di complicare le cose semplici. Il che inizia dalla propaganda, e purtroppo finisce nella pratica.

Maggiore attenzione va data all’insistenza con la quale ci si riferisce a un futuro radioso, a un progetto salvifico di cui il governo avrebbe le chiavi.

Anche qua occorre confrontare quello che si esterna e ciò che si occulta.

Quanto al futuro è connaturale, in certo senso alla modernità e alle ideologie coeve, le quali hanno esaltato le magnifiche sorti e progressive delle società umane, almeno ove avessero adottato certe forme. Il massimo del tutto fu il comunismo che, presentandosi come la soluzione dell’enigma irrisolto della storia, avrebbe dovuto cambiare la natura umana, arrivando alla società senza classi, la cui somiglianza con il paese dei balocchi (o altre fantasie simili) era notevole. E, proprio per ciò, nessuno ne ha mai sentito l’odore.

Certo, avendo il senso del limite, una certa progettualità del futuro non guasta, anzi si accompagna ad ogni gruppo umano – e alle di esso classi dirigenti – che abbia volontà di decidere, nell’ambito del possibile, il proprio destino, ma occorre tener presente due caratteri che, nel caso italiano, rendono il discorso sul futuro radioso, assai poco credibile. Il primo è che le proposte del governo somigliano troppo all’operato vecchio, cominciando dai ritornelli stranoti e finendo con le realizzazioni: aumenti d’imposte, spese selettive, misure a formato di lobby, sprechi, ecc. ecc.

Gran parte dei quattrini che dovrebbero arrivare dall’Europa sarebbero destinati alla green economy e alla digitalizzazione, etichette che nascondono contenuti, in buona misura, avvolti nel mistero. In un paese connotato da una grande capacità di attrattiva turistica – colpita duramente dalla pandemia, il governo dovrebbe pensare, in primo luogo, ad aiutare questa e non progettare misteri, con etichette vaghe e “aperte”.

Ma è soprattutto i progettisti che rendono del tutto incredibili le proposte del governo. Non tanto i 5 Stelle, che sono dei novizi, quanto il PD – e accoliti – che nella seconda Repubblica hanno avuto tanto tempo per stare al governo e tutto il tempo per esercitare il potere: perché se i risultati sono stati quelli che ognuno può leggere – il più basso tasso di crescita (ora negativo) degli Stati dell’UE tra il 1994 ed oggi, quale credibilità può avere, per suonare la nuova musica, un’orchestra che da un quarto di secolo (almeno) strimpella lo stesso motivo, con pessimi risultati?

Perciò il richiamo al futuro ha una funzione mistificante precipua: non far ricordare il passato, e far credere che i soliti orchestrali possano suonare musica nuova, e soprattutto far dimenticare quella vecchia. Cioè quella che li ha fatti subissare di fischi dagli italiani.

Teodoro Klitsche de la Grange

La storia dei due vasi cinesi, a cura di Giuseppe Imbalzano

La storia dei due vasi cinesi
Una anziana donna cinese possedeva due grandi vasi, appesi alle estremità di un lungo bastone che portava bilanciandolo sul collo.
Uno dei due vasi aveva una crepa, mentre l’altro era intero. Così alla fine del lungo tragitto dalla fonte a casa, il vaso intero arrivava sempre pieno, mentre quello con la crepa arrivava sempre mezzo vuoto.
Per oltre due anni, ogni giorno l’anziana donna riportò a casa sempre un
vaso e mezzo di acqua.

Ovviamente il vaso intero era fiero di se stesso, mentre il vaso rotto si vergognava terribilmente della sua imperfezione e di riuscire a svolgere solo metà del suo compito. Dopo due anni, finalmente trovò il coraggio di parlare con l’anziana donna, e dalla sua estremità del bastone le disse: “Mi vergogno di me stesso, perché la mia crepa ti fa portare a casa solo metà dell’acqua che prendi”.

L’anziana donna sorrise “Hai notato che sul tuo lato della strada ci sono sempre dei fiori, mentre non ci sono sull’altro lato? Questo succede perché, dal momento che so che tu hai una crepa e lasci filtrare l’acqua, ho piantato semi di fiori solo sul tuo lato della strada. Così ogni giorno, tornando a casa, tu innaffi i fiori.
Per due anni io ho potuto raccogliere dei fiori che hanno rallegrato la mia casa e la mia tavola. Se tu non fossi così come sei, non avrei mai avuto la loro bellezza a rallegrare la mia abitazione”

Ciascuno di noi ha il suo lato debole. Ma sono le crepe e le imperfezioni che ciascuno di noi ha che rendono la nostra vita insieme interessante e degna di essere vissuta.
Devi solo essere capace di prendere ciascuna persona per quello che è, e scoprire il suo lato positivo.
Buona giornata a tutti coloro che si sentono un vaso rotto, e ricordatevi di godere del profumo dei fiori sul vostro lato della strada!

NOTA SULLA “TENTAZIONE” NAZIONAL-POPULISTA …, di FF

NOTA SULLA “TENTAZIONE” NAZIONAL-POPULISTA ALLA LUCE DELLA QUESTIONE (NEO)FASCISTA E DELLA TRASFORMAZIONE IN SENSO ANTISOCIALISTA DELLA SINISTRA EUROPEO-OCCIDENTALE

Non è facile trattare in una semplice nota un argomento come quello che concerne il problema del fascismo e del neofascismo nell’attuale fase storica, contraddistinta da una crisi che non è solo economica ma concerne i fondamenti stessi della civiltà europeo-occidentale. Mi limito quindi ad alcune “sintetiche” (forse, secondo alcuni, anche troppo “sintetiche”) considerazioni di carattere generale. Ritengo comunque necessario, per evitare “spiacevoli equivoci”, precisare che si deve sempre distinguere tra le persone che si definiscono o vengono definite fasciste e neofasciste e, rispettivamente, il fascismo e il neofascismo (e lo stesso vale naturalmente per i nazional-populisti rispetto al nazional-populismo, per i “liberal” rispetto alla sinistra neoliberale, ecc.).

*

Il fascismo nella sua fase iniziale (il “sansepolcrismo”, per capirsi) si presentò come una mescolanza, peraltro assai confusa, di elementi social-rivoluzionari e nazionalismo, in un contesto storico sociale completamente diverso da quello che c’era prima della Grande Guerra. Infatti, l’Italia, benché fosse tra i Paesi vincitori, era uscita dalla guerra con le “ossa rotte” sotto il profilo economico, ma al tempo stesso nutriva ambizioni di grande potenza (la “vittoria mutilata”, ecc.). Inoltre, la rivoluzione russa aveva cambiato l’intero quadro geopolitico e ideologico, diffondendo la paura del “pericolo rosso” tra le file della borghesia europea.

Tuttavia, nelle elezioni politiche del 1919 a Milano il fascismo cosiddetto “rivoluzionario” venne nettamente sconfitto e la stessa “impresa di Fiume”, contraddistinta anch’essa da aspetti social-rivoluzionari e sciovinisti, terminò con un sanguinoso fallimento nel dicembre 1920. Il fascismo comunque riuscì a sopravvivere e a rafforzarsi, grazie soprattutto al sostegno da parte del capitalismo agrario (e poi pure del capitale industriale), ossia diventando il “manganello” della borghesia contro i socialisti e i comunisti.

Nel 1921 entrò quindi a far parte dei Blocchi nazionali (una coalizione di destra) conquistando comunque solo 35 seggi (i Bocchi nazionali ne conquistarono in tutto 105, mentre i socialisti ne conquistarono 123 e i comunisti 15). Nondimeno, nel 1921-22 si moltiplicarono le violenze dello squadrismo fascista, appoggiato anche dagli apparati di coercizione dello Stato, contro i quali, come dimostrarono i fatti di Sarzana del luglio 1921, ben poco poteva fare lo squadrismo fascista. La stessa marcia di Roma, difatti, sarebbe miseramente fallita se l’esercito avesse avuto ordine di impedirla (anche se non è assolutamente certo che l’esercito avrebbe obbedito ciecamente a quest’odine; ma i carabinieri avrebbero certo obbedito, e per sconfiggere lo squadrismo fascista i carabinieri sarebbero stati più che sufficienti, se – s’intende – l’esercito non si fosse schierato con i fascisti).

Il fascismo quindi non conquistò il potere ma si alleò con il potere (a differenza del nazismo, anche se lo stesso nazismo, ispirandosi al fascismo, sfruttò le “debolezze” della repubblica di Weimar, inclusa la mancanza di un forte apparato di coercizione statale, a causa delle limitazioni imposte alla Germania dal trattato di Versailles; ma se durante il regime fascista le camicie nere giuravano fedeltà al re, durante il regime nazista le SS e la Wehrmacht non giuravano fedeltà al Kaiser ma solo ad Hitler).

Il regime fascista comunque non fu certo un regime social-rivoluzionario (lo stesso Stato corporativo fu nella sostanza un fallimento, tranne per il grande capitale), nonostante il “dirigismo” (una scelta giusta e, in un certo senso anche inevitabile) degli anni Trenta (una politica economica che avrebbe però dato i suoi migliori frutti nel dopoguerra). Difatti, nonostante la relativa modernizzazione attuata negli Trenta (sia pure in un quadro di “irreggimentazione” delle masse), il regime fascista non ebbe nemmeno il totale controllo degli apparati dello Stato – tranne una fascistizzazione superficiale, che in pratica era frutto del “matrimonio di convenienza” del fascismo con la monarchia e il grande capitale – come avrebbero dimostrato la disastrosa impreparazione bellica e la ancora più disastrosa e perfino criminale impreparazione (geo)politica e strategica che portarono il Paese sull’orlo della catastrofe già nella primavera del 1941(evitata solo per l’intervento in Africa Settentrionale dei tedeschi) e poi al totale sfacelo all’inizio del 1943.

“Scaricato” dalla monarchia e dal grande capitale (che però pensavano a salvare sé stessi più che a salvare il Paese mettendo fine ad una ignominiosa alleanza che aveva ridotto il nostro Paese a semplice strumento della politica di potenza nazista), il fascismo si dissolse di colpo nell’estate del 1943, e solo per l’incredibile viltà e/o irresponsabile negligenza dei vertici politici e militari – che non diressero, com’era loro preciso dovere, la battaglia di Roma contro i tedeschi, ma lasciarono senza ordini l’esercito, tradendo così l’intero Paese non certo la Germania nazista – si crearono le condizioni per una guerra civile, in cui “riemersero” pure alcuni aspetti del cosiddetto “fascismo movimento” ma in un contesto “segnato” irrimediabilmente dalla alleanza con i tedeschi  e dalle stragi nazi-fasciste, nonché dai fallimenti del “fascismo regime”, di modo che, al di là delle intenzioni di alcuni fascisti, la repubblica sociale tutto poteva essere fuorché una repubblica socialista.

Il vero patriottismo fu dunque quello della Resistenza (scelte diverse si possono comprendere tenendo conto solo del contesto storico, dacché non sono giustificabili sotto il profilo politico), che seppe scrivere delle pagine di storia di alto valore politico e morale, anche se non riuscì ad evitare che il nostro Paese venisse trattato come un Paese sconfitto (un “trattamento” che ha “pesato” non poco nella storia della I Repubblica e di cui ancora oggi l’Italia paga le conseguenze).

*

In sostanza, il fascismo “morì” nell’estate del 1943, e la repubblica sociale fu solo, per così dire, una “appendice storica” di un movimento e di un regime politicamente e storicamente “defunti”.

Lo stesso neofascismo quindi è un fenomeno nettamente distinto dal fascismo e comprende aspetti così diversi – una caratteristica comunque dello stesso fascismo – che lo fanno apparire come un fenomeno storico e politico tutt’altro che “unitario”. Comprende “nostalgici” ma pure filonazisti, antisemiti e filo-sionisti, atlantisti e anti-atlantisti, e via dicendo. Peraltro, si dovrebbe pure distinguere tra “semplici nostalgici” e la cosiddetta “destra sociale” più attenta a “valorizzare” gli elementi social-rivoluzionari (ma sempre “in chiave” antisocialista) presenti nel “fascismo movimento” che non la politica del regime fascista. (Un discorso diverso vale per coloro che identificano nel nichilismo il nemico da combattere, e, quindi – basandosi soprattutto sulla storia comparata delle religioni, le opere di Jünger, ecc. – privilegiano un approccio di tipo esistenziale al Politico. Ma in questo caso non si tratta di neofascismo, bensì di una forma di “anarchismo di destra” – inteso come una  sorta di “via esistenziale” anti-nichilista, contrassegnata da una particolare concezione della “trascendenza” – sempre che non si “intrecci” – e non mancano numerosi esempi di tali “intrecci” – con posizioni neofasciste o addirittura esplicitamente filo-naziste).

Ma, oltre al fatto di “richiamarsi” a questo o quell’aspetto del regime fascista o nazista, ciò che accomuna le diverse forme di neofascismo è l’odio per il socialismo e il comunismo nonché l’esaltazione di qualità cosiddette “virili” (compresa la concezione secondo cui l’uso della forza è “positivo” in quanto tale), che si accompagna non raramente ad un disprezzo per la “ragione” (nel senso di “logon didonai”) che può giungere a negare l’identità sostanziale del genere umano.

Di conseguenza anche il volontarismo e l’irrazionalismo sono tratti costitutivi delle varie formazioni neofasciste, benché si debba tener presente che c’è pure un neofascismo più “moderato” (perlopiù atlantista e filosionista), che non è ostile alla democrazia liberale nella misura in cui sia radicalmente antisocialista e anticomunista. Insomma, l’anticomunismo (incluso, al di là di certi “equivoci lessicali”, l’antisocialismo) sembra essere il tratto distintivo delle varie forme di neofascismo e questo “minimo comune denominatore” ((si badi, necessario ma non sufficiente per definire il neofascismo) ha reso (e rende) possibile pure l’alleanza tra il neofascismo e il liberalismo più marcatamente anticomunista e antisocialista.

Ovviamente, si deve sempre tener conto dei diversi contesti storici. Si pensi ad esempio all’America Latina ovverosia al cosiddetto “fascismo di mercato”, agli “squadroni parafascisti”, ecc. In Europa e soprattutto in Italia, “patria del fascismo”, il neofascismo si è manifestato e non poteva che manifestarsi in forma diversa. In particolare in Italia, oltre ai “nostalgici” (presenti una volta soprattutto nel Movimento sociale italiano) c’è stato un neofascismo ben più “aggressivo”, che si ispirava più al nazismo che al fascismo, e che oltre a scontrarsi nelle piazze e nelle scuole con le varie formazioni comuniste negli anni di piombo, è stato “usato” in chiave anticomunista da centri di potere atlantisti per attuare la “strategia della tensione”, compiere atti terroristici, ecc. (una strumentalizzazione indubbiamente favorita dalle caratteristiche del neofascismo, ossia dal culto della forza e dall’odio per il comunismo oltre, che, almeno in certi casi, da una forma di nazionalismo estremista).

D’altra parte, pure il neofascismo ha “mutato pelle” per così dire, con la scomparsa dell’Unione Sovietica, la fine della I Repubblica e la nascita del “berlusconismo”. Da un lato il neofascismo “moderato” si è riciclato in forma nazional-liberale mirando a rappresentare i “valori” della cosiddetta “maggioranza silenziosa” (media e piccola borghesia) secondo gli schemi concettuali “semplicistici” del berlusconismo. Dall’altro, terminato lo scontro con il comunismo a livello mondiale, i vari gruppetti neofascisti sono diventati sempre più “marginali” e politicamente “insignificanti”.

Del resto, il neofascismo, in tutte le sue forme, in Italia (ma pure in Europa) non può che essere “politicamente parassitario”, non avendo un progetto politico che possa essere condiviso dalla maggioranza degli italiani (e degli europei). Deve quindi necessariamente “appoggiarsi” a qualche formazione liberal-democratica o indossare le “vesti liberal-democratiche” per potere contare sul piano politico.

La crisi del sistema neoliberale, soprattutto a partire dal 2007-08, ha però nuovamente cambiato il quadro politico non solo in Europa ma pure in America, facendo crescere su entrambe le sponde dell’Atlantico una forma particolarmente “aggressiva” di populismo di destra, che, per semplicità, si può definire nazional-populismo. Si è cioè venuta a formare una situazione che offre anche ai gruppetti neofascisti l’opportunità di stabilire nuove alleanze con formazioni politiche nazional-populiste (in cui sono presenti ancora dei “semplici nostalgici”), giacché il nazional-populismo si configura come un estremismo di centro, contraddistinto da un radicale antistatalismo, da anti-intellettualismo e da antisocialismo, nonché, perlomeno in alcuni casi, da una certa xenofobia.

Peraltro, il nazional-populismo trae vantaggio pure dalla progressiva “involuzione” politico-culturale della sinistra, che in buona misura si è trasformata nella “guardia bianca” del grande capitale, rinunciando a rappresentare non solo gli interessi dei ceti sociali subalterni ma pure della piccola e di parte della media borghesia, ossia di ceti sociali penalizzati da una globalizzazione che favorisce soprattutto il grande capitale “transnazionale” o “cosmopolita”.

In questo senso l’accusa generica di fascismo nei confronti dei nazional-populisti può favorire paradossalmente solo i neofascisti e lo stesso nazional-populismo. L’ideologia “politicamente corretta” della sinistra neoliberale porta difatti a formulare dei paragoni e dei giudizi privi di ogni fondamento, che non solo non spiegano le ragioni della nascita e della diffusione del nazional-populismo, ossia del malcontento popolare a causa dei danni causati dall’attuale sistema neoliberista, ma al tempo stesso spingono la piccola borghesia e perfino buona parte dei ceti sociali subalterni ancor più verso le posizioni del nazional-populisti in quanto, in pratica, il nazional-populismo è rimasto l’unico soggetto politico a rappresentare gli interessi di questi ceti sociali.

Il fatto che il nazional-populismo proponga una “terapia” che è se non peggio altrettanto perniciosa del male che dovrebbe curare, dovrebbe invece far comprendere che solo non ignorando le ragioni del malcontento popolare e rappresentando gli interessi dei ceti sociali medio-bassi e subalterni secondo una prospettiva che riconosca il primato della funzione pubblica, e di conseguenza riconosca allo Stato il ruolo di mettere il mercato al servizio della collettività, è possibile sconfiggere il nazional-populismo e al tempo stesso relegare in un ruolo” marginale” e politicamente “insignificante” lo stesso neofascismo.

Cercare quindi di combattere il nazional-populismo senza “accorgersi” del pericolo che rappresenta la sinistra neoliberale equivale a farsi soffocare dal “boa neoliberale” per sfuggire alla “tigre” o, se si preferisce, al “gatto selvatico” nazional-populista. Del resto, se si dovesse usare il termine fascista allo stesso modo dei “liberal”, non sarebbe difficile definire pure questi ultimi “liberal-fascisti”, dato che controllano quasi tutti i gangli vitali dello Stato e della società civile (industria culturale, media, sistema educativo, ecc.), di modo da reprimere ogni forma di “dissenso”. Il neocapitalismo “a guida culturale gauchista” è una realtà che non lascia ormai spazio (politico-culturale) a nessun’altra “voce”. Certo vi è pur sempre la “rete”, ma com’è noto, “in rete” vi è tutto e il contrario di tutto, di modo che è sempre più difficile distinguere tra (la poca) informazione e (la molta) disinformazione.

Di fatto, la sinistra neoliberale (ma anche in questo caso si deve ricordare che non tutte le persone che si definiscono ancora di sinistra si identificano con le posizioni della sinistra neoliberale) non è l’erede della sinistra storica né, a maggior ragione, della Resistenza. Anch’essa ha “mutato pelle” con la fine della I Repubblica (e invero il mutamento era già cominciato alla fine degli anni Settanta) e ormai, dopo tre decenni (un periodo quindi più lungo dello stesso ventennio fascista), può non vedere che il “re è nudo” solo chi non vuole vederlo.

D’altronde, se l’irrazionalismo è tratto distintivo del nazional-populismo, la razionalità meramente strumentale che caratterizza la sinistra neoliberale è anch’essa “negazione” di quella idea di “polis” come spazio sociale e politico della ragione che la civiltà europea ha ereditato dalla cultura greca. Una razionalità al servizio del grande capitale, e che si configura quindi come strumento di dominio dell’uomo sull’uomo e sulla natura (c’è differenza tra dominio e controllo), è una razionalità “dimidiata” che alimenta essa stessa le peggiori forme di irrazionalismo e di alienazione (la sinistra europea, difatti, tranne alcune importanti eccezioni, cerca, tutt’al più, di porre la tecnologia sociale e lo stesso “agire comunicativo” al servizio dei cosiddetti “diritti individuali” – che concernono soprattutto determinati gruppi di pressione -, a scapito dei diritti sociali ed economici, nonché del benessere morale e materiale dell’intera collettività).

*

Non è quindi questione di scelta tra nazional-populismo e sinistra neoliberale. Entrambi sono parte dello stesso sistema neoliberale, anche se la sinistra neoliberale occupa i “piani alti”, e l’alternativa non può certo essere quella di “invertire le posizioni” o addirittura di cercare riparo nei “bassifondi” del sistema neoliberale. Occorre piuttosto avere il coraggio civile e intellettuale di “staccare la spina”, ossia di compiere una sorta di “delinking, in un’ottica che sappia ridefinire la concezione socialista tenendo conto del quadro geopolitico mondiale.

La lotta per l’egemonia a livello mondiale, infatti, nella misura in cui si configura come uno scontro tra la potenza (ancora) egemone (ovvero gli Stati Uniti) e un centro di potenza anti-egemonico (la Cina) caratterizzato da una società “con” mercato anziché “di” mercato (e che ripropone quindi la questione della pianificazione, sia pure in un’ottica diversa da quella che contraddistinse il “socialismo reale”), acquista un significato politico che non si può ignorare, nemmeno alla luce della sconfitta del “socialismo reale” e della stessa fine della socialdemocrazia. In questo senso, “staccare la spina” non equivale a muoversi nel “vuoto”, ma piuttosto significa che si deve agire in una fase storica che proprio perché è estremamente “fluida” lascia ancora spazio per costruire una valida e realistica alternativa all’attuale società di mercato neoliberale.

https://fabiofalchicultura.blogspot.com/2020/11/nota-sulla-tentazione-nazional.html

EUROPRONI, di Teodoro Klitsche de la Grange

EUROPRONI

L’accordo raggiunto tra l’UE e i cattivissimi Orban e Morawiecki ha scatenato i media mainstream (ossia la maggioranza), solidali nel criticarlo, ma differenti nelle ragioni addotte.

Quella più frequentemente allegata, anche se la meno probabile, è che la Merkel avrebbe piegato alla volontà europea i recalcitranti di Visegrad, concedendo poco o nulla.

Prima di spiegare i motivi di tale impostazione occorre citare che il Consiglio U.E., nell’esporre il testo dell’intesa ha sottolineato che si è cercata una “soluzione reciprocamente soddisfacente” per “rispondere alle preoccupazioni espresse in merito al progetto di regolamento relativo a un regime generale di condizionalità per la protezione del bilancio dell’Unione” assicurando il rispetto dei trattati, delle peculiarità nazionali degli Stati; l’U.E. ha accettato che, in caso di ricorso alla Corte di giustizia non potranno essere prese misure a carico degli Stati disobbedienti prima della sentenza e che comunque (con espressione poco chiara) nel regolamento impugnato saranno incorporati “eventuali elementi pertinenti derivanti da detta sentenza”. Peraltro solo violazioni che hanno impatto sul bilancio U.E. possono essere sanzionate: “Le misure a norma del meccanismo dovranno essere proporzionate all’impatto delle violazioni dello Stato di diritto sulla sana gestione finanziaria del bilancio dell’Unione o sugli interessi finanziari dell’Unione”; inoltre “la semplice constatazione di una violazione dello stato di diritto non è sufficiente ad attivare il meccanismo” e “le misure si applicheranno solo in relazione agli impegni di bilancio previsti nell’ambito del nuovo quadro finanziario pluriennale, compreso Next Generation Eu”.

Più che una resa incondizionata dei discoli l’accordo appare per quello che è ogni soluzione a carattere transattivo, dove le parti si sono fatte “reciproche concessioni”: ciascuno ha dato e ottenuto qualcosa. Di guisa che, rispetto ai puri, agli estremisti, alcune critiche hanno qualche fondamento: basti ricordare che, prima dell’accordo, alcuni euroestremisti erano giunti nell’ordine a sostenere: a) la cacciata dei discoli dall’U.E.; b) l’abolizione del diritto di veto nell’ordinamento europeo.

Il tutto peraltro “giustificato” con le conseguenze economiche della pandemia – e la necessità di porvi rimedio. Ma se l’obiettivo era questo (emergenza sanitaria e risposta economica), non si capisce perché il negoziato era stato complicato e reso difficile con la condizionalità rafforzata del rispetto dello Stato di diritto. La quale, a pandemia in corso, appariva come un espediente per estorcere un consenso minacciando reazioni a comportamenti estranei all’emergenza sanitaria ed alla necessità di porvi rimedio.

Ma la questione che qui affronto è diversa: per quale ragione le élite dirigenti italiane (e i loro accoliti) vogliono dimostrare che la reazione di polacchi e ungheresi non ha ottenuto nulla (o molto poco) piegata (come sarebbe stata) dalla volontà sovrana (scusare l’aggettivo da turpiloquio) della U.E.. Con la quale è meglio assentire, sottomettersi senza discutere (tanto, si perde solo tempo).

Atteggiamento che è quello preferito da governanti eurolirici che hanno diretto l’Italia (quasi sempre) negli ultimi dieci anni e in buona parte del periodo precedente. Bastava una richiesta europea (“ce lo chiede l’Europa”) per eseguirla prontamente: e farsene titolo di merito quali novelli De Gasperi o Martino. Anche quando era evidente che qualche sgarbo dall’Europa l’avevamo ricevuto (come nella vicenda della caduta di Berlusconi e degli eurosorrisetti), bisognava incassare e fare penitenza. La quale, per gli eurodipendenti è castigo scrupolosamente riservato ai governati, anche quando una siffatta pretesa non è stata avanzata dalla Merkel o dalla Von der Layen.

Gli è che gli eurodipendenti esternano delle trattative un’immagine da solotto o da bocciofila: che per dialogare bisogna (necessariamente e previamente) assentire. Nella realtà non è così, e rientra nei fondamentali del politico: per trattare l’accordo più agognato, ossia la pace, occorre trattare col nemico.

Perché questo sia durevole, la pace deve tener conto degli opposti interessi e posizioni (se no, da trattato diventa dettato di pace; come capitò a quello di Versailles). Avete mai visto trattare qualcosa, dalla pace in giù, tra amici, cioè non solo non belligeranti, ma neppure aventi volontà e obiettivi differenti?

Quindi contrariamente all’opinione dei nostri eurodipendenti, trattare è cosa logica (e quasi sempre opportuna): avere volontà ed interessi diversi è naturale; conciliarli con quelli dell’altro è – in genere – normale e conveniente. Non c’è nulla di contrario al bon-ton diplomatico nel comportamento di chi prima minaccia, litiga e poi tratta.

Ma per i nostri ciò voleva dire legittimare (anche) la posizione di Salvini il quale, per l’appunto, chiudeva i ponti ai migranti per costringere l’Europa a farsi carico – proporzionalmente – del problema degli stessi. Atteggiamento risultato pagante dato il calo drastico, tuttora perdurante (anche se in misura minore) dei medesimi. Con sollievo delle strutture di accoglienza e del bilancio dello Stato. Ma con grande scorno di coloro che dell’accoglienza – ben remunerata – avevano fatto un affare. Strano ed inconsueto è l’atteggiamento remissivo e sottomesso praticato (e predicato) degli eurolirici. A proposito dei quali occorre dire che se polacchi e ungheresi avessero avuto la loro stessa tempra ed attitudine – mentale e morale – l’Est europeo sarebbe ancora diviso dalla cortina di ferro.

Teodoro Klitsche de la Grange

fuochi che si riaccendono, di Bernard Lugan

Alla fine del 2020, due “vecchi” conflitti  africani si stanno riaccendendo:
1) A nord, la tensione è aumentata improvvisamente tra ilMarocco e l’Algeria

dopo che il Polisario ha deciso di tagliare i corridoi di collegamento stradale

dal Senegal e dalla Mauritania al Mediterraneo. Tuttavia, l’unica domanda che

vale la pena porsi è se il Polisario ha agito di propria iniziativa, o se l’esercito

algerino lo ha spinto a testare la volontà marocchina.

Domande correlate: quale controllo l’Algeria esercita realmente su alcuni diverticoli

delPolisario che ha aderito allo Stato islamico (Daesh)? Alla fine del
conto, è ancora il Polisario utile al “sistema” algerino?
2) Nella regione del Corno, l’Etiopia è di nuovo protagonista con la secessione del

Tigray.
Stiamo affrontando un fenomeno di tipo jugoslavo, con lo smembramento di un paese multietnico, un mosaico di popoli che hanno perso la propria coesione?
Dalle sue origini al 1991, l’Amhara ha svolto questo ruolo; successivamente dal 1991 al 2019, sono subentrati i Tigrini. Oggi, etno-matematicamente forti, gli Oromo si stanno gradualmente affermando.
Ma i Tigrini non vogliono essere soggetto ai loro ex servi …
Fortunatamente per il potere centrale, l’odio degli Amhara verso i loro cugini tigrini è talmente viscerale che sono alleati congiuntamente al potere degli Oromo.
Fino a quando ? E’ la questione delle questioni…
Interviene la crisi algerino-marocchina in un contesto politico algerino che fa

venire in mente la fine del periodo Bouteflika. Infatti, dal 2013, data del primo colpo di quest’ultimo, l’Algeria è una barca alla deriva; non è più governata.
Dopo le grandi manifestazioni dell ‘”Hirak” interrotte dal Covid 19, una vera “grazia divina” per il “Sistema”, la “nuova Algeria” annunciata dal presidente Tebboune apparve rapidamente per quello che era, l’estensione gerontocratica dell’Algeria di Bouteflika.
Infatti, ‘ tre gerontocrati che gestiscono il “Sistema” sembrano tutti arrivati alla fine del loro” orologio biologico “.

75 anni anni, il presidente Tebboune è ricoverato in Germania, mentre il generale Chengriha, capo di stato maggiore di 77 anni in Svizzera. Quanto a Salah Goujil, il presidente del Senato, l’uomo destinato ad assumere il periodo di transizione in
caso di scomparsa del presidente, ha 89 anni ed è anche molto malato …
In questo periodo di fine regno, i clan dei giannizzeri sono pronti a regolare i conti, a tagliarsi la gola a vicenda per afferrare i resti di potere. Quello del generale Gaïd Salah è stato liquidato politicamente e riguardo agli altri due clan sembra che stiano aspettando
la scomparsa del presidente
Tebboune:
– L’ex DRS (i Servizi), quello dato per distrutto, dimostra che è ancora potente
nonostante l’incarcerazione del suo
leader principale.
– Quella del suo nemico, il generale Benali Benali, circa 80 anni,
il più vecchio ufficiale nel grado più alto e leader dell’esercito algerino
della potente guardia repubblicana.
Per tutti, l’alternativa è semplice:
prendere il potere o finire il loro giorni in prigione …
Bernard Lugan

MEGLIO DENG, di Teodoro Klitsche de la Grange

MEGLIO DENG

Diceva Deng Tsiao Ping, con un’espressione rimasta famosa, che l’importante non è il colore del gatto, ma che acchiappi i topi. Con ciò il grande statista, padre dell’attuale potenza (e “sistema) cinese, cui è riuscita la conversione di un immenso paese da una economia agraria (e povera) a una post-industriale, intendeva che, nella scelta e selezione delle classi dirigenti, la capacità di raggiungere gli obiettivi fissati e/o voluti (dall’agente) debba prevalere su quello della conformità ad imperativi – nella specie politico-ideologici – ma potrebbero essere anche a fondamento religioso, estetico o della corrispondenza ad una “causa” (e ai relativi “precetti”) – intesi come superiori e determinanti.

Quando, da tanto tempo, e se in particolare con la pandemia del Covid, si ammira (anche) la capacità della Cina di affrontare con efficacia le conseguenze del virus, le spiegazioni (prevalenti) hanno carattere ideologico: la possibilità di un regime autoritario che comanda senza o pochi limiti – naturali a quelli di sistemi più rispettosi dei diritti individuali. Salvo poi a mettere in guardia contro il consenso all’autoritarismo che ne può derivare. Giustificazione (e preoccupazione) declinata in diverse forme, non esclusa – anzi forse la più ricorrente – del comunismo che, per le proprie istituzioni-tipo (centralismo, gerarchia, assenza di opposizione politica) è ancora (in parte) vivo nel sistema cinese.

Non si può escludere del tutto l’incidenza di tale fattore: anzi occorre concordare che è una componente importante del successo. Tuttavia si pensi a cosa sarebbe successo in Cina se il grande paese fosse stato fermo al comunismo agrario di Mao-Dse-Dong: il Covid avrebbe fatto un’ecatombe o comunque causato una mortalità assai superiore, un po’ come capitato all’India – paese per dimensioni demografiche paragonabili – la cui percentuale di decessi (e contagiati) da Covid è assai peggiore di quella cinese: per cui anche lo sviluppo economico (e di condizioni di vita) dovuto all’abbandono del modello comunista e l’adozione di un “socialismo di mercato” ha avuto conseguenze positive nel contenimento della pandemia.

Senza insistere nell’elencare cause concorrenti (probabili o possibili), occorre considerare quanto può aver inciso la massima – pragmatica e laica di Deng sul modello di sviluppo.

E qua occorre rifarsi a Max Weber. Scriveva il grande sociologo che “come ogni azione anche l’agire sociale può essere determinato” in modo “razionale rispetto allo scopo” ossia da aspettative sul successo rispetto al fine voluto e considerato razionalmente; ovvero “in modo razionale rispetto al valore – dalla credenza consapevole nell’incondizionato valore in sé – etico, estetico, religioso, o altrimenti interpretabile – di un determinato comportamento in quanto tale, prescindendo dalle sue conseguenze”; e poi affettivamente (da affetti e da stati attuali del sentire); o tradizionalmente (da un’abitudine acquisita). Pur non potendosi escludere contaminazioni tra i diversi tipi (per cui spesso l’agire è determinato in base sia a valori quanto allo scopo, ovvero razionale rispetto ai valori, ma allo scopo (scelto) per i mezzi da impiegare1.

Tuttavia, sostiene Weber “Dal punto di vista della razionalità rispetto allo scopo, però, la razionalità rispetto al valore è sempre irrazionale – e lo è quanto più eleva a valore assoluto il valore in vista del quale è orientato l’agire; e ciò poiché essa tiene tanto minor conto delle conseguenze dell’agire, quanto più assume come incondizionato il suo valore” (il corsivo è mio); il quale di solito è “la pura intenzione, la bellezza, il bene assoluto, l’assoluta conformità al dovere”.

Proprio l’attenzione dell’agire razionale rispetto allo scopo ai (probabili) risultati e la valutazione decisiva (per confermarne la congruità) delle conseguenze rende, a un tempo, tale agire più “utile” e più verificabile. Se per giudicare una razionalità rispetto al valore è sufficiente confrontare valori e (intenzioni) dell’agire, nel primo caso sono le conseguenze, il risultato/i concreto/i a misurarne la validità – e quindi l’effettiva razionalità. Per cui una comunità che tenga nella maggiore considerazione – ed orienti le scelte dei dirigenti – in base alla massima di Deng ha una superiore capacità di affrontare la realtà e conseguentemente l’emergenza (cioè la fortuna machiavellica), predisponendo argini, terrapieni e canali per contenerne l’effetto distruttivo.

Dai risultati economici (e non solo) della Cina negli ultimi quarant’anni (dopo la “sterzata” di Deng) risulta che il “criterio del gatto”, evidentemente applicato, ha contribuito all’eccellenza cinese. Dato che a partire dagli anni ’90 è cominciata la stagnazione-recessione dell’Italia, occorre vedere quale dei tipi weberiani dell’agire sociale sia stato qui più praticato (e predicato). Scriveva Weber che “Per agire «sociale» si deve però intendere un agire che sia riferito – secondo il suo senso, intenzionato dall’agente o dagli agenti – all’atteggiamento di altri individui, e orientato nel suo corso in base a questo”; per chiarire quale sia il criterio (prevalente) applicato può dare un notevole aiuto l’immagine e i messaggi comunicati dalla classe politica (più che dalla classe dirigente). I quali prevalentemente sono riconducibili alla “razionalità” rispetto al “valore”. È chiaro che i valori sono, in parte, col tempo cambiati. Un tempo prevalevano bontà, rivoluzione, socialismo, comunismo, resistenza, nazione, potere, cristianesimo, libertà, costituzione (e così via), dopo il crollo del comunismo, buona parte dei “vecchi” sono stati sostituiti dal mercato, dai diritti dell’uomo, dall’ambiente.

È interessante notare come, con qualche eccezione, pur cambiando i valori di riferimento (in particolare a sinistra, più colpita dal crollo del comunismo) l’attitudine (e perfino l’apparenza) a propagandarli sia cambiata – o sia mutata di poco. Tra le rarità (parzialmente) contrarie rispetto alla regola Berlusconi, il quale rivendica per se d’essere l’ “uomo del fare” (anche se, spesso, quel fare era il minimo sindacale).

Tutti (quasi) gli altri, ancor più quelli dell’area sinistra appaiono nel linguaggio, nella mimica e nell’immagine dei predicatori2.

Tali prediche, come scriveva Hobbes sono il mezzo di comunicazione dei sacerdoti i quali hanno il compito di persuadere ed insegnare (la parola di Cristo) ma cui Dio non ha mai dato il potere di costringere, concesso al potere temporale. Questo così ha la responsabilità: a predicare fa bene ma dimezza (almeno) la propria funzione: che è quella di proteggere, anche con la forza.

Diversamente dalla razionalità rispetto allo scopo, quella ai valori si misura sulla conformità della condotta ai valori (indipendentemente dalle conseguenze) e sull’intenzione dell’agente, ossia sulla “purezza di cuore”. È chiaro che con un criterio del genere, ogni profeta disarmato (scriveva Machiavelli), ogni predicatore di successo diventa un buon governante.

Certo si potrebbe notare che spesso su quelle buone intenzioni si sono costruite fortune (economiche), come recita un detto americano sul bene perseguito dai quaccheri. Ma questo è un altro – anche se assai spesso ricorrente – discorso.

Resta il fatto che conformare la propria condotta non al perseguimento degli interessi concreti della comunità, ma ai valori esternati è una buona strada per “trovare la ruina più tanto che la preservazione sua”, predicando una condotta sostanzialmente indifferente al concreto risultato – il bene comune – (concreto) degli individui e dell’insieme sociale. Per cui portarlo a modello diventa la via maestra per la decadenza della comunità: come applicare il detto di Deng inverso.

Il solo predicarlo (prevalentemente) è già un errore, perché induce il pensiero che per ben governare occorre essere buoni (predicatori): a comportarsi di conseguenza si agevola l’emergere di una classe dirigente composta di simil-preti, buoni ma poco utili, con parecchi ipocriti che vi si nascondono. Proprio la categoria che assicura quanto capitato all’Italia, che da trent’anni ristagna. Meglio meno buone intenzioni e prediche, ma più risultati.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 Ovvero, come scrive Weber: “individuo che agisce può – prescindendo da qualsiasi orientamento razionale rispetto al valore, in vista di «imperativi» e di «esigenze» – disporre gli scopi concorrenti e contrastanti, considerati” per cui “di conseguenza può orientare il suo agire in maniera che essi siano soddisfatti, se possibile, in tale successione principio dell’«unità marginale»” Wirtschaft und Gesellshaft trad. it. Economia e società, vol. I, Milano 1980, p. 23.

2 D’altra parte già un secolo orsono il Presidente Wilson, con la sua insistenza sui principi da applicare nella pace di Versailles appariva a un acuto economista come J. M. Keynes un “predicatore presbiteriano”; quando Keynes descrive Wilson è palese – riportandolo alla pagina di Weber sui “tipi ideali” dell’agire – che non aveva coordinato scopo e mezzi. Perché sostiene Keynes “non aveva nessun piano, nessun progetto, non idee costruttive di sorta per rivestire di carne viva i comandamenti che aveva tuonato dalla Casa Bianca. Avrebbe potuto fare un sermone su ognuno di essi o rivolgere all’Onnipotente una solenne preghiera per il loro adempimento; ma non era in grado di formulare la loro concreta applicazione allo stato effettivo dell’Europa”, v. ora trad. it. in J. M. Keynes Sono un liberale?, Milano 2010, p. 43.

MORTE E LIBERTA’_DI Pierluigi Fagan

MORTE E LIBERTA’. Mi si è presentata ieri, plasticamente, la radicalmente differente forma delle società tra quella cinese e quella occidentale. La cosa di per sé non farebbe notizia, ma per un aspetto induce a riflessione. Ieri infatti abbiamo qui da noi contato 993 morti per Covid in un solo giorno, che si sono sommati a gli altri 57.000 cumulati nei nove mesi precedenti. Solo ieri 3000 negli USA per più di 280.000 in totale. Ormai siamo assuefatti a questo monotona contabilità, la diamo per “naturale”, un accidente del destino che tocca sopportare.
Ma la mattina di ieri, mi ero anche letto un reportage dalla Cina dell’inviato di Repubblica F. Santelli, che è anche l’inviato stabile della testata nel Paese di Mezzo. Mi spiace citare un “articolo a pagamento”, ma proverò ad accennarne il contenuto perché dà da pensare. Il giornalista racconta del suo recente rientro in Cina dall’Italia. Tamponato prima di partire, pluritamponato al suo arrivo e comunque obbligato come chiunque entri in Cina ormai da mesi, a 14 giorni di reclusione in un Covid hotel per ultima sicurezza. Purtroppo, però, lì giunge l’esito dei tamponi fatti all’aeroporto: positivo. Fortunatamente asintomatico, si farà 40 giorni di reclusione in 18 mq (foto allegata) in un’altra struttura dedicata, senza luce naturale ed alcun contatto umano (si comunica via smartphone coi medici) in attesa dell’allineamento in negativo di tre tamponi (nasale, faringeo, anale), ripetuti due volte. A quel punto, si torna al Covid hotel e si torna liberi solo dopo altri 14 giorni e tamponi negativi finali, 54 giorni, quasi due mesi e solo perché positivo.
Naturalmente, il reportage fa senso se lo si legge, se si leggono i particolari della fredda reclusione ed i “modi” cinesi, senz’altro efficienti ma decisamente poco caldi e simpatetici. Ma lo stesso giornalista, immaginando un ipotetico dialogo con una autorità cinese, osserva che tutto questo sta da una parte con 4.634 morti su 1,4 miliardi di persone mentre dall’altra, la plurima salvaguardia delle nostre libertà sociali ed individuali (la cui limitazione ci fa per altro molto infuriare), presenta un conto di 58 mila morti su 60 milioni. Altresì, noi viviamo in emergenza permanente, salvo un po’ di allentamento estivo, ormai da mesi, mentre i cinesi dopo più di due mesi di blocco ferreo, ora sono tornati ad un vita normale. Diversi quindi distribuzione, peso e durata dei sacrifici, da una parte a salvare dalla morte, dall’altra a salvare la libertà.
Detto ciò occorre aggiungere due considerazioni. La prima è che le cifre riportate vanno prese a grana grossa. C’è chi obietterà che il computo dei morti da noi è viziato e chi invece sa che le morti sono sottostimate, così come altri, poco inclini alla riflessione, diranno che le morti cinesi sono ampiamente sottostimate. Saranno sicuramente sottostimate ma non cedo di molto per semplici ragioni logico-logistiche-statistiche sulle quali però eviterei un inutile dibattito. Mi spiace aver perso la fede nel dialogo ma dopo mesi di estenuanti discussioni con contatti che pure ritenevo razionali se non intellettualmente coltivati, mi sono reso conto non solo che ad alcuni mancano nozioni basiche ad esempio di statistica e logica elementare, ma ciò che è peggio non hanno nessuna intenzione di acquisirle sebbene uno spenda anche tempo per condividerle per comune spirito di ricerca. Alla fine la sproporzione evidente c’è comunque ed i due diversi “modi” si stagliano con sufficiente chiarezza e contorni precisi.
La seconda considerazione è l’evitare comparazioni con giudizio. Intendo il fatto che “società cinese” o “società occidentale” sono due interi da prender complessivamente e tra loro incommensurabili, il come si è trattata la pandemia dipende da un gran numero di fattori, anche storici, culturali, antropologici oltreché politici ed economici. Quindi, anche ogni “giudizio” su quale dei due modi sia migliore è improprio. Probabilmente un occidentale inorridirebbe sul dispotismo del modo cinese ed un cinese inorridirebbe sull’egoismo individualista occidentale. Marziani non coinvolti in senso valoriale a fare da terzi, non ne abbiamo.
Ad un cinese coinvolto nella “lotta di popolo contro il nemico virale” in cui ognuno si sacrifica per un bene superiore di tipo collettivo, come dice il Ceccarelli, una società in cui migliaia di famiglie ancora dopo nove mesi piangeranno i loro morti addirittura sotto Natale nel mentre altri insorgono perché non liberi di farsi la meritata sciata a Courmayeur o Cortina, sembrerà una società di animali pazzi. Così ad un occidentale, il ferreo e spersonalizzato, kafkiano per certi versi, controllo panoptico delle invisibili autorità cinesi che per salvare la normalità sociale non si fanno scrupolo di sacrificare la normalità individuale.
Poco peso hanno in termini di differenza le considerazioni sul benessere del sistema economico. E’ stata ed è una preoccupazione simile per le autorità dei due sistemi culturali anche se alla riprova dei fatti, il modo cinese che inizialmente qui sembrava scriteriato, si è poi rivelato il più logico dal punto di vista di tecniche gestionali epidemiche. La terapia d’urto che praticamente elimina il virus dalla circolazione nelle reti sociali salvo chiusura ermetica o molto controllata dei confini, si è rivelata la più logica ed efficace rispetto a quella della gestione con convivenza controllata nel lungo periodo, anche dal punto di vista del bilancio economico.
Se dunque ci siamo vietati l’inutile “Barabba o Gesù?” facendo della retorica comunitaria che sogna una società social-confuciana piuttosto che della retorica libertar-individualista che accetta di pagare i suoi prezzi in nome di diverso paradigma, perché scrivere un post? Ce lo dice il giornalista di Repubblica con cui concordo: “ La pandemia è un evento unico, un groviglio di fattori biologici, statistici, sociali, economici, politici e culturali. Sfida le nostre categorie e il nostro senso comune. Poteva essere l’occasione di fare un passo in avanti nella comprensione della complessità, invece mi sembra che, ancora più di prima, abbiamo urgenza di risposte semplici, ricette assolute, responsabili da accusare, immunizzazioni veloci.”
Ecco, questo sì. Penso che alla fine anno, il prezzo complessivo dell’evento che si conta in morti, debilitati di medio-lungo periodo, disoccupati, nuovi poveri, imprese fallite o seriamente compromesse, vari problemi psichici ed un lungo disagio personale e collettivo diffuso, andrà pesato e valutato se invitabile o diversamente gestibile. Ma tale riflessione abbisognerà di una mentalità in grado di tenere assieme quel “groviglio di fattori” perché sprecheremmo il prezzo pagato se continuassimo ora ad evidenziare un punto, ora l’altro in un infinito girotondo delle opinioni, alcune anche immotivatamente urlate in stato di evidente disagio psico-cognitivo. Se è vero che “ciò che non ti uccide, ti rende più forte”, se cioè l’esperienza, spesso soprattutto quella negativa, è severa maestra di cose che ignoravamo, occorrerà una posata riflessione, prima ancora che sul cosa abbiamo fatto e come l’abbiamo fatto, sulla nostra capacità di assumere quel “groviglio di fattori” che compongono ogni problema complesso.
Converrà farlo perché la nostra era sarà connotata da un gran numero di problemi fatti di “grovigli di fattori” e se di tali problemi vogliamo darci comune condivisione per poi dibatterli e deciderne le possibili soluzioni, sarà il caso di porci prima il problema di “adeguamento delle nostra mentalità alle cose”. Se le cose sono complesse, la nostra mentalità ha parecchio lavoro da fare.

La Turchia nella NATO, tra utilità e ostilità_ di Hajnalka Vincze

Chi può dimenticare questa scena surreale al termine di una cena della NATO nel maggio 2015 ad Antaliya, o su invito del ministro degli Esteri turco, ospite dell’evento, funzionari dell’Alleanza e dei suoi stati i membri cantano tutti insieme, a braccetto, l’inno di Michael Jackson e Lionel Richie: “We are the world”? Due anni dopo, durante un’esercitazione NATO in Norvegia, l’atmosfera è molto più cupa. I quaranta soldati turchi che vi partecipano sono stati appena ritirati, con effetto immediato, dal loro governo. La causa ? A seguito delle singole iniziative di un tecnico e di un ufficiale norvegese, l’immagine di Ataturk (fondatore della Repubblica di Turchia) è stata proiettata come bersaglio nemico nelle esercitazioni e sulle reti sono stati trasmessi falsi messaggi a nome del presidente Erdogan su aspetti sociali interni della NATO.

Se, nonostante la profusione di scuse pubbliche, l’incidente ha così tanto segnato gli spiriti, è perché è avvenuto in un momento in cui i vari e variegati punti di attrito si erano già notevolmente accumulati tra Ankara ei suoi alleati. . Una tendenza che da allora si è solo intensificata. Dalle incursioni in Siria alle ripetute interferenze negli affari interni dei Paesi europei attraverso le comunità turco-musulmane, passando per l’invio di jihadisti in Libia e Nagorno Karabakh, alla violazione dell’embargo sulle armi destinato a Libia (al punto da sfiorare uno scontro militare con la fregata francese Courbet), il ricatto migratorio all’Unione Europea, il controverso acquisto di un sistema di difesa antiaereo russo e la revisione unilaterale delle zone marittime in Mediterraneo orientale. Non mancano “soggetti irritanti, anche conflittuali” . [1]

(Credito fotografico: Hurriyet Daily News)

Non sorprende che in Europa e negli Stati Uniti stiano sorgendo domande prima inimmaginabili sul posto della Turchia nell’Alleanza, e l’ipotesi di una sospensione del suo status di membro viene talvolta sollevata al massimo livello. [2] Tuttavia, è importante distinguere tra le cose. La NATO non è un blocco monolitico e non tutti gli alleati sono colpiti nella stessa misura dalle azioni e dalle minacce della Turchia. Le reazioni variano, anche se solo in base alla posizione geografica. Notevoli differenze stanno emergendo tra America ed Europa, ma anche tra gli alleati europei. Può l’atteggiamento apertamente provocatorio di Ankara essere anche un utile rivelatore, un catalizzatore per spostare l’equilibrio del potere? E se sì, in quale direzione?

La multiforme utilità dell’alleato turco

La Turchia è uno dei pochissimi paesi della NATO ad aver mantenuto un certo grado di indipendenza. Come ha recentemente spiegato il vice segretario generale dell’Alleanza, Camille Grand: “è sorprendente quando si arriva nella NATO come francesi che per 26 alleati su 29 la politica di sicurezza e difesa è Prodotto NATO al 90% o al 99%. Ci sono tre eccezioni: Stati Uniti, Francia e Turchia, che hanno sempre mantenuto la volontà di avere uno strumento di difesa che possa funzionare al di fuori dell’Alleanza Atlantica – come possiamo vedere oggi ” . [3] È alla luce di questa specificità che possiamo decifrare il ruolo della Turchia come alleato – una curiosa miscela di diffidenza e utilità.

Utilità diretta

Appena entrata a far parte dell’Alleanza nel 1952, la Turchia era considerata un prezioso alleato, sul fianco meridionale dell’URSS, una sorta di “pilastro orientale della NATO” . Con il suo esercito che occupa una posizione chiave nel paese e coltiva stretti legami con l’esercito americano, la sua politica estera era strettamente allineata a quella degli Stati Uniti, come durante la crisi di Suez nel 1956. Ankara era una figura, all’epoca, “miglior studente della classe atlantica” . [4] Nonostante i suoi tentativi di perseguire una politica più autonoma qua e là, e in particolare dall’invasione della parte settentrionale di Cipro nel 1974, la Turchia ha sempre fatto bene. ha svolto il suo ruolo nell’Alleanza, che non è altro che“La funzione geopolitica dell’Impero Ottomano dalla guerra di Crimea: ostacolare la spinta russo-sovietica verso il Mediterraneo orientale e il Medio Oriente (la cosiddetta strategia dei mari caldi)  ”. [5]

Inoltre, l’esercito turco è uno dei più forti della NATO, il secondo in forza con 750.000 uomini. L’ex capo di stato maggiore degli eserciti francesi, il generale Henri Bentégeat ha osservato che “per averla conosciuta bene, è uno dei rari eserciti europei in grado di combattere”[6] Neanche a lei importa dei compiti. L’esercito turco è tra i primi cinque contributori alle operazioni dell’Alleanza, ha perso 15 uomini in Afghanistan e partecipa a missioni di addestramento in Iraq e stabilizzazione nei Balcani. La Turchia assumerà anche la guida di una task force congiunta ad altissima prontezza (VJTF) nel 2021. È anche uno dei cinque paesi europei dell’Alleanza che proteggono i dispositivi nucleari tattici americani sul suo territorio, in la base di Incirlik, nell’ambito della cosiddetta condivisione nucleare della NATO (sotto il controllo operativo esclusivo degli Stati Uniti). Il paese ospita anche il Comando della Terra Alleata a Izmir, nonché il Centro di eccellenza per la difesa contro il terrorismo (una scelta un po ‘ironica viste le aspre controversie tra esso e altri alleati, se non altro per definire la portata di questo argomento). La Turchia ospita anche, per conto della NATO, una base aerea di sorveglianza in avanti AWACS a Konya, nonché una stazione radar di allerta precoce a Kürecik. Forte di tutti questi punti di forza, si sta permettendo sempre più di perseguire una politica autonoma.

Utilità fortuita

Per puro caso, certe manifestazioni di questa autonomia possono talvolta coincidere utilmente con le posizioni difese dalla Francia. Questo è stato notoriamente il caso del rifiuto di partecipare all’invasione americana dell’Iraq nel 2003. Più in generale, i due paesi condividono riserve sul vedere la NATO essere troppo coinvolta, e per di più militarmente, in Medio Oriente. Est. Né Ankara né Parigi vogliono apparire lì come un semplice esecutore dell’agenda degli Stati Uniti. Allo stesso modo, i due preferiscono impedire alla NATO, con la sua retorica, di sconvolgere e provocare le potenze nelle loro vicinanze (vicinato nazionale per la Turchia, europeo per la Francia). I due sono quindi anche contrari, per quanto possibile, all’Alleanza che nomina sempre per nome gli avversari.

Un altro tema su cui convergono oggettivamente gli interessi di Ankara e Parigi è quello delle politiche sugli armamenti. Non che la Francia sia un importante fornitore dell’esercito turco, non lo è. I loro approcci sono comunque vicini nel senso che entrambi sono consapevoli dell’importanza fondamentale di un’industria della difesa nazionale. Condividono anche l’esperienza di essere stati tenuti in ostaggio, di volta in volta, dal regolamento ITAR statunitense che richiede l’autorizzazione, caso per caso, ad esportare qualsiasi apparecchiatura che contenga anche un mezzo chiodo di Origine americana. Il blocco del Congresso, in risposta all’acquisto da parte della Turchia del sistema russo S400, mette a repentaglio un accordo di vendita di elicotteri da 1,5 miliardi di dollari (prodotto dalla Turchia ma concesso in licenza per gli Stati Uniti) in Pakistan, con il suo corollario di danni per Ankara in termini di credibilità e immagine. Una situazione ben nota alla Francia, che recentemente ha visto rallentare la vendita di ulteriori Rafale all’Egitto da parte dell’America, idem per i satelliti militari di osservazione diretti negli Emirati Arabi Uniti. Potrebbe quindi emergere una convergenza di vedute tra Francia e Turchia, in un momento in cui si esercita nella NATO una forte spinta americana a favorire programmi “congiunti”, per definizione dipendenti, piuttosto che contributi nazionali.

Utilità paradossale

C’è un terzo modo in cui la Turchia può essere utile, suo malgrado. In effetti, è stata l’invasione turca della Siria nord-orientale, senza consultazione o preavviso, che è servita come ultimo fattore scatenante per il presidente Macron per esporre la sua visione sulla “morte cerebrale” della NATO, in una controversa intervista al settimanale britannico The Economist[7] Leggendo attentamente le parole del presidente francese, è ovvio che le azioni turche erano solo un pretesto. Un’occasione d’oro per attirare l’attenzione sulle disfunzioni dell’Alleanza, sull’inaffidabilità delle garanzie americane e sulla necessità per gli europei di assumere la propria autonomia. Inoltre, non è la prima volta che la Turchia, involontariamente, utilizza argomenti per rafforzare la linea francese all’interno dell’Alleanza atlantica.

All’inizio degli anni 2000, quando è stata lanciata la politica di difesa dell’UE, Ankara ha reso a Parigi un enorme servizio, anche se sperava di fare il contrario. Una delle prime domande all’epoca era l’articolazione tra la nuova politica europea e la NATO. La Turchia, così come la Norvegia, entrambe sostenute dagli Stati Uniti, hanno combattuto, minaccia di veto a sostegno, per ottenere la massima partecipazione degli alleati non membri dell’Unione Europea a questa nuova politica degli Stati Uniti. ‘UNIONE EUROPEA. La Norvegia si rese subito conto della natura controproducente di un simile approccio. D’altra parte, la Turchia è rimasta su questa posizione, di fronte a quella che considerava l’ennesima ingiustizia e umiliazione da parte dell’Europa. L’ostruzionismo turco nella NATO ha dato i suoi frutti: è riuscita a bloccare accordi formali con l’UE, scambi di informazioni, a volte anche la cooperazione nello stesso teatro di operazioni. Ankara impedisce inoltre agli europei di invocare risorse comuni della NATO per condurre un’operazione. Che cosa“Non disturba affatto la Francia o l’Unione Europea, a dire il vero” , secondo il generale Bentégeat, ex presidente del comitato militare dell’Ue. In effetti, il comportamento della Turchia su questo tema è (anche) una dimostrazione su vasta scala degli svantaggi di scommettere su tutta la NATO e, normalmente, un incentivo in più per gli europei a emanciparsi gradualmente da essa.

Ascesa delle ostilità tra alleati

Ci sono molti disaccordi, e stanno crescendo oggi, nelle relazioni tra la Turchia e il resto della NATO. Negli anni si sono accumulate varie e svariate insoddisfazioni da entrambe le parti. Fino ad ora, tuttavia, i rispettivi interessi hanno fatto sì che le due parti ignorassero le differenze e favorissero il mantenimento di questa strana alleanza.

(Credito fotografico: NATO)

Le rimostranze della NATO

Le relazioni sono segnate dapprima da una lunga serie di ambiguità turche, molto poco apprezzate dai partner della NATO. A cominciare dall’offensiva turca in Siria contro le milizie curde alleate della coalizione anti-Daesh, la cui coalizione è guidata dagli Stati Uniti e annovera tra i suoi membri la NATO in quanto tale (che le fornisce il sostegno Aeromobili AWACS). Un’altra spina nel fianco dei rapporti con l’Alleanza, e in particolare con gli Stati Uniti, è l’acquisto da parte della Turchia del sistema di difesa antiaereo russo S400. Nonostante i ripetuti avvertimenti degli alleati occidentali, la Turchia persiste e firma, mentre chiede loro lo spiegamento delle batterie Patriot quando le sue relazioni con Mosca stanno attraversando una fase di tensione. Infine,

Più in generale, le differenze turco-NATO sono evidenti a livello politico-strategico. Anche se l’Alleanza Atlantica è tradizionalmente posizionata contro la Russia e sempre più contro la Cina, Ankara non esita a flirtare con la Shanghai Cooperation Organization (SCO), creata nel 2001 come una sorta di Controparte sino-russa dell’alleanza occidentale. Dal 2012 la Turchia ha lo status di “partner di dialogo” e Ankara aveva più volte espresso l’intenzione di diventare un giorno un membro a pieno titolo dell’organizzazione. Il ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu è arrivato al punto di dire:“Con questa scelta dichiariamo di condividere lo stesso destino dei paesi SCO. La Turchia fa parte di una famiglia composta da paesi che convivono non da secoli, ma da millenni. “ Detto questo, la Turchia non intende cambiare un’alleanza con un’altra, ma piuttosto spera di espandere il proprio grado di autonomia. Resta il fatto che gli alleati della NATO non guardano molto favorevolmente alle esercitazioni militari congiunte ad Ankara, nello spazio turco, a volte con i cinesi, a volte con i russi.

Un certo numero di argomenti tecnici, con una dimensione altamente politica, interrompe regolarmente anche le relazioni NATO-Turchia. Al momento dell’istituzione dello scudo antimissile della NATO, la Turchia faceva affidamento sulla posizione geografica ideale di Kürecik, una stazione radar di preallarme, per imporre le sue condizioni: l’Alleanza non nominerà il ‘Iran o Siria (o qualsiasi altro paese vicino alla Turchia) come una minaccia esplicita; i dati raccolti non possono essere trasmessi a paesi terzi (Israele in questo caso); e un alto ufficiale turco sarà permanentemente di stanza presso il Centro di comando della NATO. Per quanto riguarda l’altro grande dossier “tecnico”, il sistema russo S400, l’Alleanza evidenzia i problemi di interoperabilità con i sistemi NATO, ma è l’albero che nasconde la foresta.

La Turchia inoltre non esita a prendere in ostaggio le politiche dell’Alleanza se ritiene che i suoi interessi siano stati danneggiati in un modo o nell’altro. A volte ricorre a minacce di chiusura o restrizione dell’accesso alle basi americano-NATO sul suo territorio. In altri casi, Ankara paralizza per mesi l’attuazione del piano di difesa per la Polonia e gli Stati baltici, blocca tutti i programmi di Partenariato per la Pace che coinvolgono l’Austria, restringe fortemente le possibili aree di consultazione e cooperazione tra UE e NATO, anche se significa generare singhiozzi operativi (come in Kosovo o in Afghanistan). Ciliegina sulla torta, durante la grande epurazione del 2016, a seguito del golpe fallito, Erdogan licenziò da un giorno all’altro la metà dei 300 soldati turchi distaccati nei comandi europei (cosa che non fu priva di problemi di gestione e di competenza, secondo il SACEUR dell’epoca, il generale americano Curtis Scaparotti ). E ancora, l’elenco è tutt’altro che esaustivo.

Le lamentele di Ankara

Da parte turca, l’immagine dell’Alleanza non è affatto più brillante. Secondo l’ultimo sondaggio transatlantico Pew pubblicato all’inizio del 2020, la Turchia è lo Stato membro in cui la NATO è di gran lunga la più impopolare, con solo il 21% di opinioni favorevoli (contro l’82% in Polonia). [ 9] La base del malcontento turco è stata a lungo la sensazione di essere un alleato di seconda classe. I turchi sentono che le politiche e le manovre di altri alleati li smascherano e li mettono in pericolo, senza che abbiano sempre voce in capitolo e senza essere difesi, se necessario, dalla NATO, in tal modo. affidabile e credibile.

In questo contesto, gli alleati sembrano ignorare le preoccupazioni turche su quella che Ankara vede come una minaccia esistenziale per il paese: la sfida curda. Da qui l’estrema tensione all’interno della NATO durante la guerra in Siria sulla definizione di terrorismo. Agli occhi della Turchia la situazione è grottesca: gli Stati Uniti hanno armato e addestrato le milizie curde siriane affiliate al PKK (riconosciuta come organizzazione terroristica sia dall’UE che dall’America), proprio per facilitarne la vita. usandoli come ausiliari in combattimento. Per gli alleati occidentali, l’ossessione curda per Ankara indebolisce la coalizione anti-Daesh e mette così in pericolo la lotta al terrorismo “reale”. La burocrazia della NATO, da parte sua, si nasconde dietro la formula universale:“Stiamo combattendo il terrorismo in tutte le sue forme” .

Di fronte all’aumento delle minacce e alla destabilizzazione del suo vicinato, la Turchia sente di ricoprire nuovamente il ruolo di un alleato affidabile che finirà per fare uno scherzo. Durante la prima guerra del Golfo nel 1991, Ankara accolse le richieste di Washington e le concesse l’uso gratuito della base di Incirlik per le operazioni aeree contro l’Iraq. E questo nonostante la massiccia opposizione dell’opinione pubblica e le dimissioni del Ministro degli Affari Esteri, del Ministro della Difesa e del Capo di Stato Maggiore della Difesa. Nonostante ciò, è stata espressa riluttanza – in particolare dalla Germania – alla NATO per quanto riguarda la difesa della Turchia (in caso di contrattacco iracheno in risposta ai bombardamenti americani). Alla fine, l’Alleanza ha preso questa decisione, ma la sua credibilità, agli occhi dei turchi, ha subito una grave battuta d’arresto.

Ribellarsi nel 2003, durante i preparativi per l’invasione americana dell’Iraq. La Turchia questa volta ha deciso di non mettere a disposizione di Washington l’uso delle sue basi. Alla NATO, gli Stati Uniti vogliono adottare un piano di difesa per la Turchia, che Francia, Germania e Belgio rifiutano, sulla base del fatto che nelle circostanze ciò equivarrebbe ad avallare in anticipo la bellicosa avventura di America. Ancora una volta, la questione verrà risolta sotto la pressione americana e la Turchia riceverà rinforzi alleati, ma non senza un po ‘di amarezza. Da allora, e poiché la regione si è effettivamente scatenata da questa invasione, l’invocazione da parte della Turchia dell’articolo 4 del Trattato di Washington e la richiesta di dispiegamento di batterie Patriot sono diventate un esercizio quasi regolare. Anche in un modo

L’Alleanza nonostante tutto

Tra Ankara e NATO “è sempre stato un matrimonio di convenienza”, secondo James Jeffrey, ex ambasciatore degli Stati Uniti in Turchia. Da un lato, la posizione geopolitica unica della Turchia (al crocevia tra Europa, Medio Oriente e Caucaso, controllando l’accesso al Mar Nero) ha reso Ankara un alleato praticamente insostituibile a cui perdoniamo alcuni scherzi. D’altra parte, quella stessa posizione facile da incassare significa che la Turchia è nel mezzo di una polveriera. Ha quindi bisogno di questa alleanza occidentale anche per proteggersi da potenti vicini e come leva aggiuntiva per opporsi a loro. Per la NATO, l’intensificazione, sia per numero che per natura, delle azioni turche negli ultimi anni pone una questione delicata. Come afferma Muriel Domenach, ambasciatore francese presso la NATO:“Come possiamo tenere a bordo un alleato tanto indispensabile quanto indipendente, per non dire incontrollabile  ?  [10] Questo alla fine si riduce a una questione di dosaggio.

Piantagrane, ma a quale scopo?

Secondo il segretario generale aggiunto della NATO Camille Grand,  “in realtà, l’opinione di tutti gli alleati è che mantenere la Turchia a bordo della NATO oggi ha molti più vantaggi di quanto ne abbia. “svantaggi” . [11] Ha anche osservato: “A Bruxelles, alcuni dicono che è un po ‘come era la Francia, vale a dire un alleato che spesso dice di no, che fa domande, che difende i suoi interessi con molta energia ” . Apprezziamo, tra l’altro, l’uso del passato in termini di brio della Francia … Comunque, il confronto si ferma qui. Nel caso francese, le posizioni solitarie e “non ortodosse” facevano spesso parte di un’ambizione europea, mentre nel caso turco l’Europa è più un bersaglio.

(Credito fotografico: Getty Images su www.express.co.uk)

L’Europa nel mirino

Sarebbe difficile ignorare che, per la maggior parte, gli obiettivi turchi sono principalmente contro gli interessi europei. Il rapporto 2020 della Commissione di Bruxelles non dice altro quando osserva: “La politica estera della Turchia è sempre più in contrasto con le priorità dell’UE” . [12] Questo è incredibilmente vero per l’ UE . crisi nel Mediterraneo orientale. Essendo Grecia e Cipro membri dell’Unione europea, qualsiasi tentativo di sgranocchiare i loro confini, marittimi o meno, equivale a mettere in discussione quelli dell’UE. Questo è esattamente ciò che ha sottolineato Clément Beaune, segretario di Stato francese per gli affari europei:“La Turchia sta perseguendo una strategia consistente nel mettere alla prova i suoi vicini immediati, Grecia e Cipro e, attraverso di loro, l’intera Unione europea .  [13] Fin dall’inizio, la Francia ha visto questo come una questione cruciale per la politica europea. di solidarietà “nei confronti di qualsiasi Stato membro la cui sovranità venga contestata” . [14] Il ministro degli Affari esteri greco segue l’esempio insistendo sul fatto che “la Grecia difenderà i suoi confini nazionali ed europei, la sovranità ei diritti sovrani di “Europa” . [15]

Allo stesso modo, a causa dell’apertura delle frontiere interne in Europa, il ricatto migratorio riguarda in ultima analisi l’intera Unione. Minacciare, come fa il presidente Erdogan, di “lasciare andare” l’Europa dei quasi 4 milioni di migranti sul suo suolo è uno strumento di pressione particolarmente potente – e Ankara è pronta a eliminarlo al minimo inconveniente. In particolare, per evitare gravi sanzioni che l’UE potrebbe adottare in risposta alle sue attività ostili nel Mediterraneo, sia che si tratti dell’esplorazione di idrocarburi nelle acque territoriali greche e cipriote, sia del suo attivo sostegno alla violazione dell’embargo su armi destinate alla Libia.

Oltre ai trasferimenti di armi, la Turchia vi manda anche uomini. Come spiega il ministro degli Esteri Jean-Yves Le Drian: “le forze che sostengono il presidente al-Sarraj sono organizzate dai turchi attorno alle milizie nella regione occidentale della Libia. Sono combattenti filo-turchi pagati e trasportati su aerei dalla zona di Idlib per combattere in Libia, sorvegliati da ufficiali turchi ” . E il ministro a suonare il campanello d’allarme:“È importante che l’Unione europea si renda conto che il controllo di questa parte dell’Africa settentrionale sarà assicurato da attori che non hanno gli stessi standard di sicurezza di noi né gli stessi interessi. Ci sono rischi qui per l’Europa in termini di sicurezza e sovranità, che si tratti di flussi migratori incontrollati o di minacce terroristiche “ . [16] Inutile dire che il pericolo che l’Europa sia in balia di potenze straniere che sarebbero in grado di aprire o chiudere a piacimento queste fonti di instabilità. L’ultimo affronto, Ankara ha rilevato l’addestramento della guardia costiera libica: un progetto in cui l’UE aveva già investito anni di sforzi e quasi 50 milioni di euro. [17]

Infine, gli europei subiscono l’interferenza turca nei loro affari interni, che prende il posto delle comunità turco-musulmane installate sul loro suolo. I governi che cercano di resistere, ad esempio vietando le campagne politiche interne turche sul loro territorio, sono descritti da Ankara come fascisti, nazisti, razzisti e islamofobi. È stato a causa di tale “attrito” in vista del referendum costituzionale turco del 2017 che Germania, Francia, Danimarca e Paesi Bassi hanno impedito che il vertice NATO del 2018 si tenesse in Turchia. Se le sporgenze di Erdogan sono solo la punta dell’iceberg, non sono meno istruttive. Che dire, infatti, di un alleato, che chiede agli immigrati di origine turca di avere tanti figli per vendicarsi delle ingiustizie e diventare“Il futuro dell’Europa  ?  [18] O chi lancia avvertimenti pericolosi: a meno che non cambino atteggiamento nei confronti della Turchia, gli europei non saranno in grado di camminare in sicurezza per le strade … [19]

La pretesa del presidente turco di essere la punta di diamante del mondo musulmano lo aveva già portato a importare queste questioni di “civiltà” nell’Alleanza. Anche se gli alleati erano impegnati contro i terroristi Daesh, gli ufficiali turchi, su istruzioni del loro governo, passavano il loro tempo a impedire che i documenti dell’Alleanza avessero alcun legame tra terrorismo e Islam. ] Allo stesso modo, Erdogan ha cercato di bloccare, nel 2009, la nomina di Anders Fogh Rasmussen alla carica di Segretario generale della NATO. Il suo crimine? Dopo la pubblicazione delle caricature di Maometto su un quotidiano danese, Rasmussen, allora primo ministro, non si scusò (a sufficienza) con il mondo musulmano. In particolare, ha avuto l’audacia di affermare:“In Danimarca attribuiamo un’importanza fondamentale alla libertà di espressione” . Anche se si è affrettato ad aggiungere: “Detto questo, rispetto profondamente i sentimenti religiosi degli altri. Da parte mia, non avrei mai scelto di disegnare simboli religiosi in questo modo ” . Tuttavia, è stato necessario l’intervento del presidente Obama perché Ankara revocasse il suo veto.

Europei con abbonati assenti

Certamente, la stessa Presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, fa l’osservazione sulla Turchia: ”  se siamo geograficamente vicini, la distanza tra noi sembra continuare a crescere” . Per lo scenario più chiaro, quello in cui la Turchia minaccia esplicitamente i confini europei, ci assicura: “I nostri Stati membri, Cipro e Grecia, potranno sempre contare sulla totale solidarietà europea per tutelare i loro legittimi diritti in questo settore. di sovranità “. Tuttavia, anche su questo tema, pochi Stati membri, a parte la Francia, sono presenti quando si tratta di tradurre in azione questa proclamata solidarietà. Sia attraverso l’imposizione di sanzioni, sia attraverso adeguati schieramenti militari, come l’invio di navi da guerra francesi e aerei da combattimento nell’area. I partner europei vestono la loro inerzia dietro la facile formula secondo la quale “non dobbiamo soprattutto alienare la Turchia” . Tuttavia, non si dovrebbe scavare troppo in profondità per trovare altri motivi.

La Germania è un caso da manuale. È estremamente discreta sui temi più sfortunati che coinvolgono la Turchia, pur offrendo i suoi servizi di “mediazione”. Strana confusione di ruoli da parte di Berlino che, pur assumendo la presidenza di turno dell’Unione Europea, preferisce non prendere posizione quando un alleato extracomunitario, la Turchia, usa manovre intimidatorie per per quanto riguarda due paesi dell’UE, Cipro e Grecia. Inoltre, piuttosto che parlare a sostegno dei suoi partner dell’UE, la Germania sembra prevenuta a favore dell’altra parte. A causa degli strettissimi legami economici e migratori che si sono intessuti tra Berlino e Ankara, oggi è troppo esposta alle pressioni turche per poter agire come arbitro imparziale. Ospita una diaspora turca di circa 4 milioni di persone,

Per finire, la Germania e la maggior parte dei paesi europei hanno in mente un’altra considerazione quando sono riluttanti a rispondere seriamente alle provocazioni del presidente Erdogan. La cancelliera Merkel è arrivata a un vertice dell’UE dedicato a rispondere alle provocazioni turche, dicendo fin dall’inizio che non aveva intenzione di colpire troppo duramente le sanzioni perché, ha voluto ricordare : “La Turchia è un alleato della NATO”. Il desiderio di non seminare discordia nell’Alleanza ha la precedenza, come spesso, sugli interessi propriamente europei. Gli alleati europei non vogliono in particolare indebolire ulteriormente una NATO già vacillante (recentemente sotto i colpi del presidente Trump) ma che considerano ancora, a torto oa ragione, la garanzia ultima della loro difesa.

L’America con le sue priorità

L’Alleanza, per definizione, non è mai stato il forum più in grado di arginare le inclinazioni turche, per il semplice motivo che la Turchia, in quanto Stato membro, ha proprio lì il diritto di veto. Al di là di questa verità lapalissiana, è la posizione degli Stati Uniti che spiega ampiamente il silenzio e la procrastinazione della NATO sui numerosi fascicoli controversi che coinvolgono l’alleato turco. Di questi, solo due sono considerati dall’America come problemi seri. La prima è la questione curda, con Washington che difficilmente si rende conto che le preoccupazioni di Ankara ostacolano i suoi piani e le sue attività nella regione, sia in Iraq che in Siria. Il secondo riguarda l’acquisto da parte della Turchia del sistema di difesa antiaereo russo S400.

Ironia della sorte, anche su questi due temi che si oppongono soprattutto turchi e americani, sono ancora gli europei a rischiare di pagarne le spese. Quando la NATO ha rifiutato di designare le milizie curde siriane come gruppi terroristici, è stato il piano di difesa per i paesi baltici e per la Polonia che è stato tenuto in ostaggio per molti mesi dalla Turchia. Allo stesso modo, se gli Stati Uniti spingono per l’imposizione di sanzioni contro i turchi a causa dell’acquisto di attrezzature russe, una delle prime ritorsioni di Ankara contro “l’Occidente” sarà necessariamente ricorrere a al ricatto migratorio alle frontiere dell’UE, ancora una volta. L’Europa, geograficamente esposta e politicamente paralizzata, è l’obiettivo ideale della Turchia.

A parte la questione curda e l’S400, gli Stati Uniti guardano altri soggetti da lontano, avendo in mente le proprie priorità. Tutto ciò che aiuta a isolare la Russia, arginare la Cina e mantenere l’Europa sotto tutela è il benvenuto. La Turchia occupa una posizione chiave su tutti e tre i fronti: guardiano sul fianco meridionale della Russia, tenendo lo stretto del Bosforo e dei Dardanelli; un collegamento cruciale nei piani della Cina per la Nuova Via della Seta; e fonte permanente di confusione nelle ambizioni della difesa europea, Ankara ha quindi ancora molte carte in mano.

***

Da questo panorama complesso emerge un fatto ovvio: NATO ed Europa non sono la stessa cosa. La presenza della Turchia nell’Alleanza atlantica, e la distanza geografica dagli Stati Uniti, fanno sì che per gli europei la NATO non sia, lontano da essa, il foro ideale per trattare argomenti che riguardano Ankara. È anche con questa idea in mente che la Grecia ha insistito su un dettaglio significativo nel trattato UE. In particolare inserire, tra gli obiettivi della politica estera e di sicurezza, la “salvaguardia dell’integrità dell’Unione”, in altre parole la difesa delle frontiere esterne. Questo elemento – peraltro spesso ignorato, eppure ricco di possibili ramificazioni – è stato aggiunto nel Trattato di Amsterdam del 1997, su esplicita richiesta di Atene, che non è affatto sfuggita ai leader turchi.

Non appena la Turchia se ne è impossessata, con gli accordi NATO-UE sospesi per l’approvazione di tutti gli alleati, una delle condizioni poste da Ankara è stata la promessa che le forze dell’Unione Europea non saranno mai usate contro uno Stato membro. dell’Alleanza. La Turchia voleva impedire alla Grecia, poi affiancata da Cipro dopo la sua adesione all’UE, di poter coinvolgere militarmente l’intera Unione nelle loro controversie. Al termine di due anni di trattative, è stata fatta la promessa, con lo strano impegno, richiesto dalla Grecia in nome del principio di reciprocità, che nemmeno la NATO attaccherà mai un Paese dell’Unione Europea. Ad ogni modo, questi dettagli dicono molto sulla netta distinzione tra le due organizzazioni, nonostante il fatto che 21 stati siano membri di entrambe. Sul caso turco,

Per Washington, a differenza dell’Europa, l’importanza della questione turca è abbastanza relativa. L’America può permettersi un approccio più distaccato e più libero. Certo, Ankara è un alleato di prim’ordine nel contrastare le inclinazioni russe, iraniane o cinesi, o anche le timide ambizioni europee di autonomia strategica. D’altra parte, è improbabile che gli Stati Uniti si trovino sotto la pressione diretta della sicurezza sia ai suoi confini che al loro interno, a causa di possibili animosità della Turchia. Il loro principale avversario è la Cina, e in una certa misura ancora la Russia. L’America sta osservando attraverso questo prisma le manovre in Medio Oriente, in termini di concorrenza, isolamento e contenimento da Mosca e, soprattutto, Pechino. Finché la Turchia contribuisce, avrà il suo posto nella NATO, rimarrà un utile alleato. Ma le sue azioni non devono disturbare troppo la disciplina dell’Alleanza, che spinge gli europei a prendere le distanze, il che impedirebbe il loro reclutamento dietro Washington, sotto la bandiera della NATO, nella competizione tra le grandi potenze. Dove finirà l’equilibrio? Harold Macmillan, primo ministro britannico alla fine degli anni ’50, una volta rispose al giornalista che gli chiedeva cosa influenzi maggiormente la politica del governo: Dove finirà l’equilibrio? Harold Macmillan, primo ministro britannico alla fine degli anni ’50, una volta rispose al giornalista che gli chiedeva cosa influenzi maggiormente la politica del governo: Dove finirà l’equilibrio? Harold Macmillan, primo ministro britannico alla fine degli anni ’50, una volta ha risposto al giornalista che gli ha chiesto cosa influenza maggiormente la politica del governo:“Gli eventi, mio ​​caro ragazzo, gli eventi” …

(Hajnalka Vincze, Turchia nella NATO, tra utilità e ostilità, Nota IVERIS, 26 novembre 2020)

Note:
[1] Audizione di Jean-Yves Le Drian, ministro per l’Europa e gli affari esteri, davanti alla commissione per gli affari esteri dell’Assemblea nazionale, Parigi, 7 ottobre 2020.
[2] Ministro degli affari esteri degli Stati Uniti John Kerry aveva già lanciato l’idea di una sospensione nel 2016 e il ministro della Difesa Mark Esper ha rivelato alla fine del 2019 che anche lui aveva avvertito Ankara che il suo mantenimento nella NATO era in pericolo. Da parte della Francia, l’ex presidente François Hollande, chiede di sospendere la partecipazione turca alla NATO. Per il ministro Le Drian serve una “grande spiegazione”, perché “non sappiamo più se la Turchia è nell’alleanza, fuori dall’alleanza o al suo fianco. “
[3] Tavola rotonda all’Assemblea nazionale, 27 novembre 2019.
[4] Jean-Sylvestre Mongrenier, Lo stato turco, il suo esercito e la NATO: amico, alleato, non allineato?, Hérodote 2013/1.
[5] Idem.
[6] Tavola rotonda all’Assemblea nazionale, 27 novembre 2019.
[7] Trascrizione: Emmanuel Macron nelle sue stesse parole (francese) – Intervista del presidente francese a The Economist, 7 novembre 2019.
[8] Audizione di SE Ismaïl Hakki Musa, ambasciatore turco in Francia, alla commissione per gli affari esteri e la difesa del Senato, 9 luglio 2020.
[9] NATO vista favorevolmente negli Stati membri, Pew Research Center, 9 febbraio 2020.
[10] Audizione di Muriel Domenach alla Commissione Affari Esteri e Difesa del Senato, 18 dicembre 2019.
[11] Tavola Rotonda all’Assemblea Nazionale, 27 novembre 2019.
[12] Rapporto sulla Turchia 2020, Commissione europea, 6 ottobre 2020.
[13] Audizione di Clément Beaune, Segretario di Stato per gli affari europei, alla Commissione per gli affari europei dell’Assemblea nazionale, 17 settembre 2020.
[14]
Comunicato stampa dell’Elysee, 12 agosto 2020. [15] Alleati della NATO si scontrano nel Mediterraneo, Fr24news, 26 agosto 2020.
[16] Situazione nel Mediterraneo – Audizione di Jean-Yves Le Drian, Europa e Affari Esteri, alla Commissione Affari Esteri e Difesa Nazionale del Senato, 8 luglio 2020.
[17] Nicolas Gros-Verheyde, La formazione della Guardia Costiera libica: nelle mani dei turchi? Cattivo segnale per gli europei, Bruxelles2, 25 ottobre 2020.
[18] “You Are the Future of Europe”, Erdogan Tells Turks, New York Times, 17 marzo 2017.
[19] Erdogan avverte che gli europei “non cammineranno sani e salvi” se l’atteggiamento persiste, mentre la discussione continua, Reuters, 22 marzo 2017 .
[20] Kamal A. Beyoghlow, Turchia e Stati Uniti sul Brink, US Army War college, gennaio 2020, p44.

https://www.iveris.eu/list/notes/525-la_turquie_dans_lotan_entre_utilite_et_hostilites

1 228 229 230 231 232 278