Tutte le cose turche del Qatar in Libia, di Giuseppe Gagliano

Riprendiamo qui sotto integralmente un articolo di Giuseppe Gagliano. Il professore fa il punto della presenza turco-qatariota in Libia. Il confronto militare e geopolitico in Libia ormai si sta polarizzando tra questi due paesi e l’Egitto. Un fattore in più che rivela impietosamente il vuoto entro il quale si sta dibattendo la politica estera italiana_Giuseppe Germinario

Tutte le cose turche del Qatar in Libia

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Il ruolo del Qatar in Libia in simbiosi con la Turchia nello scenario che si apre dopo l’accordo tra le fazioni libiche. L’approfondimento di Giuseppe Gagliano

È certamente difficile negare che l’accordo tra le fazioni libiche sia sorto all’interno dell’amministrazione americana sia allo scopo di limitare o contenere la proiezione di potenza russa in Cirenaica sia in vista delle imminenti elezioni americane.

Nello specifico tale accordo sarebbe il risultato sia dei colloqui tra il Segretario di Stato Mike Pompeo e il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry – con la supervisione del generale Corea responsabile per il Medioriente della Nation Security Council americano – sia dei colloqui tra Richard Norland, ambasciatore americano presso Tripoli, e Aguila Saleh, presidente del Parlamento di Tobruk.

Ebbene, alla luce della situazione di elevatissima instabilità politica che si è chiaramente manifestata gli ultimi due anni in Libia ,tale accordo si dimostra scarsamente credibile ma soprattutto assolutamente fragile.

Al di là delle promesse che tale accordo formula e indipendentemente dalle divergenze fra i due contendenti ben sottolineate da Agenzia Nova rimane il fatto che il GNA ha concesso – come avevamo previsto – alla Turchia sia l’infrastruttura portuale di Misurata -come base navale per legittimare de facto la proiezione di potenza turca nel Mediterraneo Orientale – sia l’infrastruttura dell’aeroporto militare di al-Watya sito nella Tripolitania Occidentale.

Al di là del fatto che tale accordo sia stato siglato il 17 agosto a Tripoli, il dato geopolitico di grande rilievo è la presenza di un terzo soggetto – accanto alla Libia e ad Ankara- e cioè il Qatar.

Per quanto concerne i rapporti bilaterali tra Turchia e Qatar occorre ricordare che la Turchia ha sempre supportato sul piano militare il Qatar ricevendone in cambio un ampio sostegno finanziario.

Basti rammentare che, ad esempio, il vicecomandante delle forze di Ankara, Ahmed bin Muhammad, è anche a capo dell’Accademia militare qatarina. Ciò significa che la formazione dei quadri militari è selezionata sulla base di scelte politiche e religiose filo-turche.

Inoltre la presenza delle forze di sicurezza turche in Qatar rappresenta in modo tangibile la rilevanza della influenza politico-militare turca.Si pensi all’infrastruttura militare turca Tariq ibn Ziyad, nella quale è presente il comando della “Qatar-Turkey combined joint Force”.

Le esportazioni di armi del Qatar verso la Turchia sono aumentate in modo vistoso consentendo ad Ankara di arrivare a delle entrate pari a 335 milioni di dollari, mentre l‘operazione militare turca Fonte di pace, posta in essere nel nord-est della Siria, è stata apertamente sostenuta proprio da Doha, anche per ampliare l’influenza della Fratellanza musulmana.

Per quanto concerne gli investimenti, il Qatar ha erogato fin dal 2018 15 miliardi di dollari e ha acquistato una quota del 50% in BMC, un produttore turco di veicoli corazzati, i cui partner turchi sono noti amici di Erdoaan per produrre l’Altay, il principale carro armato di battaglia di nuova generazione.Ma vi è anche il caso di una società di software militare controllata dallo stato ad Ankara, che ha firmato un accordo di partnership con al-Mesned Holdings in Qatar per una joint venture specializzata in soluzioni di cyber-sicurezza.

Tuttavia uno degli accordi certamente più rilevanti per sanare la grave situazione economica presente in Turchia è quello del 20 maggio grazie al quale la Banca centrale turca ha annunciato di aver triplicato il suo accordo di scambio di valuta con il Qatar.

Per quanto concerne i rapporti tra Libia e il Qatar, Doha ha saputo approfittare delle debolezze politiche sia dell’Unione europea che dell’Onu. Inoltre il relativo disimpegno americano dal teatro medio orientale – visto che le priorità della amministrazione trumpiana sono per la Cina, l’Indo-Pacifico e per la Russia-hanno di fatto arrecato un indubbio vantaggio strategico a Doha.

Ora, proprio approfittando di questa situazione di instabilità, il Qatar ha cercato di sfruttare questa propizia occasione per una politica di maggiore peso e significato a livello geopolitico in Libia. Proprio per questa ragione la presenza militare del Qatar nel conflitto del 2011, a fianco della Nato, fu certamente rilevante non solo grazie all’uso del potere aereo ma anche attraverso l’addestramento dei ribelli libici sia sul territorio libico sia a Doha, senza dimenticare naturalmente il ruolo rilevante che le proprie forze speciali ebbero nell’assalto finale contro Gheddafi.

Caduto il regime di Gheddafi, il Qatar riconobbe come legittima istituzione politica il consiglio nazionale di transizione e contribuì in modo determinante, non solo a livello economico, a rifornire i ribelli delle necessarie risorse energetiche.

Un altro strumento di influenza, e insieme di penetrazione in Libia, furono certamente i fratelli Alī e Ismā‘īl al-Šalabī perseguitati dal regime di Gheddafi. In particolare Alī al-Šalabī è certamente uno dei più importanti uomini di religione legato alla fratellanza musulmana.

Un altro uomo chiave per il Qatar è stato certamente Abd al-Ḥakīm Bilḥāğ, considerato sia dalla Cia che dal Dipartimento di Stato americano un pericoloso terrorista in quanto leader del Libyan Islamic Fighting Group. Il suo ruolo politico è stato molto importante sia perché ha coordinato il consiglio militare di Tripoli sia perché è stato uno dei principali responsabili del partito al-Waṯan raggruppamento politico di estremo peso all’interno del congresso nazionale generale.

Ritornando all’accordo siglato il 17 agosto il Qatar investirà in modo rilevante per la ricostruzione delle infrastrutture militari di Tripoli. E infatti non è stata casuale la presenza nella delegazione del Qatar di consiglieri e istruttori militari che hanno tenuto incontri con i loro omologhi libici e turchi.

Altrettanto significativo, sotto il profilo politico, l’incontro tra Haftar e il direttore della Intelligence militare egiziana e cioè il generale Khaled Megawer presso la base di Rajma, sita a Bengasi. Un incontro volto a pianificare un ‘eventuale intervento militate egiziano ?È certamente una eventualità da considerare .

A tale proposito il sostegno da parte dell’Egitto di alcune tribù libiche potrebbe svolgere un ruolo significativo. Secondo il capo del consiglio supremo delle tribù in Libia Saleh al-Fendi, come secondo Abdel Salam Bou Harraga Al-Jarari, membro dei clan Al-Ashraf e Al-Murabitin a Tarhuna,a sud di Tripoli, il sostegno egiziano si rileverebbe indispensabile. Proprio Al-Jarari ha sottolineato come il sostegno egiziano sia l’unico modo per porre fine a una straziante guerra civile.Non a caso il maggiore generale Ahmed Al-Mesmari, portavoce dell’Esercito nazionale libico, ha dichiarato che la Turchia si sta mobilitando proprio come dimostra l’incontro del 17 agosto tra i funzionari turchi e e quello del Qatar ,incontro che ,secondo, Al-Mesmari suggellerà la presenza permanente della Fratellanza mussulmana in Libia.

Anche secondo Abdelsalam Bohraqa al-Jarrari, un membro anziano di una tribù di Tarhuna, a Sud di Tripoli, diventa necessario da parte dell’Egitto un intervento militare a tutto campo. Per quanto concerne proprio la presenza di Doha in Libia, secondo lo sceicco Adel Al-Faidi, membro del Consiglio Supremo delle Tribù Libiche, l’incontro del 17 agosto coincide con il controllo turco-qatariota sul porto di Al-Khums e la sua trasformazione in una infrastruttura militare per le operazioni militari congiunte di Ankara e Doha in Libia.

D’altronde proprio la presenza di due fregate turche giunte al porto di Khums ,a 135 km ad Est di Tripoli, legittima il sospetto che Ankara voglia prendere possesso delle infrastrutture portuali dell’area per trasformarle in infrastrutture militari consentendogli in questo modo di rafforzare la sua proiezione di potenza economica e militare sia nel Mediterraneo orientale che in Nordafrica.

https://www.startmag.it/mondo/tutte-le-cose-turche-del-qatar-in-libia/

Mali: un colpo di stato che potrebbe innescare un processo di pace, di Bernard Lugan

Contrariamente alle analisi superficiali della sottocultura mediatica-africanista, il colpo di stato appena compiuto in Mali potrebbe infatti, se fosse “gestito” bene, avere effetti positivi sulla situazione regionale. In un certo senso, segna il ritorno alla situazione che era all’origine dell’intervento Serval nel gennaio 2013 quando le forze del leader tuareg Iyad ag Ghali hanno marciato su Bamako dove erano attese dai sostenitori dell’imam Fulani. Mahmoud Dicko.
La questione che allora si poneva per François Hollande era semplice: era possibile consentire a una rivendicazione nazionalista Tuareg basata su una corrente islamista di fiorire oltre ai centri regionali di destabilizzazione situati nel nord della Nigeria con Boko Haram, nel regione del Sahara settentrionale occidentale con AQIM e nell’area del confine algerino-marocchino-mauritano con il Polisario ?
L’errore francese fu quindi quello di non condizionare la riconquista di Gao, Timbuktu e del Mali settentrionale da parte di Serval, al riconoscimento da parte di Bamako di una nuova organizzazione costituzionale e territoriale in modo che i Tuareg e i Peul non fossero più automaticamente esclusi dal gioco politico attraverso la democrazia che è diventato una semplice etno-matematica elettorale. La ferita etnica alla base del problema [1] e che era stata superinfettata dagli islamisti di Aqmi-Al-Qaeda non essendo stata curata, la guerra si è poi estesa a tutta la regione, dilagando nel Burkina Faso e il Niger.
Quindi, dal 2018-2019, l’intrusione di DAECH attraverso l’EIGS (Stato islamico nel Grande Sahara) ha portato a un conflitto aperto tra l’EIGS ei gruppi etno-islamisti che affermano di far parte del movimento di Al-Qaeda, gli EIGS li accusano di privilegiare l’etnia a spese del califfato.
Infatti, i due principali leader etno-regionali della nebulosa di Al-Qaeda, vale a dire il Touareg ifora Iyad Ag Ghali e il Peul Ahmadou Koufa, leader della Katiba Macina, più etno-islamista che islamista, avevano deciso di negoziare un uscita dalla crisi. Non volendo una simile politica, Abdelmalek Droukdal, leader di Al-Qaeda per tutto il Nord Africa e per la banda saheliana, ha poi deciso di riprendere il controllo e imporre la sua autorità, entrambi su Ahmadou. Koufa e Iyad ag Ghali. È stato poi “neutralizzato” dalle forze francesi informate dai servizi di Algeri preoccupati nel vedere che lo Stato Islamico si stava avvicinando al confine algerino.
L’Algeria, che considera il nord-ovest del BSS come il suo cortile, ha sempre “sponsorizzato” gli accordi di pace lì. Il suo uomo locale è Iyad ag Ghali, la cui famiglia vive nella regione di Ouargla. Questo ifora tuareg ha una base di popolarità a Bamako con l’Imam Mahmoud Dicko e soprattutto è contro la disgregazione del Mali, una priorità per l’Algeria che non vuole un Azawad indipendente che sia un faro per il suo possedere Tuareg.
Se fosse ben negoziato, il colpo di stato appena avvenuto in Mali potrebbe quindi, contrariamente a quanto scrive la maggior parte degli analisti, segnare l’accelerazione di un processo negoziale volto a sia il conflitto Soum-Macina-Liptako portato avanti dai Fulani, da qui l’importanza di Ahmadou Koufa, sia quello del nord del Mali, che è l’aggiornamento della tradizionale disputa Tuareg, da qui l’importanza di Iyad ag Ghali.
Il ritorno al gioco politico dei Tuareg radunato alla guida di Iyad ag Ghali, e quelli dei Peul al seguito di Ahmadou Koufa, permetterebbero quindi di concentrare tutti i mezzi sull’EIGS, e quindi di prevedere nel medio termine una riduzione di Barkhane, poi il suo slittamento verso la regione peri-ciadica dove gli elementi di futura destabilizzazione in atto eserciteranno pesanti minacce su Ciad e Camerun, il tutto alimentato dall’intrusione turca in Libia.
[1] A questo proposito, fare riferimento al mio libro Les Guerres du Sahel , des origines à nos jours.
Maggiori informazioni sul blog di Bernard Lugan .

tre punti di partenza, di Pierluigi Fagan

https://www.facebook.com/pierluigi.fagan/posts/10221964943728277GEOSTORIA FILOSOFICA. Le tre principali tradizioni di pensiero, indiana, cinese, occidentale cioè greca alle origini, potrebbero esser definite dall’atteggiamento nei confronti della realtà,: come è (indiana), come va intesa (cinese), come va agita (greca). Ci riferiamo alla “filosofia prima”, alla prima considerazione che fonda un sistema di pensiero.

Per la tradizione indiana, la molteplicità è apparenza di un’unica sostanza, il Brahman. Per la tradizione cinese, la sostanza è alternarsi di due principi che convivono in diverse proporzioni dinamiche, lo Yin e lo Yang. Per la tradizione greco-occidentale la sostanza o è A o è B, il che crea i presupposti dinamici del divenire e del polemos.

Si potrebbe quindi forse dire che per la tradizione indiana importante era sapere com’è davvero la realtà e questo sapere porta a dire che “questa” realtà è solo un riflesso da noi condizionato di una realtà non esperibile, ma intuibile, altra. Questa realtà vera, per quanto a noi inattingibile, è Una, a-dimensionale, a-temporale. Un com’è davvero.

La tradizione cinese invece, vede dualità ma la ritiene apparente anch’essa, non per una riconducibilità ultima ad un Uno sottostante, ma perché tale dualità è complementarietà, armonia, dinamica di prevalenze momentanee. Un come va intesa.

La tradizione greco-occidentale, da ultima, vede invece dualità in conflitto, o prevale l’una o l’altra e da questo eterno polemos, la dinamica del mondo. Un come va agita.

La tradizione indiana è, cronologicamente, la più antica e la meno definibile storicamente. Sanscrito e Veda, si pensa fossero portati da sacerdoti di popolazioni indoeuropee di cui sappiano poco o nulla. Inoltre, non sappiamo quali fossero i pensieri originari e quanto siano stati ibridati da evoluzioni successive. Tra Bhagavadgītā ed i precedenti Veda più antichi (i Rg Veda) corre un millennio o forse più se il Rg Veda è a sua volta -come sembra- lo scritto di una più lunga ed antica tradizione orale.

La tradizione cinese è la seconda in ordine di tempo. Il suo corpo principale compendiato nell’Yi JIng, è autoctono, mentre il successivo afflusso del taoismo, sembra influito da correnti del buddhismo (Chan). Nell’Yi Jing, a su volta versione scritta di una tradizione orale precedente che potrebbe risalire indietro anche di mille anni (o più), tutto scaturisce da due elementi simbolizzati nella linea continua ed in quella spezzata.

La tradizione greca nasce dalla confluenza tra tradizioni mitologiche locali ed una decisa influenza indiana, diretta o mediata dai popoli intermedi, i persiani. Persiani che, a loro volta, furono pesantemente influiti da un braccio dello stesso flusso di popoli e credenze che era arrivato in India (via valle dell’Indo, oggi Pakistan). Tra l’antica Avesta ed i Rg Veda, ci sono infatti punti di contatto. Essendo la più tarda e la più influita geo-storicamente è la meno definibile unitariamente. Gli influissi iranico-asiatici che arrivano a Mileto danno degli esiti, quelli che arrivano sotto forma di pratiche religiose (i Misteri), altri. Pitagora che molto influì su Platone, ad esempio, essendo di Samo, era di area culturale anatolica visto che distava da Mileto cinque-sei volte meno che da Atene. Nel Platone del Timeo, ci sono forti influssi della religione degli ebrei, la quale a sua volta -nella cattività babilonese- venne decisivamente influita dalla tradizione iranica, cioè zoroastriana (quindi antico indoeuropea). Parmenide era della Magna Grecia, Elea, ma il popolo greco che fondò la città era dell’Anatolia, Focea, poco più a nord di Samo e Mileto.

Ma lasciando a queste rapide tracce originarie l’intricatissimo albero delle discendenze ed influenze, rimane forse l’atteggiamento filosofico come guida del comportamento. Quello di un sostanziale disimpegno dalla realtà concreta degli indiani concentrati nella ricerca interiore, quello cinese molto pragmatico che cerca la relazionalità e l’armonia tra le diverse forme date dall’alternanza dei due principi fondativi, quello di forte ingaggio nella realtà con sforzi per prevalere, quindi di “polemos” per i greci poi occidentali.

Questi, in particolare, sembrano fortemente influiti dalla nativa culla geografica divisa tra Anatolia, Egeo, Attica e Magna Grecia. In particolare dal fatto che sia le forme di costa, che quelle più chiaramente isolane, hanno favorito la nascita di città-Stato che non avevano alcuna facilità ad espandersi per cooptazione dei vicini formando regni o imperi, com’era nella antica tradizione iranico-mesopotamica-levantina-egiziana-ittita. Nacquero città-Stato tra loro polemiche e tali rimasero fino ad Alessandro Magno, la cui “unificazione” politica durò lo spazio di un mattino. Polemici all’esterno, l’una città con l’altra, polemici all’interno di “stasis” in” stasis”, guerra civile, alternanza tra tiranno e demos.

La conformazione geografica dell’Europa con grandi e medie isole, penisole, catene montuose che dividono spazi di una certa omogeneità (alpi scadinave, italiche, Pirenei, Urali), grandi fiumi meridiani o su paralleli come il Danubio, sembra ripetere lo schema non più di piccole città-Stato ma di Stati poi Nazioni, polemici anch’essi, tanto all’interno che all’esterno. Quando gli europei, i portoghesi per primi, cominciarono a cercar fuori di Europa sostanze per alimentare i propri conflitti interni al sub-continente, nacque la verve coloniale (XV secolo) ed il successivo conato a dominare quanto più mondo possibile.

Gli eredi odierni di queste tradizioni, sono molto più ibridati dei loro antenati. Ma il fondo metafisico ha una sua longeva perduranza e nei sistemi di pensiero che sono per lo più forme ad albero, il fondo (o tronco o radici) sono molto influenti nell’arborizzazione successiva. Chissà quindi, nel prossimo futuro e rimanendo allo stretto del continuum euroasiatico, quale tra ciò che promana dalla tradizione del com’è, del come va inteso o del come va agito, risulterà più adattativo.

Sempre che si debba applicare una logica disgiuntiva o congiuntiva, diplomatica o polemica, idealistica o pragmatica …

Schiavismo, la storia rimessa al suo posto_di Bernard Lugan

Presentazione :
Tutti i popoli anno praticato la schiavitù. Ma solo i bianchi l’hanno abolita. Con la conquista coloniale costrinsero poi a rinunciarvi coloro che continuavano a praticarla. Tuttavia, solo il traffico di esseri umani praticato dagli europei è criminalizzato.
Il 10 maggio 2001, votando all’unanimità la “Legge Taubira”, i deputati francesi hanno così imposto una visione ideologica e manichea della tratta degli schiavi. Questa legge denuncia solo il Trattato praticato dagli europei, ignorando la tratta degli schiavi arabo-musulmana che si è conclusa solo con la colonizzazione.
Christiane Taubira ha giustificato questa singolare emiplegia storica in modo che “i giovani arabi (…) non portino sulle spalle tutto il peso dell’eredità dei misfatti arabi ” ( L’Express , 4 maggio 2006).
Con il loro voto, i deputati francesi hanno quindi cancellato dalla memoria collettiva decine di milioni di vittime. A cominciare da queste innumerevoli donne e ragazze berbere che hanno fatto irruzione in quello che i conquistatori arabi chiamavano il “raccolto berbero”. Ibn Khaldun ha evocato su questo argomento i ” bellissimi schiavi berberi, di vello color miele “. E che dire dei milioni di rapimenti di europei effettuati fino all’Ottocento in mare e lungo le sponde del Mediterraneo, a tal punto che si diceva allora che “ ad Algeri piove schiavi cristiani ”?
Questa legge ignora anche il ruolo degli stessi africani. Tuttavia, come gli europei aspettato sulla costa per i prigionieri da consegnare dai loro partner africani, è stato quindi in ultima analisi, spetta a quest’ultimo di accettare o rifiutare di vendere loro i loro “fratelli” neri. La realtà storica è che una parte dell’Africa si è arricchita vendendo l’altra parte. Poiché i prigionieri non apparivano per magia sui siti di scambio, furono effettivamente catturati, trasportati, ammassati e venduti da schiavisti neri. Cosa ha fatto dire ai vescovi africani:
“ Allora iniziamo ammettendo la nostra parte di responsabilità nella vendita e nell’acquisto dell’uomo nero… I nostri padri hanno preso parte alla storia dell’ignominia che era quella della tratta degli schiavi e della schiavitù nera. Vendevano l’ignobile tratta degli schiavi atlantica e transsahariana ”(Dichiarazione dei vescovi africani riuniti a Gorée nell’ottobre 2003).
Tuttavia, per odio verso tutto ciò che è “Bianco”, coloro che si sono battezzati “decoloniali” negano queste realtà storiche a favore di una falsa storia che introducono con il forcipe secondo metodi terroristici e che è vigliaccamente accettata da Le “élite” europee sono entrate nell’imitudine dottrinale. Il 19 giugno 2020, il Parlamento europeo ha votato a favore di una risoluzione surrealista che condanna “l’uso di slogan che mirano a minare o indebolire il movimento Black Lives Matter e ad attenuarne la portata”. Il gruppo LFI ha persino presentato un emendamento volto a riconoscere come “crimine contro l’umanità” solo il Trattato europeo, e non “la tratta degli schiavi” in generale, come previsto nel testo iniziale.
Questa impresa di sovversione sta vivendo sviluppi apparentemente insoliti. Così, lo scorso maggio, in Martinica, due statue di Victor Schoelcher, l’uomo del Decreto del 27 aprile 1848 che abolisce definitivamente la schiavitù, furono rovesciate a Fort de France e… Schoelcher. Tuttavia, non c’è né ignoranza né stupidità in questi crimini iconoclasti, ma al contrario un chiaro atteggiamento politico: un Bianco non può infatti porre fine alla schiavitù poiché è essenzialmente uno schiavo … le statue del padre dell’abolizionismo furono ribaltate, per rimpiazzarle quelle delle personalità nere “schiave” secondo il vocabolario “decoloniale”, che avrebbero combattuto contro la schiavitù.
Ecco quindi i “decoloniali” in mezzo a un complesso esistenziale divenuti “schiavi della schiavitù” per dirla con Franz Fanon, lui che si rifiutava di “lasciarsi imprigionare nel determinismo del passato”.
Questo libro che rivede completamente la storia della schiavitù era quindi una necessità. Lontano dalle nuvole e dalle incessanti manovre che inducono sensi di colpa, quest’opera, arricchita di decine di mappe e illustrazioni, una dettagliata bibliografia e un indice, è il manuale di confutazione di questa storia divenuta ufficiale, il cui scopo è quello di spianare la strada a pentimento per rendere gli europei stranieri nel loro stesso suolo.
Per ordinarlo, vai sul blog di Bernard Lugan facendo clic su questo link .

Assassinio di operatori umanitari francesi: spiegazioni, di Bernard Lugan

Qualche riflessione di Bernard Lugan sull’agguato in Niger di domenica scorsa. In quell’area da alcune settimana è operativo anche un contingente militare italiano_Giuseppe Germinario

L’attacco avvenuto domenica 9 agosto in Niger, a est di Niamey, nell’area di Kouré, e che ha causato la morte di otto persone, di cui sei francesi dell’organizzazione umanitaria ACTED, richiede le seguenti riflessioni:

– La zona di agguato si trova in Niger, al di fuori dell’attuale perimetro operativo di Barkhane, in una nota zona di sosta e transito di gruppi terroristici. È quindi inconcepibile a dir poco che autorità locali irresponsabili abbiano autorizzato le ONG ad avventurarsi lì … per osservare le giraffe …
– Questa zona si trova a est della cosiddetta regione dei “Tre Confini”, l’attuale epicentro del terrorismo dove Barkhane ha appena ottenuto decisive vittorie. Poiché la vita lì è sempre più difficile per loro, i GAT (Gruppi armati terroristici) stanno quindi estendendo il loro campo operativo più a est.
– Siamo di fronte a una riorganizzazione dei gruppi terroristici che si traduce in un’escalation. Da diverse settimane gruppi jihadisti stanno combattendo nella BSS (Banda Sahelo-Sahariana) dove è scoppiato un conflitto aperto tra l’EIGS (Stato Islamico nel Grande Sahara), legato a Daesh, e gruppi che affermano di far parte del Movimento di Al-Qaeda, accusati questi ultimi dall’EIGS di tradimento.
In realtà, i due principali leader etno-regionali della nebulosa di Al-Qaeda, ovvero la Touareg ifora Iyad Ag Ghali e il Peul Ahmadou Koufa, capo della Katiba Macina, stanno attualmente negoziando con Bamako con ciò provocando la furia dell’EIGS, il quale a sua volta cerca, con azioni spettacolari, di attirare a sé il deluso Aqmi.
Se avesse successo, la strategia di massacrare i gruppi terroristici vedrebbe il ritorno al gioco politico dei Tuareg radunati alla guida di Iyad ag Ghali, e dei Peuls al seguito di Ahmadou Koufa. Ciò consentirebbe quindi di concentrare tutte le risorse sull’EIGS nella “regione delle tre frontiere”. Per questo quest’ultimo è alla ricerca di nuovi campi di azione… e in particolare nell’area di Kouré. Tutti quelli che conoscono un minimo la situazione sul campo lo sanno. Non le ONG …
Per non aderire alla superficialità giornalistica degli eventi che hanno insanguinato la SSB, ma, al contrario, per conoscerne le cause profonde nonché la loro evoluzione a lungo termine, è indispensabile fare riferimento al mio libro Les Guerre saheliane dall’inizio ai giorni nostri .
Maggiori informazioni sul blog di Bernard Lugan

POTERE, di Pierluigi Fagan

Abbiamo già pubblicato una recensione ragionata del libro “Sovranità” di Carlo Galli, frutto delle considerazioni di Teodoro Klitsche de la Grange http://italiaeilmondo.com/2019/05/15/carlo-galli-sovranita-recensione-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/. Pierluigi Fagan trae spunto dalle stesso libro per alcune interessanti considerazioni_Giuseppe Germinario

POTERE. [o “Dall’egemonia all’influencer”] Nel suo condensato “Sovranità” (Il Mulino, 2019), Carlo Galli individua la struttura del potere negli Stati (occidentali) contemporanei, definendola triadica (p.117). C’è il potere politico, il quale non è sempre o tutto parlamentare, c’è il potere economico il quale da ultimo è più finanziario che produttivo e c’è il potere mediatico-narrativo, “culturale” si potrebbe sintetizzare, che detta lo sviluppo del discorso pubblico e la legittimità argomentativa. Quale scaturisce da quale?

L’intero edificio dei poteri sociali si erge sulla distribuzione asimmetrica di conoscenza. E’ così dalla nascita delle società complesse cinquemila anni fa. Lungo tutta la storia delle società umane, le élite in cui si condensa il potere, almeno nelle società stanziali, sono quelle dotate di formazione e conoscenza. L’intero comparto sacerdotale si è sempre qualificato per il possesso di conoscenza, a partire dalla scrittura e rabbini, preti e sacerdoti, imam e sapienti confuciani, nelle loro rispettive società, sono a lungo stati i monopolisti della cultura alta e dell’insegnamento. In Occidente, solo a partire dal XIX – XX secolo si è pervenuti a prime forme di istruzione di massa, sebbene élite economico-sociali e religiose abbiano continuato a mantenere loro centri di pensiero, autonomia di pubblicazione e reti di educazione e formazione autonome. Tutt’oggi, i livelli più alti di istruzione universitaria e post universitaria nel mondo anglosassone e spesso europeo, sono garantiti da istituzioni non del tutto aperte e non del tutto pubbliche.

Così per l’editoria che a certi livelli non può che interfacciarsi con quelle istituzioni, quindi corrispondervi. Così per l’informazione dove sappiamo che da Murdoch a gli Agnelli, dal Washington Post di Jeff Bezos a Berlusconi, dal Financial Times posseduto dalle oligarchie finanziarie giapponesi al Sole24Ore confindustriale e tutti gli altri, il potere economico o più spesso finanziario è direttamente proprietario di emittente informazione, inclusi i nuovi media on line. Così per i mezzi di comunicazione allargata che pur non facendo direttamente informazione, fanno “formazione” culturale. Dal monopolio hollywoodiano cinematografico, ad Instagram e Facebook, Linkedin (Microsoft), YouTube (Google), tutte -invariabilmente- americane.

Il triedo di Galli quindi è una piramide che si basa sul tasso medio di ignoranza o presunta conoscenza definito, per lo più, dalle élite economiche e finanziarie. Queste non solo controllano quel livello di base ma vi fanno poi corrispondere la propria offerta di conoscenza emessa che sia quella del titolo di studio di quella università top-100, o quel giornale che detta l’agenda e le categorie del dibattito pubblico, o quel modo di intrattenersi on line spendendo un certo tempo e impegno per fotografarsi i glutei da pubblicare poi con vivido orgoglio, stante che in secondo piano si vede che ci si trova in qualche posto esclusivo che muova l’invidia sociale. O anche scambiare la presa del Palazzo d’Inverno con il rifiuto militante a mettersi le mascherine sanitarie. Questa risonanza tra livello e distribuzione di conoscenza e fruizione del contenuto info-culturale fa poi fa da base alla partecipazione politica distratta che ogni quattro anni, chiama tra il 50%-60% della popolazione ad esprimere un voto semplificato per chi “sembra” a noi più conforme. Possedendo direttamente partiti come nel caso italiano di Forza Italia o esponendo leader miliardari come Trump e la famiglia Bush o indirettamente influendo su partiti come i vari partiti liberali europei, En Marche e collegati minori spagnoli ed italiani, i Tories, il corpo principale delle varie democrazie cristiane o social-democratici definiti tali per tradizioni ormai scomparse o condizionando gli altri con i bombardieri culturali ed informativi, quando non con i “mercati” che danno giudizi silenziosi, impersonali ed inappellabili, la “conformità” è quindi assicurata come armonia prestabilita.

Una popolazione educata o maleducata dal potere economico e finanziario, trova magicamente corrispondenza nell’offerta politica condizionata e pre-formata dallo stesso originario potere cultural-formativo-informativo che ha educato o maleducato quella popolazione.

Cose note si dirà. Già, ma allora non si capisce perché le sfrangiate e minimali energie di resistenza politica a questo edificio di potere contemporaneo si ostinino a pensare che fare “politica” sia solo una faccenda di partiti, parole d’ordine, mosse tattiche, proposte politiche, quando l’essenza dell’edificio è prettamente culturale. Quantomeno ci si aspetterebbe una mobilitazione anche su quel campo. In effetti, qualche editore ostinato sull’orlo del fallimento, qualche professore non conformista, qualche blogger, qualche pensatore on line resiste ostinatamente. Manca però un quadro e discorso condiviso a monte. Manca soprattutto la condivisione del fatto elementare che la battaglia politica si fa nella testa della gente, a partire dai tuoi contatti facebook, da quello o quelle o quelli che ti stanno accanto. Immediatamente, tutti pensano “ok sono d’accordo con quello che dici, ma che fare? come far diventare questo discorso un discorso che porta nostri rappresentanti al “potere”? Ma come li porti al potere se non c’è una base di larga condivisione nella società occupata militar-cognitivamente dai poteri in atto? Il campo di battaglia non è il parlamento o le sedi di potere in cui cercar di addensare un contropotere, non almeno fino a quando si diffonderà una certa egemonia nel livello di base della distribuzione di conoscenza ed ignoranza generale.

L’Italia è tra i paese OCSE messi peggio quanto ad istruzione. Certo, “questa” istruzione non è di per sé garanzia di capacità emancipativa, ma l’istruzione è a sua volta un edificio fatto a fondamenta e piani ed alcuni presupposti logico-linguistici-razionali, nonché qualche nozione di base, vanno comunque presupposti per l’emancipazione. Rispetto ad una media UE del 20% tra ignoranti totali, elementari e medi, l’Italia segna un poco glorioso quasi 40%, il doppio.

Molti decenni fa, c’erano forze politiche e sociali, in genere di “sinistra” che, sulla scorta della flessione gramsciana della tradizione marxista-leninista, avevano in gran conto l’aspetto cultural-formativo-informativo. C’erano centri studi, scuole di formazione politica, decine di riviste ed anche quotidiani faticosamente tenuti in piedi dall’impegno militante di giornalisti e lettori, case editrici, registi, scrittori, poeti e pittori, musicisti. C’era una vera e propria “politica” di presenza nelle istituzioni pubbliche e private, un impegno politico forte ad allargare la penetrazione della formazione in tutti i ceti sociali. La visione generale era che al “popolo” dovevano esser dati strumenti per l’emancipazione e questi strumenti erano culturali. Questa non era la ricetta completa ma era la pre-condizione necessaria. Nessuno comunque si sognava di rivendicar con orgoglio una presunta saggezza dell’ignoranza. Questa era “l’egemonia” che oggi ha varie versioni, tutte di destra, dalla liberale alla fascio-sociale.

Nelle moderne c.d. “democrazie liberali”, questo è l’unico vero terreno di scontro, non può essercene altro poiché qualunque istanza, anche la meglio intenzionata, non potrà mai giungere a pubblica e corretta visibilità chiedendo supporto di consenso, ad una base popolare tenuta nell’ignoranza e nella mis-informazione.

Oggi si presentano numerosi attacchi alla partecipazione popolare al voto democratico da parte di coloro che notano che vasti livelli di ignoranza non dovrebbero avere il potere di determinare le scelte politiche. Alcuni rispondono difendendo il diritto inalienabile al voto per tutti come fondamento della stessa c.d. democrazia e fanno bene. Ma questa difesa è debole. La miglior difesa, si sa, è l’attacco ma molti non sono in grado di neanche ragionare in attacco, a parte la mancanza di forze obiettive. Le stesse forze però mancano nella misura in cui manca l’impegno a formarle e questa formazione di forza, dovrebbe passare proprio dalla spinta a coltivare conoscenza ed informazione senza la quale la democrazia rimane “così-detta”.

Un paese col 40% di corpo elettorale che oscilla tra l’istruzione elementare o media, non può andare da nessuna altra parte che non sia il finire sistematicamente nelle attraenti trappole disseminate a iosa dal potere economico-finanziario-informativo-culturale che domina il potere politico, quindi giuridico, che domina la società intera.

tratto da https://www.facebook.com/pierluigi.fagan/posts/10221911265346351

NON CAPIRE QUELLO CHE STA ACCADENDO, di Pierluigi Fagan

NON CAPIRE QUELLO CHE STA ACCADENDO. Più o meno a metà di settembre, gli Stati Uniti dovrebbero registrare lo stesso numero di morti SARS per milione di abitanti dell’Italia. Ai primi di novembre, quando si andrà a votare per il rinnovo della carica presidenziale, gli Stati Uniti dovrebbero esser su una media morti per milione di abitanti pari a quella della Gran Bretagna che, subito dopo quella del Belgio, è la peggiore d’Europa ed una delle peggiori del mondo. Ma molto diverso è il modo con cui questi paesi sono arrivati o arriveranno a quei tristi risultati. Quando l’Italia ha terminato il suo lockdown, il 4 maggio quindi tre mesi fa e circa due/tre mesi anche dall’inizio dell’epidemia, i morti per milione di abitanti erano più del doppio di quelli americani, erano quindi per lo più concentrati nel primo trimestre. Gli Stati Uniti invece, hanno continuato a registrare decessi in forma continuata. Così oggi sono a circa l’80% del risultato italiano che pareggeranno a metà settembre e da allora supereranno progressivamente.

Discutere dei risultati sanitari dell’epidemia-pandemia è molto delicato, a partire dal fatto che ancora dopo mesi molti non hanno ancora capito che il problema principale non sono tanto i morti ma la gestione sanitaria dei contagiati. Da una parte abbiamo visto come la composizione dei dati sia molto difforme, dall’altra per giungere ad un dato ci sono talmente tante variabili che indicare correlazioni semplici (a due variabili) risulta per lo più improprio. Sopra a ciò si aggiunge una doppia distorsione ideologica. La prima è quella politica tipo coloro per i quali Trump è bravissimo o coloro per i quali è un disastro, ma vale anche per il governo italiano. La seconda è sociologica poiché molti si sono fatti modelli in testa su cosa l’epidemia-pandemia è o non è, alcuni anche molto fantasiosi ed eterodossi. Ci sono quindi molti motivi per piegare il dato ad una certa interpretazione.

Tutto ciò premesso avanziamo comunque il dato comparato perché a grana grossa, tutte le eccezioni si piegano al ferro da stiro del dato all’ingrosso. I morti da epidemia sappiamo esser contati secondo diversi modi ma sono anche il dato più al riparo da troppe variabili differenzianti. I morti per milione di abitanti sono l’unico dato comparabile davvero tra paesi diversi se si dà credito alla realtà del dato che, per Stati Uniti ed Italia, è abbastanza solido.

P. Krugman prima e il corrispondente dall’Europa del Sud per New York Times, hanno di recente fatto presente come il caso Italia che all’inizio si riteneva esser il più disastroso in accordo all’immagine tipo di un paese tanto bello quanto disorganizzato e poco razionale, si stia rivelando nel medio tempo addirittura migliore di quello americano. Come molti hanno notato, il sospetto che NYT nella sue due firme “usi” l’Italia per render ancorpiù evidente il disastro della gestione Trump dell’epidemia, è quasi certezza. Ma il dato però è inconfutabile. E cosa ci dice questo dato? Tre cose.

La prima è che le epidemie vanno soffocate sul nascere. Come tutti i fenomeni esponenziali, se non intervieni quando l’esponente è basso, dopo non le riacchiappi più. Puoi intervenire in maniera mirata ed articolata come hanno fatto alcuni paesi dell’Estremo Oriente o la Germania se ne hai facoltà (una struttura sanitaria “preparata” e particolarmente efficiente) o brutale (Cina ed in parte Italia), ma tagliare presto i fili della rete di contagio è l’unica strada percorribile. Il caso Svezia, che comunque ha registrato una media morti per milione di abitanti simile all’Italia, fa poca letteratura in quanto troppe variabili sono difformi (l’età media svedese è la più bassa in Europa dopo Islanda,Cipro ed Irlanda, quella italiana è la più alta assieme alla tedesca. Dati Eurostat).

La seconda è che, soprattutto all’inizio, abbiamo fatto furiose discussioni ed in alcuni casi vere e proprie litigate a suon di dati contingenti, quando gli effetti di una epidemia si valutano sul medio-lungo tempo. Molte volte, anche qui, abbiamo terminato una discussione con un “vedremo …” che rimandava al poi, il giusto tempo per valutare gli effetti di ciò che stava succedendo. Non è ancora arrivato questo “poi”, occorrerà aspettare almeno fine anno. Una cosa però sembra potersi confermare tra quelle in discussione. Nel dibattito pubblico ha avuto molto successo il tema “libertà-salute” (con gran mischione di libertari, libertariani e liberali vs “creduloni” scientizzanti e totalitari), ma il vero e decisivo bivio era quello tra salute ed economia e molte delle diverse decisioni che sono state prese, hanno valutato diversamente questo rischio. Tali differenze non vanno lette come diversi atteggiamenti di valore tra stati col primato sanitario e stati col primato economico. Essendo salute e ricchezza due prerogative della popolazione, le due istanze non possono esser in contrapposizione, va trovato l’equilibrio. Il concetto di “equilibrio” è il segreto della gestione di fenomeni complessi, ma il concetto di “equilibrio” per le nostre immagini di mondo è poco appassionante. Appassiona molto di più la singola verità, la singola variabile, la singola soluzione che magicamente trasforma l’andamento dell’intero sistema in discussione. Ci piacciono le cose semplici, anche quando il mondo reale ci presenta fenomeni che semplici non sono.

La terza considerazione è che gli Stati Uniti d’America ovvero il loro attuale presidente, hanno registrato un fallimento adattivo di proporzioni clamorose. Hanno cioè sbagliato strategia il che, per un paese viziato da condizioni di possibilità lungo gli ultimi due secoli per lo più eccezionali ed al di là dei meriti intrinseci di quel popolo, non sorprende. Gli americani che pure hanno molte qualità, in genere, non si conoscono come fini strateghi. Pur avendo diversi primati scientifici, pur avendo enormi e sofisticate capacità di calcolo, risorse più di ogni altro, non hanno avuto l’intelligenza di capire i due punti prima espressi: hanno scelto di non intervenire drasticamente ed hanno valutato il rischio economico non collegandolo a quello sanitario.

= = =

L’altro giorno leggevo un bell’articolo di Adam Tooze su FP che ripescava una concetto di Ulrich Beck condensato nel suo famoso “La società del rischio” del 1986, l’anno di Cernobyl. Sulla faccenda della pandemia, il primo e generalizzato fallimento, è stato quello di non aver previsto il rischio per altro noto. Non noto a coloro che cascati dal pero della loro sostanziale ignoranza (uso “ignoranza” come giudizio oggettivo, senza rimprovero, nel senso di “inconsapevolezza” o “incompetenza”), hanno cominciato a cercare spiegazioni fantasiose per eventi clamorosi. L’altro giorno, ad esempio, Elon Musk ha fatto capire di ritenere le piramidi egiziane opera di alieni il che ci sta se non sai nulla di archeologia e storia del tempo profondo. E’ normale che un tizio di un paese che ha trecento anni convinto della meccanica nozione di “progresso”, non si dia spiegazione di come abbiano fatto gli umani di quattromilacinquecento anni fa a fare quelle cose imponenti, se non ipotizzando interventi di mani invisibili esterne. Per millenni siamo ricorsi a dei, spiriti, fate e folletti per spiegarci quello che non altrimenti sapevamo spiegarci.

Chi quindi non sapeva nulla di virus, coronavirus e SARS da coronavirus, si è sbellicato dalle risate sulla faccenda dei pipistrelli e pangolini, è normale. Però qualcuno sapeva di virus, coronavirus e SARS da coronavirus, da decenni visto i documenti pubblicati da WHO sin nei primi anni duemila assieme a tutta la letteratura scientifica correlata. Così per i rischi Three Mile Island-Cernobyl-Fukushima, piuttosto che quelli climatico-ambientali, quelli tecnologici, piuttosto che quelli della bomba demografia africana che genera migrazioni ovviamente, non da sola), piuttosto che quelli correlati all’epidemia di debito mondiale o quelli legati alla transizione dei poteri sullo scacchiere geopolitico . Ho pubblicato diverse volte qui i Global Risk Report che le élite mondiali discutono a Davos ogni anno, con almeno una quindicina di rischi caldi dal prevedibile devastante impatto globale.

Ma questi temi non sono per le popolazioni, le popolazioni debbono pensare di vivere nel migliore dei mondi possibili, altrimenti sale l’ansia e tutto si disordina, cambiano le priorità, saltano le logiche. Poi se succede qualcosa si interviene con le distrazioni di massa, dagli alieni al virus geneticamente modificato da qualche Spectre. Si fa poco riflessione sul fatto che un concetto largamente usato in certi ambienti alternativi come “Matrix” (e molti altri modelli distopici), usi il concetto di un prodotto di Hollywood ovvero la prima industria dell’immaginario con cui la prima potenza mondiale colonizza le nostre menti. C’è una sorta di “critica omeopatica” che usa i modelli mentali del nemico (quasi tutti “cinematografici”) pensando con questi di contrastarlo. La cosa farebbe più ridere della faccenda dei pipistrelli e pangolini ma non è così che va il mondo.

Fallita quindi la previsione del rischio, dovremo poi riflettere su i diversi tipi di gestione perché una cosa è certa: nel mondo complesso i rischi aumenteranno geometricamente. E se non si capisce cosa sta accadendo, si andrà di disastro in disastro, il che non è per niente adattativo, comunque la pensiate.

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ITALEXIT, di Andrea Zhok

ITALEXIT

In questo periodo nell’area politica che frequento maggiormente c’è grande fermento, volano stracci e qualche coltellata.
Il grande tema è dato dalla comparsa sul terreno di un’aspirante forza politica, guidata dall’ex direttore della Padania e vicedirettore di Libero, sen. Gianluigi Paragone.

Il manifesto politico è scritto da mani capaci, e, per quanto semplicistico, tocca tutti i punti giusti nell’area di riferimento. Tuttavia più del manifesto, il cuore della proposta sta in ciò che viene comunicato dalla scelta stessa del nome: ITALEXIT, l’uscita dell’Italia dall’UE.

La fibrillazione nell’area politica di riferimento (oscillante tra ‘sinistra euroscettica’ e ‘destra sociale’) è manifesta. Il senso politico dell’operazione è piuttosto chiaro: esiste una fascia di elettorato rimasto politicamente orfano dopo che nella Lega l’europeismo di Giorgetti ha messo all’angolo l’area Borghi-Bagnai, e dopo che l’esperienza di governo ha mitigato l’euroscetticismo del M5S.
Il progetto di ITALEXIT sta nel chiamare a raccolta quest’area di malcontento in uscita da Lega e M5S, con numeri sufficienti da superare le soglie di sbarramento alle prossime elezioni politiche, portando qualcuno (a partire dal sen. Paragone) in Parlamento.

L’operazione è politicamente legittima e può avere successo.
Intorno a questa operazione, al suo retroterra e ai suoi concreti sbocchi si è acceso un rovente dibattito. Conformemente al modo di porsi del nuovo partito, la discussione si è immediatamente fatta incandescente intorno al tema dell’Italexit, con un ritorno in grande stile delle accuse di “altroeuropeismo”.

Per chi non sia addentro al linguaggio iniziatico di quest’area, per “altroeuropeismo” si intende l’atteggiamento, frequente soprattutto nella sinistra radicale, in cui da un lato si ammettono i difetti dell’Unione Europea, ma dall’altro si professa illimitata fiducia nella capacità dell’UE di autocorreggersi. “Altroeuropeismo” è un termine stigmatizzante in quanto l’Altroeuropeista finge di non vedere le colossali difficoltà, tecniche e politiche, che si frappongono ad una riforma radicale (ad esempio in senso keynesiano) dell’impianto normativo dell’UE, distintamente neoliberale.

L’Altroeuropeista esemplare è un parlamentare europeo che da decenni si atteggia a furente critico dell’Europa, salvo però rimanere attaccato al suo scranno e promettendo che le cose andranno meglio in seguito. L’Altroeuropeista non spende mai una parola che non sia generica intorno a ‘come’ le cose dovrebbero cambiare, salta a piedi pari la realtà dei rapporti di forza e dei vincoli, e si limita a ‘gettare il cuore oltre l’ostacolo’, proclamando la propria fede (e ciò magari gli fa guadagnare una cadrega).

Ora, mentre l’accusa di ‘Altroeuropeismo’ ha un’identità semantica ben chiara, per chi si appella all’Italexit, forse può essere interessante mettere alla prova un rovesciamento delle posizioni, per vedere se l’identità semantica del fautore dell’Italexit è parimenti chiara.

Qualcuno infatti potrebbe notare curiose quanto paradossali affinità formali tra i due estremi.

Dopo tutto chi pone l’Italexit come punto centrale e primario, proprio come l’Altroeuropeista, finge di non vedere le colossali difficoltà, tecniche e politiche presenti (qui rispetto all’uscita unilaterale dell’Italia dai trattati europei), come l’Altroeuropeista non spende mai una parola che non sia generica intorno a ‘come’ l’uscita dovrebbe avvenire, e come l’Altroeuropeista salta a piedi pari la realtà dei rapporti di forza e dei vincoli, limitandosi a ‘gettare il cuore oltre l’ostacolo’ e a proclamare la propria fiducia. (E chissà che così facendo non riesca pure lui a guadagnare una cadrega.)

A difesa di questa affinità formale si potrebbe dire che, dopo tutto, in entrambi i casi si tratta di posizioni critiche dello status quo, che per necessità devono appellarsi all’ottimismo della volontà, perché se aspettano il conforto della ragione potrebbero aspettare a lungo.

Questa è una possibilità, e se nel dibattito corrente non si fossero alzati i toni in maniera indecente, con accuse di tradimento come se piovesse, non mi sentirei di aggiungere altro.

Ma le accuse di ‘tradimento’ nei confronti di chi ha esaminato e denunciato reiteratamente il carattere neoliberale dell’UE, sono state davvero uno spettacolo po’ eccessivo anche per persone tolleranti.

Dunque, di fronte a questa chiamata alle armi nel nome dell’Italexit (e di ITALEXIT) forse qualche pacato ragionamento è doveroso.

Sulla cattiva coscienza degli Altroeuropeisti mi sono soffermato spesso, spendiamo dunque oggi un paio di parole sull’immaginario da Italexit.

Nell’agitare la parola d’ordine dell’Italexit ci sono, a mio avviso, tre livelli motivazionali possibili.

1) Il primo è il più semplice e diretto, ed evoca l’idea di qualcosa come strappare un cerotto: tieni il fiato, un momento di dolore, e poi stai bene. Qui stanno quelli che “mettiamo in moto la zecca di stato il venerdì sera, a borse chiuse, e zac, lunedì siamo di nuovo in possesso del nostro destino.”
Ora, è doloroso ricordarlo, perché sembra sporcare la bellezza della fede con la volgarità della realtà, però l’appartenenza dell’Italia all’UE consta di un intrico di scambi, contratti e leggi sedimentati in mezzo secolo, rispetto a cui è pia illusione pensare che l’unico problema da risolvere sia poter stampare moneta con valore legale. Che questo sia un punto strategico è certo, ma è solo un tassello in un ampio quadro complessivo. È ovvio che tutti i nostri rapporti reali, finanziari, di import-export, tutti i patti di collaborazione, la normativa sulla sicurezza transfrontaliera, gli accordi industriali, tutta la normativa sulle forme di scambio, sulla concorrenza, ecc. ecc. rimangono in vigore finché non vengono sostituite, una ad una.

Si tratta di un cambiamento storico che richiede non solo il supporto massivo delle forze politiche parlamentari, ma risorse tecnocratiche e la collaborazione di gran parte dei ceti dirigenti. Si tratta di un atto che avrebbe bisogno di un’unità d’intenti a livello nazionale come nella storia d’Italia non si è mai vista. Una volta ottenuta tale unità d’intenti saremmo di fronte ad un processo di medio periodo, in cui tutti gli accordi nuovi che vengono stipulati verranno stipulati sulla base dei reali rapporti di forza tra i contraenti, e saranno questi rapporti di forza a definirli come più o meno vantaggiosi rispetto agli accordi vigenti.
Più che strappare un cerotto, direi che siamo piuttosto dalle parti di tre anni di chemioterapia.

2) Il secondo tipo di argomento è di carattere tattico, ed agita l’Italexit più che come prospettiva rivoluzionaria come fattore di trattativa. In effetti un paese che ha tra le sue opzioni quella di abbandonare il tavolo ha un’arma in più nelle trattative, e in questo senso prendere in considerazione l’Italexit può rappresentare un modo per aumentare il proprio potere contrattuale in Europa.
Per molto tempo, quando in Italia era in vigore un irriflesso unanimismo sui ‘grandi ideali europei’, questa prospettiva tattica ha avuto grandi meriti, e anche ora, quando l’euroscetticismo è oramai sdoganato, rimane un buon argomento. Impostare il discorso in questi termini ha permesso di togliere molti veli e di vedere finalmente i rapporti intraeuropei per quello che sono: accordi tra stati nell’interesse degli stati.

I limiti di questa posizione sono, naturalmente, che una minaccia per conferire reale forza contrattuale dev’essere credibile. E aver maturato la consapevolezza che l’Europa non è il Paese dei Balocchi e che dobbiamo fare, come tutti, i nostri interessi, aumenta solo un po’ la nostra credibilità nel minacciare di andarsene. Il resto della plausibilità dipende da calcoli costi-benefici che hanno a disposizione anche gli interlocutori con cui si tratta e su cui non si può bluffare.

3) Il terzo tipo di argomento è quello del collasso endogeno. In questo caso parlare di Italexit può essere improprio, giacché la prospettiva effettiva è che venga meno per cedimento strutturale interno la casa da cui vorremmo uscire. Dunque non ce ne andremmo sbattendo la porta, perché non ci sarebbero più né la porta né le mura. Questa è l’opzione concretamente più probabile, ma è anche quella rispetto a cui le iniziative italiane giocano un ruolo irrisorio. Possiamo ‘prepararci mentalmente’. Possiamo preparare ‘piani B’. Ma in definitiva il boccino in mano ce l’hanno i paesi che l’UE la guidano, ed in particolare la Germania. Se la Germania decide che l’UE non è più un proprio interesse primario, si mette in moto un processo di disgregazione dei trattati in vigore, e di ridefinizione di altri trattati. Qui l’unico partito efficace per l’Italexit dovrebbe farsi eleggere al Bundestag.

Rispetto sia alle prospettive (3) che (2) qualunque rimodulazione tedesca delle regole europee (come quelle avvenute con il ruolo di supporto ascritto alla BCE, e anche con il Recovery Fund) modifica le carte in tavole e le opzioni disponibili. Condizioni più gravose rendono la minaccia di Italexit più plausibile e il collasso endogeno del sistema più probabile. Al contrario, condizioni di allentamento dei vincoli e di mutualità riducono la plausibilità sia di (2) che di (3).

Visto in quest’ottica, il quadro appare come alquanto meno rigidamente ideologico di quanto ci si potrebbe aspettare, e alquanto più pragmatico. E in effetti non c’è molto da stupirsi, perché, caso mai ce ne fossimo scordati, l’Italexit non è un fine ma un mezzo. Ed essendo un mezzo e non un fine, le sue forme, la sua plausibilità e l’intensità delle sue pretese possono variare a seconda di come varia il contesto storico e politico.

Dunque, se l’Italexit è un mezzo e non un fine, la vera domanda da porsi è: un mezzo per cosa?

La mia risposta è di ispirazione socialista ed è semplice: l’Italexit, se un senso ce l’ha, ce l’ha in quanto mezzo per riacquisire una sovranità democratica capace di porre in essere politiche nell’interesse del lavoro e di ridurre il potere di ricatto del capitale. Sovranità democratica e centralità del lavoro sono inscritte nel primo articolo della nostra Costituzione, e sono il lascito di un’epoca socialmente più avanzata di quella attuale.

La costruzione dei trattati europei, in particolare dal Trattato di Maastricht, ha imposto una svolta in senso dichiaratamente neoliberale, con la concorrenza posta come ideale normativo e la tutela della stabilità della moneta anteposta all’occupazione e ai salari. Dunque la catena logica va dalla tutela del lavoro, alla sovranità democratica, al rigetto della normativa europea.

Quest’ordine logico ha alcune implicazioni fondamentali. Non ogni modo di respingere le normative europee vale uguale.

Brandire l’Italexit per consegnare i lavoratori italiani a un settore industriale sussidiato dallo Stato non sarebbe un passo avanti, ma due indietro. Che la normativa europea vieti aiuti di stato all’industria privata (sia pure con svariate eccezioni) potrebbe rendere un rigetto della normativa europea accettabile per diversi settori industriali, ma di per sé potrebbe essere una condizione peggiorativa per il lavoro.

Brandire l’Italexit per svincolare le industrie italiane dai vincoli ambientali imposti a livello europeo può suonare liberatorio per molta piccola e media industria (e talvolta, visti gli inghippi burocratici, lo è senz’altro), ma non garantisce affatto un futuro migliore per il paese.

Brandire l’Italexit per ricollocarsi con più forza di prima sotto l’ombrello americano e atlantico non è, di nuovo, il viatico ad un paese migliore per i lavoratori italiani. Incidentalmente, l’Italia ha sofferto di pesanti limitazioni della sovranità almeno dal 1945, e ha perso di peso e ruolo industriale in quegli anni sotto la pressione USA (Mattei, Olivetti). Di fatto per parecchi anni la prospettiva europea è stata vissuta, sia a destra che a sinistra, come un modo per sottrarsi al giogo americano. Che per sfuggire al giogo americano si sia commesso l’errore di infilarsi nella trappola ordoliberale tedesca non significa che sfuggire oggi alla trappola ordoliberale tedesca per rifluire in quella neoliberista austro-americana sia un colpo di genio.

Ora, in conclusione, mi pare ci siano solo tre prospettive di massima sul tema Italexit.

La prima è pragmatica, e guarda all’appello all’Italexit come ad uno strumento politico accanto ad altri, uno strumento che sotto certe condizioni può essere utile coltivare, ma che non ha nessun valore intrinseco: esso conta se e quando è una carta giocabile per ottenere un miglioramento diffuso delle condizioni di vita nazionali. Ma non è un fine, non è un punto d’arrivo, non è una meta agognata, non è niente cui si deve giurare fedeltà. Date certe condizioni contingenti può essere uno scopo intermedio parziale.

La seconda prospettiva è ideologica e, appunto, pone il mezzo come fine: si pone l’Italexit come se fosse un ideale a sé stante, e dopo aver redatto un libro (o pamphlet) dei sogni si spiega al pubblico plaudente che ‘prima si deve riacquisire la sovranità’ e solo poi si potrà agire nel tessuto del paese secondo i precetti del libro.
Questa prospettiva, naturalmente, si garantisce a priori di non dover mai arrivare alla prova dei fatti; figuriamoci infatti se un’impresa letteralmente rivoluzionaria – e potenzialmente cruenta – come l’Italexit può essere affidata dal popolo a qualcuno sulla fiducia, solo perché ha redatto due buoni propositi sul web o ha ‘bucato il video’ con un meme. Si tratta ovviamente di un bellicoso pour parler destinato ad essere inconseguente rispetto alle promesse.

La terza prospettiva è opportunistica e personalistica. Essa non crede neanche per un minuto che la parola d’ordine dell’Italexit indichi una qualche sostanza politica percorribile. La sua funzione effettiva è di intercettare l’attenzione pubblica intorno a qualche slogan impetuoso e tranchant, in modo da ottenere una massa elettorale bastevole a portare qualcuno in parlamento. Questa prospettiva è possibile, ma al netto del gioco di specchi per i gonzi, la sua legittimità sta tutta nella credibilità personale di chi viene mandato in parlamento. Il voto viene in effetti chiesto sulla fiducia, e qui tutto dipende da questa fiducia.

Se da chi ti chiede il voto non compreresti un motorino usato, puoi impiegare gli atti di fede in direzioni più proficue.

Dove andremo?_ a cura di Elio Paoloni

Accogliamo ed estendiamo l’invito alla riflessione di Elio Paoloni. Un argomento non nuovo a questo blog e sul quale possono convergere forze esistenti e in formazione apparentemente ostili ed antitetiche_Giuseppe Germinario

Che ne pensano gli amici competenti?_Elio Paoloni

Nessuna descrizione della foto disponibile.
Giorgio Bianchi

Se non trovano un’accordo sull’Italia, la questione potrebbe essere risolta offrendo un pezzo della penisola ad ogni contendente.
L’attuale classe politica non è in grado di garantire l’unità territoriale del nostro Paese, sopratutto alla luce del moltiplicarsi dei sindaci sceriffi e dell’abuso del termine eversivo “governatori”.
Per capire come andrà a finire la questione bisognerà osservare attentamente la Lega, per vedere se prevarrà la componente atlantica sovranista o quella europeista secessionista.
Gli USA intanto stanno spostando uomini e mezzi dalla Germania e una parte verrà dislocata in Italia:

Via quasi 12mila soldati Usa dalla Germania, molti arriveranno in Italia

https://www.repubblica.it/…/trump_muove_i_soldati_dalla_ge…/

La balcanizzazione dell’Italia è il piano B in caso di pareggio nella battaglia per la supremazia in Europa tra Aquisgrana e USA.
La mia nuova ipotesi di lavoro è capire se il Covid possa essere una trovata franco-cinese con contributo esterno anglo-israelo-mondialista.
È uno scenario che continuo a rifiutare, ma è l’unico che mi consente di incastrare tutti i pezzi spaiati del puzzle.

Spartizione dell’Italia: un’ipotesi ammessa dalla storia.

Scopriremo se quello di cui si comincia a parlare, la spartizione del Paese, è reale. Per il momento abbiamo una conferma dalla storia: la Polonia, in una situazione simile a quella dell’Italia di oggi, fu svenduta a Russia, Prussia e Austria per pagare il debito della corona polacca accumulato dall’ultimo Re massone Augusto Poniatowski.

A volte, studiare la storia di altri paesi è molto istruttivo. Ho recentemente approfondito uno degli episodi più scioccanti della storia moderna, la spartizione della Polonia. Si trattava del più esteso paese europeo; ricchissimo, colto, tenacemente «europeista» e «romano», che aveva avuto più volte un ruolo esiziale nella storia del nostro continente (si pensi alla liberazione di Vienna, nel 1683. Insomma: un colosso europeo che, come tutti i colossi, aveva i piedi d’argilla. Il piede destro era zuppo di vodka, che avvelenava i contadini e le classi popolari, il piede sinistro era tarlato dall’usura, che sovvenzionava una classe nobiliare contadina (la cui economia era, quindi, ciclica) e perennemente in guerra.
Non faceva eccezione l’ultimo re polacco, Augusto Poniatowski (1732 – 1798). Massone, era poco più che un burattino nelle mani delle potenze straniere e, soprattutto, dei creditori: aveva infatti le mani bucate ed arrivò ad accumulare 40 milioni di złoty di debiti (fu persino imprigionato per questo motivo). I suoi creditori erano usurai polacchi e, ovviamente, le banche: soprattutto con la banca del protestante scozzese Peter Ferguson Tepper (che fallì, a causa dei debiti di Poniatowski) e con le banche di Amsterdam.

Bene, arriviamo alle spartizioni. Esse furono tre, nel 1772, nel 1793 e nel 1795, per opera di Prussia, Russia e Austria. La prima avvenne immediatamente dopo l’abdicazione e la fuga (in Russia) di Poniatowski; le altre seguirono, praticamente, in modo meccanico. Ora: mi sono più volte chiesto come sia stata possibile una cosa del genere. Come può accadere che tre Stati si accordino tra loro per spartirsi un quarto Stato, senza suscitare la minima reazione nella comunità internazionale o all’interno dello Stato destinato a scomparire? Ora la cosa è più chiara, è sufficiente (come al solito) seguire il denaro. Se la finanza prende il posto della politica, può accadere che i creditori svendano un intero paese al miglior offerente; in questo caso a Russia, Prussia e Austria. I primi due si offrirono di pagare 2/5 dei 40 milioni di złoty del debito della corona polacca; l’Austria 1/5. Naturalmente, i costi di questa operazione sono stati trasferiti sulla popolazione locale grazie a esazioni e confische.

Questa la storia; veniamo ora alla parte istruttiva. La situazione della Polonia di fine Settecento ricorda molto quella dell’Italia attuale: il vuoto politico, il forte indebitamento… Prevengo la facile obiezione: so benissimo che il popolo italiano non è un Poniatowski collettivo. Il popolo italiano ha un risparmio privato enorme, sebbene in progressiva erosione; e lo Stato italiano produce (caso pressoché unico in Europa) un avanzo primario ormai da anni. Semplifico: lo Stato italiano incassa più di quanto spende per i cittadini, ormai da anni. Resta comunque l’enorme debito pubblico che, prevedibilmente, è destinato a salire ulteriormente nel prossimo futuro.

E quindi? Dopo tutto il sangue versato e la retorica unitaria, a nessuno verrebbe in mente di dividere l’Italia…Eppure l’ipotesi di una spartizione della penisola emerge (per ora carsicamente) qua e là, tra i ben informati. Ne ha scritto, ad esempio, Beppe Grillo nel suo blog; se ne vagheggia su Il Sussidiario; ne parla esplicitamente Dario Fabbri. In soldoni, uno dei possibili scenari futuri è proprio la spartizione dell’Italia tra Stati Uniti (Sicilia e Sud d’Italia, una portaerei naturale nel cuore del Mediterraneo), Germania (il Lombardo-veneto produttivo) e Francia (Piemonte e Val d’Aosta); resterebbe, abbandonato a sé stesso, il Centr’Italia.
Questo scenario getta una nuova luce sul ruolo che la Lega ha svolto (e continua a svolgere) dagli anni Novanta del secolo scorso ai giorni nostri; ne ragiona diffusamente nel suo blog Federico Dezzani.
Fanta-politica? Oppure uno scenario possibile e auspicato da alcuni? Lo scopriremo tra qualche anno (o mese?). Per il momento abbiamo una conferma che dalla storia, anche da quella altrui, si può imparare molto.

https://lanuovabq.it/…/spartizione-dellitalia-unipotesi-amm…

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