Una nuova tipologia di guerra : la guerra economica_2a parte, di Giuseppe Gagliano

Soggetti e tipologie della guerra economica

Dopo aver descritto le tre rivoluzioni della geopolitica, l’idea di potenza e la teoria del commercio, meritano di essere analizzati nel dettaglio i protagonisti e le forme assunte dagli scontri geo-economici. La nuova centralità dello Stato nelle relazioni internazionali, soprattutto quelle di tipo economico, è funzionale alla delimitazione del concetto di “guerra economica”, definibile come lo scontro fra nazioni mediante e ai fini dell’economia e non come competizione economica tout court, che riguarda piuttosto le imprese. Il rinnovato ruolo centrale dello Stato nell’economia è una tendenza recente, evidenziabile con il passaggio del millennio e ancora di più in seguito alla grande recessione causata dalla crisi finanziaria dell’agosto 2007, mentre negli anni Ottanta e Novanta il neoliberalismo imperante considerava lo Stato esclusivamente come un ostacolo allo sviluppo economico, alla globalizzazione finanziaria, alla transnazionalizzazione delle imprese e all’intensificazione degli scambi internazionali (restano celebri, a questo proposito, le parole del Presidente Reagan: “il problema è lo Stato”). Lo Stato, con le sue prerogative anche in campo economico, è però resistito a questa svalutazione e, continuando a favorire lo sviluppo delle proprie imprese tramite la costruzione di un ambiente giuridico, fiscale e infrastrutturale adeguato, ha posto solide basi per l’assunzione del suo ruolo odierno, quasi di “capo militare” risoluto che conosce il “mestiere delle armi”, ridonando morale e spirito di conquista all’economia e guidando le proprie truppe alla conquista di mercati e risorse. Esempi di amministrazioni statali che hanno incarnato o tuttora incarnano questo ruolo possono essere considerati il Ministero per il Commercio Internazionale e l’Industria giapponese, emblema della potenza economica nipponica, e in Francia l’unione di Presidenza della Repubblica, Presidenza del Governo e Ministero delle Finanze. Le truppe, invece, non sarebbero altro che le stesse imprese del settore privato, anche se i critici della guerra economica insistono nell’affermare che tale gerarchia di ruoli sia impossibile da realizzare, dato che la logica di potenza dello Stato e la logica di
profitto delle imprese non coinciderebbero. Tali critiche, d’altra parte, vengono screditate nel momento stesso in cui si considera che ciò che si verifica non è tanto un’alleanza diretta fra Stato e imprese, quanto piuttosto una ripercussione indiretta della forza di queste ultime sullo Stato in cui sono stabilite. S’intendono qui soprattutto le grandi multinazionali: un rapido sguardo ai principali Paesi d’origine delle prime 1.000 aziende manifatturiere mondiali nel 2007 dà conto in maniera piuttosto evidente, per non dire scontata, delle dinamiche appena evidenziate. Stati Uniti e Giappone, con rispettivamente 305 e 209 società multinazionali, distaccano di gran lunga gli altri Paesi occidentali (Francia, Germania, Regno Unito, Canada, Svizzera, Italia, Finlandia, Svezia, Paesi Bassi, Spagna, Norvegia e Lussemburgo) e i mercati emergenti (Corea del Sud, Taiwan, Cina, Brasile, India e Russia), i quali evidenziano però tassi di crescita nettamente superiori che potrebbero rovesciare, nei prossimi anni, questa classifica. Si tratta, naturalmente, di un impianto strategico che va a discapito delle istituzioni multilaterali, sviluppatesi soprattutto negli anni Novanta, con gli Stati occidentali che oggi preferiscono gli accordi bilaterali, lasciando il campo più libero a una dinamica di alleanze e di rapporti di forza, secondo quanto afferma Bernard Nadoulek. Di fatto, quello che è avvenuto è che lo Stato si è messo a capo di quelle tre rivoluzioni indicate nella sezione precedente del presente contributo, che sono state il motore del passaggio da una logica di Guerra Fredda a quella di guerra economica, piuttosto che svolgere un mero ruolo di garante delle regole del gioco, di controllore della correttezza dello stesso o di strumento di salvataggio in caso di sconfitta. Questo perché esso possiede delle prerogative che non sono alla portata delle imprese, per quanto grandi esse siano, soprattutto in termini di finanziamento a lungo termine e di investimenti lungimiranti in tecnologie costose e settori all’avanguardia. Non solo il finanziamento, ma anche la pianificazione di lunga durata è appannaggio dello Stato piuttosto che delle aziende: è il caso del Commissariato per la Pianificazione Economica in Francia, in vigore dal 1946 al 2006, e a livello europeo delle due strategie decennali rispettivamente di Lisbona, adottata nel 2000 dai Paesi membri dell’UE allo scopo di rendere l’Unione Europea
“la prima economia della conoscenza”, ed Europa 2020 per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva. Vi è poi il caso di capi di Stato e di governo che incarnano personalmente ruoli di tipo economico: emblematici sono gli esempi carismatici di Margaret Thatcher e Bill Clinton, entrambi impegnatisi in prima persona in particolare con l’Arabia Saudita per la stipula di contratti di fornitura, e quello decisamente più duro di Putin, che usa deliberatamente il gas russo come arma allo stesso tempo di dissuasione e di pressione. Il ruolo delle imprese, in questo contesto di guerra economica, sarebbe dunque quello di “truppe”, al fronte se esportano in maniera consistente, nelle retrovie se mantengono saldamente il controllo di nicchie del mercato interno, di sfondamento se svolgono una parte consistente della loro attività in terra straniera. In quest’ultimo caso ci riferiamo soprattutto alle grandi industrie multinazionali, il cui peso e importanza economica vengono stabiliti non tanto in funzione del loro fatturato annuale, bensì sul grado di globalizzazione, cioè sulla loro capacità di conquistare mercati esteri. Questa abilità si può misurare considerando i valori che costituiscono l’indice di transnazionalità di un’azienda, nonché gli attivi detenuti al di fuori del Paese dove ha sede la casa madre, la percentuale di vendite realizzate all’estero e il numero di dipendenti che lavorano all’estero. Vi sono però alcuni elementi che non rendono quest’identificazione di tipo militare così automatica come sembrerebbe. Innanzitutto, la questione della nazionalità delle imprese, soprattutto le multinazionali: analizzando i listini dei principali indici borsistici degli Stati occidentali, ciò che salta immediatamente all’occhio è la quantità di capitali detenuta da residenti stranieri, che molto spesso supera la metà del totale delle società quotate nei listini stessi; in questi casi risulta quindi controverso affermare un’unica nazionalità per queste imprese. Eppure, il concetto di nazionalità è fondamentale per la definizione di guerra economica, poiché quest’ultima cessa di esistere se non vi è nessuna esigenza di difendere delle proprietà interne alla nazione stessa, sia in maniera diretta – con il possesso di quote azionarie da parte dello Stato, ad esempio –, sia in maniera indiretta – garantendone l’indipendenza nei confronti di imprese straniere. Gli Stati Uniti si
confermano, anche in questo caso, in prima linea nella difesa dei propri interessi interni, come hanno dimostrato due interventi dell’amministrazione Bush, rispettivamente nel 2005 e nel 2006, per impedire l’acquisto di Unocal (azienda del settore petrolifero) da parte della China National Offshore Corporation e per costringere la Dubai Port World alla vendita della gestione di sei grandi porti americani a favore di AIG International, una società di servizi finanziari e assicurativi. D’altronde, vi sono almeno tre fattori che permettono di considerare nazionali imprese che, a tutti gli effetti, si fondano invece su capitali internazionali: in primo luogo il territorio dove originariamente la società è stata fondata e ha sviluppato la propria attività, costruendo legami con fornitori e clienti e operando sulla base di prassi non scritte derivanti da una determinata cultura nazionale; in secondo luogo, le norme e i rapporti istituzionali che permettono lo sviluppo dell’impresa, anch’essi dipendenti dal Paese in cui la stessa ha la sede principale; infine, l’ubicazione del centro decisionale, la cultura d’impresa e la nazionalità dei proprietari del capitale. Il secondo elemento che rende problematica l’identificazione automatica delle imprese come “truppe” della guerra economica è la convergenza d’interessi di Stati e imprese. Come già anticipato in precedenza, la logica di potenza degli Stati differisce dalla logica di profitto delle imprese, che spesso si dimostrano indifferenti alle necessità degli interessi nazionali. In realtà, al giorno d’oggi l’economia è forse la preoccupazione principale degli Stati, come pure i suoi operatori i quali, con la conquista di segmenti di mercato su cui vendere le merci prodotte, garantiscono il mantenimento di livelli adeguati di occupazione ed entrate costanti e sicure nelle casse dello Stato sotto forma di imposte, contribuendo così alla gestione degli equilibri sociali e al finanziamento dei servizi pubblici (sanità, istruzione, giustizia, difesa, ecc.). Il fatto che alcune imprese generano occupazione e versano imposte in Stati esteri concorre però, almeno indirettamente, al controllo di un mercato straniero da parte di interessi nazionali ed è a servizio della politica di potenza dello Stato. Questa convergenza d’interessi spiega, in ogni caso, perché gli Stati cercano di promuovere e consolidare le
aziende leader a livello nazionale e internazionale nei diversi settori. Gli Stati Uniti si confermano al primo posto in varie classifiche: con il primato in settori quali quello aerospaziale e della difesa (Boeing Co.), quello farmaceutico e nella grande distribuzione (con Walmart che da diversi anni si conferma come la prima multinazionale mondiale per fatturato), sono lo Stato con il più alto numero di multinazionali di punta, seguiti dalla Germania, che detiene il primato nei settori automobilistico (Volkswagen) e chimico (BASF) e Cina, le cui imprese statali dominano soprattutto il settore petrolifero (Sinopec Group e China National Petroleum Corporation); l’Italia, grazie al primato di Exor, gode di una posizione di rilievo nel settore dei servizi finanziari. È palese, anche agli occhi della sempre più informata opinione pubblica, che l’apertura di filiali all’estero da parte delle multinazionali o la delocalizzazione della produzione – anche da parte di imprese di dimensioni inferiori – in virtù dei minori costi sostenuti non favorisce l’occupazione interna, indicatore di potenza economica (nonché di controllo sociale) tanto caro agli Stati. Partendo da questa constatazione, gli Stati hanno sviluppato due tipi di atteggiamento in merito: il più diffuso è cercare di incentivare le società straniere a investire sul proprio territorio con politiche fiscali e normative più vantaggiose (ambito in cui l’Italia è fanalino di coda fra i Paesi occidentali, a causa delle inefficienze della triade burocrazia, fiscalità e giustizia civile), mentre il secondo è un tipo di approccio attuato, ancora una volta, dagli Stati Uniti della prima presidenza Clinton, con la proposta di sostenere le imprese presenti sul territorio statunitense a prescindere dalla loro nazionalità, allo scopo di creare o mantenere l’occupazione nazionale. La conclusione che si può trarre da quanto analizzato finora è dunque quella di uno scenario in cui imprese e Stati si muovono nell’arena della competizione economica non collaborando strettamente (anche perché si tratterebbe di una constatazione ingenua), ma utilizzando le rispettive armi e carte vincenti che, in taluni casi, contribuiscono e favoriscono le logiche di intervento delle une e degli altri. Considerato, d’altra parte, il ruolo che lo Stato sempre più deve assumere nel contesto delle relazioni economiche internazionali, destabilizzando l’impianto
liberale finora prevalente a livello globale, si può immaginare un futuro in cui Stati e imprese dovranno, a tavolino, trovare un equilibrio che tenga conto delle reciproche prerogative. La grande recessione causata dalla crisi finanziaria dell’agosto 2007, a motivo della sua eccezionale gravità che coinvolge tutti i Paesi e per cui è impensabile che vi sia qualcuno che ne uscirà vincitore a discapito degli altri, favorisce nelle relazioni internazionali una dialettica in cui vengono rimesse al centro le logiche multilaterali dei grandi organismi, FMI e Unione Europea in testa, ma anche OMC e ONU. I Paesi del G20, che sostituirà gradualmente il G8 come principale forum economico delle nazioni più sviluppate, mantengono ufficialmente il dialogo come metodo di regolamentazione delle difficoltà economiche, anche perché l’urgenza della situazione economica sembra richiedere una risposta collettiva per salvare la finanza ed evitare la contrazione degli scambi, senza ricadere perciò in quel cortocircuito di natura economica generatosi negli anni Trenta del Novecento che portò agli avvenimenti storici mondiali e soprattutto europei che ben si conoscono. Tuttavia, la contraddizione è dietro l’angolo: se questo è, infatti, il discorso ufficiale mantenuto dagli Stati, la realtà dei fatti dimostra come la necessità di conservare le porzioni di mercato acquisite sia preponderante rispetto all’imperativo di solidarietà nel settore finanziario, aumentando così le tensioni già abbastanza elevate a causa della crisi. Quest’ultima, d’altra parte, se nella percezione generale è connotata esclusivamente in senso negativo, si rivela spesso una grossa opportunità per le imprese che le sopravvivono di conquistare nuovi “territori” rimasti sprovvisti di fornitori (in Francia, esse sono sostenute in questo tipo di attività da Ubifrance, l’Agenzia francese per lo Sviluppo Internazionale delle Imprese, di cui il corrispettivo italiano è l’Agenzia ICE). Ecco che torna dunque la logica di guerra economica, che ci aiuta ancora una volta a comprendere atteggiamenti che potrebbero sembrare discordanti, se non addirittura schizofrenici, e che devono invece essere letti come l’evoluzione dei rapporti postGuerra Fredda, dove le alleanze non più militari consentono di non sentirsi
vincolati a costo della vita ai propri partner, ma addirittura di considerarli dei concorrenti commerciali e di trattarli di conseguenza. Il mondo post-bipolarismo, quindi, non è più un unico scacchiere dove solo due giocatori muovono di volta in volta le loro pedine, ma è composto di numerosi scacchieri sovrapposti dove si conducono partite spesso legate le une alle altre. Si potrebbe affermare che resta valido il concetto di multipolarismo adottato per definire le relazioni internazionali successive alla fine della Guerra Fredda, benché non vada interpretato in senso idilliaco e come orizzonte di una definitiva concordia fra i popoli, bensì in senso di guerra economica e come scena su cui gli Stati-attori assumono sempre più i ruoli ambivalenti di partner/concorrente e sempre meno quelli di alleato/avversario, che si escludono a vicenda. Secondo questa lettura, ai due blocchi della Guerra Fredda sarebbero succeduti tre blocchi: il primo sarebbe lo spazio di potenza ancora teorica ma in via di erosione progressiva del mondo occidentale, eccezion fatta forse per gli Stati Uniti; il secondo sarebbe l’ampio spazio di manovra delle nuove potenze, in continua (anche se al giorno d’oggi rallentata) espansione anche per quanto riguarda il numero dei Paesi che ne farebbero parte; il terzo, infine, corrisponderebbe allo spazio di sopravvivenza dei Paesi non compresi nei due blocchi precedenti, un nuovo ipotetico Terzo Mondo. L’analisi che i due esperti Christian Harbulot e Didier Lucas conducono a proposito delle strategie di potenza fino al 2020 conferma tuttavia la generale crisi del multilateralismo e la riaffermazione della sovranità e della potenza degli Stati nazionali. È opportuno ribadire che le alleanze interne ai tre nuovi blocchi di cui abbiamo appena presentato la proposta non hanno il carattere necessario delle passate alleanze, anzi vi sono collegamenti anche molto stretti fra Paesi che integrano blocchi diversi. Si pensi, ad esempio, alla complessità del rapporto CinaUSA: rivali nell’Africa subsahariana, dove si affrontano in una guerra per le risorse senza esclusione di colpi, ma reciprocamente dipendenti a causa del finanziamento del debito pubblico statunitense tramite l’acquisto di buoni del Tesoro americano, da un lato, e dei consistenti investimenti diretti all’estero su cui si sostiene la
crescita del gigante asiatico, dall’altro. Le analisi, in questo senso, sono ambivalenti: c’è chi sostiene che la Cina non si accontenterà del secondo posto a livello mondiale e che fin d’ora, tramite la dipendenza economica e il trasferimento di tecnologia, mostra ciò di cui sarà capace nelle offensive di una futura, probabile guerra del Pacifico; c’è chi invece legge con maggiore preoccupazione l’alleanza strategica con l’India sulle alte tecnologie, che potrebbe mettere in scacco le potenze occidentali sprovviste di una simile arma. Nonostante tutto, anche tenendo conto di questi scenari in cui i Paesi emergenti avrebbero finalmente la meglio sul vecchio Occidente, gli Stati Uniti restano ancora l’incontestabile leader della globalizzazione, anche in virtù della loro sapiente difesa degli interessi nazionali.La guerra economica come mezzo al servizio delle strategie di potenza degli Stati, siano esse di natura geopolitica o geo-economica, può assumere tre diverse tipologie: guerra economica con finalità economiche; guerra economica con finalità politico-strategiche; guerra economica con finalità militari. La prima forma è l’oggetto di tutti i discorsi fatti finora, sarà ulteriormente approfondita nella sezione seguente e non è altro che l’indebolimento degli avversari sui mercati internazionali attraverso l’espansione della forza economica dei singoli Stati. La seconda forma si esplicita principalmente nelle sanzioni intese come danni economici imposti a un Paese affinché cambi politica. Si tratta di un’arma antica della guerra economica, di cui molti sono gli esempi recenti e contemporanei: le sanzioni economiche imposte dalla Società delle Nazioni contro l’Italia in seguito alla guerra d’Etiopia, quelle contro il Sudafrica al tempo dell’apartheid e le più recenti e ancora in vigore “misure restrittive”, come vengono definite nel gergo dell’UE, a danno della Russia in risposta alla crisi in Ucraina, di carattere diplomatico (sospensione del G8), finanziario (congelamento dei beni e restrizioni di viaggio) e più specificamente economico (divieti di importazione e di esportazione in settori specifici). La terza forma di guerra economica, dal momento che per lo più assume le forme della seconda, se ne differenzia esattamente per il fine; in questo caso, ne sono esempi le sanzioni economiche contro l’Iraq di
Saddam Hussein negli anni Novanta (successive alla prima guerra del Golfo ma interrotte con la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite 1483 del 2003), l’embargo sulle armi imposto su tutti i territori dell’ex Jugoslavia pochi mesi dopo l’inizio della guerra in Croazia (determinante per l’andamento della guerra in Bosnia-Erzegovina) e l’attuale embargo sulle armi nei confronti della Siria, causato dalle violente repressioni del governo che nel 2011 hanno dato avvio alla guerra civile ancora in corso. Sarebbe auspicabile pensare, come alcuni teorici sostengono, che la prima forma di guerra economica abbia soppiantato quasi completamente gli scontri bellici diretti, almeno fra le grandi potenze del pianeta. Tuttavia, la guerra cosiddetta tradizionale non si è davvero ritirata in favore della sua forma meno virulenta (e sicuramente meno sporca di sangue), come auspicano i liberali da ormai due secoli. Gli scenari di alcuni importanti conflitti degli ultimi vent’anni dimostrano piuttosto come ciò che avviene sia una sostanziale sovrapposizione e un intreccio fra guerra classica e guerra economica. Questa constatazione può essere verificata in quasi tutti i continenti: in Africa, ad esempio, le guerre che insanguinano la regione dei Grandi Laghi sono contemporaneamente lotte per il potere e per il controllo delle risorse naturali. Il caso della Repubblica Democratica del Congo è emblematico con le regioni del Nord e Sud Kivu che, dopo il genocidio del Ruanda nel 1994, sono state il teatro di atrocità belliche permanenti causate da conflittualità di tipo etnico (scontro plurisecolare fra nilotici e bantu, esacerbato ma tenuto a bada in epoca coloniale ed esploso in seguito all’indipendenza dei Paesi dell’area) intrecciate a questioni territoriali (alcune etnie rivendicano le terre di grandi proprietari appartenenti ad altre etnie) e a ragioni di tipo economico (per il controllo delle zone di estrazione di rame, cobalto, diamanti, oro, zinco e altri metalli di base). In Europa, le motivazioni politiche della già citata crisi ucraina (opposizione russa all’Accordo di Associazione con l’Unione Europea, annessione della Crimea e proteste filorusse nelle altre regioni dell’Ucraina orientale) sono legate a doppio filo con motivazioni economiche più o meno evidenti, come la necessità per la Russia di mantenere il controllo del porto di Sebastopoli
(fondamentale per i suoi traffici commerciali), l’importanza di Kiev sul mercato internazionale dei cereali (secondo esportatore mondiale nel 2014) e la sua posizione strategica come corridoio di importanti gasdotti diretti verso il continente europeo. Il caso siriano, infine, è esemplificativo di quanto sul quadrante geopolitico mediorientale pesino considerazioni di tipo economico legate principalmente alle risorse energetiche: all’origine del mancato intervento occidentale in una guerra che infiamma ormai da cinque anni ci sarebbe la relativa povertà di idrocarburi e gas naturale dei giacimenti controllati da Damasco, che non motiverebbe quindi i costi ingenti di una mobilitazione

Una nuova tipologia di guerra : la guerra economica_1a parte, di Giuseppe Gagliano

Una nuova tipologia di guerra : la guerra economica
La realtà della guerra economica veniva fin dal XIX secolo percepita da intellettuali
del calibro di Victor Hugo e da studiosi dei campi più disparati come l’ineluttabile
evoluzione della logica di conflitto, che da guerra materiale, combattuta sui campi
di battaglia dai soldati con le armi, si sarebbe trasformata in un confronto più
“addolcito” fra mercati nazionali sul campo del commercio internazionale e, infine,
in un aperto scambio di idee fra spiriti liberi. Ciò che gli ultimi vent’anni
evidenziano, però, non è certo uno scenario internazionale in cui gli scontri sono
meno aspri di quando imperversavano ordigni e bombe sull’Europa: infatti la
concordia fra le nazioni non si è realizzata nemmeno in Occidente, fra Stati Uniti e
Unione Europea, per non parlare del resto del mondo, dove la democrazia resta
ancora un ideale per miliardi di individui, nonostante i notevoli passi avanti
compiuti in questo senso in tutti e cinque i continenti. Oltre a una generale
disillusione sulla reale portata di quel progresso la cui idea ha definito in maniera
netta la modernità, rimane quindi la convinzione che la guerra convenzionale si
possa esprimere naturalmente nell’economia, attraverso quella “guerra
economica” la cui definizione appare per la prima volta all’epoca della Prima
Guerra Mondiale come componente della guerra totale cara al generale tedesco
Erich Ludendorff. Risulta così assodato, ormai, che l’economia non è
esclusivamente la posta in gioco della guerra convenzionale.
Il concetto di guerra economica sembra essere diventato un tema “alla
moda” non solo nell’ambito degli studi strategici, ma anche – più in generale –
all’interno di un certo dibattito geopolitico che, orfano di una Guerra Fredda che
per quattro decenni aveva polarizzato tutte le attenzioni e cancellato ogni speranza
rispetto a una possibile “globalizzazione felice” e alla definitiva vittoria del
multilateralismo degli anni Novanta, doveva presto trovare uno schema
interpretativo dei rapporti sullo scacchiere globale. Secondo questa concezione,
dunque, il XXI secolo segnerebbe il ritorno della politica internazionale dominata
dagli Stati in pieno possesso della loro sovranità, impegnati a garantire la
perpetuazione della propria potenza in un complesso gioco di alleanze e diffidenze.
È pur vero però che, come sempre accade, il successo anche mediatico di una
definizione è foriero di molti malintesi, interpretazioni poco precise e una generale
banalizzazione dei termini del discorso. Scopo del presente contributo sarà perciò
individuare con precisione questo nuovo oggetto teorico e pratico e valutarne la
reale portata e gli strumenti tramite i quali agisce come concetto interpretativo,
per dare un’immagine più aderente alla realtà storica ed evitare schematizzazioni
semplicistiche che non contribuiscono a una vera comprensione dei fenomeni.
Natura e scopo della guerra economica
Uno dei primi a parlare di guerra economica nel senso in cui la si intende
oggi è stato l’ex Consigliere del Presidente francese Georges Pompidou, Bernard
Esambert, che nel 1991, ossia paradossalmente proprio all’inizio del decennio di
relativa pace nei rapporti internazionali seguito al crollo dell’URSS e precedente
l’attacco alle Torri gemelle di New York, pubblicò un’opera controcorrente per
l’epoca. Fin dalle prime pagine La guerra economica mondiale sfatava il mito allora
in costruzione di un mondo multilateralista e pacifico sotto l’egida dell’ONU. In un
contesto di economia globalizzata quale potenzialmente si presentava all’indomani
della caduta del comunismo e del conseguente ingresso di un consistente numero
di economie nazionali sul mercato globale, l’antico colonialismo territoriale si
trasformava in conquista delle tecnologie più all’avanguardia e dei mercati più
redditizi. Alla violenza delle armi si sostituirebbe dunque una lotta a suon di
prodotti e servizi, la cui esportazione costituisce il mezzo a disposizione di ogni
nazione per cercare di vincere questa guerra di tipo nuovo, in cui le imprese
costituiscono gli eserciti e i disoccupati le vittime. L’origine di questa guerra è da
ricercare nella confluenza di tre rivoluzioni, di cui ricostruiremo qui di seguito la
cronologia.
Si è visto come il concetto di guerra economica non sia di recente
definizione. La sua forma contemporanea, tuttavia, può essere fatta risalire
all’immediato secondo dopoguerra e, più precisamente, alla firma degli accordi del
GATT nel 1947, evento che pone le basi (regolamentate) della competizione
commerciale multilaterale allo scopo di favorire la liberalizzazione del commercio
mondiale. L’ambito originario dell’accordo era comunque di portata limitata, dal
momento che restarono esclusi sia il settore primario sia il settore terziario,
divenuti oggetto di discussione dei negoziati solo a cavallo del passaggio di
millennio; inoltre, anche la logica dei blocchi e il contesto geopolitico della Guerra
Fredda limitavano le rivalità economiche, evidenziando maggiormente la necessità
della solidarietà interna fra le varie economie di mercato piuttosto che prese di
posizione a difesa di singoli prodotti e/o settori industriali.
Questa situazione di relativo equilibrio viene scossa nel 1991 dalla caduta
del blocco comunista, che lascia il posto al modello capitalista (e in particolare alla
sua forma neoliberista) come unico sistema economico funzionante a livello
mondiale. Non solo gli ex Paesi comunisti vengono integrati a poco a poco
nell’economia mondiale (l’ingresso della Cina nell’OMC, istituzione nata dal GATT,
è del 2001, quello della Russia del 2011), ma anche i Paesi del cosiddetto Terzo
Mondo spingono per accedere ai mercati globali: è il trionfo della globalizzazione,
iniziata negli anni Settanta con le prime misure di deregolamentazione e il nuovo
scenario politico-economico di un mondo non più diviso in due. Quella che sembra
essere un’unificazione finalmente pacifica di tutte le nazioni all’insegna del libero
scambio non è altro, in realtà, che un presupposto per la conduzione di una nuova
guerra, finalmente a carte scoperte e non più mascherata dalla contrapposizione
militare fra blocchi della Guerra Fredda: la guerra economica. Come molti analisti
sottolineano, vi è in effetti uno spostamento delle politiche di potenza dal terreno
militare e geopolitico, dove assumevano per l’appunto la forma di scontro fra
blocchi anche in conflitti periferici, al terreno economico e commerciale, dove le
nazioni si contendono l’accaparramento di risorse e mercati. Gli scambi
commerciali, in quest’ottica, non sarebbero altro che una delle modalità della
guerra nel momento in cui si indebolisce il suo fronte armato; perciò investimenti,
sovvenzioni e azioni di penetrazione dei mercati esteri non sarebbero altro che
l’equivalente delle dotazioni in armamenti, dei progressi tecnici del settore bellico
e dell’avanzamento militare in territorio straniero. È evidente che siamo ben
lontani dalle visioni degli intellettuali illuministi e ottocenteschi che auspicavano
un “addolcimento” delle relazioni internazionali grazie al libero movimento di beni
e idee. Sarebbe tuttavia riduttivo pensare che la geo-economia cancelli la
geopolitica. Fra gli altri studiosi della questione, Christian Harbulot insiste sul fatto
che esistono scacchieri diversi che si intersecano parzialmente: scambi armoniosi,
guerra economica e mire geopolitiche possono coesistere e anche interagire,
poiché si inscrivono in mondi dalle logiche autonome ma inevitabilmente legati fra
loro.
È dunque negli anni Novanta che avviene quella che possiamo definire come
una vera e propria rivoluzione copernicana nell’ambito delle relazioni
internazionali, che segna il passaggio da una geopolitica classica caratterizzata da
Stati che lottano fra loro per il controllo di territori a una geo-economia (o guerra
economica) in cui gli Stati si confrontano per il controllo dell’economia globale.
Non si tratta esclusivamente di una considerazione di tipo intellettuale, elaborata
dagli studiosi della materia, bensì di una constatazione ormai alla portata anche
dell’opinione pubblica, tanto da essere ripresa addirittura in slogan pubblicitari.È
questo il caso di un’impresa europea di elettronica che, in piena Prima Guerra del
Golfo, affermava: “la Terza guerra mondiale sarà una guerra economica: scegli fin
d’ora le tue armi”. La posizione degli Stati Uniti in questa nuova epoca è molto
chiara: la sicurezza nazionale dipende dalla potenza economica. Innanzitutto, come
superpotenza del blocco uscito vincitore dalla Guerra Fredda, già si trovava in una
posizione privilegiata per comprendere prima di qualunque altro Paese il
cambiamento in atto, anche in virtù degli investimenti sotto forma di sovvenzioni
fatti nei decenni precedenti in ricerca e sviluppo, in modo da equipaggiare al
meglio le proprie imprese per la concorrenza internazionale che si profilava
all’orizzonte. In secondo luogo, il neoeletto Bill Clinton ha da subito messo in
pratica questa “dottrina” della sicurezza nazionale dipendente dall’economia
istituendo una “War room” direttamente collegata al dipartimento del Commercio,
come canale privilegiato di relazione fra lo Stato e le imprese per sostenere queste
ultime nella competizione mondiale; allo stesso tempo, il Segretario di Stato
Warren Christopher dichiarava ufficialmente che la “sicurezza economica” doveva
essere elevata al rango di prima priorità della politica estera degli Stati Uniti
d’America. Si può perciò parlare di una vera e propria dichiarazione di guerra
economica da parte della prima potenza economica mondiale al resto del mondo,
anche se mascherata da difesa degli interessi nazionali, in un mix originale e
audace di principi liberali e mercantilisti.
Nel contesto di questa nuova geo-economia ad alto tasso concorrenziale,
caratterizzata negli ultimi tre decenni da fenomeni quali la deregolamentazione, la
rivoluzione tecnologica e la globalizzazione della finanza, è proprio l’arrivo di
nuovi attori sulla scena del mercato ad aver rimescolato le carte in tavola e turbato
quello che era un relativo ordine costituito. Si tratta perlopiù di Paesi che, forti di
una nuova autonomia e indipendenza non solo politica, vogliono prendere parte
alla spartizione di ricchezze ed entrare nelle dinamiche di arricchimento che fino a
questo momento sono state esclusivo appannaggio del Nord del mondo. È grazie
alla loro voce che la realtà della povertà emerge e si mostra a quel 2% di
popolazione mondiale che beneficia del 50% della ricchezza totale. Nonostante sia
in costante diminuzione, il fenomeno della povertà risulta comunque allarmante:
2,8 miliardi di persone vivono con meno di 2 dollari al giorno. In un mondo come
quello odierno, caratterizzato dall’immediatezza dell’informazione e, come
conseguenza, dalla sempre più ampia presa di coscienza dell’opinione pubblica
delle dinamiche internazionali, la povertà viene a maggior ragione percepita come
intollerabile. In questa lotta per la spartizione delle ricchezze, i nuovi Paesi
emergenti (in primo luogo Brasile, Russia, India e Cina, ma a seguire anche il
Sudest asiatico e molte nazioni africane) possono peraltro far tesoro
dell’esperienza di predecessori come il Giappone e le Tigri asiatiche, la cui
integrazione negli scambi internazionali ha significato arricchimento e aumento
della potenza. Tuttavia la posta in gioco rappresentata dalle risorse è caratterizzata
da una scarsità (assoluta per alcune, relativa per altre) tale per cui gli scambi si
sono trasformati in competizione, ossia in guerra economica. In questo scenario, il
pensiero liberalista sull’indebolimento dello Stato viene necessariamente messo in
discussione in quanto i recenti cambiamenti richiedono non solo una
trasformazione del ruolo dello Stato rispetto all’economia ma anche della stessa
natura dell’organismo Stato.
Il cambiamento della natura dello Stato prende origine, innanzitutto, da una
trasformazione del concetto di potenza. Il concetto di potenza può essere
scomposto in hard power e soft power, ovvero nelle due componenti di uso della
forza e dell’influenza. In un contesto in cui gli Stati ricorrono sempre meno che in
passato alla prima componente, perché più costosa sotto molti aspetti e addirittura
meno efficace, la seconda componente prende il sopravvento e si manifesta sotto
forma di guerra economica (anche se quest’ultima, in realtà, si porrebbe piuttosto
al confine tra hard e soft power). Ecco perché per lo Stato è diventata sempre più
importante la sua situazione economica, mentre i suoi investimenti in armamenti e
dotazioni militari hanno progressivamente perso rilevanza. Le politiche di potenza
odierne avranno allora la forma di sovvenzioni alle imprese perché queste possano
godere di una posizione di favore sui mercati internazionali, del sostegno
all’occupazione affinché la delocalizzazione non penalizzi il mercato interno e della
diplomazia economica volta all’accaparramento di risorse scarse. Tradotte in
termini di guerra economica, tali politiche di potenza significano, per uno Stato,
assicurarsi l’indipendenza in termini di risorse, la capacità di difendersi di fronte
alla minaccia commerciale o finanziaria rappresentata dagli altri Stati e
un’attitudine all’intelligence, risorsa imprescindibile nell’odierna società della
comunicazione. Secondo un’altra definizione, non si tratterebbe di altro se non
della capacità di imporre la propria volontà agli altri (Stati) senza che questi
possano imporre la propria, per quanto ciò possa essere possibile in un mondo in
cui la dipendenza è sempre più dispersa e frammentata. La vera rivoluzione,
quindi, non è altro che la trasformazione della potenza politica in potenza
economica o, per meglio dire, la dipendenza della prima dalla seconda: gli Stati
cercano innanzitutto di modificare le condizioni della concorrenza e di trasformare
i rapporti di forza economici non solo per conservare posti di lavoro, ma
soprattutto assicurarsi il proprio dominio tecnologico, commerciale, economico e,
pertanto, politico.
Andando ad analizzare più nel dettaglio i singoli obiettivi della guerra
economica, almeno per quanto riguarda i Paesi occidentali, il primo risulta essere
di natura difensiva, ovvero il mantenimento dell’occupazione industriale
nonostante l’ormai avvenuta terziarizzazione di queste società. Fra il settore
secondario e quello terziario si cela infatti un forte legame, quello che Bernard
Esambert definisce come “simbiosi industria-servizi”, dal momento che l’aumento
dell’occupazione nel settore secondario si traduce in un corrispondente aumento
dell’occupazione in quello terziario e, a fronte della richiesta di una sempre
maggiore specializzazione dei lavoratori delle industrie ad alto coefficiente
tecnologico, è evidente l’incremento di servizi quali la formazione e la consulenza.
La difesa, ovvero il mantenimento dei posti di lavoro nel settore dell’industria
serve non solo a evitare la recessione economica, ma anche a contenere la
disoccupazione e la sottoccupazione, due realtà la cui forte carica di
destabilizzazione sociale rappresenta una minaccia per tutte le democrazie. A
questo proposito, a causare la perdita più considerevole di posti di lavoro non
sarebbero tanto le “delocalizzazioni” in senso stretto, quanto piuttosto le “non
localizzazioni”, ossia l’apertura da parte delle aziende di filiali all’estero piuttosto
che nel Paese in cui hanno sede e rispetto allo stesso mercato di destinazione delle
merci prodotte. Emblematica di questa centralità del mantenimento
dell’occupazione nei discorsi sulla guerra economica è la prima campagna
presidenziale di George W. Bush (ma anche di molti esponenti democratici in
quello stesso frangente), in cui l’Accordo nordamericano per il libero scambio
veniva indicato come la causa di un dissanguamento occupazionale a favore del
Messico. Altri esempi concreti in questo senso possono essere considerati
l’impegno dell’esecutivo francese per salvare lo stabilimento di Gandrange del
gruppo ArcelorMittal, nonostante il notevole sforzo economico richiesto alle casse
dello Stato in quell’occasione, o il più recente accordo con Electrolux in Italia. La
ragione che conduce a questo genere di decisioni è, ovviamente, elettorale, ma
rivela anche un altro aspetto: nessun Paese può perdere il proprio potenziale di
produzione, pena la dipendenza. Quello delle delocalizzazioni è peraltro un
discorso difficilmente accettabile agli occhi di qualsiasi elettorato e, quindi, sempre
al centro del dibattito politico, visto che le conseguenze di disoccupazione,
sottoccupazione, pressione salariale, disequilibrio della bilancia sociale e
diminuzione dei consumi farebbero crollare i presupposti su cui si reggono le
nostre società di consumo – anche se naturalmente vi è anche chi le difende, ad
esempio l’FMI, che tende piuttosto a evidenziare i vantaggi di produttività da esse
generati. La politica di potenza, dunque, si concretizza al giorno d’oggi anche in
politiche industriali volte alla conservazione di un controllo di tipo “territoriale” da
parte dello Stato.
Il secondo obiettivo della guerra economica è invece di natura offensiva ed è
la conquista di mercati, ma soprattutto di risorse limitate, la cosiddetta “corsa alle
materie prime”. Infatti, l’approvvigionamento sicuro e continuo delle materie
prime da parte degli Stati è l’unica garanzia per il mantenimento e magari per la
crescita del loro livello economico. In questa vera e propria guerra per le risorse, le
più ambite sono le fonti di energia (petrolio, gas naturale, carbone, uranio per la
produzione di energia nucleare, corsi d’acqua per la produzione di energia
idroelettrica), la cui domanda è direttamente collegata allo sviluppo economico,
nonché l’oggetto del contendere. Un certo spazio nelle dinamiche di potenza messe
in atto sui mercati finanziari è tuttavia riservato anche alle derrate alimentari quali
mais, riso, soia e grano. Quest’ultimo, in particolare, è oggetto di ogni sorta di
speculazione e di lotte, scatenando i rapporti di potenza fra coloro che lo
producono e coloro che ne hanno bisogno, determinando l’estrema attualità di
quella che è, a tutti gli effetti, un’arma (alimentare).
Fa parte ormai della percezione comune il fatto che il petrolio sia all’origine
di scontri economici molto duri, quando non di veri e propri conflitti armati.
Risorsa scarsa, da sola rappresenta oltre il 35% del consumo energetico totale,
principalmente da parte dei Paesi asiatici (30% del consumo mondiale),
nordamericani (oltre il 28%) e dell’Unione Europea (oltre il 17%). La portata della
guerra economica in corso è ben illustrata dalla doppia tensione fra Stati
produttori/Stati consumatori da un lato e, dall’altro, Stati la cui domanda si
stabilizza/Stati la cui domanda aumenta. Si tratta di una tensione che nasconde
peraltro la prospettiva futura di conflitti anche armati (si pensi ai precedenti delle
due guerre del Golfo). La lotta feroce che contrappone Stati Uniti e Cina per il
petrolio africano, ma anche per altre risorse del sottosuolo (vari metalli rari e
pietre preziose), è un altro esempio di questa guerra economica. La Cina ha iniziato
a investire nell’Africa subsahariana solo dalla fine della Guerra Fredda ma ne è
ormai diventata il terzo partner commerciale dietro a Stati Uniti e Francia, anche
se non sempre percepita positivamente dai governi locali a causa del suo
atteggiamento predatore, al pari delle ex potenze coloniali e dell’Occidente più in
generale. Il gigante cinese rappresenta bene l’inversione dei rapporti di forza in
atto tra Paesi occidentali e Paesi emergenti, BRIC in testa. Tali Stati, un tempo
esclusivamente produttori e fornitori delle materie prime necessarie al Nord
industrializzato, stanno ora risalendo la gerarchia mondiale grazie a un aumento
del controllo anche interno della propria produzione.
È evidente che questo risveglio del Sud del mondo rovescia completamente
gli equilibri globali, anche perché si concretizza nel controllo non solo delle risorse
naturali, ma anche di intere società un tempo esclusivamente occidentali e oggi
pervase in maniera sempre più massiccia da capitali di provenienza soprattutto
araba e asiatica. I fondi sovrani la fanno da padrone in questo ambito, soprattutto
quelli cinese e quelli di Singapore i quali, avvantaggiati dalla crisi economica che ha
colpito le mature economie europee e statunitense, detengono quote significative
di importantissime imprese fra cui, ad esempio, Morgan Stanley e Merrill Lynch.
Questi esempi dimostrano come non solo il debito pubblico dei Paesi capitalisti è
oggi nelle mani dei cosiddetti Paesi emergenti, ma ormai anche una parte dello
stesso prodotto interno lordo, attraverso il controllo dei capitali delle imprese o,
come nel caso dell’Arabia Saudita, attraverso la creazione di ricchezze permessa
dall’uso del petrolio arabo. Come è logico dedurre, il vantaggio strategico che ne
deriva per questi Paesi è considerevole.
Infine, c’è un’altra risorsa cruciale il cui controllo risulta determinante in un
contesto di guerra economica: la conoscenza del livello tecnologico, del mercato di
riferimento, di partner e concorrenti, in poche parole della strategia economica di
imprese e Stati “nemici”, ossia dell’intelligence. Si tratta di una risorsa
relativamente nuova, resa però fondamentale dallo sviluppo tecnologico degli
ultimi decenni, al pari dei capitali finanziari necessari all’avvio e al mantenimento
delle imprese, delle materie prime per la produzione e delle risorse umane
impiegate. I programmi di intelligence economica gestiti e coordinati dallo Stato
sono perciò diventati indispensabili per non subire ritardi inammissibili in un
quadro concorrenziale sempre più competitivo e duro.
La terza rivoluzione che ha portato all’attuale contesto di guerra economica
in cui gli Stati in costante competizione fra loro mirano ad accaparrarsi risorse di
ogni genere (non solo materie prime, dunque) è di tipo teorico, per non dire
ideologico. È possibile parlare, infatti, di un ritorno al mercantilismo, ovviamente
con sembianze moderne, nella misura in cui la potenza si esprime principalmente
sotto forma di esportazioni. Nelle parole di Bernard Esambert, “esportare è
l’obiettivo della guerra economica e della sua componente industriale” perché
“significa occupazione, stimolo, crescita. La posta in gioco è conquistare la maggior
parte possibile [dei mercati mondiali]”. Non è difficile riconoscere la stretta
correlazione esistente fra volume delle esportazioni e potenza economica nella
classifica dei principali Paesi esportatori, che vede sul podio la Germania (che da
sola detiene il 9,5% delle esportazioni mondiali) seguita da Cina e Stati Uniti, oltre
alle principali potenze del G7 (Giappone, Francia, Italia, Regno Unito e Canada) e ad
alcuni Paesi emergenti (Corea del Sud, Russia, Hong Kong e Singapore) fra le prime
quindici posizioni. Anche fra i principali Paesi importatori, d’altra parte, ritroviamo
le massime potenze economiche mondiali come Stati Uniti, Germania, Cina,
Giappone, Regno Unito, Francia, Italia, Canada, Spagna, Hong Kong, Corea del Sud e
Singapore, segno dunque del ruolo fondamentale che, più in generale, rivestono gli
scambi ai fini delle considerazioni sulla potenza economica.
È dunque un nuovo trionfo degli Stati sovrani come protagonisti delle
relazioni internazionali quello evidenziato da questa tendenza neo-mercantilista,
che di fatto scredita in parte le tesi del loro indebolimento progressivo e inevitabile
in epoca di globalizzazione. Il politologo Edward N. Luttwak esprime bene questa
concezione quando afferma che nell’arena degli scambi mondiali dove si vedono
americani, europei, giapponesi e altre nazioni sviluppate cooperare e rivaleggiare
allo stesso tempo, le regole nel complesso sono cambiate. Quale che sia la natura o
la giustificazione delle identità nazionali, la politica internazionale rimane
dominata dagli Stati (o da associazioni di Stati come la Comunità Europea), i quali
si basano sul principio del “noi” in opposizione all’ampio insieme formato dagli
“altri”. Gli Stati sono delle entità territoriali delimitate e protette da confini
gelosamente rivendicati e spesso ancora sorvegliati. Anche se non pensano a
rivaleggiare militarmente, anche se cooperano quotidianamente in decine di
organizzazioni internazionali o di tutt’altro tipo, gli Stati restano
fondamentalmente antagonisti.
La fine della Guerra Fredda, come già evidenziato precedentemente, è lo
snodo cruciale che ha rimesso al centro delle relazioni internazionali i singoli Stati,
anche se gli anni Novanta, con l’apparente trionfo del multilateralismo,
sembravano affermare il contrario. Infatti, proprio nel momento in cui, da un lato,
si dava impulso alla creazione di un’Organizzazione Mondiale del Commercio
orientata al libero scambio e garante di rapporti equi e paritari fra Stati in ambito
commerciale, dall’altro lato, risultavano indeboliti, o addirittura svuotati di
significato, i legami di solidarietà che univano i membri del blocco occidentale, che
da alleati diventavano così concorrenti. Questa lettura viene interpretata da alcuni
critici della nozione di “guerra economica” come il risultato della mancanza
generale di cultura economica nella società, tale da favorire l’individuazione di
nemici e colpevoli esterni per le oscillazioni più o meno brusche dell’economia
interna. In realtà, questa visione dipende piuttosto da un rinnovato impulso della
volontà di potenza degli Stati: è una pura espressione irrazionale e non coincide
esattamente con l’interesse generale.
Il cambiamento interpretativo emerso in concomitanza con questa
congiuntura storica è fortemente legato alla pubblicazione di alcune opere
(tuttavia non disponibili in traduzione italiana) da parte di economisti e analisti
politici particolarmente influenti, prima fra tutte Head to Head: The Coming Battle
among America, Japan and Europe (1992) del recentemente scomparso Lester
Thurow, stimato studioso delle conseguenze della globalizzazione, il quale ha
ricevuto fin dagli anni Sessanta la considerazione del governo statunitense. Del
Segretario del Lavoro degli Stati Uniti durante la presidenza di Bill Clinton, Robert
Reich, è invece The Work of Nations (1993), opera di analisi della concorrenza fra
le nazioni, e dello stesso tenore è fin dal titolo A Cold Peace: America, Japan,
Germany and the Struggle for the Supremacy (1992) di Jeffrey Garten, anch’egli
divenuto membro della prima amministrazione Clinton come Sottosegretario di
Stato per il Commercio Estero. Tutti questi lavori, scritti da uomini di Stato e
decisori politici che hanno imposto, fra gli altri, la “diplomazia degli affari” dell’era
Clinton, hanno contribuito a plasmare l’odierna accezione di guerra economica
grazie alle loro descrizioni dell’economia mondiale in termini di scontri fra Stati.
D’altra parte, per quest’ultimi si trattava di una esigenza particolarmente
pressante: l’unico modo di riaffermare la loro supremazia soprattutto nei confronti
delle multinazionali, che sembravano essere le uniche padrone e detentrici del
controllo dell’economia mondiale. È ancora una volta Luttwak a suggerire
un’interpretazione di quest’improvvisa conversione delle élite al dogma della
guerra economica, suggerendo ai burocrati europei e giapponesi, come a quelli
americani, l’idea che la geo-economia sia l’unico sostituto possibile dei ruoli
diplomatici e militari del passato: infatti, sarebbe solo invocando gli imperativi
geo-economici che le amministrazioni statali possono rivendicare la loro autorità
sui semplici uomini d’affari e sui loro concittadini in generale

 

LA GUERRA DEL CABLAGGIO, di Pierluigi Fagan

Nella storia culturale, come in quella personale, a volte c’è chi nota come dopo che si è formata una semplice idea -chiara e distinta” (avrebbe detto Cartesio)- è incredibile pensare al perché non ci avevamo pensato prima. Cos’è che ci impedisce di pensare ad una idea e cos’è che ad un certo punto ce lo permette magari dopo molto rovello? Per rispondere dobbiamo scendere in sala macchine.

Sala macchina qui è metafora, si poteva anche dire sottoterra dove ci sono le radici o altro esempio in cui un effetto viene da una causa. La sala macchine della mente è il cervello. Nel cervello ci sono solo cellule nervose (tutte uguali per funzionamento, non per forma e funzione) e loro filamenti con cui le cellule di connettono. Queste connessioni sono di due tipi: a breve raggio e si chiamano dendriti (diverse migliaia per cellula) ed a lungo raggio (solo una per cellula e si chiama assone). Nei dendriti viaggiano sostanze chimiche, negli assoni impulsi elettrici. La cosa sorprendente del cablaggio generale è che, contrariamente a quanto ci venga immediatamente da pensare, tali connessioni non sono di contatto. I dendriti non si allacciano ad altri dendriti ma arrivano a sfiorarsi come nell’attimo prima del bacio. In quel momento, dalla boccuccia di un dendrite escono delle sostanze chimiche che la boccuccia del dendrite dell’altra cellula risucchia. La questione si basa sull’imprecisione perché solo l’imprecisione è adattativa, è predisposta al cambiamento. Il genio è uno che cabla a modo suo, se è funzionale è riconosciuto tale se è disfunzionale lo diciamo affetto da qualche patologia psichica.Così funziona il cervello (be’ poi c’è anche dell’altro ma insomma, questa è la prima cosa di cui tener conto, ai nostri fini).

Un’idea quindi è il funzionamento sincronico di un grumo di cellule nervose attivato da una rete di connessioni tra loro. Prima di pensare quell’idea il sistema del grumo di cellule non è cablato completamente o per niente, dopo si e lì c’è l’eureka! Una singola idea poi può stare in un sistema di idee ed il sistema di idee è quello che a volte permette o a volte impedisce di pensare quella idea. E’ una faccenda fisica, alla base. Ci mettiamo parecchio tempo a capire una idea o a farsela venire o a trarne conseguenze perché ci mettiamo parecchio tempo a cablare tra loro alcune cellule.

Michel de Montaigne, pensatore nel XVI secolo, filosofo guida di un altro filosofo Edgar Morin, diceva che: è meglio una testa ben fatta che una testa ben piena. Qui siamo nel campo dei sistemi di idee ma i sistemi in fondo sono fatti di idee e connessioni tra loro quindi il principio è attinente anche al nostro discorso. L’eureka! quella improvvisa gioia del pensiero che sopravviene ad un certo punto, sembra essere come una abbondante eiaculazione sincronica di cellule interconesse che finalmente hanno trovato il loro sistema di funzionare assieme. E’ per questa ragione fisica che ci mettiamo tanto ad apprendere, a pensare, a chiarirci le idee per formularle con chiarezza. Ad esempio come quando un pensatore pensa e ripensa a lungo lo stesso concetto (magari per anni) e solo dopo molto armeggiare, trasforma l’iniziale intuizione circondata di confusione, in una frase distinta e ben collocata in un sistema di idee/discorso. E’ per questo che a volte si dice che un pensatore -in fondo- scrive e riscrive sempre lo stesso libro. E’ una pura faccenda di cablaggio (a livello di sala macchine) che fa sì di aver trovato la forma più semplice e pulita per esprimere l’idea. Un primo livello per pensarla, una secondo per comunicarla.

Poi da lì iniziano fasi successive del lavoro cognitivo: collocarla dentro altri sistemi di idee, trarne deduzioni-induzioni-abduzioni, renderla non contraddittoria con altre o col sistema di idee (o dei valori o di altri giudizi), etc. Lavoro e tempo per espletarlo, sembra esser questa la regola per pensare, almeno la prima, la pre-condizione di possibilità di tutti i successivi passi. Chiedete ad una giovane mamma del disagio psichico provato per via del fatto che tutto il giorno, tutti i giorni dei primi anni di un figlio da poco partorito, il cervello è costantemente impegnato sul suo fuori e non ha tempo per il suo dentro. Provate a non dormire ovvero permettere la pulizia delle tante connessioni inutili che si sono formate durante il giorno. Provate ad aver idee chiare e distinte alle 7.00 di mattina e poi provate alle 23.00.

La questione mi veniva in mente prendendo il caffè con la mia signora stamane. “Learning activism” diceva lei potenziata dalla facilità con cui i madre lingua inglese giungono felicemente e sintesi, a volte anche troppo facilmente (ogni facoltà ha il suo rovescio della medaglia ed ogni lingua ha le sue facoltà). Effettivamente, pensando alle tante cose del nostro mondo che non vanno come ci piacerebbe andassero e di contro, alla nostra triste condizione di atomi sociali (ma la metafora qui è sbagliata poiché gli atomi, come le cellule, sono tutti ontologicamente predisposti alla reciproca interrelazione secondo regole ma anche secondo possibilità) o meglio -monadi sociali- (le monadi sono atomi a cui sono state potate le connessioni ed in natura non esistono), registriamo la difficoltà al fare qualcosa di politico che abbia effetto sul reale e concreto.

Ma qualcosa possiamo ancora fare. Il “learning activist” (che non è l’info-activist) per esempio. Molti di noi, espletano la funzione attiva a modo loro, scrivendo, commentando, facendo replay di cose scritte o dette da altri. Anche nel reale, il “fare politica” ebbe il suo tempo per modellarsi. Sindacati, partiti, movimenti non si formarono facilmente nella storia, letti “dopo” ci sembrano fatti naturali ma anche lì, ci furono molti tentativi ed errori prima di giungere a “modi effettivi condivisi ed efficaci”. I comunisti vennero dai socialisti ed i socialisti assieme ai democratici venivano dalle sette “carbonare” prima di salire sulle piazze. Manifesti, comizi, dibattiti, manifestazioni, scioperi, agitazione sociale, furono il risultato di questi tentativi ed errori. Ogni azione ha i suoi fini e dai fini trae le regole per esser espletata al meglio.

Quindi anche per il “learning activist”, si tratta di riflettere meglio (con tempo e lavoro per espletarlo, da solo ma anche in compagnia) sul come render più efficace l’azione. L’azione di condividere idee ma anche aiutare la formazione di idee, la sostituzione di idee sbagliate o fuorvianti, la messa a sistema di idee isolate, la convergenza di idee e sistemi di idee con altri, la comunicazione di idee, la formazione e modellamento dell’intelligenza collettiva.

Forse è questo un mondo, un modo, che dovremmo esplorare meglio. C’è grande impegno da parte dei soliti noti per non darci tempo e modo di pensare, per farci pensare in un certo modo. C’è una vera e propria centrale di produzione di concetti che poi ordinano il dibattito pubblico con molti di noi che gli va anche appresso pensando di doverli criticare, ma anche solo accettare un concetto per poi criticarlo è dargli legittimità di idea, idea che poi condiziona sistemi di idee. Spesso, per pura eterogenesi dei fini, è perdere la partita prima di scendere in campo a giocarla, è aprire i portoni di Troja per far entrare il cavallo. La “società dell’informazione” provoca apposta overdosi informative per non farci trasformare l’informazione in conoscenza. Ci riempie la testa apposta perché questa non sia ben fatta.

C’è da farci una riflessione sul come possiamo esser “learning activist” più efficaci. Per cambiare lo stato di cose, tocca cambiare le menti, aiutare i cervelli a muovere dendriti e sinapsi, le nostre e di chi ci sta accanto, off line ed on line. C’è da esplorare un modo per poterlo fare di più e meglio, ognuno per come può, assieme per provare a cambiare qualcosa. C’è da combattere meglio la guerra per il cablaggio.

tratto da https://www.facebook.com/pierluigi.fagan/posts/10219250709514118

interrogativi ragionevoli, di Giuseppe Masala

Qui sotto alcune considerazioni a proposito delle recenti iniezioni di liquidità della Federal Reserve. La FD ha deciso di sostenere Deutsche Bank, in grandissima difficoltà. Non sarà probabilmente l’unico intervento di soccorso. Un crollo di DB destabilizzerebbe tutto il sistema finanziario e la direzione dei flussi verso gli Stati Uniti. Vedremo come Angela Merkel dovrà ricambiare la cortesia, sempre che vada a finire bene_Giuseppe Germinario

Intanto la Federal Reserve di New York ai 60 miliardi mensili di Quantitative Easing e alle operazioni pronti contro termine a 24 ore da 120 miliardi e a quella da 35 miliardi a 14 giorni ne ha aggiunte due a 42 giorni da 40 miliardi complessivi e un’altra da 15 miliardi a 25 giorni. Ormai stanno allagando tutta la curva dei tassi sull’interbancario…una vera alluvione di liquidità. Il dato interessante è che apertis verbis hanno scritto che non diranno per almeno i prossimi due anni quale (o quali) banche stanno chiedendo soldi perchè evidentemente nei guai fino al collo e nessuna altra banca gli presta un dollaro.

Ora che Deutsche Bank è in fallimento la Merkel accelera per l'”Unione Bancaria”: Conte non ceda al ricatto

 Ora che Deutsche Bank è in fallimento la Merkel accelera per l'Unione Bancaria: Conte non ceda al ricatto
“Le perdite tedesche sono perdite europee e tutta l’Europa deve contribuire. Le perdite degli altri stati, specialmente quelli mediterranei sono perdite dei singoli stati”

di Giuseppe Masala 

https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-ora_che_deutsche_bank__in_fallimento_la_merkel_accelera_per_lunione_bancaria_conte_non_ceda_al_ricatto/29296_31659/?fbclid=IwAR1SV4HesrOrBPgXa5OYtGhv1Tp7g49JDMFLDbjL5IixZCcb_LmHReuk0eUNarrano le cronache che il focus della cena di lavoro tra il PdC Giuseppe Conte e la Cancelliere tedesca Angela Merkel sia stato il completamento della cosiddetta “unione bancaria” con l’introduzione di un’assicurazione europea per le banche che eventualmente andranno in default trascinando con sé i risparmi dei loro clienti. Non esattamente a caso questa preoccupazione alla signora Merkel viene ora che sono a grande rischio le banche tedesche a partire da Deutsche Bank e di Commerzbank. Ricordo inoltre che quando saltarono dopo la cura Monti ben sette banche italiane a Berlino dissero che non ci pensavano proprio a pagare per gli italiani e quindi che l’Unione Bancaria non sarebbe stata mai completata con un’assicurazione sui c/c delle banche sottoposte a bail-out. Hanno cambiato idea, quando gli conviene.

Insomma, vogliono ripetere l’operazione già fatta ai tempi della crisi greca con la costituzione del Meccanismo Europeo di Stabilità che fu finanziato in proporzione al pil dei singoli stati e non in base all’esposizione verso la Grecia insolvente del sistema bancario dei singoli stati. E fu così che l’Italia a fronte di un esposizione di appena quattro miliardi nei confronti della Grecia fu costretta a pagare ben 50 miliardi calcolati in proporzione al peso del pil italiano su quello europeo.

In buona sostanza abbiamo speso una cifra immensa per salvare le banche tedesche e francesi che erano esposte per cifre astronomiche. Ora ci risiamo, e del resto se il colpo è venuto bene una volta, giustamente la furba signora Merkel ci riprova con i fessi di turno (sempre gli stessi, noi).

La regola in sostanza secondo la Signora Merkel sarebbe questa: “Le perdite tedesche sono perdite europee e tutta l’Europa deve contribuire. Le perdite degli altri stati, specialmente quelli mediterranei sono perdite dei singoli stati ed ognuno s’arrangi.”. In altri termini ciò che è mio è mio, ma ciò che è tuo è comunque mio. Questo dicono i tedeschi.

Ora, è molto probabile che i tedeschi lancino una bella esca come per esempio fondi europei o una collaborazione italo-tedesca sulla siderurgia per risolvere la crisi di Taranto. In cambio chiederanno “una firmetta” italiana sull’assicurazione europea sui depositi. Insomma, magari ci daranno un miliardo sulla siderurgia per chiedercene una cinquantina tra un anno per salvare i c/c dei ricchi bottegai tedeschi. Un vero e proprio capestro. L’ennesimo.

ILVA, il suo percorso è la metafora del futuro di una nazione_con Augusto Sinagra

tra quelli che ci fanno

L’affare ILVA si sta rivelando la metafora del destino che l’Italia sta inseguendo nella sua frenesia autodistruttiva.

babbei al governo

Dal ruolo improprio, l’ennesimo, della magistratura alla contrapposizione paralizzante e arcadica tra difesa ambientale e salvaguardia del patrimonio industriale, specie di quello strategico di base, alla insipienza ed arrendevolezza di un ceto politico complice, ormai non solo oggettivamente. Una classe dirigente che non sa offrire un futuro, che non sa pensare all’interesse nazionale, che non sa far altro che nascondersi tra le pieghe sempre più asfittiche lasciate dagli attori geopolitici più intraprendenti. Ha dimostrato di non aver cura nemmeno delle condizioni minime di sopravvivenza del proprio apparato industriale; ha abdicato da ogni iniziativa politica lasciando sempre più spazio all’azione impropria di apparati preposti a sanzionare il mancato rispetto della legge; si sta facendo soverchiare da una multinazionale francoindiana complice dei propositi di desertificazione del paese ad opera dei “fratelli maggiori europei”. Un ceto politico inetto, scarsamente rappresentativo di interessi forti nel paese, ormai avviluppato in un conflitto tra bande. Potrebbe essere la grande occasione per un ceto politico alternativo di presentarsi come i difensori e gli assertori di una diversa prospettiva nazionale. E invece anche l’opposizione, compreso Salvini, sta rivelando limiti ed incomprensioni drammatici, per non dire di peggio. Di fronte a insolenti colpi di mano di Arcelor Mittal tesi a chiudere e danneggiare gli altiforni e alla reazione governativa meramente legalitaria, praticamente una manfrina, inadeguata rispetto all’urgenza drammatica della situazione, si chiosa bellamente sulla modalità di trattare con la multinazionale, sulle buone maniere piuttosto che spingere verso atti di imperio e straordinari che impediscano il vero e proprio sabotaggio in corso. La crisi ILVA è solo la punta di un iceberg che sta minacciando l’esistenza stessa di un apparato industriale appena degno di questo nome. Colpisce l’afasicità delle reazioni, compresa quella degli interessati diretti, gli operai. Non si può nemmeno più parlare della bollitura a fuoco lento di una rana. Qualche segnale di allarme, anche se tardivo, comincia a pervenire dagli ambienti imprenditoriali. E’ l’unico barlume di speranza rimasto. Si vedrà se il ricorso giudiziario, quel che pare una recita a contratto, si trasformerà in una reazione più risoluta. In controcanto ci sta pensando il Ministro della Difesa Lorenzo Guerini a rivelarci convinto l’ultimo tassello della congiunzione astrale, assieme all’ambientalismo d’accatto e decrescista e ai propositi della Unione Europea a trazione franco-tedesca, che vorrebbe il funerale dell’ILVA e del paese: preoccupato del futuro dei quindicimila prossimi disoccupati, ha annunciato l’estensione dell’arsenale militare nel’area Italsider e la prossima assunzione di mille unità.

il complice

Vedremo! Buon ascolto_Giuseppe Germinario

LA TEORIA DELLE CATASTROFI, di Piero Visani

Lo storico Mario Silvestri – molto bravo anche se inviso all’accademia – era solito parlare de “l’Italia caporetta”, quel “fil rouge” che percorre tutta la nostra storia nazionale e ci porta da un disastro militare a un collasso politico, da una catastrofe naturale a un crollo di un’opera di ingegneria civile.
Silenzio assoluto su questi temi; al massimo qualche scrollata di capo e mai, dicasi mai, l’orgia di vieto moralismo che si fa, ad esempio, sul tema dell’evasione fiscale. Silenzio imbarazzato e/o complice, semmai, sui molti, enormi latrocini che vengono perpetrati utilizzando soldi pubblici.
Del ponte Morandi non è colpevole nessuno, salvo i 43 disgraziati che hanno avuto “la colpa” di passare di lì nel momento sbagliato. Dell’acqua alta a Venezia ha colpa il riscaldamento globale, non chi se ne è fregato di portare a termine il MOSE e si è preoccupato solo di portare via la cassa.
Ora non bisogna dividersi, nel senso che quelli che hanno rubato si terranno il malloppo e noi – ovviamente – i negozi e le case piene d’acqua, oppure continueremo a pagare le autostrade più care del mondo per riuscire a trovare la liberazione della morte (perché questa è la morte, in Italia, una liberazione) su qualche ponte mal manutenuto.
Un popolo estenuato ed esasperato, legittimamente privo di speranze, osserva tutto questo con scetticismo totale, sapendo che, se non si salverà da solo, non lo salverà nessuno. Reso scettico e cinico da una valanga di parole inutili e dalla mancanza ASSOLUTA di qualche fatto concreto.
Pian piano, ci avviciniamo “alla fine del libro che parlava di noi”, ridotti a farsesca espressione geografica, dove l’unica presenza statale che si percepisce è nell’applicazione di tasse e balzelli.
Siamo al “de profundis” e, per nostra fortuna, non ce n’è più spazio per molti altri. L’agonia si avvicina a grandi passi al termine. Si discuterà, si faranno assurde logomachie, non si farà lo straccio di un intervento concreto e, nel caso limite che venisse iniziato, non sarà MAI finito. Poi la catastrofe successiva andrà ad aggiungersi a quella precedente, in una sequenza interminabile e quasi soddisfatta di sé, a ben guardare.
Se dovessimo finire come Paese e come popolo, come auspico da tempo, potremo dire non solo – andreottianamente – che “ce la siamo cercata”, ma pure che ce la siamo meritata.
Un Paese dove pochi eroi masochisti riescono ad arrivare in orario, quale che sia il lavoro che svolgono, compirà il più straordinario dei miracoli: arriverà puntuale e in orario al suo tragico appuntamento con la fine della Storia. Non penso proprio che piangerò. Mi sono dimesso da italiano da oltre un decennio.

Del ponte Morandi non è colpevole nessuno, salvo i 43 disgraziati che hanno avuto “la colpa” di passare di lì nel momento sbagliato. Dell’acqua alta a Venezia ha colpa il riscaldamento globale, non chi se ne è fregato di portare a termine il MOSE e si è preoccupato solo di portare via la cassa.
Ora non bisogna dividersi, nel senso che quelli che hanno rubato si terranno il malloppo e noi – ovviamente – i negozi e le case piene d’acqua, oppure continueremo a pagare le autostrade più care del mondo per riuscire a trovare la liberazione della morte (perché questa è la morte, in Italia, una liberazione) su qualche ponte mal manutenuto.
Un popolo estenuato ed esasperato, legittimamente privo di speranze, osserva tutto questo con scetticismo totale, sapendo che, se non si salverà da solo, non lo salverà nessuno. Reso scettico e cinico da una valanga di parole inutili e dalla mancanza ASSOLUTA di qualche fatto concreto…

Sahel! Che fare ora?, di Bernard Lugan

Riflessioni da un punto di vista transalpino_Giuseppe Germinario

Nel Sahel, nella stessa settimana, un soldato francese è stato ucciso, gli eserciti del Mali e del Burkina Faso hanno subito diverse gravi sconfitte, perdendo più di cento morti, mentre cinquanta lavoratori civili impiegati in una miniera canadese massacrato in Burkina Faso, un paese in via di disintegrazione. Anche se la Francia annuncia di aver ucciso un importante leader jihadista, la situazione sfugge a poco a poco a qualsiasi controllo.

La realtà è che gli stati africani in fallimento non sono in grado di difendersi, il G5 Sahel è un guscio vuoto e le forze internazionali schierate in Mali usando la maggior parte delle loro risorse per l’autoprotezione, sul campo, fanno tutti affidamento i 4500 uomini della forza Barkhane.

oro:
1) Abbiamo interessi vitali nella regione che giustificano il nostro coinvolgimento militare? La risposta è no
2) Come condurre una vera guerra quando, per ideologia, ci rifiutiamo di nominare il nemico? Come combattere quest’ultimo, allora, facciamo come se fosse nato dal nulla, non appartenesse a gruppi etnici, tribù e clan ma perfettamente identificati dai nostri servizi?
3) Quali sono gli obiettivi del nostro intervento? Il minimo che possiamo dire è che sono “fumosi”: combattere il terrorismo attraverso lo sviluppo, la democrazia e il buon governo, mentre ostinatamente, sempre ideologicamente, minano o talvolta rifiutano prendere in considerazione la storia regionale e il determinante etnico che costituisce comunque le sue basi?
4) Gli stati africani coinvolti hanno gli stessi obiettivi della Francia? È lecito dubitare …

Il fallimento è quindi inevitabile? Sì, se non cambiamo rapidamente il paradigma. Soprattutto perché l’obiettivo primario del nemico è quello di causarci perdite che saranno sentite insopportabili dal pubblico francese.
In queste condizioni, come evitare l’imminente disastro?

Sono possibili tre opzioni:
– Invia almeno 50.000 uomini sul campo per incrociare e pacificare. Questo è ovviamente del tutto irrealistico perché i nostri mezzi lo vietano e perché non siamo più nell’era coloniale.
– Piega la nostra forza. Barkhane è in una situazione di stallo con possibilità di manovra sempre più ridotte, soprattutto a causa della proliferazione di mine poste sugli assi di comunicazione richiesti. Ma anche perché ora dedica una parte sempre più importante dei suoi mezzi alla sua autoprotezione.
– Infine, dai a Barkhane i mezzi “dottrinali” per condurre efficacemente la controinsurrezione. E sappiamo come farlo, ma a condizione di non metterci più in imbarazzo con considerazioni “morali” e ideologiche paralizzanti.

Questa terza opzione si baserebbe su tre pilastri:

1) Tenendo conto della realtà che la conflittualità sahelo-sahariana fa parte di un continuum storico millenario e che, come mostro nel mio libro Le guerre del Sahel dalle origini ai giorni nostri, non possiamo ambire con 4500 uomini a dirimere le questioni regionali iscritte nella notte dei tempi.

2) Dare priorità al focolaio principale del fuoco, vale a dire la questione tuareg che, nel 2011, era all’origine dell’attuale guerra. Infatti, se riusciamo a risolvere questo problema, asciugiamo i fronti di Macina, Soum e Liptako tagliandoli dai settori sahariani. Ma per questo, sarà indispensabile “torcere il braccio” alle autorità di Bamako dando loro un mercato in mano: o fai delle concessioni politiche e costituzionali reali al tuareg che si farà la polizia nella loro zona, oppure noi andiamo e lasciati coccolare per te stesso. Per non parlare del fatto che diventa insopportabile notare che il governo maliano tollera le manifestazioni che denunciano Barkhane come forza coloniale quando, senza l’intervento francese, il tuareg prese Bamako …

3) Quindi, una volta estinto il focolaio settentrionale e i Tuareg diventeranno garanti della sicurezza locale, sarà quindi possibile affrontare seriamente i conflitti nel sud non esitando a designare coloro che sostengono il GAT (gruppi armati terroristici) e armare e inquadrare coloro che sono ostili nei loro confronti. In altre parole, dovremo operare come gli inglesi hanno fatto in modo così efficace con il Mau-Mau del Kenya quando hanno lanciato contro il Kikuyu, matrice etnica del Mau-Mau, le tribù ostili a queste. Certamente, gli eterici sostenitori dei “diritti umani” urleranno, ma se vogliamo vincere la guerra e prima evitare di dover piangere i morti, dovremo attraversarla. Quindi, tieni presente che, come ha detto Kipling, “il lupo dell’Afghanistan sta cacciando con il levriero afgano”. Non sarà quindi più necessario denunciare le frazioni Fulani e quelle dei loro ex tributari che costituiscono il vivaio di jihadisti. Ma, allo stesso tempo, e ancora una volta, sarà necessario imporre ai governi interessati di proporre una soluzione di uscita ai Fulani.
Sarà quindi possibile isolare i pochi clan che danno combattenti al “GAT”, che impedirà il contraccolpo regionale. Il jihadismo, che afferma di voler andare oltre l’etnia fondandola in un califfato universale, sarà quindi intrappolato in scontri etno-centrici e potrà quindi essere ridotto ed eradicato. Rimarrà la questione demografica e quella delle elezioni etno-matematiche che ovviamente non possono essere risolte da Barkhane.
Collocate alla confluenza tra islamismo, contrabbando, rivalità etniche e lotte per il controllo di territori o risorse, le nostre forze colpiscono regolarmente le dinamiche locali e costanti. Tuttavia, il percorso della vittoria passa prendendo in considerazione e usando questi ultimi. Ma è ancora necessario conoscerli …

Bernard Lugan
2019/07/11

LA LOTTA CONTRO L’EVASIONE FISCALE, di Piero Visani

LA LOTTA CONTRO L’EVASIONE FISCALE

Dai telegiornali di stasera, si apprende che, tra i più significativi titolari di conti “off-shore” alle Isole Cayman, vi sono la Regina Elisabetta II d’Inghilterra, la regina Rania di Giordania, George Soros, e illustri rappresentanti della lotta per la riduzione delle disuguaglianze e l’incremento del “buonismo” nel mondo come Bono Vox degli U2, Madonna e altri.
Nella mia ingenuità, pensavo che tra questi “evasori” vi fossero soprattutto operai della FCA, titolari di piccole e medie imprese vessati da un fisco di rapina, pensionati e chissà chi altri. Del resto è semplice, specie se si è a basso o bassissimo reddito (o anche a medio): uno dice in famiglia che deve fare un piccolo prelievo e il giorno dopo è alle Cayman, poi rientra rapidamente, ovviamente con non più di diecimila euro…
Ogni volta che incappo in qualche coglione (perdonate il francesismo, ma talvolta è necessario) che mi parla di lotta all’evasione, amerei farlo riflettere su questi piccoli particolari, ma – lo so – è del tutto inutile. E’ come chiedergli che se la prenda con quei banchieri che hanno rovinato centinaia di risparmiatori che si erano fidati di loro.
Ecco, fiducia è la parola chiave: non fidatevi mai dei moralisti, da qualunque parte provengano. Lasciate spazio al peccato, quello è umano, troppo umano, ma come tale funziona egregiamente…

IL POPOLO DELL’ECUADOR PROVA A DIFENDERSI DAGLI ARTIGLI DEL CONDOR, di Giuseppe Angiuli

IL POPOLO DELL’ECUADOR PROVA A DIFENDERSI DAGLI ARTIGLI DEL CONDOR

pubblicato anche su https://www.lintellettualedissidente.it/

Un’immagine delle proteste di piazza dell’ottobre 2019 nelle città dell’Ecuador

L’Ecuador è un piccolo e affascinante Paese del cono sud dell’America Latina incastonato fra la cordigliera delle Ande e la Foresta Amazzonica con un affaccio sull’Oceano Pacifico nel quale, a mille chilometri dalla costa, si bagna l’arcipelago delle Isole Galápagos, celebri per la loro ricchissima varietà fossile, ambientale e faunistica. Quanto alla sua composizione etnica, l’Ecuador si segnala per il fatto di vantare, appena dopo la Bolivia, la più grande presenza di gruppi indigeni all’interno della sua popolazione, i quali custodiscono gelosamente le proprie tradizioni e credenze, oltre ad uno stile di vita improntato alla lentezza e ad un rapporto armonioso tra gli esseri umani e la Madre Terra (pachamama nell’idioma quechua).
Per un buon decennio, a seguito dell’insediamento nel 2007 alla Presidenza del Paese di Rafael Correa Delgado, un giovane e brillante economista di idee keynesiane formatosi in Europa, l’Ecuador ha sperimentato un interessante laboratorio politico per l’attuazione di un nuovo modello di sviluppo a carattere pienamente democratico ed equo-sostenibile, così sintonizzandosi a pieno titolo col fragoroso vento rivoluzionario che per un certo periodo, a partire dall’avvento di Hugo Chavez a leader carismatico delle sinistre latino-americane, ha scombussolato gli assetti sociali e politici del subcontinente indio-latino-americano.
Senza mai sfiorare le degenerazioni dispotiche e gli eccessi di dirigismo militare che hanno purtroppo contrassegnato le vicende del cosiddetto «socialismo bolivariano» del vicino Venezuela, l’Ecuador negli anni della Presidenza di Correa è riuscito a fare coesistere i principi della democrazia liberale e rappresentativa con un ampio programma di riscatto sociale delle fasce più povere ed emarginate della popolazione, a partire da quelle indigene, a cui è stato riconosciuto un ruolo di primo piano nella costruzione di una nuova società a carattere solidale, tollerante ed inclusivo.

Il periodo di fermento politico-culturale coinciso con gli anni della Presidenza di Correa è passato alla storia col nome di Revolución Ciudadana e si è contraddistinto per un’ampia partecipazione del popolo dell’Ecuador alla riscrittura del proprio destino in quanto comunità nazionale libera e sovrana. A suggello di tale passaggio epocale per la storia del Paese, nel 2008 è stata approvata la nuova Costituzione dell’Ecuador, nel cui testo è stato scolpito a chiare lettere il principio del Buen Vivir («buon vivere»), l’ideale di vita armoniosa che meglio sintetizza la visione ideologica da cui ha tratto ispirazione il nuovo corso inaugurato negli anni di Governo di Rafael Correa. Più in particolare, per Buen Vivir deve intendersi il «vivere una vita piena e dignitosa, un’esistenza armonica che include le dimensioni cognitiva, sociale, ambientale, economica, politica, culturale, del pari interrelate e interdipendenti»1.

1 SERENA BALDIN, I diritti della natura nelle costituzioni di Ecuador e Bolivia, in Visioni LatinoAmericane, rivista del Centro Studi per l’America Latina, Numero 10, Gennaio 2014, p. 29.

Il pensiero politico di Correa e della sua squadra di Governo ha risentito di un vasto mix di influenze ideologiche a carattere sincretico, che vanno dal nazionalismo indio-latino al marxismo storico, dal populismo latino-americano alla socialdemocrazia di stampo europeo.
Tali tendenze hanno dato vita alla nascita di un movimento politico ispirato al modello organizzativo dei partiti politici tradizionali di tipo europeo, fondato sulla partecipazione attiva e diretta dei militanti. Il partito governativo fondato dallo stesso Correa nel 2006 ha assunto il nome emblematico di Alianza País – Patria Altiva y Soberana («Alleanza della Patria Orgogliosa e Sovrana») ed ha fatto proprio un esplicito richiamo al valore della sovranità politica dell’Ecuador oltre che alla necessità di promuovere l’integrazione politica su base regionale.

Se si analizza obiettivamente e complessivamente l’azione politica di Correa nel corso dei suoi tre mandati alla guida del Paese fino al 2017, appare giusto riconoscergli il merito di essersi imposto come una delle figure più credibili nell’intero panorama del socialismo latino-americano e forse mondiale, specie alla luce della sua grande capacità di sapere coniugare sapientemente idealismo e pragmatismo, senza mai scadere negli eccessi ideologici ovvero nella riproposizione di modelli politici superati accomunabili al cosiddetto «socialismo reale» novecentesco.
Una delle principali direttrici lungo le quali si è mossa l’azione dei Governi guidati da Rafael Correa è consistita nel pervicace obiettivo di sganciare il piccolo Paese sudamericano dalla influenza asfissiante del capitalismo a stelle e strisce e del Fondo Monetario Internazionale, un’influenza esercitata da lungo tempo con la storica complicità della ristretta oligarchia bianca autoctona, da sempre legata ad un modello di economia estrattivista di tipo «rentista».
Prima dell’avvento di Correa al potere, i vincoli fra l’economia dell’Ecuador e la finanza statunitense si erano fatti talmente stretti al punto da costringere il Paese andino addirittura ad adottare il dollaro USA quale sua divisa ufficiale (dando vita al processo di cosiddetta dollarizzazione dell’economia).

Sempre negli anni di Correa, il tentativo di rompere questa morsa tentacolare dei nordamericani gringos ha simbolicamente raggiunto il suo culmine con la chiusura della base militare statunitense nella città di Manta, con l’espulsione dal Paese della multinazionale petrolifera Chevron (accusata di avere inquinato l’Amazzonia) e con l’adesione dell’Ecuador agli organismi politici di integrazione continentale ALBA e UNASUR (contraddistinti da una certa egemonia politica del Venezuela chavista). Anche la controversa decisione di dare asilo politico al responsabile di Wikileaks Julian Assange, ospitato da agosto del 2012 all’interno dei locali dell’ambasciata di Quito a Londra, ha assunto il chiaro significato geopolitico di volere proclamare ai quattro venti una integrale emancipazione dell’Ecuador dal Washington Consensus.

L’ex Ministro dell’Economia e degli Esteri Ricardo Patiño Aroca in compagnia di Julian Assange

Stando alla lettura di alcuni dati statistici pacificamente ritenuti affidabili2, uno dei risultati più significativi conseguiti dal Governo correista riguarda la sensibile riduzione degli indici di povertà e di disuguaglianza registratasi nel Paese, frutto di politiche economiche che, rifiutando i paradigmi del neo-liberismo, si sono eminentemente basate sul controllo pubblico degli investimenti privati, sulla nazionalizzazione degli idrocarburi e dei servizi pubblici essenziali nonché sul controllo politico dei prezzi dei principali beni di prima necessità.
Accanto a questi risultati indubbiamente positivi, negli anni di Correa, con buona probabilità, la misura più autenticamente di rottura col vecchio ordine neo-liberista e fondo-monetarista è consistita nel ripudio di una parte significativa del debito pubblico estero accumulato

2 Cfr. l’analisi pubblicata dal CEPR (Center for Economic and Policy Research) con sede a Washington D.C. (U.S.A.), http://cepr.net/images/stories/reports/ecuador-2017-02.pdf.

dall’Ecuador nei decenni precedenti: sotto la regia del coraggioso Ministro dell’Economia Ricardo Patiño Aroca, il Governo di Quito è riuscito ad insediare una commissione istituzionale chiamata a compiere un esame rigoroso (cosiddetto audit) sulle singole partite contabili del debito pubblico estero del Paese, giungendo alla conclusione di ripudiarne quelle componenti definite ingiuste, impagabili e immorali.
Il rifiuto di onorare il pagamento di una parte consistente del proprio debito estero – con la contestuale decisione di imporre la rinegoziazione di quote altrettanto cospicue dello stesso debito detenuto dalle grandi banche d’affari statunitensi – ha dunque liberato delle inedite risorse per il Governo sudamericano, che ha deciso di re-investirle in programmi di investimenti e di sussidi alle fasce più povere della popolazione. La storica decisione attuata dall’Ecuador in tema di ripudio del debito estero costituisce un esempio quasi inedito di riappropriazione della sovranità politica ed economica che molti altri Paesi in via di sviluppo potrebbero emulare, rompendo così le catene dell’indebitamento che per lungo tempo li ha mantenuti legati alle potenze occidentali (e sempre che la Cina si dimostri effettivamente meno aggressiva delle vecchie potenze all’atto di intervenire negli stessi Paesi in via di sviluppo con i suoi copiosi investimenti finanziari).

BEIJING, CHINA – JANUARY 07: (CHINA MAINLAND OUT)Xi Jinping welcomes Ecuador president Correia at the Great Hall of the People on 07th January, 2015 in Beijing, China.(Photo by TPG/Getty Images)

Venendo ai punti deboli dell’azione di Governo di Rafael Correa, essi sono apparsi per molti versi identici a quelli che purtroppo da sempre connotano il modus operandi delle sinistre latinoamericane ogni volta che esse si appropriano delle leve di comando del potere politico: analogamente a quanto avvenuto nel Brasile di Lula e nel Venezuela chavista, anche in Ecuador gli interventi di contrasto alla povertà si sono incentrati quasi esclusivamente in misure di tipo assistenziale e in politiche di sussidio (calmiere dei prezzi) e di distribuzione a pioggia di benefits a vantaggio dei settori proletari e sotto-proletari della popolazione, senza che si sia riusciti in alcun modo ad implementare un processo di stimolo alla crescita della piccola iniziativa economica diffusa, alla trasformazione dei prodotti agricoli ed alla nascita di un sistema industriale e manifatturiero autoctono.
Dal punto di vista strategico, anche i Governi a guida di Correa si sono pertanto dimostrati incapaci – probabilmente anche per mancanza di tempo sufficiente – di sganciare l’Ecuador dallo storico modello estrattivista, che da secoli costituisce la principale palla al piede per lo sviluppo delle economie di tutti i Paesi del sud del mondo dotati di ingenti riserve di materie prime. Per quanto attiene al comparto energetico, negli anni di Correa l’unica sostanziale novità rispetto al passato è consistita nel fatto che lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi è progressivamente passato dalle multinazionali nordamericane a quelle cinesi, un po’ più generose nella misura delle royalties da riconoscere al Governo di Quito.


Nel 2017 Rafael Correa, non potendo più ricandidarsi alla guida del Paese per raggiunti limiti di mandato, ha dovuto lasciare il testimone nelle mani del suo fido collaboratore Lenin Moreno, anch’egli espressione del partito di ispirazione patriottica e socialdemocratica Alianza Paìs e già vice-Presidente dal 2007 al 2013. Non ci è voluto molto tempo per comprendere che in realtà Lenin Moreno, approfittando della benevolenza di Correa e dei consensi della base del suo partito, aveva puntato ad insediarsi alla Presidenza del Paese con delle finalità surrettizie, che hanno trovato espressione per mezzo di un suo clamoroso dietrofront trasformistico rispetto a tutti i principali capisaldi della politica (interna ed estera) già seguiti dai Governi correisti.

Con grande sorpresa dei suoi stessi seguaci, Lenin Moreno non ha perso tempo per fare capire che con il suo avvento alla Presidenza l’aria era cambiata ed ha dunque optato per la improvvida fuoriuscita dall’Ecuador da organismi continentali come ALBA e UNASUR, segnando così una clamorosa svolta in politica estera rispetto agli anni di Correa. Inoltre, l’autorizzazione alla polizia londinese a procedere al clamoroso arresto di Julian Assange nell’aprile del 2019 è forse l’episodio che ha dimostrato nel modo più eclatante la ferma volontà di Moreno di realizzare un riposizionamento di 180 gradi del suo nuovo Governo, ristabilendo i termini della storica subordinazione geopolitica di Quito a Washington.

In materia economica, il nuovo Governo a guida di Lenin Moreno ha inoltre promosso un generale riallineamento del Paese ai dettami ultra-liberisti del Fondo Monetario Internazionale. Come è sempre avvenuto in questi casi, anche per l’Ecuador l’F.M.I. e la Banca Mondiale sono tornati a proporre i famigerati «piani di aggiustamento strutturale». In cambio di copiosi prestiti travestiti da aiuti, gli organismi finanziari con sede a Washington hanno nuovamente imposto al Paese l’adozione delle consuete misure di marca neo-liberista ispirate dalla tristemente nota scuola friedmaniana dei «Chicago-boys»: apertura dei mercati, privatizzazione di materie prime, industrie e servizi, riduzione della spesa pubblica, deregolamentazione del mercato del lavoro, liberalizzazione delle tariffe, abolizione di ogni forma di calmiere sui prezzi dei beni di prima necessità.


L’ex vice-Presidente Jorge Glas, in carcere da ottobre del 2017

La nuova fase politica inaugurata dall’insediamento di Lenin Moreno al Palazzo presidenziale di Quito ha inoltre visto affermarsi nel Paese un clima di generale repressione di ogni forma di dissenso politico, accompagnata dall’avvio di una serie di clamorose inchieste della Magistratura locale che hanno assunto il chiaro sapore della vendetta politica nei confronti di chiunque fosse legato alla precedente stagione correista.
Analogamente a quanto già accaduto in Brasile con l’inchiesta che ha portato alla condanna detentiva dell’ex Presidente Lula da Silva, anche in Ecuador si è affermato un clima di giustizialismo forcaiolo che non ha risparmiato quasi nessuno dei principali esponenti politici degli anni di Governo di Rafael Correa, a partire dallo stesso ex Presidente, colpito da un mandato di cattura internazionale alla cui esecuzione lo stesso ha finora potuto fortunosamente sottrarsi soltanto grazie al fatto di risiedere in Belgio. Per Correa l’accusa della Magistratura del suo Paese è davvero grave ed infamante, essendosi ipotizzato il suo diretto coinvolgimento nel sequestro di un suo avversario politico, avvenuto nel 2012.
Il giro di vite giudiziario si è abbattuto con maggiore virulenza nei confronti di Jorge Glas, ex vice-Presidente tanto di Correa quanto di Lenin Moreno, imprigionato nell’ottobre del 2017 ed accusato di gravi fatti di corruzione in connessione alla grande e nota società brasiliana di costruzioni, la Odebrecht.
Recentemente, il succitato ex Ministro Ricardo Patiño Aroca, accusato di essere a capo di un piano sovversivo in danno del Governo nazionale, al fine di sottrarsi all’arresto ha optato per l’esilio in Messico, ove ha ben presto ottenuto il riconoscimento dello status di perseguitato politico dal Governo amico di Andrés Manuel López Obrador mentre la ex Presidentessa dell’Assemblea Nazionale, Gabriela Rivadeneira, anch’ella investita da accuse di cospirazione anti-governativa, ha dovuto rifugiarsi all’interno dell’ambasciata del Messico a Quito, chiedendo asilo politico a Città del Messico.

Gita Gopinath, attuale Capo economista del Fondo Monetario Internazionale

Nell’ottobre del 2019, a fungere da detonatore per la rivolta popolare che in pochi giorni, partita da Quito, ha infiammato le piazze e contagiato buone parti del Paese, è stata l’adozione del cosiddetto Paquetazo, una serie di misure con cui il Governo ha inteso ossequiare le indicazioni prescritte dal F.M.I. sotto la supervisione del suo capo economista, l’indiana Gita Gopinath (pupilla di Christine Lagarde). In particolare, a fare infuriare gli strati più indigenti della popolazione ecuadoriana, è stata l’approvazione del decreto presidenziale n. 883 con cui l’esecutivo di Moreno ha disposto la fine di ogni sussidio statale sul prezzo dei combustibili.
Nei giorni più caldi della rivolta, fra il 3 ed il 13 ottobre, dopo che la folla era riuscita perfino a stringere d’assedio la sede dell’Assemblea Nazionale nella capitale Quito, il Governo dell’Ecuador ha proclamato il coprifuoco nelle principali città del Paese, mentre gli scontri hanno complessivamente lasciato sul campo 8 morti e 1340 feriti, oltre ad un numero indefinito di arresti sommari per reati politici che supera senz’altro il migliaio, secondo i dati diffusi dall’organismo della Defensoría del Pueblo.
Dato il carattere intenso e prolungato delle proteste, alla fine del confronto il Governo di Lenin Moreno è stato costretto a siglare una tregua con la CONAIE (Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador), la principale organizzazione sociale che raggruppa le popolazioni indigene del Paese, rispetto a cui ha dovuto fare marcia indietro proprio sulla misura ritenuta più indigesta (lo stop ai sussidi sui carburanti), giungendo così all’abrogazione del tanto contestato decreto n. 883.

Marcia di protesta dei movimenti indigenisti dell’Ecuador

Mentre diversi esponenti conservatori, tanto a Quito quanto in altri Paesi della regione, non hanno esitato ad indicare in Nicolas Maduro e nel Governo venezuelano i presunti mandanti occulti della rivolta ecuadoriana, non è affatto semplice prevedere come evolverà adesso la situazione nel Paese andino, tenendo conto che tutto il continente latino-americano è attualmente scosso da tendenze politiche di segno manifestamente contraddittorio, specie alla luce dei recenti risultati elettorali provenienti dalla Bolivia e dall’Argentina, che sembrano avere ridato ossigeno alle sinistre populiste della regione.

Giuseppe Angiuli

il razzismo dell’antirazzismo, di Paolo Di Remigio e Giuseppe Masala

PAOLO DI REMIGIO

Interessante l’articolo di Erri De Luca «Il razzismo spiegato a Salvini». Esso dipende da un errore di base. Il signor De Luca considera il razzismo il male assoluto, non tiene conto che c’è invece di molto peggio. Peggio del razzismo è lo schiavismo. Il razzismo è considerare inferiori certi gruppi in base al loro aspetto fisico, lo schiavismo è considerare un uomo cosa. Mentre superiorità e inferiorità sono relazioni quantitative e non escludono quindi che agli inferiori siano riconosciuti diritti, allo schiavo non è riconosciuto alcun diritto: può essere sfruttato, stuprato, torturato, ucciso. Schiavismo e razzismo non sono affatto la stessa cosa: nel mondo antico si poteva diventare schiavi in quanto prigionieri di guerra o rapiti, poteva cioè capitare a chiunque, anche ai re (un celebre esempio: Platone fu fatto schiavo nell’isola di Egina e si salvò da un destino terribile solo perché Anniceride, un suo ammiratore di Cirene che per caso lo aveva trovato esposto in vendita al mercato, lo comprò e lo liberò). Nel mondo moderno, invece, il razzismo si accompagna al colonialismo; in particolare nel nazismo i due atteggiamenti coincidono.
Che razzismo e schiavismo coincidano è una possibilità, non una necessità. Occorre dunque stare molto attenti al pericolo che, finita l’epoca coloniale, lo schiavismo possa aver assunto una forma non razzista e che nel giusto fervore antirazzista non si insinui un’apologia dello schiavismo. Erri De Luca mi sembra per lo meno imprudente su questo punto. Scrive infatti: «In economia la rinuncia all’impiego di manodopera immigrata a basso costo è atto di autolesionismo», senza porsi il problema se lavorare per tre euro l’ora dall’alba al tramonto non sia una forma di schiavismo, se dunque l’economia di cui sta parlando sia un’economia neo schiavista.
Tipico della condizione dello schiavo è l’isolamento dai legami sociali; la sua estraneità ne fa una merce. A questo proposito occorre chiedersi se il fenomeno della migrazione, su cui Erri De Luca, al pari della signora Boldrini, non ha alcuna riserva, non sia un modo per privare i lavoratori della libertà nel senso classico (dei loro legami umani), per farne delle pure merci.

GIUSEPPE MASALA

Incredibile articolo di Erri De Luca su #LaRepubblica dove spiega il razzismo a Salvini.
Sottolineo questo passaggio memorabile: “In economia la rinuncia all’impiego di manodopera immigrata a basso costo è atto di autolesionismo”. Dunque per questo signore è assolutamente giusto sfruttare nei campi i richiedenti asilo a 3 euro l’ora (con il pizzo da pagare ai caporali peraltro), farli vivere nelle baraccopoli e magari anche accettare il fatto che ogni tanto qualcuno muoia bruciato vivo a causa di qualche incendio divampato a causa dei fornellini a gas che utilizzano per scaldarsi. Tutto questo è giusto, e chi non lo fa è autolesionista. Questa è la sinistra oggi: schiavista e fascista. Poi in un incredibile transfert freudiano accusano gli altri di quello che appartiene loro. Qui ormai non capisco dove finisca la cattiveria e l’ipocrisia e dove inizi il disturbo psichiatrico.

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