LA STRADA SMARRITA DELLE èlites globaliste, di Giuseppe Germinario

Ormai si può affermare con ragionevole certezza che la modalità multipolare attraverso la quale si stanno delineando le relazioni tra i vari stati e i vari centri strategici all’opera si stia affermando definitivamente. Siamo ancora ad un confronto nel corso del quale i punti di attrito tra le forze principali emergono in maniera più o meno casuale, legati come sono al manifestarsi di ambizioni variamente vellicate di potenze locali e regionali.

La strada per arrivare alla definizione di più aree di influenza stabilizzate attorno alle potenze emerse è ancora lunga e non è detto che alla fine ci si arrivi. La questione è tutt’altro che definita sia all’interno degli USA che tra i vari centri in competizione.

Un sistema policentrico è quindi ancora lungi da affermarsi; una incertezza ed una laboriosità che lascerà spazi sempre più ampi ad una conflittualità endemica e asimmetrica ancora per diverso tempo.

Non sono i pur numerosi focolai di tensione a rendere palpabile questo cambiamento, quanto piuttosto l’atteggiamento psicologico, impensabile sino a pochi anni fa, di quelle élites globaliste solo un attimo fa sicure di essere prossime alla meta di un Nuovo Ordine Mondiale.

L’articolo del CFR (Conseil on Foreign Relations), l’ultimo di una serie apparsa sul sito e sulla rivista di emanazione “Foreign Affairs”, pubblicato nel post precedente di Italia e il mondo, da questo punto di vista è illuminante. http://italiaeilmondo.com/2018/04/02/lordine-mondiale-liberale_r-i-p-a-cura-di-gianfranco-campa/

LA RECRIMINAZIONE

L’impulso che informa il testo è la recriminazione, un sentimento assolutamente incompatibile con la dichiarata volontà di dominio e di potenza di una élite e di una classe dirigente.

Di primo acchito colpiscono la rozzezza e la strumentalità degli esempi addotti a sostenere le proprie tesi, in gran parte smentiti fragorosamente dalle stesse fonti ufficiali di riferimento dell’organizzazione.

Il florilegio inizia con la constatazione della mancata reazione all’utilizzo dei gas nella guerra civile in Siria ad opera delle forze leali ad Assad, episodio formalmente smentito dai rapporti dell’ONU; prosegue con la denuncia della violazione da parte russa del principio di intangibilità dei confini, riferito all’intervento in Georgia e soprattutto in Ucraina, glissando elegantemente sul precedente del Kossovo, apertamente sostenuto da Stati Uniti e NATO. Glissa con disinvoltura sull’impegno disatteso a non estendere l’ombrello atlantico sino a qualche decina di chilometri da Pietroburgo e centinaio da Mosca nonché sulla discriminazione sempre più scoperta delle popolazioni russe rimaste intrappolate all’esterno dei nuovi confini post-guerra fredda; insiste a coprire la sistematica opera di destabilizzazione delle primavere arabe e delle rivoluzioni colorate, anche esse ormai ampiamente documentate, con la difesa e l’imposizione discrezionale del rispetto dei diritti umani; si ostina penosamente a condannare l’azione di infiltrazione russa negli States, ancora tutta da dimostrare, sorvolando sulle analoghe attenzioni, queste sì documentate, riservate in egual misura ad amici e nemici del costruendo Nuovo Ordine Mondiale.

Un campionario di affermazioni che fa giustizia delle pretese di serietà e di autorevolezza odierne di tale associazione.

Il CFR americano, al pari del suo omologo simbiotico gemello britannico RIIA (Royal Institute of International Affairs) ormai declinante, è un gruppo di influenza sorto nel primo dopoguerra con lo scopo di assumere un ruolo chiave nella determinazione della politica estera e nella selezione della classe dirigente. Un compito assolto egregiamente soprattutto nel secondo dopoguerra e che sembrava aver raggiunto l’apoteosi e la consacrazione definitiva con l’implosione del blocco sovietico. Non che all’azione e alle analisi fossero estranee forzature, macchinazioni e trame prosaiche; tutt’altro.

Erano tuttavia rese credibili ed accettabili dalla incontrastata, almeno all’interno dell’area di influenza, forza militare di supporto, dalla forza persuasiva del softpower e del modello di vita proposto, dal successo complessivo delle strategie e dall’esistenza di un valente avversario sufficientemente definito e perimetrato da inibire le altrui conflittualità interne più perniciose.

L’estensore dell’articolo in effetti riconosce la funzione della formazione dominante, in particolare della sua forza militare, nell’assicurare “un mondo globalizzato di pace”, salvo poi confessarne inconsapevolmente l’attuale impotenza.

L’implosione del blocco sovietico, dietro la parvenza di acquisizione del dominio assoluto ha sconvolto in realtà rapidamente gli equilibri interni di questo assetto, in particolare nella casa madre e ha rivelato l’impossibilità e incapacità di gestire o quantomeno orientare l’insieme delle dinamiche politiche del pianeta.

L’ILLUSIONE

In quegli anni, a partire da metà anni ’80, ripresero piede particolari teorie, tuttora largamente influenti le quali vedevano il mondo governato da una infinitesima minoranza, espressione per lo più di élites finanziarie (il famoso 1%), raccolte in associazioni potentissime (appunto Bilderberg, CFR e poche altre) alle quali contrapporre nelle interpretazioni più semplicistiche l’azione del 99% delle masse restanti, in quelle un po’ più articolate anche quella degli stati nazionali, anch’essi minacciati dai malintesi processi di globalizzazione.

A differenza dei tribuni e dei demagoghi che si sono avvicendati ad alimentare e gestire le orde magmatiche ed erranti di protestatari, gli appartenenti a questi gruppi, per lo meno gli elementi più influenti, hanno tenuto sempre presente la funzione politica indispensabile degli strumenti coercitivi, l’attualità e comunque il mantenimento delle proprie radici originarie nella formazione egemone.

Nell’illusione di poter gestire la complessità delle relazioni nell’agone mondiale sono però in buona parte e in qualche maniera caduti, a loro modo, nella trappola di quelle teorie, forse ingannati dalla parvenza di onnipotenza e dalla estrema mobilità di alcune loro funzioni, in particolare finanziarie. Hanno, in particolare, ribaltato i pesi e gli equilibri tra le varie funzioni e strutture di potere.

Dando per scontato il successo del multilateralismo, il funzionamento reticolare quindi delle relazioni politico-economiche sotto la supervisione di una potenza egemone, hanno sottovalutato l’importanza della forza militare, specie di terra e sopravvalutato la capacità di governo e di coesione delle varie forze sparse nei paesi, interessate alla mondializzazione dei flussi.

Se in Europa tali forze hanno mantenuto ancora il predominio, in Russia sono state messe sotto stretto controllo politico. La Cina ha saputo addirittura fare di meglio e ha sfruttato l’altrui apertura dei mercati e l’ingresso controllato nel proprio territorio di imprese straniere per acquisire tecnologie, capacità imprenditoriali e risorse necessarie ad edificare una formazione ed uno stato sempre più potenti ed autorevoli.

Il softpower, la capacità di persuasione e di controllo degli strumenti di informazione, la capacità di costrizione, orientamento e controllo degli stessi strumenti economici e soprattutto finanziari sembravano assumere, secondo gli influenti teorici americani di quel momento, una importanza assoluta e una capacità di autoregolazione sufficiente rispetto al resto dell’armamentario imperiale. In sovrappiù hanno sottovalutato l’entità dei processi di destabilizzazione interna delle proprie formazioni sociali, innescati dalla digitalizzazione e robotizzazione dei processi industriali e resi ingestibili dal trasferimento massiccio di interi comparti produttivi e di servizi all’estero. Un processo in gran parte compensato dai flussi finanziari i quali hanno consentito i massicci investimenti in tecnologie e le crescenti spese militari ed assistenziali, compromettendo seriamente l’equilibrio socioeconomico e il patrimonio di infrastrutture costruito in decenni.

La crisi dei ceti medi è tutta segnata in questi squilibri e in questi processi e con essa la solidità della formazione sociale americana e l’estensione del potere interno delle sue élites. Una precarietà accentuata dalla fragilità strategica di un paese che ha perso il pieno controllo delle filiere industriali con l’importante eccezione del settore energetico.

LA CECITA’ E LA VENDETTA

Al riguardo la cecità dell’estensore dell’articolo, probabilmente espressione della cecità e dello smarrimento, forse dell’arroccamento disperato, delle stesse élites a capo del CFR, è impressionante. Finisce così per attribuire la responsabilità del processo caotico in corso alla volontà di reazione delle élites dominanti dei paesi emergenti, in particolare la Cina e la Russia senza voler vedere la famelica volontà predatoria dei centri strategici americani protagonisti della destabilizzazione in Russia e in interi continenti, compresi il loro “cortile di casa”. Una famelicità che ha costretto alcune élites e centri locali ad una vera e propria reazione di sopravvivenza, accentuando vorticosamente un naturale processo competitivo all’esterno e riducendo se stesse ad una cittadella assediata all’interno.

Qualche incertezza deve aver incrinato la sicumera di alcune di esse. Tant’è che Obama ha dovuto rinunciare, volente o nolente, ad un intervento massiccio diretto in Siria; con discrezione ha avviato la costruzione di quel muro ai confini del Messico che Trump ha solo deciso di completare e rafforzare; nel silenzio ha organizzato più rientri di immigrati clandestini del chiassoso Trump; ha promosso la stesura di trattati commerciali collettivi, sostitutivi di impraticabili accordi generalisti, ma con l’esclusione certosina della Cina e della Russia, a dispetto della sua conclamata vocazione universalistica.

Non solo. La sconfitta della Clinton, a dispetto del totale controllo mediatico e della sfacciata partigianeria delle testate, deve in parte aver risvegliato dal delirio di onnipotenza. Tant’è che il politicamente corretto è disposto a sacrificare i propri figli prediletti, Weinstein, gran mecenate di Hollywood e del Partito Democratico e Zuckerberg, gestore di Facebook, per conto dei servizi e del Washington Post, pur di chiudere i possibili canali abilmente sfruttati dallo staff di Trump. Del resto Soros lo aveva apertamente preannunciato. La soddisfazione di Trump nel vedere in difficoltà tre dei suoi più acerrimi nemici rischia di essere magra e di breve durata.

Le crociate, si sa, accecano, però e soprattutto, gli adepti alla causa e i loro profeti.

Non solo! Hanno bisogno di additare al ludibrio il reo infedele. Individuano così in Trump il nemico interno responsabile in ultima istanza di aver interrotto il processo di globalizzazione a guida unipolare americana. Lo accusano di collusione col nemico principale, la Russia e di compromettere i rapporti con la Cina, partner trattabile a loro detta.

Quello che doveva essere un confronto aspro tra centri guidati da punti di vista diversi si è trasformata in una caccia all’uomo e ai “traditori” di inaudita violenza; il rischio di spaccare una seconda volta il paese in maniera distruttiva e senza essere in grado di offrire ad esso una qualsiasi prospettiva agibile in un contesto ormai multipolare è concreto. Un contesto nel quale i colpi di mano e l’avventurismo possono trovare ampi spazi e far correre pericoli estremi, ben maggiori di quelli attuali.

Un conflitto, per altro, che impedisce l’individuazione dell’avversario principale e l’adozione di una strategia coerente, ma che sta costringendo paradossalmente al sodalizio i due principali competitori, Cina e Russia.

Piuttosto che un realistico dibattito sulle reali possibilità di tentare il rapido ripristino di una condizione unipolare o sulla necessità di accettare la pari dignità di altri concorrenti, ci si affida alle crociate. Segno che la posta in palio, in territorio americano, non è solo una redistribuzione di poteri e benefit tra le varie élites e centri strategici, ma la stessa sopravvivenza di alcuni di essi.

Piuttosto che discutere della valenza geopolitica dell’uso delle leve economiche, in particolare i dazi, nel ricollocare le alleanze, nel ripristinare il controllo sui flussi di tecnologie, nel riequilibrare l’economia e la coesione sociale interna, si trascina ancora una volta il paese nella solita crociata sul libero mercato propedeutico alla pace, a dispetto delle guerre e dei sommovimenti degli ultimi trent’anni di globalizzazione.

IL SODALIZIO

L’eventuale significativa incrinatura del sodalizio sancito in queste associazioni tra centri legati allo hard-power e quelli finanziari e mediatici saranno la cartina di tornasole e il punto di svolta in grado di innescare un rovesciamento degli equilibri. Qualche segnale è visibile, ma certamente insufficiente. È la prova, comunque, che le élites dominanti e i centri strategici decisionali non possono ridursi a risicate élites cosmopolite. Queste ultime, sebbene a malincuore, devono appoggiarsi comunque alle altre, ben radicate nei confini dei propri territori.

Una totale restaurazione in un contesto multipolare pressoché innescato potrà altrimenti dare spazio a processi ancora più incontrollabili e tragici.

Di questo l’estensore non pare minimamente preoccupato, salvo recriminare e addossare ad altri le proprie responsabilità.

Siamo noi a doverci preoccupare e ad agire di conseguenza al loro posto.

L’ORDINE MONDIALE LIBERALE_R.I.P., a cura di Gianfranco Campa

Pubblichiamo qui sotto, tradotto in italiano, un articolo apparso sul sito del CFR (Council on Foreign Relations) il 21 marzo scorso. Il testo, accompagnato da alcune note di Gianfranco Campa, è particolarmente importante più che per i contenuti, per la banalità e la rozzezza degli argomenti, soprattutto per l’atteggiamento psicologico, rivelatore di uno stato d’animo. Seguirà un articolo più ampio sull’argomento. Buona lettura_ Germinario Giuseppe

 

L’ORDINE MONDIALE LIBERALE-R.I.P.

Dopo una parabola di quasi mille anni, il filosofo e scrittore francese Voltaire scherzando afferma che il Sacro Romano Impero in declino non era né santo, né romano, né un impero. Oggi, a distanza di due secoli e mezzo, il problema, parafrasando Voltaire, è che l’ordine mondiale liberale, non è né liberale, né mondiale, né ordinato.

Gli Stati Uniti, lavorando a stretto contatto con il Regno Unito e altri paesi, istituirono l’ordine mondiale liberale sulla scia della seconda guerra mondiale. L’obiettivo era quello di garantire che le condizioni che avevano portato a due guerre mondiali in 30 anni non si sarebbero mai più verificate.

A tal fine i paesi democratici si sono impegnati a creare un sistema internazionale che fosse liberale, nel senso che doveva essere basato sullo stato di diritto e sul rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale dei paesi. I diritti umani dovevano essere tutelati. Tutto questo avrebbe dovuto essere applicato su scala planetaria e contestualmente la partecipazione sarebbe fondata su base volontaria e aperta a tutti. Molte istituzioni furono costruite per promuovere la pace (le Nazioni Unite), lo sviluppo economico (la Banca mondiale) e il commercio e gli investimenti (il Fondo Monetario Internazionale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio).

Tutto questo era sostenuto dalla potenza economica e militare degli Stati Uniti, da una rete di alleanze tra Europa e Asia e dalle armi nucleari necessarie a scoraggiare l’aggressione. L’ordine mondiale liberale si basava quindi non solo su ideali democratici, ma anche sulla minaccia dell’uso di forza bruta. Tutto ciò sopravvisse ad una Unione Sovietica decisamente illiberale, dalla nozione fondamentalmente diversa da ciò che costituiva l’ordine in Europa e nel mondo.

L’ordine mondiale liberale sembrava essere più robusto che mai con la fine della Guerra Fredda e il crollo dell’Unione Sovietica. Ma oggi, un quarto di secolo dopo, il suo futuro è in dubbio. Le sue tre componenti – il liberalismo, l’universalità e la preservazione dell’ordine stesso – vengono messe a dura prova come non era mai successo prima nel corso dei suoi 70 anni di storia.

Il liberalismo è in ritirata. Le democrazie sentono gli effetti del crescente populismo. I partiti dalle estreme ideologie hanno guadagnato terreno in Europa. Il voto nel Regno Unito a favore dell’uscita dall’UE ha attestato la perdita di influenza da parte dell’élite dominante. Persino gli Stati Uniti stanno subendo attacchi senza precedenti ad opera del proprio stesso Presidente, impegnato a colpire direttamente le istituzioni dei mass-media, della giustizia, delle forze dell’ordine e di intelligence; i capisaldi del paese. I governi autoritari, tra i quali Cina, Russia e Turchia, sono diventati ancora più chiusi su se stessi. Paesi come l’Ungheria e la Polonia sembrano non interessarsi al destino delle loro giovani democrazie.

È sempre più difficile parlare del mondo come se fosse un tutt’uno . Stiamo assistendo all’emergere di ordini regionali,  ognuno con le proprie caratteristiche. I tentativi di costruire una intelaiatura globale sta fallendo. Il protezionismo è in aumento; l’ultimo turno di negoziati sul commercio globale non è stato completato. Ci sono ancora poche regole che governano l’uso del cyberspace.

Allo stesso tempo, sta tornando la tensione e la rivalità fra varie potenze. La Russia ha violato la norma più basilare delle relazioni internazionali quando ha usato la forza armata per cambiare i confini in Europa e ha violato la sovranità degli Stati Uniti attraverso i suoi sforzi per influenzare le elezioni del 2016. La Corea del Nord ha ignorato il forte consenso internazionale contrario alla proliferazione delle armi nucleari. Il mondo è rimasto a guardare mentre gli abusi umanitari erano incorso in Siria e nello Yemen, senza nessuna iniziativa né dell’ONU, né di altre entità in risposta all’utilizzo di armi chimiche da parte del governo siriano. Il Venezuela è uno paese ormai fallito. Oggi una persona su cento al mondo è rifugiata o sfollata.

Ci sono diversi motivi per cui tutto questo sta accadendo e perché proprio ora. L’ascesa del populismo è in parte una risposta ai redditi stagnanti e alla perdita di posti di lavoro, dovuta principalmente alle nuove tecnologie, ma ampiamente attribuita alle importazioni e agli immigrati. Il nazionalismo è uno strumento sempre più utilizzato dai leader per rafforzare la propria autorità, specialmente in condizioni economiche e politiche difficili. Le istituzioni globali non sono riuscite ad adeguarsi ai nuovi equilibri di potere e alle tecnologie.

Ma l’indebolimento dell’ordine mondiale liberale è dovuto, più di ogni altra cosa, al mutato atteggiamento degli Stati Uniti. Sotto la presidenza di Donald Trump, gli Stati Uniti hanno deciso di non aderire al partenariato transpacifico e di ritirarsi dall’accordo sul clima di Parigi. Trump ha anche minacciato di abbandonare l’accordo di libero scambio nordamericano e l’accordo sul nucleare iraniano. Ha introdotto unilateralmente tariffe sull’ acciaio e l’alluminio, basandosi su una giustificazione (sicurezza nazionale) che anche altri paesi potrebbero usare; un processo che potrebbe innescare una guerra commerciale. Ha posto dubbi sul suo impegno nei confronti della NATO e di altre forme di alleanza. E parla raramente di democrazia o diritti umani. L’America Prima sembrano incompatibili con l’ordine mondiale liberale.

Il mio punto non è quello di concentrare sugli Stati Uniti tutte le critiche. Altre importanti potenze, tra cui l’UE, la Russia, la Cina, l’India e il Giappone, potrebbero essere criticate per quello che stanno facendo o non facendo. Ma gli Stati Uniti non sono come altri paesi. Gli Stati Uniti erano non solo il principale artefice dell’ordine mondiale liberale ma anche il suo principale sostenitore e beneficiario. La decisione dell’America di abbandonare il ruolo che ha svolto per più di sette decenni segna così un punto di svolta. L’ordine mondiale liberale non può sopravvivere da solo, perché gli altri non hanno né l’interesse né i mezzi per sostenerlo. Il risultato sarà un mondo meno libero, meno prospero e meno pacifico, sia per gli americani che per gli altri.

https://www.cfr.org/article/liberal-world-order-rip?utm_medium=social_share&utm_source=fb

 

IL COMMENTO DI GIANFRANCO CAMPA

Questo senso di scoramento da parte delle élites è iniziato e precipitato dopo le elezioni di Trump. Il pessimismo li rende diabolicamente esposti e totalmente spogliati delle loro certezze. E’ ormai da tempo che circolano analisi sul tramonto dello stato globale; questa non è una notizia nuova. Quello che piuttosto colpisce non è solo la pubblicazione dell’articolo da parte del CFR (Council on Foreign Relations), uno dei maggiori e più importanti think tanks che supportano il cosiddetto globalismo e il nuovo ordine mondiale. Non è nemmeno l’unico articolo che il CFR ha dedicato al tramonto del nuovo ordine mondiale. Colpisce soprattutto la banalità dell’articolo, la leggerezza della analisi, piena di frasi fatte quasi a denotare il senso di disperazione e impotenza di questi potenti individui. Segno che la situazione sta realmente sfuggendo loro di mano. Tra l’altro l’articolo parla di un ordine mondiale in cui le sovranità nazionali sono rispettate. L’autore a questo punto può solo essere tacciato di disonestà oppure di ignoranza. Chi di spada ferisce di spada perisce.

Quando parla di sovranità non menziona che, soprattutto in Europa, la perdita di sovranità nazionale, giuridica, legale, militare, monetaria in paesi come l’Italia, la Grecia, la Spagna, ha influenzato negativamente l’opinione pubblica sulla necessità di un mondo globale. Le politiche di austerità hanno fatto il resto. L’autore denuncia il fatto che una persona su cento oggi come oggi sono rifugiati o sfollati ma si dimentica di analizzare l’impatto negativo che l’immigrazione di massa incontrollabile ha avuto sull’opinione pubblica. Parla di un mondo di pace globale che ha scongiurato una nuova guerra mondiale, ma si dimentica di ricordare i danni e il caos che guerre e bombardamenti negli ultimi anni hanno creato, destabilizzando intere aree geografiche; tutto nel nome di questo nuovo ordine mondiale. Come dimenticare il bombardamento della Serbia, la Guerra in Afghanistan, in Iraq (due volte), in Libia, in Siria, ect. Il peggior nemico di questi signori globalisti elitisti sono loro stessi, non Trump. Trump è il sintomo di una malattia più grande e profonda che loro hanno contribuito a creare.  La vera novità è che ormai queste organizzazioni globaliste non solo hanno paura e quindi denunciano apertamente l’erosione evidente nel loro piano di ordine mondiale, ma sono ormai entrati nella fase successiva; la disperazione di chi sa di aver perso per sempre il controllo della situazione. Questo spiega ora anche l’approssimazione delle loro analisi.

Per chi non lo sapesse il CFR è stato storicamente uno dei maggiori architetti di questo nuovo ordine mondiale.

Qualche nota, giusto per fare un veloce riassunto di cosa sia il Council On Foreign Relations. Uno dei fondatori del CFR è stato David Rockefeller. L’obiettivo del CFR era la formazione di un governo mondiale incrementalmente più forte. L’Ammiraglio Chester Ward, ex Giudice Avvocato della Marina degli Stati Uniti, è stato membro del CFR per 16 anni prima di dimettersi disgustato. Ha dichiarato: “Lo scopo principale del Council on Foreign Relations è promuovere il disarmo della sovranità degli Stati Uniti e l’indipendenza nazionale, la sommersione in un governo monopolistico onnipotente“.

Dopo la seconda guerra mondiale, nacquero le Nazioni Unite, il successore della Lega delle Nazioni. Contrariamente a ciò che viene comunemente detto al pubblico, l’ONU non è stata fondata da nazioni esauste della guerra. L’ONU è stata concepita da un gruppo di membri del CFR nel Dipartimento di Stato che si autodefinirono il Gruppo di Agenda informale. Hanno redatto la proposta originale per le Nazioni Unite e ottenuto l’approvazione del presidente Roosevelt il quale ha poi fatto stabilire all’ONU la sua più alta priorità politica postbellica. Quando l’ONU tenne la sua riunione di fondazione a San Francisco nel 1945, 47 delegati americani erano membri del CFR. Sebbene inizialmente l’ONU non fosse stata istituita come un governo mondiale, l’intento era che si sarebbe trasformata nel tempo in governo mondiale. John Foster Dulles (CFR), un delegato americano alla riunione di fondazione delle Nazioni Unite che in seguito divenne Segretario di Stato sotto Eisenhower, lo ha riconosciuto nel suo libro Guerra o Pace: “Le Nazioni Unite non rappresentano una fase finale nello sviluppo dell’ordine mondiale, ma solo uno stadio primitivo. Pertanto il suo compito principale è creare le condizioni che renderanno possibile un’organizzazione più altamente sviluppata.

Altre due istituzioni postbelliche, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, sono state create tecnicamente alla Conferenza di Bretton Woods del 1944. Ma la pianificazione iniziale è stata fatta dal gruppo economico e finanziario del CFR, parte del loro programma bellico di guerra e di studi sulla guerra. La Banca Mondiale e il FMI agiscono come un sistema di garanzia dei prestiti per le banche multinazionali. Quando un prestito in un paese straniero va male, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale entrano in azione con il denaro dei contribuenti, garantendo che le banche private continuino a ricevere i pagamenti di interessi. Inoltre, la Banca Mondiale e il FMI dettano le condizioni ai paesi che ricevono salvataggi, dando così ai banchieri una misura di controllo politico sulle nazioni indebitate.

LE INGERENZE: STRUMENTI FONDANTI DELLA LOTTA TRA LE POTENZE MONDIALI. (a cura di) Luigi Longo

LE INGERENZE: STRUMENTI FONDANTI DELLA LOTTA TRA LE POTENZE MONDIALI.

(a cura di) Luigi Longo

 

E’ opportuno amplificare la pubblicazione del breve articolo di Ulson Gunnar (L’ingerenza politica USA: una tradizione consolidata, apparso sul blog www.controinformazione.info il 31 marzo 2018) perché evidenzia con chiarezza il fatto che parlare di ingerenza delle potenze mondiali è un non sense in quanto le relazioni ( chiamate superficialmente ingerenze) tra nazioni e tra nazioni e potenze mondiali, che è bene ricordarlo sono relazioni di potere e di dominio, sono parti fondanti del conflitto per l’egemonia mondiale; tutti gli strumenti del conflitto, come per esempio le comunicazioni a partire dal 1844 ( anno in cui fu inaugurata la prima linea telegrafica al mondo che univa, per dirla con il geografo Peter J. Hugill, la semplicità d’uso alla libertà di accesso per il pubblico), sono utili per la conquista del dominio mondiale.

Gli USA, bisogna riconoscerlo, sono maestri nelle relazioni di potere e di dominio e non a caso sono la potenza mondiale egemone, sia pure in fase di pericoloso declino.

 

 

L’INGERENZA POLITICA USA :UNA TRADIZIONE CONSOLIDATA

Impero usa finanza e armi

Usa l’ingerenza politica è molto reale e globale

di Ulson Gunnar (*)

Gli Stati Uniti hanno dedicato più di un anno alle accuse contro la Federazione Russa in merito a presunte interferenze politiche durante le elezioni americane del 2016 .

Mentre le accuse spaziano da tutto, comprese le “notizie false” diffuse su Internet per dirigere i legami con l’amministrazione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump avrebbe utilizzato per assumere il potere, nessuna prova deve ancora emergere per dimostrare che la Russia si è intromessa negli affari politici interni dell’America .

E mentre la Russia certamente possiede una presenza ampia e crescente attraverso i media internazionali, gli attacchi concertati contro questa presenza derivano maggiormente dal fatto che i decenni di controllo incontrastato sull’opinione pubblica globale da parte dei media degli Stati Uniti e dell’Europa si stanno ora spostando verso un equilibrio multipolare del potere spazio dell’informazione .

In netto contrasto con i sussurri e le ombre citati dagli Stati Uniti e dall’Europa in merito alla Russia, per iniziare a comprendere la portata delle interferenze politiche statunitensi all’estero, basta visitare il Dipartimento di Stato americano e il sito Web National Endowment for Democracy’s (NED) finanziato dalle grandi società private.

 

Ingerenza su scala industriale

 

L’intromissione degli Stati Uniti è così ampia che NED è suddiviso in più filiali (National Democratic Institute (NDI), International Republican Institute (IRI) e Freedom House) che a loro volta sono affiancate da organizzazioni parallele come l’Open Society Foundation di George Soros, USAID, il DFID del Regno Unito e molti altri.

Il sito Web NED è suddiviso in diverse regioni, tra cui:

Africa;
Asia;
Europa centrale e orientale;
Eurasia;
Globale;
America Latina e Caraibi e;
Medio Oriente e Africa settentrionale.

All’interno di ogni regione, NED elenca i suoi ampi finanziamenti per organizzazioni e fronti in oltre 100 diverse nazioni in tutto il mondo.

All’interno di ogni nazione, ci sono fondi NED destinati a un gruppo costituito da decine di organizzazioni che si presentano come società legali, piattaforme mediatiche, fondazioni, gruppi ambientalisti e ONG per la difesa dei diritti umani. Tutte queste creano collettivamente le componenti di una macchina politica usata per far pressione sui governi in carica, per prestare attenzione agli interessi degli Stati Uniti, o per il cambio di regime se questi falliscono.

 

NED ONG made in USA

 

Poiché il NED e i destinatari dei suoi finanziamenti sono sempre più esposti come una forma di sovversione politica, la NED ha deciso di elencare i suoi finanziamenti in alcune nazioni in termini molto generali, senza mai rivelare le organizzazioni o gli individui che ricevono denaro dagli Stati Uniti.

Molte organizzazioni in nazioni bersaglio rifiutano di rivelare i loro finanziamenti al pubblico. Molti hanno persino il coraggio di sollecitare donazioni pubbliche nonostante abbiano ricevuto (e nascosto) ampi finanziamenti dal governo degli Stati Uniti.

 

Medio Oriente

 

È un dato di fatto, ammesso da importanti piattaforme mediatiche statunitensi come il New York Times , che l’intera primavera araba del 2011 sia stata il risultato di vasti preparativi diretti dal NED, dai suoi partner e dalle sue filiali.

Dopo aver contribuito a creare i conflitti che attualmente consumano il Medio Oriente, la NED finanzia ora una serie di attività in nazioni come la Siria per contribuire a prolungare i conflitti. Questo viene fatto aiutando e favorendo i miliziani jihadisti che combattono il governo di Damasco con il pretesto di fornire aiuti umanitari. Include anche l’assistenza nell’amministrazione del territorio sequestrato dai miliziani dal controllo di Damasco.

La nazione iraniana, ancora da sobillare con le stesse violenze che attraversano la Siria, lo Yemen, la Libia e l’Iraq, ospita reti di gruppi finanziati dal NED e dalla CIA che vanno dai presunti attivisti, ai gruppi di miliziani (terroristi) diretti al rovesciamento violento del governo di Teheran.

 

 

 

 

 

 

 

Europa orientale

 

Fu nell’Europa dell’Est che la NED perfezionò quella che oggi viene chiamata la “rivoluzione dei colori”. È ora ammesso che il NED statunitense e altre agenzie statunitensi giocarono un ruolo fondamentale nel rovesciare i governi di Georgia, Ucraina e Serbia. È stato infatti il rovesciamento del governo serbo sostenuto dagli Stati Uniti nel 2000 che il Kem Sokha della Cambogia ha citato come modello da replicare nel sud-est asiatico con l’assistenza degli Stati Uniti.

Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, le rivoluzioni colorate del NED spazzarono l’Europa orientale come una piaga, consumando la sovranità nazionale e piegando i territori ex sovietici a nuovi padroni a Washington, Londra e Bruxelles.

Più recentemente, mentre la Russia ha iniziato a riaffermarsi e a prendere decisioni in tribunale sia nell’Europa orientale che in quella occidentale, la NED si è nuovamente impegnata a rovesciare i leader che rifiutano di ridurre o eliminare i legami economici, militari e diplomatici con la Russia per volere di Washington.

Un primo esempio di questo include le proteste dell’Euromaiden 2013-2014 in Ucraina. Durante il periodo 2013-2014, i senatori statunitensi, incluso John McCain, avrebbero letteralmente preso parte alle fasi di protesta a Kiev per offrire un sostegno politico diretto ai disordini guidati dai circoli politici neo-nazisti.

US President Donald Trump (C-L) and Saudi Arabia’s King Salman bin Abdulaziz al-Saud

 

Russia

 

Sorprendentemente, mentre Washington accusa la Russia di ingerenza politica all’interno degli Stati Uniti, il NED elenca apertamente quasi 100 attività sovversive o organizzazioni che stanno finanziando all’interno della stessa Russia .

Oltre a ciò che è elencato sul sito Web di NED, gli Stati Uniti e l’Europa stanno fornendo figure di opposizione impopolari come Alexei Navalny, l’ormai defunto Boris Nemtsov, Yevgeniya Chirikova (Strategia 31 finanziata dal NED), Lev Ponomarev (Mosca, Helsinki, gruppo finanziato dal NED), Liliya Shibanova (GOLOS finanziato dal NED) e molti altri che sono stati ripetutamente arrestati per aver cospirato con diplomatici e finanzieri americani che sostengono le loro attività sovversive.

Se esistessero prove per dimostrare che la Russia ha fatto una delle forme di ingerenza sopra elencate, incluso il mantenimento di intere scuderie di personaggi dell’opposizione che filtrano regolarmente dentro e fuori dall’Ambasciata russa in una nazione bersaglio, questa azione sarebbe categoricamente condannata da Washington. Eppure Washington si impegna palesemente in sovversione politica palese, non solo in Russia, ma in (almeno) altre 100 nazioni in tutto il mondo, incluse le nazioni che gli Stati Uniti stanno attualmente occupando militarmente in modo aperto.

Per l’impero, ciò che è più temibile è la competizione. L’Impero anglo-USA cerca di essere l’unico potere egemone con tutto quello che ne consegue. Gli Stati Uniti non si oppongono all’intromissione politica negli affari di una nazione sovrana, si oppongono all’ostruzione della propria ingerenza mondiale e cercano di eliminare altri che offrono alternative migliori alla sottomissione coercitiva di Washington, quindi si agitano perché hanno individuato nazioni come la Russia, la Cina e altre che hanno sempre più successo nel fare proprio questo.

Per quei paesi tentati di unirsi al carrozzone nel condannare le nazioni come la Russia e la Cina per intromissione politica, in primo luogo quelle stesse nazioni devono riconoscere e rendere conto del livello industriale con cui gli Stati Uniti interferiscono con i propri partner europei.

Per coloro che stanno portando denaro ella NED in tutto il mondo nella convinzione che stiano facendo avanzare in qualche modo un’agenda progressista liberale, in particolare di “democrazia”, questi devono chiedersi come giudicare di una nazione straniera che fa interferenza negli affari politici della propria nazione e se questo sia “democratico” o se sia costruito in modo favorevole ai principi di auto-determinazione della democrazia.

Non si può onestamente concludere che il denaro del NED sia destinato a sostenere la capacità di una nazione di determinare il proprio destino quando risulta chiaramente che Washington sta investendo queste enormi quantità di denaro per determinare in base ai propri interessi l’assetto politico di quella nazione.

 

* Ulson Gunnar, analista geopolitico e scrittore di New York, in particolare per la rivista online ” New Eastern Outlook ”

Riguardo a   “La complessità di un mondo multipolare – Videointervista a Pierluigi Fagan”, di Massimo Morigi

Riflettendo in queste pagine dell’ “Italia e il mondo” sul   “ “Che fare” di Carl Schmitt. Europa, nuovi stati, Nomos del mondo” di Pierluigi Fagan (sempre pubblicato in questo blog) riassumevo nei seguenti termini il mio pensiero in merito all’odierno stato della scienza politica ritenendo che, pur nella differenza di impostazione nell’affrontare la storia del pensiero politico  fra lo scrivente e Fagan (a mio giudizio un eccesso di schematismo classificatorio in Fagan che lo porta a trascurare la presenza o meno della componente conflittuale-strategica dei singoli pensatori: «Ci sono pensatori politici di due tipi, quelli che rimangono teorici e quelli che bordeggiando contingenze pratiche, finiscono con l’addomesticare la propria teoria alla contingenza», scriveva in quell’intervento Fagan riferendosi a Carl Schmitt, accusando quindi il suo pensiero di strumentalismo e trascurandone perciò la drammatica ed euristicamente fondamentale  dialettica del confronto della teoria con la prassi politica), Pierluigi Fagan fosse pienamente convergente con me  nel cogliere il terribile deficit di pensiero che caratterizza le odierne classi dirigenti politico-intellettuali delle cosiddette democrazie rappresentative: «Conclusione che non conclude ma che (dovrebbe) aprire il cantiere del rapporto fra prassi e teoria politica: c’è indubbiamente diffusa una rinnovata consapevolezza che le vecchie mitologie politiche liberali e democraticistiche non stanno più letteralmente in piedi; ma c’è in tutti noi indubbiamente il bisogno di un rinnovato ed approfondito sforzo teorico-pratico per rimpiazzare queste consunte mitologie politiche. E l’odierno contributo di Pierluigi Fagan senza dubbio si inserisce validamente in quest’alveo.» Ora riguardo a “La complessità di un mondo multipolare – Videointervista a Pierluigi Fagan” pubblicata in tre parti in questo blog (caricata anche su YouTube e sulla quale piattaforma viene pubblicata nelle sue tre parti anche sul seguente unico URL  https://www.youtube.com/watch?v=MBVEzL4hsL0), non posso che confermare – e rafforzare – il mio giudizio totalmente positivo su questo studioso, giudizio positivo ulteriormente confermato in ragione non solo del fatto che nell’intervista Fagan ribadisce e argomenta ulteriormente l’attuale crisi che attraversa la teoresi politica ma fornisce anche indizi per fornire un contesto storico alla stessa. Per Fagan questa crisi di pensiero risale principalmente al periodo fra il primo ed il secondo dopoguerra (cita come esempio e della debolezza intrinseca di questo pensiero ed anche della scarsa produttività dello stesso il progetto della Paneuropa di Richard Nikolaus von Coudenhove-Kalergi e il Manifesto federalista di Ventotene di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, risibili non solo per la – dirigistica ed autoritaria –  utopicità di voler federare un’Europa che al massimo presa nel suo insieme, nell’insieme cioè delle sue immense differenze, potrebbe aspirare ad una confederazione ma anche ridicoli nel senso che sono state le uniche nuove proposte di un Vecchio continente in crisi che, invece, sul piano culturale ed artistico si era contraddistinto come l’iperproduttiva fucina della modernità); mentre, a mio giudizio, la crisi del pensiero politico moderno (e la crisi del Vecchio continente tout court, le quale due cose, come è di tutta evidenza, sono strettissimamente correlate) va piuttosto collegata col trauma della seconda guerra mondiale, conflitto che ha significato accanto alla giusta e sacrosanta damnatio memoriae del totalitarismo nazista e fascista anche la damnatio memoriae di un qualsiasi pensiero  non  di stretta osservanza universalista, liberale e/o comunista-internazionalista che fosse. Ma queste sono non dico questioni di dettaglio (non lo sono di dettaglio sia perché anche l’universalismo politico e filosofico possiede una sua dialetticità storica, e a seconda o no che si concordi sulla realtà di  questa dialetticità si è o reazionari –  absit iniuria verbis! – o appartenenti ad una tradizione realista-strategica ed intrinsecamente dialettica (Machiavelli, Mazzini, Marx, Gramsci, il György Lukács di Storia e coscienza di classe) ma certamente problemi che però non riescono ad occultare il fatto principale – e puntualmente rilevato da Fagan – che la crisi del pensiero politico occidentale – e della sua filosofia – non deriva dal fatto che la teoria ha giocato tutte le sue carte ma dal semplice dato di fatto che la crisi geopolitica dell’Europa, che ha avuto il suo acme nel Secolo breve, non poteva non produrre anche una contemporanea crisi di pensiero: non grande importanza, allora stabilire l’esatto terminus a quo, l’importante è avere ben presente il processo. Al giorno d’oggi la vera nobilitate di un pensiero e di un pensatore è sulla consapevolezza di questo inestricabile e dialettico nesso fra dato geopolitico e/o storico e dato teorico che si misura. Da questo punto di vista il pensiero di Fagan veramente molto attento, come ama concepirlo Fagan, al dato della “complessità” del mondo contro ogni ideologico tecnicismo ed invadente ed autoritaria tecnocrazia (ma noi, preferiamo dire: estremamente sensibile alla storicità e dialetticità dell’agire umano) si colloca veramente con grande autorità nell’alveo storicista di una filosofia della prassi che ha compreso che non esiste una evoluzione della teoresi politica qualora questa si consideri separata dalla “bassa” pratica del cambiamento del “politico”. E di questa non piccola consapevolezza dobbiamo continuare a ringraziare Pierluigi Fagan.

 

 

Massimo Morigi, 31 marzo 2018

 

 

 

 

 

 

 

Venti secondi, a cura di Gianfranco Campa

Venti secondi che valgono più di venti articoli. Rivelano le tensioni che percorrono lo staff della Casa Bianca. Siamo lontani dallo stucchevole teatrino della politica italiana che purtroppo coinvolge la quasi totalità dei protagonisti e delle (s)comparse. Da quelle parti lo scontro è drammaticamente reale e non si perita ormai più di celarsi dietro le fumisterie e i rituali  dei tempi ordinari. Qui sotto un breve resoconto e la traduzione della breve conversazione in pubblico tra Mattis e Bolton. Segue il filmato. Prossimamente un articolo più ampio di riflessione.

Il Segretario alla Difesa Mattis incontra Bolton per la prima volta al Pentagono, i due non si conoscono; le parole di Mattis sono dense di significato.

Traduzione: Mattis ai giornalisti ”almeno è una bella giornata, guardate al lato positivo della cosa

Mattis stringe la mano a Bolton: Bolton “grazie per l’invito” Mattis “grazie per essere venuto, il piacere è tutto mio

Mattis e Bolton salgono insieme le scale: Mattis: ” è un piacere finalmente conoscerla; ho sentito dire che lei è il diavolo incarnato e volevo quindi accertarmi di persona”. Bolton ride nervosamente mentre i due entrano nel Pentagono.

Qui sotto il link

 

REPLICA    DI MASSIMO MORIGI A “CIRCA IDENTITÀ E UNIVERSALISMO: DIALOGHI REPUBBLICANI” DI ALESSANDRO VISALLI

REPLICA DI MASSIMO MORIGI A “CIRCA IDENTITÀ E UNIVERSALISMO: DIALOGHI REPUBBLICANI” DI ALESSANDRO VISALLI

(AGLI URL http://italiaeilmondo.com/2018/03/20/circa-identita-e-universalismo-dialoghi-repubblicani-di-alessandro-visalli/ E https://tempofertile.blogspot.it/2018/03/circa-identita-e-universalismo-dialoghi.htmlWebCite: http://www.webcitation.org/6y9MwYd6S E http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F03%2F20%2Fcirca-identita-e-universalismo-dialoghi-repubblicani-di-alessandro-visalli%2F&date=2018-03-24)

Caro Visalli, in questa mia ulteriore  replica alle tue ultime stimolanti considerazioni sul problema identitario mi permetto di citarti iniziando dal finale del tuo articolo dove vi si afferma: «l’idea di libertà come egoismo non limitato, spesso connessa internamente con lo scientismo, è strutturalmente e geneticamente connessa con l’inibizione dell’azione collettiva e milita contro quella che Taylor chiama la “libertà pubblica”. La “libertà privata” atomistica impedisce l’affermazione della “libertà pubblica”, l’autorealizzazione individualista con la lealtà collettiva. La questione è dunque politica.» Sono d’accordo in tutto e per tutto, specialmente nell’ultima frase dove si dice che il problema dell’identità ruota totalmente intorno alla politica. Ma, come si dice, “il diavolo è nei dettagli” ed è quindi necessario chiarire molto bene cosa si intende per ‘politica’ e come si intende la natura della ‘politica’. Ora la mia forte impressione è che per politica nel tuo ultimo contributo s’intenda un’attività culturale  che si contrappone alla naturalità dell’uomo, la quale naturalità umana, sovente agonistica e violenta, se ben diretta da una “buona politica” riesce a mettere la sordina agli spiriti belluini dell’uomo (fra i quali primeggia l’autoriconoscersi dei gruppi umani con specifiche identità); se invece eccitata da una “cattiva politica” funge da tragico moltiplicatore di queste tendenze violente e distruttive. Su questo punto dissento radicalmente. Non è questa la sede per ripercorrere partitamente l’epistemologia che sotto la definizione di ‘Repubblicanesimo Geopolitico’ è stata sviluppata per contestare alla radice la suddivisione, originata in primo luogo dalla rivoluzione scientifica galileana, fra natura e cultura, due punti di vista di conoscenza della realtà che possono venire unificati alla luce del modello dell’azione dialettico-conflittuale-strategica (modello dell’azione dialettico-conflittuale-strategica per il quale si rimanda, per chi ne voglia  per sommi capi ripercorrere la teoria,  a Repubblicanesimo Geopolitico Anticipating  Future Threats. Dialogo sulla moralità del Repubblicanesimo Geopolitico più breve nota all’intervista del CSEPI a La Grassa (di Massimo Morigi), agli URL https://archive.org/details/MARXISMO_345  e https://ia601909.us.archive.org/4/items/MARXISMO_345/MARXISMO.pdf ; WebCite:    http://www.webcitation.org/6o8vF7WLt  e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601909.us.archive.org%2F4%2Fitems%2FMARXISMO_345%2FMARXISMO.pdf&date=2017-02-09; ResearchGate: https://www.researchgate.net/publication/309427489_Repubblicanesimo_Geopolitico_Anticipating_Future_Threats_Dialogo_sulla_Moralita_del_Repubblicanesimo_Geopolitico_piu_Breve_Nota_all%27Intervista_del_CSEPI_a_La_Grassa_di_Massimo_Morigipdf: DOI: 10.13140/RG.2.2.11532.72320  e  a Dialecticvs Nvncivs. Il punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico attraverso i Quaderni del Carcere e Storia e Coscienza di Classe per il rovesciamento della gerarchia della spiegazione meccanicistico-causale e dialettico-conflittuale, per il rinnovamento degli studi marxiani e marxisti e per l’Aufhebung della gramsciana   e   lukacsiana   Filosofia   della  Praxis, agli URL https://archive.org/details/DialecticvsNvncivs_201701  e https://ia801509.us.archive.org/26/items/DialecticvsNvncivs_201701/Dialecticvs%20Nvncivs.pdf; WebCite:  http://www.webcitation.org/6o8wW4znJ e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia801509.us.archive.org%2F26%2Fitems%2FDialecticvsNvncivs_201701%2FDialecticvs%2520Nvncivs.pdf&date=2017-02-09; ResearchGate: https://www.researchgate.net/publication/313278043_Dialecticvs_Nvncivs_Il_punto_di_vista_del_Repubblicanesimo_Geopolitico_attraverso_i_Quaderni_del_Carcere_e_Storia_e_Coscienza_di_Classe_per_il_rovesciamento_della_gerarchia_della_spiegazione_meccanici: DOI: 10.13140/RG.2.2.29749.47842. Dialecticvs Nvncivs è stato inoltre pubblicato anche sul presente  blog  “L’Italia e il Mondo”,  agli URL   http://italiaeilmondo.com/2016/12/13/dialecticus-nuncius-di-massimo-morigi/ e http://italiaeilmondo.com/category/agora/; WebCite: rispettivamente http://www.webcitation.org/6oBwn5kXP e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2016%2F12%2F13%2Fdialecticus-nuncius-di-massimo-morigi%2F&date=2017-02-11 e http://www.webcitation.org/6oBx5xZNt e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2Fcategory%2Fagora%2F&date=2017-02-11), e non è nemmeno la sede per argomentare che non solo la cultura politica ma anche la cosiddetta cultura scientifico-naturalistica devono ripartire dallo Zoòn Politikòn  aristotelico dove, almeno per rimanere alle scienze umane, è di tutta evidenza che per lo stagirita il ‘politico’ (o il sociale a seconda dalla traduzione, ma è altrettanto chiaro che si tratta di un problema di traduzione tutto nostro, perché per Aristotele evidentemente tale distinzione non avrebbe avuto senso) è tutto fuorché non naturale e non costitutivo della naturalità (e quindi della politicità e/o della socialità) dell’uomo, ma forse non è inutile sottolineare che a modesto giudizio dello scrivente questa artificiosa suddivisione fra natura e cultura (e quindi, per diretto riflesso, fra natura e politica), è responsabile della discutibile affermazione che «Quel che possiamo provare a nominare come ‘i popoli’ (che poi a grandi linee sono solo le loro élite e le clientele ad esse connesse in vario modo, e quindi facenti parte del ‘modo di produzione’ tributario ad esse) hanno sempre sviluppato una loro specificità, e quindi ciò che oggi chiamiamo una loro ‘identità’, ma quanto ad avvertirla il passo non è sempre automatico», dove l’elemento discutibile non è tanto la giusta sottolineatura del fatto che «le élite e le clientele», detto in parole povere, “ci marciano” sul sentimento identitario dei gruppi umani ma quello che sembra sottintendere il passaggio testé citato, e cioè che il senso – e il bisogno – di identità dei gruppi umani sia un prodotto di pretta natura  “culturale” ed essendo come tale politico, cioè frutto di una “cattiva politica”, può essere curato e domato da una “buona politica” che ponga ai vari gruppi umani altri obiettivi che non siano identitari, vale a dire la ricerca all’interno di questi gruppi di una maggiore giustizia. Ora su questo punto occorre essere molto chiari. Non c’è bisogno di ricorrere ad esempi storici per mostrare che le élite sul bisogno identitario ci abbiano “marciato” ma è un terribile errore prospettico affermare che le élite abbiano ad arte creato questo bisogno del quale, mi scuso per il gioco di parole, non c’era alcun bisogno e che in natura sarebbe addirittura inesistente. Non è qui il caso di fare un corso di antropologia culturale in sessantottesimo ma è di tutta evidenza non solo che l’evoluzione dell’homo sapiens (per limitarci alla specie che per ovvie ragioni conosciamo meglio ma il discorso è per lo meno estendibile anche ad altre specie animali che hanno sviluppato strategie di sopravvivenza di gruppo, cioè in pratica tutte, e non escludiamo le specie vegetali) sia dal punto di vista biologico che culturale è avvenuta all’interno di gruppi che avevano sviluppato linguaggi specifici e quindi identità escludenti gruppi concorrenti dotati di altre espressioni linguistiche e/o di trasmissione di informazioni ma è anche altrettanto evidente che senza questo presa di coscienza di alterità rispetto agli altri gruppi umani (coscienza di alterità culturale e naturale al tempo stesso) non ci sarebbe stata alcuna evoluzione umana (sull’inestricabile nesso fra l’evoluzione culturale, la sua trasmissione di generazione in generazione e su come questa  evoluzione-trasmissione culturale abbia fortissime ricadute anche nella modificazione del genotipo non solo della specie umana ma anche delle altre specie animali, in uno schema che riprende,  integra e sviluppa dialetticamente sul modello darwiniano di pura selezione meccanica il precedente schema lamarkiano dove l’organismo ed il gruppo in cui questo organismo è collocato svolgono un ruolo attivo e culturalmente mediato e non solo passivo come nel darwinismo, si consigliano, oltre al Dialectical Biologist di Richard Lewins e Richard Lewontin – Richard Lewins, Richard Lewontin, The Dialectical Biologist, Harvard University Press, 1985 –  i fondamentali lavori di Eva Jablonka sull’epigenetica, in particolare Eva Jablonka, Marion J. Lamb,  Evolution in Four Dimensions: Genetic, Epigenetic, Behavioral, and Symbolic Variation in the History of Life, Bradford Books/The MIT Press. 2005). Concludo  con Hannah Arendt citando il suo  Sulla rivoluzione dove la filosofa politica tedesca esule negli Stati uniti per ragioni razziali e assunta  poi la cittadinanza statunitense, parlandoci del   miracolo non miracolo dell’azione (non miracolo perché evento totalmente terreno, miracolo perché l’azione consente all’uomo di vincere la sua mortalità sia attraverso il lustro che gli può conferire una grande e gloriosa azione ma, soprattutto, perché l’agire dà inizio ad una catena infinita di eventi che va oltre la vita dell’uomo), lega quest’azione al principio naturale della generazione vitale e della  crescita, generazione vitale e crescita  che a loro volta sono hic et nunc possibili solamente qualora si instauri, di generazione in generazione, una  consapevole  tradizione di passaggio  di queste possibilità creative e di azione. In questo discorso Hannah Arendt sovrapponeva il paradigma culturale dell’antica Roma all’azione dei padri fondatori degli Stati uniti, e in questa sorta di anacronismo non si fa molta fatica ad intravedere il problema identitario di un’ebrea tedesca che aveva perso la sua patria e doveva trovarsene e crearsene un’altra. Ma nonostante l’anacronismo di paragonare in On Revolution (Hannah Arendt, On Revolution, The Viking Press, 1963) Roma antica agli Stati unti, queste parole  di Hannah Arendt, volendo andare al di là delle peculiari  situazioni storiche  che vi vengono trattate  e comparate, la tradizione culturale-religiosa della Roma antica e  la rivoluzione americana, costituiscono uno dei più grandi contributi in merito alle dinamiche identitarie (indubbiamente autoperformative, quindi culturali, ma non per questo innaturali, anzi esattamente il suo contrario) e all’errore che si  commette qualora queste dinamiche vengano considerate come una sorta di epifenomeno culturale trattabile con giuste politiche piuttosto che come un bisogno naturale e culturale dell’uomo e indispensabile non solo per la sua evoluzione ma anche perché la sua natura rimanga una natura umana e quindi in grado di crescere, generare e creare, contrapponendosi quindi alla meccanizzazione della sua cultura e della sua psiche; una meccanizzazione che, sia detto per inciso, non è iniziata con la rivoluzione industriale ma è l’inevitabile portato, verificatosi in tutte le epoche dell’uomo, dell’azione delle elite, ma non in quanto queste intendono “marciare” sui problemi indentitari ma quando questi gruppi ristretti, in nome di astratti principi, intendono annullare e gettare nel bidone della storia il naturale e culturale bisogno identitario  dei gruppi umani: «Nella persona dei senatori romani continuavano ad essere presenti i fondatori di Roma, e con loro era presente lo spirito della fondazione, il cominciamento, il principium e il principio di quelle res gestae che da quel momento in poi formeranno la storia del popolo romano, giacché l’auctoritas, la cui radice etimologica è augere, accrescere e aumentare, dipendeva dalla vitalità dello spirito di fondazione, in virtù della quale era possibile aumentare, accrescere ed ampliare le fondamenta che erano state gettate dai progenitori. L’ininterrotta  continuità di questo accrescimento e l’autorità insito in esso potevano realizzarsi solo attraverso la tradizione, ossia attraverso la trasmissione, lungo la linea ininterrotta di successori, del principio stabilito all’inizio. Essere in questa ininterrotta linea di successori significa a Roma possedere autorità; e restare legati al principio dei progenitori in pio ricordo e con spirito conservatore significava avere pietas romana; essere “religioso” ovverossia “legato” alle proprie radici.» (Hannah Arendt, Sulla rivoluzione, Torino, Einuadi , 2006, pp. 230-231). Se si vuole uscire  da una visione meccanicista dell’uomo e della politica (espressione politico-ideologica della quale, il liberalismo-liberismo che vede la possibilità dell’espressione della creatività dell’uomo solo entro uno pseudo libero mercato dove operano liberamente  pseudo individualità: individualismo metodologico, ed espressione scientista della stessa nella c.d.  sociobiologia  che chiude gli occhi di fronte al legame dialettico fra organismo, gruppi di organismi e l’ambiente che viene modificato, oltre a modificare, dagli organismi stessi ) e, nel contempo, non ricadere nella “pappa del cuore” del politicamente corretto dei “sacri” principi politici universalistici nati dalla rivoluzione dell’ ’89 del Secolo decimo ottavo ma senza per questo rifugiarsi stolidamente in un reazionarismo da alleanza fra trono e altare e degli allegri compagni del pensiero controrivoluzionario (e sui rischi di una frequentazione troppo entusiasta dei quali, Joseph-Marie de Maistre, Louis de Bonald, Juan Donoso Cortés,  la paradigmatica vicenda politica ed umana  del giuspubblicista fascista Carl Schmitt ha molto da insegnarci), penso che queste parole di Hannah Arendt costituiscano un perfetto viatico e, perché no? non per mettere irenicamente d’accordo ma per fornire una medesima “fusione d’orizzonti” fra le posizioni espresse dal sottoscritto  e quelle magistralmente illustrate dall’amico Alessandro Visalli.

 

P.S.  Per completezza di comprensione di questa mia ultima risposta ad Alessandro Visalli, non è forse inutile ripercorrere i primi passi di questo dibattito teorico sul problemi identitari avvenuto sull’ “Italia e il mondo”. Ovviamente, per brevità e per non iniziare un altro intervento, si tratta di un andare a ritroso solamente bibliografico, lasciando i commenti e le riflessioni ai lettori. Tutto è iniziato con l’ottimo contributo di Roberto Buffagni sui tragici fatti di Macerata per poi continuare fra commenti e risposte del sottoscritto e di altri lettori dell’ “Italia e il mondo” – che hanno toccato anche il tema del malefico mito identitario che va sotto il nome di antifascismo –  sino all’odierna mia risposta ad Alessandro Visalli (non si danno i titoli dei vari interventi e contributi ma solo gli URL e i “congelamenti” su WebCite): http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/; http://www.webcitation.org/6x87pr86F; http://www.webcitation.org/6x886y1nC;http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/; http://www.webcitation.org/6x9EFQqT4;http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/; http://www.webcitation.org/6xCnA0lmK; http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/; http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/#comments; http://www.webcitation.org/6xInS3p6S; http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F02%2F07%2Fintorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni%2F%23comments&date=2018-02-17; http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/; http://www.webcitation.org/6xJAwBIIo;http://www.webcitation.org/6xJBK3kDc;http://italiaeilmondo.com/2018/02/20/letture-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni-di-alessandro-visalli/;http://www.webcitation.org/6xQLEqyD5;http://italiaeilmondo.com/2018/02/20/letture-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni-di-alessandro-visalli/#comments; http://italiaeilmondo.com/2018/02/20/letture-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni-di-alessandro-visalli/#comments;http://www.webcitation.org/6xWZB8SPD;http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F02%2F20%2Fletture-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni-di-alessandro-visalli%2F%23comments&date=2018-02-26; http://italiaeilmondo.com/2018/02/23/considerazioni-a-margine-di-lettura-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni_-di-massimo-morigi/; http://www.webcitation.org/6xcbBIQNN;http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F02%2F23%2Fconsiderazioni-a-margine-di-lettura-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni_-di-massimo-morigi%2F&date=2018-03-02; http://italiaeilmondo.com/2018/03/01/identita-e-universalismo-un-dialogo-di-alessandro-visalli/; http://www.webcitation.org/6xcaJuM6L; http://italiaeilmondo.com/2018/03/04/replica-a-identita-e-universalismoun-dialogo-dal-punto-di-vista-del-repubblicanesimo-geopolitico-di-massimo-morigi/; http://www.webcitation.org/6xfajD50m;http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F03%2F04%2Freplica-a-identita-e-universalismoun-dialogo-dal-punto-di-vista-del-repubblicanesimo-geopolitico-di-massimo-morigi%2F&date=2018-03-04;http://italiaeilmondo.com/2018/03/10/a-proposito-delle-elezioni-del-4-marzo-di-massimo-morigi/; http://www.webcitation.org/6xqFvZtVo;http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F03%2F10%2Fa-proposito-delle-elezioni-del-4-marzo-di-massimo-morigi%2F&date=2018-03-11;http://italiaeilmondo.com/2018/03/18/dal-xxi-podcast-di-gianfranco-campa-suggestioni-sullodierna-natura-della-democrazia-e-sul-mito-dellantifascismo-di-massimo-morigi/;http://www.webcitation.org/6y1nzhUck;http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F03%2F18%2Fdal-xxi-podcast-di-gianfranco-campa-suggestioni-sullodierna-natura-della-democrazia-e-sul-mito-dellantifascismo-di-massimo-morigi%2F&date=2018-03-19.

 

 

Massimo Morigi – 24 marzo 2018

 

 

 

 

 

CAMBIO DI GUARDIA: L’ASCESA DEI MASTINI-SI PREPARA LO SCONTRO FINALE, di Gianfranco Campa

CAMBIO DI GUARDIA: L’ASCESA DEI MASTINI-SI PREPARA LO SCONTRO FINALE

 

Il Consigliere alla Sicurezza Nazionale, generale H.R. McMaster  è stato rimpiazzato dall’ex ambasciatore alle Nazioni Unite John Bolton. Il cambio di guardia avverrà ufficialmente il 9 aprile. Bolton è il terzo consigliere nazionale a servire l’Amministrazione Trump.

La notizia è considerata positiva da molti sostenitori del Presidente, visto che McMaster viene identificato come un globalista, era stato raccomandato da John Mccain e messo vicino a Trump come portavoce dell’establishment repubblicano. McMaster aveva rimpiazzato il tanto compianto Generale Michael Flynn. Nè McMaster, nè John Bolton, posseggono la mite e prudente personalità di Flynn. Flynn era una colomba, McMaster un falco e Bolton un’aquila, pericolossisima!

La caccia alle streghe orchestrata dallo stato ombra e l’avvicinamento delle elezioni di medio termine, a novembre, con i sondaggi che danno i Democratici vittoriosi nel riprendersi il controllo almeno della Camera, forse anche del Senato, aprono la strada alla concreta possibilità che un impeachment del presidente diventi più che probabile. In questo contesto ormai di pura sopravvivenza, Trump sta accelerando i tempi nel liberarsi di infiltrati, traditori, tiepidi sostenitori. L’intensificazione degli attacchi  a Trump e alla sua famiglia non lascia scelta al Presidente; il tempo stringe, si deve circondare di personaggi assolutamente fedeli e affidabili.

Per questo Tillerson è stato rimpiazzato con Pompeo, politicamente un mastino, geopoliticamente un falco. Per chi non lo sapesse anche il capo del servizio legale di Trump, John Dowd, ieri si è dimesso, causa l’attrito con il Presidente per l’assunzione, nel team di legali di Trump, di Joseph diGenova. DiGenova è un altro mastino non da ridere, un forte critico del russiagate; ha attaccato, pubblicamente, più volte sia  l’FBI che il Dipartimento di Giustizia. Dowd, in qualità di principale avvocato, rappresentava Trump nelle indagini del Consigliere Speciale Robert Mueller. Dowd negli ultimi nove mesi, aveva suggerito a Trump di collaborare con le indagini. L’uscita di Dowd e l’arrivo di Joseph diGenova segna una chiusura totale a Muller e apre la fase successiva del Russiagate, cioè la preclusione di ogni collaborazione di Trump con Muller e l’inasprimento dello scontro.

Torniamo alle dimissioni di McMaster. Il rapporto fra McMaster e Trump non è mai stato idilliaco. Si sono scontrati molte volte su questioni geopolitiche e di sicurezza nazionale. Nonostante le smentite, voci affidabili di corridoio, indicano che McMaster era anche un traditore e sarebbe stato lui a far trapelare, segretamente, i tabulati della telefonata Putin-Trump al Washington Post. Provo una sensazione di rigetto nel dover difendere un neo-conservatore, falco, portaborse dell’establishment; ma l’uscita di scena di McMaster e l’arrivo di Bolton non è una buona notizia in termini di rapporti con la Russia, con l’Europa e nello scacchiere medio orientale. McMaster era sì un neocon, ma nonostante le critiche alla Russia, non aveva alzato la voce più di tanto; era soprattutto uno dei pochi nel circolo di Trump che voleva tenere in piedi, insieme a Tillerson, l’accordo con l’Iran o perlomeno modificarlo senza comprometterlo del tutto.

Sia Pompeo, sia Bolton sono sempre stati fedeli a Trump, addirittura prima ancora che diventasse presidente. Molteplici sono state le uscite televisive pro-Trump di Bolton durante le presidenziali. Bolton è un caso a sé. Ha servito nell’amministrazione Bush, è un falco dalla testa ai piedi, un personaggio pericoloso; in paragone fa sembrare Mccain una colomba timida. Nonostante questo Bolton con l’establishment non è mai andato d’accordo. Considerarlo un neocon sarebbe infatti sbagliato. Bolton è un uomo che viaggia per suo conto, su un binario personale e separato. Troppo irrequieto per identificarsi in un gruppo piuttosto che in un altro. Bolton è il capitano della propria nave; solo che la nave di Bolton è piena di esplosivo. Basta leggere i suoi tweet per rendersi conti dell’inflessibilità politica del personaggio. Suggerisco ai lettori di andare a leggersi i tweet di Bolton contro la Russia, la Corea del Nord, l’Iran e via dicendo. Tra l’altro Bolton qualche mese fa aveva scritto un articolo sul Wall Street Journal dove auspicava una attacco preventivo, nucleare, contro la Corea del Nord. Anche l’Europa dovrà stare attenta a come si muove.

Joseph diGenova, John Bolton, Mike Pompeo, sono i mastini di cui Trump si sta circondando. La fase sperimentale di dialogo, compromesso con l’establishment, con lo stato ombra e i poteri forti è finita. Questi tre personaggi sono stati scelti in base alla loro dura tempra, alla incondizionata e provata fedeltà a Trump, senza tenere in considerazione le loro ideologie politiche e geopolitiche.  Una squadra assemblata con un unico scopo in mente: Guerra totale, sia essa giuridica contro Muller con diGenova, sia essa militare con Bolton, sia essa di spionaggio e geopolitica con Pompeo. Questo è un consiglio di guerra, non di pace. A questi tre personaggi , ne sono convinto, ne seguiranno altri, Non mi sorprenderei se anche Jeff Sessions pagasse di persona questa controffensiva Trumpiana in atto ormai su tutti i fronti. Trump ha deciso! Se e` destinato a cadere, non lo farà in silenzio ma si porterà con sé molte teste. Quando un uomo viene messo con le spalle al muro, qualsiasi reazione e possibile. Quale sara` il prezzo da pagare per noi comuni mortali è ancora tutto da vedere; se dovesse però succedere qualcosa di brutto, sappiamo chi ringraziare per aver istigato questo ambiente così tossico, cominciando dai mass-media.

 

i soliti attori, la solita musica di Gianfranco Campa

 I SOLITI ATTORI

 

La storia del Cambridge Analytica, va inserita, in chiave più generale, nello scontro tra stato ombra e Trump. Se il Russiagate tarda a dare i risultati sperati, se il pettegolezzo dell’attrice porno tarda a decollare ed infiammare le platee mediatiche, ecco che lo “scandalo” della Cambridge Analytica dovrebbe in teoria risultare finalmente deleterio per Trump. Dovrebbe intaccare la credibilità del presidente americano e aizzare le folle che navigano sulle piattaforme social contro Trump stesso, mettendolo in rotta di collisione con milioni di utenti inferociti per la manipolazione della loro privacy. L’aspettativa è che le orde barbariche invadano le piazze pubbliche con forconi e torce invocando la testa di Donald Trump. Così a due giorni dall’annuncio del licenziamento di McCabe, a un giorno dalle elezioni di Putin in Russia, cioè dopo l’ennesimo colpo pesante inflitto allo stato ombra, per puro caso, senza alcuna intenzione, accidentalmente, casualmente, fortuitamente, senza nessuna pianificazione, per una semplice concomitanza, senza nessun nesso, scoppia lo scandalo del Facebook-Gate. Da quattro giorni di fila i titoloni sullo scandalo Cambridge Analytica/ Facebook catturano le prime pagine dei maggiori quotidiani italiani e stranieri; neanche Neil Armstrong buonanima, con la sua passeggiata lunare riuscì a catturare i principali titoli dei quotidiani per tanti giorni consecutivi.

In modo drammatico, i titoloni dei giornali, ci rivelano come i collaboratori di Trump avrebbero manipolato Facebook, accedendo ai dati privati dei suoi utenti in modo da favorire Trump e consegnandogli la tanto sospirata vittoria presidenziale. Secondo le “scioccanti” rivelazioni degli strilloni mediatici, Facebook avrebbe ottenuto informazioni personali di un largo numero dei propri utenti tramite un quiz sulla personalità, usando una Applicazione (App) creata da Aleksandr Kogan, di conseguenza Cambridge Analytica si sarebbe impossessata di questi dati per esaminarli e metterli a disposizione di Steve Bannon, allora direttore della campagna presidenziale di Trump. Tutto questo per aiutare Trump a vincere le elezioni. I dati sarebbero stati usati per studiare i comportamenti delle persone individuate per meglio identificarle e bersagliarle con post mirati a influenzarli politicamente. Una grave interferenza nella vita privata dei cittadini i quali, ignari ,si sarebbero poi recati, come zombi, ai seggi per votare Trump anziché la pura, innocente, incorruttibile, pacifica, signora Hillary Clinton. La democrazia è minacciata da Steve Bannon, da Facebook, da Cambridge Analytica.  Mi aspetto da un momento all’altro la richiesta a gran voce di un nuovo procuratore speciale il quale, spento il Russiagate, possa indagare ora sul “Facebook-Gate.”  Tra l’altro non poteva mancare neanche la connessione diabolica con la Russia, visto che Aleksandr Kogan, il creatore dell’app, è nato in Russia, vive negli Stati Uniti e all’epoca dei fatti lavorara per l’Università di San Pietroburgo. Sicuramente il nostro emerito procuratore speciale, Robert Muller, si metterà subito a disposizione per trovare il nesso con il Russiagate. Niente di più orgasmico, per lo stato ombra; trovare una ragione per alimentare questa farsa delle collusioni Trump-Russia.

La denuncia di queste attività illegali, sarebbe arrivata grazie a un ex lavoratore, contrattualmente indipendente, del Cambridge Analytica: Christopher Wylie. Oppresso dal senso di colpa Mister Wylie si trasforma nell’eroe che ha denunciato queste losche attività, essendo proprio colui che aveva la responsabilità di analizzare i dati provenienti da facebook generati tramite l’app sulla personalità. Lo scandalo è stato alimentato anche da un video segreto registrato e trasmesso dal canale televisivo Britannico Channel 4 nel quale si sente e si vede l’amministratore delegato della Cambridge Analytica, Alexander Nix , ammettere di aver interferito in più di trenta elezioni sparse per il mondo. Cosi`ai nostri eroi della Channel 4 vanno accreditati i meriti di questa nuova crociata per la purificazione del mondo digitale dalle cimici social-trumpiane.

Alla fine però, scavi e scavi, trovi il nostro caro eroe George Soros, sempre presente in questi impeti rivoluzionari, siano essi digitali, armati, oppure colorati. Quando qualche settimana fa Soros fu attaccato dal Guardian per il suo coinvolgimento finanziario nel movimento anti-brexit, il Channel 4 pubblicò un’intervista, una serie di articoli e di video tesi a riabilitare la figura di Soros.

https://www.channel4.com/news/factcheck/why-the-conspiracy-theories-about-george-soros-dont-stack-up

Si scopre che Channel 4 ha un interesse diretto a screditare facebook poiché, come riferisce il link postato sotto, secondo l’articolo del The Guardian, Channel 4 ha aderito ad un’alleanza tra le più grandi emittenti europee (c’è anche Mediaset) per pubblicare annunci pubblicitari sui loro servizi di video-on-demand (VOD), nel tentativo di contrastare Google e il dominio di Facebook nella pubblicità online. Una cosa non necessariamente negativa per l’Europa, ma che dimostra la totale mancanza di onestà ideologica di Channel 4. Agli amministratori di Channel 4 non interessa per niente la protezione della privacy degli utenti Facebook; lo scandalo offre loro semplicemente una possibilità di assestare un colpo a Facebook, diretta concorrente, per indebolirla.

https://www.theguardian.com/media/2017/nov/13/channel-4-tv-ad-alliance-google-facebook

Per finire, Channel 4 sarebbe stato uno dei canali principali di supporto agli elmetti bianchi e ai “moderati” ribelli Siriani. Channel 4 è recidiva. Il canale 4 britannico è stato uno strumento di promozione della narrazione inerente la “rivoluzione” in Siria. La Russia, in particolare, è stata demonizzata dal Channel 4. I signori di Canale 4 si prestano alla perfezione alla narrazione Sorosiana anti-Trump e anti-Russa.

http://21stcenturywire.com/2016/10/09/channel-4-joins-cnn-in-normalising-terrorism-then-removes-video/

http://21stcenturywire.com/2018/02/01/white-helmets-channel-4-bbc-guardian-architects-war/

Naturalmente ci sono due pesi e due misure quando si parla dei mass media allineati con i poteri forti. La campagna presidenziale di Obama nel 2012 fece lo stesso uso di dati personali estrapolati dai siti digitali e fu grazie a quella mossa che Obama sconfisse Mitt Romney quando gli stessi sondaggi alla vigilia delle elezioni lo davano per sconfitto. Obama condusse una campagna all’avanguardia, da ventunesimo secolo, mentre quella di Romney era ancora ancorata a tecniche tradizionali. Tra le altre cose, mentre nel caso di Cambridge Analytics, l’applicazione usata per estrarre i dati era stata sviluppata e apparteneva a una terza entità, quella sviluppata per attingere a milioni di dati personali, principalmente numeri di telefono di utenti, fu sviluppata personalmente dal team presidenziale di Obama, direttamente dall’allora quartiere generale della sua campagna presidenziale a Chicago. Ma mentre la violazione della privacy, avvenuta estrapolando dai dati di facebook i numeri di telefono, non generò nessuna indignazione, quella del team di Trump ha provocato il terremoto politico-mediatico. Sotto potete osservare due titoli: uno del Washington Post che nel 2013 riportava la notizia di come l’accesso dei dati avesse portato alla vittoria Obama; l’altro, quello del New York Times, relativo alla storia di Cambridge Analytica. Il titolo del Post è celebrativo, mentre quello del New York Times è di condanna, denunciando la strumentalizzazione fatta dai collaboratori di Trump. Qualcuno di voi rammenta l’indignazione e la trepidazione di questa gentaglia sulla violazione della privacy e la manipolazione dei dati personali nel 2012? Neanche io. La differenza sta tutta qua, nella interpretazione e manipolazione delle notizie distribuite dai mass media; due titoli due misure insomma. Quando lo faceva Barack era considerata puro genio, quando lo ha fatto Trump si sono strappati le vesti.

L’aspetto beffardo è che la gente è talmente ingenua da credere che facendo un test della personalità su facebook e quindi consegnando di fatto i propri più intimi dati, questi stessi dati personali siano poi in qualche modo protetti. Ci prestiamo a divulgare ogni tipo di informazioni personali nel cyberspace, incluso i selfie fatti dal cesso; poi ci meravigliamo se i nostri dati sono a disposizione di entità estranee.

Siamo quindi, come al solito, di fronte alla già consolidata tattica usata per screditare Trump.  Giustificare la sconfitta della Clinton attribuendola a interferenze di fantomatici blogger Russi, governi stranieri, torbide manovre mediatiche, insanità mentali, turpitudini morali; il tutto nel tentativo di delegittimare Trump. Ecco che allora una entità come Facebook, da sempre nelle grazie e nelle tasche di politici e politiche liberal-progressisti, viene ora usata e sacrificata come strumento di attacco a Trump. Sulla inclinazione pro-liberale di facebook non ci sono dubbi, visto che da ormai almeno tre anni, Facebook conduce una campagna anti-conservatrice. Voglio solo ricordare i molteplici episodi di aperta militanza pro-Hillary Clinton durante le ultime elezioni presidenziali da parte di Facebook. Basta per esempio leggere le emails, hackerate e pubblicate da Wikileaks, dell’amministratore delegato di Facebook, Cheryl Sandberg. Nelle emails fra Sandberg e John Podesta, il manager della campagna elettorale di Clinton dichiarava a Podesta che lei, con entusiasmo, guardava a una collaborazione per far eleggere la prima donna presidente, Hillary Clinton.

La prima a gioire per le disgrazie di Facebook è quindi la destra americana, da sempre ostacolata, oscurata ideologicamente da Facebook. L’attacco a Facebook rientra nel classico caso del cane che si morde la coda; la sinistra che soffre di una malattia autoimmunitaria, una punizione inflitta a se stessi. La disperazione delle élite-liberali, l’odio verso Trump li sta consumando dal di dentro, portandoli ora a mangiarsi i loro stessi figli, cioè i Mark Zuckerberg, gli Cheryl Sandberg, ect . Dubito che questa storia del Cambridge Analytica distruggerà Facebook, certamente se dovesse accadere non saranno i sostenitori di Trump a versare lacrime di dolore.

 

 

 

realtà ed illusioni, di Giuseppe Germinario

Dopo quarantotto ore di sapiente attesa il Presidente degli USA Trump ha telefonato a Putin congratulandosi per la sua rielezione e concordando un prossimo incontro ufficiale.

Tutto lascerebbe pensare ad un semplice rituale; nel migliore dei casi ad una aspirazione estemporanea puntualmente frustrata dalla schizofrenia con la quale viene condotta la battaglia politica negli Stati Uniti di questi ultimi due anni.

Il contenuto e il tono differisce intanto dal patetico appello rivolto, sempre telefonicamente, da Macron e dagli evidenti imbarazzi di gran parte delle più importanti cancellerie europee.

L’iniziativa segue di qualche giorno la rimozione di Rex Tillerson da Segretario di Stato, il riallineamento di Session, Ministro della Giustizia, su una posizione di più adeguata difesa di Trump dagli attacchi forsennati.

Il primo avrebbe dovuto garantire la politica di apertura e di trattativa serrata con la Russia, il secondo avrebbe dovuto proteggere Trump dalle pruderie inquisitorie e anzi condurre una politica di radicale riorganizzazione degli apparati investigativi e di intelligence interna; entrambi hanno fallito o mostrato gravi incertezze.

Un riposizionamento tuttavia non ancora concluso e che probabilmente arriverà a minacciare la posizione di alcuni militari presenti nelle posizioni centrali dello staff presidenziale. Un riposizionamento il quale non mancherà di scatenare, ormai come un riflesso condizionato, la canea abituale che imperversa ad ogni atto politico.

http://www.informationliberation.com/?id=58129

Sono tutti segnali che denotano la volontà di passare da una resistenza sorda e passiva, quanto logorante, ad un confronto aperto, dalle linee di condotta, almeno nelle intenzioni, più lineari.

Il momento cruciale, del resto, si sta avvicinando e numerosi indizi, tra i quali alcune recenti elezioni locali, lasciano intendere la concreta possibilità di un esito negativo per il Presidente americano alle prossime elezioni di medio termine.

Un esito che nel migliore dei casi lo paralizzerebbe, nel peggiore lo porterebbe direttamente verso l’impeachement.

Nei prossimi articoli vedremo come i partiti, le forze politiche e i centri di potere si stanno attrezzando in vista di questa scadenza cruciale.

Quello che appare sorprendente è il carattere forsennato degli attacchi; è l’impronta autoreferenziale dei comportamenti politici di centri disposti a tutto; pronti a sacrificare anche parti importanti delle proprie coorti pur di distruggere l’avversario. Le ultime vicende legate a Facebook e alla gestione della rete di dati sono solo l’inizio di una epurazione distruttiva ben più profonda e sconvolgente.

Politiche e condotte che rischiano di compromettere seriamente il delicato e precario equilibrio sul quale si fonda l’attuale formazione sociale americana.

L’iniziativa di Trump sottende probabilmente qualcosa di ben più profondo e radicale, per quanto confuso ed incerto.

In presenza di questo scenario così dinamico e ricco di opportunità, le logore classi dirigenti degli stati europei più importanti cosa fanno?

Anziché lanciarsi in una politica autonoma di apertura verso la Russia, auspicano una ripresa parziale delle relazioni commerciali mantenendo fermi i paletti della politica antirussa più ottusa di questi ultimi anni: riarmo della NATO nella area baltica, sostegno al regime guerrafondaio ucraino, procrastinazione della guerra sempre meno civile e sempre più di ingerenza in Siria, condanna degli aspetti “antidemocratici” del regime russo, mantenimento dell’attuale regime commerciale con gli Stati Uniti.

Un importante esponente dell’Istituto Affari Internazionali, un centro studi italiano, ma di filiazione americana, arriva addirittura a comparare apertamente la positiva linearità della politica estera del precedente Presidente Obama, suscettibile di condurre Putin ad un accordo politico duraturo con il mondo occidentale con la schizofrenia e l’aperta ostilità russofoba della politica estera di Trump.

Un vero e proprio insulto alla realtà di questi ultimi dieci anni di sconvolgimenti geopolitici.

Un mese fa ci ha pensato Lavrov con insolita chiarezza a mettere i puntini sulle ì di questa politica.

Sergey Lavrov e i punti fermi della politica estera russa_a cura di Germinario Giuseppe

Trump ci ha messo certamente del suo ad alimentare queste ambiguità. Quello che appare chiaro, però, è che gli aspetti più ostili e schizofrenici della sua politica estera sono il risultato dell’incertezza dell’esito dell’aspro conflitto presente tra i centri strategici americani e della necessità di legarsi da parte di Trump ad alcuni di essi pur di garantirsi la sopravvivenza. Da qui deriva probabilmente l’eccessiva esposizione verso la componente israelo-saudita in Medioriente e l’accentuazione dell’ostilità verso l’Iran.

Non c’è dubbio, però, che la maggiore pressione verso una aperta ostilità antirussa sia venuta dalla forsennata campagna del Russiagate promossa dai democratici e dai neocon americani.

L’atteggiamento delle decadenti classi dirigenti europee deve servire da monito.

Il sodalizio tra esse e il vecchio establishment americano è forte e fondato su interessi ancora ben radicati nelle formazioni sociali europee. Interessi che non sono in grado più di garantire coesione, stabilità e prospettive di sviluppo all’insieme delle formazioni sociali; pur tuttavia riescono ad assicurare la sopravvivenza di importanti settori dell’economia, degli apparati amministrativi, della coorte mediatica ormai sempre più arroccati nei propri fortilizi.

Le carriere e le ambizioni dei portatori di questi interessi si fondano, probabilmente, su una attesa ed una illusione: la possibilità concreta di una sconfitta di Trump nei prossimi mesi e il ripristino del precedente statu quo.

Una aspettativa che esporrà i paesi europei alle peggiori intemperie con poche difese e con la costrizione di doversi schierare con uno dei due contendenti americani, nel caso meno infausto con quello meno pervasivo, piuttosto che indurre a ricercare una propria autonoma strada tra i diversi attori emergenti.

Non si tratta ben inteso di adottare scelte politiche e soluzioni miracolose ed indolori; piuttosto si deve puntare a prendere o riprendere il controllo delle proprie leve più importanti e ricostituire il controllo in economia delle filiere nei settori fondamentali. Su queste basi, quindi, procedere ad una ricollocazione nel contesto geopolitico internazionale e ad una ridefinizione del sistema di relazioni in Europa.

Sulle filiere è proprio quello che sta facendo Trump. Si tratterebbe di seguirlo. Delle leve gli Stati Uniti dispongono già il controllo. Per le loro classi dirigenti si tratta “soltanto” di contendersele.

In Europa alcuni paesi, in primis Germania e Francia, stanno tentando l’operazione; soltanto però parzialmente e ai danni dei paesi più fragili politicamente. Altri, come, l’Italia, sono ancora in una fase di disarmo accondiscendente e deprimente.

I segnali di novità, per altro, di una formazione di nuovi gruppi dirigenti non mancano; sono però ancora troppo deboli e ambigui rispetto alla gravità della contingenza politica. Denotano, in particolare, per quanto riguarda quelle in buona fede, una terribile sottovalutazione di cosa significhi detenere l’effettivo controllo delle leve di governo e di potere

Circa identità e universalismo: dialoghi repubblicani, di Alessandro Visalli

Prosegue il dibattito tra identità e universalismo con tutte le sue implicazioni riguardanti le scelte politiche strategiche di questi ultimi decenni. Un confronto che ha coinvolto in particolare, oltre all’autore dello scritto in calce e indirettamente il professor de la Grange, Roberto Buffagni e Massimo Morigi. Buona lettura_Giuseppe Germinario

Circa identità e universalismo: dialoghi repubblicani.

https://tempofertile.blogspot.it/2018/03/circa-identita-e-universalismo-dialoghi.html

Su Italiaeilmondo, un dialogo con Roberto Buffagni, prima, e dopo con Massimo Morigi si sta sviluppando sulla linea del confronto tra tradizioni culturali e punti di vista diversi ma capaci di reciproco riconoscimento. La cosa era partita da un commento ai fatti di Macerata di Roberto Buffagni che avevo riletto nella mia tradizione come “scontro di secolarizzazioni”, dal quale è nata un’altra linea di dibattito interessante sulle pagine di Sinistrainrete (l’ultima puntata è questa); questo dibattito incrocia quello sulle “due Europe”, anche esso avviato da Buffagni, cui replicai con “lo scontro tra due europe” e quindi le repliche dello stesso Buffagni (qui e qui).

Ciò che è in questione nell’intreccio dei tre dialoghi è la questione della forma di universalismo verso la quale manifestare lealtà, entro il sistema di tensioni non risolte della nostra cultura e valutando le forze in campo, e la sua concrezione geopolitica nel progetto europeo e mondiale, da una parte, e nella risposta alla crescita (per ragioni interne che riassumo nello schema delle “due economie politiche”) della mobilità della ‘forza lavoro’, dall’altra. Si tratta di questioni dirimenti per il posizionamento politico contemporaneo.

Sulla linea dello “scontro di secolarizzazioni”, dunque sul registro dell’immigrazione, Massimo Morigi replica in “Considerazioni al margine” attraverso una densa lettura della tradizione politica italiana imperniata sul momento risorgimentale e nella fattispecie la figura di Mazzini. Commentando questo pezzo avevo quindi scritto “Identità e universalismo”, nel quale venivano richiamati pochi momenti della grande questione tra autenticità e autonomia che struttura il pensiero politico europeo dei moderni nella sua formazione (attraverso snodi come Rousseau, Kant, Herder ed Hegel, per dire), e viene ripresa ed attualizzata nel dibattito sul multiculturalismo negli anni novanta e in quello sul comunitarismo. Nella chiusa, in quelli che necessariamente anche per il mezzo possono essere solo pochi appunti volanti, avevo scritto che oggi l’unica teoria della giustizia possibile, dunque, è quella che è in qualche modo progettata (rischiosamente) a partire dalle caratteristiche che lo sviluppo storico concreto ha depositato nell’oggi, per come queste si sono date, cioè, dal sedimento dei conflitti e dei successi o fallimenti nell’ottenere riconoscimento da parte delle diverse soggettività.

Probabilmente anche l’unica possibile pratica politica.

Massimo Morigi risponde con un pezzo che riprende questi temi dal punto di vista del “repubblicanesimo geopolitico” e sceglie di manifestare “l’estrema e multilaterale debolezza” del mio argomento giudicato centrale: l’interpretazione di Charles Taylor della tensione tra autenticità e autonomia nella nostra cultura. E soprattutto la tesi del nostro che vi sia una discontinuità tra la lettura dell’autenticità come progetto, sia pure costantemente sfidato da eteronomia (in quanto è autentico in effetti chi non sottopone a riflessione l’essere in cui si trova collocato), dei moderni e quella delle generazioni precedenti. In altre parole, che l’identità sia da leggere in modo diverso per un moderno e per un uomo colto premoderno. Con le parole di Morigi:

Il passo di Visalli testè citato sembra quindi suggerire, assieme a tutto il tono del suo intervento, che il problema dell’identità dei popoli, e di riflesso degli individui che questi popoli compongono, ha inizio in epoca moderna, legato prevalentemente ai fenomeni di secolarizzazione e di progressiva riduzione della dimensione del sacro.

L’obiezione è che, se pure di nazione e della relativa identità si cominciò a parlare con un tono diverso anche a seguito della sfida napoleonica e in ambiente tedesco prima con Herder e poi con i “Discorsi alla nazione tedesca” di Fichte, in evidente polemica con l’universalismo illuminista (che con Napoleone era imperialismo, se visto dall’alto lato delle baionette), l’identità nazionale agonistica preesiste, e di molto. Gli esempi di Morigi sono i greci contro i persiani, gli ebrei, i romani, e quindi dell’idea di Italia che emerge nel medioevo (sia pure tra pochi intellettuali, tra i quali cita Dante e Baldassar Castiglione, o, ovviamente, Machiavelli).

D’altra parte l’interlocutore finisce per concordare con la conclusione:

Scrive Visalli in conclusione del suo pregevole commento al mio articolo: «L’unica teoria della giustizia possibile, dunque, è quella che è in qualche modo progettata (rischiosamente) a partire dalle caratteristiche che lo sviluppo storico concreto ha depositato nell’oggi, per come queste si sono date, cioè, dal sedimento dei conflitti e dei successi o fallimenti nell’ottenere riconoscimento da parte delle diverse soggettività. Probabilmente anche l’unica possibile pratica politica.» Per quanto da indegno erede del  crociano storicismo assoluto io sia del tutto hegelianamente diffidente verso ogni teoria, anche se sotto forma di ‘teoria della giustizia’, calata sulla “realtà effettuale”, non ho alcuna difficoltà a riconoscermi nello spirito di questa affermazione, il cui nucleo è il sacro rispetto che si deve avere di quell’ “astuzia della ragione” che consiste nel secolare deposito storico di aspirazioni e tradizioni apparentemente contraddittorie ma che proprio nella loro contraddittorietà – ed anche mutua violenza e volontà nel passato e, purtroppo, anche odierna, di sopprimersi – formano oggi, del tutto analogamente a come avviene per gli altri popoli, la nostra identità come individui e come popolo.

Tenendo per buono questo finale accordo, probabilmente conviene però spendere qualche parola sul contesto nel quale viene individuata la discontinuità tra moderni e classici che ha colpito Morigi. Sostiene infatti questi che sia “assolutamente da respingere come storicamente inesatta l’idea che i popoli per sviluppare ed avvertire una propria identità, …, abbiano dovuto aspettare il XVIII secolo”, e specificamente “di una identità avvertita come agonistica rispetto alle altre”.

Ora, ci sono molti modi di reagire a questa osservazione:

  •   – da una parte ‘l’agonismo’ tra le organizzazioni più o meno statuali e le nazioni è ovviamente un fatto della storia. Ma entrambi i termini sono anacronistici, se utilizzati prima della modernità nella quale si forma lo Stato-nazione, in riferimento alle entità politiche e società preesistenti.
  • Dall’altra la specie umana è sempre stata formata da individui, ma non sempre questi hanno concepito se stessi e i gruppi nei quali erano immersi nello stesso modo. Il legame sociale è sempre mutato e ancora muta portando con sé l’insieme delle istituzioni, dei valori e delle norme sociali, quindi anche le identità rese possibili da queste. Anche parlare di ‘popolo’, al singolare, prima della modernità contemporanea, con la potenza dei suoi mezzi di comunicazione, per dirne una, rischia di proiettare esperienze contemporanee sul passato in modo indebito.

Quel che possiamo provare a nominare come ‘i popoli’ (che poi a grandi linee sono solo le loro élite e le clientele ad esse connesse in vario modo, e quindi facenti parte del ‘modo di produzione’ tributario ad esse) hanno sempre sviluppato una loro specificità, e quindi ciò che oggi chiamiamo una loro ‘identità’, ma quanto ad avvertirla il passo non è sempre automatico. Parlare dei ‘greci’ (una realtà molto più fratturata di quanto ci piaccia sapere, e la cui tradizione ci viene trasmessa da pochissime fonti, quasi tutte ateniesi, relative a poco più di un secolo e praticamente tutte di parte aristocratica, a partire dalla linea principale dei filosofi e dei drammaturghi) come di un ‘popolo’ opposto ai ‘barbari’ (prendendo per buona la retorica imperiale ateniese e poi macedone) richiede una certa distanza, avvicinandosi l’immagine si frammenta. Egualmente per i ‘romani’, il non-stato più multiforme, politicamente, giuridicamente, etnicamente e culturalmente, dell’antichità.

Diciamo che bisognerebbe entrare molto dettagliatamente nel merito, ed interrogare le fonti con occhio ed orecchio attento alle differenze, che spesso baluginano nei dettagli, più che alle presunte somiglianze (che possono facilmente essere proiezioni).

Ma anche l’osservazione di Charles Taylor va ascoltata nel suo proprio contesto, ovvero entro l’ambiente di discorso al quale il filosofo e storico canadese reagisce. Intanto dalla disciplina principale nella quale interviene: filosofia morale. All’ambiente culturale: Oxford prima USA, dopo. Quindi al periodo: anni settanta per gli studi hegeliani, ottanta per la teoria del linguaggio e dell’azione, l’epistemologia, e poi teoria dell’identità moderna al finire degli anni ottanta, e storia delle idee negli anni a cavallo del millennio. I suoi libri più famosi sono “Hegel”, 1975, “Radici dell’Io”, del 1989, e “L’età secolare”, del 2009.

Si tratta di un autore che avvia la sua riflessione sulla scorta di quell’evento epocale che fu la pubblicazione di “Una teoria della giustizia” di John Rawls del 1971. La ripresa della più antica tradizione contrattualista, in aperta polemica con l’allora egemone teoria morale utilitarista, nel libro epocale di Rawls determina infatti negli anni seguenti una completa ridefinizione del campo. La teoria politica liberale ne viene del tutto riscritta; quella linea genealogica che aveva Hobbes e Locke come padri, poi Kant e J.S. Mill, è riaggiornata da Rawls tenendo fermi i suoi caposaldi: concezione naturalistica dei diritti, libertà individuale come non interferenza, autonomia in senso personale e non collettivo, eguaglianza di principio, democrazia. Ma viene creata anche una coerente cornice intellettuale per far posto a quelle modifiche che il novecento aveva imposto a partire dal new deal: le libertà positive e la redistribuzione, quindi per fare spazio alla ‘questione della giustizia’. Il liberalismo di Rawls fa infatti perno sulla questione dell’eguaglianza, la determina come problema, mentre il liberalismo utilitarista classico si limitava a porre la questione della ‘libertà’ (negativa). Le questioni che diventano rilevanti sono a questo punto soprattutto due: la neutralità o meno dello Stato rispetto a diverse visioni del bene; la natura dei beni che vanno redistribuiti. Del primo problema la discussione si sviluppa con Dworkin, Ackerman, Nagel, Scanlon, ma anche Nozick. Del secondo si discute con i proceduralisti, ad esempio con Ackerman e Habermas (ne avevamo parlato qui).

Ma su questo terreno nasce anche una diversa controversia che esce dal campo liberale, e in alcune versioni attacca direttamente l’impostazione neo-kantiana di Rawls facendo uso di argomenti neo-hegeliani. È un attacco dall’esterno (mentre il primo era dall’interno), ed impegna gli anni tra ottanta e novanta. Si tratta della ripresa di motivi classici, della teoria della virtù, o comunque non liberali, da parte di una nuova famiglia di critici che sono stati etichettati come ‘comunitari’. Gli autori più rilevanti sono Alasdair MacIntyre, di cui leggeremo “Dopo la virtù”, del 1981; Michael Walzer, di cui leggeremo “Sfere di giustizia”, del 1983; Michael Sandel, “Il liberalismo e i limiti della giustizia”, 1982. La tesi a grandissime linee è che non si può presumere, se si pone la questione della giustizia, che lo stato si mantenga neutrale tra opposte concezioni del bene, o della vita buona, perché queste costituiscono gli individui che sono sempre situati ed incarnati in esse.

Charles Taylor è un esponente di seconda generazione di questa reazione all’astratto proceduralismo liberale. Ciò che scrive sulle radici dell’io e la storia delle idee che lo hanno costituito nella modernità va quindi necessariamente inquadrato in questa polemica.

Per il nostro l’identità in senso moderno si caratterizza dall’avere contemporaneamente tre caratteristiche: la percezione dell’interiorità, l’affermazione della vita come comune ed in comune, l’idea della moralità come naturale. Nello spazio morale si determina quindi un ‘io’ quando riusciamo a comprendere che cosa sia per noi di importanza cruciale e quindi in un certo senso quando sappiamo ‘dove’ siamo. Quando diventa possibile assumere una posizione e trovarsi in un orizzonte nel quale possiamo stabilire, di volta in volta, e caso per caso, che cosa è da tenersi per buono, quindi cosa dobbiamo fare o avversare. In altre parole noi siamo in quanto ci stanno a cuore delle questioni e non altre, in quanto siamo dotati di autointerpretazioni che non sono completamente esplicite, e in quanto siamo immersi in relazioni. Nessuno può essere descritto senza fare riferimento a quelli che lo circondano (T., “Radici dell’io”, p. 52). Dunque l’io esiste solo all’interno di ‘reti di interlocuzione’, e non nell’astratto e disincarnato vuoto immaginato dai ‘diritti civili’ liberali. E non esiste staticamente, ma solo narrativamente, sapendo non solo ‘dove siamo’ ma anche ‘dove andiamo’ e ‘da dove’.

Anche Taylor, in effetti, sviluppa una critica allo scientismo di cui è imbevuto il liberalismo naturalista (e le scienze economiche) e valorizza la strategia di Aristotele (come MacIntyre), tendente a definire come ‘vita buona’ quella che “combina nel più alto grado possibile tutti i beni cui aspiriamo” (idem, p.93).

Ecco che la ‘meglior forma’ evocata da Morigi trova una possibile cornice: la ragion pratica evocata ha a che fare con il racconto biografico, con la possibilità, esercitando una forma narrativa di ragione, di mostrare che una data soluzione tiene insieme meglio ciò che ci è caro, risolve meglio le contraddizioni presenti, dissolve confusioni ricorrenti.

Nel capitolo dodicesimo del suo libro sulle radici dell’io Taylor compie una digressione sulla spiegazione storica che direttamente chiarisce il dubbio che Morigi avanza. Il percorso ricostruttivo nel quale indulge (parlando di Cartesio, Locke, Montaigne e via dicendo) non è né una spiegazione ‘idealista’ né una spiegazione storica strictu sensu. Non cerca di dimostrare causazioni diacroniche, come propone ad esempio il marxismo, ma cerca solo di enucleare quali caratteristiche siano state capaci di far affermare la nuova idea di identità (p.256). La relazione tra le idee-forza (ovvero capaci di motivazione e di emergere come parte della autointerpretazione narrativa) e i meccanismi di causazione, è dunque riconosciuta come complessa e passante per pratiche sociali concrete, per l’applicazione di ciò che si può o non può fare. L’ambizione non è di risolverla.

Il seguito vede un ampio racconto che passa per la razionalizzazione del cristianesimo, esemplificata e condensata da Locke e poi le teorie dei sentimenti morali della scuola scozzese, Shaftesbury, Hutcherson, dalla quale emerge la categoria ‘dell’economico’ come ordine provvidenziale (gioverebbe anche ricordare Genovesi) che si autoregola. Quindi per gli orizzonti frantumati della perdita di dio (cui dedica il ben più ponderoso “L’età secolare”) e l’illuminismo radicale nel quale si afferma una idea di ragione autoresponsabile, strettamente connessa con la nuova ragione scientifica (Newton) e con l’affermazione dell’utilitarismo (p.410). Per il ‘controilluminismo’ di Rousseau e la nozione di ‘autonomia’ messa a fuoco da Kant fissa l’ideale di essere razionali, ma anche per la svolta espressivistica di Herder (p. 459) e l’idea di avere in effetti delle profondità interiori.

Da Darwin muove quindi la definitiva affermazione di un ordine senza ordinatore che mette a sistema la visione morale dello scientismo, affermando la secolarizzazione, che si può riassumere nell’enunciato “non si deve credere ciò di cui non si hanno prove sufficienti”. Un concetto di drammatica importanza, nel definire ciò che può essere e ciò che invece deve recedere, che si fonda su due idee-forza per Taylor: la libertà come razionale autoespressione e l’eroismo dell’incredulità. Da qui emerge una sorta di esigenza morale rovesciata: quella di non credere.

Il passo successivo è l’espressionismo postromantico di Schiller, Baudelaire, Schopenauer e Kierkegaard, ma anche Dostoevskij e Nietzsche. E la ricerca di una via di uscita dal mondo meccanico in Husserl, Heidegger, Adorno.

Il punto per Taylor, nel contesto non di una ricerca storica ma di una rimemorazione delle radici dell’io (anche se la relazione causale è incerta e la stessa composizione multiforme) è che “una società di persone tese [solo] all’autorealizzazione e le cui affiliazioni vengono considerate sempre più come revocabili non può sostenere quell’identificazione forte con la comunità politica che la libertà pubblica richiede” (p.617).

Insomma, il punto è precisamente quello evocato nel post “Ripensare i fondamenti: ‘libertà’”: l’idea di libertà come egoismo non limitato, spesso connessa internamente con lo scientismo, è strutturalmente e geneticamente connessa con l’inibizione dell’azione collettiva e milita contro quella che Taylor chiama la “libertà pubblica”. La “libertà privata” atomistica impedisce l’affermazione della “libertà pubblica”, l’autorealizzazione individualista con la lealtà collettiva.

La questione è dunque politica.

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